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Mentre si esaltano i combattenti di Salò, si torna a fare il tiro al bersaglio contro il '68. Addirittura presentandolo come ideologia del «nullismo», accanto alle altre ideologie scadute quali fascismo, comunismo, socialismo e «mercatismo» (Tremonti). Non penso che se ne debba fare l'apologia, ma l'immagine del Sessantotto che traspare da molti interventi e che viene trasmessa alle nuove generazioni comporta dei rischi per tutti: vecchie e nuove generazioni.

Perché mai, ci si dovrebbe chiedere, quarant'anni fa il mondo accademico non è stato in grado di prevedere né di contenere l'ondata della contestazione studentesca, nonostante che i segnali per aspettarsela ci fossero tutti: da Berkley a Pechino, da Amsterdam a Berlino, da Praga a Tokyo? E perché il mondo politico e governativo non era stato capace di affrontare in modo sensato l'esplosione dei movimenti di massa degli anni seguenti? E il mondo imprenditoriale l'insorgenza operaia nelle sue fabbriche? Per ottusità . Non per ottusità individuale (il quoziente intellettivo era nella media), ma per una forma di «ottusità sociale» che rimanda alla temperie culturale di quegli anni: alle cose che ciascuno riteneva importanti e a quelle che riteneva irrilevanti. Una gerarchia di priorità che il Sessantotto avrebbe sovvertito alle radici. A quarant'anni di distanza la comprensione del Sessantotto da parte degli uomini e delle donne al potere sembra non aver fatto passi avanti. Di qui l'interpretazione dei disastri in cui siamo immersi come se fossero il frutto del Sessantotto; e non, invece, dell'incapacità delle classi dirigenti, allora, di rapportarsi con esso e, in seguito, del suo soffocamento: in Italia particolarmente pesante perché costellato da stragi di Stato (non una, ma almeno dieci) e dal terrorismo: entrambi stupidamente assimilati ai movimenti di massa dell'epoca. Come se l'esercito sconfitto fosse responsabile dei saccheggi perpetrati dal conquistatore; o le guardie dei furti del ladro che non hanno saputo arrestare.

Mondi paralleli

Il Sessantotto ritorna così sul banco degli imputati ad opera, in realtà, di coloro che più se ne sono avvantaggiati: individui e gruppi che mai avrebbero raggiunto le posizioni che hanno oggi, né potuto attivare gli strumenti del potere che hanno fatto la loro fortuna, né sentenziare nel modo spregiudicato che hanno adottato, né ostentare comportamenti che non hanno più bisogno di nascondere, se allora un intero mondo non fosse crollato, sgombrando la strada al loro successo. Invece, disconoscendo questo incontrovertibile dato, la proposta politica che ci presentano è di fare come se il Sessantotto non ci fosse stato. Di ricominciare da «prima del Sessantotto». E ricominciare naturalmente (come allora), dalla scuola. Lo ha fatto sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia: con una descrizione dello stato delle cose (la «perdita di senso della scuola italiana») tanto corretta quanto scontata; per passare subito alla sua ricetta per «uscirne fuori»: ritrovare un collante culturale nella storia e nella letteratura italiane quali vettori di una ritrovata identità nazionale: quella che il Sessantotto ha cancellato.

Una proposta che equivale al rifiuto di confrontarsi con il presente; poco importa che Galli la integri chiedendo maggiore spazio alla matematica per affrontare il futuro: la matematica, senza una griglia di interpretazione del presente, non è di aiuto per nessuno.

Viviamo in un'epoca di globalizzazione, di «connettività» a tutto campo, di migrazioni che trasformano il nostro habitat - che lo vogliamo o no - in un ambiente multiculturale, di crisi ambientale planetaria, di guerre locali permanenti (altro che il Vietnam: un evento singolo che era bastato a cambiare la vita a un'intera generazione), di manipolazioni incontrollata delle basi biologiche delle nostre esistenze, di modifica permanente dello statuto degli affetti e dei sentimenti. Una scuola che non guidi a confrontarsi con questi problemi è condannata alla marginalità e all'irrilevanza. Cioè a quella perdita di senso che Galli della Loggia imputa al Sessantotto e che il Sessantotto aveva invece cercato - senza riuscirci, o riuscendoci malamente, e per troppo poco tempo - di superare. Non che tutto ciò elimini l'importanza degli snodi della storia e della letteratura italiane, come di quelle greche, romane o ebraiche (le nostre famose «radici»!), per comprendere e interpretare il mondo d'oggi. Ed è altrettanto vero che la letteratura zulù - se esiste - non ha prodotto un Tolstoj (e neanche un Dante), come aveva fatto notare a suo tempo Saul Bellow; per cui sarebbe certo sbagliato «mettere tutto sullo stesso piano». Ma rinchiudere il problema dell'educazione - che non è solo «scuola» in senso stretto, ma anche e soprattutto formazione permanente - nei confini di una identità nazionale da ritrovare è una nuova manifestazione di quell'ottusità sociale nei confronti del presente che aveva impedito all'establishment del tempo (e impedisce ancora a quello di oggi) di fare i conti con il Sessantotto.

In nome del Pil

Rispondendo a Galli il tre volte ministro dell'economia Giulio Tremonti ha proposto addirittura di abolire il numero 1968 (per scaramanzia; come sugli aerei dell'Alitalia e/o Cai è abolita la fila 17, perché nessuno vuole sedersi lì) e rivalutare invece i numeri 10, 9, 8, 7, 6, ecc. Cioè voti al posto di giudizi (ottimo, buono, discreto, insufficiente): il che, come ha fatto notare Tito Boeri su lavoce.info non cambia proprio niente. Ciò a cui Tremonti voleva forse alludere è l'eliminazione di tutte quelle scartoffie che gli insegnanti sono costretti a compilare invece di aggiornarsi e di preparare le lezioni. Ma questo, con il Sessantotto, che cosa c'entra? Sono stati forse i cortei, le assemblee e i gruppi di studio del Sessantotto a introdurre quelle scartoffie?

C'è qualcosa di ottuso in questo culto dei numeri di Tremonti, che non ha niente a che fare con il culto della matematica di Galli. È quella stessa ottusità sociale che spinge il ministro Renato Brunetta (un altro nemico del '68) a misurare la produttività della Pubblica amministrazione con le ore di presenza degli impiegati dietro le scrivanie. Ottusità tanto maggiore perché entrambi, come tutti gli economisti, sommano poi salari e stipendi erogati (risparmiandoci, bontà loro, bustarelle e tangenti) per calcolare il «valore aggiunto» della Pubblica Amministrazione: cioè il suo contributo al Pil, indicatore supremo di successo o di insuccesso di una politica («Crescita! Crescita! Crescita!»). Ben prima di Serge Latouche (il teorico della «decrescita»), era stato il '68, e prima ancora Robert Kennedy, a sostenere che le cose non stanno così: perché la «produttività» di una persona, cioè il suo contributo al bene comune , va misurata in modi - certo più complessi e aleatori, perché più «mirati» su contesti specifici e circoscritti - capaci di promuovere la responsabilità di tutti (a partire da chi ha ruoli dirigenti): non solo per quanto (quante pratiche, e per quante ore?) e per come (magari eliminando i passaggi inutili) si fa un determinato lavoro; ma anche per quello che si fa: entrando cioè nel merito degli obiettivi che si perseguono con quel lavoro. Il che non si può fare in ordine sparso, ciascuno per conto proprio, ma solo in modo collettivo : attraverso una consultazione reciproca di chi è coinvolto: se si vuole, quelli che oggi si chiamano stakeholder.

Educazione catodica

Infine, sempre sul Corriere della Sera , ecco in sette parole la ricetta del ministro Mariastella Gelmini: «Autorevolezza, autorità, gerarchia, insegnamento, studio, fatica, merito». Caduto ogni riferimento alle «Tre I» (inglese, informatica e impresa) della precedente «riforma della scuola», sponsorizzata dal suo principale, e mai realizzata e nemmeno tentata. Era solo una trovata, come lo è questa: per nascondere il vuoto di proposta e soprattutto di finanziamenti. Ma, prescindendo dall'autorevolezza (che ha poco a che fare con le strade che hanno portato il ministro Gelmini al governo del paese, o anche solo a diventare avvocato), se autorità e gerarchia si combinano bene in un manifesto anti-'68 (ma in epoca di «organigrammi piatti» persino nelle aziende, la cosa suona un po' retrò ), la fatica non sempre è merito (è più spesso una condanna senza contropartite) e, quanto al rapporto tra insegnamento e studio, rimane aperto il quesito di che cosa insegnare e che cosa studiare perché queste due attività non girino a vuoto. Problema non secondario.

Quello che il ministro Gelmini comunque non può spiegare è con quali strumenti - con quale «temperie culturale» intenda imporre nelle scuole il ritorno ai valori che propone. Forse con la cultura che da oltre trent'anni il suo principale diffonde in Italia con le televisioni (sia quelle sue che quelle non sue): pubblicità, reality show , calcio e fiction edificante (Tette, Totti e Padre Pio)? E da dove hanno imparato il bullismo gli studenti? Glielo ha insegnato il Sessantotto o il mondo attuale dagli adulti che ne è pervaso fin dentro le «istituzioni»? E chi lo ha insegnato e lo insegna a entrambi, grandi e piccini? Non è forse quel sistema di «educazione permanente televisiva» che ha messo da tempo al palo - niente di più facile, d'altronde: sono più le ore passate davanti al televisore che quelle sui banchi di scuola - quei «contenuti» incentrati su storia e letteratura nazionali che Galli della Loggia propone di reintrodurre a scuola per restituirle «senso»? Senza essersi accorto, peraltro, che sono proprio quelle le cose che si continua a cercare di insegnare nelle nostre scuole; con sempre minor successo. Perché sempre meno gli insegnati, e soprattutto l'istituzione, sono messi in grado di misurarsi con i problemi che la condizione esistenziale delle nuove generazioni pone loro di fronte.

A fine luglio il ministero del Lavoro ha diffuso un Libro Verde (LV) sul modello sociale, titolo La vita buona nella società attiva. In esso vengono delineate le politiche che il ministero intende perseguire relativamente a mercato del lavoro, previdenza e sanità. Una consultazione pubblica sulle questioni sollevate dal LV resterà aperta per tre mesi. Dopodiché le principali opzioni politiche che emergeranno da tale consultazione saranno sintetizzate in un Libro Bianco (LB) che servirà di base alle proposte che il Governo formulerà per l´intera legislatura.

La maggior parte delle 22 pagine del LV sono dedicate a questioni, anche molto tecniche, attinenti alla sanità. Per ragioni di competenza, su questo tema mi limiterò a rilevare verso la fine un´omissione che mi pare di peso, per soffermarmi invece sui temi pensioni e lavoro. Nel LV, sebbene siano sparsi in vari box e passi isolati, essi formano un quadro organico che lascia intravedere chiaramente le politiche che il ministero conta di adottare.

Quali esse siano in ordine alle pensioni si può desumerlo dalla prima pagina del LV. La composizione della nostra spesa sociale sarebbe "manifestamente squilibrata in favore della spesa pensionistica". Segue tabella in cui detta spesa appare superiore dal 2005 al 2020, come percentuale del Pil, di almeno tre punti e mezzo a confronto della Ue a 15. Il 14% e passa contro il 10,5%. Un´enormità, corrispondente a oltre 50 miliardi di euro di spesa in più. Se non fosse che ancora una volta si confrontano qui, in gergo statistico, cavalli e mele. Nella tabella citata, come in dozzine di altre fatte circolare in questi anni, la spesa pensionistica italiana appare superiore alla media Ue per tre motivi. In primo luogo si prende a riferimento la spesa totale dell´Inps, anziché la spesa per le pensioni pubbliche in senso stretto. In realtà la spesa totale è gonfiata da interventi assistenziali per decine di miliardi che sono stati accollati a un ente previdenziale come l´Inps, per cui diventano "pensioni". Per contro in altri paesi lo stato provvede ad esse, quando lo fa, usando voci diverse del pubblico bilancio. Al netto delle spese assistenziali la spesa per le pensioni pubbliche erogate dall´Inps e altri enti costituiva nel 2005 non il 14, bensì l´11,7% del Pil.

In secondo luogo la spesa pensionistica italiana è gravata dai passivi derivanti dall´avere usato per decenni i pensionamenti anticipati come ammortizzatori sociali. Queste spese spariranno con il tempo, ma per ora i passivi dei fondi trasporti, elettrici, telefonici, dirigenti d´azienda, cui vanno aggiunti quelli dei coltivatori diretti, pesano in totale per almeno un altro punto percentuale. In terzo luogo, le nostre pensioni figurano come voce di spesa al lordo dell´imposta sui redditi, mentre grandi paesi come la Germania le versano al netto, con limitate eccezioni per le pensioni più elevate. Ciò significa che i pensionati italiani restituiscono allo stato intorno ai 28-30 miliardi di euro l´anno, circa due punti di Pil, mentre quelli tedeschi e altri non restituiscono quasi nulla. A conti fatti, i nostri pensionati forniscono un sostegno significativo al bilancio pubblico.

L´uso improprio dei dati apre la porta nel LV a ricette già viste per una politica della previdenza. Anzitutto si dice che i coefficienti previsti dalla legge Dini, applicando i quali si stabilisce di quanto la pensione sarà ridotta rispetto alla retribuzione – coefficienti il cui metodo di calcolo rimane misterioso – saranno probabilmente insufficienti; in chiaro, dovranno forse essere ulteriormente appesantiti. Poi l´età minima della pensione dovrebbe salire al disopra del limite già previsto dei 62 anni (ma è solo un´idea, ha precisato il ministro). Infine si afferma che occorre una maggior diffusione della previdenza complementare. Sembra qui che i collaboratori del LV non sapessero in quali condizioni versano oggi i fondi pensione britannici e americani, non solo a causa della crisi del sistema finanziario.

Quanto alle politiche del lavoro delineate nel LV, esse paiono ispirate in generale dal criterio di proseguire con la de-regolazione dei rapporti di lavoro, ovvero con una maggior dose di flessibilità; nonché, più specificamente, dalle riforme operate in Germania nel decorso decennio mediante le leggi Hartz. Alla base di tali leggi v´è il concetto di responsabilità e attivazione personale. Esso significa che chi ha perso il lavoro, o stenta a trovarlo, oppure ne vorrebbe uno migliore, deve sentirsi responsabile della sua situazione e darsi da fare, ossia attivarsi, per migliorarla. Solo a tale condizione sarà "preso in carica" dalla collettività, formata da una molteplicità di attori pubblici e privati, che provvederà a trovargli una occasione congrua di lavoro e/o un percorso formativo di qualificazione professionale. Il concetto è ripreso tal quale dal LV, incluse le conseguenze per chi devia dal retto cammino. Se non si comporta in modo sufficientemente responsabile e attivo, magari perché l´occasione di lavoro non gli sembra "congrua", o il "percorso formativo" poco adatto, sarà sanzionato con la decadenza dalla indennità di disoccupazione o altri benefici. Poste simili basi, il LV conclude chiedendosi se non esistano le premesse per "un rinnovato clima di fiducia e complicità tra capitale e lavoro che consenta di cementare… una alleanza strategica tra gli imprenditori e i loro collaboratori".

In Germania si moltiplicano intanto i rapporti di ricerca sui risultati delle citate riforme. Se si tolgono quelli di enti troppo interessati a mostrare che tutto va bene – tipo la Bundesbank o l´Agenzia federale per il lavoro – le conclusioni sono unanimi. Le riforme hanno esercitato una pressione efficace al fine di tener bassi i salari. Han così giovato alle esportazioni, ma hanno anche seriamente limitato i consumi delle famiglie. Sono stati creati milioni di cosiddetti minijobs, posti di lavoro da 15 ore la settimana e non più di 400 euro al mese. E´ notevolmente cresciuta la precarietà. I lavoratori poveri sono saliti al 22% degli occupati. Le riforme non hanno invece accresciuto per niente il volume totale di ore effettivamente lavorate. Tra il 1991 e il 2006 esse sono anzi diminuite di quasi quattro miliardi. Se questi sono i risultati di riforme fondate su maggior flessibilità, responsabilità e attivazione personale, non pare il caso di imitarle come fa il LV. E fanno nascere seri dubbi circa la proposta di fondare su di esse un clima di fiducia e complicità tra capitale e lavoro.

Del LV vanno segnalate infine due omissioni. Anzitutto nel testo, seppur così largamente dedicato alla sanità, gli incidenti sul lavoro sono menzionati solo una volta. Meglio di niente. Non compaiono invece per nulla le morti correlate a malattie professionali. L´Organizzazione Internazionale del Lavoro stima che esse siano almeno quattro volte superiori alle morti per incidenti, e siano in aumento anche nei nostri paesi per diversi motivi. E´ sperabile che nel transito dal LV al Libro Bianco il ministero trovi modo di inserire anche tale questione.

Dubito invece che ad un´altra omissione si trovi rimedio. Il LV non prova nemmeno ad abbozzare un´indagine delle cause globali che hanno generato i problemi di cui tratta, a partire dalle condizioni di lavoro e della salute collettiva. Si possono compendiare in una sola: l´enorme disuguaglianza di reddito e di ricchezza che si è prodotta negli ultimi decenni, nel nostro come in altri paesi. E´ da questa che si dovrebbe partire per rivedere il modello sociale.

Sul "Libro verde" vedi anche l'articolo di Roberto Romani su il manifesto del 31 luglio

Siamo davanti a elezioni che si autodefiniscono costituenti, e di donne non si parla. Sono metà del paese, anzi un poco di più e in politica contano meno che in qualsiasi altro campo. Ci sono donne capi di stato e di governo nei paesi d'occidente e nei paesi terzi. Che in questi siano perlopiù moglie o figlia, orfana o vedova di un illustre defunto è un arcaismo ma, rispetto a una tradizione che non ammetteva donne al comando, è una frattura. Negli Usa l'avvocata Hillary Rodham corre anch'essa con il nome del marito, perché è l'ex presidente Clinton.

In Italia non siamo neanche a questo, e arrivarci non sembra urgente né alle destre né alle sinistre. In Francia Nicolas Sarkozy ha composto il suo governo metà di uomini e metà di donne. Più abile delle nostre maschie mummie, con tre di esse ha preso due piccioni con una fava: la maghrebina e la senegalese sono, socialmente parlando, due belve, la femminista non ha più seguito. E' vero che Sarkozy interviene su tutto e tutti, maschi o femmine che siano, ma in quanto monarca è più avvertito dei nostri.

I quali non riescono a fare fifty-fifty non dico un governo, ma le liste, lasciando al sessismo ordinario dell'elettorato di scremare le presenze femminili. Per cui sarei a proporre - non per la prima volta e come recentemente l'Udi - che le Camere siano composte metà di uomini e metà di donne. Almeno finché esiste in Italia, e non si schioda da oltre mezzo secolo, una democrazia che discrimina il genere.

Insomma il maschio politico italiano è ancora un bel passo indietro rispetto alla semplice emancipazione. E le donne italiane come sono? Ne conosciamo i frammenti minoritari che hanno accesso alla parola, i numeri muti delle statistica, le immagini tv.

Dalle quali trarre deduzioni è rischioso: piangenti, al mercato, rare imprenditrici brillanti, rare ministre, zero segretarie di partito, zero segretarie delle confederazioni sindacali (è arrivata prima la Confindustria), qualche insegnante o professionista, e una gran massa di veline, tutte carine, tutte uguali. E un valido campionamento del paese? Mah. Una volta la regione campana prese la tv così sul serio da organizzare corsi professionali per le aspiranti veline.

Tradotto in «desiderio politico», che cosa sono? Emancipate? Certo in uscita transitoria dallo stereotipo donna al focolare. Se arrivano a farsi conoscere, sono in grado di mandare a spasso un marito, salvo congruo assegno. Ma se emancipate significa che ambiscono a prendere il posto degli uomini, non direi. Le emancipate che lo ambiscono sono relativamente rare, salvo nell'insegnamento, dove costituiscono la maggioranza ma non ne reggono le redini né una riforma del sistema è stata avanzata da riconoscibili donne. Quanto alla massa di carine, sono giunte a professionalizzare (precariamente) il classico desiderio maschile e il nostro, pare altrettanto classico, esibizionismo, senza grande spesa e trasgressione. Difficile immaginare che idea di società abbiano. Come le casalinghe per scelta, sempre di meno ma con la bizzarra componente delle figlie super emancipate e disinibite dal 1968. Strana generazione, che a un certo punto sceglie di tenersi sul sicuro, cosa che mamma ai suoi tempi non ha fatto. Devono essere elettrici tendenzialmente democratiche, magari «riformiste».

Poi ci sono quelle che parlano. Anche di politica, emancipate o femministe. Il desiderio delle prime, che spesso hanno avuto un passaggio femminista light, è di affermarsi nell'arco politico esistente. Con una qualità in meno o in più dei maschi: sono capaci di «staccare». E' interessante il percorso di decine di migliaia di amministratrici locali, spesso ottime: uno o due giri da consigliere, assessore o sindaco e poi se ne tirano fuori. E non irate o deluse, ma per voglia di fare altro. Questa caratteristica è importante per capire quanto la politica conti per la donna che ci si è messa: raro che ci muoia. Sarebbe garanzia di un equilibrio? Somiglierebbe al disinteresse personale? E intanto mezzo secolo di amministratici locali hanno mutato o no il potere locale? Ne hanno modificato le regole? Accresciuto l'autonomia? Credo di no. Non diversamente dalle istituzioni nazionali, in quelle locali le donne non hanno reclamato, e tanto meno ottenuto, cambiamenti né di fini né di regole.

Di qui il rapporto acerbo fra le femministe e la sfera politica. Inutile girarci attorno. Là dove avrebbero in via di principio un ascolto, cioè a sinistra - è stato un penoso errore da parte di un loro gruppo credere che uno spazio ci fosse a destra per via di Lady D e Irene Pivetti - i leader della medesima si spendono in parole e stringono poco nei fatti. Gli uomini di sinistra imbrogliano o si imbrogliano da sé, le donne di sinistra protestano. O da lontano, scrivendo con amarezza della irreversibile crisi della politica, o da vicino, organizzando proteste su obbiettivi indiscutibili, come la violenza, ma poco cavandone fuori. Quale dirigente maschio oserebbe dire: «Insomma, se il marito la pesta (una donna ogni tre donne viene picchiata in Francia) o le ammazza (idem, una ogni tre giorni), se la sarà cercata». Quando mai. Soltanto che nessuna gli pone in termini secchi la domanda: «Non ti chiedi perché il tuo sesso continua ad ammazzarci?». Il leader condanna sinceramente ma pensa: quelli non sono come me, sono perversi o assassini, roba da codice penale. Non lo sfiora che la brutale negazione fisica di lei abbia una parentela con la negazione simbolica che lo induce a discriminarla dalle cariche decisive («non ce la farebbe»).

In politica resta inesplorata la zona oscura del conflitto millenario fra i sessi. Soprattutto in Italia e in Francia, dove le «emancipate» che partecipano al potere eludono il tema, e le femministe, fra loro diverse, non partecipano gran che al primo e rompono i ponti sul secondo. Non è senza interesse chiedersi perché resti così profonda o, se da qualcuna praticata, irrisolta in lei stessa, la separazione fra coscienza e partecipazione femminista e coscienza e partecipazione politica. Penso alle recenti interviste sul nostro giornale di Ida Dominijanni a Judith Butler e Wendy Brown (il manifesto 25 marzo). Butler è impegnata a fondo su tutti e due i terreni, esplora la zona oscura in termini sovversivi proponendo l'intersessualità come norma - «Gender Trouble» - e prendendo di petto, e non genericamente, temi scottanti dell'attuale politica degli Usa. C'è probabilmente una diversa tradizione intellettuale, perché non è che le europee siano meno radicali; probabilmente il sistema politico americano è così precluso - per fare un presidente (o un governatore) ci vogliono centinaia di milioni e quasi due anni di campagna elettorale full-time - che la presa di parola politica non ha mediazioni con istituzioni e partiti, o si espone direttamente o non è. Insomma si interviene in politica a prezzo di impegno e competenza specifica dalla società civile, considerano milizia femminile e milizia politica un unicum, come a mio avviso realmente sono. Non investono ambedue il sistema delle relazioni?

In Italia no. Forse per il ritardo della emancipazione in presenza d'una gerarchia cattolica invadente. E' stata più la modernizzazione capitalistica della società che la politica a farla avanzare. Forse per l'essersi formato il primo e il secondo femminismo in collegamento stretto con la sinistra; il primo con il Pci e il Psi e il secondo - anche se non collegato altrettanto strettamente - con il 1968 e il rivoluzionamento che esso ha comportato nei paradigmi del politico per tutti gli anni '70, finendo con l'essere l'unica vera trasformazione culturale che ne è rimasta, minoritaria ma irreversibile. Più che in Francia e in Germania, credo.

Ma la sua contiguità originaria con il bacino «marxista» - marxista più come pratica etica ed emozionale che come elaborazione teorica, caratteristica di tutta la sinistra italiana - ha portato le donne a un corto circuito: rapido investimento e rapida disillusione, 1968 incluso, e peggio con i successivi gruppi extraparlamentari. Vibra ancora indolenzito un cordone che si è spezzato. Gli uni non capiscono le altre e viceversa, fino a ignorarsi, al di là di qualche convenevole, come se fossero due settori separati d'esperienza e competenza. (Di questo bisogna chiedere alle donne, dice lui. La politica non mi interessa più, dice lei).

Non che sia agevole fare una mappa dei gruppi femministi italiani. Proprio perché sono, mi sembra, più diffusi che altrove e frammentati si rischiano giudizi facili. Ma molto sommariamente si può avanzare che le principali posizioni rispetto al «fare» politico sono due. L'una vede nel conflitto fra i sessi una costante metastorica, o quanto meno originaria, irrisolta quanto più introiettata senza esplicitazione, certo fra gli uomini e in molta parte delle donne; e finché tale resta, il conflitto non conscio di sé mutila e conforma l'uno e l'altro sesso, reciprocamente confusi, dolenti. E ormai traversati brutalmente dalle biotecnologie che tendono a modificare la posta in gioco della riproduzione. Di qui l'oscillazione fra il rifiuto conservatore della chiesa, l'interesse alla libertà della scienza (che si presume) disinteressata, e un rifiuto femminile in nome di un diritto primario e autentico che non è riconosciuto né dalla chiesa né dalla scienza e, come ha dimostrato il referendum sulla riproduzione assistita, spesso dalle donne stesse.

La seconda posizione, all'inizio derivata da Luce Irigaray, vede più che il conflitto - il conflitto è comunque un rapporto - un'eteronomia dei sessi che darebbe luogo, fra natura e storia, a una differenza insorpassabile. E del resto perché sorpassarla? Nel momento in cui la donna spezza il presunto universalismo del maschile (il patriarcato) e si riconosce il suo sesso come principio di sé - si era fin suggerita una «specie umana femminile» - si scopre come un valore, si dà una genealogia e un ordine simbolico (materno invece che paterno), la rivoluzione è già avvenuta, il patriarcato se non finito è incrinato. A questo punto o le donne si appartano nella separatezza (la comunità dello Scamandro di Christa Wolf), o restano nel mondo intervenendovi come un complesso interelazionale autonomo, che risponde ai suoi propri principi.

Soprattutto alla seconda posizione il sistema politico, con il quale si è inutilmente incontrata e scontrata, e con esso l'intero pensiero politico della modernità appare segnato da un solo codice, quello maschile, e così il lessico, e così il linguaggio. A questo punto il dialogo appare impraticabile. Riscoprirsi nella propria interiorità svalorizza ogni pretesa di universalismo come è proprio specie della costituzione di un diritto, punto centrale della politica. L'avvertimento «non credere di avere dei diritti» volge facilmente in un «Non ce ne importa del diritto», occorre una revisione ab imis che costituisce «la politica prima». Basta guardare alla sorte delle donne entrate nella poderosa macchina delle istituzioni per aver la conferma di quel che pare un eccesso.

Ma lo stesso vale per chi non arriva a questo limite di separatezza e ha cercato di partecipare o almeno collaborare al sistema politico per non isolarsi, sperando di inserire un cuneo, un dubbio.

Qui siamo. Non sembra che le forme e le figure attuali della politica o dei partiti ne siano coscienti o almeno se ne facciano un problema. Non la destra o il centro cattolico, per i quali il problema non esiste. Non il Partito democratico, invischiato fra cultura cattolica e una laica che rinnega il passato e prende a prestito qua e là del presente non esiste. Ma non è chiaro se ne sia sfiorato quel work in progress che sarebbe la Sinistra Arcobaleno, che il Partito democratico farebbe volentieri a pezzi. Non è chiaro se ne sono coscienti neppure le culture dell'autonomia.

Ma qualcuno è disposto a sostenere seriamente che senza prender questo toro per le corna - questi tori, perché è il tema fondamentale delle relazioni che è in causa - una convivenza moderna o postmoderna si pos

Con la caduta dell'Unione Sovietica e la fine dell'equilibrio tra potenze, è scomparsa anche la nozione classica di guerra, sostituita da conflitti locali permanenti che hanno l'obiettivo di seminare il panico nelle grandi città

Esattamente venticinque anni fa, mentre scrivevo Pure War (Semiotexte-Mit Press, ristampato in questi giorni), la dissuasione si poneva ancora sul piano strettamente militare. Gli Stati praticavano una dissuasione reciproca, favorendo l'equilibrio del terrore. Venticinque anni dopo, sono costretti ad ammettere che la corsa agli armamenti tipica della «guerra pura» ha cancellato non soltanto l'Unione Sovietica, che è implosa, ma anche l'idea stessa della «grande guerra classica», la guerra clausewitziana, prolungamento della politica con altri mezzi.

Questa dissoluzione ha condotto il nostro mondo direttamente tra le braccia del terrore, del disequilibrio terrorista e della proliferazione nucleare che, purtroppo, impariamo a conoscere ogni giorno di più. La copertura antimissilistica globale degli americani - quella sorta di ombrello o parafulmine che Bush sta proponendo a tutti nel mondo - mi pare esemplifichi bene il grado di squilibrio e il delirio geostrategico di cui siamo vittime. Incredibile e degna di nota, a mio avviso, anche la risposta di Vladimir Putin alle proposte americane, una risposta su cui non si è discusso a dovere. Che cosa ha detto, in sostanza, Putin? Ha proposto di installare i radar di questo scudo globale... in Russia e Azerbaigian. Non poteva essere più chiaro. Così, dopo la «grande guerra classica» e politica ci ritroviamo adesso alle prese con una guerra asimmetrica e transpolitica.

Asimmetrie politiche

Ho utilizzato l'espressione «guerra asimmetrica» per la prima volta a Berlino trenta, forse trentacinque anni fa - mi trovavo là con Jean Baudrillard - ipotizzando al tempo stesso che ci stavamo dirigendo verso un'epoca transpolitica. Eccoci dunque, alla fine siamo arrivati al transpolitico. Sostenere che una guerra è asimmetrica e transpolitica al tempo stesso significa affermare che esiste una condizione di totale disequilibrio fra gli eserciti nazionali, quello internazionale, l'esercito della guerra mondiale e i gruppuscoli di tutti gli ordini e gradi che praticano la guerra asimmetrica (dalle semplici gang di quartiere, ai paramilitari). Esiste un parallelismo fra la decomposizione degli Stati avvenuta in Africa e quello che sta succedendo ora nell'America del Sud - in Colombia tanto per fare un esempio - dove nessun esercito nazionale può nulla contro la proliferazione di gang, mafie locali, paramilitari e guerriglieri alla Sendero Luminoso. Questo, a mio parere, è il punto: non possiamo più parlare o ragionare di una guerra pura, semplicemente perché la nozione di guerra ha cambiato natura. Non esistono più «guerre pure», ma una guerra totale e «impura» nata dalle diverse esigenze e dalla diversa struttura della dissuasione armata. Questa dissuasione non ha più di mira i soli militari, anzi direi che si indirizza essenzialmente ai civili. Vengono da questo salto di paradigma nella natura della dissuasione fenomeni inconcepibili, solo venti o venticinque anni fa, quali il Patriot Act o le prigioni di Guantanamo.

Un fatto da non sottovalutare è il disequilibrio imposto dall'emergere di un nuovo terrorismo. Nell'era della «guerra impura» ci si sforzava di resistere riportando il sistema al suo punto di equilibrio. Ma tutto questo è diventato impossibile, con la continua proliferazione di «nemici asimmetrici». Siamo di fronte a una enorme minaccia che incombe sulla democrazia di ogni paese, non soltanto sulla testa dei regimi dell'est, del sud, del nord, di dove vi pare, ma anche sui paesi ritenuti «democratici», tanto in Europa, quanto negli Stati Uniti. Esiste una dissuasione civile - il Patriot Act ne rappresenta il segno più tangibile, ma ce ne sono molti altri, pensiamo a certe leggi contro gli immigrati che rischiano di passare in Europa - che rende la situazione molto più incerta.

Una strategia contro le città

Gli esperti sostengono che si debba «ristabilire l'ordine», ma ristabilire l'ordine nella società civile è come aprire una finestra sul caos, è una minaccia assoluta, una sfida lanciata vis-à-vis nei confronti di qualsiasi democrazia. Su questo punto ci si accorge di avere a che fare con i sintomi di un vero e proprio delirio. La strategia militare sembra essersi dislocata nel cuore stesso delle città. Si potrebbe parlare di un proseguimento della strategia anti-città iniziata durante la seconda guerra mondiale, con i bombardamenti di Guernica, di Oradour, Berlino, Dresda, Hiroshima, Nagasaki. La strategia anti-città è stata una delle innovazioni introdotte durante la seconda guerra mondiale, guerra che ha però introdotto anche un equilibrio del terrore: ricordiamoci che le testate nucleari, a est come a occidente, erano puntate direttamente sul cuore delle città. Oggigiorno, assistiamo però a un dislocamento di questa strategia. Siamo passati dall'equilibrio del terrore all'iperterrorismo. È un dato interessante, perché l'iperterrorismo ha un solo campo di battaglia, e questo campo di battaglia è, appunto, la città. Chiediamocene la ragione. Credo si debba rimarcare che è proprio nelle moderne cittè che si concentra il maximum della popolazione e, con un minimo di armi, può essere raggiunto il massimo risultato, il massimo disastro possibile. Non importa con quali armi si può raggiungere questo risultato: niente più bisogno di panzer, nessuna necessità di portaerei, sottomarini imponenti e via discorrendo.

Potremmo affermare che la guerra asimmetrica - che oramai è un sinonimo del disequilibrio terrorista - cancella il teatro delle operazioni esterne a tutto vantaggio della concentrazione metropolitana. Il luogo della guerra diventa, appunto, la città. L'affollamento urbano trascina guerra e terrorismo nel solco di una geostrategia territoriale, portandolo direttamente sulla linea del fronte. Se vogliamo una perfetta illustrazione del fallimento del modello di esercito classico possiamo ricordare, oltre al caso dell'Iraq, anche quello della più recente guerra libanese. Il fallimento dell'esercito israeliano in Libano è straordinario. Lo Tsahal è fra gli eserciti più grandi, equipaggiati, motivati al mondo, e uno di quelli che gode di maggiori appoggi e sostegni, anche mediatici. Eppure, nonostante tutto questo, l'esercito israeliano si è «impantanato», possiamo proprio dirlo, nella guerra asimmetrica contro Hezbollah. Qualcuno può pure sostenere che si tratta di una guerra «fallita», parola che trovo sintomatica. In passato, sapevamo di guerre perse e guerre vinte, oggi apprendiamo che esistono anche le guerre riuscite e quelle fallite. Vorrei però conoscere la differenza tra un fallimento e una disfatta. A mio parere, questa guerra manifesta la debolezza e il principio di incertezza su cui poggia un esercito normale con i suoi carri armati, i suoi missili, i suoi megabombardieri quando si trova dinanzi a una forza, per così dire, artigianale. Mi ricordo di una vignetta, apparsa su un giornale francese, che avrei forse dovuto ritagliare e conservare. Si vedevano i carri dello Tsahal fermi in un città piena di rovine e un cartello sul quale era disegnata la pianta della stessa città con una freccia che indicava: «Vi trovate qui». Il comandante del carro era sceso a terra, sbalordito cercava di capire dove si trovasse.

L'immagine illustrava più di mille commenti la condizione di follia in cui versava un esercito potente che, in altri tempi, era stato capace di vincere la «Guerra dei sei giorni». Ma la «Guerra dei sei giorni» era ancora una guerra di tipo classico. Nel '67, eravamo ancora in piena epoca di logica e calcoli geopolitici. La geopolitica si giocava sui campi di battaglia, a Verdun, attorno a Stalingrado, sulle spiagge della Normandia. Oggi quei campi sono dislocati, e il conseguente declino della geopolitica va a tutto vantaggio di quello che proporrei di chiamare metropolitica, in quanto concerne la città intesa come metropoli.

Minacce sfocate

Dopo la crisi della geopolitica e il conseguente affermarsi della metropolitica terrorista, è venuto anche il momento della geostrategia. Va letta in questo contesto la risposta di Putin a Bush - «installate i vostri missili e i vostri radar da me -, una risposta che mette a nudo l'incertezza dell'avversario. C'è qualcosa di umoristico nella sua proposta, ma dietro lo humour venato di assurdo, si nasconde qualcosa di vero. Ci si chiede contro chi ci stiamo difendendo. Installare i missili sulle frontiere come propone di fare Bush, significa minacciare una regione anche se ci si sta rivolgendo a un'altra. Anche se c'è l'Iran di mezzo, anche se c'è la Corea, anche se non ci sono paesi che rappresentano minacce, bisogna capire che non sono più gli Stati a essere in guerra. La vera minaccia è deterritorializzata o piuttosto defocalizzata.

Da qui il fallimento dell'esercito israeliano nei confronti di Hezbollah, un fallimento che rivela l'errore manifesto delle forze militari nei confronti dell'ostilità di un nuovo nemico. Abbiamo assistito a una grande rivoluzione che ha investito e travolto il concetto di «guerra classica» clausewitziana, un concetto che aveva come sua logica appendice quello di «guerra pura», una guerra statica fondata sulla minaccia della fine del mondo e sulla catastrofe nucleare. Oggi tutto questo è finito e, quasi senza accorgercene, ci ritroviamo preda di ciò che i fisici chiamano principio di indeterminazione: i nostri piedi poggiano su terreni incerti, scossi dalla globalizzazione economica e dalla guerra globale eppure «locale». Questo apparente paradosso è determinato dal fatto che l'estensione del campo e del fronte non contano più in rapporto all'immediatezza della minaccia.

Quando si arriva a collocare un ordigno nucleare direttamente nella metropolitana di New York, di Parigi o Londra, allora dobbiamo comprendere che non siamo più nella logica totale, ma in quella locale. L'obiettivo è una città, preferibilmente una grande città, per ottenere il massimo disastro. La «guerra impura» nasce dal globalismo inteso come cambiamento di scala.

Il globalismo riduce tutto al più piccolo fra i comuni denominatori possibili: è così che anche un singolo individuo può significare una guerra totale - e quando dico uno, possono ovviamente essere due, tre, dieci. Quando si pensa al World Trade Center, sono stati undici uomini a fare duemila e ottocento vittime, quasi quante a Pearl Harbor. Stesso risultato. Quanto meno il rapporto tra costi ed efficacia è stato straordinario! Le grandi divisioni, le macchine, la portaerei «Eisenhower» restano lì in attesa di una disfatta che non è determinata dal conflitto di un campo contro l'altro, ma dalla dissoluzione del campo stesso che alimentava la guerra «politica». La guerra politica aveva di mira un territorio o uno Stato delimitato che da par suo rispondeva arroccandosi attorno alle proprie frontiere.

In questo momento assistiamo a una confusione babelica tra la guerra civile terrorista - che uccide civili, non tanto i militari, anche se ha di mira il Pentagono - e la guerra internazionale. Ma si tratta di nozioni ancora sfocate. Al punto che, parlando con Baudrillard dopo l'attentato del 9/11, dicevo: ecco l'inizio della guerra civile internazionale. Fino a quel momento, c'erano state guerre civili nazionali, ma quella era la prima vera guerra civile mondiale. È ancora possibile premere un bottone e far partire dei missili - la Corea può farlo, l'Iran può farlo, possono farlo altri - ma in realtà con la grande dislocazione della strategia, con la fusione fra guerra civile iperterrorista e guerra internazionale, non è più possibile fare troppe distinzioni. Alcune cose restano, ma il quadro è saltato. Non c'è più alcun equilibrio da ristabilire, solo caos da creare. Con la crisi degli Stati-nazione, messi in discussione dallo sviluppo dell'Europa, dal Nafta, dalle multinazionali, la guerra legata alla mera territorialità non è più possibile. Ci troviamo di fronte a una questione di primaria importanza, una questione politica e che travalica la politica al tempo stesso. Ne va della nostra esistenza, proprio mentre un enorme punto di domanda leva la sua ombra sulla Storia.

( traduzione di Marco Dotti)

postilla

Fra i vari elementi di singolarità del percorso logico che Virilio propone nel suo articolo, c’è anche la – quasi sicuramente involontaria – rievocazione del felice connubio storico fra antiurbanesimo e politica di guerra permanente, che coincide col trionfo di quanto oggi chiamiamo sprawl urbano.

È infatti nell’epoca (ormai tramontata, ma solo per aprirne una assai più ambigua) di un certo conflitto permanente, dai totalitarismi europei degli anni ’30 all’equilibrio del terrore che ha imperversato sino agli anni ’80, che si afferma esattamente l’idea del decentramento, spinta secondo molti studiosi proprio dalle ragioni della sicurezza nazionale e produttiva. Anche i più noti processi del cosiddetto white flight dalle metropoli americane, in fuga dalla violenza razziale, rientrano nel medesimo grande ciclo iniziato ad esempio coi primi studi italiani o britannici sulla “urbanistica antiaerea”, e poi come ci raccontano anche le carte ufficiali della Commissione Barlow, o le riflessioni postume di C. B. Purdom proseguito in Europa nel passaggio dalle città giardino alla politica delle New Towns o di altri "decentramenti" nazionali.

E senza farla troppo lunga, dalle riflessioni di Virilio può emergere anche un dato: prendere a bersaglio la città significa, a parole ma non solo, concentrare la mira sulla polis. Che altro c’è, nella retorica demente della “guerra come prosecuzione della politica con altri mezzi” quando non in una fase marginale, ma nella sua mainstream , ad essere sottoposto ad attacco costante è il simbolo della convivenza, mentre apparentemente contro ogni senso ecologico e in fondo anche economico, l’immaginario dei consumi continua ad avere come sfondo privilegiato un insostenibile ubiquo suburbio? (f.b.)

Tutti e due i partiti in corsa, Partito democratico e Pdl, evocano un qualche patto tra produttori, o come prefigurazione di un governo di larghe e molli intese se le cose vanno male per tutti e due, o come esortazione cattolica alla solidarietà, anziché al conflitto, tra le parti sociali. Sia «patto» sia «produttori» sono parole politicamente consolatorie, perché apparentemente neutrali.

Nessuno ricorda che la questione del «patto tra produttori» era stata posta una trentina di anni fa da Claudio Napoleoni - persona rara, perché persona colta oltre che ottimo economista. La questione era stata molto discussa, nelle sue premesse e nei suoi possibili esiti politici, tuttavia può essere riassunta e riesposta nel modo seguente. Nel nostro mondo ci sono non due, ma tre classi. Le classi costitutive e essenziali del capitalismo - dopo la rivoluzione francese e la rivoluzione industriale - sono i capitalisti e i lavoratori.

C'è però una terza classe, un residuo feudale, costituita dai rentier: dai percettori di rendite di qualsiasi natura, ma comunque rendite la cui natura è soltanto il terribile diritto di proprietà.

Nessuno, tra quanti allora parteciparono alla discussione suscitata dal proposta di Claudio Napoleoni, arrivò a chiedere l'abolizione di quel diritto; ma tutti erano d'accordo che la rendita costituisce un prelievo netto, una sorta di tassa, sul prodotto sociale: tassa o prelievo cui non corrisponde nessun contributo al prodotto sociale, da parte dei rentier; e che per questa stessa ragione del prodotto sociale frena la crescita - scaricandone sui lavoratori la responsabilità e il costo.

Tra capitalisti e lavoratori sarebbe dunque ragionevole una alleanza contro l'indebito prelievo di una parte cospicua del prodotto sociale, da parte dei percettori di rendita, siano questi proprietari di risorse naturali o di risorse finanziarie: fermo però restando il conflitto distributivo tra lavoratori e capitalisti.

È infatti nell'interesse economico e politico, sia dei lavoratori sia dei capitalisti, che il prodotto sociale non sia taglieggiato - senza nessuna fatica - dai rentier. Si potrebbe cominciare con lo strumento fiscale, secondo il dettato dell'articolo 53 della Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva».

Il Conte Paolo Marzotto, in una intervista al Corriere della Sera di un paio di giorni fa, ha diciarato: «Fosse per me, aumenterei la tassazione delle rendite finanziarie. L'attuale 12,5% è cosa da paradiso fiscale. Si dovrebbe arrivare al 19/20%. Insomma, noi ricchi dobbiamo pagare di più. La democrazia non si regge sui privilegi».

Dunque il Financial Times alla pattuglia di deputati laburisti che si sono riuniti fuori da Westminster a cantare "Bandiera rossa" per dire: vogliamo un partito più di sinistra, manda a dire che è inutile che si affannino perché «i partiti stanno diventando tutti eguali». Da noi vi è chi afferma – la sostanza è la stessa – che i buoni politici non possono che essere riformisti senza aggettivi, i soli in grado di porsi e risolvere – sono espressioni di Massimo Cacciari - "problemi concreti" con "progetti concreti", tal che parlare di destra, sinistra e anche centro non ha più senso alcuno

Questo è il credo dei novatori della politica, decisi a seppellire le vecchie ideologie e le relative contrapposizioni. Mi sembra che, se davvero destra, sinistra e centro non hanno più senso, allora quel che ne consegue è un amalgama politico e che le diversità dei programmi e delle soluzioni concretamente proposte e attuate si riducono a differenze di natura tecnica, da sciogliere alla luce di una razionalità non di parte ma rispondente ad un interesse valevole per tutte le componenti sociali.

I fautori dell´amalgama si presentano come novatori. Credono di esserlo, ma non lo sono. Nella storia moderna essi hanno fatto ripetutamente la loro comparsa come teorici della pacificazione e della concretezza. Il regime orleanista – di cui fu grande esponente Guizot, il quale argomentò che la politica utile era quella capace di riconoscersi nel "giusto mezzo", l´unico in grado di produrre risultati fattivi – costituì un esempio di questo approccio; su una linea analoga si pose in Italia Depretis, il quale invitò il partito liberale ad abbandonare la divisione tra Destra e Sinistra, lasciando al di fuori le dannose estreme di opposto segno; sull´appello a convergere, ridotte le opposizioni al nulla, su una politica capace di risolvere i problemi concreti con soluzioni concrete al riparo di obsoleti scontri di parte, si basò anche la politica sociale ed economica dei regimi totalitari. Ora non siamo più nel XIX e nel XX secolo, ma il Leitmotiv ritorna nelle vesti della politica "democratica" che proclama defunte le distinzioni tra destra e sinistra e che, riducendo tutto a centro, annulla lo stesso centro.

Il paradosso di questa posizione è che essa viene fatta oggi valere proprio mentre, come ricorda opportunamente Giddens, «le società industrializzate hanno raggiunto un livello di diseguaglianza, un gap tra ricchi e poveri, troppo grande». Insomma, mentre tutti i partiti, secondo il Financial Times, starebbero per diventare eguali, gli uomini diventano sempre più diseguali. Ma, se le cose stanno così – e così stanno – (il governatore della Banca d´Italia ci ha recentemente comunicato che nel nostro paese il 10 per cento possiede il 45 per cento del reddito, ed è da vedersi ulteriormente quali siano le proporzioni all´interno di questo 45 per cento), possiamo concludere che vengano meno le ragioni della sinistra e di una lotta politicamente organizzata per contrastare una simile tendenza al fine di raggiungere una più equa distribuzione della ricchezza? possiamo ignorare che vi è un sistema di potere che ha operato e opera per conseguire e mantenere quel gap di ricchezza che spacca in relazione ai livelli di benessere e malessere il corpo sociale a tutela di interessi che non sono certo quelli di coloro ne sono le vittime? possiamo non vedere che il mercato così come funzionante non agisce in maniera neutra, ma è dominato da potentati finanziari e industriali il cui obiettivo è di convogliare le risorse a loro prevalente beneficio con la conseguenza di dividere le persone tra chi dorme sonni più che tranquilli e chi invece sonni agitati perché non sa come campare? Le soluzioni dei problemi che vanno bene per gli uni non vanno affatto bene per gli altri.

I potentati economici non si limitano a operare per mantenere e accrescere i loro soldi. Sanno che per poterlo fare devono essere in grado di ottenere il maggior consenso possibile a partire dal processo elettorale. Sono essi che posseggono e controllano la maggior parte dei mass media, in primo luogo la televisione, che li utilizzano per sostenere che non vi è contrasto di interessi, che si dà un unico interesse, che il solo modo per le masse dei lavoratori dipendenti di migliorare la loro condizione non è di contrastare i meccanismi causa di abissali diseguaglianze, ma di produrre di più, di non continuare a far valere vecchi diritti sociali e a chiedere un posto stabile, di accettare ogni richiesta in tema di flessibilità e di precarietà, in quanto rispondente agli interessi oggettivi delle imprese e quindi comuni ai datori di lavoro e ai lavoratori. Lo spettro delle vacche magre viene sempre agitato agli occhi dei lavoratori per indurli a non "pretendere" irresponsabilmente oggi quel miglioramento che viene affidato al domani.

Orbene, chi non accetta un simile stato di cose è di sinistra e chi lo promuove non lo è. Si guardi inoltre ai «temi eticamente sensibili», ai modi di intendere la laicità, ai modi di affrontare le questioni poste dall´immigrazione e dall´integrazione, e si vedrà se anche qui i partiti sono ormai tutti la stessa cosa. Lo si vada dire agli spagnoli che andranno al voto domenica prossima che il partito di Zapatero e quello del suo antagonista non hanno se non un´immagine confondibile nello specchio.

Ma, detto questo, la sinistra ha un problema, e un grosso problema. Le sue ragioni persistono, e forti, poiché, in un mondo segnato da abissi di diseguaglianza nella disponibilità delle risorse che danno agli individui una vita dignitosa, non vengono meno. Ma la sua capacità di azione è debole. Essa è in una condizione di frustrazione di fronte all´iniziativa dei suoi avversari, le sue risposte in termini di efficacia politica e sociale sono maldefinite, incerte, rispecchiano un complesso di inferiorità. Se non saprà reagire, tornare ad essere protagonista della scena politica e sociale, ciò non significherà che la distinzione tra sinistra e destra non abbia più motivo di essere: significherà piuttosto che la sinistra avrà perso la partita e che la non sinistra avrà vinto. Se poi per sempre o meno, si vedrà.

Non si parla mai tanto di valori, quanto nei tempi di cinismo. Questo, a mio parere, è uno di quelli. Le discussioni e i conflitti sulle questioni che si dicono “eticamente sensibili” (come se le questioni, non gli esseri umani, fossero sensibili) sono un’ostentazione di valori. Tanto più perentoriamente li si mette in campo, tanto più ci si sente moralmente a posto. Che cosa sono i valori? Li si confronti con i principi. Principi e valori si usano, per lo più, indifferentemente, mentre sono cose profondamente diverse. Possono riguardare gli stessi beni: la pace, la vita, la salute, la sicurezza, la libertà, il benessere, eccetera, ma cambia il modo di porsi di fronte a questi beni. Mettendoli a confronto, possiamo cercare di comprendere i rispettivi concetti e, da questo confronto, possiamo renderci conto che essi corrispondono a due atteggiamenti morali diversi, addirittura, sotto certi aspetti, opposti.

Il valore, nella sfera morale, è qualcosa che deve valere, cioè un bene finale che chiede di essere realizzato attraverso attività a ciò orientate. E un fine, che contiene l’autorizzazione a qualunque azione, in quanto funzionale al suo raggiungimento. In breve, vale il motto: il fine giustifica i mezzi. Tra l’inizio e la conclusione dell’agire “per valori” può esserci di tutto, perché il valore copre di sé, legittimandola, qualsiasi azione che sia motivata dal fine di farlo valere. Il più nobile dei valori può giustificare la più ignobile delle azioni: la pace può giustificare la guerra; la libertà, gli stermini di massa; la vita, la morte, eccetera. Perciò, chi molto sbandiera i valori, spesso è un imbroglione. La massima dell’etica dei valori, infatti, è: agisci come ti pare, in vista del valore che affermi. Che poi il fine sia raggiunto, e quale prezzo, è un’altra questione e, comunque, la si potrà esaminare solo a cose fatte.

Se, ad esempio, una guerra preventiva promuove pace, e non alimenta altra guerra, lo si potrà stabilire solo ex post. I valori, infine sono “tirannici”, cioè contengono una propensione totalitaria che annulla ogni ragione contraria. Anzi, i valori stessi si combattono reciprocamente, fino a che uno e uno solo prevale su tutti gli altri. In caso di concorrenza tra più valori, uno di essi dovrà sconfiggere gli altri poiché ogni valore, dovendo valere, non ammetterà di essere limitato o condizionato da altri. Le limitazioni e i condizionamenti sono un almeno parziale tradimento del valore limitato o condizionato. Per questo, si è parlato di “tirannia dei valori” e, ancora per questo, chi integralmente si ispira all’etica del valore è spesso un intollerante, un dogmatico.

Il principio, invece, è qualcosa che deve principiare, cioè un bene iniziale che chiede di realizzarsi attraverso attività che prendono da esso avvio e si sviluppano di conseguenza. Il principio, a differenza del valore che autorizza ogni cosa, è normativo rispetto all’azione. La massima dell’etica dei principi è: agisci in ogni situazione particolare in modo che nella tua azione si trovi il riflesso del principio. Per usare un’immagine: il principio è come un blocco di ghiaccio che, a contatto con le circostanze della vita, si spezza in molti frammenti, in ciascuno dei quali si trova la stessa sostanza del blocco originario. Tra il principio e l’azione c’è un vincolo di coerenza (non di efficacia, come nel valore) che rende la seconda prevedibile. Infine, i principi non contengono una necessaria propensione totalitaria perché, quando occorre, quando cioè una stessa questione ne coinvolge più d’uno, essi possono combinarsi in maniera tale che ci sia un posto per tutti. I principi, si dice, possono bilanciarsi. Chi agisce “per principi” si trova nella condizione di colui che è sospinto da forze morali che gli stanno alle spalle e queste forze, spesso, sono più d’una. Ciascuno di noi aderisce, in quanto principi, alla libertà ma anche alla giustizia, alla democrazia ma anche all’autorità, alla clemenza e alla pietà ma anche alla fermezza nei confronti dei delinquenti: principi in sé opposti, ma che si prestano a combinazioni e devono combinarsi. Chi si ispira all’etica dei principi sa di dover essere tollerante e aperto alla ricerca non della giustizia assoluta, ma della giustizia possibile, quella giustizia che spesso è solo la minimizzazione delle ingiustizie.

Passando ora da queste premesse in generale alle loro conseguenze circa il modo di legiferare sulle questioni “eticamente sensibili” di cui si diceva all’inizio, avvicinandoci così alle discussioni odierne sul tema dell’aborto, qui prese a esempio (ma ci si potrebbe riferire anche ad altro, come l’eutanasia, la fecondazione assistita, ecc.), si può stabilire un’altra differenza a seconda che si adotti l’etica dei valori o quella dei principi. Nel primo caso (il caso del valore), saranno appaganti le norme giuridiche che proteggono in assoluto il bene assunto come valore prevalente, e inappaganti le norme giuridiche che danno rilievo, cercando di conciliarli relativizzandoli l’uno rispetto all’altro, a beni diversi. Possiamo parlare, per gli uni, di assolutismo etico-giuridico; per i secondi, di pluralismo (non certo, evidentemente, di relativismo etico, equivalente a indifferenza morale).

Nell’assolutismo, si trovano a casa propria tanto coloro che parlano dell’aborto, né più né meno, come di un assassinio (oggi si dice “feticidio”), quanto coloro che ne parlano come diritto incondizionato. Assassinio e diritto sono due modi per dire il riconoscimento assoluto, come valori, della vita o della libertà. I primi, in nome del valore prevalente della vita del concepito, si disinteressano di tutto il resto: la salute e la vita stessa della donna, messa in pericolo dagli aborti illegali e clandestini; i secondi, in nome dell’autodeterminazione della donna come valore prevalente, si disinteressano della sorte del concepito. Costoro, pur su fronti avversi, si muovono sullo stesso terreno e possono farsi la guerra. Ma, tutti, si troveranno insieme, alleati contro coloro che, ragionando diversamente, non accettano il loro assolutismo.

Questo ragionar diversamente, cioè ragionar per principi, è certo assai più difficile, ma è ciò che la Costituzione impone di fare: la Costituzione, ciò che ci siamo dati nel momento in cui eravamo sobri, a valere per i momenti in cui siamo sbronzi. Orbene, la Costituzione, attraverso l’interpretazione della Corte costituzionale, dice che nella questione dell’aborto ci sono due aspetti rilevanti, due esigenze di tutela, due principi: l’uno, a favore del concepito la cui situazione giuridica è da collocarsi, “con le particolari caratteristiche sue proprie”, tra i diritti inviolabili della persona umana, il diritto alla vita; l’altro, a favore dei diritti alla vita e alla salute, fisica e psichica, della madre, che può essere anch’essa “soggetto debole”. Quando entrambe le posizioni siano in pericolo, occorre operare in modo di salvaguardare sia la vita e la salute della madre, sia la vita del concepito, quando ciò sia possibile. Quando non è possibile, cioè quando i due diritti entrano in collisione, deve prevalere la salvaguardia della vita e della salute della donna, “che è già persona”, rispetto al diritto alla vita del concepito, “che persona non è ancora”. Dunque: si parla di diritti della donna e del concepito, ma non si parla mai di aborto come (dicono i giuristi) “diritto potestativo” della donna, né, al contrario, di dovere di condurre a termine la gravidanza. Ci si deve districare tra le difficoltà e non ci sono soluzioni a un solo lato.

Non interessa, ora, se la legge 194 bene abbia svolto il suo compito. Interessa il modo di ragionare e di porsi di fronte a questo “problema grave”, un modo non intollerante, carico di tutte le possibili preoccupazioni morali, aperto alla considerazione di tutti i principi coinvolti. Se nel dibattito pubblico, si usano quelli che si sono detti “esangui fantasmi in lotta per diventare i tiranni unici delle coscienze”, cioè i valori, la legge che ne verrà sarà solo sopraffazione.

C’è poi un altro aspetto della distinzione valore-principi, importante per il legislatore. Il ragionare per valori è compatibile, anzi esige leggi tassative: tutto o niente, bianco o nero, lecito o illecito, vietato o permesso. Il ragionar per principi spesso induce la legge a fermarsi prima, rinunciare alle regole generali e astratte e a rimettere la decisione ultima alla decisione responsabile di chi opera nel caso concreto. Prendiamo la discussione odierna circa la sorte degli “immaturi”, i nati diverse settimane prima del tempo, portatori di deficienze nello sviluppo di organi e funzioni destinate a pesare più o meno pesantemente sull’esistenza futura, sempre che ci sia. C’è un qualunque legislatore che possa ragionevolmente imporre una regola assoluta circa il che fare? Per esempio, la rianimazione sempre e a ogni costo, senza considerare nient’altro? Solo la cieca assunzione della vita come valore assoluto, della vita come mera materia vivente, potrebbe giustificarla. Ma sarebbe, in molti casi, un arbitrio. Ogni caso è diverso dall’altro e i rigidi automatismi legali, quando si tratta di principi da far valere in situazioni morali di conflitto, si trasformano in sopraffazione.

C’è un dialogo classico tra Alcibiade e Pericle, riferito da Senofonte, che ci fa pensare. Il discepolo chiede al maestro, semplicemente: che cosa è la legge? Pericle risponde: ciò che l’assemblea ha deciso e messo per iscritto. Anche la sopraffazione, decisa e messa per iscritto? No, questa non sarebbe legge. È legge solo quella che riesce a “persuadere” tutti quanti, il resto è solo violenza in forma legale. Chi professa valori assoluti non si propone di persuadere ma di imporre. Chi ragiona per principi può sperare, districandosi nella difficoltà delle situazioni complicate, di essere persuasivo; naturalmente a condizione che si sia ragionevoli, non fanatici.

L’inferno dei nuovi Ulisse.

Prima che «‘l mar fu sovra noi richiuso»

Il «cratere» scavato dai due anni di governo. La «liquidazione della sinistra» decisa dal Pd. La natura «non negoziabile» delle politiche di mercato. Lo «spavento e la disperazione» di milioni di donne e di uomini. Marco Revelli non risparmia toni apocalittici sullo stato delle cose e le prospettive della sinistra. Nell’«inverno del nostro scontento», il colloquio con il sociologo torinese non può non partire però da un bilancio del governo Prodi.

«Gli ultimi due anni hanno scavato un cratere con cui dobbiamo per forza fare i conti - avverte Revelli - soprattutto Rifondazione è stato colpita al cuore. Non per un fallimento amministrativo o per incapacità delle persone, dei ministri o dei singoli parlamentari. Il problema è che è stata completamente sconfitta una linea politica: quella secondo cui era possibile spostare gli equilibri politici e sociali da una posizione di governo. É la vera differenza con il ‘900 maturo del «compromesso socialdemocratico»: questa società non si lascia attraversare da un governo non omologato. Le politiche hanno una «anelasticità» inedita e non sono, per così dire, «negoziabili». Questo è stato il quadro del governo Prodi. E dopo il voto temo che sarà anche peggio. Siamo entrati in un’epoca strutturalmente «impolitica». Intendendo con questo termine il venir meno dell’essenza della politica moderna: la capacità di deliberare l’ordine sociale sulla base di un progetto o di un’idea di «società giusta». La capacità di trascendere l’ordine dell’esistente per «edificarne» un altro liberamente e collettivamente scelto.

Proprio la caduta del governo ha costretto la sinistra ad accelerare il processo unitario. Ma questa accumulazione di forze può bastare a cambiare il quadro?

É una sinistra dai riflessi spaventosamente lenti, che stenta a cogliere la dimensione di quello che sta succedendo. La svolta impressa dal Pd sconvolge tutta la mappa delle identità politiche italiane. É una liquidazione chiarissima, esplicita e credo irreversibile, perfino del concetto di centrosinistra. Di una possibile (e naturale, vista la natura del centrodestra italiano) alleanza tra la sinistra cosiddetta moderata e la sinistra cosiddetta radicale. Possiamo dire anche di più: il Pd è il taglio voluto, deliberato e proclamato con le ultime radici di un’identità «di sinistra». Penso ai suoi simboli, alla negligenza su resistenza e antifascismo nella carta dei valori, ai suoi temi identificanti. Penso alla scandalosa campagna d’autunno contro la «città fragile» - lavavetri, vagabondi, mendicanti, nomadi - scatenata dai sindaci «democratici» come primo atto di quel processo «costituente». É tragico che la parte maggioritaria dell’ex-sinistra abbia fatto questa scelta.

Ma perché consideri la fine del centrosinistra un male? La sinistra non è finalmente più libera di essere se stessa?

Certo, ma ciò che mi rende in qualche misura «disperato» è che un’alternativa credibile e all’altezza del «terremoto centrista» ancora non si vede. Ovunque vada, e giro parecchio, trovo gente frastornata e spaventata dalle scelte del Pd che però non sembra prendere in grande considerazione il voto a sinistra. Se l’alternativa di sinistra vuole essere davvero «nuova» dovrebbe misurarsi con una società trasformata nel profondo, essere capace di superare vecchi dogmi (come quello sviluppista) o il modello di partito burocratico novecentesco, o almeno di metterli apertamente in discussione. Invece mi sembra di assistere a una sorta di congelamento delle idee di fronte alle minacce, e al prodromo, della liquidazione della sinistra tout court. C’è una forte difficoltà a guardare oltre la scadenza elettorale: al quadro e al vuoto che si apriranno se non si innova radicalmente. Soprattutto c’è, e pesa, una totale sottovalutazione dei guasti profondi di questo anno e mezzo di governo.

Si profila se non un «governissimo» tra Pd e Pdl quanto meno una condivisione esplicita dell’agenda e delle forme della rappresentanza. In qualche caso perfino dei programmi politici.

Il Pd, in questo senso, è un emblema paradossale di questa «fine della politica» o della sua «inoperosità». Proprio il Pd, che si presenta come iper-politico, come il trionfo della tecnicalità politica, è in realtà essenzialmente im-politico. La sua linea è accettare il reale così com’è, cioè la negazione stessa della politica. Per Veltroni il paese reale è irriformabile (per questo sceglie di «riformare» se stesso, per adattamento). E quando dice che «non ci sono due Italie ma una sola» condanna a morte la politica, perché fa coincidere il paese reale con la sua autobiografia negativa. Perché sanziona la riconciliazione di tutta l’Italia, compresa la minoranza che vi si era opposta, con la propria parte peggiore, con i propri vizi più radicati, mentre la politica dovrebbe servire proprio al riscatto. L’idea di un’altra Italia non è più data, oppure è presentata come un’ostacolo alla «bella unità degli opposti», come un’idea residuale o di pura testimonianza.

In questo quadro la sinistra parlamentare rischia veramente di scomparire?

Che dire? Ha consumato gli ultimi 4 mesi a discutere di riforma elettorale. E quando propone la propria immagine di società la dipinge in modo stereotipato o aproblematico. Va benissimo dire che si deve partire dal lavoro e dal rapporto capitale-lavoro. Ma quale lavoro? Quali «figure» del lavoro nella frantumazione del modello fordista e della grande fabbrica? É un momento in cui il lavoro stenta persino a fare racconto di sé. Devono bruciare vivi i lavoratori, i loro corpi, perché ci si accorga che c’è ancora chi lavora con il ferro e con il fuoco. Che non ci sono solo «Imprenditori» e «imprenditori di se stessi».

Perché secondo te il lavoro stenta ad assumere una sua soggettività? Perché l’unico soggetto su piazza è il capitale?

Sono domande impegnative ma se la sinistra non risponde è fuori gioco. Gli altri, purtroppo, una risposta l’hanno data: per loro l’unico soggetto in campo è l’impresa (e questo mostra, se ancora ce ne fosse bisogno, il grado di impoliticità della situazione, perché l’impresa è soggetto «privato» per definizione). Il Pd di Veltroni presenta il programma della Confindustria punto per punto. Candida come capolista il figlio di un imprenditore secondo il vecchio principio dinastico. E non è nemmeno il figlio di un «capitano d’industria», di un self made man con vocazione da produttore ma il figlio di un imprenditore - finanziere, uno scalatore d’imprese altrui. Poi, certo, candida anche un operaio, uno che ha dovuto rischiare la pelle per conquistarsi una visibilità simbolica e come ornamento simbolico è stato scelto: il testimone di un residuo e di una difficoltà. A me pare un’operazione spaventosamente cinica, ma i nostri che dicono? Sono silenti.

Come ti spieghi questa afasia?

La sinistra è afona per due motivi. Per la voragine dell’esperienza di governo non ripensata (e un lutto non rielaborato è velenoso come ogni «rimosso»). E per un ritardo culturale pesante nell’analisi della società. Anche se comprendo che è difficile affrontare questi temi in una campagna elettorale in cui lotti per la sopravvivenza.

Ti aspettavi un’offensiva clericale come quella sull’aborto, che ormai non salva più nemmeno le apparenze?

É un altro aspetto di debolezza di una sinistra troppo timida anche sul terreno dei valori. Oggi se vuoi conquistare il campo devi avere una visione etica e valoriale molto forte. Non ti puoi muovere solo a difesa delle conquiste dei decenni scorsi, devi presentare una visione coerente capace di suscitare passioni ed entusiasmo per le generazioni che vivono nel mondo trasformato di oggi. Devi toccare i nervi della vita vissuta. Invece persino nei suoi comportamenti quotidiani, questa sinistra politica, nei suoi protagonisti pubblici, è desolante. Nelle relazioni al suo interno, per dire, è incapace di offrire l’esempio di uno stile diverso, non riesce a superare le meschinità di una pratica micro-competitiva. Di un ben visibile «marcarsi a vicenda». Anche il modo in cui si è arrivati, obtorto collo, a questa Sinistra arcobaleno è un po’ desolante, senza entusiasmo e senza segnali nuovi. Il movimento operaio delle origini lanciava una profonda speranza di palingenesi, di cambiamento morale, che oggi è spaventosamente assente. Gli altri ripropongono le peggiori visioni tradizionaliste però intanto si accampano e condizionano il terreno dei valori. Non puoi affrontare la loro sfida con una logica burocratica.

Ma non ti pare che questa competizione sui valori sia fuori dal tempo? Se guardiamo gli Usa a me pare che la campagna presidenziale 2008 si muova su tutt’altro: assistenza sanitaria, crisi economica, fallimenti in politica estera...

Qui in Italia siamo arretrati, è vero. L’operazione delle destre è tecnicamente reazionaria, da Restaurazione stile 1815. Non ci si accorge nemmeno più che proprio le figure che hanno incarnato quelle idee politiche non reggono il terreno da loro stessi prescelto. Lasciamo stare Bush ma anche Sarkozy si sta rivelando un guitto di periferia, un bambolotto di pezza. La nostra è una destra che mescola impunemente i «padre pii» con le veline. Che fa uno spettacolo grottesco di uomini che celebrano il family day con 2 o 3 famiglie a carico. Come si fa a non vedere la mistificazione di chi celebra la famiglia di giorno e la sera si vanta di andare al night? La grande stampa nazionale su questo è compiacente o reticente. Non siamo più nemmeno capaci di giudicare gli uomini per quello che sono. Per demistificare aspetti così ridicoli ormai servirebbe un neopuritanesimo molto forte, da levellers della rivoluzione inglese del 1648, il radicalismo etico di Puritanesimo e Libertà, contro la controriforma postmoderna di una combriccola di reazionari che usano l’innovazione più radicale per restaurare la peggiore Tradizione. Come antidoto una volta c’erano i Salvemini, i Gobetti, gli Ernesto Rossi... esponenti, appunto, di un’«Altra Italia», ma io oggi tutto questo rigore non lo vedo. Vedo tanti seguaci di Padre Pio e dell’Opus dei a destra, al centro, e anche più in qua...

Dipingi un quadro veramente devastante. Ma c’è una possibilità di essere ancora interessati a questa sinistra?

Un interesse c’è sempre. Per me la priorità, oggi, è tenere aperta la possibilità di una lotta politica. Bisogna tenere un varco. Per questo spero che da queste elezioni non esca distrutta o tanto marginale da risultare invisibile. Ma questa speranza non ha nulla a che fare con ciò che questa sinistra è oggi. Riguarda quello in cui potrebbe trasformarsi. Senza la possibilità di un’alternativa, la notte della politica calerà del tutto e il mare si chiuderà sopra di noi, come nel ventiseiesimo canto dell’Inferno.

Ragioniamo su questo passaggio di crisi politica. Cerchiamo di individuarne le cause nascoste. Spesso accade che si prendano per cause quelle che sono conseguenze e viceversa. Di qui, l'attuale confusione strategica, la vera madre di tutte le sconfitte tattiche. Sgombriamo il campo dalla tentazione di dire che siamo a un passaggio decisivo, che si tratta della crisi finale di qualcosa che c'è stato fin qui. Non è vero. Non c' è nessuno stato d'eccezione. C'è una normalità che stancamente si ripete, senza che uno scarto, un'eccedenza, un esodo, un che di incomprensibile, irrompa sulla scena pubblica domandando di essere appreso col pensiero.

E', se possibile, sobriamente che dobbiamo ragionare. Ad esempio: questo terrore di un cambio di governo, francamente non riesce, con tutta la buona volontà, ad innescare qualcosa di oscuramente perturbante. Per lo stesso motivo per cui l'altra, appena trascorsa, esperienza di governo non ha suscitato qualcosa di particolarmente affascinante. Piuttosto dovremmo imparare a utilizzare i passaggi dentro una prospettiva, a strumentalizzare il momento per pensare l'altro da questo.

Insomma, per venire a parlare di cose comprensibili: è proprio vero che il nostro bipolarismo politico non funziona per via delle cattive leggi elettorali? Questa leggenda, che ci assilla da inizio anni '90, non sarebbe ora di mandarla in soffitta, insieme ai manichini dei referendari? Il bipolarismo non funziona, perché non ci sono i poli. Sono finti, sono virtuali, second life , nulla di socialmente reale, la prima vita delle persone sta fuori. Le coalizioni non sono troppo piene di sigle, sono troppo vuote di soggetti.

Appunto, la causa non è la frammentazione politica, questa è la conseguenza di una frammentazione sociale. Le coalizioni la descrivono, la rappresentano passivamente, la subiscono territorialmente, senza la capacità di leggerla, interpretarla, ordinarla politicamente. Perché le coalizioni non sono «forze politiche», come erano un tempo i partiti. Sono aggregazioni di interessi particolari, prima ancora che di ceti politici, di ceti sociali. Questa è una società cetuale. Con la scomparsa delle grandi classi, si è passati a una società di piccole caste, di corpi miniaturizzati, di famiglie-azienda in crisi. E' la «mucillagine sociale», di cui ci ha parlato l'ultimo rapporto Censis, il «sociale selvaggio» di cui parla un certo pensiero femminista, o la «coriandolizzazione» sociale che ha ripreso monsignor Bagnasco.

E' un'altra leggenda quella della politica scollata e lontana dalla società. In verità, è troppo intrisa in essa e troppo da essa condizionata. Le somiglia troppo. La cosiddetta casta politica è anch'essa un prodotto di questo corporate capitalism in sedicesima. Corpi e strati sono diffusi, favori e privilegi sono richiesti, questa virtuosa società di individui è in realtà un aggregato frantumato e informe di corrosi particolarismi. La società va messa in forma, e in forma politica. E in una storia come la nostra di Stato debole, sono necessarie organizzazioni politiche forti. L'aveva capito quel ceto politico di eccellenza, che aveva scritto la Costituzione repubblicana. Non l'ha più capito questo ceto politico di risulta della cosiddetta seconda repubblica, che si è lasciato processare sulle piazze, dopo aver dilapidato un'eredità, quella eredità, senza investire nulla in qualcosa d'altro. La crisi attuale è grave perché va oltre la messa in questione del primato della politica, passa ad attaccare con successo l'autonomia della politica. Il combinato disposto di economia, finanza, tecnica e comunicazione si è saldato, qui da noi, con un devastante senso comune di massa antipolitico.

Badate. Questa è la conseguenza vera di quel cambio di egemonia culturale da sinistra a destra, che si è realizzato dalla seconda metà degli anni '80. La crisi italiana della politica nasce lì. Perché, qui da noi, in un paese politicizzato al massimo, se non è presente sulla scena pubblica un'istanza di grande trasformazione, portata e praticata da una forza organizzata, la politica entra in crisi. E produce questo presente riduzionismo tecnicistico: la funzione dell'intellettuale ridotta a servizio di staff, l'attività politica ridotta a rito elettorale, la democrazia ridotta a conta quantitativa, per di più truccata da leggi-truffa. E non da ultimo, anzi per primo, l'azione di governo ridotta ad amministrazione di impresa. Se non mettiamo a tema che la crisi della politica, prima ancora che di carattere morale, è di carattere culturale, non riusciremo a riafferrare il bandolo della matassa.

La crisi grave chiede risposte serie. La soluzione non va cercata in una falsa coesione nazionale, ma in un buon conflitto sociale. Le alternative politiche devono ristrutturarsi su punti di vista alternativi circa il modello sociale che propongono. La competizione è su quale tra i punti di vista, parziali non particolari, sia in grado di dare rappresentazione di un interesse generale. Le proposte hanno oggi bisogno di essere prima di tutto chiare.

Bene ha fatto il Partito democratico a decidere di andare da solo. Per una ragione di fondo: perché ha bisogno, qui e ora, di misurare la sua forza nel paese reale. Solo sulla base di questa verifica potrà progettare il senso, storico non solo politico, di una sua missione, se sarà in grado di darsene una. Credo che abbia il diritto della prova. E dobbiamo darglielo. Sia benvenuta la morte dell'insipido Ulivo parisiano e la fine della confusissima Unione prodiana. L'importante è che non si cambi solo schema elettorale, ma che si metta in campo una sfida strategica. La destra segue, un po' oggi, un altro po' domani. E che segua, è già un passo su quel cammino per un nuovo cambio di egemonia, che rimane l'obiettivo di fondo: forse più importante del risultato dell'immediato confronto elettorale. Tenere l'iniziativa conta di più che vincere di misura. E comunque: ristrutturare il campo delle forze politiche è l'unico varco che permette a questo punto di uscire, in avanti, da questa vera e propria crisi repubblicana. Chi saprà farlo prima, avrà un vantaggio più duraturo.

Questo vale, forse tanto più, per quello che si muove a sinistra del Pd. Salta il vetusto, e oscuro, schema delle due sinistre. Si profila un partito di centro-sinistra e un partito di sinistra. Non è una semplificazione, è una razionalizzazione più che mai opportuna. Non serve a nulla, e non fa capire nulla, dire polemicamente: quello è il centro, noi siamo la sinistra. Anche qui devono emergere le differenze vere. In quasi tutti i sistemi di occidente, una vocazione maggioritaria si declina ormai o come centro-destra o come centro-sinistra. Questa è la condizione - formale - che costringe la sinistra a ripensare se stessa. Deve differenziarsi da un centro che guarda a sinistra e da una sinistra che guarda al centro. Non è la stessa cosa che differenziarsi da una socialdemocrazia. E' una condizione nuova. Lo spazio è più stretto. Ed è più stretto perché la condizione - materiale - spinge la sinistra ad arroccarsi, ad autoemarginarsi, a considerarsi residuale e testimoniale. Mentre costruisce il suo nuovo esperimento, la sinistra deve combattere contro questo «destino».

Il lavoro, che non è più universo ma pluriverso: è questa la difficoltà vera, dura, della sinistra politica, oggi. Sul punto, è necessario un grosso approfondimento, di analisi e di pensiero. Il lavoro è in frantumi, non più solo per la postazione del lavoratore singolo nel processo produttivo, ma per lo stato della condizione lavorativa nel rapporto sociale. Un lavoro socialmente frantumato non è politicamente visibile. Bisogna farlo vedere. Questa è la visione di cui si deve far carico la nuova sinistra. Portare alla luce questo nascondimento della condizione umana del lavoratore. Esattamente quello che il partito di centro-sinistra non può fare. Non è che non vuole farlo, non può. Per questo è partito democratico e non socialdemocratico. Con una sinistra che si rapporta al centro, vuole rappresentare, con molte ragioni di realtà, quell'opinione di sinistra, con consistenza di massa, che non ha più come riferimento il valore politico del lavoro. Questo ruolo gli va lasciato.

Però, allora, il partito della sinistra ha come compito primario quello di riportare il valore del lavoro al centro dell'agenda politica. Per farlo, ha bisogno di riportarlo per prima cosa al centro del suo progetto politico. Questa non è una pratica escludente di tutti gli altri temi, e non è nemmeno includente. Si tratta di offrire un fuoco intorno a cui aggregare per articolare. Basta sapere a chi si parla, scegliere il proprio campo di ascolto, costruire soggettività sociali certe e con esse e per esse elaborare cultura politica alterativa.

Sinistra unita, sì, ma in che senso plurale? Bisogna intendersi. La ricchezza di esperienze, movimenti, associazioni ha da trovare punti e spazi, magari inediti, di organizzazione, stabile, in lotta contro il tempo. La rete deve rendere visibile una trama. Anche qui, il pluriverso sociale va unificato politicamente. Non serve il circo Barnum. Bisogna offrire, sulle questioni decisive, un punto di vista e una forza in grado di portarlo.

Io non so se la prossima sarà una legislatura costituente. Mi pare di capire che la prossima sarà una campagna elettorale costituente. Si presentano forze politiche nuove in corso d'opera. E' positivo che si presentino nella forma partito: un passo importante per cominciare a reagire alla, ripeto, devastante ondata antipolitica. Il confronto e il risultato saranno una sorta di monitoraggio per ognuno dei soggetti in campo. Dopo, ognuno saprà meglio come procedere. Nel processo generale, il partito della sinistra deve dare il suo contributo in positivo, con lezioni di costume, creatività organizzativa, profondità culturale, autorevolezza propositiva. Le nuove armi della critica sono di questo tipo. Alzare il tiro a volte è l'unico modo per cogliete il bersaglio.

In una concezione non dogmatica ma (auto)critica della democrazia, quale è propria di ogni spirito laico, nessuna decisione presa è, per ciò stesso, indiscutibile. Il rifiuto della ri-discussione è per ciò stesso una posizione dogmatica, che può nascondere un eccesso o un difetto di sicurezza circa le proprie buone ragioni. Questo, in linea di principio, riguarda dunque anche la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, "la 194", che pur ha dalla sua due sentenze della Corte costituzionale e un referendum popolare.

Ma una discussione costruttiva e, mi sia permesso dire, onesta è il contrario delle parole d’ordine a effetto, che fanno confusione, servono per "crociate" che finiscono per mettere le persone le une contro le altre. Lo slogan "moratoria dell’aborto", stabilendo una "stringente analogia" (cardinal Bagnasco alla Cei, il 21 gennaio) tra pena di morte e aborto, accomunati come assassinii legali, ha sì riaperto il problema, ma in modo tale da riaprire anche uno scontro sociale e culturale che vedrebbe, nientemeno, schierati i fautori della vita contro i fautori della morte: i primi, paladini dei valori cristiani; i secondi, intossicati dal famigerato relativismo etico. Insomma, alle solite, un nuovo fronte di quello "scontro di civiltà" che, molti insofferenti della difficile tolleranza, mentre dicono di paventarlo, lo auspicano.

Siamo di fronte, come si è detto, a una "iniziativa amica delle donne"? Vediamo. La questione aborto è un intreccio di violenze. Innanzitutto, indubitabilmente, la violenza sull’essere umano in formazione, privato del diritto alla vita.

Ma, in numerose circostanze, ci può essere violenza nella gravidanza stessa, questa volta contro la donna, quando la salute ne sia minacciata, non solo nel corpo ma anche nella mente, da sentimenti di colpa o di sopraffazione, solitudine, indigenza, abbandono. La donna incinta, nelle condizioni normali, è l’orgoglio, onorato e protetto, della società di cui è parte; ma, nelle situazioni anormali, può diventarne la vergogna, il peso o la pietra dello scandalo, scartata e male o punto tollerata. D’altra parte, non solo la gravidanza, ma l’aborto stesso, percepito come via d’uscita da situazioni di necessità senza altro sbocco, si traduce in violenza anche verso la donna, costretta a privarsi del suo diritto alla maternità. C’è poi un potenziale di somma violenza nella capacità limitata delle società umane ad accogliere nuovi nati. La naturale finitezza della terra e delle sue risorse sta contro la pressione demografica crescente e la durata della vita umana. L’iniqua ripartizione dei beni della terra tra i popoli, poi, induce soprattutto le nazioni più povere a politiche pubbliche di limitazione della natalità che si avvalgono, come loro mezzo, dell’aborto.

Violenze su violenze d’ogni origine, dunque: violenza della natura sulle società; delle società sulla donna; della donna su se stessa e sull’essere indifeso ch’essa porta in sé. E’ certamente una tragica condizione quella in cui il concepimento di un essere umano porta con sé un tale potenziale di violenza. Noi forse comprendiamo così il senso profondo della maledizione di Dio: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze» (Gen. 3, 22). Si potrebbe dire che l’aborto, nella maggior parte dei casi, è violenza di deboli su più deboli, provocata da una violenza anteriore. Ma questa è la condizione umana, fino a quando essa patisce la crudeltà della natura e l’ingiustizia della società; una condizione che nessuna minaccia di pene anche severissime, con riguardo all’ultimo anello della catena, quello che unisce la donna al concepito, ha mai potuto cambiare, ma ha sempre e solo sospinto nella clandestinità, con un ulteriore carico di umiliazione e violenza, fisica e morale.

In questo quadro, che molte donne conoscono bene, che cosa significa la parola moratoria? Dove si inserirebbe, in questa catena di violenza? La domanda è capitale per capire di che cosa parliamo.

Una cosa è chiedere alle Nazioni Unite di condannare i Paesi che usano l’aborto come strumento di controllo demografico e di selezione "di genere". Un celebre scritto del premio Nobel Amartya Sen, pubblicato sulla New York Review of Books del 1991, ha richiamato l’attenzione sul fatto che «più di 100 milioni di donne mancano all’appello». Si mostrava lo squilibrio esistente e crescente tra maschi e femmine in Paesi come l’India e la Cina (ma la questione riguarda tutto l’estremo Oriente: quasi la metà degli abitanti del pianeta). Si prevede, ad esempio, che in Cina, nel 2030, l’eccesso di uomini sul "mercato matrimoniale" potrebbe raggiungere il 20%, con drammatiche conseguenze sociali. Le ragioni sono economiche, sociali e culturali molto profonde, radicate e differenziate. Le cause immediate, però, sono l’aborto selettivo e l’infanticidio a danno delle bambine, oltre che l’abbandono nei primi anni di vita. In quanto, però, vi siano politiche pubbliche di incentivazione o, addirittura, di imposizione, la richiesta di "moratoria" ha certamente un senso. Si interromperebbe la catena della violenza al livello della cosiddetta bio-politica, con effetti liberatori.

E diverso, in riferimento alle società dove l’aborto non è imposto, ma è, sotto certe condizioni, ammesso. "Moratoria" non può significare che divieto. Per noi, sarebbe un tornare a prima del 1975, quando la donna che abortiva lo faceva illegalmente, e dunque clandestinamente, rischiando severe sanzioni. Questo esito, per ora, non è dichiarato. I tempi paiono non consentirlo. Ci si limita a chiedere la "revisione" della legge che "regola" l’aborto. Ma l’obbiettivo è quello, come la "stringente analogia" con l’abolizione della pena di morte mostra e come del resto dice il card. Bagnasco: «Non ci può mai essere alcuna legge giusta che regoli l’aborto».

Qual è il punto della catena di violenza che la "moratoria" mira a colpire? E’ l’ultimo: quello che drammaticamente mette a tu per tu la donna e il concepito. Isolando il dramma dal contesto di tutte le altre violenze, è facile dire: l’inerme, il fragile, l’incolpevole deve essere protetto dalla legge, contro l’arbitrio del più forte. Ma la donna, a sua volta, è soggetto debole rispetto a tante altre violenze psicofisiche, morali, sociali, economiche, incombenti su di lei. La legge che vietasse l’aborto finirebbe per caricarla integralmente dell’intero peso della violenza di cui la società è intrisa: un peso in molti casi schiacciante, giustificabile solo agli occhi di chi concepisce la maternità come preminente funzione biologico-sociale che ha nell’apparato riproduttivo della donna il suo organo: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze», appunto. Si comprende, così, che la questione dell’aborto ha sullo sfondo la concezione primaria delle donne come persone oppure come strumenti di riproduzione. E si comprende altresì la ribellione femminile a questa visione della loro sessualità come ufficio sociale.

«La condizione della donna gestante è del tutto particolare» e non è giusto gravarla di tanto peso, ha detto la Corte costituzionale in una sua sentenza del 1975, la n. 27. Convivono due soggetti, l’uno dipendente dall’altro, entrambi titolari di diritti, potenzialmente in contraddizione: tragicamente, la donna può diventare nemica del concepito; il concepito, della donna. Da un lato, sta la tutela del concepito fondata sul riconoscimento costituzionale dei diritti inviolabili dell’uomo, «sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie», trattandosi di chi «persona deve ancora diventare». Dall’altro, sta il diritto all’esistenza e alla salute della donna, che «è già persona». Il riconoscimento pieno del diritto di uno si traduce necessariamente nella negazione del diritto dell’altro. Per questo, è incostituzionale l’obbligo giuridico di portare a termine la gravidanza, "costi quel che costi"; ma, per il verso opposto, è incostituzionale anche la pura e semplice volontà della donna, cioè il suo "diritto potestativo" sul concepito (sent. n. 35 del 1997). Si sono cercate soluzioni, per così dire, intermedie, ed è ciò che ha fatto "la 194", prevedendo assistenza sanitaria, limiti di tempo, ipotesi specifiche (stupro o malformazioni) e procedure presso centri ad hoc che accompagnano la donna nella sua decisione: una decisione che, a parte casi particolari (ragazze minorenni), è sua. La donna, dunque, alla fine, è sola di fronte al concepito e, secondo le circostanze, può essere tragicamente contro di lui. Qui, una mediazione tra i due diritti in conflitto (della donna e del concepito) non è più possibile: aut aut.

Le posizioni di principio sono incompatibili, oggi si dice "non negoziabili": l’autodeterminazione della donna contro l’imposizione dello Stato; la procreazione come evento di rilevanza principalmente privata o principalmente pubblica; la concezione del feto come soggetto non ancora formato o come persona umana in formazione; la legge come strumento di mitigazione dei disastri sociali (l’aborto clandestino) o come testimonianza di una visione morale della vita. Alla fine, il vero contrasto è tra una concezione della società incentrata sui suoi componenti, i loro diritti e le loro responsabilità, e un’altra concezione incentrata sull’organismo sociale, i cui componenti sono organi gravati di doveri, anche estremi. Si vede il dissidio, per così dire, allo stato puro nel caso della scelta tra la vita della madre e quella del feto, quando non possibile salvare e l’una e l’altra: la sensibilità non cattolica più diffusa dice: prevalga la vita della donna, persona in atto; la morale cattolica dice: prevalga la vita del nascituro, persona solo in potenza.

Secondo le circostanze. Sul terreno delle circostanze, a differenza di quello dei principi, è possibile lavorare pragmaticamente per ridurre, nei limiti del possibile, le violenze generatrici di aborto. Educazione sessuale, per prevenire le gravidanze che non si potranno poi sostenere; giustizia sociale, per assicurare alle giovani coppie la tranquillità verso un avvenire in cui la nascita d’un figlio non sia un dramma; occupazione e stabilità nel lavoro, per evitare alla donna il ricatto del licenziamento; servizi sociali e sostegni economici a favore della libertà dei genitori indigenti. Dalla mancanza di tutto questo dipende l’aborto "di necessità", che – si dirà - è però una parte soltanto del problema. Ma l’altra parte, l’aborto "per leggerezza", troverà comunque le sue vie di fatto per chi ha i mezzi di procurarselo, indipendentemente dalla legge. In ogni caso, non è accettabile che di necessità e leggerezza si faccia un unico fascio a danno dei più deboli, spinti dalla necessità, e li si metta sotto la cappa inquisitoriale della criminalizzazione e delle intimidazioni morali, come l’equiparazione dell’aborto all’omicidio e della donna all’omicida. La sorte dei concepiti non voluti si consumerà ugualmente, nel confort delle cliniche private o nella solitudine, nell’umiliazione e nel rischio per l’incolumità. L’esito del referendum del 1981 che, a grande maggioranza (il 68 %) ha confermato "la 194", dipese di certo dal ricordo ancora vivo di ciò che era stato l’aborto clandestino. Ci si può augurare che non se ne debba rifare l’esperienza, per ravvivare il ricordo.

«Con la caduta del governo Prodi si chiude una fase, quella che abusivamente era stata chiamata Seconda Repubblica. C'era una crisi incombente, che ha attraversato tutti questi anni, anche durante la permanenza a Palazzo Chigi di Berlusconi. Qual è la differenza con il periodo che c'era prima, con la cosiddetta Prima Repubblica? Che allora ci si dimetteva per un avviso di garanzia, oggi non ci si dimette neanche dopo una condanna a cinque anni». Insomma, detto con nomi e cognomi, «meglio Leone di Cuffaro e Mastella». Stefano Rodotà non se la sente di minimizzare la situazione di crisi del Paese e denuncia la grave questione morale che rischia di rendere ancora più forte la sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni. «E' passata l'idea che se non c'è una questione penalmente rilevante, allora un politico può fare quello che vuole. Ma la politica non si misura solo con i reati. C'è una deontologia che si chiama responsabilità e che non viene rispettata. E' vero c'è una crisi dei valori, ma non di quelli indicati dal Vaticano. Ha preso piede l'idea dell'arricchimento facile, a tutti i costi. Diciamolo: si chiude una fase che ha portato con sé un forte degrado culturale e politico».

Davvero Leone meglio di Cuffaro?

La classe politica attuale ha perso di credibilità. Quando Leone si dimise, lo fece per molto meno di quello di cui sono accusati alcuni esponenti politici oggi. Non aveva fatto nulla di penalmente rilevante. Fu sacrificato dai suoi colleghi per tentare di recuperare un po' di credibilità nell'opinione pubblica. Questo ci riporta all'oggi. Se Mastella avesse detto: ritengo che ci sia una persecuzione giudiziaria nei mie confronti e per questo vi chiedo solidarietà, ma certi comportamenti non sono ammissibili dal punto di vista etico, sarebbe stato diverso. Invece ha fatto venire in mente Craxi quando disse: così fan tutti. Non si può ricostruire la fiducia dei cittadini nella classe dirigente, quando si vede e si sente come si scelgono i primari. E' un costume inaccettabile, anche se non è perseguibile dai giudici.

Ha fatto bene Mastella a dimettersi?

Chi viene preso con le mani nel sacco, dovrebbe andar via. Da diversi anni non è più così. Con due conseguenze. Che si spara addosso ai giudici, quando sono stati i politici a mettersi nelle loro mani. Se avessero fatto come negli altri paesi, dove la classe politica espelle dal proprio corpo coloro che sono percepiti come illegittimi dall'opinione pubblica, non sarebbe andata così. In secondo luogo è accaduto che alcune persone singole, prive di responsabilità, si sono prese un diritto, che non hanno, di vita e di morte su un governo voluto dai cittadini.

Per continuare con i paragoni, vengono in mente le parole di Berlinguer sulla questione morale.

Esiste eccome una questione morale. Quando Berlinguer pose il problema, intravedendo la deriva che stava per prendere la politica, molti non lo capirono. Dissero che proponeva una società triste. Oggi chi prova a sollevare la questione, viene tacciato di essere moralista. Prevale in molti l'idea che la politica è sangue e merda... La politica è avere una forte deontologia, un rispetto delle regole.

Tronti, su questa pagine, diceva: attenti però a cadere nella dicotomia che vede da una parte una politica corrotta e dall'altra una società virtuosa.

Sono d'accordo che non si debba cadere in questa contrapposizione, che - tra le altre obiezioni - è stata quella che ha determinato la fine del sistema dei partiti anche quando non era il caso. Il mito della società buona contrapposta a una politica cattiva è un abbaglio che porta a pensare che quando si va davanti ai cittadini tutto si risolve. C'è stato in questi anni un gioco di legittimazione reciproca. Gli stessi striscioni che si trovano allo stadio li troviamo anche in Parlamento.

Per uscire da questa crisi basta secondo lei una nuova legge elettorale di cui dovrebbe prendersi carico un eventuale governo istituzionale?

La mia posizione su questo tema è molto netta. Una legge non basta, ma eviterebbe i disastri che saranno certamente prodotti andando a votare con questa legge o con quella, pessima, che uscirebbe dal referendum. Di fronte a questa, "il porcellum" è meglio perché dà il premio di maggioranza a quella forza che davvero ha superato il 50 per cento di preferenze. Qualsiasi sia la nuova legge, deve tenere conto di come, il 25 e il 26 giugno del 2006, si sono espressi i cittadini. Hanno infatti respinto un sistema di tipo presidenziale. Dire che si propone il modello francese, come forma di governo, vuol dire che il 26 giugno abbiamo scherzato. Non si può esaltare il potere dei cittadini solo quando fa comodo.

La caduta del governo è legata fattivamente (per le pressioni di Bagnasco) simbolicamente (per l'egemonia esercitata dalla Chiesa sui temi etici e sui diritti civili) alle pressioni del Vaticano.

Mi limito ad osservare quello che hanno fatto molti. C'è una coincidenza tra le decisioni rapide prese da Mastella e tre episodi: il discorso del pontefice sull'amministrazione del Lazio, le polemiche per la sua presenza all'inaugurazione accademica della Sapienza, il discorso di Bagnasco. Davanti all'attacco della Chiesa, la politica ha mostrato una crescente debolezza. Il tema dei diritti civili è stato progressivamente abbandonato. E' stato ritenuto, con un realismo molto comodo, che siccome non c'erano i numeri era meglio non rischiare. Questo sia per le unioni civili che per il testamento biologico.

Un governo poco coraggioso. Anche per questo ha pagato un prezzo così alto?

Io posso o meno apprezzare l'ultimo discorso di Prodi al Senato. Però ha fatto una cosa importante. E' andato lì e ha detto: ognuno si prende la responsabilità delle proprie decisioni. Perché, allora, su unioni civili e testamento biologico non è stata fatta la stessa cosa? Perché non si è andati in aula a dire: vediamo ora chi vota contro? Si sarebbe perso in Parlamento, ma si sarebbe detto al Paese, a una grande parte dell'opinione pubblica: guardate ci siamo noi che abbiamo a cuore i diritti civili. Oggi è questo il grande tema. Vado spesso in giro, in occasioni pubbliche, per parlarne. C'è sempre una grande attenzione e passione. C'è anche una parte del mondo cattolico, che non fa parte delle gerarchie, con cui si possono costruire alleanze.

Anche la Sinistra non è stata in grado di fare politica su diritti civili e questioni cosiddette eticamente sensibili?

Ci sono mille emergenze, lo so benissimo. L'economia, i morti sul lavoro, la cancellazione, non solo fisica, degli operai. Sono grandissimi temi. Nessuno lo nega. Ma la Sinistra ha sempre fatto anche grandi battaglie di libertà, battaglie che oggi sono state messe in un angolo. Prodi aveva davanti un interlocutore - la Chiesa - molto determinato, ma ha risposto con debolezza. Questo pontificato ha infatti teorizzato il rafforzamento del suo ruolo in Italia, per partire alla riconquista del mondo. Può essere una vocazione pastorale legittima, ma si è tradotta in un protagonismo politico molto forte. Non si vuol chiudere la bocca a nessuno, ma esistono regole democratiche che devono essere rispettate.

Il governo dell'Unione ha completamente dimenticato la legge 40. Lei che è uno dei maggiori critici della normativa, come giudica il comportamento dell'esecutivo uscente?

Ultimo il Tar del Lazio ha bocciato le linee guida e ha rimandato la legge alla Consulta perché si esprima sulla sua costituzionalità. Non ci sono solo le procure sotto l'occhio del ciclone per il loro rapporto con la politica. Nel silenzio della politica, c'è una magistratura che è consapevole di dover usare i parametri costituzionali per valutare la misura dei diritti dei cittadini. Tutti discutono di valori. C'è chi scrive anche un manifesto. In molti si dimenticano che ci sono quelli garantiti dalla Carta, che festeggia i 60 anni, ma senza che ne cogliamo in pieno il valore politico e simbolico ancora vivo. Sulla legge 40, penso che doveva essere inserita nel programma dell'Unione. Non è stato fatto con la scusa che la maggioranza non era favorevole. Se nella politica si fosse ragionato sempre con i numeri, le minoranze non avrebbe potuto o dovuto fare nessuna battaglia.

Tronti dice: la Sinistra per tornare ad essere forte deve, non solo essere, ma sentirsi minoranza.

Rispondo con una battuta. Non mi piace quando si ostenta la vocazione maggioritaria, ma neanche quando si ostenta quella minoritaria. Se però riconoscersi come minoranza serve a ricreare la propria identità allora sono d'accordo.

Quale identità? E' questa la sfida più importante?

Sicuramente si deve fare i conti con una perdita di cultura. Se anche a Sinistra si continua a dire che i diritti civili sono un lusso, è difficile il cambiamento. Retribuzioni e lavoro questioni centrali? Chi lo mette in dubbio. Ma sono altrettanto importanti anche gli altri diritti, le libertà. Scindere i due piani è pericolosissimo. Lo hanno fatto le dittature. Anche il fascismo diceva al popolo: avete i treni, avete il lavoro, avete da magiare, ma di che cosa vi lamentate? Il prezzo era libertà. Libertà e diritti civili devono essere per la Sinistra valori non rinviabili a un secondo tempo.

Quanto una maggior presenza delle donne nello spazio pubblico e del pensiero femminista può aiutare il cambiamento?

Faccio un esempio. Quattro tra le più importanti sentenze sui temi della vita e delle libertà sono state fatte da donne. L'ordinanza della Cassazione sul caso di Eluana, che ha stabilito il diritto a non essere prigioniera del suo stato vegetativo; la sentenza di Roma sul caso Welby che ha detto che l'anestesista non è perseguibile; le sentenze di Cagliari e Firenze che, anticipando il Tar, hanno stabilito la possibilità della diagnosi preimpianto. Un caso? No. Perché queste sentenze mostrano la centralità dei temi espressi dal movimento delle donne: cioè l'attenzione al corpo, il senso del limite inteso anche come una non ingerenza del legislatore sulla vita delle persone. Tutte questioni oggi dirimenti.

«Il punto non è rispettare l'intima convinzione dei politici, ma avere leggi che rispettino la libertà di agire di ciascuno di noi davanti alle decisioni importanti della vita» «La polemica sull'aborto non è solo una trappola tesa al governo, ma è sintomo della regressione culturale e politica che anche la sinistra vive». Non la considera una provocazione, una trappola tesa alla maggioranza di governo. Stefano Rodotà, giurista ed ex garante della privacy, crede invece che sia giusto valutare «con altro metro» la proposta di una «moratoria» sull'aborto lanciata dal Foglio di Giuliano Ferrara: «È il sintomo della grave regressione culturale e politica che stiamo vivendo», afferma. «Questo dibattito sta creando un clima che tende a rimettere in discussione, nel modo peggiore, un'acquisizione culturale e legislativa molto importante. Queste sono battaglie di lungo periodo che sarebbe un errore di sottovalutazione leggere solo con l'attualità. Non è affatto vero che a breve ci lasceremo alle spalle questa polemica: è stato introdotto nella discussione culturale italiana un tema che può avere effetti molto gravi».

Vale la pena parlare nel merito della proposta di una «moratoria» sull'aborto da portare in sede Onu al pari di quella contro la pena di morte?

Io parlerei piuttosto del clima che è stato creato per riproporre il tema della revisione della legge 194 e in genere per affrontare la questione dell'aborto. Ecco, penso che corrisponda perfettamente alla regressione culturale che stiamo vivendo. Lo dico per diverse ragioni, prima fra tutte l'improponibilità del paragone con la pena di morte: l'associazione con la moratoria dell'Onu è stato un colpo mediatico ma certamente non un contributo alla discussione seria di un tema che ha bisogno di grande consapevolezza culturale. L'aborto non è il risultato di politiche dissennate di chi non rispetta la vita ma è qualcosa che si può dire accompagna antropologicamente il genere umano.

La consapevolezza era il primo insegnamento del pensiero delle donne...

Sì, e in questo dibattito è stato completamente cancellato. La donna è sparita da questa discussione, è diventata semplicemente l'oggetto di macchine di dissuasione spacciate per politiche di di prevenzione. Quello che si cerca di sostenere - per esempio mettendo su comitati medici composti anche da psichiatri che dovrebbero valutare le richieste di aborto - è il presupposto che la donna non abbia autonomia di giudizio, capacità di decisione responsabile. La prevenzione poi è intesa solo come politica di dissuasione, anziché di informazione sulla contraccezione, compresa la pillola del giorno dopo che invece viene demonizzata, e sulla disponibilità di servizi sociali adeguati per le donne madri. Con questa politica di dissuasione, in altri tempi si arrivò fino all'aberrazione di proporre un premio per le donne che rinunciavano all'interruzione della gravidanza. Una delle cose più orribili per una società: comprare un bambino non curandosi del dramma psicologico e sociale che ciò produce.

E la sinistra si salva da questa regressione culturale?

Una parte della sinistra e del centrosinistra di fronte a questa offensiva mostra tutta la sua debolezza, la sua incapacità di reazione culturale prima ancora che politica: un altro aspetto della regressione che viviamo. Parlando della legge 194 bisognerebbe ricordare alcuni dati di fatto: l'abbattimento del numero di aborti, l'emersione dalla clandestinità che mieteva molte vittime, la fine del turismo abortivo che era un privilegio di classe, di chi poteva premettersi di prendere un charter per l'Inghilterra. Sempre per essere consapevoli della realtà, va ricordato che le politiche proibizioniste nei paesi come l'India dove si pratica l'aborto selettivo delle femmine sono state inefficaci perché aggirate con mille espedienti. E quando in quei paesi non era legalizzato l'aborto, le bambine nascevano e venivano ammazzate. L'aborto selettivo delle femmine è una prassi così antica che non si cancella da un giorno all'altro.

E sicuramente non si cancella promuovendo la cultura fondamentalista che vede la donna come un animale procreativo...

Assolutamente. L'idea della donna come contenitore, sul cui corpo il legislatore può impunemente legiferare senza tenere conto della sua volontà, è di nuovo un frutto della regressione culturale. Abbiamo letto in questi giorni un dato inquietante: in Lombardia due terzi dei medici sono obiettori di coscienza. Questo è un fatto grave e mi ricorda che già dopo la legge c'era chi chiedeva l'obiezione perfino per i portantini o per i cuochi dei reparti dove venivano praticati gli aborti. Fin da allora si voleva costringere la donna ad una condizione umiliante, invece di fornire un servizio adeguato. Allo stesso modo, l'accettazione sociale dell'handicap non è una predica da fare alla donna: è la disponibilità di servizi, di sostegno, di investimenti sociali.

Di nuovo si parla di rischio di eugenetica, uno spettro adombrato di tanto in tanto dalla destra e dalle gerarchie cattoliche...

Se non c'è una componente terroristica nella campagna anti interruzione di gravidanza, le argomentazioni finiscono per incidere assai poco. Ricordo benissimo che durante la campagna referendaria per la legge 194 il deputato democristiano Carlo Casini, oggi parlamentare europeo, andava in giro con un feto dentro un boccione. Si ricordi che i sostenitori della legge 40 difendevano il divieto per la diagnosi preimpianto dicendo che in caso di malformazioni la donna avrebbe potuto sempre ricorrere all'aborto terapeutico nel corso della gravidanza. Insomma, questo discorso sull'eugenetica non è posto con dati probanti e rimanda invece a una cultura che vuole la donna prigioniera di una sorta di pregiudizio negativo, non come un essere responsabile che manifesta il suo diritto a una scelta libera e individuale.

Si antepone invece la libertà di coscienza dei politici, non le pare?

Per carità, la libertà di coscienza va sempre presa in considerazione. Ma in realtà in queste materie cosiddette eticamente sensibili e che riguardano decisioni individuali, la libertà di coscienza che deve essere rispettata è quella della persona che deve prendere la decisione. Il punto chiave non è la libertà di coscienza del politico ma il fatto che la legge non può espropriare la libertà di coscienza di ciascuno di noi. E questo è un limite all'invasività della politica e all'uso proibizionista della legge. Inoltre è anche evidente che così la politica perde il suo senso di grande dibattito pubblico e si privatizza, e anche questo è sintomo della regressione culturale. Il confronto tra le idee lascia il posto all'arroccamento sulla torre d'avorio della propria coscienza, della quale non si risponde né alla politica né alla collettività. Ma attenzione all'effetto cascata delle obiezioni di coscienza: perché allora un giudice non potrebbe rifiutarsi di applicare una legge non conforme alla propria coscienza?

Nel mio libro ' The arts of life', non ancora pubblicato, parlo tra le altre cose di coloro che aiutavano gli ebrei in Polonia durante l'occupazione nazista. La punizione per questo tipo di reato era la pena di morte. Perché lo facevano? I sociologi non sono riusciti a trovare un correlazione tra idee politiche, forza delle fede e comportamento concreto. Io avanzo l'ipotesi che chi aiutava gli ebrei lo faceva perché sentiva che la vergogna fosse più forte della paura della morte. E questo, a pensarci bene, è un messaggio di speranza. Il nostro carattere conta nella storia... Zygmunt Bauman ha 82 anni, è nato a Poznan in Polonia, è sociologo britannico, professore emerito all'Università di Leeds e uno degli intellettuali più influenti di questo inizio di secolo. Ha coniato il termine ' Modernità liquida', ed è il titolo di un suo celebre libro. In ' Amore liquido', ha spiegato che i nostri sentimenti sono privi di punti di ancoraggio. E dopo aver dato alla stampa ' Vita liquida' e ' Società sotto assedio', ora l'editore Laterza sta per mandare in libreria ' Paura liquida', un altro suo importantissimo saggio. Ma prima di diventare l'acuto analista della condizione postmoderna, Bauman si è misurato con il cuore stesso della modernità: ha indagato su come l'illusione del progresso e del regno della ragione abbia reso possibile la Shoah e il crollo della civiltà (' Modernità e Olocausto', il libro che per la sua importanza sta accanto a ' La banalità del male' di Hannah Arendt). In questa intervista a ' L'espresso' parla della paura e del nostro bisogno della sicurezza.

Professor Bauman, ha detto che la vergogna è più forte della paura della morte. Ci vuole una situazione così estrema, come quella che ha descritto, per capirlo?

"No. E le faccio un altro esempio: pensi a persone come Vaclav Havel in Cecoslovacchia o Jacek Kuron in Polonia. Non hanno avuto carri armati a disposizione, né folle osannanti alla tv. Con la sola forza della volontà, con perseveranza e coraggio, con l'idea che si potessero pensare e mettere in atto cose 'impensabili' hanno saputo cambiare il vissuto delle persone e il presente dei loro paesi, e lasciare così nel mondo un segno concreto della loro esistenza".

Ma perché abbiamo bisogno di sicurezza? Per quale ragione temiamo il rischio? La paura una volta era materiale, il diavolo aveva un corpo, la natura era sconosciuta, mentre oggi è astratta?

"Il desiderio di 'sentirsi al sicuro' è comune a tutti gli umani, e forse non solo a loro: una volta lo chiamavano l''istinto di sopravvivenza'. Però per gli umani la sopravvivenza ha una senso molto più ampio che non per gli altri animali, comprende anche la salvaguardia del proprio status sociale e della dignità a fronte ai pericoli di fallimento e dell'umiliazione. Oggi, i pericoli per la sopravvivenza fisica e che derivano dai capricci della natura non sono così gravi come lo erano nel passato, i lupi sono spariti dai boschi, sono state inventate medicine che curano le malattie una volta ingauribili, ci sono gli antidolorifici... È cresciuta invece la preoccupazione di perdere l'identità sociale, di subire umiliazioni e di vedere calpestata la propria dignità. Oggi, il modo con cui guadagniamo i mezzi per vivere, i valori della professionalità, la valutazione che la societa dà alle virtù e ai successi, i legami intimi e i diritti acquisiti, tutto questo è fragile, provvisorio e soggetto alla revoca. E nessuno sa quando e da dove arriverà il colpo fatale. Mentre i nostri antenati sapevano bene che occorreva avere paura di lupi affamati o dei banditi sui cigli delle strade. Non è quindi l'astrazione a rendere i pericoli in apparenza più gravi, ma la difficoltà di collocarli, e quindi di evitarli e di controbatterli".

Per essere concreti, perché abbiamo paura degli immigrati, degli zingari?

"Perché le minacce più spaventose sono oggi nascoste in una specie di terra di nessuno, globale. Sono terribili, perché impercettibili e quindi fuori dai nostri, miseri mezzi di difesa (per esempio, capitali erranti o concorrenti avidi in grado di privarci del nostro posto di lavoro e dei nostri introiti, i terroristi, la criminalità organizzata, le epidemie). Gli immigrati sono l'incarnazione delle paure non pronunciate. Sono l'unica avanguardia visibile con l'occhio nudo, e che possiamo toccare con mano. Sono, come diceva Bertolt Brecht, i messaggeri della cattiva notizia: annunciano quanto sia fragile la nostra esistenza. E siccome sono qui, accanto a noi, possiamo finalmente intraprendere qualcosa di 'concreto' per arginare il pericolo. Chiudendoli nei campi profughi o deportandoli, 'bruciamo le forze ostili in effigie'. Scarichiamo così la tensione, ma non risolviamo niente".

Un'altra paura, il terrorismo. Perché se ne parla tanto, anche se le vittime non sono numerosissime?

"È proprio su questo che poggia la strategia dei terroristi: sono sicuri che le loro gesta creeranno molto più effetto psicologico e morale, parlandone, che non risultati e danni concreti, provocati delle loro armi primitive e artigianali. I terroristi possono contare sulla collaborazione dei media, che riportano su scala globale le loro azioni locali; su potenti armate che in rappresaglia per queste azioni semineranno distruzione e odio, procurando ai terroristi schiere di nuove reclute; sui governi che vedono nelle azioni terroristiche (quelle riuscite e quelle fallite, o pianificate o solo pensate, o in sospetto di essere pensate), una chance per dimostrare di essere vigili ed efficaci e di ottenere l'applauso degli elettori".

In ' Paura liquida', lei dice che i media mettono in continuazione in guardia dai presunti o veri pericoli in arrivo. Finita l'emergenza, passano a parlare di altri, futuri pericoli. E scrivendo di Katrina e del caos a New Orleans dopo l'uragano, riflette su come la civiltà sia fragile e crolli di fronte alle catastrofi. Pensiamo che la messa in guardia può salvarci dall'apocalisse?

"Sarebbe bello poter pensare che la nostra civiltà proceda verso il regno di ragione e delle moralità, seppure con qualche incidente di percorso. Ma non è così, purtroppo. Alcuni osservatori coltissimi sostengono che le impertinenti ambizioni della modernità sono cominciate con lo choc causato dal terremoto a Lisbona (nel 1755, ne ha dedicato pagine memorabili Voltaire, ndr): una natura cieca, priva di ogni razionalità, indifferente alle distinzioni tra virtù e peccato tra merito e colpa, colpisce a casaccio. Occorre quindi arginare la forza degli elementi, costringere la natura ad adoperare le categorie del bene e del male. E con l'ausilio della ragione e della tecnica l'umanità darà un ordine morale a un caos amorale".

Ha appena fatto la sintesi del pensiero illuminista. Il risultato?

"I risultati sono diversi dalle intenzioni. Non siamo riusciti a convincere la natura a ubbidire all'immaginazione umana di pregi e difetti. Però le conseguenze delle nostre azioni, ineccepibili dal punto di vista tecnico, ci colpiscono con una crudeltà irrazionale, crudeltà che finora attribuivamo proprio e solo alla natura".

E dove il problema?

"Il problema sta nel fatto che, nonostante l'evidenza, non si sono mai spente le promesse di poter trasferire sulla tecnica e sui suoi prodotti il compito di risolvere le questioni umane e le ambizioni di trasformare il mondo (e i suoi abitanti), secondo gli imperativi della ragione tecnico-scientifica".

Da dove viene questa resistenza ad arrendersi all'evidenza?

"Lo ha chiarito, in parte Ulrich Beck (sociologo tedesco, ndr) parlando dei pericoli di oggi e del passato. A differenza di quelli antichi, i pericoli di oggi non sono percepibili con l'occhio nudo. Non sono visti finché non li portano alla nostra conoscenza gli esperti, che sono attrezzati per farlo. La nostra futura esistenza dipende quindi in gran parte dalla nostra attenzione nei loro confronti. La fiducia negli specialisti della tecnica e della scienza si amalgama così con l'istinto di sopravvivenza".

Un altro fattore di insicurezza. C'è sempre meno Stato. Diminuisce perfino il numero dei portalettere e dei ferrovieri. È l'estinzione dello Stato come lo voleva Lenin, ma in versione neo-liberale e non in quella sovietica?

"Una bella annotazione. Lo Stato, si priva di una sempre più grande dose della sua potenza autarchica, e quindi diventa incapace di assumersi l'insieme delle sue funzioni. Lo Stato, per dovere, ma con l'entusiasmo degno di una causa migliore, delega i propri compiti, anzi li dà 'in affitto' alle forze di mercato, che sono anonime, prive di un volto. Di conseguenza i compiti che sono vitali per il funzionamenti e il futuro della società sfuggono alla supervisione della politica e quindi a ogni controllo democratico. Il risultato: si affievolisce il senso di comunità e si frantuma la solidarietà sociale. Se non fosse per la paura degli immigrati e dei terroristi, l'idea stessa dello Stato come un bene comune e una comunità di cittadini sarebbe fallita".

Ogni giorno vediamo cose terribili, che accadono fuori, e in contemporanea nel nostro salotto sullo schermo tv (Iraq, Cecenia, Palestina, Israele). Ci tolgono ogni sensazione di sicurezza. Per timore che così sarà anche il nostro futuro? O c'è una speranza di liberazione dalla paura, come ai tempi di un'altra guerra aveva promesso Roosevelt?

"Non ho gli strumenti per dire che cosa sarà il futuro quando diventerà realtà quotidiana. Ma so che lo sforzo di resuscitare quelle potenzialità del passato che sono state annientate e abbandonate con troppa leggerezza e troppo presto, determineranno la forma con cui sarà disegnato l'avvenire; e tra queste potenzialità: la speranza di liberarci dalla paura. Ma la cura per il futuro sta anche nella speranza, ancora più generale e più importante, di un mondo libero dalle umiliazioni e più ospitale per la dignità umana".

Il Libro verde di Sacconi potrebbe diventare il paradigma della pubblicizzazione del privato, con tutte le implicazioni di ordine legislativo, economico e fiscale. Il programma delineato ha tutte le caratteristiche tecniche e politiche per ridisegnare l'asse portante della politica economica e sociale del Paese. La parola chiave è sussidiarietà, individuo e solidarietà, che per il welfare state significa un orizzonte istituzionale diverso da quello prefigurato dai liberali e dai socialisti. La sussidiarietà e la solidarietà diventano lo strumento «giuridico» per deresponsabilizzare il pubblico come soggetto istituzionale a cui la collettività assegna, attraverso l'imposizione fiscale, il compito di rimuovere i vincoli che si manifestano nel mercato (fallimenti del mercato).

In questo senso occorre prestare molta attenzione al progetto federalista di Calderoni che modifica l'impianto ed i presupposti del sistema fiscale italiano. Il reddito non è contemplato nella nostra costituzione, piuttosto è privilegiata l'azione pubblica di rimozione dei vincoli di ordine economico e sociale. Purtroppo la novella costituzione del 2001 permette l'interpretazione spregiudicata dei diritti e dei doveri di questo governo. Infatti, la dizione sussidiarietà è declinata in solidarietà e responsabilità, non come cessione di potere verso quelle istituzioni pubbliche che più e meglio di altre possono affrontare i problemi o come diritti e doveri. E' lo spirito individuale, diversamente declinato e rappresentato, a promuovere la solidarietà. La libertà dal bisogno e la «libertà di» sono declinati nell'esatto contrario dell'art. 3 della Costituzione, mentre le politiche che coinvolgono soggetti diversi dallo stato tendono ad assegnare agli stessi interlocutori, individuali o diversamente organizzati, un ruolo che mal si concilia con le finalità dello stesso stato sociale e che poco attengono all'economia del benessere. Forse sarebbe stato molto più interessante parlare di Federalismo verso l'alto (Europa) e obiettivi europei per lo stato sociale.

L'esito di questa politica è l'equiparazione tra pubblico e privato nel campo dell'erogazione dei cosiddetti servizi universali. Ma tra privato e pubblico c'è una differenza sostanziale. Il secondo è soggetto a vincoli comunitari e interni attraverso il Patto di stabilità, mentre i privati possono erogare servizi senza vincoli di carattere giuridico, con tutti i problemi economici che i beni di merito manifestano, ovvero che è l'offerta a creare la domanda.

Sostanzialmente il «modello Sacconi» si prefigura come un progetto politico a tutto tondo in cui il privato, diversamente rappresentato, assume lo stesso spessore giuridico della pubblica amministrazione. Se il progetto «culturale» e «organizzativo» dovesse compiersi, sarebbe difficile recuperare terreno. È bene ricordare che lo stato e l'intervento pubblico sono istituzioni liberali. Il loro dissolvimento prefigurano una società in cui gli interessi particolari sopravvanzano quelli collettivi. Un esito sicuramente non desiderabile.

In calce potete scaricare il documento del ministro al lavoro e al welfare, Maurizio Sacconi

«In un breve lasso di tempo si è consumato in Italia un cambiamento istituzionale e costituzionale di enorme portata. Anche se sia da parte di chi l'ha promosso, sia da parte di chi non è in grado di contrastarlo efficacemente, si tenta di ridurne la rilevanza. Prima continuavano a dire che non bisognava demonizzare Berlusconi, adesso si preoccupano di non rompere le condizioni del dialogo...» Stefano Rodotà esordisce così e lungo un'ora di conversazione non abbasserà la gravità della sua diagnosi.

Si può parlare di un cambio di regime, senza sentirsi rispondere che non c'è il fascismo alle porte?

Quella sul regime mi sembra una disputa nominalistica. Chiamiamolo come ti pare, io registro i fatti. Prima c'è stato un cambiamento del sistema politico indotto dalla legge elettorale. Adesso c'è un'accelerazione evidente della pressione sul sistema costituzionale. Che non incide soltanto, come s'è sempre predicato che si doveva fare, sulla seconda parte della Costituzione: tocca pesantemente la prima. Il principio di uguaglianza è stato violato eclatantemente, e tutto il quadro dei diritti è in discussione.

Ti riferisci al lodo Alfano?

Ovviamente, ma non solo. Mi riferisco al razzismo delle impronte ai bambini rom, alla xenofobia discriminatoria dell'aggravante per i clandestini, alla logica dei tagli in finanziaria che produrrà ulteriori diseguaglianze sociali, all'idea della stratificazione di classe ratificata con la tessera dei poveri. Come diceva...., i princìpi costituzionali non sono dei caciocavalli appesi: per essere effettivi richiedono una strumentazione adeguata. Una finanziaria come quella che stanno votando non è una strumentazione adeguata. E un'altra strumentazione decisiva gliela toglierà la riforma del sistema giudiziario annunciata per l'autunno.

Ma nel discorso corrente il sistema giudiziario non ha niente a che vedere con i diritti, è solo la macchina persecutoria di Silvio Berlusconi...

E invece l'autonomia della magistratura fu voluta dai costituenti - l'hanno ricordato Scalfaro e Andreotti - proprio come garanzia che i diritti delle minoranze non venissero cancellati dalla maggioranza di turno. L'autonomia non garantisce i magistrati, garantisce i cittadini. E mette un limite alla legittimazione politica: dice che la legittimazione popolare non autorizza chi vince le elezioni a mettere le mani sui diritti. L'esatto contrario del discorso di Berlusconi per cui chi vince può fare quello che vuole, e per fare quello che vuole dev'essere immunizzato dall'azione della magistratura. E' un punto cardinale dell'impianto costituzionale, se cade questo scricchiola tutto. La ministra francese della giustizia, aveva provato a fare un discorso simile a quello della destra italiana, ma è stata subito bloccata. In Italia invece gli anticorpi non ci sono, o quelli che ci sono non bastano. Ha ragione Zagrebelsky: o la Costituzione la si rilegittima non a parole ma a partire dai comportamenti dell'opposizione, o decade di fatto. Senonché come ben sappiamo è stata proprio la parte maggioritaria della sinistra ad aprire una breccia alla sua delegittimazione, insistendo per anni su una revisione della seconda parte della Carta che fosse funzionale all'efficienza del sistema politico, invece di verificare che fosse adeguata a rendere effettivi i principi della prima.

A proposito, di recente D'Alema, e con lui 15 fondazioni politico-culturali, ha rilanciato la forma di governo parlamentare e il sistema elettorale tedesco, con relativa autocritica sugli esiti di presidenzialismo strisciante del bipolarismo forzoso. Tu sarai contento, o no?

Certo che sì, proposi il sistema tedesco, con Aldo Tortorella, già quando si discuteva del Mattarellum. Ben venga questo rilancio oggi. Però, che il bipolarismo portasse agli esiti cui ha portato era prevedibile ed era stato previsto. E che Berlusconi volesse la bicamerale per riformare la giustizia lo si sapeva.

Anche se va ricordato che in alternativa alla bicamerale Berlusconi agitava l'assemblea costituente...Torniamo a oggi: che margini di intervento ha la corte costituzionale sul lodo Alfano?

E' un'incognita decisiva. Ovunque il ruolo delle corti diventa sempre più decisivo, a cominciare dagli Stati uniti. Prima o poi il lodo Alfano arriverà davanti alla consulta, come pure l'aggravante per i clandestini. E voglio sperare che non si accuserà di faziosità il primo giudice che solleverà una questione di costituzionalità: nell'un caso e nell'altro è ben difficile sostenere che sarebbe «manifestamente infondata». L'appello dei cento costituzionalisti sul lodo Alfano poteva essere letto come un invito al presidente della Repubblica a non firmarlo, ma è comunque un avallo per i giudici a sollevare la questione di costituzionalità.

Ancora sull'uguaglianza. Il Pd ha approvato con argomenti egualitari l'estensione delle impronte digitali a tutti: così si sarebbe evitata la discriminazione contro i Rom. Sei d'accordo?

No: sono stupefatto. Era già successo negli Stati uniti, che parte della cultura democratica usasse l'argomento della generalizzazione dei controlli come garanzia di uguale trattamento: non pensavo che l'onda sarebbe arrivata anche da noi. Sarebbe questa l'uguaglianza, essere tutti controllati e sorvegliati? Qui c'è solo un segno spaventoso di subalternità culturale.

Da presidente del Garante per la privacy hai suonato più volte l'allarme contro la società della sorveglianza. Ma l'hai suonato anche contro l'abuso delle intercettazioni. Ci vuole o no, un freno alle intercettazioni?

E' un problema aperto dal '96, fu Flick a presentare il primo disegno di legge. Nell'ultima legislatura, fra maggioranza e opposizione, di proposte ce ne sono state otto: se si fosse davvero voluto fare una legge equilibrata, la si sarebbe fatta. Ma in realtà quello che oggi vuole il governo non è disciplinare le intercettazioni, ma restringerle, ammettendole solo per pochi reati (fra i quali non quelli finanziari), ridefinendo i criteri di rilevanza e impedendone la pubblicazione fino al dibattimento. Con questi criteri, per dire, non avremmo mai saputo nulla del caso Fazio. Sarebbe una forma di censura sull'opinione pubblica, nonché un gigantesco dispositivo di privatizzazione delle informazioni, consegnate a poche persone che potrebbero farne un uso ricattatorio e segreto. Ci sono altri metodi per disciplinare l'uso delle intercettazioni e per proteggerle: siamo pieni di studi tecnici e giuridici in materia.

Tu sei un europeista convinto, hai contribuito a scrivere la carta europea dei diritti. L'Europa può giocare un ruolo positivo contro questo processo di de-costituzionalizzazione italiano?

Il ruolo dell'Europa è ambivalente. La direttiva sui rimpatri dei clandestini è una direttiva europea. Ma è europeo anche il voto del parlamento di Strasburgo sui Rom: come dire che laddove c'è un residuo di democrazia parlamentare c'è ancora qualche garanzia. La commissione europea va giù dura sui diritti, ma il parlamento quando può la blocca. E se la carta dei diritti diventasse finalmente vincolante, entrerebbe in campo anche la corte europea: a quel punto le direttive sui rimpatri potrebbero essere impugnate.

Insomma, una pluralità di poteri giocherebbe a favore dei diritti?

Sì. E penso che dobbiamo augurarci che il trattato di Lisbona entri in vigore, per la carta dei diritti e per la corte di giustizia. Sono tutte scommesse, intendiamoci, ma di fronte alla stretta che si avverte in ciascun paese europeo - due esempi: in Gran Bretagna hanno portato a 42 i giorni di custodia cautelare senza garanzie; in Svezia vogliono mettere sotto sorveglianza ogni forma di comunicazione elettronica - dobbiamo puntare sull'Unione.

Lavoro: anche lì allarme rosso?

Sì, per il ridimensionamento del ruolo del sindacato e per la messa in discussione del contratto collettivo. Che altro non significa che la dimensione sociale e politica, non individuale, del lavoro. E poi, per le letture tutte in chiave esistenziale che sento dare del precariato, come se non fosse una condizione sociale di massa che richiede politiche sociali all'altezza.

Caso Eluana: come lo leggi?

E' un caso emblematico di come l'ampliamento delle libertà personali comporti un di più di politiche sociali. Il cosiddetto «diritto di morire», altro che essere complice dell'individualismo, della solitudine e del narcisismo come si sostiene, implica forti strategie di solidarietà e di responsabilità: dalle cure palliative alle strutture di sostegno. Dobbiamo rilanciare la dimensione sociale dell'esistenza umana, contro l'individualismo imperante che non dà né uguaglianza né libertà.

La Costituzione fatica nel compito di creare concordia. Quando una Costituzione genera discordia, è segno di qualcosa di nuovo e profondo che ha creato uno scarto. È il momento in cui le strade della legittimità e della legalità (la prima, adeguatezza ad aspettative concrete; la seconda, conformità a norme astratte) si divaricano. Di legalità si vive, quando corrisponde alla legittimità. Ma, altrimenti, si può anche morire. Alla fine è pur sempre la legittimità a prevalere su una legalità ridotta a fantasma senz’anima.

La difesa della Costituzione non può perciò limitarsi alla pur necessaria denuncia delle violazioni e dei tentativi di modificarla stravolgendola. Una cosa è l’incostituzionalità, contrastabile richiamandosi alla legalità costituzionale. Ma, cosa diversa è l’anticostituzionalità, cioè il tentativo di passare da una Costituzione a un’altra. Contro l’anticostituzionalità, il richiamo alla legalità è uno strumento spuntato, perché proprio la legalità è messa in questione. Che cos’è, dunque, la controversia sulla Costituzione: una questione di legalità o di legittimità? Dobbiamo poter rispondere, per metterci sul giusto terreno ed evitare vacue parole. Per farlo, occorre guardare alla psicologia sociale e alle sue aspettative costituzionali. Questa è un’epoca in cui, manifestamente, le relazioni tra le persone si fanno incerte e il primo moto è di diffidenza, difesa, chiusura. Questo è un dato. Alla politica, che pur si disprezza, si chiede attenzione ai propri interessi, alla propria identità, alla propria sicurezza, alla propria privata libertà. L’ossessione per "il proprio" ha, come corrispettivo, l’indifferenza e, dove occorre, l’ostilità per "l’altrui".

In termini morali, quest’atteggiamento implica una pretesa di plusvalenza. In termini politici, comporta la semplificazione dei problemi, che si guardano da un lato solo, il nostro. In termini costituzionali, si traduce in privilegi e discriminazioni.

Esempi? "A casa nostra" vogliamo comandare noi: espressione pregnante, che sottintende un titolo di proprietà tutt’altro che ovvio. Detto diversamente: ci sono persone che, pur vivendo accanto a noi, sono come "in casa altrui", nella diaspora, senza diritti ma solo con concessioni, revocabili secondo convenienza. Gli immigrati pongono problemi? Li risolviamo con quote d’ingresso determinate dalle nostre esigenze sociali ed economiche e, per quanto eccede, ne facciamo dei "clandestini", trattandoli da delinquenti. Non pensiamo che anche noi, gli "aventi diritto", portiamo una responsabilità delle persone che muoiono in mare o nascoste nelle stive, indotte da questa nostra legislazione ad agire, per l’appunto, da clandestini. La criminalità si annida nelle comunità che vivono ai margini della nostra società (oggi, i rom e i sinti; domani, chissà). Allora, spianiamo per intanto i campi dove vivono e pigiamone i pollici, grandi e piccoli, perché lascino un’impronta. Basta non guardare la loro sofferenza e la loro dignità. Certo, i mendicanti seduti o sdraiati sui marciapiedi ostacolano il passaggio. Noi, che non abbiamo bisogno di elemosinare, vietiamo loro di farsi vedere in giro. Basta non pensare alla vergogna che aggiungiamo al bisogno. L’indigenza si diffonde? Istituiamo l’elemosina di Stato. Si crea così una frattura sociale, tipo Ancien Régime? Basta non accorgersene. I diritti si rovesciano in strumenti di esclusione quando, per garantire i nostri, non guardiamo il lato che riguarda gli altri. In una società di uguali, il lato sarebbe uno solo: il mio è anche il tuo. Ma in una società di disuguali, l’unilateralità è la premessa dell’ingiustizia, della discriminazione, dell’altrui disumanizzazione. Quando si prende questa china, non si sa dove si finisce. Perfino a teorizzare la tortura, in nome della sicurezza.

Ma questa è anche un’epoca di restrizione delle cerchie della socievolezza. Il nostro benessere è insidiato dagli altri: dunque rifugiamoci tra di noi, amici nella condivisione dei medesimi interessi. Al riparo dalle insidie del mondo, pensiamo di trovare la nostra sicurezza. L’esistenza in grande appare insensata, anzi insidiosa: la parola umanità suona vuota, le unità politiche create dalla storia dei popoli si disgregano in piccole comunità sospettose l’una verso l’altra; l’Europa segna il passo. Le riduzioni di scala della socievolezza riguardano ogni ambito della vita di relazione e, a mano a mano che procedono, creano nuove inimicizie in una spirale che distrugge l’interesse generale e i suoi postulati di legalità, imparzialità, disinteresse personale. La legge uguale per tutti è sostituita dalla ricerca di immunità e impunità. Ciò che denominiamo "familismo" crea cricche politiche e partitiche, economiche e finanziarie, culturali e accademiche, spesso intrecciate tra loro, dove si organizzano e si chiudono relazioni sociali e di potere protette, per trasmetterle da padri a figli e nipoti, da boss a boss, da amico ad amico e ad amico dell’amico, secondo la legge dell’affiliazione. Sul piano morale, quest’atteggiamento valorizza come virtù l’appartenenza e l’affidabilità, a scapito della libertà. Sul piano politico, si traduce in distruzione dello spirito pubblico e nella sostituzione degli interessi generali con accordi opachi tra "famiglie". Sul piano costituzionale, si risolve nella distruzione della repubblica di cui parla l’art. 1 della Costituzione, da intendersi nel senso ciceroniano di una comunione basata sul legittimo consenso circa l’utilità comune.

Della diffidenza e della chiusura, conseguenza naturale è la perdita di futuro, come bene collettivo. Si procede alla cieca e, non sapendoci dare una meta che meriti sacrifici, cresciamo in particolarismi e aggressività. Le visioni del futuro, che una volta assumevano le vesti di ideologie, sono state distrutte e, con esse, sono andati perduti anche gli ideali che contenevano. Sono stati sostituiti da mere forze divenute fini a se stesse, come la tecnica alleata all’economia di mercato, mossa dai bilanci delle imprese: forze paragonate al carro di Dschagannath che, secondo una tradizione hindu, trasporta la figura del dio Krishna e, muovendosi da sé senza meta, travolge la gente che, in preda a terrore, cerca inutilmente di guidarlo, rallentarlo, arrestarlo. In termini morali, la perdita di futuro contiene un’autorizzazione in bianco alla consumazione nell’immediato di tutte le possibilità, senza accantonamenti per l’avvenire. In termini politici, comporta una concezione dell’azione pubblica come sequenza di misure emergenziali. In termini costituzionali, distrugge ciò che, propriamente, è politica e la sostituisce con una gestione d’affari a rendita immediata.

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Tutto ciò, invero, è un insieme di constatazioni piuttosto banali che, oltretutto, non rispecchiano l’intera realtà costituzionale, per nostra fortuna fatta anche d’altro. Ma, per quanto in queste constatazioni c’è di vero, non sarà altrettanto banale collegarlo con la Costituzione e le sue difficoltà. Quelle tre nevrosi da insicurezza - visione parziale delle cose; disgregazione degli ambiti di vita comune; assenza di futuro - hanno un unico significato: la corrosione del legame sociale. Non siamo solo noi a trovarci alle prese con questa difficoltà, ma noi specialmente. Una domanda classica nella sociologia politica è: che cosa tiene insieme la società? Oggi la domanda si è spostata, e ci si chiede addirittura se di società, cioè di relazioni primarie spontanee, non imposte forzosamente, si possa ancora parlare. In effetti, poiché convivere pur bisogna, vale una relazione inversa: a legame sociale calante, costrizione crescente.

Non è forse questa la nostra china costituzionale? Una china su cui troviamo, da un lato, per esempio, indifferenza per l’universalità dei diritti, per la separazione dei poteri, per il rispetto delle procedure e dei tempi delle decisioni, per i controlli, per la dialettica parlamentare, per la legalità, per l’indipendenza della funzione giudiziaria: indifferenza, in breve, per ciò qualifica come "liberale" una democrazia; sostegno, dall’altro, alle misure energiche, alla concentrazione e alla personalizzazione del potere, alla democrazia d’investitura, all’antiparlamentarismo, al fare per il fare, al decidere per il decidere: in breve, a ciò che qualifica invece come "autoritaria" la democrazia.

La sintesi potrebbe essere la frase pronunciata da un deputato socialista, all’epoca delle nazionalizzazioni decise dal governo Mitterand e osteggiate dall’opposizione di destra, che aveva promosso un ricorso al Conseil constitutionnel (più o meno, la nostra Corte costituzionale): «Voi avete giuridicamente torto, perché noi abbiamo politicamente ragione». In altri termini, il vostro richiamo alla Costituzione vale nulla, perché noi abbiamo i voti. Quella frase fece grande scandalo, chi l’aveva pronunciata dovette rimangiarsela. Ma si esprime lo stesso concetto dicendo: la gente ha votato, ben sapendo chi votava, e questo basta; la forza del consenso rende nulla la forza del diritto; chi obbietta in nome della Costituzione è un patetico azzeccagarbugli che con codici e codicilli crede di fermare la marcia della nuova legittimità costituzionale.

La Costituzione non ammette questo modo di ragionare. Non c’è consenso che possa giustificare la violazione delle "forme" e dei "limiti" ch’essa stabilisce (art. 1). Ma questa è legalità costituzionale. Pensare di sostenere una legalità traballante nella sua legittimità, invocando soltanto la legalità, è come volersi trarre dalle sabbie mobili aggrappandosi ai propri capelli. Chi vuol difendere la Costituzione deve accettare la sfida della legittimità e saper mostrare, anche attraverso i propri comportamenti, che la Costituzione non è un involucro ormai privo di valida sostanza, non è l’espressione o la copertura di un mondo senza futuro. Occorre far breccia in convinzioni collettive, là dove domina indifferenza, sfiducia, rassegnazione: i sentimenti qualunquistici, naturalmente orientati a esiti autoritari, di cui s’è detto. Se la crisi costituzionale è innanzitutto crisi di disfacimento sociale, è da qui che occorre ripartire. Si difende la Costituzione anche, e soprattutto, con politiche rivolte a promuovere solidarietà e sicurezza, legalità e trasparenza, istruzione e cultura, fiducia e progetto: in una parola, legame sociale. Se non andiamo alla radice, per colmarlo, dello scarto tra legalità e legittimità, ci possiamo attendere uno svolgimento tragico del conflitto tra una legalità illegittima e una legittimità illegale: tragico nel senso più proprio e classico della parola. Ci si dovrà ritornare.

Lo scenario dell'Italia nel luglio 2008, a due mesi dalle elezioni politiche che la segneranno per cinque anni, è fin troppo semplice. Una maggioranza di ferro è stata consegnata a una destra senza confini, arbitrata da Silvio Berlusconi, nella quale è scivolata senza più identità l'ex Alleanza Nazionale, ammesso che ne avesse una negativa o positiva. La Lega invece l'ha conservata, funziona da minoranza nella maggioranza di governo, fuori di esso non avrebbe peso, ma parla con voce sua. Un'alleanza, quella fra Berlusconi e Bossi, fra due che necessitano l'uno dell'altro, senza grande empatia.

Berlusconi tende a modellare il paese su un'immagine aziendale, Fini segue, Bossi ha invece un'ipotesi federalista. Tremonti è tanto suo quanto berlusconiano. Berlusconi ha per priorità la garanzia di non essere disturbato dal sistema giudiziario, del quale quel che più teme è l'obbligo dell'azione penale. E' rapidamente riuscito a mettere in riparo se stesso, celandosi fra altre cariche pubbliche (Presidente della Repubblica, del Consiglio, della Camera e del Senato, questi due in verità non più che transitori speaker), nessuna delle quali ha obiettato. A settembre cercherà di riportare i pubblici ministeri sotto l'egida del Ministero della giustizia, come in altri paesi che peraltro evitano di abusarne. Se potesse farebbe di tutta la giustizia una funzione del governo e non un suo contropotere. Ai vizi, che ci sono, della casta dei giudici si dovrebbero sostituire solo quelli dell'esecutivo, anzi degli esecutivi, inclusi quelli periferici. La Lega starà al gioco, anche se non le facilita la popolarità. Essa è più vicina culturalmente a Di Pietro che al Cavaliere,ma ha bisogno assolutamente del federalismo fiscale, al quale Berlusconi non terrebbe gran ché, mentre le sinistre non sanno proporre una politica pubblica trasparente, unitaria e perequativa; per cui avremo un crescere delle differenze fra livelli regionali di vita (istruzione e sanità) e di rapporti sociali. Se a questi si aggiunge la tendenza del governo e della Confindustria, mortale per la Cgil, ad abolire il contratto nazionale, la frammentazione in regioni e corporazioni sarà ricostituita dopo poco più di mezzo secolo di primato nazionale unitario e repubblicano. Questo andazzo, unito al grandinare di misure legislative, fra le quali primeggiano i decreti e viene privilegiato il voto di fiducia - vizi dei quali il certosinistra non si era privato - hanno determinato in tre mesi una modifica della Costituzione di fatto che non credo abbia precedenti altrove. Anche se Nicolas Sarkozy persegue una analoga ridefinizione dei poteri, ma non senza incontrare qualche difficoltà in una più robusta tradizione dello stato. Comune è la tendenza antiparlamentare, e poggia su un'opinione pubblica che è tornata a prediligere il decisionismo nella speranza che le risolva alcuni problemi urgenti di vita, fra i quali primeggiano la concreta difficoltà di arrivare alla fine del mese e il fantasmatico bisogno di sicurezza che, agitato dalla destra, viene coperto per ignavia dalle opposizioni. Che Berlusconi e Sarkozy siano stati eletti a furor di popolo e perdano non pochi consensi alcuni mesi dopo depone di una crescente immaturità dei cittadini, sempre più determinati da scontentezza e risentimento perché non trovano nel supermercato della politica il prodotto che più gli conviene, l'interesse generale non costituendo più una priorità nella società individualista e «mucillaginosa ». Questo equilibrio di malumori fra ceti medio bassi emedio alti, che ha messo le redini del governo in Italia in un personaggio di bassa cultura e in Francia in uno di stile un po' meno volgare, non sembra facilmente intaccabile a tempi brevi. E' vero che riceverà sul muso l'onda d'urto della crisi,ma non c'è più una sinistra in grado di trasformare il malcontento in coscienza e proposta alternativa. Questo è l'appordo della famosa «transizione » delle repubbliche postbelliche. Restano i movimentima, da noi, eccessivamente locali, quindi strutturalmente minoritari, separati e quindi non in grado di esercitare un'egemonia. A quarant'anni dal trionfo del 1989 le magnifiche sorti e progressive della società liberista, aperta e aconflittuale, si sono ridotte a questo piccolo e un po' ripugnante cabotaggio. Sarebbe fin divertente, sotto il profilo storico, constatare - come negli Usa gli studi Paul Krugman e in Italia quelli di Isidoro Mortellaro - che non c'è mai stato un così ingente ritorno in campo di una proprietà pubblica protezionista, deprivata di ogni qualità sociale, mera forma statale di sostegno a un sistema proprietario inciampato in qualche sua trappola, dalla guerra del petrolio alla crisi dei subprime. Nonché in presenza di due giganti asiatici in fieri, i mostri della «democrazia» indiana e del «comunismo » cinese, sui quali il vittorioso Occidente riflette il meno possibile. Tanto più che le sedi storiche di riflessione del Novecento, le sinistre, non esistono più. O ne esistono deboli tracce, come in Francia e in Spagna. Può darsi che lo scandalo italiano - totale scomparsa delle sinistre radicali dalle Camere - venga sanato dalle elezioni europee del 2009 attraverso un sistema elettorale a bassa quota di sbarramento; ma si deve ammettere che una sinistra che appare o scompare grazie al puro meccanismo elettorale è mal ridotta. Solo caso a parte la Germania, dove sorge dopo oltre mezzo secolo una Linke, per ora non molto di più che come difesa sociale elementare. Meglio che niente, dopo quasi un secolo fra nazismo e il tormentoso dopoguerra. In Italia non c'è stato alcun tormento. Il Pci si è dissolto, più lentamente ma in modo analogo all'Urss, e non con una maggiore elaborazione culturale, negando alla propria storia altra qualità che di essere stato un «errore», più o meno delittuoso. Non è humus sul quale ricostruire qualcosa. Quanto al Partito socialista nel dopoguerra italiano è sempre stato debole, né il Pci aveva colto l'interesse di lasciargli uno spazio, per cui neanche da quella parte viene uno straccio di cultura che possa chiamarsi tale. La fusione a freddo fra Ds e Margherita si è tentata su un terreno culturalmente basso e reticente, e socialmente subalterno a un capitalismo debole. Sono diversamente instabili sia l'anima cattolica, sia quella ex Ds, vaga in Veltroni, un poco più solida in D'Alema, lontane ambedue dalla relativa solidità delle pur indebolite socialdemocrazie nordiche. Per qualche tempo qualcuno di noi, chi scrive inclusa, ha pensato che fosse l'ora del centro, ma credo che ci siamo sbagliati. C'è, mi si perdoni il termine, un incarognimento di molti livelli di società diversamente risentiti, che toglie spazio alla tradizione democratica e si intesse nel restringersi dei margini di mediazione sociale - fra debolezza intrinseca dell' Italia e rombo di una crisi occidentale crescente. Il tutto nel silenzio del sindacato e delle sinistre «radicali» seguito alla sconfitta politica. Non so che cosa avvenga in Corso d'Italia, non essendovi più la scusa del governo amico. L'assenza di reazione del più grande sindacato italiano al tempestoso muoversi del governo fa paura. L'isolamento della Fiom non ha più spiegazioni. La gestione del caso Alitalia e oggi quella del pubblico impiego sotto l'impazzare di Brunetta, sono sconcertanti. E sconcertante è il silenzio di Rifondazione. Si è arrivati da viale del Policlinico persino a dire che la priorità era riflettere rifugiandosi in un buco mentre fuori grandinava di tutto. Come se si potesse parlare o tacere solo se si è o non si è rappresentati alle Camere. Ed è meglio ignorare quel che ogni tanto si sente provenire dalla stanza in cui le mozioni di Rc si sono sbarrate. Non è bello quel che ogni tanto ne arriva. Altro che eccesso di astrattezza e razionalità della politica, i partiti sono famiglie passionali in cui scorre il sangue e più piccole sono più sangue scorre. C'è solo da sperare che un sussulto di responsabilità metta fine alla lotta di tutti contro tutti e ricostruisca per Rc un terreno di sopravvivenza. In questo quadro non si può risparmiare una flebile riflessione sulla stampa scritta e parlata. Essa è oggi una pura cronaca suggerita dal governo o dalla pochezza politica di tutto il resto. Dove sta l'indipendenza del giornalismo, di una sua visione o griglia di lettura? Non occorrerebbe essere eroi per far qualcosa di più che appiattirsi sui portavoce dei ministri. Dei famosi grandi quotidiani indipendenti uno, il Corriere, è passato senza esitazione con il governo, e Repubblica è imbranata quanto il Veltroni che aveva ardentemente sostenuto. Salvo il rispetto per l'Unità e Liberazione, comunque legati ai partiti, nulla resta sulla scena di una sinistra riflessiva in Italia se non il manifesto. Ma ci rendiamo conto? Anche se in difficoltà, anche se inquieto e infelice. Ma soltanto il manifesto e basta. Ansimante ma non morto. Sarebbe da intrecciare una frenetica danza. Forse lo faremo dopo questa pesante estate. Nella quale tutti gli umani si riposano al mare o sotto il fogliame. I gatti si ritirano sotto un mobile, e così si appresta a fare il vostro affezionato micio settimanale.

È ancora possibile valutare le scelte istituzionali italiane con l´occhio rivolto a quel che avviene negli altri paesi? O la nostra politica è ormai così fuori misura da rendere ardua, se non impossibile, qualsiasi comparazione?

Una prima considerazione riguarda l´uso politico dei riferimenti alle soluzioni adottate in altri paesi. Quando si ricominciò a parlare di un "lodo" che avrebbe dovuto mettere il Presidente del consiglio al riparo da qualsiasi azione giudiziaria, subito si disse che questa era la strada seguita in tutti, o quasi, gli ordinamenti democratici. Fu facile a studiosi e commentatori dimostrare che così non era, che l´immunità era una prerogativa dei soli capi di Stati, e neppure in tutti i paesi. Acqua sul marmo. Non solo nei tremendi dibattiti televisivi, ma pure nella discussione nell´aula di Montecitorio, più di un esponente della maggioranza continuò imperterrito a ripetere la giaculatoria secondo la quale a Berlusconi non sarebbe stato concesso nessun salvacondotto, ma attribuito solo quello che altri primi ministri già avevano. Una piccola falsificazione, un peccato tutto sommato veniale? No. Piuttosto la conferma dell´impasto tra ignoranza e arroganza che ormai sta alla base di troppe decisioni politiche e legislative. Di fronte a questo stato delle cose qualsiasi indulgenza è inammissibile.

Due casi specifici possono aiutarci a comprendere meglio lo stato delle cose. Si è citato molte volte Chirac. Ma questo riferimento va nella direzione esattamente opposta a quella dei sostenitori di quello che poi è divenuto il "lodo Alfano". Chirac non è il Primo ministro, ma il Presidente della Repubblica. La decisione di attribuirgli un´immunità provocò polemiche furibonde e si disse, giustamente, che alla sua origine vi era un vero e proprio colpo di mano. Per arrivare a questa conclusione fu comunque necessaria una revisione degli articoli 67 e 68 della Costituzione, ritenendosi impraticabile la via della legge ordinaria.

Il secondo esempio arriva da Israele. Titolo di giornali italiani del 12 luglio: «Olmert ha i giorni contati». Questa drastica previsione deriva dal fatto che il Primo ministro israeliano è indagato per frode. Le indagini vanno avanti e nessuno ha chiesto uno "scudo" per Olmert sostenendo che non si poteva incidere sulle sue delicatissime funzioni alla vigilia del vertice di Parigi, particolarmente importante per il futuro dello Stato di Israele.

Questi sono dati di realtà, facilmente accessibili, che dovrebbero costituire la documentazione di base per chi legifera. Peraltro, nel "documento dei cento costituzionalisti", è stato ricordato che «l´immunità temporanea per reati comuni è prevista solo nelle costituzioni greca, portoghese, israeliana, francese con riferimento però al solo Presidente della Repubblica, mentre analoga immunità non è prevista per il Presidente del Consiglio e per i ministri in alcun ordinamento di democrazia parlamentare analogo al nostro, tantomeno nell´ordinamento spagnolo più volte evocato, ma sempre inesattamente». Basta allineare queste poche informazioni per concludere che la comparazione giuridica ci dice che l´immunità per reati comuni è strumento eccezionale, circoscritto a pochissimi paesi e a un solo soggetto, il Capo dello Stato. La soluzione italiana, quindi, si presenta come l´ennesima anomalia italiana, ancora una volta spiegabile facendo riferimento, purtroppo, a quella che è divenuta una perversa caratteristica del nostro sistema istituzionale, la categoria delle leggi ad personam. Non si è seguita, infatti, nessuna delle vie indicate da altri ordinamenti, dove si sono adottati strumenti particolari per far valere la responsabilità penale dei membri del Governo, senza però creare situazioni di immunità. La comparazione ci dice che alle esigenze di organi dello Stato tra loro diversi devono corrispondere soluzioni differenziate.

Proprio partendo da queste semplici constatazioni, diventa impossibile collocare la mossa italiana nel contesto di un recupero di garanzie che erano state notevolmente ridotte negli anni Novanta, per reagire a fenomeni di corruzione che si erano manifestati non soltanto in Italia. La rinnovata attenzione per l´immunità dei parlamentari e per una più adeguata disciplina dei reati ministeriali, infatti, risponde all´esigenza di costruire equilibri pregiudicati da taluni eccessi, e non ha nulla a che fare con l´attribuzione di privilegi personali. Di questo dovrà tenersi conto se si vorrà riaprire la discussione sull´immunità parlamentare, sostanzialmente travolta nel 1993. Il tempo era quello di Tangentopoli, quando non si scatenò un tornado forcaiolo, ma l´opinione pubblica, sbigottita e indignata, assisteva ogni giorno alla rivelazione di abissi di illegalità, coperti fino a quel momento anche grazie ad una rete di protezione nella quale l´immunità parlamentare giocava un ruolo essenziale. Gli abusi dell´immunità erano noti da anni (ricordo solo che ad essi Gustavo Zagrebelsky aveva dedicato un libro nel 1979), e proprio questa consapevolezza diffusa fece sì che, nel nuovo clima, quel tipo di immunità apparisse indifendibile.

Riproporre il tema dell´immunità dei parlamentari, allora, presuppone un contesto profondamente mutato, dove gli antichi abusi non potrebbero ripetersi, come si va sostenendo in altri paesi. Ma è davvero questa la conclusione che ci ispira la realtà italiana di oggi? O proprio il lodo Alfano ci dà una indicazione in senso contrario, ci conferma che il vecchio vizio di tagliare gli strumenti legislativi sulla propria misura è tutt´altro che scomparso?

Tornando a gettare uno sguardo sugli altri paesi, l´esperienza francese ci dice che bisogna prestare attenzione al modo in cui si arriva a concedere l´immunità alle più alte cariche dello Stato. In Italia, abbiamo assistito ad una sequenza molto semplice, e inquietante. La conosciamo. Per allontanare dal Presidente del consiglio un specifico processo, si è minacciato di sospenderne decine di migliaia. Quando si è realizzato il vero risultato di tutta quella manovra, la tutela di Berlusconi, la norma sulla sospensione dei processi è stata modificata (anche se pure la nuova formulazione suscita gravi perplessità). E questo è stato salutato da più d´uno come un successo della ragionevolezza, mentre era il risultato di una manovra al fondo ricattatoria, che bisogna chiamare con il suo vero nome.

Non è possibile, allora, tirare sospiri di sollievo, quasi che il problema, alla fine, fosse solo quello di liberarsi di una vicenda sgradevole, di eliminare un inciampo sulla strada del dialogo e delle riforme. Il lodo Alfano è stato, appunto, una riforma con la quale si è data una nuova curvatura al nostro ordinamento. Senza una più solida e determinata politica di opposizione, è concreto il rischio di trovarsi ancora di fronte a qualche "prendere o lasciare", alla minaccia di sfasciare tutto per portare a casa quel che davvero interessa. Prima ancora che il Lodo Alfano fosse definitivamente approvato, da Parigi il Presidente del consiglio ha cominciato a lanciare messaggi proprio in questa direzione.

Anche se il silenzio è vasto, sulle misure di sicurezza adottate in fretta da Berlusconi, c’è stato chi ha provato sgomento grande, apprendendo che il ministro dell’Interno Maroni aveva messo all’ordine del giorno, come provvedimento risolutivo, le impronte digitali imposte ai bambini Rom: hanno protestato insegnanti impegnati in difficili tentativi di inserzione, e pensatori, storici, politici d’opposizione. Ma le parole più nette, più indipendenti, meno nebbiose son venute dall’interno della Chiesa. Aveva cominciato l’arcivescovo di Milano Tettamanzi, denunciando gli sgomberi dei campi Rom in aprile («Si è scesi sotto il rispetto dei diritti umani»). Poi hanno parlato sacerdoti, vescovi, la Fondazione Migrantes. Infine è giunto l’editoriale di Famiglia Cristiana: un periodico che vende più copie di tutti i giornali (3 milioni di lettori) ed è presente in ogni chiesa.

L’editoriale del direttore, Antonio Sciortino, non usa eufemismi. Parla di «misure indecenti», di un governo per cui «la dignità dell’uomo vale zero». Enumera verità giuridiche elementari: l’accattonaggio non è reato, la patria potestà tolta quando i genitori Rom sono poveri o in condizioni difficili viola la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, firmata dall’Italia. Ma soprattutto, ricorda il male scuro dell’Italia, tra i più scuri in Europa. L’Italia porta nel proprio bagaglio il fascismo con le leggi razziali e tuttavia questa «tragica responsabilità» finge di non averla: «Non ce ne siamo vergognati abbastanza». Anche questo crea sgomento: questo passato che non solo non passa, ma sembra dissolto in un acido, come se le revisioni di Fini a Fiuggi non si fossero limitate ad affrancare Alleanza nazionale ma fossero andate oltre, consegnando al nulla tutto un brano di storia nazionale. Il periodico obbedisce al motto del fondatore, Giacomo Alberione: «Famiglia Cristiana non dovrà parlare di religione cristiana, ma di tutto cristianamente».

Tuttavia l’ossessione dello straniero sospetto sin dalla nascita non è solo italiana. In questi giorni si discute di schedatura dell’infanzia in Francia («progetto Edvige»), anche se l’elaborazione di identikit - il profiling - non riguarda le etnie. Ma anche qui si pensa agli stranieri, e il significato è lo stesso: si predispongono liste di sospetti, in nome di uno stato d’emergenza infinita. Il modello d’integrazione del dopoguerra, chiamato in Francia protezionista, viene sostituito da un modello repressivo, dal populismo penale, da un inarrestabile proliferare di reati, dal profiling del diverso. Muta il mondo che abitiamo sempre meno generosamente, meno umanamente: una sorta di catastrofismo antropologico s’insedia negli spiriti e nei governi, che giudica l’uomo malvagio, incendiario. Che abolisce la fiducia: quest’apertura all’altro che scommette sul mutare della persona e non sugli immoti dati del suo corpo e della sua genetica.

Questa politica della sfiducia è iniziata prima dell’11 settembre, ma dopo il 2001 ha impastato sicurezza interna e antiterrorismo, importando dalla guerra le parole, le pratiche, le norme d’eccezione. Un libro uscito quest’anno in Francia, a cura di Laurent Mucchielli, descrive la frenesia della sicurezza impadronitasi dei governanti come dei giornali e spiega bene, in un saggio di Mathieu Rigouste, la militarizzazione delle menti. Anche qui riaffiorano automatismi, si son disperse vergogne o memorie. Rigouste, in un libro d’imminente uscita (L’ennemi intérieur, La Découverte) ricorda che linguaggio e azioni sono radicati nelle repressioni coloniali. Si parla di «contro-insurrezione», di «zone grigie dove s’annidano minacce di guerriglia», di «guerre di bassa intensità permanente» nelle banlieue. Ci sono consiglieri governativi (il colonnello de Richoufftz, il generale Henry Paris) che si fanno forti delle esperienze in Bosnia, Kosovo, perfino in Algeria.

A forza d’impastare il civile e il militare sono tanti i confini che sbiadiscono: tra ordine e emergenza, pace e guerra, e anche tra l’età maggiorenne (in cui diveniamo imputabili, incarcerabili) e quella minorenne, da tutelare e correggere con l’integrazione. Il bambino e l’adolescente diventano incubo, primo anello di catene devianti. Il XX secolo fu marchiato dalla foto del bambino con le braccia alzate, nel ghetto di Varsavia sopraffatto. Quell’immagine rivive: a Guantanamo, in Palestina, in Europa stessa. Chi ha contemplato il tremendo nel prodigioso film di Ari Folman (Waltz With Bachir), ricorderà la scena in cui l’autore, ebreo israeliano, racconta i palestinesi massacrati a Sabra e Chatila e vacilla perché quel che ha visto e quel di cui s’è reso complice gli fa venire in mente il bambino di Varsavia.

Chi difende le leggi Berlusconi difende cause apparentemente buone, e accusa i cristiani dissidenti di cecità: «Voi non andate nelle terre di desolazione e ignorate l’angoscia di tanti italiani», lamentano. Dicono che la legge è fatta per dare ai bambini un’identità che non hanno, per verificare se vanno a scuola, hanno case decenti, son sfruttati. Ma i bambini sfruttati e non scolarizzati in Italia sono ben più numerosi dei Rom, e questo conferma la discriminazione negativa di un’etnia (sono selettivi anche alcuni termini: commissario per la questione Rom, emergenza-Rom). Conferma una visione del male che non insorge perché società e istituzioni barcollano, o l’integrazione fallisce. Il male comincia nel genetico, nel corpo del bambino. Tanto più se diverso: Rom, musulmano, povero.

Sono anni che la delinquenza minorenne ossessiona, e un primo bilancio può esser fatto delle risposte date fin qui in Europa. I più repressivi sono stati i governi inglesi, poi il francese e l’italiano; mentre a Nord è sopravvissuto il modello integrativo. I risultati non confortano i fautori di ghetti. Con le repressioni inglesi, la delinquenza minorile è spettacolarmente aumentata: la sua parte nel crimine globale raggiunge percentuali senza eguali in Europa (20 per cento). Mentre in Norvegia, dove son preservate istituzioni solidali, i minorenni sono meno del 5 per cento della criminalità globale. Molte misure tecnologiche presentate come miracoli sono inefficaci. E in nome delle vittime o delle paure singole, è l’idea di una società coesa che si sfalda, è la sfiducia nelle istituzioni collettive che si attizza. Le impronte digitali, infine, accendono risentimento. Pierre Piazza, autore in Francia di una storia della carta d’identità, evoca afghani in cerca d’asilo che si son bruciati le dita, per protestare contro la schedatura.

I tempi d’azione affrettati e concitati, il rifiuto dei vecchi modi - più lenti - di curare le radici del male anziché estirparle: tutto questo mostra che insicurezza e paura sono spesso considerate una soluzione, più che un problema. Son usate e alimentate come uno strumento utile al potere. Sono la fuga nella politica delle emozioni, dell’annuncio declamatorio, del culto totemico di cifre continuamente contraffatte. A partire dal momento in cui, se un bambino ruba una bici, conta più la bici che la storia del bambino, il salto qualitativo è fatto: il salto nei nuovi reati (di accattonaggio o clandestinità); il salto nel sequestro del corpo, tramite biometria. L’habeas corpus, che è la facoltà di disporre del proprio corpo senza che esso sia manomesso o derubato, si perde.

I cittadini alle prese con lo spavento sono comprensibili. Ma la civiltà ha sue ragioni, che l’individuo impaurito non conosce o sottovaluta. Sono ragioni che riguardano anche lui. Il pastore Martin Niemoeller lo rammenta, in una poesia scritta a Sachsenhausen e Dachau, oggi esposta in un manifesto nelle vie di Roma. All’inizio deportano gli zingari, e tu taci. Poi gli ebrei, i sindacalisti, e sempre taci. Alla fine vengono per prender te. Non c’è più nessuno per protestare.

L’adesione alla manifestazione

contro le "Leggi canaglia"

È urgente che esista la pietra dello scandalo.

È urgente che un risveglio avvenga, anche se di pochi, perché la narcosi delle menti, del linguaggio, della visione, delle memorie) è vasta e progredisce.

Non è importante il nome che si dà al regime in cui viviamo. Conta la sua sostanza: la maggioranza che ignora e vilipendia la minoranza, la separazione dei poteri messa in questione, il trionfo degli interessi particolari e privati di chi è a capo del governo, l'impunità garantita a un impressionante numero di crimini, l'esclusione e criminalizzazione di una parte della popolazione, giudicata diversa e sospettabile fin dall'infanzia perché appartenente a altre etnie o razze.

Scegliete il nome che volete, purché il nome abbia rapporto con la sostanza.

Barbara Spinelli

Cominciò con un inaspettato censimento etnico, nel mezzo dell’estate di settant’anni fa, la vergognosa storia delle leggi razziali italiane. Alle prefetture fu diramata una circolare, in data 11 agosto 1938, disponendo una «esatta rilevazione degli ebrei residenti nelle provincie del regno», da compiersi «con celerità, precisione e massimo riserbo». La schedatura fu completata in una decina di giorni.

Furono 47.825 gli ebrei censiti sul territorio del regno, di cui 8.713 stranieri (nei confronti dei quali fu immediatamente decretata l’espulsione). Per la verità si trattava di cifre già note al Viminale. «Il censimento quindi fu destinato più a sottomettere che a conoscere, più a dimostrare che a valutare», scrive la storica francese Marie-Anne Matard-Bonucci ne L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei (il Mulino). Naturalmente, di fronte alle proteste dei malcapitati cittadini fatti oggetto di quella schedature etnica fu risposto che essa non aveva carattere persecutorio, anzi, sarebbe servita a proteggerli.

Nelle diversissime condizioni storiche, politiche e sociali di oggi, torna questo argomento beffardo e peloso: la rilevazione delle impronte ai bambini rom? Ma è una misura disposta nel loro interesse, contro la piaga dello sfruttamento minorile!

Si tratta di un artifizio retorico adoperato più volte nella storia da parte dei fautori di misure discriminatorie: «Lo facciamo per il loro bene». A sostenere la raccolta delle impronte sono gli stessi che inneggiano allo sgombero delle baracche anche là dove si lasciano in mezzo alla strada donne incinte e bambini. Ma che importa, se il popolo è con noi? Lo so che proporre un’analogia fra l’Italia 1938 e l’Italia 2008 non solo è arduo, ma stride con la sensibilità dei più. L’esperienza sollecita a distinguere fra l’innocenza degli ebrei e la colpevolezza dei rom. La percentuale di devianza riscontrabile fra gli zingari non è paragonabile allo stile di vita dei cittadini israeliti, settant’anni fa.

Eppure dovrebbero suonare familiari alle nostre orecchie contemporanee certi argomenti escogitati allora dalla propaganda razzista, circa le "tendenze del carattere ebraico". Li elenco così come riportati nel libro già citato: nomadismo e «repulsione congenita dell’idea di Stato»; assenza di scrupoli e avidità; intellettualismo esasperato; grande capacità ad adattarsi per mimetismo; sensualismo e immoralità; concezione tragica della vita e quindi aspirazioni rivoluzionarie, diffidenza, vittimismo, spirito polemico e così via.

Guarda caso, per primo veniva sempre il nomadismo. Seguito da quella che Gianfranco Fini, in un impeto lombrosiano, ha stigmatizzato come «non integrabilità» di «certe etnie»; propense – per natura? per cultura? per commercio? – al ratto dei bambini. Il che ci impone di ricordare per l’ennesima volta che negli ultimi vent’anni non è stato mai dimostrato il sequestro di un bambino ad opera degli zingari.

Un’opinione pubblica aizzata a temere i rom più della camorra, si trova così desensibilizzata di fronte al sopruso e all’ingiustizia quando essi si abbattono su una minoranza in cui si registrano percentuali di devianza superiori alla media. Tale è l’abitudine a considerare gli zingari nel loro insieme come popolo criminale, da giustificare ben più che la nomina di "Commissari per l’emergenza nomadi", incaricati del nuovo censimento etnico. Un giornalista come Magdi Allam è giunto a mostrare stupore per la facilità con cui si è concesso il passaporto italiano a settantamila rom. Ignorando forse che si tratta di comunità residenti nella penisola da oltre cinquecento anni: troppo pochi per concedere loro la cittadinanza? Eppure sono cristiani come lui…

Il censimento etnico del 1938, «destinato più a sottomettere che a conoscere, più a dimostrare che a valutare», come ci ricorda Marie-Anne Matard-Bonucci, in ciò non è molto dissimile dal censimento dei non meglio precisati "campi nomadi" del 2008. In conversazioni private lo confidano gli stessi funzionari prefettizi incaricati di eseguirlo: quasi dappertutto le schedature necessarie erano già state effettuate da tempo.

L’iniziativa in corso riveste dunque un carattere dimostrativo. E i responsabili delle forze dell’ordine procedono senza fretta, disobbedendo il più possibile alla richiesta di prendere le impronte digitali anche ai minori non punibili, nella speranza di dilazionare così le misure che in teoria dovrebbero immediatamente conseguirne: evacuazione totale dei campi abusivi e di quelli autorizzati ma fuori norma; espulsione immediata dei nomadi extracomunitari e, dopo un soggiorno di tre mesi, anche dei nomadi comunitari. Si tratta di promesse elettorali che per essere rispettate implicherebbero un salto di qualità organizzativo e politico difficilmente sostenibile. Dove mandare gli abitanti delle baraccopoli italiane – pochissime delle quali "in regola" – se venissero davvero smantellate tutte in pochi mesi? Chi lo predica può anche ipocritamente menare scandalo per il fatto che tanta povera gente, non tutti rom, non tutti stranieri, vivano fra i topi e l’immondizia. Ma sa benissimo di alludere a una "eliminazione del problema" che in altri tempi storici è sfociata nella deportazione e nello sterminio.

Un’insinuazione offensiva, la mia? Lo riconosco. Nessun leader politico italiano si dice favorevole alla "soluzione finale". Ma la deroga governativa al principio universalistico dei diritti di cittadinanza, sostenuta da giornali che esibiscono un linguaggio degno de "La Difesa della razza", aprono un varco all’inciviltà futura.

Negli anni scorsi fu purtroppo facile preconizzare la deriva razzista in atto. Per questo sarebbe miope illudersi di posticipare la denuncia, magari nell’attesa che si plachi l’allarmismo e venga ridimensionata la piaga della microcriminalità. Gli operatori sociali ci spiegano che sarebbe sbagliato manifestare indulgenza nei confronti dell’illegalità e dei comportamenti brutali contro le donne e i bambini, diffusi nelle comunità rom. Ma altrettanto pericoloso sarebbe manifestare indulgenza riguardo alla codificazione di norme palesemente discriminatorie, che incoraggiano l’odio e la guerra fra poveri.

Non si può sommare abuso ad abuso di fronte ai maltrattamenti subiti dai bambini rom. Quando i figli degli italiani poveri venivano venduti per fare i mendicanti nelle strade di Londra, l’esule Giuseppe Mazzini si dedicò alla loro istruzione, non a raccogliere le loro impronte digitali. L’ipocrisia di schedarli "per il loro bene" serve solo a rivendicare come prassi sistematica, e non eccezionale, la revoca della patria potestà. Dopo le impronte, è la prossima tappa simbolica della "linea dura". Siccome i rom non sono come noi, l’unico modo di salvare i loro figli è portarglieli via: così si ragiona nel paese che liquida l’"integrazione" come utopia buonista.

A proposito del sempre più diffuso impiego dispregiativo della parola "buonismo", vale infine la pena di evocare un’altra reminescenza dell’estate 1938. Chi ebbe il coraggio di criticare le leggi razziali fu allora tacciato di "pietismo". Con questa accusa furono espulsi circa mille tesserati dal Partito nazionale fascista. E allora viva il buonismo, viva il pietismo.

Postilla

Sacrosante l’informazione e la riflessione di Gad Lerner. Verrebbe voglia di farne “diffusione militante”, di impiegare l’ottimismo della volontà per convincere i più. Ma purtroppo il filo del pensiero si dirige verso altre sponde. Ricordiamo di aver sentito pochi giorni fa, a Prima pagina di Rai Radio 3, un bravo giornalista di la Repubblica, Sebastiano Messina, rispondere a una signora, che lo accusava di essere troppo tenero con Maroni, con le seguenti parole: “Ma, signora, a me Maroni non mi è particolarmente simpatico, ma bisogna riconoscere che almeno lui sta cercando di fare qualcosa per questi poveri bambini zingari che i genitori non mandano a scuola, sta cercando di fare qualcosa per loro”.

Da allora non sento più Prima pagina: se un giornalista “democratico” parla così…. E poi, quando parlo con altre persone indignate come me per questi rigurgiti di razzismo e mi raccontano di mille casi di affermazioni di disprezzo e paura e repulsione per gli “altri” (gli extracomunitari, gli “ebreacci”, gli zingari, i “negri”), mi viene da domandarmi: ma in che paese viviamo, ma che società abbiamo lasciato che si formasse. Sono convinto che la grande scommessa tra civiltà e inciviltà è stata perduta quando si è lasciato che scomparisse, dagli attrezzi degli uomini, lo spirito critico: la capacità di ragionare sulle cose al di là dei luoghi comuni, di cominciare a pensare alle parole, al loro senso, al loro uso. Forse è di là che bisogna ricomi

Gli osservatori raccontano un vivamaria che trasfigura la crisi italiana in commedia. Soliti attori. Canovaccio arcinoto. Vi appaiono pubblici ministeri; giudici; due processi; condotte border line; conversazioni licenziose (aumentano l’audience). L’imputato Silvio Berlusconi veste i panni dell’agnello sacrificale (o del satanasso) di un corpo togato ostinatissimo a non cedere il suo potere (per alcuni abusivo, per altri benedetto). Come se la crisi italiana fosse immutabile e si potesse soltanto esplorare – oggi, come tre lustri fa – lungo la faglia che separa la politica e la magistratura; il potere sovrano dall’ordine giudiziario. Appendice abituale: il mondo diventa bianco o nero, si divide in "giustizialisti" e "garantisti", in "buoni" e "cattivi" (categorie trasmutabili). Fosse così, le lune non sarebbero poi così nere: è il passato che non passa. Questo teatro di maschere non rappresenta però la radicalità delle mutazioni che cova la crisi italiana.

Berlusconi è il solito lupo dallo stomaco forte, è vero. Lavora pro se. Chiede immunità (al solito). A meno di cataclismi o errori grossolani, la otterrà presto. Se il suo problema fosse soltanto l’impunità, spento l’appetito, dovrebbe fermarsi. Tirerà diritto, invece. Governa tra le macerie e il campo è deserto. Ne è consapevole (e appagato, quale sovrano non lo sarebbe?). Si gode gli utili di una società che ha trasformato il cittadino in consumatore, i diritti in desiderio di benessere (da noi, ha contribuito a inventarla). È favorito dal fallimento del progetto (democratico-capitalistico) di eliminare, attraverso lo sviluppo, le classi povere. Osserva la fine del "progressismo" come conciliazione di capitale e lavoro; democrazia e populismo; cultura e televisione; cattiva coscienza e abiura della memoria. Scruta con compiacimento l’eclissi della politica, subalterna all’economia e perfino alla religione. Prende atto della morte del linguaggio stesso della politica: formule come popolo, nazione, democrazia, Costituzione che cosa significano oggi? Indicano, al più, realtà ormai lontane dai concetti che designavano un tempo. Deve fare i conti con il declino di uno Stato che, dagli anni Settanta, per troppo tempo dunque, ha recuperato in legalità – con un’iperfetazione di leggi, norme, obblighi, istanze di punizione che hanno rinvigorito il potere togato – quel che andava perdendo in legittimità.

Il sovrano sa che – alle viste – non c’è alcuno (partito, istituzione, élite, opinione pubblica) che dia espressione e senso a questo deficit politico e culturale, attualissimo. Il Pd, se è nato, è ancora in fasce, privo di linguaggio e quindi di pensiero: si balocca, in mancanza d’altro, con totem inattuali (un "dialogo" che non c’è). Casini, residuale, non riesce a declinare, dall’opposizione, la sua grammatica della moderazione. Di Pietro, sostenuto dalle "agenzie del risentimento", si colloca tra i suoi migliori alleati con un letale "tanto peggio, tanto meglio". La sinistra radicale, suicidatasi, fatica a rinascere. Cala il capo l’establishment, incerto del suo stesso destino (non c’è posto per tutti sul carro: in tempi di stagnazione, qualcuno morirà). La società appare ammutolita in una zona opaca di indifferenza, confusa dal rumore dei media. È davvero una "crisi" che si può rappresentare nel conflitto – "novecentesco" e nazionale – di politica e magistratura? È, al contrario, il paradigma di una compiuta modernità. Pare che soltanto Berlusconi ne sia consapevole, forse per istinto di predone, forse per chiaroveggenza di mago. Dichiara lo Stato un guscio vuoto. Ne recupera la pura struttura di sovranità e dominio. Chiede di esercitarla senza limiti, in nome del "potere costituente del popolo", con una "decisione" che lascia indistinto il diritto e l’arbitrio, il lecito e l’illecito, l’umano e l’inumano, l’eccezione e la regola. È una tecnica di governo che gli permette (è cronaca) di inaugurare un "diritto della diseguaglianza"; di organizzare "campi di identificazione" al di fuori di ogni garanzia carceraria; di raccogliere le impronte di un’etnia; di trasformare i soldati in poliziotti; presto di smontare gli istituti dello stato sociale che reggono il patto costituzionale. In soldoni, di separare la legge da ogni principio costituzionale, il giudizio da ogni possibile contenuto etico. Quel che abbiamo di fronte allora non sono le "naturali" e prevedibili tensioni interne di una democrazia che fatica a trarsi fuori da una troppo lunga transizione. È, piaccia o meno, la metamorfosi di una democrazia. Bisogna comprenderla, immaginarne gli esiti e le ragioni, prima di liquidarla con qualche pittura pigra o stereotipo antico.

Occorre soprattutto prendere atto che oggi il Paese fa i conti con quell’unico progetto. L’obiettivo primario e dichiarato di Berlusconi (anche i distratti lo vedono, se sono in buona fede) è la riduzione di poteri plurali e diffusi a vantaggio di una forma politico-istituzionale accentrata nella sua figura di premier e nel ruolo di garanzia del presidente della Repubblica. Berlusconi si muove "in parallelo" alla Costituzione (sospensione dei processi, lodo Alfano, detenzioni senza reato, discriminazione etniche), lungo un percorso "duale" che pretende "ordinario". Bypassa la Carta, ma senza riformarla. Intende contrattare di volta in volta le sue decisioni non nel quadro politico dove competono le forze sociali e politiche, ma in un rapporto diretto (e minaccioso) con chi – di quei principi – è custode (Napolitano). Anche così si deve raccontare la "battaglia" del Csm, come è stata definita. Il botta e risposta, che ne è seguito, tra Quirinale e Palazzo Chigi. Anche in questo caso, siamo nell’officina di una metamorfosi.

Non c’è alcun dubbio che il Consiglio possa offrire al ministro di giustizia un parere sul prevedibile pandemonio provocato dalla sospensione dei processi. «È materia organicamente sua» (Cordero) offrire indirizzi, proposte, avvisi (anche non richiesti) alla discrezionalità del Guardasigilli. Napolitano lo ricorda («Non può suscitare sorpresa o scandalo che il Csm formuli un parere»). Vuole raffreddare il clima: «Non può esservi dubbio od equivoco sul fatto che al Csm non spetti in alcun modo un vaglio di costituzionalità». Ma in ballo non è "il parere" in quanto tale, è il suo peso politico-istituzionale, è il sostegno (indiretto) che può offrire a chi avrà l’obbligo di pesarne presto la coerenza con i principi. Non c’è che dire, il terreno di scontro è ben scelto da Berlusconi. Il Csm, tra gli organi costituzionali (o a rilevanza costituzionale), è il più ambiguo: "potere dello Stato" e insieme "organo di amministrazione". Incompetente a esprimere – direttamente o indirettamente – la sovranità nazionale eppure legittimato a concorrere con le sue proposte alla formazione dell’indirizzo politico. Nella sua autonomia, protetto da divieti preventivi imposti da altri poteri (li pretendevano Schifani e Fini), ma stretto in confini costituzionali che gli impediscono interventi che interferiscono con le altrui prerogative (lo rammenta il capo dello Stato). È quest’ambiguità che consente a Berlusconi di protestare come illegittima ogni parola sui rischi di norme che possono contrastare con la prima legge dello Stato, dimentico che «l’organizzazione giudiziaria è intessuta della concretezza dei principi costituzionali» (è impossibile discutere di quella, senza interpellare gli altri).

L’offensiva del premier, alla fin fine, non indebolisce la discrezionalità del Consiglio nell’esercizio delle sue attribuzioni. Esclude dal "dialogo" istituzionale il Parlamento, già consegnatosi all’impotenza, e un ministro designato al servizio del sovrano e non della giustizia. Libera il campo per quel «confronto a due» a cui Berlusconi chiede protezione per i suoi passi storti. Diventa come un "memento" al capo dello Stato, che avrebbe potuto farsi scudo anche del parere del Consiglio. Se, come dice, trasformerà in provvedimento con forza di legge il divieto di intercettazioni (il capo dello Stato ne ha già escluso l’urgenza), Berlusconi pare già pronto alla mischia. Presenza solitaria nella debolezza dei poteri dello Stato, Napolitano è destinato presto a diventare il punto di attrito e di resistenza alle pressioni del premier nella costruzione della Terza Repubblica, modernissima e inquietante creatura.

Non siamo i primi ad avere tanta paura. La storia è piena di società spaventate, immerse nei loro incubi. Da quel che possiamo intravedere nello scabro latino attribuito alle XII Tavole, gli abitanti della Roma arcaica - gli antenati di coloro che sarebbero diventati i padroni del mondo - erano letteralmente atterriti dal buio, già nelle loro stesse case. E nella Francia del Cinquecento, agli esordi della modernità, il terrore non doveva essere meno diffuso. «Paura panica (…) paura sempre, paura dovunque»: così scrive di quegli anni Lucien Febbre in un saggio sul problema dell´incredulità, che ancora leggiamo come un grande classico.

Il paradosso è che però le nostre società contemporanee – almeno in questa parte del mondo – sono anche, e di gran lunga, gli ambienti più sicuri che la storia abbia mai conosciuto: non per caso le nostre aspettative di vita si stanno allungando in modo quasi prodigioso, impensabile ancora agli inizi del Novecento, e ciò sta cambiando dall´interno la qualità stessa delle nostre esistenze. Ma la diffusione del timore e dell´ansia non si placa di fronte a una simile evidenza. Al contrario, se ne alimenta, rovesciando ogni conquista materiale, ogni soglia di agio raggiunta, nel fantasma della loro possibile perdita, nella prefigurazione continua dei pericoli che le minacciano, nell´incubo della loro imminente vanificazione. Si apre così una spirale senza fine, che sta trasformando la nostra età in un´autentica epoca d´angoscia – un fenomeno ormai molto studiato, di cui però non mi pare sia stato ancora messo a fuoco il punto cruciale, e cioè il rapporto che la rete mondiale dei mercati tende a stabilire fra tecnica e vita, fra benessere materiale e padronanza del proprio destino. Mentre la paura si sta installando come la compagna quotidiana di masse sempre più vaste e infoscate, e stiamo imparando a riconoscerla come il più popolare dei nostri sentimenti.

Dovunque in Occidente il discorso pubblico è stato investito in pieno da questa ondata, e il nesso fra politica e paura è diventato un vero e proprio segno del tempo. Ma è stato particolarmente in America e in Italia che la destra ha saputo trarne per prima vantaggio: Bush ha costruito gran parte della sua fortuna agitando lo spettro del terrorismo, e Berlusconi, da noi, non ha esitato a ridisegnare l´intera immagine del suo partito, dimenticando il trascinante ottimismo delle origini, per riuscire a intercettare il lungo brivido d´ansia che si sollevava dal Paese.

E si può dire ancora qualcosa di più. Che cioè è stata proprio questa capacità di interpretare e di dar voce alla nuova paura italiana che ha reso (o almeno ha fatto sembrare) la nostra destra davvero – e per la prima volta – una destra di massa e di popolo, capace di aggregare intorno a sé qualcosa di molto vicino a un blocco sociale e culturale relativamente compatto. All´opposto, lo schieramento di centro sinistra si è drammaticamente rivelato, in questo frangente, incapace di capire, di sintonizzarsi, di tradurre in politica la preoccupazione e il pessimismo diffuso nel corpo sociale, riducendosi a figurare come una parte chiusa, ingessata, tendenzialmente tecnocratica ed elitaria, in sostanza lontana dalle attese e dai bisogni degli elettori, votata all´autoreferenzialità e attenta solo al dosaggio fra le sue componenti.

Il nostro è un Paese culturalmente fragile, almeno dal punto di vista politico. La fine dei grandi partiti attraverso i quali è avvenuto il nostro non limpidissimo apprendistato repubblicano e democratico ha acuito una debolezza che ha origini molto lontane, cui non è estraneo il millenario magistero della Chiesa. Abbiamo sempre i nervi scoperti, e l´antipolitica a portata di mano. Ciò ci rende ancor più sensibili ed esposti rispetto alle contraddizioni di un´economia globale che per giunta sta avendo su di noi impatti sociali più forti che altrove (anche qui per ragioni connesse a storiche inadeguatezze e a squilibri mai compensati). Percepiamo – sia pure in modo confuso – che la sicurezza complessiva della nostra società sta aumentando, e di molto, ma percepiamo anche – e in modo assai netto – che le quote (per dir così) di questa nuova sicurezza si dividono tra gli aspiranti in modo drammaticamente diseguale, e che gli strumenti per accedervi – mobilità, spazio, informazione, tempo, servizi – si concentrano secondo modalità incontrollate. La consapevolezza dello scarto non si inscrive tuttavia in un´ormai impensabile coscienza di classe, ma dilata solo «l´orizzonte delle paure», come ha scritto Ezio Mauro su questo giornale il 17 giugno, e rende disponibili a una rappresentanza politica che fa, appunto, del timore e della frustrazione il suo collante, che tende a sostituire la delega alla partecipazione, e si mette alla testa delle nuove "plebi"(o presunte tali) non con un messaggio di riscatto radicale, ma con la suggestione di cure assolutamente parziali, però brutalmente efficaci e immediate: Robin Hood tax, ronde e tessere di povertà. E per il resto, calcio (ma l´avete visto il Tg1, in queste sere?), congiunto all´ostentata esemplarità – tra mito e reality – di irresistibili ascese "private", baciate dal denaro e dalla fortuna.

Non sarà facile sostituire all´asse maggioritario fra destra e paura, un opposto legame, fra sinistra e speranza. Ma credo proprio che solo questo potrà essere il nostro compito, e che vi sia d´altra parte – nel mondo che ci aspetta – una intrinseca e oggettiva somiglianza fra la composizione organica della nuova paura e quella della nuova destra (l´idea del vincolo, del limite, del ritorno – altro che libertà!), come ve ne sia una, alternativa, fra sinistra e speranza (l´idea della liberazione, del superamento, della ragione che sa farsi progetto e futuro). Mettersi su questa strada non è semplice. Essa presuppone una critica conseguente dei lati negativi della globalizzazione, che, pur assumendo quest´ultima come un punto di non ritorno – ciò deve restare fuori questione, nello stesso modo in cui lo era per Marx la società capitalistica – sia capace di rendere plausibili ed evidenti le linee di un suo riequilibrio virtuoso, prima locale ma poi completamente planetario. C´è bisogno cioè che la critica dell´economia globalizzata si apra su quella che Jonas e Bauman chiamano una nuova "immaginazione etica", adeguata alle nostre responsabilità, e su una nuova teoria della politica. E questo non sarà possibile se non si tornerà a lavorare, in Europa, a un nuovo rapporto fra intellettuali e popolo, post-ideologico, ma non post-democratico. Sarà bene che l´architettura culturale del Pd che sta nascendo ne tenga debito conto.

A lungo la cultura politico-costituzionale italiana (come del resto quella europea fin dalla Costituzione di Weimar) si è interrogata sul tema di quale dovesse essere il rapporto tra la rendita fondiaria e la tutela dei beni comuni. Il problema è tuttavia scomparso dalle odierne agende «riformiste» (il manifesto del 12 maggio) senza che il compromesso «alto» fra proprietà privata e democrazia raggiunto dalla Costituzione italiana del 1948 abbia ottenuto seguito. (Il tema è stato ripreso da Stefano Rodotà su la Repubblicadi lunedì 11 maggio). Tutte le forze capaci di realizzare quel capolavoro politico-culturale che fu la Costituzione sposarono una logica di lungo periodo ponendo le premesse ed i principi per la realizzazione di un sistema economico-politico misto (Art. 42 e 43 della Costituzone) la cui concreta realizzazione veniva lasciata alla dinamica parlamentare.

Un presupposto fondamentale di ogni economia mista è quello per cui il cosiddetto «surplus cooperativo», ossia la crescita di ricchezza collettiva derivate dall’aggregazione degli individui in società, appartiene a tutti e deve essere utilizzato quindi nell’interesse di un progresso civile e sociale che coinvolga tutti i cittadini di uno stato. In una economia mista, dunque, tale surplus cooperativo non può infatti essere automaticamente ed interamente assorbito dalla proprietà privata. Infatti, se il mio alloggio aumenta di valore, tale aumento è prodotto dalla pressione urbanistica, provocata dal fatto che gli uomini e le donne che vivono o vogliono vivere in citta assieme alle attività economiche e sociali tendono a concentrarsi in certe zone piuttosto che altre.

Sono queste attività sociali che determinano l’aumento del valore della mia proprietà in modo del tutto indipendente dal costo della fabbricazione o dalla qualità dei materiali adoperati per costruirla. Una casa di qualità splendida in una zona «depressa» vale molto meno di una casa costruita con materiali scadenti o anche completamente diroccata in una zona ad alta pressione urbanistica. La forbice fra il valore della proprietà privata sul mercato immobiliare ed il costo (materiali e lavoro) dell’immobile è nota come rendita fondiaria.

La potenza del debito

A chi appartiene questo surplus cooperativo (utilizzando il gergo della teoria dei giochi) o se si preferisce una locuzione più tradizionale, la rendita fondiaria? Oggi, l’ideologia dominante ritiene del tutto scontato che la rendita fondiaria appartenga al proprietario, e anche quel minimo di sua socializzazione prodotta dalla tassazione immobiliare (unica forma di imposta patrinoniale nel nostro sistema) è sotto attacco. Tale comune percezione dimostra il successo dell’ideologia neoliberale, dimenticando il fatto che fino a pochi anni fa la principale preoccupazione delle diverse discipline (sociologia, economia, diritto) che si dedicavano al fenomeno urbanistico era di fornire alla politica gli strumenti istituzionali necessari per governare la rendita fondiaria nell’interesse della collettività che la produce. In altre parole la rendita fondiaria, prodotta da tutti, costituisce un esempio di ricchezza comune, che la politica dovrebbe poter utilizzare nell’interesse di tuttimache quasi sempre viene interamente assorbita dal privato proprietario che così sfrutta una rendita di posizione.

Dopo un quarto di secolo di sostanziale silenzio, di proprietà pubblica, beni comuni e del loro rapporto con la proprietà privata si è ripreso a discutere anche in Italia nel quadro del dibattito sul risanamento dei conti pubblici e sul debito aperto dalla nota proposta di Giuseppe Guarino di vendere il patrimonio immobiliare pubblico per ripianare un debito insostenibile. Il dibattito si è riscaldato principalmente in reazione alla tendenza apparentemente inarrestabile alla privatizzazione e dismissione dei beni pubblici e comuni per esigenze di spesa corrente (la cosiddetta finanza creativa).

La vulgata neo-riformista infatti ha presentato la proprietà pubblica come una specie di buco nero che assorbe risorse senza produrre nulla di cui occorre disfarsi al più presto possible. Le operazioni di dismissione sono state così condotte al di fuori da qualsiasi garanzia costituzionale, come se fosse ammissibile e naturale per un governo in carica, liberarsi di tutto un patrimonio comune garantito dalla Costituzione proprio perchè costruito negli anni con sforzo collettivo. Inoltre, a causa di un quadro normative obsoleto, contenuto nel Codice Civile del 1942 e mai modificato al fine di renderlo coerente con la Costituzione del 1948, qualsiasi privatizzazione anche dei beni pubblici più importanti è stata determinata da un semplice decreto ministeriale di «sdemanializzazione»: al di fuori quindi non solo da qualsiasi controllo costituzionale ma anche senza bisogno di alcun coinvolgimento del Parlamento. Insomma, in Italia il maggiordomo assunto a termine (la maggioranza parlamentare del momento) ha il potere di vendere il patrimonio di famiglia (la collettività dei cittadini italiani) quasi sempre trasferendolo sottocosto ad attori privati e compensando profumatamente le banche d’affari che gestiscono tali «cartolarizzazioni».

Miracoli del censimento

Grazie anche ad un libro fondamentale e coraggioso del Rettore della Scuola Normale di Pisa (Salvatore Settis, Italia S.p.A.) i rischi di tale politica sono stati messi all’ordine del giorno. Si è avviata così una fase di riforme del regime dei beni culturali che hanno ricevuto in poco tempo attenzione bipartisan in forma di un «Codice» (e quindi legislativa) legato al nome di Urbani prima e di Rutelli poi. Ma il patrimonio pubblico, non è affatto limitato ai beni culturali (che pure, soprattutto in Italia, ne sono una componente non trascurabile) e la sua buona gestione e garanzia costituisce una delle più importanti trasformazioni strutturali necessarie per portare la nostra organizzazione sociale in sintonia con la visione della Repubblica italiana contenuta nella Costituzione.

Pur prescindendo dalla rendita fondiaria, fra i beni pubblici infatti ci sono le principali infrastrutture del paese, dalle autostrade alle ferrovie ai porti agli aeroporti, ospedali, tribunali, scuole, asili, prigioni, cimiteri ma anche foreste, parchi, acque, frequenze radiotelevisive e telefoniche, proprietà intellettuale pubblica, crediti fiscali. Il censimento di tali ricchezze ingentissime è iniziato con il «Conto patrimoniale della Pubblica amministrazione» voluto da Giulio Tremonti nel 2004 e per gran parte degli immobili è stato recentemente completato dall’Agenzia del Demanio. Sappiamo adesso che il valore di questo patrimonio pubblico italiano è altissimo, il più alto in Europa, ed è quindi verosimile che la buona gestione di questa ricchezza, secondo principi giuridici generalmente condivisi, possa dare benefici estremamente significativi (non solo economici) alla collettività che, ai sensi della nostra Costituzione, ne è proprietaria.

Non bisogna dimenticare infatti che la collettività non è composta soltanto da proprietari privati ma anche da nullatenenti la cui unica proprietà è pro quota quella pubblica. Di qui il riproporsi dell’annoso conflitto fra proprietà privata e democrazia, alla cui soluzione di principio hanno lavorato i nostri costituenti. Discutere di come utilizzare la proprietà pubblica è perciò questione fondamentale all’interno di un regime politico democratico e il luogo in cui ciò deve avvenire non può che essere il Parlamento perchè il Ministero dell’Economia, a tacer d’altro, è oberato dalle esigenze di far cassa sul breve periodo.

La comunità accademica si è fatta sentire e nel giugno del 2007 il Guardasigilli accolse le raccomandazioni espresso un anno prima dall’ Accademia Nazionale dei Lincei. Con un decreto ministeriale del 21 giugno 2007, l’allora ministro della giustizia Clemente Mastella investì del tema del regime giuridico della proprietà pubblica e della riforma delle parti del Codice Civile che lo riguardano una Commissione affidandone la guida a Stefano Rodotà, uno dei più prestigiosi studiosi internazionali della proprietà. La commissione, composta fra gli altri da «amministrativisti » del calibro di MarcoD’Alberti o da economisti come Giacomo Vaciago, ha completato i suoi lavori nel febbraio scorso a governo dimissionario e Parlamento sciolto. La proposta di legge delega da essa prodotta, è stata tuttavia ripresa e discussa lo scorso mese in una giornata di studio all’Accademia dei Lincei e si trova oggi nelle mani del guardasigilli Angelino Alfano che potrebbe dar prova di autentica volontà riformista di lungo periodo presentandola al più presto al Consiglio dei Ministri al fine di portarla in Parlamento per la discussione.

Fra le più significative innovazioni che il Parlamento dovrebbe dunque discutere vi è l’introduzione di una nozione di beni comuni, che apartengono a tutti i consociati, e che l’ordinamento deve tutelare e salvaguardare anche a beneficio delle generazioni future. Secondo la «Commissione Rodotà» i beni comuni di proprietà pubblica dovrebbero essere gestiti da soggetti pubblici ed essere collocati fuori commercio proprio al fine di evitarne il saccheggio privato.

Sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate.

Un patrimonio da salvaguardare

La Commissione per la riforma del Codice Civile ha inoltre previsto altre categorie di beni pubblici, alcuni dei quali, «che soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali», sono ad appartenenza pubblica necessaria e quindi a loro volta non privatizzabili. Vi rientrano fra gli altri: le opere destinate alla difesa; le spiagge e le rade; la reti stradali, autostradali e ferroviarie; lo spettro delle frequenze; gli acquedotti; i porti e gli aeroporti di rilevanza nazionale ed internazionale.

Altri beni sono pubblici non in quanto collegati alla sovranità dello Stato ma in quanto indissolubilmente legati alle esigenze organizzative dello Stato sociale previsto dalla Costituzione italiana: «Sono beni pubblici sociali quelli le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della persona». Vi rientrerebbero tra gli altri: le case dell’edilizia residenziale pubblica, gli edifici pubblici adibiti a ospedali, istituti di istruzione e asili; le reti locali di pubblico servizio. Secondo la proposta della Commissione tali beni non potrebbero essere alienati senza che lo stesso livello di servizi sociali sia garantito attraverso altri beni sostitutivi. Tutti gli altri beni pubblici vengono definiti fruttiferi: essi sono alienabili e gestibili dalle persone pubbliche con strumenti ordinari di diritto privato. L’«alienazione » è consentita però solo quando siano dimostrati il venir meno della necessità dell’utilizzo pubblico dello specifico bene e l’impossibilità di continuarne il godimento in proprietà con criteri economici.

Progettualità di lungo periodo

A questa struttura giuridica generale, che cerca di recuperare una progettualità di lungo periodo sviluppando, dopo sessant’anni, il mandato costituzionale, corrispondono diverse proposte volte a coniugare l’equità anche intergenerazionale con l’efficienza economica e gestionale.

In questo itinerario la cultura giuridica ed economica italiana, in dialogo con le più significative esperienze estere, ha cercato di offrire alla politica alcuni strumenti tecnici di avanguardia per affrontare in modo progettuale nell’interesse di tutta la nostra collettività, un futuro di risorse sempre più scarse. Sapranno i «nuovi» Berlusconi e Tremonti, il primo rinnovato statista, il secondo «mercatista» pentito, abbandonare la via della paura ed imboccare finalmente quella della speranza, affrontando in spirito autenticamente bipartisan i veri nodi strutturali ancora da implementare?

Il caso ha voluto che l’annuncio del "pacchetto sicurezza" coincidesse con la discussione al Parlamento europeo sugli immigrati in Italia, alla quale la maggioranza ha reagito condannandola come una manovra contro il Governo. Brutto segno, perché rivela che non v’è consapevolezza della gravità di quel che è accaduto a Ponticelli, con un assalto razzista che la dice lunga sulle responsabilità dei molti "imprenditori della paura" all’opera in Italia.

Invece di riflettere su un caso che ha turbato l’Europa, ci si rifugia nella creazione di un nemico "esterno" dopo aver individuato il nemico "interno" nell’immigrato clandestino, nell’etnia rom. Ma l’iniziativa europea non è pretestuosa, perché i trattati sono stati modificati per prevedere un obbligo dell’Unione di controllare se gli Stati membri rispettano i diritti fondamentali.

Una prima valutazione del "pacchetto" mette in evidenza, accanto all’opportunità di alcune singole misure (come quelle relative all’accattonaggio e ai matrimoni di convenienza), una scelta marcata verso la creazione di un vero e proprio "diritto penal-amministrativo della disuguaglianza". Vengono affidati a sindaci e prefetti poteri che incidono sulla libertà personale e sul diritto di soggiorno delle persone, con una forte caduta delle garanzie che pone problemi di costituzionalità e di rispetto delle direttive comunitarie. Il diritto della disuguaglianza può manifestarsi anche attraverso le norme che prevedono la confisca degli immobili affittati a stranieri irregolari e disciplinano il trasferimento di denaro all’estero. Infatti, può determinarsi una spinta verso un ulteriore degrado urbano, visto che gli irregolari saranno obbligati a cercare insediamenti di fortuna. E la stretta sulle rimesse degli irregolari potrebbe far nascere forme odiose di sfruttamento da parte di intermediari.

Lo spirito del pacchetto si coglie con nettezza considerando il reato di immigrazione clandestina. A nulla sono servite le perplessità all’interno della maggioranza, i moniti del mondo cattolico (da ascoltare solo quando invitano ad opporsi alle unioni di fatto e al testamento biologico?), le osservazioni degli studiosi. Si fa diventare reato una semplice condizione personale, l’essere straniero, in contrasto con quanto la Costituzione stabilisce in materia di eguaglianza. Si prevedono aggravanti per i reati commessi da stranieri, incrinando la parità di trattamento con riferimento alla responsabilità personale.

È inquietante la totale disattenzione per quel che ha già stabilito la Corte costituzionale, in particolare con la sentenza n. 22 del 2007 che ha messo in guardia il legislatore dal prendere provvedimenti che prescindano «da una accertata o presunta pericolosità dei soggetti responsabili», introducendo sanzioni penali «tali da rendere problematica la verifica di compatibilità con i principi di eguaglianza e proporzionalità». Questa logica va oltre il reato di immigrazione clandestina, impregna l’intero pacchetto, ignorando che «lo strumento penale, e in particolare la pena detentiva, non sono, in uno Stato democratico, utilizzabili ad libitum dal legislatore».

Dopo aver annunciato una sorta di secessione dall’Unione europea, accusata di faziosità, il Governo prende congedo dalla legalità costituzionale? Il Governo dovrebbe sapere che i suoi provvedimenti possono essere cancellati da una dichiarazione di incostituzionalità. Rimarrebbe, allora, solo l’"effetto annuncio" per gli elettori del centrodestra.

Così, neppure l’efficienza è assicurata. Un solo esempio. Tutti sanno che sono state presentate 728.917 domande di permesso di soggiorno (411.776 vengono da colf e badanti). I posti disponibili sono 170.000. Una volta esaurite le pratiche burocratiche, dunque, rimarranno fuori 558.917 persone. Che cosa si vuole farne? Che senso ha, di fronte a questa situazione, parlare di reato e abbandonarsi a proclamazioni «mai più sanatorie»?

Ora i governanti parlano di una attenzione particolare per le badanti, ma la soluzione non sta nella ridicola procedura della legge Bossi-Fini, che subordina l’ingresso in Italia alla preventiva chiamata di un datore di lavoro. Chi farebbe arrivare una badante, alla quale affidare funzioni di cura, senza averla vista in faccia? Ed è inaccettabile la furbesca soluzione di far tornare: gli immigrati per una settimana nel loro paese, farli poi chiamare dal loro attuale datore di lavoro e così farli rientrare regolarmente. Ma che razza di paese è quello che dà una lezione di aggiramento delle leggi proprio agli immigrati dai quali si pretende il rispetto della legalità?

Si dice: in altri paesi l’immigrazione clandestina è reato. Ma non si può usare la comparazione prescindendo dal contesto costituzionale, dalle modalità che regolano l’accesso, dal sistema giudiziario. Quali effetti avrebbe sul nostro sistema giudiziario e sulle carceri l’introduzione di quel reato? Sarebbe insensato caricare le corti di diecine di migliaia di nuovi processi, condannando a morte un processo penale già in crisi profonda e rendendo più complesse le stesse espulsioni. Le carceri, già strapiene, scoppierebbero, o salterebbero tutte le garanzie facendo diventare i Cpt veri centri di detenzione. E tutto questo per colpire persone considerate pericolose "a prescindere", quasi tutte colpevoli solo di fuggire per il mondo alla ricerca di una sopravvivenza dignitosa. E la promessa di accoglienza per le badanti "buone", lascia intravedere ritardi burocratici e possibili arbitri. Si corre il rischio di avere norme, insieme, pericolose e inefficienti.

Queste contraddizioni nascono dal trascurare le diverse forme di sicurezza che proprio l’immigrazione ha prodotto. Per le persone e le famiglie, anzitutto. Come ricorda Luca Einaudi nel libro su Le politiche dell’immigrazione in Italia dall’Unità ad oggi, le schiere delle badanti hanno consentito di passare da un welfare sociale ad un welfare privato, diffondendo l’assistenza alle persone al di là delle classi privilegiate. Vi è stata sicurezza anche per il sistema delle imprese, provviste di manodopera altrimenti introvabile. E sicurezza per il paese, visto che è stato proprio il contributo al Pil degli immigrati ad evitare rischi di recessione tra il 2003 e il 2005, a contribuire al pagamento delle pensioni di tutti.

Detto questo, il tema dell’insicurezza non può essere affrontato ricordando solo che le statistiche sull’andamento dei reati dimostrano, almeno in alcuni settori, una loro diminuzione. Il senso di insicurezza non nasce solo dal diffondersi di fenomeni criminali, ma da una richiesta di protezione contro un mondo percepito come ostile, contro presenze inattese in territori da sempre frequentati da una comunità coesa, dunque contro mutamenti culturali. Che cosa fare?

Quando un sindaco coglie pulsioni profonde tra gli abitanti del suo comune, non può andare in televisione dicendo «non chiedo la pena di morte, ma capisco chi la invoca». Deve piuttosto evocare l’ombra di un Gran Lombardo e ricordare che Beccaria contribuì all’incivilimento del mondo con le sue posizioni contro la pena di morte. Quando un sindaco vede a disagio i suoi concittadini nella piazza del paese, non fa togliere le panchine per evitare che gli immigrati vadano lì a sedersi. Quando le situazioni s’infiammano, non si propone un "commissario per i Rom", confermando così l’ostilità contro un’etnia intera. Qui sta la differenza tra svolgere una funzione pubblica e il farsi imprenditori della paura.

Nel discorso di presentazione del Governo, il Presidente del Consiglio ha sottolineato che «la sicurezza della vita quotidiana deve essere pienamente ristabilita con norme di diritto che siano in grado di affermare la sovranità della legge in tutto il territorio dello Stato». Ben detto. Si aspetta, allora, una strategia di riconquista delle regioni perdute, passate sotto il controllo di camorra, ‘ndrangheta, mafia. Non è un parlar d’altro. Proprio la terribile vicenda napoletana ha messo in evidenza il protagonismo della camorra, unico potere presente, imprenditore della paura che esercita la violenza per accrescere la propria legittimazione sociale.

La discussione parlamentare deve ripulire il "pacchetto", concentrarsi sulla migliore utilizzazione delle norme esistenti, sul rafforzamento delle capacità investigative, sull’adeguamento delle risorse. Mano durissima contro le vere illegalità, contro chi sfrutta il lavoro nero e contro il caporalato, contro le centrali del commercio abusivo, dell’accattonaggio, della prostituzione. Non ruolo da sceriffo, ma capacità di mediazione da parte dei sindaci, incentivando le "buone pratiche" già in atto in molti comuni.

Mi sarei aspettato qualche proposta complessiva del "governo ombra", non l’eterno agire di rimessa, segno di subalternità. E i sondaggi siano adoperati ricordando la lunga riflessione sui plebisciti come strumenti di manipolazione dell’opinione pubblica. Esempio classico: la richiesta ai cittadini di pronunciarsi sulla pena di morte all’indomani di una strage. La democrazia è freddezza, riflessione, filtro. Se perde questa capacità, perde se stessa.

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