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Nel «nuovo che avanza» e cui bisognerebbe abituarsi viene messa la precarietà del lavoro. I media portano abbondante acqua a questo mulino. Ah ah, soltanto gli inetti pretendono la sicurezza dell'impiego o, peggio, del posto: inetti, pigri e spesso fannulloni. Il rischio invece è il sale della vita come ben sa l'imprenditore. La Montezemolo francese, boss del Medef, ha avuto la seguente uscita: «La vita, la salute, l'amore sono a rischio, il lavoro non dovrebbe esserlo?».

La signora Parisot ha molti titoli nel suo portafoglio, per cui rischiarne una parte le è agevole. Ma come accusare coloro che non sono proprietari di nulla, salvo talvolta i tre locali in cui abitano, di avere timore dell'avventura, cioè di restare disoccupati? Non si è mai sentito questo ragionamento da un «atipico», soltanto (e di rado) da chi ha un posto fisso.

E quel posto fisso se lo tiene con cura, o una professionalità così forte - architetto, medico, George Clooney -, da poterla spendere sul mercato con tranquillità e ad alto compenso. Il precario normale - e sono da quattro e mezzo a cinque milioni emezzo - conosce lunghi periodi di inattività, che può reggere soltanto con il paracadute dei genitori, generazione a posto fisso. Non può amare il rischio chi ha bisogno di un lavoro e non può trovarlo, o non decentemente compensato, neanche se ha un titolo di elevata qualità; sono ormai una folla i precari nella ricerca, nell'università, negli ospedali, privati e pubblici. E non amano affatto il rischio le banche e i proprietari di immobili cui ci si deve rivolgere per avere un mutuo o un alloggio, e non ti concedono né l'uno né l'altro se non mostri una solida busta paga o solide proprietà.

Nessuno ha coraggio di negarlo. L'astuzia sta nel non parlarne. O nel cambiare le carte in tavola, come quando si dice: «Ma come, vuoi avere lo stesso posto tutta la vita? Che noia. Non ti piacerebbe cambiare, giocare sulla flessibilità?». Sicuro che piacerebbe, lo scriveva anche Fourier (se uno ha voglia di leggerlo troverà nella Nuova società industriale divertenti osservazioni sull'umana inclinazione a produrre di più e con più gusto sfarfallando serenamente da un'attività all'altra). Solo che per cambiare con allegria devi essere sicuro di trovare un altro posto. E questo avviene soltanto in periodi di pieno impiego. Fa impressione dirlo, ma un'elevata mobilità sociale, il passaggio da un lavoro all'altro, c'è stata negli Stati uniti e nell'Unione sovietica, dove sino agli anni '80 trovavi ai cancelli delle fabbriche o negli atrii delle aziende elenchi di richiesta di manodopera. E' precarietà quando si subisce, flessibilità quando si sceglie.

Ma il lavoratore dipendente, e la maggior parte dei piccoli autonomi, può scegliere? I salariati devono in genere «prendere o lasciare». E infatti si sono battuti oltre cento anni per strappare qualche forma di contratto che non li lasciasse esposti a salari invivibili o a zero salari da una settimana all'altra. Possiamo fare un poco, pochissimo, di storia? E' solo dopo la Rivoluzione Francese che si sancisce - udite udite - il «diritto a lavorare», non il «diritto ad avere un lavoro», cioè il diritto di accesso a un reddito in cambio di prestazione d'opera. La prima legislazione sul lavoro dichiara che «ogni uomo è libero di lavorare dove desidera, e ogni datore di lavoro di assumere chi desidera, concludendo un contratto il cui contenuto è liberamente determinato dai due interessati» (1791). Si intende allora che nessuno appartiene più a nessuno, feudi e corporazioni sono aboliti, ed è un passo avanti. Ma si dà per ovvio che c'è una simmetria fra le parti, padrone e lavoratore che si presenta alla sua porta in cerca di impiego - tesi che è alla base del liberismo e viene spacciata anche oggi. Subito dopo la legge di cui sopra, sono dichiarati reato l'organizzarsi dei lavoratori e lo sciopero. Hanno da essere uno a uno, l'uno con il suo capitale e l'altro con le sue sole braccia o la sua mente, come se fossero uguali le loro possibilità di scelta. Questo sistema è durato fino ai primi del Novecento. Ancora nel 1906, giusto un secolo e un anno fa, il regolamento delle fabbriche Renault prescriveva: «Gli operai potranno lasciare la Casa con un'ora di preavviso al caporeparto. Reciprocamente la Casa si riserva il diritto di licenziare senza indennità gli operai facendoli avvertire dal caporeparto un'ora prima».

Sono l'organizzazione solidale della manodopera salariata e lo sciopero, pericoloso per essa ma anche per il padrone, che permettono agli operai di stabilire un rapporto di forza che li protegge dal licenziamento - se uno di loro è mandato via, i suoi compagni di lavoro staccheranno, e una volta su due sarà riassunto. Per questo si parla di «lotte» del lavoro, lotte sono state. Ma «staccare» è un rischio e tale resta. In Italia la Costituzione legalizza lo sciopero ma soltanto la legge Giugni toglierà al padrone il diritto di licenziare «senza giusta causa», e sarà votata solo negli anni Sessanta del Novecento - è il famoso articolo 18. Che il padronato tenta di metter in causa, alzando il numero dei dipendenti delle aziende in cui può non venire applicato. Dalla fine degli anni Settanta comincerà a giocare sulla tenuta dei lavoratori e dei sindacati, la paura di perdere il posto di lavoro per scomparsa dell'azienda - considerata giusta causa se mai ce n'è una. Infatti le «ristrutturazioni» che accompagnano i cambi di proprietà, le fusioni, la maggior parte della «esternalizzazioni» comportano una riduzione del personale.

I teorici del libero mercato sostengono che le imprese reggono gareggiando nel produrre a prezzi bassi, e così rendendo felice il consumatore. Per un certo tempo avevano predicato che con le nuove tecnologie il costo del lavoro era sempre meno importante nel bilancio. Da un paio di decenni hanno precisato che grazie alle tecnologie il lavoro dell'operaio è diventato assai più rapido, e quindi è d'obbligo ridurre il personale, il cui costo è tornato ad essere importante, anzi importantissimo, perché è la voce di bilancio più comprimibile (oltre al profitto). Il ragionamento si può rovesciare: la tecnologia permetterebbe di ridurre per ciascuno il tempo di lavoro a parità di salario, perché la produttività è diventata assai più grande. Se prima delle tecnologie di questi ultimi decenni la differenza di produttività era da uno a uno e mezzo o due, con essa è diventata da uno a uno a dieci o cento. Il salario sarebbe dovuto crescere in proporzione, o ridursi in proporzione il tempo di lavoro a salario uguale. L'esatto opposto di quel che avviene. La produttività sale e ilmonte salari scende.

A questo scopo servono precipuamente gli «atipici» che riportano il diritto del lavoro a oltre un secolo fa. Alla faccia della modernizzazione. I diritti del lavoro sono stati sempre in qualche misura elusi o circuiti. Li eludono la miseria e la disoccupazione, che costringono al lavoro nero, i lavori domestici o «alla persona», che si tende a retribuire poco e a non pagarne i contributi sociali, li elude legalmente il precariato. Il padronato italico ha sempre cercato di sfuggire al contratto, prima di tutto con il lavoro nero, che specie nel mezzogiorno accompagna la piccola e media azienda: lo sanno gli ispettori dell'Inps, al cui arrivo con la guardia di finanza gran parte della manodopera corre a nascondersi. Specie con la manodopera immigrata, e non solo nel sud ma nell'operoso nord, dove intere villette nascondono opifici e il caporalato, che pareva un residuo del XIX secolo ed è tornato a prosperare. Funziona all'interno stesso della manodopera immigrata, specie asiatica, dove uno funge da padrone, o lo diventa, e sottopone gli altri a salari e orari senza regole. Lo schiavismo che Hannah Arendt denunciava negli Stati uniti (il massimo della libertà politica con il massimo della schiavitù sociale) è ripreso in occidente su larga scala.

La legge non ha inventato il precariato, gli ha messo regole legittimandolo. Questo è il problema. Ha accettato che la forza di lavoro venisse considerata come la più obsoleta o banale delle macchine. Questa è una trasformazione di mentalità che rappresenta un colossale passo indietro nei rapporti sociali. Non ha alcuna giustificazione funzionale, è soltanto risparmio sulla forza di lavoro. Che attua anche lo stato usando dei precari negli ospedali e nelle università, mentre a fil di logica dei diritti umani, se fossero una cosa seria, il precario dovrebbe essere pagato almeno il doppio di chi ha un contratto a tempo indeterminato. L'utilizzo del capitale cognitivo si somma a quello sul tempo di lavoro, cercando di «mettere fuori calcolo» l'uno e l'altro, e tende a diventare la forma principale delle nuove assunzioni. Quanto all'articolo del Protocollo sul welfare, secondo il quale per essere assunti occorrono 36 mesi di precariato è una vera presa in giro. Non diversa da quella che nel contratto di primo impiego, il famoso Cpe, il governo di destra voleva imporre in Francia e la mobilitazione degli studenti ha mandato in tilt.

Questo è il processo reale che passa come «fine della classe operaia» o «declino operaio». Quel che è declinata in occidente è la grande fabbrica, forma «sociologica » della produzione che viene decentrata e frantumata grazie alle tecnologie dell'automazione e poi dell'informatica. Ma fuori della fabbrica il salariato si è moltiplicato, industria culturale, dell'informazione e dello spettacolo inclusa. E ha stravinto l'idea che l'accumulazione del capitale, e per di più privato, è inevitabile, è condizione dell'economia, ne è «legge oggettiva». Stravince anche perché il sindacato arretra o si pone sulla semplice difensiva (della quale il sovversivismo, che pretende di opporsi alla timidezza del sindacato, è una variante).

Ma è obbligatorio difendere una trincea indebolita o arrendersi? Non mi pare. Il sindacato svedese non si è opposto all'innovazione tecnologica, ma l'ha contrattata sul serio. Il mutamento che si è verificato con la globalizzazione non è dovuto alla tecnologia, che potrebbe liberare tutti, ma ai rapporti di forza fra le parti sociali su scala mondiale. Mentre il capitale viaggia, come si usa dire, in tempo reale, la forza di lavoro materiale o intellettuale, corpi e vite, resta necessariamente ferma e niente affatto necessariamente scollegata fra un paese e l'altro: per cui la stessa mansione è pagata fino a dieci, cento volte di meno da un paese, specie asiatico, rispetto all' Europa occidentale. E' questo che rende il prodotto cinese così a buon mercato rispetto a quello europeo, ma è indecoroso che financo i sindacati europei chiedano misure protezioniste invece che tentar di collegare i lavoratori.

Già lo spazio europeo sarebbe una regione contrattuale forte. Come non è decente che in nome della competitività i governi permettano la delocalizzazione delle imprese verso i mercati del lavoro a basso costo. Una delle ipocrisie più flagranti della Costituzione europea è che essa garantiva la libertà delle imprese di andarsene, mentre il diritto della persona di accedere concretamente a un reddito decente era del tutto ignorato.

Il padronato, più o meno spersonalizzato nelle grandi multinazionali in concorrenza, non è tenuto a proteggere i lavoratori, protegge azionisti e il suo top management. E' il sindacato che è tenuto a proteggere i lavoratori, vi si affiliano per questo. Ma stenta a pensarsi fuori dello stato nazionale in cui è nato ma i cui confini sono stati sfondati dal movimento mondiale dei capitali, al quale i governi, di destra o di centrosinistra che siano, si adeguano. A questo si aggiunge la pochezza dell'imprenditore italiano il cui motto sembra «prendi i soldi e scappa» - investimenti a lungo tempo, necessari per la ricerca e l'innovazione di prodotto, non ne fa. Né lo induce a farlo la filosofia della Ue, che invita il nostro governo a non occuparsi di economia e spendere sempre meno in quel salario indiretto che sono la previdenza e la sicurezza sociale, trittico che le lotte del lavoro si erano conquistate.

Il congegno del precariato ne fa parte, per il governo di centrosinistra è una bella responsabilità.

A chi spetta il compito di arrestare il mutamento climatico? Qualche tempo fa sembrava che fosse una sfida nella quale tutti devono fare la loro parte, tutti in quanto individui. In questo modo la lotta contro il mutamento climatico si trasformò nel modello – molto irriso – di uno stile di vita "verde" (la bicicletta al posto dell´auto, andare in giro a casa propria anziché volare in vacanza). Ma attenzione: il mutamento climatico è evidentemente un problema troppo grande per essere risolto dai singoli individui riuniti – in base al motto "bus anziché auto" –. Esso chiama in causa i governi. Ma anche questi ultimi, se agiscono in modo "individualizzato", sono alquanto inermi.

Ormai tutti sanno che l´anidride carbonica non conosce confini e che qualsiasi tentativo che non venga intrapreso a livello transnazionale, ossia contemporaneamente sul piano locale e su quello globale, è destinato a fallire. Poiché potrebbe passare ancora un po´ di tempo prima che l´umanità riesca a mettere d´accordo l´umanità a questo fine, è necessaria una soluzione temporanea di medio periodo. Anche gli euroscettici più incalliti devono riconoscere che l´Ue rappresenta il soggetto ideale di una politica di contrasto al mutamento climatico e che ora il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, ha colto questa opportunità prescrivendo ai Paesi europei una "rivoluzione postindustriale" – anche nell´intento di rilanciare l´utilità dell´Europa per gli interessi vitali dei suoi cittadini. Solo con il bilancio europeo di molti miliardi di euro si possono effettivamente avviare innovazioni tecnologiche, dalle energie alternative alle tecnologie per il risparmio energetico. Si può dar vita a una nuova alleanza tra gli Stati e l´economia. E, infine, l´Ue con i suoi strumenti giuridici può anche perseguire efficacemente coloro che peggiorano la situazione. A questo punto al lettore verrà un´idea eretica: i governi non sono affatto capaci di fare questo, perché da tempo non controllano più le decisioni economiche.

Naturalmente, si può confidare nella "virtù magica del mercato". Anche nel caso del più grande successo immaginabile tutto ciò avverrebbe assai lentamente. Il tempo, però, è dannatamente ridotto. A fissare la "deadline" – per usare la cruda espressione inglese – non sono i governi, ma la natura.

Giusto, non è possibile ritornare all´economia di piano, nemmeno nell´Ue. Ma non meno forte è la consapevolezza che se mai la "sovranità del mercato" ha rappresentato una minaccia mortale, ciò avviene ora – di fronte all´incombente collasso climatico e ai costi inimmaginabili che esso comporterebbe. Pertanto, i governi che si sottraessero al principio della nuova politica energetica e climatica per l´Europa evidenzierebbero una volta di più l´inadeguatezza dei singoli Stati nazionali a fronteggiare i pericoli globali e quindi anche nazionali.

Questa domanda sul ruolo dello Stato e del mercato nella civiltà globale del rischio comincia a scuotere anche l´autocomprensione americana dopo l´11 settembre 2001 e dopo le conseguenze dell´uragano Katrina del 2005, ma anche in seguito al dibattito riaccesosi sul mutamento climatico. Ciascuno di questi casi dà o ha dato luogo a una discussione in cui ci si chiede se queste esperienze e prospettive traumatiche siano da ritenersi una confutazione della concezione neoliberista dello Stato minimale. Si cristallizza un nuovo contrasto sinistra-destra: da una parte si sottolinea che è compito del governo federale americano ridurre al minimo le minacce e i rischi ai quali gli individui sono esposti; dall´altra, questa definizione dello Stato viene liquidata come sbagliata e fuorviante.

Ma, parallelamente al dibattito sulla politica climatica in Europa, anche negli Stati Uniti la politica verde viene scoperta come una nuova politica geostrategica: "Una delle ragioni per le quali il presidente Bush ha fallito nel tentativo di diventare la guida dell´Occidente", scrive Thomas L. Friedman, uno dei principali commentatori politici americani "sta nella sua incapacità di pensare e agire in verde, mentre ciò è diventato estremamente importante per tutti gli alleati dell´America. Dubito che negli ultimi due anni del suo mandato egli ridefinirà la politica americana. Ma l´importanza dei problemi legati al mutamento climatico e al risparmio energetico è cresciuta in modo tanto impressionante che è impossibile immaginare che il suo successore – chiunque egli sia – non li affronti e non li ponga al centro della propria politica. Se così fosse, sarebbe impossibile immaginare che il vivere, il pensare e l´agire in verde – anziché il combattere contro il rosso – non diventi il nuovo mastice dell´alleanza atlantica".

Una risoluta politica ambientale della Ue potrebbe effettivamente introdurre un cambiamento nell´autocomprensione dell´Occidente. Con il crollo del muro di Berlino sono sorti Stati senza nemici alla ricerca di nuovi spauracchi. Qualcuno teme o spera che lo spauracchio del "terrorismo" sostituisca lo spauracchio del "comunismo", per tenere unito l´Occidente. Ma questa illusione è svanita al più tardi con il fallimento della guerra in Iraq. Nello stesso tempo si profila un´alternativa storica: il mastice senza spauracchio che in futuro terrà assieme l´Occidente potrebbe essere costituito dalle sfide della crisi ecologica, che fondano la comunanza del pericolo. Infatti, non c´è minaccia più grande allo stile e alla qualità della vita occidentale che la combinazione tra il mutamento climatico, la distruzione dell´ambiente, l´approvvigionamento energetico e le guerre che ne possono derivare. Secondo la concisa formulazione del ministro degli Esteri tedesco Walter Steinmeier: «La sicurezza energetica determinerà in modo decisivo l´agenda della sicurezza del ventunesimo secolo». Qui si delinea il modello ultramoderno di una politica interna mondiale, che potrebbe sovrapporsi al modello ormai obsoleto della politica estera nazionale: postnazionale, multilaterale, acronimico, economico, superpacifico sotto tutti gli aspetti, esso predica le interdipendenze in ogni direzione, spinge a cercare amici ovunque, a non immaginare nemici in nessun luogo, solo spauracchi che è meglio cancellare. In questo mondo retorico gli "interessi nazionali" rimangono discretamente nascosti sotto un velo pesante, nel quale sono intessute le parole-chiave "mutamento climatico", "diritti umani" e "interventi per la pace". Kant non avrà avuto in mente proprio questo con il suo titolo dall´ironico doppio senso: "Per la pace perpetua?".

(Traduzione di Carlo Sandrelli)

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