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Capisco che la prescrizione d´un reato di strage come quello di Primavalle del 1973 (perché di questo si trattò, anche se nella sentenza fu derubricato a omicidio colposo) susciti emozione anche a trentadue anni di distanza. Ma un´emozione montata col frullatore mediatico, l´evocazione di memorie lottizzate e non condivisibili, la mobilitazione dei "talk show" televisivi, la chiamata di correi fisici e metafisici, il tutto servito ad un´opinione pubblica frastornata, in perenne ricerca di piatti ravvivati col pepe di Caienna, fa pensare. Di solito la moneta cattiva scaccia dal mercato quella buona. Nel caso in questione il rogo appiccato da un gruppuscolo di disperati, nel quale perirono carbonizzati i due giovanissimi fratelli Mattei, ha scacciato per qualche giorno dalle prime pagine argomenti di ben altro rilievo e attualità. Questo è un dato di fatto preliminare che merita d´esser considerato.

Dal frullatore mediatico sono emersi personaggi che avevamo dimenticato a giusta ragione; altri che nel frattempo avevano mutato pelle e colore assumendo con spregiudicata disinvoltura nuovi ruoli e nuove tribune e, insieme con loro, è riemersa un´atmosfera di violenza, di furore, di regolamento di conti, sapientemente stimolata, una vampata d´inferno artificialmente amplificata, un "horror" in piena regola popolato di attori tratti da una realtà remota: attori incanutiti, arrochiti, ma tuttora in cerca d´un qualsiasi palcoscenico dal quale esibire la propria rabbia e le proprie inaccettabili giustificazioni.

C´è una logica in questa follia? Sì, io credo che vi sia. Ma prima di parlarne cerchiamo di guardare il quadro con il distacco che il tempo consente a quanti furono allora testimoni di ciò che avvenne e possono dunque rendere ancora testimonianza scevra di faziosa partecipazione.

* * *

La contabilità dell´orrore si divide in due partite: quella dei singoli omicidi mirati e quella delle stragi.

Due partite di eguale efferatezza ma di assai diversa fattura. Redatte entrambe sulla bocca dell´inferno da demoni di natura opposta: rosi da passioni di tenebra i primi, gelidi e professionali i secondi; ma entrambi congiunti contro l´ordine costituito, contro il sistema democratico, contro lo Stato costituzionale.

Le persone della mia generazione ricordano bene quegli anni. Ricordano le prime vittime degli omicidi mirati, quelli caduti per mano dei gruppi di estrema destra e quelli caduti per mano dei gruppi di estrema sinistra.

E ricordano le stragi che segnarono l´inizio dei cupi anni di piombo: piazza Fontana del dicembre ?69 e poi Brescia e poi i treni e poi la stazione di Bologna e Peteano, e il punto culminante del mattatoio, il rapimento di Aldo Moro, la sua detenzione il suo omicidio, cui seguì ancora la lunga e sanguinosa scia fino a Roberto Ruffilli, con i truci "post scriptum" di D´Antona e di Biagi.

Faida tra opposte ideologie e comune invidia e disadattamento sociale? Certo. Opposti estremismi? Certo. Disegni eversivi e "golpe" minacciati per influire sullo svolgersi della politica? Certo.

Nel lungo articolo pubblicato sul "Foglio" di giovedì scorso in cui Lanfranco Pace abbozza una giustificazione peggiore del suo trentennale silenzio, c´è una frase, una sola, da cui traluce una scheggia di verità e di sincerità. Leggetela con attenzione quella frase, che spiega molti fatti di allora e molti successivi percorsi di quei personaggi che arrivano ai giorni nostri.

«Per noi [di Potere Operaio] l´antifascismo e a maggior ragione l´antifascismo militante non è mai stato nemmeno alla lontana una priorità. Lo scontro per noi, nelle fabbriche e nel territorio, era contro lo Stato e le sue articolazioni. Ed era contro il Pci, equivoco da sciogliere, ibrido da superare. Certo i fascisti c´erano e dovevamo prenderne atto. Ma controvoglia, come si fa con qualcosa che ti occupa la visuale e ti distoglie dal vero obiettivo».

Ammazzavano i fascisti e ne erano a loro volta ammazzati, ma per toglier l´ingombro che ostruiva la visuale e nascondeva gli obiettivi veri: il sistema, lo Stato, il Pci. Non a caso, quando arrivarono in campo le Br al culmine di quel percorso di confusa violenza, le forze che si opposero al terrorismo furono la Democrazia cristiana e il Partito comunista. E a quelle forze, guidate da Benigno Zaccagnini e da Enrico Berlinguer e sorrette compattamente dall´intera società italiana, si deve se il terrorismo fu sconfitto senza che la democrazia fosse stravolta e i diritti fossero indeboliti o addirittura confiscati.

La stampa fece allora interamente il suo dovere. Voglio ricordarlo perché da tempo è invalso l´uso di accusarla di volta in volta di faziosità e di conformismo. E poiché il nostro giornale si trovò anche in quell´occasione a raccontare e a testimoniare i fatti e la verità, dirò anche in che modo cercammo di adempiere al nostro dovere professionale. Cito da un editoriale di "Repubblica" pubblicato il 15 gennaio del 1979 con il titolo "Due morti che pesano sulla nostra coscienza".

«Tre giorni fa un agente di polizia in borghese ha ucciso il giovane Alberto Giaquinto con un colpo di pistola alla nuca. Cioè sparandogli da dietro mentre il giovane stava fuggendo. Poche ore dopo un "commando" di estremisti di sinistra ha ucciso a revolverate il giovane Stefano Cecchetti, "reo" di frequentare un bar dove si danno spesso convegno estremisti di destra. Sono entrambi, l´uccisione di Giaquinto e quella di Cecchetti, fatti gravissimi non solo perché due vite di giovani sono state falciate da una violenza barbara e inutile, ma anche perché hanno messo a nudo una verità sconcertante: noi giornalisti "democratici", noi opinione pubblica "democratica", abbiamo cercato inconsciamente di rimuoverli, di archiviarli al più presto e di dimenticarcene.

Fosse stato ucciso da un agente in borghese con un colpo di pistola alla nuca un giovane "democratico", noi giornalisti "democratici" e noi opinione pubblica "democratica" non avremmo dato tregua per giorni e giorni, avremmo chiesto conto in tutte le sedi di quanto era accaduto, avremmo invocato prevenzione e repressione e riforme. Ma nel caso di Giaquinto e di Cecchetti la nostra attenzione è stata distratta, la nostra protesta assente o flebile e passeggera.

Mi sono accorto di questo comportamento leggendo i giornali a cominciare da "Repubblica" e non esito ad affermare che si tratta d´un comportamento orribile, quello di pesare il valore della vita e le responsabilità della violenza secondo i colori di bandiera. Per la parte che ci compete ne faccio pubblica ammenda: perciò non rimuoveremo i due morti dell´altro ieri, come non rimuoviamo le cinque donne colpite nella stanza di Radio Città Futura. La sorte di tutti ci deve toccare e ci tocca allo stesso modo; e allo stesso modo, con la stessa ferma tenacia, dobbiamo condannare i responsabili ed esigere la loro punizione esemplare».

* * *

Una cosa ci è sempre stata ben chiara: l´attacco allo Stato democratico e alle forze politiche che in quegli anni ne assunsero la difesa non ebbe mai gli aspetti di una guerra civile. Fu, come sopra ho ricordato, l´attacco di bande terroristiche e prima ancora di estremisti di destra e di sinistra in cerca d´avventura, drogati di violenza e di inconcreti furori ideologici mentre, nello stesso tempo, professionisti del killeraggio organizzavano stragi contro innocenti per elevare la tensione pubblica e piegare la democrazia ai loro turpi disegni.

Personalmente ho sempre pensato che neppure lo scontro del '43-45 tra la resistenza partigiana e le bande di Salò abbia avuto natura di guerra civile.

Non ci fu, dalla parte di Salò, appoggio di popolo. Le milizie del governo fascista operavano come forze ausiliarie dell´armata tedesca di occupazione, senza alcuna partecipazione emotiva e tantomeno pratica della popolazione che dette invece alle formazioni partigiane tutto l´appoggio che si poteva dare in un paese occupato da truppe straniere.

Ci furono a guerra finita massacri odiosi effettuati da partigiani ancora in armi, e furono disonoranti per i valori di libertà in nome dei quali la Resistenza era insorta contro il nazismo.

Nel 1947, con opportuna saggezza, il governo e per esso l´allora ministro della Giustizia, Palmiro Togliatti, promulgò una generale amnistia per i reati di sangue commessi in quell´arco di anni.

Quell´atto di doverosa clemenza chiuse la guerra di liberazione. Restano intatti i valori che animarono (laddove ce ne furono) l´una e l´altra parte e resta intatto il giudizio, tante volte ripetuto da Carlo Azeglio Ciampi di quale sia stata la causa e la parte giusta e quale la causa e la parte sbagliata.

* * *

I conti sono dunque stati chiusi da allora e non li ha certo riaperti la violenza, lo stragismo e il terrorismo degli anni di piombo che furono e sono questione della magistratura ordinaria.

Qual è dunque la finalità che sta dietro al frullatore mediatico che ha montato l´"horror" del rogo di Primavalle con tutto il seguito (ultra-noto e ultra-analizzato) degli annessi e dei connessi? La probabile finalità non è la ricerca della verità, che per la parte ancora ignota spetta alla magistratura di ricercare oppure non sarà mai raggiunta. Si vuole invece riaprire il tema di Salò. Si vuole rimettere in discussione un punto fondamentale e cioè la base di legittimità su cui è nata la Repubblica e la Costituzione repubblicana. Si vuole metter mano, appena sarà politicamente possibile con la scadenza del settennato di Ciampi, ai principi enunciati nella prima parte della Costituzione, fondati sui valori della democrazia e dell´antifascismo.

Il primo passo su quella strada si chiama Salò. A chiudere quella questione l´amnistia del '47 non basta più. Si vuole il riconoscimento dello "status" di combattenti per le milizie fasciste e la loro completa equiparazione morale e materiale alle formazioni partigiane. Con il che non si cambia soltanto lo stato giuridico degli individui che militarono nella parte sbagliata e in difesa di valori negativi, ma (questo è il vero obiettivo) si vogliono cambiare i fondamenti dello Stato repubblicano, la sua identità e la sua legittimazione storica.

Temo (ma spero di sbagliarmi) che il sapiente montaggio dell´"horror" di Primavalle sia strumentalizzato (o strumentalizzabile) a questo fine, ben più gravido di conseguenze politiche e morali. Ma confido che la saggezza della pubblica opinione non cada nelle trappole del "trash" a tutti i costi e preferisca semmai gli "horror" di Dario Argento a quelli di Lollo e dei suoi compagni di crimine, più o meno ravveduti.

«Donna: una persona che si ritiene affidabile per mettere al mondo un figlio ma non per decidere se lo vuole o no». « Pro-life: chi dà valore alla vita umana fino alla nascita». Due esempi dal Dictionary of Republicanism che la Nation Books sta per pubblicare e di cui il sito di The Nation, storica rivista leftist americana, anticipa alcune voci. Un'iniziativa divertente di satira popolare del lessico neocon che sarebbe divertente importare come è stato fin qui importato il lessico neocon medesimo. Che è diventato, scrive su The Nation di questa settimana Katrina Vandel Heuvel (prestigiosa firma della rivista), «un vero e proprio codice cifrato, che distorce l'uso corrente delle parole per manipolare il pubblico ai fini dei Repubblicani». Una strategia lingusitico-politica studiata a tavolino con l'aiuto di appositi think-thanks della destra radicale, che consiste soprattutto nell'usare in senso reazionario parole che nel senso comune hanno un suono moderato, avvalendosi degli slittamenti semantici fra sinonimi, dell'uso pseudo-accademico di prefissi come neo-, della risemantizzazione di alcune espressioni (ad esempio la definizione di liberal trasformata in insulto).

Stufa di questo «programma orwelliano», The Nation ha deciso di darci un taglio combattendo le manipolazioni dei neocon con le armi della satira e i think-tanks con la gente comune, e ha raccolto per sei settimane le definizioni ironiche delle parole topiche della destra scritte dai suoi lettori. Eccone qualcuna: «Bancarotta: un crimine punibile quando è commesso da gente povera ma non quando è commesso dalle corporations». «Cambio del clima: il giorno benedetto in cui gli stati blu saranno ingoiati dagli oceani» (gli stati blu sono quelli che hanno espresso una maggioranza di voti per i democratici). «Creazionismo: pseudoscienza che sostiene che la somiglianza di George Bush con uno scimpanzé è una totale coincidenza». «Democrazia: un prodotto così largamente esportato che le scorte nazionali sono esaurite». «Fox News: faux (false) notizie». «Dio: consigliere anziano del Presidente». «Habeas corpus: termine legale arcaico non più in uso». «Crescita: la giustificazione per tagliare le tasse ai ricchi». «Onestà: menzogne dette in semplici frasi declanmatorie, tipo `la libertà è in cammino'». «Pigrizia: quando i poveri non lavorano; tempo libero: quando i ricchi non lavorano». «Liberals: seguaci dell'Anticristo». «Neoconservatori: idioti con il complesso di Napoleone». «11 Settembre: tragedia usata per giustificare qualunque norma dell'amministrazione, specialmente se non c'entra nulla». «Società dei proprietari: quella civiiltà in cui l'un per cento della popolazione controlla il 90 per cento della ricchezza». «Patriot Act: sciopero preventivo delle libertà americane che serve a evitare che i terroristi le distruggano, o anche l'eliminazione di una delle ragioni per le quali gli altri ci odiano». «Wal-Mart: lo stato-nazione del futuro».

Il gioco, si diceva, è esportabile come la democrazia e potremmo continuarlo noi. Esempi: «Multiculturalismo: le metropoli contemporanee trasformate in gironi infernali danteschi». «Relativismo: subdola strategia per impedire la libertà religiosa» (qui parla Ratzinger, o Pera che fa lo stesso). «Atto dovuto: trasparente strategia per dimostrare che le donne sono tutte potenziali assassine» (qui parla Casini, sul via all'indagine parlamentare sulla 194). «Centri di detenzione per sospetti terroristi: beauty farm con prodotti marca Rice», e qui torniamo negli Usa e il cerchio si chiude.

La lettera è stata publicata con il titolo “Quel giorno, tra i seguaci di bin Laden” dal Corriere della sera del 16 settembre 2001.Ora è in Tiziano Terzani, Lettera contro la guerra, Longanesi & C., Milano 2002

Il mondo non e più quello che conoscevamo, le nostre vite sono definitivamente cambiate. Forse questa è l'occasione per pensare diversamente da come abbiamo fatto finora, L’occasione per reinventarci il futuro e non rifare il cammino the ci ha portato all'oggi e potrebbe domani portarci al nulla. Mai come ora la sopravvivenza dell'umanità e stata in gioco.

Non c'è niente di più pericoloso in una guerra - e not ci stiamo entrando -- che sottovalutare il proprio avversario, ignorare la sua logica e, tanto per negargli ogni possibile ragione, definirlo «un pazzo”. Ebbene, la jihad islamica, quella rete clandestina ed internazionale che fa ora capo allo sceicco Osama bin Laden e che, con ogni probabilità, ha avuto la mano nell'allucinante attacco-sfida agli Stati Uniti, e tutt'altro the un fenomeno di “pazzia” e, se vogliamo trovare una via d'uscita dal tunnel di sgomento in cui ci sentiamo gettati, dobbiamo capire con chi abbiamo a che fare e perchè.

Nessun giomalista occidentale e riuscito a passare molto tempo con Bin Laden e ad osservarlo da vicino, ma alcuni hanno potuto avvicinare e ascoltare la sua gente. A me capitò nel 1995 di passare due mezze giornate in uno dei campi di addestramento che lui finanziava al confine fra il Pakistan e l'Afghanistan. Ne uscii sgomento ed impaurito. Per tutto il tempo in mezzo ai mullah, duri e sorridenti, e a tanti giovani dagli sguardi freddi e sprezzanti, mi ero sentito un appestato, il portatore di un qualche morbo da cui non mi ero mai sentito affetto. Ai loro occhi la mia malattia era semplicemente il mio essere occidentale, rappresentante di una civiltà decadente, materialista, sfruttatrice, insensibile ai valori universali dell'Islam.

Avevo provato sulla pelle la conferma che, con la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo, la sola ideologia ancora determinata ad opporsi al Nuovo Ordine che, con l'America in testa, prometteva pace e prosperità al mondo globalizzato era quella versione fondamentalista e militante dell'Islam. L'avevo intuito per la prima volta viaggiando nelle repubbliche musulmane dell'Asia centrale ex sovietica;* l'avevo sentito con la stessa precisione incontrando i guerriglieri antiindiani nel Kashmir e intervistando uno dei loro capi spirituali che mi salutò dandomi in regalo una copia del Corano - la mia prima - perché ci “imparassi qualcosa”.

Morto un papa, fatto l'altro, dispiegate forme e liturgie, usciamo dal grande spettacolo cattolico delle ultime settimane con molte domande aperte. Che non riguardano solo la figura controversa dell'ex cardinale Ratzinger, ma le forme che la religiosità sta assumendo dentro la Chiesa cattolica e fuori. E il rapporto fra religione e secolarizzazione nel mondo globalizzato. Col senno di poi, suona perfettamente calzante la diagnosi che Juergen Habermas azzardò nel suo discorso alla Fiera del libro di Francoforte un mese dopo l'11 settembre, quando disse che la prima conseguenza dell'attentato alle Torri gemelle sarebbe stata un ritorno di religiosità e di fondamentalismo non tanto nel conflitto fra Islam e occidente, quanto all'interno delle società occidentali secolarizzate. Previsione azzeccata, come il seguito della vicenda politica ha dimostrato negli Stati uniti, col trionfo dei neocons, e in Europa, con i contrasti sull'inserimento delle radici cristiane nella Costituzione laica dell'Unione. Giro la «profezia» di Habermas a Mario Tronti, per cominciare da qui a decifrare le tracce degli eventi visti in piazza San Pietro.

Tre anni dopo, ti pare una diagnosi confermata dai fatti?

Effettivamente era una bella profezia questa di Habermas, anche se suona un po' paradossale che venga proprio da un filosofo di matrice illuminista come lui. Centra il problema che queste ultime settimane ci hanno messo di fronte: l'eterno ritorno del circolo fra il sacro e il secolare. La modernità sembrava averlo risolto una volta per tutte, invece ecco che si ripresenta: non solo in seguito a eventi tragici o «apoocalittici» come l'11 settembre, ma anche in circostanze meno eclatanti. E più che conseguenza del cosiddetto «scontro di civiltà», sembra un esito della modernità e postmodernità della civiltà occidentale. A partire da qui possiamo leggere il passaggio dal pontificato di Wojtyla a quello di Ratzinger su uno sfondo più profondo e in una luce non contingente.

Il passaggio da un pontificato all'altro si può ritenere sempre un evento significativo? O il fatto che ci appaia significativo questo da Wojtyla a Ratzinger fa già parte del problema, segnala già il ritorno di una sensibilità verso il sacro anche fra laici?

Non so se sia stato significativo ogni cambio di pontificato, ma questo certamente esemplifica bene il ritorno del circolo fra sacro e secolare, e come tale va analizzato. Siamo stati appesi alla elezione del papa come qualche mese fa eravamo stati appesi all'elezione del presidente degli Stati uniti. Con la differenza che il presidente degli Stati uniti si elegge ogni quattro anni, mentre l'elezione del nuovo papa avveniva dopo ventisette: ecco la differenza fra i tempi della politica e i tempi della Chiesa. E i tempi lun ghi secondo me si addicono di più alla dimensione del pensiero.

Le prime reazioni all'elezione di Ratzinger non sono state positive, nella sinistra laica e anche fra i cattolici progressisti. Tu che valutazione ne dai?

Ho sentito effettivamente una certa preoccupazione fra i cristiani migliori che abitano la Chiesa ai margini e nelle pieghe. Anch'io lì per lì ero un po' diffidente e preoccupato. Poi, ascoltando l'omelia proeligendopontifice, ho cambiato idea. Intanto il passaggio da un papa polacco a un papa tedesco, e dall'attore di teatro a Cracovia al professore di teologia a Tubinga, è cosa seria e promettente. Anche la provenienza di Ratzinger dal ceppo agostiniano invece che da quello tomista di Wojtyla è una garanzia. Di contro, ad allarmarmi c'è l'entusiasmo degli atei devoti. Questa destra cosiddetta culturale che inneggia a Ratzinger dobbiamo cominciare a chiamarla col suo vero nome: una destra legittimista, mossa dalla nostalgia per un sovrano assoluto - legibus solutus, alla lettera - che sia anche una guida illuminata. Ha detto così il presidente Pera, «abbiamo bisogno di una guida, morale e spirituale», e l'ha detto all'aula del senato della Repubblica, non a un'assemblea di papa-boys. Uno scandalo, di cui troppo pochi si sono accorti.

Che cosa ti ha colpito dell'omelia?

L'incipit: quando Ratzinger riporta il brano di Gesù al Tempio che legge Isaia a proposito del giorno della misericordia, e nota che Gesù omette il versetto seguente di Isaia, laddove si ricorda che il giorno della misericordia è anche il giorno della vendetta. Ho visto in questa citazione di Ratzinger la fine di quello che potremmo chiamare, per parafrasi col politically correct, il «religiosamente corretto».

Cioè?

La riduzione del cristianesimo, e più in generale della religione, a etica delle buone intenzioni o dei buoni comportamenti che perdono il senso originario della fede. E mi pare che questa curvatura dell'omelia di Ratzinger vada messa in relazione con la sua ormai famosa critica del relativismo. Che è fondamentalmente una critica del pensiero debole, quello che sostiene che non ci sono fatti ma solo interpretazioni. In sostanza, mi pare che Ratzinger riproponga la prospettiva di una fede forte. E qui bisogna intendersi: la fede forte è tutt'altro che una fede violenta: è quella che lui chiama «fede adulta», cioè non infantile, non superficiale, non esposta ai venti delle mode, delle ultime trovate del pensiero. Un accento alla Bonhoeffer, in cui a me pare di poter rintracciare anche l'impronta di Romano Guardini.

Però la questione della critica del relativismo secondo me è più ambivalente. Credo anch'io che si tratti di un problema serio, che del resto è ben presente anche al pensiero radicale più spregiudicato - penso alla critica di Zizek alla tolleranza liberale, o alla critica del pensiero della differenza al refrain postmoderno della danza delle differenze. Ma non sono affatto sicura che i termini in cui lo pone Ratzinger siano condivisibili. Nel libro sulle radici cristiane dell'Europa sottoscrive il Pera-pensiero, che vede le matrici del relativismo in Wittgenstein, Nietzsche e Derrida mettendo praticamente sotto accusa tutto il pensiero novecentesco. E anche nell'omelia pro eligendo pontifice, sotto l'etichetta del relativismo c'era di tutto un po', dal marxismo al pensiero post-conciliare. Infine dobbiamo tenere presente qual è l'uso politico che oggi si fa della lotta contro il relativismo, scagliando «la verità» dell'occidente contro «l'inferiorità» delle culture altre.

Infatti, la critica al relativismo non deve andare a finire in un neo- fondamentalismo. Su questo l'attenzione dev'essere vigile, nei confronti del nuovo pontefice. Secondo me però la «fede adulta» esclude una deriva fondamentalista. Proprio perché è adulta, non è una risposta superficiale, e non emargina la ragione ma la esalta. Ratzinger la esemplifica col rapporto fra verità e carità, che va nello stesso senso del rapporto fra vendetta e misericordia. Una carità intesa non come scelta morale ma come scelta di fede, il che impegna a difendere la propria verità sicuramente non con le armi né con la forza, ma forse proprio con un dialogo che sale di livello, che non rinuncia alle proprie posizioni ma le confronta con quelle degli altri. Senza cedimenti ma anche senza chiusure. Almeno, questo è quanto si vorrebbe da un papa grande teologo invece che grande comunicatore.

A proposito di comunicazione. Fra la morte di Wojtyla e l'elezione di Ratzinger c'è stato un dispiegamento di massmedia senza precedenti. Ha ragione chi ci ha visto solo un grande evento mediatico? Oppure il teatro e la liturgia di San Pietro esprimevano ancora una loro forza autentica? E se sì, che cosa dice questa forza alla politica secolarizzata?

La scenografia di Piazza San Pietro, sia nel giorno dei funerali sia in quello dell'intronazione, esprimeva tutta la potenza simbolica della Chiesa, una potenza simbolica intatta e grandiosa dopo due millenni di storia e dopo alcuni secoli di modernità secolarizzata. Questa sapienza divina nell'uso del simbolico, questo saper tenere insieme le masse e i prìncipi del pianeta, ci rimette di nuovo di fronte alla Chiesa come potenza politica. C'è un rapporto complesso fra eskathon cristiano e katechon della Chiesa, fra il futuro di salvezza che il cristianesimo offre all'umanità e la funzione di trattenimento della storia che l'istituzione-Chiesa svolge da sempre. E credo che bisognerebbe instaurare un rapporto preciso fra questa complexio oppositorum del cattolicesimo romano e le forze storiche della trasformazione. Dovremmo riconoscere alla Chiesa questa sua funzione di trattenere la modernità, di ritardare l'accelerazione dello sviluppo. C'è oggi una grande questione antropologica, che riguarda in primo luogo l'Occidente ma comincia a interessare anche il grande Oriente: il contrasto fra l'accelerazione impetuosa del tempo nella produzione, nei consumi, nelle comunicazioni, nell'uso di massa della tecnologia, e i tempi umani che non riescono ad assorbirla, fanno fatica a starle dietro, con tutte le conseguenze che ben conosciamo in termini di comportamenti di massa: assunzione superficiale dell'innovazione, accettazione leggera di tutto quello che passa il mercato, acquisizione volgare del benessere e della ricchezza. Una sinistra moderna dovrebbe farsi carico di questa contraddizione invece di mettersi al seguito della corsa.

Ed è qui che invece interviene il rapporto della Chiesa con il mondo. Dice Ratzinger: «più una religione si assimila al mondo più diventa superflua». Ha ragione, e la frase vale anche per la politica: più la politica si assimila al mondo, a ciò che è così com'è, più diventa superflua. La secolarizzazione rischia di essere questo semplice inseguimento dei tempi accelerati della produzione e della tecnica, senza forze di contrasto. E il sacro risulta l'unico elemento in grado di operare dentro questa contraddizione. Secondo me la ragione di fondo di ciò che chiamiamo crisi della secolarizzazione e ritorno del sacro sta precisamente qui. Molto spesso il ritorno del sacro va interpretato come bisogno di umanizzazione del rapporto dell'essere umano con il mondo che rischia di diventare un rapporto puramente tecnico-economico. Ed è un ritorno che ovviamente non riguarda solo la religione cattolica - anzi, se si esprime in forme religiose diverse tanto meglio.

Non so, qui tocchiamo un altro punto controverso. Molte analisi del fondamentalismo islamico dicono il contrario, lo leggono come uso armato della religione per competere sulla modernità, non per frenarla o trattenerla. E lo stesso vale per il fondamentalismo cristiano dei neocons, potente alleato del liberismo selvaggio.





Infatti sto parlando del sacro, non del fondamentalismo. Il fondamentalismo si allea facilmente con il mercato e con la tecnica. Ma l'alternativa al fondamentalismo non sta nell'accelerazione della secolarizzazione, sta anche in una riconsiderazione del sacro. Che non è solo dimensione religiosa, è dimensione umana, bisogno - lo dico nei termini della filosofia novecentesca - di declinare l'umano nei termini di una differenza irriducibile.

Hai detto finora della funzione di «katechon» della Chiesa. Ma alla politica della trasformazione non interessa anche la funzione escatologica? Ratzinger risponderebbe di sì. Una volta disse che preferiva il mondo di prima dell'89 a quello di oggi, perché il comunismo era sì un grande nemico, ma condivideva qualcosa del messianesimo cristiano. La sinistra di oggi non soffre anche della fine di questa dimensione?

Eschaton e catechon infatti vanno assieme. Nel linguaggio cristiano: devi trattenere il male e proporre il bene. Nel linguaggio politico: devi governare questa società e superarne la forma attuale. Le due prospettive non sono affatto in alternativa come nella vulgata di oggi, per cui o sei contro il capitalismo e non devi governarlo o lo governi e non vuoi più superarlo. Da questo punto di vista è interessante che il politico e il religioso rischino oggi la stessa deriva. Il politico che si affida soltanto all'innovazione non controlla più i tempi del rapporto sociale e ne viene travolto. E così il religioso che si affida a sua volta all'innovazione perde l'essenziale del rapporto di fede. Sarebbe interessante - ho in programma di provarci al Centro per la riforma dello Stato, nell'ambito di una ricerca su fede e secolarizzazione oggi - un'analisi del Concilio Vaticano II, che fu una grande rottura dello schema tradizionale di una Chiesa gerarchica e papista, ma nei decenni ha perso la sua carica propulsiva e ha facilitato l'approdo a una chiesa di credenti senza fede, con le piazze piene e le chiese vuote, a cui Ratzinger dice di voler reagire. Infatti nella prima omelia papale ha parlato di un Dio emarginato, oltre che di una Chiesa che fa acqua, usando quella bella metafora degli apostoli che tirano una rete piena ma strappata, da cui i credenti nella fede sono fuggiti, con la conseguenza dei «deserti interiori» che provocano «santa inquietudine». Una deriva ben visibile in quella piazza San Pietro piena di segni più profani che sacri, telecamere e telefonini e applausi. «Laddove irrompe l'applauso, si è di fronte al segno sicuro che si è del tutto perduta l'essenza della liturgia, sostituita da una sorta di intrattenimento a sfondo religioso», ha detto Ratzinger. Vale anche per la politica di oggi: grandi raduni ma pochissima intensità di visioni.

Infatti. C'è il sacro che rispunta nel secolare e c'è il secolare che rispunta nel sacro. Nel pontificato di Wojtyla non abbiamo visto chiaramente questo slittamento nella religiosità delle forme della crisi della politica?

Culto del capo e populismo: come nella destra di oggi, e nella sinistra che è costantemente tentata di imitarla. Cattiva secolarizzazione di elementi di religiosità, e cattiva traduzione religiosa di elementi della secolarizzazione. Un intreccio molto interessante da frequentare, se siamo capaci di farlo con rigore intellettuale.

I comunisti non mangiano i bambini, gli ebrei non li sacrificano al loro Dio, gli zingari non li rapiscono. Si sa che i pregiudizi sono proiezioni di timori irrazionali, personali e collettivi, e che, come diceva Einstein, "è più facile disintegrare un atomo che un luogo comune". Era dunque ovvio che la contestabile sentenza di Lecco avrebbe rilanciato l’ossessione e la leggenda della corte dei miracoli celebrata da Victor Hugo. Infatti i leghisti hanno affisso i loro manifesti elettorali "giù le mani dai nostri bambini" appropriandosi appunto del pregiudizio sul misterioso popolo dei ladri di neonati che, come insegnano i libri di storia, è addirittura un postgiudizio.

In Europa si cominciò a pensare già tra sei e settecento di assorbire il problema del nomadismo "eslege" togliendo l’acqua al mondo irregolare degli zingari, vale a dire sottraendo i loro bambini agli accampamenti diseducativi per affidarli ai contadini e alla dolce e soda cultura stanziale della zappa. In tutta l’Europa centrale, che registrava il tasso più alto di popolazione zingaresca, per ben tre secoli decreti e leggi furono emanati per "liberare" quei bambini dai loro genitori naturali, sino alla soluzione finale nazista e dunque all’internamento di adulti e pargoli, tutti irrecuperabili come gli ebrei. Ne furono sterminati più di cinquecentomila.

In questo nostro pregiudizio così antico e radicato c’è forse dunque un’astuta operazione di prestidigitazione storica per mettersi in pace con la propria coscienza puerofila e familistica. Insomma eravamo noi a rubare i loro bambini e invece nel fondo oscuro dell’immaginario collettivo da più di tre secoli sono loro a rubare i nostri.

La prima domanda da porsi è dunque: davvero gli zingari rubano i bambini? A Lecco il segretario provinciale della Lega ha denunciato "il tentativo di rapire una giovane padana". E nel manifesto della Lega c’è scritto: "leggerete il futuro nelle nostre manette", che è il contrappasso promesso alle zingare divinatrici le quali, mentre ti leggono la mano o i tarocchi o i fondi di caffè, non solo fregano i portafogli dalle tasche, ma anche i figli dalle culle. I leghisti che, a firma del ministro Castelli, hanno preparato un disegno di legge per lo sgombero dei campi, cavalcano dunque la leggenda dei camerieri di Dracula, le carovane del film di Francis Ford Coppola, delle streghe esotiche e delle saghe notturne, le femmine dei rapimenti demoniaci che organizzano il racket dei mendicanti, allevano schiavi e li nascondono nei loro accampamenti ai margini delle città come in una specie di Aspromonte imprendibile. Si sa che la Padania, quella di ricchezza recente, è tremebonda come i kulaki sotto il potere bolscevico ed ha bisogno di mostri e di capri espiatori. Sino a una generazione fa, era infilata nell’albero degli zoccoli, con un reddito inferiore a quello della Sicilia. Rapidamente opulenti, questi falegnami diventati mobilieri e questi scarpari evolutisi in calzaturieri appunto come i kulaki vedono bolscevichi dappertutto: nei meridionali, negli sloveni, nei croati, negli extracomunitari neri, e ovviamente negli zingari che sono il massimo del "bolscevismo" perché rubano i bambini e, magari, se li mangiano pure.

La Padania, tra le tutte le zone d’Italia, è la più esposta a cadere preda dei pregiudizi e degli umori razzisti. Ogni fenomeno illegale che sta dentro la fisiopatologia della modernità qui può diventare una minaccia apocalittica. Ecco perché il tentato rapimento della bimba di Lecco è il dettaglio che annuncia la calata degli Unni. Ed è una Attila "annebbiata dall’ideolgia marxista e buonista" il magistrato Cristina Sarli che a Lecco, con il rito del patteggiamento, per sottrazione di minore ha condannato a otto mesi e ha rimesso in libertà le due nomadi. Come si sa, una mamma le accusava del tentato ratto della sua bambina. Secondo i cronisti del quotidiano di Lecco La Provincia, che meglio di tutti hanno seguito la vicenda, né il giudice né il pubblico ministero e neppure l’avvocato difensore d’ufficio hanno potuto stabilire e provare con certezza che davvero si era trattato di un tentativo di sequestro. Non c’erano testimoni e, alla fine, il pubblico ministero, che si chiama Luca Masini ed è considerato molto severo, non ha creduto completamente alla versione un po’ confusa e contraddittoria della madre. Temendo dunque che al processo le due nomadi sarebbero state assolte, ha patteggiato la pena minore. E il giudice ha accettato il patteggiamento.Intendiamoci: questa sentenza non ci piace e ha ragione Castelli quando dice che bisognava o assolverle o condannarle severamente. La sentenza, con i suoi giochi di ombre, somiglia alla diagnosidi "quasi incinta". Era rapimento o non lo era? Non esiste il "mezzo rapimento". Ma le ragioni di Castelli si fermano qui. Che tra gli zingari ci siano abilissimi ladri di portafogli e svaligiatori di appartamenti è facilmente dimostrabile, ed è certo che sono dediti all’accattonaggio pietoso e spesso aggressivo. C’è anche una pessima retorica all’incontrario sugli zingari, sui ribelli, i banditi, la Carmen dionisiaca di Berlioz, le fisarmoniche, gli artisti, i coltelli. È la faccia concava dell’ottusità convessa, quella dei pregiudizi; fa il paio con la leggenda dei furti dei bambini. È la poesia dell’accattonaggio, la presunta bellezza esotica e imprendibile della maga Esmeralda che protegge il povero gobbo di Notre Dame... È insomma la retorica rovesciata dei miserabili, degli umili manzoniani, le "Anime perse" di De André, con l’idea che non bisogna chiamarli zingari ma Rom o Sinti, che i campi sono belli come accampamenti indiani nel bel mezzo delle metropoli, che i lori riti tribali sono gioia...

Gli zingari sono dei profughi apolidi, gente che non sta da nessuna parte. Non ci piace la retorica che li beatifica, ma non sono ladri di bambini. E anche se quelle donne di Lecco davvero avessero tentato di rubare quella bambina, non risulta che gli zingari siano il popolo che ruba i bambini. Nelle statistiche del ministero degli Interni non c’è un solo precedente. È vero che non esistono statistiche serie sui furti di bambini, che rimangono una specialità della malavita organizzata: per il commercio sessuale, per la prostituzione, per il traffico delle adozioni. In Italia c’è un’antica tradizione orale che attribuisce agli zingari tentativi di sequestri nei mercati, per la strada, dalle macchine. E c’è anche la leggenda che i rapimenti stiano alla base dell’industria di espianti e impianti di organi, con elicotteri a motore acceso e svelti camioncini adibiti a sala chirurgica volante per rapire e subito consumare. Non ci sono dati reali e non ci sono neppure sospetti sui nomadi nelle sparizioni che tutti conosciamo, quelle di Angela Celentano, Mariano Farina, Salvatore Colletta, Pasquale Porfida, Benedetta Adriana Roccia, Santina Renda... sino al caso recente di Denise Pipitone a Mazara del Vallo. Del resto, se gli zingari rubassero davvero bambini, nell’Italia che è la vera patria della sacra famiglia e che del Cristo iconograficamente stracelebra la puerizia, nell’Italia dove Dio è bambino... allora sì che diventeremmo tutti jihadisti cristiani. Perché tutto in Italia tolleriamo, anche Castelli e Borghezio, ma sui figli no, quelli sono "piezz ‘e core", e non solo a Napoli.

Nello scorso settembre l'Ars, associazione per il rinnovamento della sinistra, organizzò un seminario intitolato «Politica e pratiche politiche. All'origine della questione morale», che rilanciava la questione del rapporto fra politica e pratica politica, già messa a tema nei mesi precedenti da alcuni editoriali di Critica marxista. L'ultimo numero della rivista pubblica adesso, precedute da un editoriale di Aldo Tortorella sulla sempre più accentuata separatezza e autoreferenzialità del ceto politico italiano, alcune relazioni a quel seminario, di Giacomo Marramao, Gianni Ferrara, Maria Luisa Boccia, Enrico Melchionda. La prima e la terza in particolare mi sembrano da segnalare per alcuni tratti che le accomunano. Il primo è il legame che stabiliscono fra crisi politica e crisi culturale della sinistra - o meglio, per dirla con Marramao, fra la crisi e la «deculturalizzazione» della politica. Il secondo è la capacità di leggere alcune dinamiche della crisi italiana con le lenti di alcuni classici - da Max Weber a Gramsci a Simone Weil e Hannah Arendt - , sottraendole così alla riduzione a fenomeni di breve periodo o dell'ultim'ora cui tende il chiacchiericcio politologico sulla transizione infinita. Il terzo è il legame fra politica, forme di vita e pratiche politiche che entrambi mettono al centro del discorso, e il rilievo che di conseguenza assumono, in una prospettiva di valutazione storica che abbraccia ormai più di un trentennio, il pensiero-pratica della differenza sessuale e il suo impatto, diretto o indiretto, sulla crisi e le trasformazioni della politica.

Punto di partenza è una diagnosi netta sullo stato di degrado in cui versa nell'Italia di oggi non solo la politica istituzionale, ma anche la vita civile: siamo fuori, e per fortuna, dalla retorica della contrapposizione fra una politica ammalata e una società civile che scoppia di salute. Tuttavia la responsabilità prima è della politica, e in specie, secondo Marramao, di quella tendenza della sinistra post-Pci a deculturalizzare la politica, così screditandola e rendendola una faccenda da ceto separato preoccupato soprattutto della propria autoriproduzione. Max Weber, con le sue due famose conferenze del 1918 sulla politica e la scienza come professione-vocazione, e Gramsci, con le note dei Quaderni sugli intellettuali e sul «moderno Principe», tornano utili da un lato per ripristinare il nesso fra lavoro intellettuale e pratica politica, conoscenza e potenza, azione trasformatrice e general intellect, specialismi e competenza politica. Dall'altro per ricondurre l'origine della «questione morale» italiana a dinamiche di lungo periodo, aggravate dalle ma non riducibili alle nefandezze craxian-berlusconiane: alla perdita di vocazione della professione politica, sì che a destra e a sinistra aumentano, secondo una distinzione weberiana, quelli che vivono di politica rispetto a quelli che vivono per la politica; e al fallimento di quella funzione di riforma intellettuale e morale del «moderno Principe» gramsciano, che doveva consistere nel promuovere l'«accumulazione etica originaria» in altri paesi aiutata dall'imperativo protestante ma mancata nell'ingresso dell'Italia nella modernità. Per ragioni storiche e interne alla sua stessa storia, dunque, la sinistra emersa dalle ceneri del Pci non può chiamarsi fuori dalla crisi della politica, ma ne è parte centrale e cruciale.

L'analisi dell'oggi non può perciò saltare quello snodo cardinale che fu, già negli anni Settanta, la crisi della forma-partito. Lì ritorna infatti Maria Luisa Boccia, anche lei a partire, sulla scia di Gramsci, del frammento hegeliano su politica e destino riletto da Mario Tronti e di Simone Weil, dal nesso fra politica e vita: la forma-partito regge finché realizza quel nesso, crolla quando lo perde o lo costringe in una organizzazione automatizzata e svuotata di passione, giacché, come Gramsci stesso segnalava, la passione politica organizzata deve diventare razionalità, ma la razionalità dev'essere a sua volta continuamente nutrita e «superata» da una passione che la eccede.

Quando questo circolo si spezza, il Pci finisce. Ma non di sole dinamiche interne: potente fattore di crisi è la scommessa femminista «di dare stabilità, continuità, forma all'agire singolare e plurale senza costruire un'organizzazione» e puntando sull'invenzione di nuove pratiche basate sul rapporto fra vita e politica. Fattore di crisi, e apertura di un'altra prospettiva: per Marramao, la «frattura longitudinale» introdotta dal femminismo della differenza è imprescindibile perché «insegnandoci a distinguere fra sfera pubblica e dimensione statuale ci ha indicato le vie di una politica diversa», che passa per quella pluralità di esperienze, pratiche e soggetti neutralizzati dalla logica della politica tradizionale. Anche se, sottolinea Boccia, il rischio del riconoscimento della rivoluzione della differenza è sempre lo stesso, ossia che se ne assumano alcuni contenuti prescindendo dalle sue pratiche. E tornando a separare la parola e la cosa, il discorso e l'esperienza, la politica e la pratica politica.

L'inno dell'Unione europea, eseguito in numerose manifestazioni pubbliche di tipo politico, culturale o sportivo, è di fatto la melodia dell'Inno alla gioia dall'ultimo movimento della Nona Sinfonia di Beethoven, un vero «significante vuoto» che può stare per qualsiasi cosa. In Francia fu elevato da Romain Rolland, umanisticamente, a ode alla fratellanza di tutte le genti («la Marsigliese dell'umanità»); nel 1938 fu eseguito come momento culminante dei Reichmusiktage e in seguito per il compleanno di Hitler; nella Cina della rivoluzione culturale, mentre si bollavano i classici europei, fu rivalutato come parte della lotta di classe progressista, mentre nel Giappone di oggi è diventato un cult in quanto costituito di quello stesso tessuto sociale, per il suo presunto messaggio di «gioia attraverso la sofferenza»; fino agli anni Settanta, vale a dire quando le squadre olimpiche della Germania Ovest e della Germania Est dovevano gareggiare insieme formando un'unica squadra tedesca, l'inno suonato per le loro medaglie d'oro era l'Inno alla gioia e, contemporaneamente, il regime razzista bianco della Rodesia di Ian Smith - che alla fine degli anni Sessanta proclamò l'indipendenza per mantenere l'apartheid, scelse lo stesso motivo come inno nazionale. Persino Abimael Guzman, il leader (ora in carcere) dell'ultra-terrorista Sendero Luminoso, quando gli fu chiesto quale musica gli piacesse, citò il quarto movimento della Nona di Beethoven. Così possiamo facilmente immaginare una scena fantastica in cui tutti i nemici giurati, da Hitler a Stalin, da Bush a Saddam, per un momento dimenticano le loro rivalità e partecipano allo stesso momento magico di estatica fratellanza...

Una marcia turca

Ma prima di liquidare il quarto movimento in quanto «distrutto dall'uso sociale», come ha detto Adorno, osserviamo alcune caratteristiche della sua struttura. A metà del movimento, dopo che abbiamo sentito la melodia principale (il tema della gioia) in tre variazioni orchestrali e tre variazioni vocali, questo primo climax è seguito da qualcosa di inatteso che inquieta i critici da centottant'anni, ossia dalla sua prima esecuzione: alla battuta 331 il tono cambia completamente e, invece di progredire in modo solenne, come in un inno, il tema «della gioia» è ripetuto nello stile della «marcia turca», preso a prestito dalla musica militare per gli strumenti a fiato e a percussione che gli eserciti europei del XVIII secolo avevano adottato dai giannizzeri turchi. Il registro è qui quello di una parata popolare carnevalesca, di una farsa (alcuni critici hanno persino paragonato i suoni dei fagotti e della grancassa che accompagnano l'inizio della marcia turca a peti...). E da questo punto in poi tutto va male, la dignità semplice e solenne della prima parte del movimento non viene più recuperata: dopo la parte «turca» e in chiara contrapposizione con essa, in una specie di fuga nella religiosità più intima, la musica corale (liquidata da alcuni critici come «fossile gregoriano») cerca di rendere l'immagine eterea di milioni di persone che si inginocchiano abbracciate, contemplando timorose il cielo distante e cercando il dio paterno e amorevole che deve risiedere sopra un tetto di stelle («Über'm Sternenzelt/ Muß ein lieber Vater wohnen»). La musica però, per così dire, si inceppa quando la parola «muß», resa dapprima dai bassi, è ripetuta dai tenori e dai contralti, e alla fine dai soprano, come se questa ripetuta evocazione rappresentasse un tentativo disperato di convincere noi (e se stessa) di ciò che sa non essere vero, trasformando il verso «un padre amorevole deve risiedere» in un atto disperato seppure implorante, e attestando così che oltre il tetto di stelle non c'è niente, nessun padre amorevole è lì a proteggerci e a garantire la nostra fratellanza. Ma la cadenza finale è la cosa più strana di tutte: non sembra affatto di Beethoven, ma somiglia piuttosto a una versione più altisonante del finale del «Ratto del serraglio» di Mozart, combinando gli elementi «turchi» con il veloce spettacolo rococò. (E non dimentichiamo la lezione di quest'opera di Mozart: la figura del despota orientale vi è presentata come un vero padrone illuminato). Il finale è dunque uno strano miscuglio di orientalismo e regressione nel classicismo del tardo XVIII secolo, una doppia fuga dal presente storico, una silenziosa ammissione del carattere puramente fantasmatico della gioia della fratellanza che dovrebbe abbracciare tutti. Se mai è esistita una musica che letteralmente «decostruisce se stessa», questa lo è. Nessuna meraviglia se già nel 1826, due anni dopo la prima esecuzione, alcuni critici definirono il finale «una festa dell'odio verso tutto ciò che può essere chiamato gioia dell'uomo».

Qual è, allora, la soluzione? Per spostare l'intera prospettiva e problematizzare la primissima parte del quarto movimento: in realtà le cose non vanno male solo alla battuta 331, con l'inserimento della marcia turca. Vanno male fin dall'inizio. Dobbiamo accettare l'idea che nell'«Inno alla gioia» c'è qualcosa di insipido, di fasullo, sicché il caos che inizia dopo la battuta 331 è una sorta di «ritorno del represso», un sintomo di qualcosa che non andava sin dall'inizio.

Il sintomo del represso

E se avessimo addomesticato l'«Inno alla gioi»a eccessivamente? E se ci fossimo troppo abituati a considerarlo un simbolo di gioiosa fratellanza? Cosa avverrebbe se dovessimo considerarlo daccapo, scartando ciò che è falso?

Non è forse lo stesso, oggi, per l'Europa? Dopo avere invitato milioni di persone, dal più alto al più basso (il verme) ad abbracciarsi, la seconda strofa termina sinistramente: «Ma colui che non può gioire, si trascini via in lacrime» («Und Wer's nie gekonnt, der stehle/ Weinend sich aus diesem Bund»). L'ironia che l'«Inno alla gioia» di Beethoven sia di fatto l'inno europeo sta, naturalmente, nel fatto che la causa principale dell'attuale crisi dell'Unione è proprio la Turchia: secondo la gran parte dei sondaggi, quelli che hanno votato no ai recenti referendum in Francia e in Olanda lo hanno fatto principalmente perché erano contrari all'ingresso della Turchia nell'Ue. Il no può poggiare sul populismo di destra (no alla minaccia turca alla nostra cultura, no alla mano d'opera a basso prezzo dei migranti turchi) oppure sul multiculturalismo liberale (la Turchia non va fatta entrare perché nei confronti dei curdi non si mostra abbastanza rispettosa dei diritti umani). E la posizione opposta, il sì, è tanto falsa quanto la cadenza finale di Beethoven. La Turchia deve dunque essere ammessa nell'Unione, o deve «trascinarsi in lacrime via dall'Unione ( Bund)»? L'Europa può sopravvivere alla «marcia turca»?

E se, come nel finale della Nona di Beethoven, il vero problema non fosse la Turchia, ma la stessa melodia di base, il canto dell'unità europea come viene eseguito dall'élite pragmatica e tecnocratica, post-politica, di Bruxelles? Ciò che ci serve è una melodia totalmente nuova, una nuova definizione di Europa. Il problema della Turchia, la perplessità dell'Unione europea sulla Turchia, non attiene alla Turchia in quanto tale ma alla confusione sulla stessa natura dell'Europa.

Dove ci troviamo, dunque, oggi? L'Europa è in una grande tenaglia, con l'America da una parte e la Cina dall'altra. L'America e la Cina, viste metafisicamente, sono uguali: la stessa disperata frenesia di una tecnologia senza freni e un'organizzazione dell'uomo medio priva di radici. Quando il più remoto angolo del pianeta sarà stato conquistato con la tecnica e sarà sfruttabile economicamente; quando un qualsiasi incidente, ovunque vi piaccia, diventerà accessibile con la massima velocità; quando, attraverso le dirette televisive, potremo «vivere» contemporaneamente una battaglia nel deserto iracheno e un'opera in scena a Pechino; quando in un network digitale globale il tempo non sarà altro che velocità, istantaneità, e simultaneità; quando il vincitore in un reality show televisivo conterà come l'eroe di un popolo; allora sì, su tutto questo putiferio continuerà ad aleggiare come uno spettro la domanda: per che cosa? - per arrivare dove? - E poi?

Chiunque conosca minimamente Heidegger, naturalmente, riconoscerà facilmente in queste righe una parafrasi ironica della diagnosi di Heidegger sulla situazione dell'Europa a partire dalla metà degli anni `30 ( Introduzione alla metafisica). C'è effettivamente bisogno, tra noi europei, di ciò che Heidegger ha chiamato Auseinandersetzung (confronto interpretativo) con il passato, non solo degli altri ma anche della stessa Europa in tutta la sua ampiezza, dalle sue radici antiche e giudaico-cristiane all'idea, recentemente defunta, del welfare state.

Modelli a confronto

Oggi l'Europa è divisa tra il cosiddetto modello anglosassone - accettare la «modernizzazione» (adattamento alle regole del nuovo ordine globale) - e il modello franco-tedesco - salvare il più possibile del welfare state della «vecchia Europa». Sebbene opposte, queste due opzioni sono le due facce della stessa medaglia, e il nostro vero compito non è né tornare a un passato idealizzato - quei modelli sono chiaramente esauriti - né convincere gli europei che, se vogliamo sopravvivere come potenza mondiale, dobbiamo nel più breve tempo possibile adattarci ai recenti trend della globalizzazione. Né il nostro compito è l'opzione forse peggiore, la ricerca di una «sintesi creativa» tra le tradizioni europee della globalizzazione per ottenere quella che si è tentati di chiamare «globalizzazione dal volto europeo».

Ogni crisi è in se stessa un'istigazione a un nuovo inizio; ogni crollo di misure strategiche e pragmatiche a breve termine (per la riorganizzazione finanziaria dell'Unione, ecc.) una benedizione nascosta, un'opportunità di ripensare le stesse fondamenta. Ciò di cui abbiamo bisogno è un recupero attraverso la ripetizione ( Wieder-Holung): attraverso un confronto critico con l'intera tradizione europea, bisognerebbe riproporre la domanda «Cos'è l'Europa?» o, piuttosto, «Cosa significa per noi essere europei?», e così formulare un nuovo inizio.

Il compito è difficile, ci costringe a correre il grosso rischio di affrontare l'ignoto. Tuttavia la sua unica alternativa è una lenta decadenza, la graduale trasformazione dell'Europa in ciò che fu la Grecia per l'impero romano maturo, la meta di un turismo culturale nostalgico senza effettiva rilevanza.

Nelle sue Notes Towards a Definition of Culture («Note per una definizione della cultura»), il grande conservatore T. S. Eliot osservava che ci sono momenti in cui l'unica scelta è quella tra il settarismo e la non fede, quando il solo modo per tenere viva una religione è compiere una scissione settaria dal suo cadavere. Oggi questa è la nostra unica chance: solo per mezzo di una «scissione settaria» dall'eredità europea «standard», tagliandoci via dal cadavere in putrefazione della vecchia Europa, potremo tenere viva la rinnovata eredità europea.

Traduzione di Marina Impallomeni

L'immagine nella presentazione è di P.P.Rubens, Il ratto d'Europa. Quella nel testo è tratta da una cartolina russa di una bennypostcards/ collezione privata

Generale Ricardo Sanchez, assolto. Generale Walter Wojdakowski, assolto. Generale Barbara Fast, assolto. Colonnello Marc Warren, assolto. Generale Geoffrey Miller, assolto. Non sapevano, o non c'è prova che sapessero. Generale Janis Karpinski: ammonita. Per negligenza. Il caso Abu Ghraib è chiuso? Lo Human Rights Watch, osservatorio americano per i diritti umani, giura di no. Per il 28 aprile, primo compleanno di quelle foto di seviziati, seviziatori e seviziatrici che sconvolsero l'opinione pubblica mondiale promette un nuovo dossier che inchioda alle loro responsabilità, oltre a Sanchez e Miller (ex comandante delle forze americane in Iraq il primo, responsabile delle carceri militari irachene, nonché ex comandante di Camp Delta a Guantanamo il secondo), anche il ministro della difesa Ronald Rumsfeld e l'ex direttore della Cia George Tenet. Facciamo il tifo dagli spalti, ma intanto prendiamo atto che, col rapporto consegnato al Congresso sabato, l'esercito americano si autoassolve: malgrado sia l'inchiesta condotta dell'ex ministro della difesa James Schlesinger, sia quella condotta daiu generali Kay, Fay e Jones ipotizzassero per le torture di Abu Ghraib responsabilità dirette e indirette dei vertici della catena di comando. Seymour Hersh, il giornalista e scrittore che per primo denunciò le torture di Abu Ghraib sul New Yorker, non si stupisce: va sempre così quando l'esercito indaga su se stesso. Non ci stupiamo neanche noi dell'esercito americano. Dei lib eraldemocratici italiani, invece, sì. Riprendo in mano un dossier-stampa su Abu Ghraib dello scorso maggio e rileggo alcune difese oltranziste della democrazia americana davanti a quelle foto di prigionieri incappucciati, derisi, trascinati al guinzaglio. L'argomento era il seguente: episodi, sia pur riprovevoli, di tortura capitano in tutte le guerre e a opera di tutti i regimi, tirannici o democratici che siano; la superiorità delle democrazie sulle tirannie non sta nell'assenza dell'errore, ma nella capacità di correggerlo, ovvero nella capacità di punire, esemplarmente, i colpevoli. Ed eccoci accontentati: colpevole il capitano Graner, condannato a 10 anni di galera dalla corte marziale. Colpevole, di negligenza, la direttrice di Abu Ghraib. Innocenti tutti gli alti vertici. Punizione esemplare di una democrazia esemplare? E' questo che stiamo esportando in Iraq, la tolleranza della tortura e la punizione delle mele marce? E' questo il margine di errore previsto nel conto delle «libere elezioni» che certificano che la democrazia è arrivata a Baghdad? I nostri opinion maker democratici, oltranzisti e «terzisti», ci dovrebbero e si dovrebbero una risposta.

E siccome le cattive notizie sono come le ciliegie e non arrivano mai una per volta, eccoci a un altro «errore» che c'è scappato in un altro paese, l'Afghanistan, liberato e democratizzato con la guerra antiterrorista: la lapidazione di Amina Aslam, 29 anni, rea di tradire il marito, da anni assente e economicamente inadempiente, in una regione oltretutto di etnia tagika, dunque nemica dei Taliban. Ma la guerra in Afghanistan non ci era stata presentata come la guerra di liberazionme delle donne dal burka e dalle esecuzioni sommarie? Sì, noi non ci avevamo creduto ma molti democratici italiani, stavolta non solo «terzisti» ma anche squisitamente di sinistra, ci avevano giurato. Anche in Afghanistan ormai si vota, e dovrebbe vigere un nuovo codice di compromesso fra la sharia e il diritto liberale, ma evidentemente non vige: qualcuno ci aveva avvertito, ad esempio Samira Makhmalbaf nei suoi film, che il patriarcato islamico (come del resto quello occidentale) non sta agli ordini dei governi. I nostri opinion maker democratici, oltranzisti e di sinistra, ci dovrebbero e si dovrebbero qualche risposta. E il segretario dei Ds Piero Fassino, ormai convinto che la guerra (qualche volta) è sbagliata ma l'esportazione della democrazia e dei diritti è cosa buona e giusta, si dovrebbe qualche domanda.

La guerra ha esportato in Iraq molti interessi di chi l'ha voluta, certo non la democrazia. La vista degli iracheni che andavano non senza rischio ai seggi ci ha emozionato ma le elezioni sono state tutto fuorché democratiche, per l'esclusione di una parte della popolazione e per l'oscurità in cui sono stati tenuti i candidati e i loro progetti. Saranno poco più che un referendum sulla forza relativa delle opzioni religiose. E come potrebbe essere diversamente, in un paese sotto occupazione e in un tessuto civile sballottato fra una dittatura nazionalista, le lotte etniche, la guerra all'Iran voluta e finanziata dall'occidente, poi le sanzioni crudeli e infine una pretestuosa invasione? Nella massa di popoli e di gente che vorrebbero respiro, pace e un poco di libertà, inconcepibile senza indipendenza, continuano anche a radicarsi una guerriglia di resistenza e a formarsi gruppi estremi, fondamentalisti o semplicemente sbandati in cerca di soldi. Perfino in Italia una guerra, che era stata aspettata e che molti fecero propria, lasciò quando era finita - e in Iraq finita non è - mesi e mesi di disordini, tenuti a malapena a freno da istituzioni e partiti che erano democratici davvero e non compromessi come quello di Allawi. In questo caos, temiamo, si iscrive il sequestro della nostra Giuliana Sgrena, della quale immaginiamo con angoscia le ore in mano di gente che non sappiamo, e forse neppur lei sa, chi sia, la vita appesa a un filo. Del suo rapimento, come di quello di Florence Aubenas, vien da temere che non sia neanche opera di un gruppo terrorista di stampo politico in qualche misura esperto nella custodia degli ostaggi, ma di sbandati che non sembrano neppur sapere che si tratta di due pacifiste, di due giornaliste che si sono battute contro la guerra e appartengono perdipiù a giornali che pesano poco o nulla sui relativi governi. Non è stato molto diverso neanche per le due Simone. E poi, la Francia non essendo in guerra, non si capisce quale contropartita politica potrebbero chiedere i sequestratori di Florence. E per Giuliana? In Italia far tacere la sua voce e il suo stesso sequestro sono per l'Iraq un grave danno, mentre non minacciano il governo che ci ha infilato in questa storia.

Allora? Allora qualcuno pensa che si tratti di una strategia contro le donne sia perché più facili da catturare - ma è facile qualsiasi giornalista non embedded - sia perché sono donne che hanno preso la parola contro la condizione femminile in quei paesi. Questo secondo aspetto implicherebbe però una notevole informazione e non andrebbe da sé in un universo dove prendersela con una donna non è glorioso - lo si fa in casa propria, non per conto terzi. No, il pericolo è che Giuliana si trovi in mano brutali in cerca di soldi; e, a parte che siamo poveri anche se è sicuro che ci faremmo in quattro per trovarli, che sia difficile perfino stabilire un contatto mille volte mediato per una trattativa. L'Iraq è nel caos, mal controllato dalle forze di occupazione e da un governo non certo percepito come baluardo di pace. La fragilità di quel gesto delle folle che andavano ai seggi malgrado il rischio è assieme commovente e terribile.

In questi giorni noi pacifisti siamo stati bombardati dall'accusa: ma chi avrebbe liberato l'Iraq senza questa guerra? Per mio conto rispondo che nessuno ha liberato quel paese. L'ha passato da un dominio all'altro lacerandone nel transito il corpo già finito. Si poteva fare diversamente? Sì, si poteva. Non servendosene quando faceva comodo, non sanzionandolo, ma alimentando politicamente una opposizione pulita sulla quale non hanno puntato né sinistra né destra, né Usa né Europa, soltanto qualche gruppo di volontari le hanno dedicato forza e pensieri. E non parliamo dei mezzi. Il Congresso degli Stati uniti ha detto che la guerra gli era costata fino a qualche settimana fa 152 miliardi di dollari, aggiungiamo i soldi che costa agli inglesi, ai polacchi e anche alla nostra modesta spedizione. Con un decimo di quella spesa si sarebbe alimentato un Iraq che dal saddamismo, già mezzo in frantumi, si sarebbe liberato senza invasioni. La guerra è maledizione e morte e, sotto il profilo di un trapianto di democrazia, peggio che inutile.

Come ebbi a dichiarare mesi fa al Foglio di Giuliano Ferrara, io apprezzo in Stalin uno dei co-fondatori, insieme con Truman, dello Stato di Israele, la cui nascita poté darsi all'Onu grazie a quella intesa. Apprezzo anche in Stalin il fornitore di armi — tramite la Cecoslovacchia — allo Stato di Israele quando Israele fu aggredito nel 1948 dai Regni legati alla Gran Bretagna (Egitto di Faruk e Giordania). Il capovolgimento di quella politica coincise con la aberrante campagna lanciata da Stalin contro Tito e i cosiddetti titoisti nelle neonate repubbliche popolari.

Mi accadde di parlare ampiamente di Stalin su questo giornale in almeno due occasioni: quando il Corriere riprese la prefazione al mio volume Pensare la rivoluzione russa (Teti) e nel febbraio 2003, quando un po' tutti i quotidiani si occuparono del cinquantenario della morte di Stalin. In entrambi i casi la discussione si sviluppò. Ricordo un ottimo intervento di Sergio Romano a proposito della mia prefazione al volumetto ora ricordato.

Santo Mazzarino — uno dei maggiori storici italiani — usava accostare Stalin a Giustiniano (Pericle c'entra poco) per essere stati entrambi grandi costruttori, grandi despoti e grandi intolleranti. Le semplificazioni non sono sempre benefiche ma possono rendere l'idea. La cosa non buona è a mio avviso che spesso si rinunci, tuttora, a parlare di Stalin con lucida mente, come invece si fa ormai per Robespierre o per altri «sanguinari» assertori della «rivoluzione». Si scatta in piedi invece di soppesare il pro e il contro.

Peraltro, se Time proclamò Stalin nel 1944 «uomo dell'anno» una qualche ragione ci ha da essere. Se l'antifascismo europeo gli ha tributato negli anni del pericolo nazifascista schiette parole di apprezzamento e di riconoscimento, ci ha da essere una qualche ragione. Ciò che invece da parte di alcuni si desidera cocciutamente è che si assimili l'opera di Stalin a quella unicamente nefasta e distruttiva di Hitler. Del resto non sarà un caso che il nazismo abbia portato il mondo alla guerra e alla catastrofe e l'Urss no. Alla fine si è dissolta, non ha trascinato gli avversari e il mondo nel baratro.

Stalin ebbe come linea di condotta di tenersi fuori dai conflitti: fino alla cecità di non prestare fede agli avvertimenti che gli giungevano da più parti nel giugno '41.

La gestione del potere in Urss: non potrò in poche righe sintetizzare i risultati che negli scorsi decenni hanno fornito tanti studiosi. Dirò soltanto che, essendo questa discussione sorta a margine di un libro sul cammino e le forme della democrazia in Europa (sia all'Est che all'Ovest mi raccomandò Jacques Le Goff), le questioni sono due: a) quali modelli di «potere popolare» (democrazia appunto) siano scaturiti dalla rivoluzione del 1917; b) quale effettiva prassi sia stata invece instaurata in Urss e nei Paesi satelliti. Parlare del primo punto io credo sia legittimo (basti pensare agli studi di diritto costituzionale intorno alle codificazioni in Urss).

Doveroso è al tempo stesso comparare questi testi e quegli sforzi con le dure lezioni della realtà e con la prassi effettiva. Scrivevo nel mio libro sulla democrazia (p. 301 dell'edizione italiana) che «nell'ultimo tempo del governo di Stalin furono poste le premesse per la rovina del sistema». E infatti quella che era stata, fin dalla rottura con Trockij e la messa fuori legge dell'opposizione interna al Pcus, una guerra civile ininterrotta condotta con ferocia e senza esclusione di colpi, dopo la vittoria del 1945 avrebbe dovuto esaurirsi o attenuarsi. Averne perpetuato gli strumenti fu rovinoso. Su questo concetto di guerra civile riferito all'intera vicenda che va dal 1927 alla vigilia della guerra mondiale mi piace ricordare le pagine di Feuchtwanger (Mosca, 1937), lo scrittore ebreo esule poi in Usa e lì morto.

Quanto detto sin qui ha un solo presupposto: che si discorra di storia. Ma per discorrere bisogna conoscere il senso delle parole. Mi diverte un po' osservare quali fraintendimenti abbia suscitato l'espressione da me adoperata «creare un mito intorno alla Polonia spartita». Qualcuno ha pensato che io dicessi che la Polonia non era stata spartita! Invece in italiano quella frase significa che un fatto (indiscutibile) viene «mitizzato», cioè occupa tutta la scena, diventa il fatto per eccellenza. Laddove esso era uno degli aspetti del patto dell'agosto '39. Gli altri aspetti erano: la volontà di distruggere prima o poi l'Urss ben radicata nella mente di Hitler (come ha documentato Kershaw nei suoi bei libri), nonché la poca volontà anglo-francese di addivenire davvero ad un patto antitedesco insieme con Stalin (lo scrive bene Churchill nel suo Da guerra a guerra). Per non parlare dell'ostilità polacca a far passare truppe sovietiche sul proprio territorio in caso di conflitto con la Germania e per non parlare della compartecipazione polacca, l'anno prima, alla spartizione della Cecoslovacchia.

E facciamo un esempio su un altro versante: Bacque ha documentato nel volume Der geplante Tod (La morte pianificata) l'annientamento da parte Usa di centinaia di migliaia di prigionieri tedeschi. Erano tempi «ferrei» avrebbe detto Tibullo. Mettersi in cattedra a dare i voti e le patenti di democrazia, ora per allora, fa un po' sorridere.

Qui l'articolo di Victor Zaslawsky al quale Canfora replica

È il vero «eretico» della cultura italiana. Dopo la stagione dei Quaderni piacentini, che fondò nel 1962, si è ritirato a vita privata pubblicando pochi libri (che raccolgono i suoi saggi) e avviando nell'85, con Alfonso Berardinelli, una rivista che sin dal titolo, Diario, rivelava intenzioni ben diverse.

Piergiorgio Bellocchio non ama la politica, forse non l'ha mai amata, rifiutando più di un invito a presentarsi come indipendente nelle liste del Pci. «Non ho mai preso la tessera del Pci. Mi allontanavano la sua chiusura culturale, il dogmatismo, la doppiezza dei dirigenti. Ma dal '53 ho pressoché sempre votato Pci, cioè con e per il popolo comunista, i migliori italiani che io abbia conosciuto. Ora rimpiango anche i dirigenti: avevano capacità, senso del dovere, carattere e un'onestà di cui s'è perso il ricordo». Oggi dice: «La politica mi annoia e disgusta. È diventata un mestiere. Coincide perfettamente con gli affari. Le mani sui soldi. Quando non sono affaristi in proprio, i politici sono mediatori e procuratori d'affari. Col tempo che passa rivaluto la vecchia classe togliattiana e quella degasperiana. Anche i socialisti di Nenni e Saragat. E tanto più gli Ernesto Rossi, Calogero, Jemolo… E i loro maestri Croce ed Einaudi». E Berlinguer? «Era un uomo rispettabile, ma aveva una quota di moralismo eccessiva: nello scontro con Craxi un vero politico avrebbe fatto meglio». Torniamo a Togliatti. «Togliatti riuscì a integrare la classe operaia nello Stato, un evento prefigurato dalla Resistenza, sia pure su scala ridotta. Resistenza peraltro rimossa dallo stesso Pci, e addirittura criminalizzata dal potere. Con gli Anni Sessanta c'è stata una rivalutazione dei suoi valori, però su basi spesso equivoche». Per questo Bellocchio non esita a individuare il suo «libro della vita» nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, uscite nel '52: «In una fase di involuzione clerico-fascista, a me che avevo vent'anni apparvero come la scoperta di un'altra Italia». Altra convinzione, non proprio recentissima: «La classe dirigente democristiana, fino a Moro, è sempre stata più a sinistra del suo elettorato. Ha svolto la funzione di frenare e disciplinare una borghesia che aveva il fascismo nel sangue, educarla alla democrazia: merito di uomini come De Gasperi, Dossetti, Vanoni, Fanfani, Moro. Il vecchio democristiano di destra Scalfaro contro Berlusconi ha avuto più intelligenza e coraggio dei postcomunisti. Più del laico ma pavido Ciampi».

Siamo lontani, come si intuisce, dalle ipotesi rivoluzionarie Anni Sessanta: « Quaderni piacentini nasce in coincidenza con la ripresa della lotta alla Fiat. La Fiat era il centro d'Italia e la classe operaia era per definizione la classe rivoluzionaria. Dalla fine dei Sessanta, la ristrutturazione produttiva riduce via via, anche quantitativamente, il peso della classe operaia, viene meno ogni ipotesi rivoluzionaria. Marxisticamente, il '68-69 non è stato un inizio, ma un epicedio». Al '68 seguirono gli anni del terrorismo. L'assassinio di Moro, raccontato dal fratello di Piergiorgio, Marco. Un parere su Buongiorno notte? Eccolo: «C'è troppa indulgenza nei confronti sia di Moro che delle Br, che furono il colpo mortale per la nuova sinistra. Ho preferito L'ora di religione, dove forse Marco è stato invece fin troppo cattivo nei confronti della Chiesa. Mi preoccupa un po' che il film sia piaciuto ai giovani, che non possono sapere cosa ha rappresentato il caso Moro per la storia d'Italia. Mi rendo conto che il mio è un pre-giudizio politico, ma non riesco ad applicare a quella materia ancora bruciante solo un giudizio estetico».

Non ha più voglia di parlare di Quaderni piacentini: troppe interviste, troppe discussioni, per una storia chiusa da tempo. Bisogna insistere un po'. Modelli? «Le riviste di Gobetti e Il Politecnico, letture postume naturalmente. Il Politecnico fu la cosa migliore fatta da Vittorini, non c'era separazione tra politica e cultura. Veniva anche incollato sui muri come un manifesto. A cattiva cultura, cattiva politica, e viceversa. Come dimostrano gli anni che stiamo vivendo, e al contrario gli anni del dopoguerra».

Qualche esempio, oltre al Politecnico? «Basta pensare a Fenoglio, Bassani, Calvino. E il cinema di De Sica, Rossellini, Visconti. E subito appresso, Antonioni, Fellini, Ferreri… E attori come De Filippo, Totò, Magnani, Fabrizi, e ancora Sordi, Tognazzi, Gassman…».

Più che nei Quaderni piacentini, oggi Bellocchio si riconosce in Diario: «L'ho fatto con passione e pieno coinvolgimento. L'abbiamo interrotto nel '93 perché ci siamo trovati di fronte a una situazione ancora peggiore di quella che il nostro pessimismo aveva pronosticato». E le polemiche contro Eco, e ancora contro la neoavanguardia?

«Risponderei come Kent nel Re Lear: non mi piacevano le loro facce. Un fenomeno di autopromozione. Si scagliavano contro Bassani, Cassola, la Morante… La neoavanguardia non ha prodotto un solo libro che fosse meglio del più brutto romanzo di Cassola. I romanzi di Eco? Non esistono. Ma ora basta, le brutte facce sono altre».

Passando agli Anni Settanta, ripensa a Pier Paolo Pasolini: «Ebbe un fiuto, un istinto, un'intelligenza sociologica fuori dal comune. Gli è stato rimproverato il lato nostalgico, ma la nostalgia non è un sentimento negativo in sé. Ascoltando di recente alla radio delle interviste a donne che erano emigrate dal Sud dopo il '45, cacciate dalla fame e dalla disoccupazione, sono rimasto colpito dall'allegria con cui ricordavano l'estrema miseria, ma anche la profonda solidarietà, che andava molto oltre il clan familiare. E poi il lavoro, malpagato ma meglio di niente… La prima lavatrice, che affrancava dalla schiavitù del lavatoio pubblico. Una donna raccontava di aver guardato per la prima volta l'oblò della sua lavatrice, che stava lavorando per lei, con una emozione superiore a quella provata davanti a uno schermo televisivo. I contadini, operai, artigiani, donne di servizio della mia infanzia: un mondo che ormai non esiste più, ma la cui umanità era senz'altro superiore a quella dei loro figli e nipoti più fortunati».

Da Pasolini a Franco Fortini il passo è breve: «Aveva un'attitudine magistrale eccellente. Ho imparato molto da lui, ma me ne sono anche difeso. Mi trovava non abbastanza marxista. Ci restavo male, perché allora il nostro desiderio era di essere veri marxisti (critici certo, ma marxisti), in realtà era la mia fortuna. Fortini vedeva bene il mio lato borghese e anarchico. Dei miei racconti usciti nel '66, che aveva apprezzato e quasi tenuto a battesimo (il titolo I piacevoli servi è suo), una volta gli scappò di dirmi: quanto sono anticomunisti! Ma non era una censura. Invece sull'intervento politico era severo».

Bellocchio ha omesso da tempo di seguire la narrativa. «Mi sono fermato a Volponi. Un'opera magmatica, difficile da ridurre a uno schema ideologico, anche se la passione politica è sempre presente. In Volponi c'è il comunismo e l'amore per l'industria. È un olivettiano che ha recepito le cose buone del progettare e del costruire: pensava che il Pci fosse il gestore ideale, l'erede della migliore borghesia. Poi ingenuamente si lasciò prendere dall'illusione di Rifondazione: non c'era ancora l'infausto Bertinotti; il festaiolo a tutta birra, l'avventurista cui la destra dovrebbe fare un monumento…». Volponi e poi? «Leggo e rileggo i vecchi. Carlo Levi, per esempio. Nuto Revelli, che ha svolto un lavoro straordinario. Di recente mi ha impressionato De Profundis di Salvatore Satta. Leggo con interesse e passione gli epistolari, le memorie, le testimonianze. Credo sempre meno nella cosiddetta creatività. Preferisco gli esecutori. Nel Tempo ritrovato Proust si definisce "un traduttore". Oggi i creativi e gli stilisti sono i pubblicitari, i sarti, i cuochi».

L'Italia al tempo di Berlusconi è l'Italia tartufesca descritta da Garboli? «Garboli ha colto come pochi l'italico costume. Il guaio non è tanto Berlusconi, il vero guaio è l'Italia che ha amato Berlusconi con l'idea che avrebbe fatto tutti ricchi come lui. Invece è successo che Berlusconi è diventato sempre più ricco e il Paese sempre più povero. Anche materialmente, ma soprattutto sul piano civile, culturale, politico. Berlusconi se ne frega nel modo più totale, non ha princìpi né progetti. Dice: volete la devolution? Ve la do. Volete la scuola privata? Ve la do. In questa situazione sciagurata ho dovuto rivalutare persone che solo vent'anni fa potevo definire poco meno che fascisti». Qualche esempio? «Il vecchio Montanelli, dopo aver passato la vita a raccomandare di "turarsi il naso" ma votare Dc, quando arriva Berlusconi decide che è troppo. Conservatori anticomunisti come Giovanni Sartori o Sergio Romano, capaci di indipendenza intellettuale. È paradossale, ma voterei per loro più volentieri che per quasi tutti gli uomini di centrosinistra. Kraus aveva sparato a zero contro i liberal-democratici-progressisti, poi arriva Hitler e dice: mi mancano le parole… Forse anch'io ho speso troppa indignazione a suo tempo e oggi mi trovo in bolletta».

"Submission" e i vili europei

Da la Repubblica del 22 aprile 2005

Sarà anche vero che il Parlamento europeo «è un´istituzione particolarmente prudente e formale», come spiega l´europarlamentare Michele Santoro. Ma è altrettanto vero che la decisione di vietare la proiezione del film Submission nella sala stampa dell´Europarlamento, per "ragioni di sicurezza", espone l´Europa politica, tutta intera, al sospetto, ahimè fondato, di viltà culturale. È vero che la proiezione era stata organizzata dal gruppo leghista, il cui dichiarato spirito di agitazione antislamica non lascia dubbi sulla strumentalità dell´atto. Ma è altrettanto vero, tristemente vero, che il cortometraggio olandese, a qualche mese dall´assassinio del suo regista, è stato abbandonato al suo violento oscuramento da istituzioni culturali e politiche dell´intera Europa democratica. Parafrasando amaramente uno storico slogan, si potrebbe dire che la Lega si è limitata a raccogliere, a suo modo e per i propri scopi, una bandiera che altri avevano gettato nel fango: quella della libertà d´espressione, uno dei sacri principi della democrazia. Ed è ancora leghista la prossima, annunciata proiezione del film, domani, nella non neutra Treviso, amministrata da una giunta xenofoba. E nuovamente una decisiva battaglia di libertà, fin qui disertata dai molti che ne avrebbero la doverosa titolarità, diventerà ringhiosa e generica ostilità contro il mondo musulmano.

Submission non è un film come gli altri. Come è noto il suo autore, il regista olandese Theo Van Gogh, è stato ucciso a coltellate da un fanatico islamico per avere osato girarlo: un altro caso Rushdie, semmai aggravato dall´esito orribilmente infausto. La sua sceneggiatrice, la coraggiosa somala Ayaan Hirsi Ali, rischia uguale sorte. Il suo produttore olandese, terrorizzato dalle minacce di morte, nega a tutti la proiezione del film, aggrappandosi malinconicamente a questioni di copyright.

Come scrive Adriano Sofri nella prefazione di "Non sottomessa" (Einaudi), il libro della stessa Ali sulla segregazione delle donne nella società islamica, "è in corso una guerra mondiale, ancora sparpagliata, per il controllo e la riconquista delle donne, e il corpo delle donne è il campo di battaglia". Esattamente di questo tratta Submission, in 12 minuti di dolente riflessione sull´espiazione e la prostrazione femminile sotto il giogo dei tabù religiosi, e dell´eterna potenza tribale-patriarcale del dominio maschile.

È blasfemo, Submission? Lo è tanto quanto lo furono, agli occhi dell´integrismo cristiano, "Ti saluto, Maria" di Godard, o addirittura "La dolce vita di Fellini", accusato a suo tempo di immoralismo e blasfemia perché osava parlare di suicidio. Eppure (e ovviamente) vennero proiettati, visti e giudicati dal pubblico, sulla base dell´irresistibile corso della libera espressione artistica che è, nelle nostre democrazie, importante come il pane. Vero: l´integrismo musulmano non sembra limitarsi a protestare. Minaccia di uccidere e uccide. Terrorizza. Ma allora la domanda è, e non può che essere: basta un rischio infinitamente più grave, un ricatto così odioso ed esiziale, a giustificare il penoso arretramento del coraggio democratico? O non è piuttosto proprio la gravità della sfida, l´intollerabilità di un bavaglio imposto a fil di coltello, a suggerire di rialzare la testa, di organizzare una risposta politica e culturale all´altezza? Oppure quanto più violenta è la reazione dell´oscurantismo, quanto più flebile e impaurita dev´essere la risposta?

Se gli europei pacifici e aperti confondono la remissività (specie su principi non sindacabili come la libertà) con la tolleranza, la debolezza con il dialogo, diventa poi ridicolo lamentarsi quando nel campo abbandonato della lotta civile trovano ampio spazio le pattuglie xenofobe e i radicalismi "neocristiani".

Specie in questi giorni, di totale predominanza mediatica e culturale del mondo cattolico, molti laici lamentano la sgualcita e dispersa potenza del loro pensiero e dei loro ideali, e in larga parte si improvvisano vaticanisti senza averne la scienza, come per rianimare la loro silenziosa minorità intellettuale, e ricollocarla in qualche maniera laddove il dibattito è vivo, e attivo. Ma come diavolo si può partecipare a quel dibattito (e a qualunque altro) se si trascurano del tutto le più elementari incombenze del proprio campo? Forse che non esistono più «umili lavoratori della vigna della libertà», disposti anche a rischiare qualcosa pur di battersi per la dignità e la sicurezza dei cittadini europei? Che sia questo il famoso "relativismo etico", questo posporre i principi alla convenienza, l´orgoglio della libertà alla paura, la difesa dell´integrità fisica e intellettuale delle persone a un malinteso (molto malinteso) "dialogo con l´Islam"? Ma allora, scusate, rischia di avere ragione la Fallaci quando inveisce contro l´Occidente "senza palle". E rischia di avere ragione il parlamentare leghista Stiffoni (Treviso, Italia) quando annuncia di voler proiettare Submission senza se e senza ma.

Il sonno della ragione genera mostri, appunto. O l´opposizione al fanatismo islamico (e, in parallelo, il dialogo con il grande resto dell´Islam) viene fatta da posizioni di forza, cioè nel nome del diritto, della democrazia e della libertà, oppure genererà un fanatismo uguale e contrario. A meno di voler credere, e sarebbe la peggiore delle ipotesi, che l´argomento stesso di Submission (la liberazione e la dignità del corpo femminile) sia ancora, perfino per gli illuministi rinati dell´Europa moderna, un dettaglio così trascurabile da non meritare urti indesiderati con il già minaccioso estremismo musulmano

Rivolto alla sinistra italiana e a tutti coloro che, in Italia e in Europa (e anche negli Stati Uniti d´America), hanno gioito e giudicato come un evento positivo l´affluenza alle urne del popolo iracheno il 30 gennaio: «Adesso vi dichiarate contenti, ma dove eravate voi nei mesi scorsi mentre i soldati della coalizione combattevano e morivano per la libertà e la democrazia? Ve lo dico io dove eravate. Eravate nelle piazze ad insultarci, a sostenere che avevamo sbagliato tutto, che la democrazia non si esporta sulla punta delle baionette. Perciò prima di gioire dovreste battervi il petto, assumervi la responsabilità di quanto sostenevate fino a ieri, confermare che avete perso ogni credibilità». Parole di Silvio Berlusconi, parole di tutti i neo-conservatori americani, parole che lo stesso George Bush fa trasparire sotto il mantello della diplomazia con la quale ora persegue l´obiettivo di recuperare quanti, in Usa e in Europa, si sono opposti alla guerra irachena e hanno fatto di tutto per impedirla e per intralciarne il decorso.

Il tono di quelle parole è forse troppo apodittico e rischia di incancrenire un dissenso di massa tra le due sponde dell´Atlantico, anche se il linguaggio delle Cancellerie è molto più cauto e felpato. Rischia di consolidare quell´antipatia tra l´America e il resto del mondo che è il dato più nuovo e più netto emerso dall´inverno del 2003, dopo che il resto del mondo si era stretto senza riserve attorno al popolo e al governo americano colpiti al cuore dall´attentato dell´11 settembre.

Ma non c´è dubbio che quelle parole pongono una domanda pertinente, sollevano un problema reale e non eludibile nella coscienza di quanti hanno accolto con sincero sollievo le elezioni irachene dopo aver avversato la guerra voluta da Bush. Se il 30 gennaio scorso gli iracheni hanno potuto esercitare il loro diritto democratico di eleggere un´assemblea costituente e un governo legittimato, non si deve questo risultato alla guerra contro il tiranno Saddam Hussein? Non è evidente come la luce del sole che esiste tra quei due fatti un rapporto di causa ed effetto che nessuna persona di buonafede può negare? E allora? Non debbono, gli oppositori di quella guerra, trarne oggi le conseguenze e riconoscere finalmente il loro errore ed insieme a esso i meriti conquistati sul campo da Bush e dai suoi alleati?

Se questa discussione mirasse soltanto ad accertare da che parte stia l´errore e come debba spartirsi il torto e la ragione, essa sarebbe del tutto vacua. In politica non esistono verità oggettive da accertare, ma opzioni determinate da interessi, convinzioni, intuizioni; in politica come in amore non si può dire «mai». Gli storici, a debita distanza di tempo dai fatti accaduti, spiegano le cause che determinarono certe scelte e gli effetti che ne derivarono.

Tracciano un «trend», un percorso. Ma anche il loro lavoro di scavo è provvisorio, sempre rivedibile e revisionabile, sempre soggetto alle soggettive interpretazioni.

Ma qui il caso è diverso. La discussione infatti influisce direttamente sull´immediato futuro. Qui e ora, visto che proprio qui e ora la superpotenza americana per bocca del suo Capo ha rilanciato la posta. La posta non è soltanto quella d´aver deposto il crudele tiranno dalle mani sporche di sangue e neppure, soltanto, quella d´aver inferto un colpo al terrorismo e al fanatismo islamista, ammesso che le elezioni irachene abbiano di per sé realizzato questi due obiettivi, ma purtroppo non sembra affatto che sia così: e lo dimostra il proseguire degli attentati e dei sequestri, come quello di Giuliana Sgrena, l´inviata del "Manifesto" che ci auguriamo venga subito rilasciata.

L´America di Bush ha ora bandito una vera e propria crociata: portare libertà e democrazia in tutto il pianeta, sia pure in forme consone a ciascun paese e cultura; rendere la vita difficile e infine abbattere tutti i tiranni, ovunque si annidino; restaurare i diritti civili ovunque siano conculcati, issando la bandiera del Dio degli eserciti che è sicuramente con il Bene ed è alla testa di chi combatte contro il Male.

Questa è la posta. Chi potrebbe mostrarsi indifferente? Chi potrebbe evitare di schierarsi con il Bene contro il Male, con la libertà contro la schiavitù, con la sicurezza e i diritti contro il terrorismo e la tirannide?

* * *

Non è certo un avvenire di quiete e di pace quello prefigurato da una crociata di questa natura e con questi obiettivi, ma piuttosto è un futuro di tensioni e di guerra.

La guerra sarà molto lunga, disse Bush dopo l´11 settembre e continua a ripeterlo a ogni occasione. Dopo le elezioni irachene lo ha ribadito arricchendone gli obiettivi, quasi prevedendola permanente e assumendone l´«imperium». Qualche osservatore ci vede un nesso con Teodoro Roosevelt, ma il modello non è quello. Bisogna risalire alla Roma di Cesare, salvo che la vocazione imperiale a quell´epoca non mistificò la conquista del potere con paludamenti ideologici. Ma Bush guida la più grande democrazia del mondo e non può averla con sé senza assegnare alla sua crociata un contenuto morale del quale è certamente e profondamente convinto.

Ecco perché questa discussione non è eludibile. Posto che la diffusione della libertà non può non essere un fine comune a tutti coloro che si riconoscono nei valori dell´Occidente, si tratta infatti di capire se l´esempio iracheno sia quello valido e reiterabile oppure sia stato un errore da non commettere mai più.

Capite bene che, posta così come deve esser posta, la questione non è oziosa, non è materia riservata agli storici, ma è attualissima, concreta, politica e tutti ci coinvolge sulle due sponde dell´Atlantico ma anche oltre, oltre l´Occidente. Ci vedi l´Africa e le sue miserie; ci vedi in lontananza l´ombra lunga della Cina, le contrastate pianure dell´Asia Centrale, la risorgente autocrazia del nuovo zar delle Russie.

Seguirete ancora il modello iracheno? Coltiverete ancora lo slogan della buona guerra attraverso la quale si costruisce la pace e si esporta la libertà? Invertiamo le domande.

* * *

Nell´inverno del 2003, quando questa discussione è cominciata e ha diviso l´Occidente, l´Armata americana aveva già cominciato a schierarsi. Nel marzo di quell´anno c´erano già 60 mila marines e truppe speciali nelle basi saudite e negli Emirati. Già incrociava nelle acque del Golfo la flotta aeronavale più potente del mondo.

L´esercito turco era sul piede di guerra. Blair faceva preparare i contingenti delle «Royal Forces».

L´Iraq era circondato da un anello di ferro pronto a trasformarsi in un anello di fuoco. Gli ispettori dell´Onu (e della Cia) percorrevano il paese alla ricerche delle armi di distruzione di massa. Saddam (che quelle armi non le aveva più dal 1991 come ormai è unanimemente ammesso e come a Washington e a Londra in realtà sapevano da tempo) assisteva annichilito a quei preparativi. Sapeva che il suo esercito non avrebbe resistito più d´una settimana. Sapeva anche di non poter fidarsi di nessuno e meno che mai delle sue scalcinate truppe di élite.

Ma come tutti i dittatori innamorati della propria supposta abilità, pensava d´esser capace di arrivare fino all´ultimo minuto e poi cedere per evitare lo scontro. Cedere pur di mantenersi al potere sotto la protezione addirittura di chi in quel momento lo stava minacciando.

Si poteva realisticamente arrivare a quel risultato? Ottenere una sorta di protettorato affidato all´Onu a ridosso dell´anello militare Usa già dispiegato sul terreno? Ottenere la concessione, graduale ma effettiva, di alcuni diritti civili per il popolo iracheno? Sostenere la presenza in campo dell´Onu con un adeguato contingente di caschi blu? Il cardinale Etchegarray, inviato dal papa a Bagdad, dichiarò che quell´obiettivo non era impossibile. Il ministro degli Esteri di Saddam, Tareq Aziz, fece capire con caute perifrasi la stessa cosa. Francia, Germania, Russia, premevano perché si perseguisse quell´obiettivo.

La verità è che non era l´obiettivo di Bush perché Bush voleva far sentire la voce del cannone e l´Iraq era in agenda da almeno tre anni.

Era in agenda ben prima dell´11 settembre. Ne fanno fede i documenti e il racconto circostanziato fatto dal ministro del Tesoro americano, O´Neill che si dimise dalla carica proprio perché, partecipando alle sedute del gabinetto ristretto insieme al segretario di Stato, al segretario alla Difesa, al Comandante in capo delle Forze armate, al Capo della Cia, a Condy Rice, ovviamente presieduto da Bush, aveva assistito con stupefazione alla discussione sull´invasione dell´Iraq e ai piani strategici relativi e «top secret».

La motivazione furono le armi di distruzione di massa.

L´urgenza fu invocata perché Saddam, secondo informazioni assolutamente certe, aveva il dito sul grilletto. E anche per imperative ragioni meteorologiche: l´invasione doveva partire alla fine di maggio o al più tardi nella prima metà di giugno; era l´ultima finestra meteorologica perché «non si può fare una guerra nel deserto a sessanta gradi di calore».

In realtà non era vero niente. Le armi di distruzione non c´erano e la U.S. Army è rimasta per due estati di seguito a combattere prima la guerra e poi il dopoguerra.

* * *

Tutto vero, dicono i pochi intellettualmente onesti che ci propongono quella domanda. Ma resta il fatto che la nascita di un sia pur incompleto segnale di libertà e di democrazia deriva da quella guerra, piena di errori ma foriera di un risultato prezioso. Ci sarebbero state le elezioni irachene del 30 giugno senza la guerra voluta da Bush? Rispondete.

Rispondo. Probabilmente non ci sarebbero state il 30 gennaio 2005. Per condurre Saddam al guinzaglio fino a sancire il diritto di voto sotto gli occhi dell´Onu e con l´Armata Usa ai confini, ci sarebbero voluti due o tre anni di più. Più tempo.

Sull´altro piatto della bilancia ci sono i morti in combattimento, americani, inglesi, anche italiani. È stato calcolato che potrebbero essere stati centomila i morti tra la popolazione civile irachena, il 40 per cento donne e bambini. Dovuti in parte ai terroristi e a quelli che la stampa Usa chiama «insurgent» (non solo il giudice Forleo, ma tutta la stampa americana); e in parte al «fuoco amico» degli aerei e degli elicotteri Usa. Centomila morti (e un assai maggior numero di feriti e mutilati) non sono pochi, specie se concentrati in una zona specifica del paese.

Ma c´è dell´altro. C´è che in Iraq ha fatto il suo nido il terrorismo che prima non c´era e che sarà difficile da sradicare. C´è che il costo della dissennata operazione ammonta già a 250 miliardi di dollari, che non basteranno.

Si poteva evitare? Sì, si poteva evitare. Negoziando, negoziando negoziando. A ridosso della Grande Armata.

* * *

Del resto è proprio Condoleezza Rice a confermare questa nostra tesi. Il neo segretario di Stato conferma che il prossimo obiettivo in agenda è l´Iran. Ma a chi le chiede: un´altra guerra? risponde: assolutamente no, negozieremo. Gli europei ci diano una mano nel negoziato. L´opzione militare non è prevista, salvo che Teheran non varchi la soglia della bomba nucleare.

Questa è oggi la posizione di Washington. Il cannone non è in agenda, ha detto Condy a Schröder, a Chirac e perfino a Blair che del cannone comincia ad averne abbastanza.

Perciò la risposta a quella domanda è chiara e netta: c´era un altro modo per realizzare l´obiettivo comune di diffondere libertà e democrazia. Lo stesso che Washington afferma oggi di voler praticare.

Ma nel frattempo ha ricoperto un paese di rovine e di cadaveri. Si dice: di questo Bush risponderà alla storia e ai posteri. Il giudizio dei posteri interessa solo i posteri. Chi vive oggi se ne infischia di quel giudizio.

Certo, per chi ci crede, ci sarà il Giudizio Universale. Ma se uno è convinto d´avere Dio al suo fianco, pardon, di marciare al fianco di Dio, quel Giudizio Universale è già stato formulato. Perciò Bush starà probabilmente tra i Beati. Berlusconi, lui, ne è già sicuro.

Postilla. Due punti non mi convincono in questo articoli. 1. Siamo certi che il fatto che a Bagdad e in alcune altre città si sia votato significa aver portato la democrazia in Iraq? e quale democrazia" 2. Oltre ai morti innocenti e alle distruzioni bisogna mettere un altro gravissimo danno arrecato dalla guerra di Bush e dei suoi servi all'umanità: l'abisso d'odio scavato tra l'Occidente e il resto del mondo (es)

L’accentramento amministrativo italiano è carattere genetico radicato nell’happening da cui nasce il Regno. Era una partita d’intelligenza: Cavour persuade Napoleone III all’intervento se l’Austria assalisse il Piemonte; Vienna manda l’ultimatum, confermando detti proverbiali; «sot comme un diplomat autrichien». Guerra fulminea: l’alleato desiste dopo Solferino (il patto era: un regno dell’Italia settentrionale fino all’Adriatico; Nizza e Savoia alla Francia); Franz-Joseph cede la Lombardia al confratello parvenu, che la passa a Vittorio Emanuele II. Muoiono suicidi due ducati e un granducato, Parma, Modena, Toscana. Implodono le Due Sicilie: Sua Maestà sabauda va a pigliarsele, consegnate da Garibaldi; en passant, occupa Marche e Umbria papaline. Plebisciti a suffragio universale maschile decidono l’annessione tout court al Piemonte (un re investito dalla plebe, esclama inorridito l’intellettuale reazionario Claudio Cantelmo nelle Vergini delle rocce). I ministri dell’Interno Farini e Minghetti contemplano un ipotetico decentramento burocratico, regioni senza autonomia normativa, ma i decreti del novembre 1861 estendono l’ordinamento piemontese agli ex Stati: urgeva chiudere la partita davanti all’Europa; e nella scelta pesa l’esperienza d’un ingovernabile meridione (briganti, consorterie pericolose, retour de flamme borbonico).

Carlo Cattaneo, milanese (15 giugno 1801-5 febbraio 1869), aborre l’archetipo subalpino: sogna gli Stati Uniti d’Italia e che vendano il Piemonte alla Francia separandosene con una muraglia cinese; ma supponendolo redivivo, non riesco a immaginarlo entusiasta; dista troppo, umanamente, dagli operai della devolution padana. Vediamoli. In territori già democristiani dallo sfacelo partitocratico affiora la Lega, creatura d’un demagogo fiutatore del vento: l’unica costante è una violenta retorica dialettale contro insegne e poteri dello Stato; presta man forte alla corrida giustizialista; convola nell’effimero primo gabinetto B. e l’affonda; coltiva riti fluviali, folklore pseudoceltico, messinscene separatiste, finché trova un’identità, come Mussolini 1920 quando converte i fasci in partito dell’ordine, fornendo squadre e spedizioni punitive agli agrari; la Lega diventa braccio pretoriano dell’impero d’Arcore, congenitamente anti-italiana, xenofoba, razzista, turpìloqua, insofferente delle regole, né nascondeva il fine, dissestare l’apparato statale.

L’assecondano pulsioni masochiste ex adverso. Come se non bastasse la commedia bicamerale, in quel funereo epilogo della XIII legislatura i sicuri perdenti propongono alla Cdl tre materie su cui votare d’accordo: conflitto d’interessi (viene da ridere), meccanismi elettorali, federalismo; i futuri vincitori ridono; e la coalizione moribonda vara un nuovo titolo V della Carta (Regioni, Province, Comuni), illudendosi d’adescare voti nordisti (la Lega «costola della sinistra»). Così lavorano gli apprendisti stregoni. Non essendo votato dai due terzi delle Camere, tale capolavoro richiede un referendum confermativo: ormai governa la Cdl; domenica 7 ottobre 3,4 elettori su 10 vanno alle urne; il 64 per cento della sparuta minoranza diligente risponde sì; nasce un gratuito federalismo italiano. Era scritto con i piedi: l’art. 117 enumera le materie su cui lo Stato può legiferare, chiamando «concorrenti» le altre: ma il participio va inteso nel senso contrario; Stato e Regione non concorrono affatto; una frase riserva «la potestà legislativa alle Regioni», salvi i «princìpi generali»; formula nebulosa su cui «bianco» e «nero» sono egualmente asseribili, infatti la Consulta è oberata d’un largo contenzioso. L’unico che vi guadagni davanti al suo pubblico è il condottiero padano, ora ministro delle Riforme. Naturale che voglia qualcosa in più e l’ottiene dagli alleati riluttanti (i postfascisti coltivavano una fiera retorica unitaria). Probabilmente l’exploit rimane sterile perché gli elettori chiamati al referendum non lo confermeranno, ma qualunque sia l’esito, un effetto negativo pare acquisito. Gl’italiani hanno visto quanto sia facile scardinare le «norme fondamentali», come le chiama Hans Kelsen, definitore classico dei dinamismi costituzionali: le Carte fissano scelte condivise dai costituenti; nell’epoca berlusconiana le Grundnormen sono materia banale, manipolabile da qualunque maggioranza, come le tariffe d’una gabella.

Torniamo a Cattaneo, ignorato pour cause nel tripudio devoluzionistico: cultura enciclopedica, testa fredda, un positivista educato da Giandomenico Romagnosi, contro fondamentalismi, dogmatiche, fumisterie metafisiche, pose istrionesche; con onesta ferocia confuta lo spiritualismo rosminiano; non esercita l’avvocatura né frequenta i politicanti; studia, osserva, scrive, sordo alle passioni patriottiche; nella mistica mazziniana sospetta un Ego gonfio. I moderati lo odiano. Cosa direbbe della devolution padana? Che un conto è il federalismo originario, organico, altro l’artificiale, prodotto dalla decomposizione voluta dello Stato unitario. Strenuo studioso dei fatti, solleverebbe questioni capitali: costi della riforma; razionalità ed economia del sistema futuro; quanto valga la fauna politica pullulante intorno ai nuovi organismi (nelle dispute 1860-61 Giuseppe La Farina combatte le regioni perché teme una reviviscenza delle vecchie cloache governative napoletano-palermitane); possibili perversioni. Ad esempio, la Regione diventa monopolista della scuola. E se legislatori rudi stabiliscono una ratio studiorum sulla loro misura etico-intellettuale?: dialetto, sei ore; folklore locale, altrettante; le rimanenti dodici da spartire tra italiano basic, rudimenti d’"umanità", matematica, scienze, filosofia degli affari, oratoria da tribuna, arti rampanti. Ci vuol poco a imbarbarirsi. Se le previsioni sono attendibili, lo scempio leghista resterà sulla carta, mancando la conferma referendaria, ma il virus circolava già, iniettato dagli autori della l. cost. 18 ottobre 2001 n. 3. I peccati contro l’intelligenza non risultano mai innocui, tanto meno quando fossero ciniche furberie.

T he rules of the game are changing, «le regole del gioco stanno cambiando», annuncia solennemente Tony Blair presentando le sue misure antiterrorismo a un paese in cui «per ovvie ragioni il mood è diverso» da quando, anche dopo l'11 settembre, qualunque stretta emergenzialista del diritto incontrava una fiera opposizione in parlamento o nei tribunali. Il mood , il clima psicologico, adesso è di paura; «le circostanze della nostra sicurezza nazionale sono evidentemente cambiate». Tanto cambiate da legittimare, come fa il premier, strappi nello Human Rights Act inglese e deroghe nella Convenzione europea dei diritti umani? Le regole del gioco sono davvero cambiate, se la deroga alle Carte fondamentali diventa la norma nell'era della guerra al terrorismo. Espulsioni rapide e negazione del diritto d'asilo per gli stranieri che predichino, incoraggino, promuovano, condonino o approvino odio e violenza. Probabile messa al bando di gruppi islamisti radicali come Hizb Ut Tahrir. Sottrazione della cittadinanza a chi agisce contro gli interessi della Gran Bretagna, e procedure più restrittive (compreso un esame sulla conoscenza dell'inglese) per ottenerla. Schedatura di siti, librerie, centri e network «estremisti». Modifiche nella procedura penale con estensione della detenzione preventiva per i sospetti terroristi o filoterroristi. Restrizioni nella mobilità e nella comunicazione per gli stessi cittadini britannici sospetti a loro volta di favoreggiamento o continguità. Ce n'è abbastanza, nell'elenco recitato da Blair (che il parlamento dovrà vagliare e completare da qui all'autunno), per incrinare i fondamenti non solo della tolleranza e della società multiculturale, ma della stessa cittadinanza democratica, di alcuni capisaldi della civiltà dei diritti (primi fra tutti la libertà di espressione e la non contemplabilità dei reati d'opinione), di alcuni fondamenti dell'ordine giuridico internazionale che ha retto le sorti del mondo dopo la fine della seconda guerra mondiale (primo fra tutti l'uguaglianza nella titolarità dei diritti fondamentali senza distinzione di razza, lingua, religione etc.). Sul comune fronte occidentale, l'europea Gran Bretagna si allinea agli Stati uniti di Bush nella perversa strategia che consiste nel difendere le democrazie violandone le basi giuridiche; e poco consola che questo accada paradossalmente in coincidenza con il parziale svuotamento del campo di Guantanamo e con la resa del Pentagono ai doveri di informazione sui caduti in guerra che gli impone il Freedom of Information Act.

Di fronte alla scoperta, dopo il 7 luglio, che il terrorismo non viene dall'altro mondo ma dall'interno delle metropoli occidentali, l'annunciato passaggio dalla Gwot alla Save (ovvero dalla strategia della guerra globale al terrorismo a quella contro il reclutamento violento interno) rischia solo di riprodurre e amplificare all'interno delle democrazie occidentali gli strappi del diritto e la gerarchizzazione dell'umano operati dalla guerra preventiva. Ma anche la palla del pensiero rimbalza all'interno delle democrazie occidentali. Se l'universalismo non regge alla prova della globalizzazione e dei suoi nuovi conflitti; se la cittadinanza non regge alla prova della differenza culturale o religiosa impugnata come un'arma di distruzione totale, qualcosa di cruciale s'è rotto nell'impalcatura che l'occidente ha tentato di dare alla convivenza umana. Contrastare queste tragiche, tragicissime contraddizioni rianimando poteri e barriere della sovranità nazionale con la terapia dello stato d'eccezione non porterà molto lontano.

Giovanni Paolo II muore in pubblico e sigla con l'ostensione della sua agonia un pontificato che della dimensione pubblica ha fatto la sua cifra e la sua forza politica. Non serve a niente esercitarsi in giudizi moralisti e sul numero di telecamere che hanno invaso in queste ore piazza San Pietro, o sull'uso che il Papa ha fatto dei media e che i media hanno fatto del Papa. Non è questione di strumentalità, e non è questione di privacy - quella dell'attore e quella degli spettatori - violata dall'«eccesso» sopra le righe di un Parkinson esibito e di un'agonia in diretta. Wojtyla è stato anche in questo, prima di tutto in questo, interprete del suo e del nostro tempo storico che ha nella visibilità il suo marchio; e se il segno scarno della Croce è parso più e più volte sovrastato dal primato della quantità che ha caratterizzato raduni e giubilei, certo esce rafforzato in questa icona finale della fine, di una morte invincibile e di una sofferenza estenuante, entrambe inseparabili dall'umano ed entrambe costitutive del messaggio del Dio che si è fatto uomo. Certo, la simultaneità della morte naturale del Papa e della morte «artificiale» di Terri Schiavo, entrambe in diretta planetaria, suggeriscono anche un altro giro di pensieri sull'ultimo messaggio che Wojtyla può averci voluto consegnare, ribadendo nella pratica della propria morte un comandamento tante volte enunciato ai vivi: non si può scegliere il momento della fine né la durata della sofferenza, non c'è diritto positivo o giudice terreno che possa avere la meglio sul diritto naturale e sull'imponderabile giustizia divina, non si può staccare la spina ma bisogna fino all'ultimo condividere il dolore altrui che può essere il nostro. Ma nella morte in diretta di Wojtyla c'è molto di più di questo ultimo messaggio: come spesso nella morte, c'è l'impronta di una vita, e come spesso nella morte di un sovrano, c'è l'impronta di un regno.

Sempre in primo piano nel suo pontificato, il corpo di Giovanni Paolo II che si scinde davanti ai nostri occhi nel corpo morente e nel corpo redento è l'emblema incarnato di quel doppio corpo del Re, uno secolare e mortale l'altro sacro e immortale, che tanta parte ha avuto nella teoria e nella storia della sovranità moderna. Direttamente dunque la morte in diretta del vicario di Cristo ci riporta alla vita del Sovrano: dell'unico sovrano che nel mondo post-bipolare e post-politico abbia mantenuto l'aura, mentre attorno a lui quella della politica secolare e di tutti i potenti della terra declinava. C'è nell'ultimo libro di Wojtyla, come in ogni gesto del suo pontificato, questa lucida consapevolezza e volontà di essere un protagonista di un tempo di mutamento epocale, di catastrofe dell'equilibrio precedente, di riscrittura dei confini del pianeta. Non si tratta tanto, o solo, di misurare la parte che il papa polacco ha avuto nella fine del comunismo, quanto di valutare il modo in cui ha interpretato e impersonato la fine della politica novecentesca, i motivi emergenti della biopolitica, le forme di presenza e di azione in una sfera pubblica globalizzata che perdeva le strutture storiche della rappresentanza, degli stati nazionali, del conflitto di classe. Su ciascuna di queste frontiere il pontificato di Wojtyla ha accompagnato il mutamento, sul piano dei contenuti - ambivalenti, e spesso reazionarie - e sul piano altrettanto significativo delle pratiche.

La critica dei due totalitarismi e la distinzione fra il «male assoluto» del nazismo e il «male relativo» del comunismo; la tensione pacifista contro l'emergere della guerra permanente; la critica del liberismo e del consumismo; l'ossessione antiscientifica e antitecnologica contro qualunque rischio di manipolazione della vita naturale e dell'embrione, anche a scopo terapeutico; l'altra ossessione sul controllo del mutamento femminile, del rapporto fra i sessi e della famiglia; l'ostinazione per il recupero delle radici cristiane nel ridisegno dell'identità europea: ciascuno di questi capitoli ci rinvia l'immagine di un pontificato politico estremamente tempista nella scelta stessa dei campi di intervento, e sempre pronto a giocarsi i pensieri lunghi sui tempi brevi e i principi massimi sulle scadenze minime. E altrettanto tempista nella scelta delle forme e delle pratiche con cui dare visibilità all'agire politico. Primo papa della storia a rischiare la vita in un attentato e a essere curato in ospedale, primo ad aver recitato in pubblico e ad aver lavorato in fabbrica, primo a entrare in una sinagoga e in una chiesa protestante, primo a parlare in pubblico ai musulmani, primo ad assistere a un concerto rock, primo a intervenire di persona a un congresso medico: il primato nell'uso strategico dei massmedia va inserito in questa lunga serie di piccoli ma significativi primati, e collegato al primato più significativo di tutto il pontificato, la sua cifra «populista», nel senso di un rapporto diretto con le masse religiose, anch'essa specchio riflettente delle trasformazioni che la politica ha subito, dall'89 in poi, su scala planetaria.

Ci sarà modo, del resto, di guardare la medaglia anche dal suo rovescio. Non sarà infatti certamente un caso se proprio durante il pontificato di Giovanni Paolo II la freccia del tempo della secolarizzazione si è arrestata, e i confini fra laicità e religiosità, nella politica terrena, si sono sbiaditi fino a saltare. Il tempo dei fondamentalismi, compreso quello cristiano, coincide con il tempo del primo papa venuto dall'Est a regnare su un mondo diventato, fu detto al Giubileo, «una sola terra e un solo mare». Su quest'unica terra e quest'unico mare, sono in troppi a imitare il mandato pontificio, imbracciando la spada di Dio come protesi di una sovranità secolare decaduta.

Alessandra Retico

Tra arte, pratica e politica, il subvertising parodizza e rovescia marchi e campagne pubblicitarie delle grandi corporation Usa

Repubblica on line del 7 gennaio 2003

"Obsession" di Calvin Klein: un modello "strafigo" che scruta sotto gli slip con sguardo preoccupato. Dello stesso stilista, "Reality for men": un uomo decisamente poco sexy con pancetta e torso piuttosto villoso. Ma anche "American Excess" con sottotitolo-augurio inequivocabile: "Consumers Welcome". La "M" dagli archi d'oro, quella di McDonald, onnipresente: in commistioni varie, per esempio in (M)icrosoft, o iniziali per le più svariate distorsioni (Mckiller). Esempi di un'arte-movimento-politica che va sotto il nome di subvertising, acronimo (Subvert, sovvertire e advertising, il termine inglese per pubblicità) che "sovverte" di nome e di fatto l'anima dell'economia mondiale, quella del marchio. Rovesciando il senso, illuminando la parte oscura con il potere dell'ironia, il logo viene messo a nudo, svelato per quel che è: illusione. Potentissima illusione.

Sovvertire, dissacrare, parodiare con l'antipubblicità o "spubblicità" non è altro che un gioco del rovescio che l'arte moderna conosce almeno da Velazquez (Las Meninas) ai dadaisti a Andy Warhol fino al situazionismo e alla "guerriglia semiotica" contro il potere dei mass media di cui parlava Eco alla fine dei Settanta. E che oggi, in un'epoca dominata da marketing e branding, gioca e rompe i giocattoli a disposizione, appunto marchi e griffe. Il subvertising, fenomeno insieme artistico e socio-politico, sta assumendo negli ultimi tempi proporzioni e significati importanti soprattutto grazie al palcoscenico in cui si pratica, il più ampio e diffuso che ci sia: Internet.

In Rete infatti circolano decine e decine di "spubblicità", siti di movimenti, di artisti, di "agitatori culturali", che ai grandi totem del consumo, ai marchi delle più note corporation soprattutto americane, mettono quei baffi che Duchamp mise alla Gioconda scardinando alla radice il mito e l'illusione di un'arte "alta" intoccabile. Una delle declinazioni più esemplari del gesto dell'artista dadaista nelle mani degli "spubblicitari" moderni è la bandiera americana che, al posto delle patriottiche stelle, sostiuisce il logo delle più grandi aziende Usa, da Nike a Microsoft a Shell a Coca Cola.

Il di-vertimento è la chiave e il senso multiplo della "filosofia" del subvertising: se il re nudo fa davvero ridere, allo stesso tempo cambia e rovescia il ruolo di chi lo guarda, da semplice spettatore a attore dello spodestamento. In termini economici, il consumatore non è più quello che subisce il mercato, ma lo fa, scegliendo consapevolmente cosa comprare.

E' da questa idea che nasce il subvertising, pratica e pensiero il cui padre ispiratore è una rivista canadese che è oggi un cult per il popolo no global internazionale: Adbusters. Il titolo, un programma: "ad", appunto pubblicità e buster da "to bust", rovinare. Nata nel 1989 come trimestrale a Vancouver, British Columbia, per volontà del suo attuale direttore Kalle Lasn, Adbusters ("rivista per per l'ambiente mentale") è oggi un bimestrale che vende 120 mila copie in tutto il mondo e abbonati in 60 Paesi. Il sito Internet (www. adbusters. org) raggiunge una media di 8.000 contatti al giorno e sessantamila iscritti alla sua lista. A lei si devono due iniziative di successo come il Buy Nothing Day - la giornata del non acquisto lanciata sin dai primi anni '90 - che vede la partecipazione di oltre un milione di persone in cinquanta paesi del mondo, e la Tv Turnoff Week - la settimana senza televisione - che è diventato un appuntamento fisso a cadenza bimestrale, coinvolgendo ogni volta circa ottantamila persone.

La rivista, che dal '99 a Seattle ha conosciuto una crescita che pare inarrestabile, è oggi il cuore e il network di comunicazione dei "culture jammer" di tutto il mondo, cioè proprio di quei "inceppatori culturali" che nel subvertising trovano una delle espressioni più notevoli. Per Feltrinelli è da poco uscito "Errore di sistema", un libro a cura di Franco "Bifo" Berardi, Lorenza Pignatti e Marco Magagnoli che racconta l'esperienza di Adbusters e le sue pratiche contro il dominio del consumo. Il messaggio è che dopo vent'anni di fanatismo economico, di superlavoro e di competizione, siamo in piena fase depressiva. Mentale soprattutto: come quando il computer "cresha" e sullo schermo appare la scritta "system error" seguita da un numero incomprensibile. La soluzione, suggerita da Lasn: "Interrompere la trance mediatica nella quale siamo immersi per riappropriarci della nostra mente, del nostro corpo, della nostra vita."

Carla Ravaioli

Senza piú opposizioni

da “Un mondo diverso è necessario”, Editori riuniti, Roma 2002

[…] L'etica produttivística ha trovato nella favola pubblicitaria, confezionata con un'intelligenza mistificatoria via via piú raffinata e penetrante, lo strumento capace di esercitare sulle persone, fino al limite del plagio, una pesante manipolazione psicologica e comportamentale. Sostenuta dall'analgesica promessa del benessere dell'efficienza della modernitá, confortata dal rozzo edonismo della felicitámerce, mimetizzata sotto la vernice scintillante del progresso tecnologico, maliziosamente ammantata di libertá e trasgressiva disinvoltura; perfino pretendendo di allinearsi al «politically correct» della difesa ambientale per lanciare cibi industriali o sacchetti di plastica in nome della natura; o addirittura camuffandosi di contestazione, con prontezza cogliendo qualche tratto delle giovanili culture della rivolta per divorarle, metabolizzarle e restituirle sotto forma di merce: la pubblicitá non solo ha egregiamente risposto al suo compito di promozione merceologica, ma ha svolto una potente azione conservatrice. Dando un contributo decisivo a quel processo che poco a poco ha imposto il consumo come principale simbolo di affermazione e di successo, ponendosi come pilastro di quella fabbrica di «oggetti del desiderio e soggetti desideranti» che é la realtá antropologica attuale. «L'anima del commercio» era un tempo definita la pubblicitá: oggi é piú esatto parlare di «anima del sistema».

Forse d'altronde la piú convincente riprova di tutto ció é che, proprio mentre la moltiplicazione via via piú accelerata dei messaggi pubblicitari andava surclassando il ritmo della stessa crescita produttiva, e overdosi di comunicati commerciali ci invadevano fino a divenire ininterrotto rumore di fondo delle nostre giornate, anzi dell'intera nostra vita, il discorso critico spesso assai duro che per qualche decennio nel passato si era accentrato su questi problemi, é andato via via perdendo consistenza e attenzione, finché tutta la materia veniva archiviata, inappellabilmente dichiarata fuori moda. Non a caso, mentre il mercato si affermava, praticamente senza piú opposizioni, come perno e motore non solo del sistema economico, ma della cultura vincente nel pianeta, e il consumo diventava dovere e rito di integrazione sociale, e la crescita produttiva veniva brandita e universalmente perseguita come la soluzione di tutti i malanni del mondo, la pubblicitá da promozione di merci finiva per affermarsi come una delle dimensioni caratterizzanti dell'oggi, imponendosi al costume, ai comportamenti e all'intera forma sociale, senza che piú nessuno, di nessuna parte politica, ci trovasse qualcosa da ridire.

Al contrario, con un netto capovolgimento di posizioni sovente da parte di quegli stessi che l'avevano analizzata con l'occhio piú severo, l'attivitá pubblicitaria é andata qualificandosi come una delle piú apprezzate espressioni culturali e addirittura «artístiche». Giornalisti impegnati e opinion leader di prima grandezza fanno a gara nel magnificarne le ultime invenzioni e i loro autori, per antonomasia definiti «i creativi» e a pieno titolo entrati nei piú qualificati ambienti intellettuali, intervistati sui temi piú diversi, festeggiati in serate di gala in loro onore, premiati in concorsi per spot particolarmente efficaci: t vero d'altronde che in mezzo alla gran massa banale e melensa della produzione ordinaria, non sono pochi i messaggi commerciali di qualitá notevole. Ció che non puó stupire dato che in questo campo, attratti da compensi elevatissimi, lavorano i cervelli piú apprezzati del momento; e non solo famosi registi, fotografi, attori, ma anche letterati e poeti non disdegnano di prestare la loro opera, per lo piú in anonimo ma a volte anche platealmente con la loro stessa presenza fisica, alla celebrazione della merce. […]

La galleria d'immagini

Niente di nuovo all’Ovest è il titolo di un famoso romanzo di Erich Maria Remarque. Quel titolo, non la vicenda di guerra narrata nel libro, sembra applicarsi alla condizione di questa nostra civiltà occidentale. Niente di nuovo, perché?

Quindici anni fa comparve un saggio altrettanto famoso, di Francis Fukuyama, La fine della storia. Il quale suscitò critiche e anche scherni. Con qualche ragione. La tesi centrale era che ormai il mondo dell’Occidente aveva raggiunto, nel segno della felice congiunzione della democrazia e del mercato, uno stato stabile, steady state: non statico, nel senso che nulla più si muovesse. Tutto avrebbe continuato a muoversi, ma ormai monotonicamente, in una stessa direzione: come un grande fiume tranquillo, senza quelle cascate, rapide, cateratte: insomma quelle discontinuità (rivoluzioni, guerre, massacri, avventi religiosi, rivolgimenti culturali) che fanno, propriamente, la storia. Chi si aspettava questo scenario irenico è rimasto deluso. In questi quindici anni è successo di tutto.

Eppure, in un certo senso, Fukuyama aveva ragione. È successo di tutto, in Occidente – che di questo si trattava nel libro – ma nello stesso tempo, non è successo niente. Niente che abbia mutato il senso generale, propriamente essenziale della sua marcia.

La quale è, avrebbe detto Elias Canetti, la «muta di accrescimento». Non guerre e rivoluzioni, svolte fatali che mutano la direzione della società, ma la pura e semplice crescita della ricchezza economica della società stessa. Questa è la legge, questo è il vangelo. Come legge dell’Occidente e come modello per il mondo intero.

Certo, tensioni sociali esplodono, periferie si incendiano. Ma poi si placano, in un ritorno rassicurante alla normalità. Non c’è risposta che corregga la direzione di marcia delle «democrazie di mercato».

O meglio, la risposta è la teologica imitazione di Cristo (il dio mercato) predicata dalla più intelligente, informata ironica e mercatistica rivista del mondo, l’Economist. Osservando il malumore crescente suscitato nel mondo dalla globalizzazione, essa affermava qualche settimana fa che ciò che è necessario è che, di globalizzazione, ce ne sia di più. Riferendo poi sui moti francesi con britannica esultanza (France’s failure) li ha attribuiti alla rigidità del mercato del lavoro francese, che provoca una massiccia disoccupazione dalla quale scaturisce la rivolta delle periferie; e alla resistenza opposta all’adozione del modello economico americano dove la disoccupazione è molto minore e le periferie stanno tranquille.

Insomma, l’Occidente si muove ormai a senso unico. O senza senso? Il grande fiume tornerà sempre a scorrere. O no? Franco Venturini ha scritto sul Corriere della sera un lucido articolo che si riassume nella constatazione di un «nuovo smarrimento mondiale», di un disarmo di quella Storia che si voleva morta e della necessità di riconoscere il compito vero, che è quello di «ripensare, davvero, l’Occidente».

Non sono, le periferie delle nostre città ricche e meravigliose, il luogo di una sorda inquietudine che chiede spiegazione, non solo a Parigi, ma in tutto l’Occidente? Di un "Western failure"? Non dovrebbe, l’Occidente, anziché "francesizzare" quell’inquietante fenomeno, comprendere che de te fabula narratur: che esso si inquadra in una malattia minacciosa almeno quanto quella dei polli e altrettanto priva di risposte tranquillizzanti? È davvero pensabile che la risposta al disagio sociale, tanto per fare un esempio, sia racchiusa in una scelta esaltante come quella proposta dal liberismo, di una precarietà sottopagata al posto di una disoccupazione assistita?

Il tema del tramonto dell’Occidente non è certo nuovo. Il libro di Spengler, a suo tempo, segnò un’epoca del pensiero pessimista del Novecento. Non si può dire che, concepito durante la prima guerra mondiale, non fosse seguito da catastrofi immani. Dalle quali, però, l’Occidente è rinato sotto un segno compiutamente diverso, per molti versi opposto: il segno della pace (tra i paesi occidentali non ci sono state più guerre dall’ultimo sterminio mondiale, per oltre mezzo secolo) e dello sviluppo economico (la produzione dei paesi dell’Occidente, in questo mezzo secolo, è triplicata). Dunque, la profezia di Spengler è stata falsificata.

Ma il nuovo corso non ha affatto prodotto quello stato di benessere, di felicità pubblica, che gli era sottinteso. Al contrario: il mondo delle società ricche è un mondo angosciato, frustrato, spaventato. La spiegazione più ovvia è che la ricchezza, oltre che soddisfare domande antiche, ha suscitato domande nuove, le quali generano nuove insoddisfazioni e nuove frustrazioni. La risposta dell’Occidente ricorda l’esortazione di un motto celebre: continuez continuez! E cioè, proseguite sulla strada di una crescita che corra dietro alle domande che la crescita stessa genera, in un inseguimento perenne che sembra ormai la costante di una società esposta (questo sì che è nuovo) alle minacce provenienti dal mondo esterno. Sinceramente, non sembra una risposta rassicurante.

Le tensioni generano nuovi «proletariati interni» che possono combinarsi con nuovi «proletariati esterni» creando condizioni non controllabili di disgregazione sociale. Nuovi tremendi problemi, come quello dell’immigrazione di massa, investono, dall’interno e dall’esterno, l’intera Europa. L’autocompiacenza alla quale si ispira il pensiero oggi dominante in Occidente non è una prova di pragmatica saggezza, ma di irresponsabile cecità.

Ci si deve dunque chiedere se la riflessione sull’Occidente debba limitarsi al problema evocato dai fatti di Francia – l’immigrazione e i diversi modelli di integrazione – o non debba estendersi, come è giustamente suggerito, a un ripensamento dell’Occidente sull’Occidente stesso. In questo caso, la questione dominante dovrebbe diventare l’inceppamento di quella forza propulsiva che ha proiettato l’Occidente verso il primato mondiale: e che è la coniugazione, come Fukuyama afferma, della democrazia e del mercato.

Questa formula felice sembra si sia avvitata, infatti, in un circolo vizioso. E la ragione mi sembra questa: che ambedue i fattori del successo dell’Occidente, il mercato e la democrazia, sono mezzi, non fini. I fini sono rappresentati da valori, ideologici o religiosi; oppure da un progetto laico e mondano, che tuttavia soddisfi il bisogno di senso. E l’Occidente, mentre ha smarrito i primi, non è stato capace di elaborare il secondo.

È, questa, una condizione fragile e pericolosa. Una civiltà che perde l’anima è una società già morta. Nè il mercato né la democrazia posssono sostituirla. Non è pensabile che essa si avviti in un eterno ritorno dell’eguale. In assenza di un fine mobilitante, di una tensione trascendente, infatti, essa finirà, prima o poi, per disintegrarsi sotto gli urti degli inevitabili conflitti, interni ed esterni. Di fronte a problemi come quello di integrare la nuova immigrazione di massa, è del tutto frivolo chiedersi come integrarsi, se nel modo multietnico o nel modo etnocentrico; quando il problema è diventato: in che cosa?

È noto che la decisione iniziale di lavorare alla realizzazione della bomba è provocata dal timore che Hitler ne fabbrichi una a sua volta. Ma, nel 1943, i servizi d´informazione alleati stabiliscono che la Germania ha accantonato questo progetto. Tuttavia, le ricerche sul potere della reazione nucleare negli Stati Uniti proseguono. I fisici hanno relegato al fondo della loro coscienza la questione della giustificazione ultima, sono mossi adesso dal desiderio di risolvere un problema tecnico di una straordinaria complessità. Il pensiero strumentale, esemplificato qui in modo eloquente, impone questo collegamento: se una cosa è possibile, essa deve divenire reale; e se esiste uno strumento, allora bisogna servirsene. In nessun momento interviene una domanda sui fini ultimi, sulle ragioni di un simile agire. La tecnica sembra decidere per noi. Sarebbe stato logico, essendo la bomba concepita come una protezione contro Hitler, rinunciare a servirsene una volta sconfitto. Ma è una cosa inconcepibile per il pensiero strumentale e burocratico: poiché il progetto è stato lanciato, bisogna condurlo fino al termine.

L'ambigua reazione di Karol Wojtyla nei confronti di Passion, il film di Mel Gibson, è ben nota. Subito dopo averlo visto, profondamente commosso, ha mormorato: «È proprio come avvenne in realtà!», dichiarazione poi velocemente ritrattata dai portavoce ufficiali del Vaticano. La reazione spontanea del papa è stata dunque immediatamente sostituita dalla posizione neutra «ufficiale», emendata in modo da non ferire nessuno. Con questa ritrattazione, con questa concessione alla sensibilità liberale, il papa ha tradito ciò che di meglio c'era in lui, la sua intrattabile posizione etica. Oggi, in un'epoca di ipersensibilità verso il rischio di essere molestati dall'Altro, sta diventando un atteggiamento sempre più diffuso lamentarsi della «violenza etica» e criticare quegli imperativi etici che ci «terrorizzano» con le loro brutali imposizioni. L'ideale normativo di questa critica è un'«etica senza violenza», che (ri)negozia perennemente le sue norme: la critica culturale più alta incontra qui inaspettatamente la psicologia pop più bassa.

Durante una serie degli «Oprah Winfrey shows» John Gray, l'autore di Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, ha spinto questa posizione all'estremo: dato che, in fin dei conti, «siamo» le storie che raccontiamo a noi stessi su noi stessi, la soluzione a un' impasse psichica sta nella riscrittura «positiva», creativa, del nostro passato. Gray non aveva in mente semplicemente le comuni terapie cognitive che mirano a trasformare le «false credenze» negative su se stessi in un atteggiamento più positivo, nella certezza di essere amati dagli altri e capaci di risultati creativi, quanto piuttosto un'idea più «radicale», pseudo-freudiana, di regressione fino alla scena della ferita traumatica primordiale. Gray accetta la nozione psicoanalitica secondo cui un'esperienza traumatica nella prima infanzia può segnare per sempre lo sviluppo futuro del soggetto facendolo virare in senso patologico, ma propone che il soggetto, sotto la guida del terapeuta, dopo essere regredito fino alla sua scena traumatica originaria ed averla così rivissuta direttamente, «riscriva» questa scena, questa struttura ultima del suo universo di significato, rendendola più «positiva», benigna e produttiva. Se, ad esempio, la scena traumatica primordiale che grava sul nostro inconscio deformando e inibendo la nostra creatività è quella di nostro padre che ci gridava «Non vali niente! Ti disprezzo! Non combinerai niente di buono!», noi dovremmo riscriverla ottenendo così una nuova scena con un padre benevolo che ci sorride affettuosamente dicendoci: «Sei in gamba! Mi fido pienamente di te!»

New Age cristiano

Per portare questo gioco fino alle estreme conseguenze, quando Wolfman, nel famoso caso clinico di Freud, «regredisce» fino alla scena traumatica che aveva determinato il suo sviluppo psichico successivo (il coitus a tergo dei genitori cui aveva assistito) la soluzione non sarebbe forse riscrivere la scena? In questo modo egli avrebbe visto solamente i suoi genitori stesi sul letto e intenti a leggere, il padre un giornale e la madre un romanzo sentimentale.

Il problema è che quanto viene qui evocato come esagerazione satirica, oggi sta succedendo veramente. Si pensi a come le minoranze etniche, sessuali ecc. riscrivono il loro passato in chiave più positiva, di autoaffermazione: gli afro-americani sostengono che molto prima della modernità europea, gli antichi imperi africani possedevano già un alto livello di sviluppo nella scienza e nella tecnologia, ecc.

Su questa falsariga, possiamo immaginare una riscrittura dello stesso Decalogo. Qualche comandamento è troppo severo? Regrediamo fino alla scena sul Monte Sinai e riscriviamola! «Tu non commetterai adulterio, a meno che esso non sia emotivamente sincero e non serva alla tua realizzazione profonda...»

Che cosa va perduto, in questa totale apertura del passato alla sua successiva riscrittura? Esemplare è qui The Hidden Jesus di Donald Spoto, una lettura «liberal» del cristianesimo contaminata dalla New Age, in cui a proposito del divorzio possiamo leggere: «Gesù ha chiaramente condannato il divorzio e il nuovo matrimonio. (...) Ma Gesù non è andato oltre, non ha detto che il matrimonio non può essere rotto (...). Da nessun'altra parte, nel suo insegnamento, c'è una situazione in cui egli incateni per sempre le persone alle conseguenze del suo peccato. Tutto il suo approccio nei confronti delle persone era liberarle, non legiferare (...). È del tutto evidente che di fatto alcuni matrimoni semplicemente crollano, che gli impegni vengono abbandonati, che le promesse vengono violate e l'amore tradito».

Il rovescio del diritto

Queste righe, per quanto comprensibili e «liberal», implicano una confusione fatale tra alti e bassi emotivi, e un impegno simbolico incondizionato che deve resistere proprio quando non è più supportato da emozioni dirette: «Tu non divorzierai, tranne quando il tuo matrimonio `di fatto' crolla, quando diventa un peso emotivo insopportabile che frustra tutta la tua vita». In breve, tranne quando la proibizione di divorziare avrebbe guadagnato il suo pieno significato (giacché chi divorzierebbe quando il suo matrimonio è ancora vitale?). È così che oggi tendiamo a stabilire un collegamento negativo tra il Decalogo (i comandamenti divini imposti traumaticamente) e i diritti umani, sebbene in ultima analisi il tema moderno dei diritti umani sia radicato nella nozione ebraica dell'amore per il vicino. Ossia, all'interno della nostra società liberal-permissiva, post-politica, in fondo i diritti umani sono semplicemente il diritto di violare i dieci comandamenti. «Il diritto alla privacy»: il diritto all'adulterio, commesso in segreto, quando nessuno mi vede o ha il diritto di intromettersi nella mia vita. «Il diritto di cercare la felicità e di possedere la proprietà privata»: il diritto di rubare (o sfruttare gli altri). «La libertà di stampa e la libertà di esprimere la propria opinione»: il diritto di mentire. «Il diritto dei liberi cittadini di possedere armi»: il diritto di uccidere. E, infine, «la libertà di fede religiosa»: il diritto di adorare falsi dei.

Quando, dunque, ci liberiamo di questo meccanismo? L'estrema ironia postmoderna è lo strano scambio tra Europa e Asia: nel momento stesso in cui, a livello dell'«infrastruttura economica», la tecnologia e il capitalismo «europei» stanno trionfando in tutto il mondo, a livello della «sovrastruttura ideologica» l'eredità giudaico-cristiana è minacciata nello stesso spazio europeo dall'assalto del pensiero «asiatico» New Age. Quest'ultimo, nelle sue diverse guise che vanno dal «buddismo occidentale» (odierno contrappunto al marxismo occidentale, in contrapposizione al marxismo-leninismo «asiatico») ai diversi «Tao», si sta affermando come l'ideologia egemonica del capitalismo globale. In questo risiede la più alta identità speculativa degli opposti nella civiltà globale di oggi: pur presentandosi come un rimedio contro la tensione e lo stress della dinamica capitalistica che ci consente di liberare e mantenere la nostra pace interiore, la Gelassenheit, in realtà il «buddismo occidentale» funge da perfetta appendice ideologica a questo tipo di dinamica. Dobbiamo qui menzionare il tema ben noto del «future shock», ossia di come oggi, psicologicamente, le persone non riescono più a tenere testa al ritmo abbacinante dello sviluppo tecnologico e dei cambiamenti sociali che lo accompagnano. Semplicemente, le cose si muovono troppo in fretta: prima che abbiamo il tempo di abituarci a un'invenzione, questa è già soppiantata da un'altra, sicché siamo sempre più privi della più elementare «mappa cognitiva». Il ricorso al taoismo o al buddismo offre un'uscita da questa situazione, decisamente più efficace della fuga disperata nelle vecchie tradizioni: invece di sforzarci di stare al passo con il ritmo in accelerazione del progresso tecnologico e dei cambiamenti sociali, dovremmo piuttosto rinunciare al tentativo di mantenere il controllo su ciò che avviene, rifiutandolo in quanto espressione della moderna logica del dominio. Dovremmo invece «lasciarci andare», vivere alla giornata, opponendo una distanza interiore e un atteggiamento di indifferenza alla danza folle del processo di accelerazione: una distanza basata sulla nozione che tutto questo sconvolgimento sociale e tecnologico è in fin dei conti solo un proliferare non sostanziale di sembianze che non riguardano il nocciolo più recondito del nostro essere... Si è quasi tentati di resuscitare qui il vecchio, famigerato cliché marxista della religione come «oppio dei popoli», come appendice immaginaria della miseria terrestre: la posizione meditativa «buddista occidentale» è probabilmente il modo più efficace, per noi, di partecipare pienamente alla dinamica capitalistica conservando allo stesso tempo l'apparenza della sanità mentale. Se oggi fosse vivo, Max Weber scriverebbe senz'altro un supplemento al suo L'etica protestante e lo spirito del capitalismo intitolato L'etica taoista e lo spirito del capitalismo globale.

La grandezza di Giovanni Paolo II stava nel fatto che egli impersonava il rifiuto di questa facile scappatoia liberale. Anche quanti ne rispettavano la posizione morale, solitamente accompagnavano quest'ammirazione con l'osservazione che egli restava però irrecuperabilmente all'antica, addirittura medievale, attaccato ai vecchi dogmi, non in contatto con le esigenze attuali. Come si può al giorno d'oggi ignorare la contraccezione, il divorzio, l'aborto? Non sono questi, semplicemente, fatti della nostra vita? Come può il papa negare il diritto ad abortire persino a una suora rimasta incinta in seguito a uno stupro (come è effettivamente successo nel caso delle suore stuprate durante la guerra in Bosnia)? Non è evidente che, anche se in linea di principio si è contrari all'aborto, in un caso così estremo si dovrebbe piegare il principio e acconsentire a un compromesso?

Ora possiamo capire perché il Dalai Lama è molto più adatto alla permissiva epoca postmoderna. Egli ci propone un vago spiritualismo basato sul benessere, senza obblighi specifici: chiunque, anche la più decadente star hollywoodiana, può seguirlo continuando allo stesso tempo nel suo stile di vita promiscuo e avido di denaro... Il papa, al contrario, ci ricorda che un atteggiamento propriamente etico comporta un prezzo da pagare; è il suo testardo attaccamento ai «vecchi valori», il suo ignorare le pretese «realistiche» del nostro tempo anche quando le argomentazioni contrarie appaiono «ovvie» (come nel caso della suora stuprata), a renderlo una figura autenticamente etica.

Ma Giovanni Paolo è stato all'altezza del suo compito? La chiesa cattolica ha la sua organizzazione segreta, la famigerata Opus Dei, la «mafia bianca» della chiesa, l'organizzazione (semi)segreta che incarna in qualche modo la pura Legge al di là di ogni legalità positiva: la sua regola suprema è l'obbedienza incondizionata al papa e la spietata determinazione a lavorare per la chiesa, con la (potenziale) sospensione di tutte le altre norme. Di regola i suoi membri, il cui compito è penetrare nei principali circoli politici e finanziari, tengono segreta la loro affiliazione. In quanto membri dell'Opus Dei, essi sono effettivamente «opus dei», «opera di dio», ossia assumono la posizione perversa di strumento diretto della volontà divina.

L'appendice segreta

Ci sono poi i molti casi di bambini molestati sessualmente da preti. Questi casi sono talmente diffusi, dall'Austria e dall'Italia fino all'Irlanda e agli Usa, che possiamo effettivamente parlare di un'articolata «controcultura» all'interno della chiesa, con il suo insieme di regole nascoste. E c'è un'interconnessione tra i due livelli, dato che l'Opus Dei interviene regolarmente per mettere a tacere gli scandali sessuali dei preti. Incidentalmente, la reazione della chiesa agli scandali sessuali rivela anche il suo modo di percepire il proprio ruolo. Essa sostiene che questi casi, per quanto deplorevoli, sarebbero un suo problema interno e mostra una grande riluttanza a collaborare con la polizia nelle indagini. E, in un certo senso, è giusto: molestare i bambini è un problema interno della chiesa, è cioè un prodotto intrinseco della sua organizzazione istituzionale e dell'economia libidica su cui essa si basa. Non si tratta semplicemente di una serie di reati particolari riguardanti individui che si dà il caso siano preti.

Per rispondere a questa riluttanza della chiesa non dovremmo limitarci a dire che abbiamo a che fare con dei reati e che la chiesa, non partecipando pienamente alle indagini, ne diventa complice. Al di là di questo, la chiesa come tale, come istituzione, va indagata in relazione al modo in cui essa crea sistematicamente le condizioni perché tali reati avvengano. Questa è una delle ragioni per cui non possiamo spiegare gli scandali sessuali che vedono coinvolti i preti come una manovra degli oppositori del celibato finalizzata a dimostrare come le pulsioni sessuali dei preti, non trovando uno sbocco legittimo, siano destinate a esplodere in modo patologico. Consentire ai preti cattolici di sposarsi non risolverebbe niente, avremmo comunque dei preti che molestano i ragazzini: la pedofilia è generata dalla stessa istituzione cattolica del sacerdozio, come sua oscena appendice segreta.

Ed è qui che il papa ha fallito: a dispetto delle sue pubbliche espressioni di preoccupazione, egli ha evitato di affrontare le radici e le conseguenze degli scandali sulla pedofilia. Sotto il suo pontificato, l'Opus Dei è diventata più forte che mai e il papa ha persino dichiarato santo il suo fondatore (un antisemita dichiarato e un protofascista), un atto che manifestamente contraddice e dunque cancella la sua apologia nei confronti degli ebrei per i crimini commessi ai loro danni dalla chiesa per secoli. Per questo motivo, Giovanni Paolo II è stato un fallimento etico, una prova di come anche una posizione etica sinceramente radicale possa essere una posa fasulla, vuota se non prende in considerazione le sue condizioni e conseguenze.

Traduzione di Marina Impallomeni

Il colore viola sul dito degli elettori iracheni diventerà d'ora in poi il simbolo del trionfo della democrazia in Iraq e della sua esportabilità (armata) ovunque nel mondo? Realisticamente credo che dovremmo rispondere di sì, unendoci a gran voce al coro dei cantori della vittoria politica e simbolica dell'amministrazione Bush. Di questo trionfo siamo soddisfatti, ne sentiamo nutrito l'orgoglio di appartenere a quel pezzo di mondo che si chiama Occidente e che alla democrazia ha dato i natali e l'ambizione universalista? Realisticamente credo che dovremmo rispondere di no, separandoci nettamente da quel coro. Come stiano assieme questo sì e questo no, è un paradosso che non è ascrivibile allo «scetticismo» che gli entusiati del voto di domenica rimproverano ai pacifisti e a quanti hanno contestato l'occupazione dell'Iraq, la strategia della guerra preventiva e l'esportazione armata della democrazia. E' ascrivibile invece e purtroppo allo stato in cui versa la democrazia: in Occidente dov'è radicata, prima che in Iraq dov'è stata violentemente impiantata. I cronisti della storica giornata elettorale e chi conosce bene la situazione irachena avranno modo di analizzare minutamente le percentuali promettenti di partecipazione al voto, le fratture politiche, etniche e religiose che tuttavia sottostanno ad esse, i conflitti che inevitabilmente continueranno a imperversare, l'altolà che le urne sembrano aver dato al terrorismo, le piegature che l'occupazione dei «volenterosi» prenderà da qui in avanti. A noialtri resta il compito di interrogarsi sulla forbice che divide la fiducia nel rito elettorale di quegli otto milioni di iracheni, donne e uomini, dalla sfiducia che lo contrassegna nelle democrazie occidentali. E non è sopportabile il paternalismo di alcuni commenti della prima ora, che ci invitano a sciacquare il disincanto apatico e spesso astensionista delle democrazie mature nell'acqua fresca del neonato senso civico iracheno, e accusano di razzismo chi ha osato dubitare che la democrazia possa essere esportata a viva forza laddove non c'è ancora. Come sempre, sono accuse che vanno rovesciate sull'ipocrisia di chi le fa. Non era della ricettività democratica, per così dire, degli iracheni che dubitavamo; era, ed è, della qualità della merce esportata e dei suoi venditori.

Gli iracheni hanno tutte le ragioni per riporre fiducia, speranza ed entusiasmo in un atto che comunque offre a una società sofferente e segnata dalla dittatura e dalla guerra una possibilità di espressione e di scelta. Ma noi avremmo tutte le ragioni, e qualche dovere, per interrogarci sul peso e l'efficacia effettiva di quell'atto in quelle condizioni; e sull'immagine della democrazia in Occidente che, come in uno specchio, l'Iraq di domenica ci rimanda. Fahmi Hweidi, firma autorevole del quotidiano egiziano Al Ahram e di altre testate del mondo arabo, in un articolo pubblicato ieri dal Corriere della Sera ha acutamente evidenziato le contraddizioni insite in democrazie che vengono impiantate su terreni privi di libertà, e in «libere elezioni» che si svolgono in assenza di libere opinioni pubbliche.

Ma non è solo questo il punto. Il punto è che l'Occidente esporta un'idea e una pratica di democrazia ridotta al solo rito elettorale, e a un rito elettorale tutt'altro che trasparente, prima che a Baghdad, in casa nostra: dove fra ogni testa e ogni voto si frappone una montagna di opacità fatta di potentati economici e manipolazione massmediatica, la frequentazione delle urne non contrasta la crisi verticale della rappresentanza e della partecipazione, la libertà di voto non compensa la caduta della libertà politica. E' questa la democrazia che esportiamo con le armi, e che ha bisogno delle armi per essere esportata; è questa la democrazia che trionfa, e del cui trionfo c'è poco da gioire. E' di noi che parla l'Iraq.

L’uguaglianza

Le donne e gli uomini sono tutte e tutti uguali. Ogni essere umano nasce con lo stesso diritto ad una vita compiutamente realizzata, senza distinzioni di genere, casta, censo, reddito, etnia, religione. Lo scopo fondamentale della politica è quello di affermare questo principio. Aspirando a costruire un mondo dove le disuguaglianze siano sempre minori. Il compito primario della politica non è quello di assicurare efficienza allo sviluppo, ma di ridurre e cancellare le sopraffazioni e le disuguaglianze nelle relazioni tra persone, popoli, Stati. Solo in questo modo si può garantire il diritto fondamentale all’individualità e alla differenza. Una società equilibrata salvaguarda le differenze e difende i diritti individuali, una società ingiusta e gerarchizzata li cancella. Il dovere essenziale della politica in una società moderna è quello di contrastare tutte le discriminazioni: quelle teoriche e quelle pratiche, quelle economiche e quelle sociali, quelle formali e quelle di sostanza. Di queste discriminazioni il razzismo e la xenofobia sono le più odiose e aberranti.

La libertà

Ogni essere umano nasce libero. Ogni essere umano ha diritto a vivere libero. Non ci potrà essere libertà se non si demoliscono le basi della schiavitù dal bisogno, dello sfruttamento del lavoro, dell’egoismo sociale, dell’oppressione patriarcale, della superstizione, del nazionalismo. La libertà si realizza abbattendo il dominio. L’affermazione di una società pienamente libera avviene attraverso la critica e il ridimensionamento del potere. La libertà degli individui e dei popoli, cioè la possibilità di vivere la propria vita di tutti i giorni e di costruire il proprio destino in razionalità e autonomia, resta un insopprimibile bisogno umano.

La fraternità e la sorellanza



La convivenza solidale tra le persone è alla base di ogni civiltà: solo il vincolo amichevole della specie, solo la capacità di rapporto con l’Altro e con l’Altra, solo la costruzione attiva di un legame di fratellanza e sorellanza, hanno reso possibile la straordinaria storia dell’umanità. Contro le pulsioni distruttive dell’homo homini lupus, contro il ritorno dello spirito maschile e guerriero, contro la pratica della morte e dello sterminio, la sorellanza e la fratellanza sono oggi dimensioni essenziali. Le sole che possono indicarci un orizzonte di felicità.

Lo sviluppo

Lo sviluppo non si misura con la falsa neutralità del Pil: non è la cieca crescita quantitativa di merci. E’ un progetto di rinascita economica e sociale rispettoso dell’ambiente, dei diritti delle generazioni che verranno, e della necessità di un’equa distribuzione della ricchezza. La terra è di tutti. La ricchezza economica e tecnoscientifica deve servire a tutti. Ai viventi e ai futuri abitanti della Terra.

I diritti di nuova cittadinanza

Ogni persona è cittadina se può esercitare i diritti basici di partecipazione alla politica. Se può difendersi dal potere. Se ha di fronte una giustizia non discriminatoria per classe e per censo. Se può liberamente esprimere le proprie idee e le proprie speranze. Ma una cittadinanza piena è imprescindibile dall’estensione di diritti sostanziali universali: allo studio, alla salute, alla mobilità, all’abitazione e alla dignitosa sopravvivenza. La cultura, l’informazione, la sanità, i trasporti di base, la casa, per acquisire davvero questo statuto universale, non possono che essere sottratti al dominio delle merci e del Privato. La scuola pubblica, laica e plurale, luogo della convivenza, dell’incontro e della contaminazione, è la base di questa ispirazione. Lo Stato non deve finanziare la libera istruzione privata.

La famiglia

Le donne sono il soggetto della più straordinaria e prolungata rivoluzione del nostro tempo, fondata sulla libertà e l’autodeterminazione femminile. Alla base della convivenza sociale, che assume la diversità di genere e di orientamento sessuale come tratto distintivo della libertà moderna, c’è dunque la libera scelta delle persone - con il solo limite stabilito dal rispetto della libertà altrui. La famiglia si articola oggi in una vasta molteplicità di opzioni e di libere unioni, contro ed oltre il dominio patriarcale, contro ed oltre ogni gerarchia stabilita autoritativamente, contro ogni idea tradizionale che limiti la libertà sessuale.

Il rifiuto del razzismo

Oggi nessuno può credibilmente argomentare la superiorità dell’“uomo bianco”. Esiste però una posizione, diffusa, che afferma la superiorità culturale e civile dell’occidente sugli altri popoli del pianeta. La chiusura delle frontiere, la categoria del “clandestino” sorreggono questo nuovo razzismo. Noi affermiamo, al contrario, il diritto dei popoli a emigrare, a viaggiare, a mescolarsi e ci opponiamo alle chiusure delle frontiere

Il dialogo tra le civiltà

Il dialogo tra le diverse civiltà è una risorsa per l’umanità. La civiltà occidentale - quel mix complesso di cultura progressista nata dall’illuminismo, dal liberalismo, dal cristianesimo e dal contributo del movimento operaio, è solo una delle civiltà che abitano il pianeta. Altre si sono espresse, anche con molta forza e splendore, in epoche passate, altri orizzonti attraversano l'immaginario delle popolazioni mondiali. Il dialogo tra le civiltà è la nuova frontiera dell’umanità, l’unico orizzonte credibile per un futuro di pace e di benessere reciproco.

La lotta al terrorismo

Il terrorismo è una forma atroce e inaccettabile di lotta politica. Esso annienta i corpi, moltiplica le vittime e perciò stesso rende muta la politica. Oggi l’ipoteca del terrorismo pesa non solo sulle popolazioni occidentali ma molto di più sullo stesso mondo arabo-musulmano schiacciato dal fallimento delle speranze progressiste, dominato dal neocolonialismo e reso ostaggio di formazioni integraliste e reazionarie che fanno dello strumento terroristico un uso spregiudicato quanto lucido. Il terrorismo non si spiega solo con la disperazione sociale in quanto vive di una sua autonoma progettualità politica. Tuttavia l’aggressione dell’occidente capitalistico lo alimenta e lo rafforza. Battere il terrorismo significa innanzitutto offrire una possibilità di autoliberazione democratica ai popoli arabo-musulmani, e questo non può avvenire se non si pone fine alle guerre e all’oppressione nei loro confronti.

La pace e la nonviolenza



La guerra va respinta. Senza se e senza ma. Va espulsa dalla storia e dalla legalità internazionale. Bisogna opporsi alle aggressioni che l’Occidente, e gli Stati Uniti, continuano a perpetrare ai danni del Sud del mondo. Diciamo sì alla pace, alla convivenza dei popoli, alla pari dignità delle culture. Ci impegniamo sulla frontiera dell’interdipendenza e dell’accoglienza. Molti di noi sono convinti che non ci potrà mai essere pace vera, completa e duratura senza una scelta strategica di

Per aderire andare qui

Non sorprende che Camillo Ruini, il più autorevole dei nostri vescovi, intervenga così frequentemente sulle scelte del governo italiano. C’è da chiedersi perché si permetta di farlo ora. La gerarchia cattolica non ha mai accettato fino in fondo la separazione di campo tra stato e chiesa. Non è una novità. È dal famoso «non expedit» che i cattolici si sono sentiti addosso l’interdizione vaticana a partecipare alla sfera politica ed è un merito della democrazia cristiana di De Gasperi essere riuscita a far ritirare di fatto questa proibizione, lasciando alla destra o alla disinvoltura di Craxi farsi portavoce dei principi e dei bisogni che oltretevere erano cari. L’avere scomunicato nel dopoguerra chi votava comunista aveva finito con il rivolgersi contro la stessa chiesa e dall’interno del suo stesso gregge. E certo anche per la riflessione aperta dal Vaticano II, sebbene dopo la morte di Giovanni XXIII e del tormentato Montini quel processo sia andato lentamente chiudendosi.

In ogni modo le relazioni tra stato e chiesa parevano aver finalmente imboccato una strada corretta. Non che Giovanni Paolo II non facesse sapere quel che pensava dimolti aspetti della modernità, a cominciare dalla controversa questione della libertà sessuale; ma i suoi messaggi si indirizzavano al mondo, e non erano - mi sembra - un intervento diretto nel fare quotidiano delle istituzioni pubbliche.

È dal suo tramonto che la chiesa ha ricominciato a ribadire che il cattolicesimo non riguarda soltanto la coscienza del singolo ma è una scelta obbligata dell’intera nazione italiana. Ed è da allora che la chiesa ottiene dal governo, con la modesta correzione del capo dello stato, inchini e nuovi privilegi (come la detassazione del suo immenso patrimonio immobiliare) e riceve non solo dalla Casa delle libertà - è di ieri la «speciale convergenza» registrata da Berlusconi e Ratzinger - ma dalla sinistra un ossequio che non aveva neppure più sperato di avere.

Ed è questo, non la persuasione da parte della santa sede di detenere la verità rivelata e di imporla a tutto l’universo, che fa scandalo. Lo scandalo è tutto dalla parte della sfera statuale.

Era cominciato da prima della morte di Giovanni Paolo II, ricevuto dal parlamento più che come un ospite di riguardo come il vero maestro del paese, tanto che ormai una targa commemora l’ingresso di quegli augusti piedi nella sede del potere legislativo. Oscar Luigi Scalfaro, credente sul serio, non lo avrebbe mai permesso. È stato dunque un processo, una svolta tutta interna alla scena politica. Forse l’inizio sta nella definizione sempre più diffusa di quel pontefice come la massima autorità morale del nostro tempo - aveva cominciato Massimo Cacciari, che del cristianesimo fa davvero tutto - ma poteva essere un seppur smisurato omaggio. Ma poco tempo fa Giuliano Amato apriva dalla sua posizione di laico di sinistra un discorso nel quale riconosceva alla chiesa di Roma un alto magistero e l’additava in particolare come modello di tolleranza.

Affermazione davvero temeraria da parte di un uomo così colto giacché non occorre riandare alle crociate o all’inquisizione per ricordare che la tolleranza non è stata certo la sua principale virtù. Basta rifarsi al dopoguerra, dalle dirette pressioni esercitate su Dossetti poi sulla sinistra cristiana e infine sullo stesso Franco Rodano fino al recente gesto di fastidio con il qualeGIovanni Paolo II allontanava da sé Leonardo Boss che gli si era gettato in ginocchio davanti. Ad Amato sono seguite dichiarazioni più goffe da parte dell’ex sinistra. Lasciamo stare Pera e Casini, L’ultimo dei due distintosi per la differenza che fa tra laicità, ammessa, e laicismo, condannato. Piero Fassino sentiva di colpo il bisogno di dichiarare che, essendo stato educato dai gesuiti non poteva che provare sentimenti di venerazione per la chiesa. Seguito rapidamente da Fausto Bertinotti che ha fatto sapere via stampa di avere un problema tutto interiore con Dio, si è intrattenuto con i vescovi sulla trascendenza e ieri l’altro dichiarava al che soltanto la chiesa può essere ai nostri giorni un punto di riferimento morale e che chi, come lui, riflette specialmente sull’uomo, non può non riflettere anche su Dio. Il giorno seguente Piero Sansonetti, su Liberazione, glielo contestava in forma garbata con ragionamenti del tutto condivisibili.

Non so se questa improvvisa ondata di religiosità un po’ sia un modo poco elegante per acchiappare voti di centro, come candidamente confessa Livia Turco, nel lodevole intento di toglierci di torno Berlusconi, o se sia ormai così enorme nella cultura dei nostri leader, sinistra e destra per una volta unite, la confusione di idee fra religiosità, cristianesimo, cattolicesimo e chiesa. Termini dei quali uno solo ha una identità storica indiscutibile ed è il cristianesimo, la religiosità essendo una inclinazione psicologica, il cattolicesimo riflettendo solo una parte dei cristiani, e la chiesa di Roma essendone soltanto l’espressione che più temporale di così non potrebbe essere, con tutti i terrestri guai che alla temporalità sono connessi.

Quale che sia l’interpretazione autentica, la leadership politica della sinistra o ex sinistra ci fa sapere che il suo revisionismo è andato molto ma molto più in là di quanto sia stato fino a un paio di anni fa. Fino a persuadersi, gli uni soddisfatti gli altri con preoccupazione, di essere del tutto sprovvisti e incapaci di un’etica. E di avere scoperto di esserlo sempre stati, come se il fatale illuminismo, con la dichiarazione che l’uomo è peribile e deve a se stesso ogni responsabilità di quel che avviene o non avviene in terra, non fosse stato una rivoluzione di ordine non solo culturale ma morale nella storia europea. Come se l’azzeramento della modernit à, l’attacco alle illusioni della ragione rispetto alle ragioni non più del cuore ma addirittura delle viscere avesse ormai debordato i limiti di una riflessione critica per assumere il carattere di una esorcizzazione di tutto quel che è successo fuori dai palazzi vaticani da Montaigne ai tempi nostri.

Francamente più che una crisi di cultura sembra una crisi di ignoranza. Se non siamo, e non lo siamo, volgarmente progressisti, dobbiamo ammettere che la storia non è tutta un andare avanti, che le regressioni esistono, e che la riduzione della politica ai giorni nostri, forse in particolare in Italia, fa di essa il più clamoroso e mediatizzato veicolo.

Ci sono norme che hanno un altissimo valore simbolico anche se nella pratica soccorre il buon senso di non applicarle. La norma del pacchetto Pisanu che consente di mettere in galera fino a due anni una donna con addosso il burqa o il chador è una di queste, e a nulla serve limitarsi a sperare, come ha fatto qualcuno, che non possa essere applicata a chi si copre per motivi religiosi: nell'immaginario razzista che monta in queste tormentate settimane, essa viene già applicata e con soddisfazione. Le istanze «femministe» di chi dall'11 settembre perora la «liberazione» delle donne da veli, chador e burqa a colpi di leggi o di bombe gettano la maschera più eclatantemente in Italia che altrove. Altrove, ad esempio in Francia, il divieto di portare il velo nelle scuole è stato accompagnato da un amplissimo dibattito pubblico e sostenuto da tutt'altre argomentazioni. Si tratta pur sempre a mio avviso, come già mi è capitato di scrivere su questa colonna, di un cattivo divieto, e di cattive argomentazioni: la laicità intesa come neutralizzazione, l'uguaglianza fra i sessi intesa come omologazione, la libertà intesa come dettato normativo con effetti liberticidi. Ma il Rapporto della Commissione Stasi che ha ispirato la legge francese merita comunque di essere letto come esempio illuminante dei paradossi in cui può cacciarsi l'universalismo occidentale; e la discussione che ne è seguita nell'opinione pubblica francese ha meritato comunque di essere seguita come esempio illuminante delle ragioni a difesa, a correzione o contro di esso.

Nell'Italia berlusconiana tutto è più semplice e più elementare: una legge penale e via. Due anni di galera e la questione è risolta. Le donne velate vanno «liberate» con la repressione: la galera vera, della legge penale occidentale, al posto della galera simbolica, della religione e del patriarcato islamico, dell'abito. Qualcosa di minaccioso - un codice sessuale intraducibile nel linguaggio occidentale dell'ostentazione del corpo - si cela dietro il velo, e questo è a ben leggere il messaggio «velato» della legge francese. Quel qualcosa diventa minacciosissimo - un'arma, una bomba, un kamikaze - nella norma italiana, che lì, nel viso femminile velato, trova modo di incarnare e incardinare il fantasma assoluto del pericolo incombente. E il delirio di onnipotenza del controllo assoluto: un kamikaze a viso scoperto non si può - purtroppo - riconoscere e arrestare preventivamente, una donna velata sì. Lì sta l'ignoto, lì sta la preda, lì sta la presa.

Di nuovo troviamo donne, corpi femminili, come posta in gioco del cosiddetto scontro di civiltà. Il passaggio all'inciviltà è questione di poco. Piccole norme paradossali apparentemente con scarse possibilità di essere applicate. All'immaginario bastano minuscoli slittamenti per scavarsi delle autostrade.

L'immagine è tratta dal sito news.bbc.co.uk

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