Il discorso pronunciato a Parigi il 5 febbraio 1986 dal capitano Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso, per la «Prima conferenza internazionale sull'albero e la foresta».
La mia patria, il mio Burkina Faso, senza dubbio ha il diritto di definirsi un concentrato di calamità naturali. Otto milioni di burkinabè hanno interiorizzato questa realtà in 23 terribili anni. Hanno visto morire le madri, i padri, i figli e le figlie, decimati da fame, carestia, malattie e ignoranza. Hanno guardato prosciugarsi stagni e fiumi. Dal 1973 hanno visto il loro ambiente deteriorarsi, gli alberi morire e il deserto invaderli a passi da gigante, sette chilometri all'anno.
Solo questa realtà permette di comprendere la genesi della legittima rivolta che, maturata per lunghi anni, è finalmente esplosa in forma organizzata nella notte del 4 agosto 1983, sotto forma di rivoluzione democratica e popolare del Burkina Faso. Qui non sono altro che l'umile portavoce di un popolo che rifiuta di guardarsi morire per aver assistito passivamente alla morte del proprio ambiente naturale. Dal 4 agosto 1983, l'acqua, gli alberi e la vita dell'ambiente sono ritenuti fondamentali e sacri in tutte le azioni del Consiglio nazionale della rivoluzione che guida il Burkina Faso.
Da circa tre anni il popolo del mio paese combatte la sua guerra contro la desertificazione. Da circa tre anni in Burkina Faso ogni avvenimento felice viene celebrato piantando alberi. Nell'anno scolastico 1986 tutti gli studenti della nostra capitale, Ouagadougou, hanno costruito con le proprie mani più di 3.500 stufe migliorate (a basso consumo) per le proprie madri, che si vanno ad aggiungere alle circa 80.000 costruite dalle stesse donne negli ultimi due anni. Questo è il loro contributo allo sforzo nazionale di ridurre il consumo di legna da ardere e proteggere gli alberi e la vita. Il diritto di acquistare o prendere in affitto uno delle centinaia di alloggi pubblici costruiti dopo il 4 agosto 1983 è strettamente condizionato dall'impegno dei beneficiari di piantare un numero minimo di alberi e curarli come la pupilla dei propri occhi.
Dopo aver realizzato più di 150 perforazioni di pozzi che garantiscono l'approvvigionamento di acqua potabile alla ventina di settori della nostra capitale fin qui privati di questo bisogno essenziale; dopo aver portato in due anni il tasso di alfabetizzazione dal 12 per cento al 22 per cento, il popolo burkinabè continua la sua lotta per un Burkina verde. In 15 mesi sono stati piantati 10 milioni di alberi nel quadro del Programma popolare di sviluppo. Nei villaggi situati lungo le valli dei fiumi ogni famiglia deve piantare e curare 100 alberi l'anno.
Il taglio e la vendita della legna da ardere sono stati completamente riorganizzati e regolamentati con severità. Tra queste regole c'è l'obbligo di avere un patentino per fare il commerciante di legname, di rispettare le zone designate per il taglio del legno, fino all'obbligo di assicurare il rimboschimento delle aree disboscate. Ogni città e villaggio del Burkina hanno oggi un bosco avendo ripristinato così una tradizione antica. Tutti i criminali atti di piromania che distruggono le foreste sono giudicati e sanzionati dai tribunali popolari di conciliazione di ogni villaggio. Una delle punizioni previste da tali tribunali è l'obbligo di piantare e curare un certo numero di alberi. Dal 15 gennaio è in corso un'ampia operazione chiamata «Promozione popolare dei vivai», per creare 7.000 vivai di villaggio. Riassumiamo queste tre azioni sotto il vessillo delle «tre lotte».
Vorrei farvi partecipi della nascita e dello sviluppo di un amore profondo e sincero tra i burkinabé e gli alberi nella mia patria.Ci sembra in tal modo di applicare i nostri concetti teorici agli specifici modi e mezzi della realtà saheliana, nella ricerca di soluzioni ai pericoli presenti e futuri che aggrediscono gli alberi in tutto il mondo.
Vogliamo affermare che la lotta contro l'avanzata del deserto è una lotta per la ricerca di un equilibrio fra esseri umani, natura e società. Sono venuto qui per denunciare quegli uomini che con il loro egoismo sono la causa della sfortuna del prossimo. Il colonialismo ha saccheggiato le nostre foreste senza nemmeno lontanamente pensare a lasciarle o a ripristinarle per il nostro domani. Continua impunita nel mondo la distruzione della biosfera con attacchi selvaggi e assassini alla terra e all'aria. E non lo diremo mai abbastanza fino a che punto spargano morte tutti questi veicoli che vomitano fumi. Chi ha i mezzi tecnologici per trovare i colpevoli non ha interesse a farlo, e chi ha quest'interesse manca dei necessari mezzi tecnologici.
La creazione in Burkina di un Ministero dell'acqua è segno della nostra volontà di porre chiaramente sul tavolo i problemi, per trovarne soluzioni. Dobbiamo lottare per trovare i mezzi finanziari necessari ad utilizzare le risorse idriche esistenti, per costruire pozzi, serbatoi e dighe. Noi denunciamo gli accordi unilaterali e le condizioni draconiane posti dalle banche e da altre istituzioni finanziarie che ci impediscono di realizzare molti nostri progetti. Sono condizioni proibitive che provocano un indebitamento traumatico dei nostri paesi privandoci della necessaria libertà di azione.
Il Burkina ha proposto e continua a proporre che almeno l'1% delle somme colossali destinate alla ricerca di forme di vita su altri pianeti sia destinato a finanziare la lotta per salvare gli alberi e la vita. Non abbandoniamo la speranza che il dialogo con i «marziani» possa farci riconquistare l'Eden; ma riteniamo nel frattempo, come abitanti della terra, di avere il diritto di rifiutare un'alternativa limitata alla sola scelta fra inferno e purgatorio.
Così formulata, la nostra lotta in difesa degli alberi e delle foreste è in primo luogo una lotta popolare e democratica. Una quantità di forum ed istituzioni non rinverdiranno il Sahel, se non abbiamo fondi per scavare pozzi di acqua potabile profondi cento metri, mentre c'è tutto il denaro necessario a scavare pozzi di petrolio profondi 3.000 metri! Crediamo nel potere della rivoluzione per bloccare la morte del Burkina Faso e per aprirgli un nuovo luminoso futuro.
«E’ evidente che sul riformismo non la pensiamo tutti allo stesso modo. Un certo ’blairismo’ a me sembra davvero troppo datato. E mi permetto di chiedere a vecchi amici di mettere accanto alla parola ’riformismo’ il nome e il cognome delle cose, le grandi cose italiane di oggi che non sono solo le pensioni e il costo del lavoro. E non sono solo l’economia ma anche ciò che la condiziona sempre più, come la debole base culturale e etico-politica del paese, l’incapacità della plutocrazia dominante di pensare al di là della sua ’roba’, la mancanza di una grande forza nazionale». Tocca affidarsi all’intervento (sul Riformista di martedì) di Alfredo Reichlin, uno che nel Pci di diatribe sul riformismo ne ha vissute quanto basta e di più, per trovare un po’ di sensatezza sul termine che agita le acque del centrosinistra come un totem impazzito, che ciascuno agita e rivendica a modo suo, assolutizzandolo e guardandosi bene dal corredarlo di nomi, cognomi e aggettivi. "O riforme o morte", ha perfino titolato in questi giorni un grande giornale riferendosi a uno dei tanti ultimatum fra i leader della maggioranza; ma quali riforme, e quale riformismo?
Non che sia colpa solo della confusione e dell’approssimazione endemica del centrosinistra italiano. Un tempo era facile a dirsi, pur se sempre molto difficile a farsi: riformista era una prospettiva di trasformazione, o quantomeno di miglioramento, graduale del capitalismo e della liberaldemocrazia, contrapposta alla prospettiva rivoluzionaria. Una linea di conflitto, teorico e pratico, che ha fatto, più che segnato, la storia della sinistra e delle sue aspre divisioni nel Novecento. Poi vennero le rivoluzioni conservatrici di Thathcher e Reagan, e il senso delle parole si stravolse: riformisti diventarono loro e le loro politiche di smantellamento del welfare, conservatori tutti quelli che a sinistra vi si opponevano. Poi vennero ancora Tony Blair e Clinton (e prima, in Italia, c’era stato Craxi), e le loro «terze vie» che per smarcarsi dalle rivoluzioni conservatrici si smarcavano altrettanto dalla tradizione riformista socialdemocratica. E non basta, perché con i neo-teo-cons degli Usa d’inizio secolo da una parte, e il riformismo libertario di Zapatero in Europa dall’altra il quadro si è mosso e complicato ulteriormente. Nell’immobilismo però, e questo è il punto, della sinistra moderata (e per molti versi anche di quella radicale) italiana, la quale è riuscita a passare attraverso innumerevoli svolte rivendicando un profilo riformista ma senza mai definirlo. A partire dalla svolta occhettiana dell’89, quando con il definitivo approdo riformista venne annunciato anche il superamento della tradizione socialdemocratica: bisognava andare oltre. Dove, lo si vede adesso: nella terra di nessuno che è diventato il riformismo di oggi. Nel quale, neanche a dirlo, restano gli echi del blairismo «troppo datato» di cui sopra, ma non si sente risonanza alcuna dello zapaterismo. Che pure non è certo meno liberale, se davvero fosse il liberalismo il punto: ma si sa che dall’89 in poi, in casa (p)ds, fra liberalismo e liberismo la confusione non è mai mancata, e il secondo ha sempre prevalso sul primo. Sicché anche in quel di Caserta, in agenda c’è spazio per le liberalizzazioni ma non per i Pacs. Per riformare le pensioni ma non la legge Biagi né la struttura dei salari. E via dicendo: del riformismo c’è il totem e ci sono i tabu.
Nel frattempo, mentre Piero Fassino attacca le versioni giornalistiche «caricaturali» dello scontro fra riformisti e radicali, caricaturale è diventato il termine riformista e il palio che s’è aperto sul riformismo doc. Digeriti gli amarcord sul «blairismo alle vongole» dei dalemiani resuscitati (o reinventati) a commento del caso Nicola Rossi, ne vedremo delle belle il 18 prossimo venturo, «giornata riformista» indetta dai Dl all’insegna del convincente slogan «un po’ di coraggio e fiducia e torna il futuro». Un riformista indubitabile come Eugenio Scalfari, preso da comprensibile scoramento, ha avuto buon gioco a giocare sui piccoli slittamenti semantici fra riformismo e trasformismo. Di Nicola Rossi rimarranno vive le perorazioni su competitività e meritocrazia, ma è già stata sepolta la denuncia spietata dello stato in cui versano la politica e il principale partito della sinistra. Intanto, provate voi a spiegare a un qualsiasi studente che «riformismo» è anche quello che si è esercitato sull’università italiana, fra Berlinguer e Moratti.