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Non siamo i primi ad avere tanta paura. La storia è piena di società spaventate, immerse nei loro incubi. Da quel che possiamo intravedere nello scabro latino attribuito alle XII Tavole, gli abitanti della Roma arcaica - gli antenati di coloro che sarebbero diventati i padroni del mondo - erano letteralmente atterriti dal buio, già nelle loro stesse case. E nella Francia del Cinquecento, agli esordi della modernità, il terrore non doveva essere meno diffuso. «Paura panica (…) paura sempre, paura dovunque»: così scrive di quegli anni Lucien Febbre in un saggio sul problema dell´incredulità, che ancora leggiamo come un grande classico.

Il paradosso è che però le nostre società contemporanee – almeno in questa parte del mondo – sono anche, e di gran lunga, gli ambienti più sicuri che la storia abbia mai conosciuto: non per caso le nostre aspettative di vita si stanno allungando in modo quasi prodigioso, impensabile ancora agli inizi del Novecento, e ciò sta cambiando dall´interno la qualità stessa delle nostre esistenze. Ma la diffusione del timore e dell´ansia non si placa di fronte a una simile evidenza. Al contrario, se ne alimenta, rovesciando ogni conquista materiale, ogni soglia di agio raggiunta, nel fantasma della loro possibile perdita, nella prefigurazione continua dei pericoli che le minacciano, nell´incubo della loro imminente vanificazione. Si apre così una spirale senza fine, che sta trasformando la nostra età in un´autentica epoca d´angoscia – un fenomeno ormai molto studiato, di cui però non mi pare sia stato ancora messo a fuoco il punto cruciale, e cioè il rapporto che la rete mondiale dei mercati tende a stabilire fra tecnica e vita, fra benessere materiale e padronanza del proprio destino. Mentre la paura si sta installando come la compagna quotidiana di masse sempre più vaste e infoscate, e stiamo imparando a riconoscerla come il più popolare dei nostri sentimenti.

Dovunque in Occidente il discorso pubblico è stato investito in pieno da questa ondata, e il nesso fra politica e paura è diventato un vero e proprio segno del tempo. Ma è stato particolarmente in America e in Italia che la destra ha saputo trarne per prima vantaggio: Bush ha costruito gran parte della sua fortuna agitando lo spettro del terrorismo, e Berlusconi, da noi, non ha esitato a ridisegnare l´intera immagine del suo partito, dimenticando il trascinante ottimismo delle origini, per riuscire a intercettare il lungo brivido d´ansia che si sollevava dal Paese.

E si può dire ancora qualcosa di più. Che cioè è stata proprio questa capacità di interpretare e di dar voce alla nuova paura italiana che ha reso (o almeno ha fatto sembrare) la nostra destra davvero – e per la prima volta – una destra di massa e di popolo, capace di aggregare intorno a sé qualcosa di molto vicino a un blocco sociale e culturale relativamente compatto. All´opposto, lo schieramento di centro sinistra si è drammaticamente rivelato, in questo frangente, incapace di capire, di sintonizzarsi, di tradurre in politica la preoccupazione e il pessimismo diffuso nel corpo sociale, riducendosi a figurare come una parte chiusa, ingessata, tendenzialmente tecnocratica ed elitaria, in sostanza lontana dalle attese e dai bisogni degli elettori, votata all´autoreferenzialità e attenta solo al dosaggio fra le sue componenti.

Il nostro è un Paese culturalmente fragile, almeno dal punto di vista politico. La fine dei grandi partiti attraverso i quali è avvenuto il nostro non limpidissimo apprendistato repubblicano e democratico ha acuito una debolezza che ha origini molto lontane, cui non è estraneo il millenario magistero della Chiesa. Abbiamo sempre i nervi scoperti, e l´antipolitica a portata di mano. Ciò ci rende ancor più sensibili ed esposti rispetto alle contraddizioni di un´economia globale che per giunta sta avendo su di noi impatti sociali più forti che altrove (anche qui per ragioni connesse a storiche inadeguatezze e a squilibri mai compensati). Percepiamo – sia pure in modo confuso – che la sicurezza complessiva della nostra società sta aumentando, e di molto, ma percepiamo anche – e in modo assai netto – che le quote (per dir così) di questa nuova sicurezza si dividono tra gli aspiranti in modo drammaticamente diseguale, e che gli strumenti per accedervi – mobilità, spazio, informazione, tempo, servizi – si concentrano secondo modalità incontrollate. La consapevolezza dello scarto non si inscrive tuttavia in un´ormai impensabile coscienza di classe, ma dilata solo «l´orizzonte delle paure», come ha scritto Ezio Mauro su questo giornale il 17 giugno, e rende disponibili a una rappresentanza politica che fa, appunto, del timore e della frustrazione il suo collante, che tende a sostituire la delega alla partecipazione, e si mette alla testa delle nuove "plebi"(o presunte tali) non con un messaggio di riscatto radicale, ma con la suggestione di cure assolutamente parziali, però brutalmente efficaci e immediate: Robin Hood tax, ronde e tessere di povertà. E per il resto, calcio (ma l´avete visto il Tg1, in queste sere?), congiunto all´ostentata esemplarità – tra mito e reality – di irresistibili ascese "private", baciate dal denaro e dalla fortuna.

Non sarà facile sostituire all´asse maggioritario fra destra e paura, un opposto legame, fra sinistra e speranza. Ma credo proprio che solo questo potrà essere il nostro compito, e che vi sia d´altra parte – nel mondo che ci aspetta – una intrinseca e oggettiva somiglianza fra la composizione organica della nuova paura e quella della nuova destra (l´idea del vincolo, del limite, del ritorno – altro che libertà!), come ve ne sia una, alternativa, fra sinistra e speranza (l´idea della liberazione, del superamento, della ragione che sa farsi progetto e futuro). Mettersi su questa strada non è semplice. Essa presuppone una critica conseguente dei lati negativi della globalizzazione, che, pur assumendo quest´ultima come un punto di non ritorno – ciò deve restare fuori questione, nello stesso modo in cui lo era per Marx la società capitalistica – sia capace di rendere plausibili ed evidenti le linee di un suo riequilibrio virtuoso, prima locale ma poi completamente planetario. C´è bisogno cioè che la critica dell´economia globalizzata si apra su quella che Jonas e Bauman chiamano una nuova "immaginazione etica", adeguata alle nostre responsabilità, e su una nuova teoria della politica. E questo non sarà possibile se non si tornerà a lavorare, in Europa, a un nuovo rapporto fra intellettuali e popolo, post-ideologico, ma non post-democratico. Sarà bene che l´architettura culturale del Pd che sta nascendo ne tenga debito conto.

A lungo la cultura politico-costituzionale italiana (come del resto quella europea fin dalla Costituzione di Weimar) si è interrogata sul tema di quale dovesse essere il rapporto tra la rendita fondiaria e la tutela dei beni comuni. Il problema è tuttavia scomparso dalle odierne agende «riformiste» (il manifesto del 12 maggio) senza che il compromesso «alto» fra proprietà privata e democrazia raggiunto dalla Costituzione italiana del 1948 abbia ottenuto seguito. (Il tema è stato ripreso da Stefano Rodotà su la Repubblicadi lunedì 11 maggio). Tutte le forze capaci di realizzare quel capolavoro politico-culturale che fu la Costituzione sposarono una logica di lungo periodo ponendo le premesse ed i principi per la realizzazione di un sistema economico-politico misto (Art. 42 e 43 della Costituzone) la cui concreta realizzazione veniva lasciata alla dinamica parlamentare.

Un presupposto fondamentale di ogni economia mista è quello per cui il cosiddetto «surplus cooperativo», ossia la crescita di ricchezza collettiva derivate dall’aggregazione degli individui in società, appartiene a tutti e deve essere utilizzato quindi nell’interesse di un progresso civile e sociale che coinvolga tutti i cittadini di uno stato. In una economia mista, dunque, tale surplus cooperativo non può infatti essere automaticamente ed interamente assorbito dalla proprietà privata. Infatti, se il mio alloggio aumenta di valore, tale aumento è prodotto dalla pressione urbanistica, provocata dal fatto che gli uomini e le donne che vivono o vogliono vivere in citta assieme alle attività economiche e sociali tendono a concentrarsi in certe zone piuttosto che altre.

Sono queste attività sociali che determinano l’aumento del valore della mia proprietà in modo del tutto indipendente dal costo della fabbricazione o dalla qualità dei materiali adoperati per costruirla. Una casa di qualità splendida in una zona «depressa» vale molto meno di una casa costruita con materiali scadenti o anche completamente diroccata in una zona ad alta pressione urbanistica. La forbice fra il valore della proprietà privata sul mercato immobiliare ed il costo (materiali e lavoro) dell’immobile è nota come rendita fondiaria.

La potenza del debito

A chi appartiene questo surplus cooperativo (utilizzando il gergo della teoria dei giochi) o se si preferisce una locuzione più tradizionale, la rendita fondiaria? Oggi, l’ideologia dominante ritiene del tutto scontato che la rendita fondiaria appartenga al proprietario, e anche quel minimo di sua socializzazione prodotta dalla tassazione immobiliare (unica forma di imposta patrinoniale nel nostro sistema) è sotto attacco. Tale comune percezione dimostra il successo dell’ideologia neoliberale, dimenticando il fatto che fino a pochi anni fa la principale preoccupazione delle diverse discipline (sociologia, economia, diritto) che si dedicavano al fenomeno urbanistico era di fornire alla politica gli strumenti istituzionali necessari per governare la rendita fondiaria nell’interesse della collettività che la produce. In altre parole la rendita fondiaria, prodotta da tutti, costituisce un esempio di ricchezza comune, che la politica dovrebbe poter utilizzare nell’interesse di tuttimache quasi sempre viene interamente assorbita dal privato proprietario che così sfrutta una rendita di posizione.

Dopo un quarto di secolo di sostanziale silenzio, di proprietà pubblica, beni comuni e del loro rapporto con la proprietà privata si è ripreso a discutere anche in Italia nel quadro del dibattito sul risanamento dei conti pubblici e sul debito aperto dalla nota proposta di Giuseppe Guarino di vendere il patrimonio immobiliare pubblico per ripianare un debito insostenibile. Il dibattito si è riscaldato principalmente in reazione alla tendenza apparentemente inarrestabile alla privatizzazione e dismissione dei beni pubblici e comuni per esigenze di spesa corrente (la cosiddetta finanza creativa).

La vulgata neo-riformista infatti ha presentato la proprietà pubblica come una specie di buco nero che assorbe risorse senza produrre nulla di cui occorre disfarsi al più presto possible. Le operazioni di dismissione sono state così condotte al di fuori da qualsiasi garanzia costituzionale, come se fosse ammissibile e naturale per un governo in carica, liberarsi di tutto un patrimonio comune garantito dalla Costituzione proprio perchè costruito negli anni con sforzo collettivo. Inoltre, a causa di un quadro normative obsoleto, contenuto nel Codice Civile del 1942 e mai modificato al fine di renderlo coerente con la Costituzione del 1948, qualsiasi privatizzazione anche dei beni pubblici più importanti è stata determinata da un semplice decreto ministeriale di «sdemanializzazione»: al di fuori quindi non solo da qualsiasi controllo costituzionale ma anche senza bisogno di alcun coinvolgimento del Parlamento. Insomma, in Italia il maggiordomo assunto a termine (la maggioranza parlamentare del momento) ha il potere di vendere il patrimonio di famiglia (la collettività dei cittadini italiani) quasi sempre trasferendolo sottocosto ad attori privati e compensando profumatamente le banche d’affari che gestiscono tali «cartolarizzazioni».

Miracoli del censimento

Grazie anche ad un libro fondamentale e coraggioso del Rettore della Scuola Normale di Pisa (Salvatore Settis, Italia S.p.A.) i rischi di tale politica sono stati messi all’ordine del giorno. Si è avviata così una fase di riforme del regime dei beni culturali che hanno ricevuto in poco tempo attenzione bipartisan in forma di un «Codice» (e quindi legislativa) legato al nome di Urbani prima e di Rutelli poi. Ma il patrimonio pubblico, non è affatto limitato ai beni culturali (che pure, soprattutto in Italia, ne sono una componente non trascurabile) e la sua buona gestione e garanzia costituisce una delle più importanti trasformazioni strutturali necessarie per portare la nostra organizzazione sociale in sintonia con la visione della Repubblica italiana contenuta nella Costituzione.

Pur prescindendo dalla rendita fondiaria, fra i beni pubblici infatti ci sono le principali infrastrutture del paese, dalle autostrade alle ferrovie ai porti agli aeroporti, ospedali, tribunali, scuole, asili, prigioni, cimiteri ma anche foreste, parchi, acque, frequenze radiotelevisive e telefoniche, proprietà intellettuale pubblica, crediti fiscali. Il censimento di tali ricchezze ingentissime è iniziato con il «Conto patrimoniale della Pubblica amministrazione» voluto da Giulio Tremonti nel 2004 e per gran parte degli immobili è stato recentemente completato dall’Agenzia del Demanio. Sappiamo adesso che il valore di questo patrimonio pubblico italiano è altissimo, il più alto in Europa, ed è quindi verosimile che la buona gestione di questa ricchezza, secondo principi giuridici generalmente condivisi, possa dare benefici estremamente significativi (non solo economici) alla collettività che, ai sensi della nostra Costituzione, ne è proprietaria.

Non bisogna dimenticare infatti che la collettività non è composta soltanto da proprietari privati ma anche da nullatenenti la cui unica proprietà è pro quota quella pubblica. Di qui il riproporsi dell’annoso conflitto fra proprietà privata e democrazia, alla cui soluzione di principio hanno lavorato i nostri costituenti. Discutere di come utilizzare la proprietà pubblica è perciò questione fondamentale all’interno di un regime politico democratico e il luogo in cui ciò deve avvenire non può che essere il Parlamento perchè il Ministero dell’Economia, a tacer d’altro, è oberato dalle esigenze di far cassa sul breve periodo.

La comunità accademica si è fatta sentire e nel giugno del 2007 il Guardasigilli accolse le raccomandazioni espresso un anno prima dall’ Accademia Nazionale dei Lincei. Con un decreto ministeriale del 21 giugno 2007, l’allora ministro della giustizia Clemente Mastella investì del tema del regime giuridico della proprietà pubblica e della riforma delle parti del Codice Civile che lo riguardano una Commissione affidandone la guida a Stefano Rodotà, uno dei più prestigiosi studiosi internazionali della proprietà. La commissione, composta fra gli altri da «amministrativisti » del calibro di MarcoD’Alberti o da economisti come Giacomo Vaciago, ha completato i suoi lavori nel febbraio scorso a governo dimissionario e Parlamento sciolto. La proposta di legge delega da essa prodotta, è stata tuttavia ripresa e discussa lo scorso mese in una giornata di studio all’Accademia dei Lincei e si trova oggi nelle mani del guardasigilli Angelino Alfano che potrebbe dar prova di autentica volontà riformista di lungo periodo presentandola al più presto al Consiglio dei Ministri al fine di portarla in Parlamento per la discussione.

Fra le più significative innovazioni che il Parlamento dovrebbe dunque discutere vi è l’introduzione di una nozione di beni comuni, che apartengono a tutti i consociati, e che l’ordinamento deve tutelare e salvaguardare anche a beneficio delle generazioni future. Secondo la «Commissione Rodotà» i beni comuni di proprietà pubblica dovrebbero essere gestiti da soggetti pubblici ed essere collocati fuori commercio proprio al fine di evitarne il saccheggio privato.

Sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate.

Un patrimonio da salvaguardare

La Commissione per la riforma del Codice Civile ha inoltre previsto altre categorie di beni pubblici, alcuni dei quali, «che soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali», sono ad appartenenza pubblica necessaria e quindi a loro volta non privatizzabili. Vi rientrano fra gli altri: le opere destinate alla difesa; le spiagge e le rade; la reti stradali, autostradali e ferroviarie; lo spettro delle frequenze; gli acquedotti; i porti e gli aeroporti di rilevanza nazionale ed internazionale.

Altri beni sono pubblici non in quanto collegati alla sovranità dello Stato ma in quanto indissolubilmente legati alle esigenze organizzative dello Stato sociale previsto dalla Costituzione italiana: «Sono beni pubblici sociali quelli le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della persona». Vi rientrerebbero tra gli altri: le case dell’edilizia residenziale pubblica, gli edifici pubblici adibiti a ospedali, istituti di istruzione e asili; le reti locali di pubblico servizio. Secondo la proposta della Commissione tali beni non potrebbero essere alienati senza che lo stesso livello di servizi sociali sia garantito attraverso altri beni sostitutivi. Tutti gli altri beni pubblici vengono definiti fruttiferi: essi sono alienabili e gestibili dalle persone pubbliche con strumenti ordinari di diritto privato. L’«alienazione » è consentita però solo quando siano dimostrati il venir meno della necessità dell’utilizzo pubblico dello specifico bene e l’impossibilità di continuarne il godimento in proprietà con criteri economici.

Progettualità di lungo periodo

A questa struttura giuridica generale, che cerca di recuperare una progettualità di lungo periodo sviluppando, dopo sessant’anni, il mandato costituzionale, corrispondono diverse proposte volte a coniugare l’equità anche intergenerazionale con l’efficienza economica e gestionale.

In questo itinerario la cultura giuridica ed economica italiana, in dialogo con le più significative esperienze estere, ha cercato di offrire alla politica alcuni strumenti tecnici di avanguardia per affrontare in modo progettuale nell’interesse di tutta la nostra collettività, un futuro di risorse sempre più scarse. Sapranno i «nuovi» Berlusconi e Tremonti, il primo rinnovato statista, il secondo «mercatista» pentito, abbandonare la via della paura ed imboccare finalmente quella della speranza, affrontando in spirito autenticamente bipartisan i veri nodi strutturali ancora da implementare?

Il caso ha voluto che l’annuncio del "pacchetto sicurezza" coincidesse con la discussione al Parlamento europeo sugli immigrati in Italia, alla quale la maggioranza ha reagito condannandola come una manovra contro il Governo. Brutto segno, perché rivela che non v’è consapevolezza della gravità di quel che è accaduto a Ponticelli, con un assalto razzista che la dice lunga sulle responsabilità dei molti "imprenditori della paura" all’opera in Italia.

Invece di riflettere su un caso che ha turbato l’Europa, ci si rifugia nella creazione di un nemico "esterno" dopo aver individuato il nemico "interno" nell’immigrato clandestino, nell’etnia rom. Ma l’iniziativa europea non è pretestuosa, perché i trattati sono stati modificati per prevedere un obbligo dell’Unione di controllare se gli Stati membri rispettano i diritti fondamentali.

Una prima valutazione del "pacchetto" mette in evidenza, accanto all’opportunità di alcune singole misure (come quelle relative all’accattonaggio e ai matrimoni di convenienza), una scelta marcata verso la creazione di un vero e proprio "diritto penal-amministrativo della disuguaglianza". Vengono affidati a sindaci e prefetti poteri che incidono sulla libertà personale e sul diritto di soggiorno delle persone, con una forte caduta delle garanzie che pone problemi di costituzionalità e di rispetto delle direttive comunitarie. Il diritto della disuguaglianza può manifestarsi anche attraverso le norme che prevedono la confisca degli immobili affittati a stranieri irregolari e disciplinano il trasferimento di denaro all’estero. Infatti, può determinarsi una spinta verso un ulteriore degrado urbano, visto che gli irregolari saranno obbligati a cercare insediamenti di fortuna. E la stretta sulle rimesse degli irregolari potrebbe far nascere forme odiose di sfruttamento da parte di intermediari.

Lo spirito del pacchetto si coglie con nettezza considerando il reato di immigrazione clandestina. A nulla sono servite le perplessità all’interno della maggioranza, i moniti del mondo cattolico (da ascoltare solo quando invitano ad opporsi alle unioni di fatto e al testamento biologico?), le osservazioni degli studiosi. Si fa diventare reato una semplice condizione personale, l’essere straniero, in contrasto con quanto la Costituzione stabilisce in materia di eguaglianza. Si prevedono aggravanti per i reati commessi da stranieri, incrinando la parità di trattamento con riferimento alla responsabilità personale.

È inquietante la totale disattenzione per quel che ha già stabilito la Corte costituzionale, in particolare con la sentenza n. 22 del 2007 che ha messo in guardia il legislatore dal prendere provvedimenti che prescindano «da una accertata o presunta pericolosità dei soggetti responsabili», introducendo sanzioni penali «tali da rendere problematica la verifica di compatibilità con i principi di eguaglianza e proporzionalità». Questa logica va oltre il reato di immigrazione clandestina, impregna l’intero pacchetto, ignorando che «lo strumento penale, e in particolare la pena detentiva, non sono, in uno Stato democratico, utilizzabili ad libitum dal legislatore».

Dopo aver annunciato una sorta di secessione dall’Unione europea, accusata di faziosità, il Governo prende congedo dalla legalità costituzionale? Il Governo dovrebbe sapere che i suoi provvedimenti possono essere cancellati da una dichiarazione di incostituzionalità. Rimarrebbe, allora, solo l’"effetto annuncio" per gli elettori del centrodestra.

Così, neppure l’efficienza è assicurata. Un solo esempio. Tutti sanno che sono state presentate 728.917 domande di permesso di soggiorno (411.776 vengono da colf e badanti). I posti disponibili sono 170.000. Una volta esaurite le pratiche burocratiche, dunque, rimarranno fuori 558.917 persone. Che cosa si vuole farne? Che senso ha, di fronte a questa situazione, parlare di reato e abbandonarsi a proclamazioni «mai più sanatorie»?

Ora i governanti parlano di una attenzione particolare per le badanti, ma la soluzione non sta nella ridicola procedura della legge Bossi-Fini, che subordina l’ingresso in Italia alla preventiva chiamata di un datore di lavoro. Chi farebbe arrivare una badante, alla quale affidare funzioni di cura, senza averla vista in faccia? Ed è inaccettabile la furbesca soluzione di far tornare: gli immigrati per una settimana nel loro paese, farli poi chiamare dal loro attuale datore di lavoro e così farli rientrare regolarmente. Ma che razza di paese è quello che dà una lezione di aggiramento delle leggi proprio agli immigrati dai quali si pretende il rispetto della legalità?

Si dice: in altri paesi l’immigrazione clandestina è reato. Ma non si può usare la comparazione prescindendo dal contesto costituzionale, dalle modalità che regolano l’accesso, dal sistema giudiziario. Quali effetti avrebbe sul nostro sistema giudiziario e sulle carceri l’introduzione di quel reato? Sarebbe insensato caricare le corti di diecine di migliaia di nuovi processi, condannando a morte un processo penale già in crisi profonda e rendendo più complesse le stesse espulsioni. Le carceri, già strapiene, scoppierebbero, o salterebbero tutte le garanzie facendo diventare i Cpt veri centri di detenzione. E tutto questo per colpire persone considerate pericolose "a prescindere", quasi tutte colpevoli solo di fuggire per il mondo alla ricerca di una sopravvivenza dignitosa. E la promessa di accoglienza per le badanti "buone", lascia intravedere ritardi burocratici e possibili arbitri. Si corre il rischio di avere norme, insieme, pericolose e inefficienti.

Queste contraddizioni nascono dal trascurare le diverse forme di sicurezza che proprio l’immigrazione ha prodotto. Per le persone e le famiglie, anzitutto. Come ricorda Luca Einaudi nel libro su Le politiche dell’immigrazione in Italia dall’Unità ad oggi, le schiere delle badanti hanno consentito di passare da un welfare sociale ad un welfare privato, diffondendo l’assistenza alle persone al di là delle classi privilegiate. Vi è stata sicurezza anche per il sistema delle imprese, provviste di manodopera altrimenti introvabile. E sicurezza per il paese, visto che è stato proprio il contributo al Pil degli immigrati ad evitare rischi di recessione tra il 2003 e il 2005, a contribuire al pagamento delle pensioni di tutti.

Detto questo, il tema dell’insicurezza non può essere affrontato ricordando solo che le statistiche sull’andamento dei reati dimostrano, almeno in alcuni settori, una loro diminuzione. Il senso di insicurezza non nasce solo dal diffondersi di fenomeni criminali, ma da una richiesta di protezione contro un mondo percepito come ostile, contro presenze inattese in territori da sempre frequentati da una comunità coesa, dunque contro mutamenti culturali. Che cosa fare?

Quando un sindaco coglie pulsioni profonde tra gli abitanti del suo comune, non può andare in televisione dicendo «non chiedo la pena di morte, ma capisco chi la invoca». Deve piuttosto evocare l’ombra di un Gran Lombardo e ricordare che Beccaria contribuì all’incivilimento del mondo con le sue posizioni contro la pena di morte. Quando un sindaco vede a disagio i suoi concittadini nella piazza del paese, non fa togliere le panchine per evitare che gli immigrati vadano lì a sedersi. Quando le situazioni s’infiammano, non si propone un "commissario per i Rom", confermando così l’ostilità contro un’etnia intera. Qui sta la differenza tra svolgere una funzione pubblica e il farsi imprenditori della paura.

Nel discorso di presentazione del Governo, il Presidente del Consiglio ha sottolineato che «la sicurezza della vita quotidiana deve essere pienamente ristabilita con norme di diritto che siano in grado di affermare la sovranità della legge in tutto il territorio dello Stato». Ben detto. Si aspetta, allora, una strategia di riconquista delle regioni perdute, passate sotto il controllo di camorra, ‘ndrangheta, mafia. Non è un parlar d’altro. Proprio la terribile vicenda napoletana ha messo in evidenza il protagonismo della camorra, unico potere presente, imprenditore della paura che esercita la violenza per accrescere la propria legittimazione sociale.

La discussione parlamentare deve ripulire il "pacchetto", concentrarsi sulla migliore utilizzazione delle norme esistenti, sul rafforzamento delle capacità investigative, sull’adeguamento delle risorse. Mano durissima contro le vere illegalità, contro chi sfrutta il lavoro nero e contro il caporalato, contro le centrali del commercio abusivo, dell’accattonaggio, della prostituzione. Non ruolo da sceriffo, ma capacità di mediazione da parte dei sindaci, incentivando le "buone pratiche" già in atto in molti comuni.

Mi sarei aspettato qualche proposta complessiva del "governo ombra", non l’eterno agire di rimessa, segno di subalternità. E i sondaggi siano adoperati ricordando la lunga riflessione sui plebisciti come strumenti di manipolazione dell’opinione pubblica. Esempio classico: la richiesta ai cittadini di pronunciarsi sulla pena di morte all’indomani di una strage. La democrazia è freddezza, riflessione, filtro. Se perde questa capacità, perde se stessa.

Beni materiali come immobili e terreni; grandi infrastrutture come porti, aeroporti, strade, autostrade, acquedotti; e poi risorse naturali come i parchi, le montagne, il paesaggio, i beni d´interesse storico e culturale. E anche beni immateriali come la moneta, i crediti pubblici, marchi, brevetti, opere dell´ingegno, frequenze elettromagnetiche, diritti televisivi su manifestazioni sportive e quant´altro. Il patrimonio pubblico è una cornucopia di attività che vale, secondo le stime degli esperti, il 140% del Prodotto interno lordo. Ma solo il 25%, pari a 400 miliardi di euro, composto di crediti, partecipazioni, immobili e concessioni, è in grado di produrre reddito.

Oggi questo ingente patrimonio ha un rendimento netto negativo. Se si riuscisse a farlo fruttare almeno il 2%, si otterrebbero circa 10 miliardi all´anno da utilizzare nel conto economico della Pubblica amministrazione. Più o meno, la metà di una Finanziaria di medie dimensioni.

Sul fronte dei beni considerati in eccesso rispetto alle funzioni pubbliche, si calcola poi che il valore complessivo degli immobili ammonti a 100-150 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti crediti e partecipazioni. Dalla privatizzazione di questi cespiti, sempre che costituiscano una "mano morta" per lo Stato e senza comprendere le aziende che svolgono effettivamente attività d´interesse pubblico, si potrebbero recuperare in futuro dai 10 ai 15 punti di Pil. Una riserva disponibile, dunque, che può contribuire a finanziare la costruzione di nuove opere o la riduzione del debito pubblico – un mostro che divora ogni anno 70 miliardi di interessi – nell´ordine di 0,5-1 punto di Prodotto interno all´anno.

È un assurdo tutto italiano che il patrimonio demaniale venga amministrato ancora in base a un "corpus" giuridico di dieci articoli (da 822 a 831), contenuti nel Codice civile del 1942 (Libro III, titolo I, capo II). Sono passati più di sessant´anni e questa disciplina risulta ormai obsoleta, incapace di regolare le trasformazioni intervenute nel frattempo. Ma adesso il nuovo ministro della Giustizia e soprattutto quello dell´Economia troveranno sul loro tavolo la bozza di un disegno di legge-delega, predisposto da una commissione nominata nel giugno scorso dall´ex ministro Clemente Mastella; presieduta da Stefano Rodotà, ordinario di Diritto civile all´Università La Sapienza di Roma; e composta da diversi giuristi ed economisti, tra cui il vice-presidente Ugo Mattei, ordinario di Diritto civile all´Università di Torino; Giacomo Vaciago, ordinario di Politica economica all´Università Cattolica di Milano ed Edoardo Reviglio, docente di Scienza delle Finanze all´Università di Reggio Calabria, al quale si devono le stime riportare all´inizio.

Il progetto elaborato dalla Commissione Rodotà introduce, innanzitutto, una nuova categoria fondamentale: quella dei "beni comuni" che non rientrano strettamente nella specie dei beni pubblici, poiché sono a titolarità diffusa e possono appartenere anche a soggetti privati. Oltre alle risorse naturali (fiumi, laghi, aria, parchi, boschi, foreste e coste dichiarate riserva naturale), ne fanno parte i beni archeologici, culturali e ambientali. «Sono beni che – come si legge nella relazione di accompagnamento – soffrono di una situazione altamente critica, per problemi di scarsità e di depauperamento e per assoluta insufficienza delle garanzie giuridiche». La Commissione li definisce come cose che hanno utilità funzionali all´esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona, con riguardo anche alle generazioni future.

È stata prevista perciò una disciplina particolarmente garantistica, in grado di preservarne in ogni caso un godimento collettivo. La possibilità di concessione dei "beni comuni" ai privati viene rigidamente limitata. E mentre il diritto al risarcimento o alla restituzione in caso di danni o di appropriazione spetta allo Stato, la facoltà di ricorrere alla magistratura per inibirne l´uso improprio è riconosciuta a chiunque possa usufruirne, in quanto titolare di un corrispondente diritto soggettivo.

Per quanto riguarda i "beni pubblici", appartenenti a soggetti pubblici, il progetto della Commissione Rodotà abbandona la distinzione formalistica fra demanio e patrimonio, sostituendola con tre nuove categorie: beni ad appartenenza pubblica necessaria; beni pubblici sociali e beni fruttiferi. I primi sono quelli che soddisfano interessi generali fondamentali, come la sicurezza, l´ordine pubblico, la libera circolazione. E comprendono le opere destinate alla difesa; la rete ferroviaria, stradale e autostradale; i porti e gli aeroporti. Per tutti questi beni, viene introdotta una disciplina rafforzata rispetto a quella oggi in vigore per i beni demaniali: oltre a restare inalienabili e non soggetti a usucapione, ricevono garanzie esplicite in materia di tutela risarcitoria e inibitoria.

I "beni pubblici sociali" soddisfano esigenze della persona particolarmente rilevanti nella società dei servizi, cioè le esigenze corrispondenti ai diritti civili e sociali. Ne fanno parte, fra gli altri, le case dell´edilizia residenziale pubblica, gli ospedali, gli edifici scolastici e universitari, le reti locali di pubblico servizio. Per tutti questi beni, il vincolo di destinazione d´uso può cessare solo se venga assicurato il mantenimento o il miglioramento dei servizi sociali erogati. La tutela amministrativa è affidata allo Stato e a enti pubblici anche non territoriali.

L´individuazione della terza categoria, quella dei "beni pubblici fruttiferi", tende a favorire appunto l´utilizzazione più efficiente del patrimonio pubblico, con maggiori benefici per l´erario. Si tratta, in sostanza, di beni privati in appartenenza pubblica, alienabili e gestibili con strumenti di diritto privato. Ma sono stabiliti limiti precisi alla loro alienazione, proprio per impedire le "dismissioni facili" e comunque per privilegiare un´amministrazione efficiente da pare di soggetti pubblici.

Nella stessa prospettiva, il disegno di legge-delega fissa una serie di criteri per garantire al meglio la gestione e la valorizzazione dei beni pubblici. In particolare, si prevede per il loro uso il pagamento di un corrispettivo rigorosamente proporzionale ai vantaggi che può trarne chi li utilizza, con meccanismi di gara fra più offerenti. E inoltre, vengono introdotti nuovi strumenti di tutela in ordine all´impatto sociale e ambientale che deriva dal loro uso.

Al di là degli aspetti economici, «il progetto – come sottolinea lo stesso professor Rodotà – riconduce questa parte del Codice civile ai principi fondamentali della Costituzione, collegandone l´utilità alla soddisfazione dei diritti della persona e al perseguimento di interessi pubblici fondamentali». Non più "mano morta", insomma, ma neppure "dismissione facili" o peggio "svendite di Stato" che favoriscano pochi privilegiati a danno di tutti i cittadini. Se il patrimonio è comune, anche i benefici che se ne ricavano devono essere il più possibile comuni.

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