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Di prima mattina, il 5 febbraio del 62 dopo Cristo, in Campania si verificò uno spaventoso terremoto che nel volgere di pochi secondi uccise migliaia di inconsapevoli abitanti. Vaste aree di Pompei crollarono travolgendo gli abitanti nel sonno e ogni tentativo di salvarli fu ostacolato dallo scoppio di vari incendi. I sopravvissuti si ritrovarono spogliati di ogni cosa, a eccezione degli abiti che avevano indosso e che erano completamente ricoperti di fuliggine, tra gli edifici un tempo eleganti ridotti in rovine. Attraverso l´Impero dilagarono spavento, incredulità e rabbia. "Come è mai possibile", si andava chiedendo, "che i romani, i più potenti al mondo, il popolo tecnologicamente più avanzato, i romani che hanno costruito acquedotti e soggiogato orde di barbari, siano così esposti agli insensati capricci della natura?".

La disperazione e lo sbigottimento - fin troppo diffusi oggi, all´indomani del terremoto al largo dell´Indonesia - attrassero l´attenzione del filosofo stoico romano Seneca. Egli scrisse una serie di testi volti a consolare i suoi lettori, ma, cosa assai tipica in Seneca, il conforto offerto fu del genere più rigoroso e fosco che si potesse concepire: "Voi dite ?Non pensavo che sarebbe accaduto´. Pensate dunque che esista qualcosa che non accadrà quando invece ben sapete che è possibile che accada, quando vedete voi stessi che è già accaduta?".

Seneca cercò di mitigare l´impressione d´ingiustizia che imperversava tra i suoi lettori ricordando loro - nella primavera del 62 - che i disastri naturali e quelli provocati dall´uomo faranno sempre parte della nostra vita, per quanto evoluti e sicuri noi si creda di essere diventati. Pertanto, anche nella nostra epoca dobbiamo sempre attenderci l´imprevisto: la calma è soltanto un intervallo nel caos. Nulla è certo, nemmeno il suolo sul quale poggiamo i piedi. Se non ci soffermiamo a riflettere sui rischi di improvvise onde gigantesche, se di conseguenza paghiamo uno scotto per la nostra ostinata ingenuità intenzionale, è perché la realtà comprende due diversi aspetti che disorientano in modo assai crudele: da una parte il senso di continuità e di sicurezza che si trasmette di generazione in generazione e dall´altra i cataclismi non preannunciati. In pratica, ci ritroviamo a esitare tra il plausibile invito a dare per scontato che il domani sarà molto simile all´oggi e la possibilità che andremo invece incontro a un evento spaventoso, dopo il quale nulla sarà più come prima. Ed è proprio perché abbiamo fortissimi incentivi a non prendere in considerazione il secondo dei due scenari che Seneca ci esortò a ricordare che il nostro destino è sempre nelle mani della Dea Fortuna. Costei può distribuire i suoi doni e poi, con terrificante velocità, osservarci mentre soffochiamo per una lisca di pesce incastrata in gola, o mentre chiudiamo gli occhi per sempre, scomparendo per colpa di uno tsunami insieme all´hotel nel quale eravamo alloggiati.

Il terremoto in Asia ha acquisito un rilievo del tutto particolare perché molte delle aree devastate erano zone turistiche, luoghi dove la gente si è recata espressamente alla ricerca della felicità, soltanto per trovarvi morte e caos. Se si visitano i siti Web degli alberghi ora devastati, si possono ancora osservare magnifiche immagini di spiagge assolate, di camere accoglienti, di barbecue in piscina o di immersioni nei fondali marini.

Seneca sostiene che proprio perché veniamo feriti maggiormente da ciò che non ci aspettiamo, laddove dobbiamo invece aspettarci di tutto ("Non vi è nulla che la Fortuna non osi"), dovremmo sempre tenere ben in mente l´eventualità che si verifichino gli eventi più terribili. Nessuno dunque dovrebbe mai accingersi a partire per un viaggio in macchina, né scendere le scale o salutare un amico senza la consapevolezza - che Seneca per altro non avrebbe voluto che fosse necessariamente funesta o tragica - che possa accadere qualcosa di fatale.

Considerando le nostre competenze tecnologiche, è diventato naturale credere di essere in grado di controllare il nostro destino. L´uomo non deve più essere il trastullo delle forze del caso: esercitando la ragione, tutti i nostri problemi possono essere risolti. Nulla è maggiormente lontano dalla mentalità di uno stoico. Piuttosto, sottolinea Seneca, noi dobbiamo accentuare la consapevolezza di ciò che in un qualsiasi momento della nostra vita può andare storto: "Nulla dovrebbe mai esserci imprevisto. La nostra mente dovrebbe anticipare tutto, in modo da poter far fronte a tutti i problemi. Noi dovremmo considerare non ciò che non è usuale che accada, bensì ciò che può accadere. Che cos´è infatti l´uomo? Un vaso che il più lieve urto, il più lieve movimento brusco può frantumare. Un corpo debole e fragile".

All´indomani del terremoto della Campania, molti sostennero che l´intera zona dovesse essere evacuata e che non si dovesse più edificare nelle zone a rischio di terremoto. Ma Seneca confutò l´implicito principio che sulla Terra potesse esistere un luogo - la Liguria, per esempio - nel quale ci si possa considerare del tutto al sicuro, lontani e al riparo dai capricci della Fortuna: "Chi può garantire che in questo o in quel sottosuolo si possono erigere fondamenta più solide? Tutti i luoghi hanno le medesime caratteristiche e se non sono ancora stati colpiti da un terremoto, ciò non di meno potranno esserlo in futuro. Sbagliamo se riteniamo che al mondo possa esservi un luogo esente da pericoli, sicuro? La natura non ha creato nulla di immutabile". Né - potrebbe aggiungere Seneca qualora fosse vivo oggi - la natura ha creato una costa che non potesse essere investita dall´avanzare della marea.

Per cercare di prepararci psicologicamente al disastro, Seneca invitava a sottoporsi ogni mattina a uno strano esercizio, che egli in latino chiamò praemeditatio - premeditazione - consistente nel rimanere sdraiati prima ancora di colazione e di immaginare tutto ciò che nell´arco della giornata che si ha davanti potrà andare storto. L´esercizio non è fine a se stesso, essendo stato concepito per prepararsi all´eventualità che la città in cui si vive venga distrutta la sera stessa o che per qualche ragione muoiano i propri figli. Così si legge in uno degli esempi di premeditazione: "Viviamo tra cose concepite tutte per cessare di vivere. Esseri mortali ci hanno dato la vita e noi stessi abbiamo dato vita a esseri mortali. Pertanto aspettiamoci di tutto".

Lo stoicismo pretenderebbe dunque che noi si accetti tutto ciò che la vita ci propina? No, essere stoici significa riconoscere quanto siamo vulnerabili nonostante tutto il nostro progresso. Seneca arrivò a chiederci di immaginare di essere simili a cani legati a un carro guidato da un conducente imprevedibile. Il guinzaglio è lungo abbastanza da poterci lasciare un certo qual margine di libertà di movimento, ma non così tanto tuttavia da consentirci di vagare a nostro piacere. Un cane spererebbe per sua stessa natura di potersi allontanare a suo piacimento, ma la metafora di Seneca implica che se non potesse farlo, sarebbe meglio per l´animale seguire docilmente il carro, invece che esserne trascinato a forza e finire strangolato. Così disse infatti Seneca: "L´animale che si dibatte rifiutando il guinzaglio finisce col serrarlo? non esiste giogo più stretto da ferire un animale di quello che l´animale stesso stringe, osteggiandolo invece di assecondarlo. Il miglior sollievo dai mali che ci opprimono consiste nel sopportare e nel piegarsi alla necessità".

Ritornando dunque al passato e alla saggezza dei filosofi stoici, potremmo trovare un metodo utile per ridimensionare alcune delle nostre aspettative e per smorzare il nostro shock davanti ai disastri naturali e allo spargimento di sangue. Nel 65 d. C. quando l´imperatore Nerone ordinò a Seneca di suicidarsi, la moglie e i suoi famigliari scoppiarono in lacrime. Seneca no, poiché aveva imparato a seguire il carro della vita con rassegnazione. Portandosi con tranquillità il coltello ai polsi, pronunciò una frase che faremmo bene a ripeterci, quando leggiamo le notizie sui giornali in alcune mattine particolarmente tristi. Egli disse: "Che bisogno vi è di piangere in alcuni momenti della vita? È per la vita tutta intera che si dovrebbe piangere".

Copyright Independent Digital (Uk) Ldt

Traduzione di Anna Bissanti

Il mitico Luca Mercalli di "Che tempo che fa" indirizza una lettera aperta alla candidata del l'Unione alla presidenza della Regione Piemonte. E' una raccolta di temi aggiornati sulla politica ambientale, e non solo. La Mercedes Bresso risponde in modo ragionevole e problematico. C'è una bella differenza con gli argomenti troppo spesso piatti e triviali della campagna elettorale in Emilia-Romagna. Utile per rimanere aggiornati e anche per la linea di politica locale (anche lo slogan è bello). Ciao (a.b.)

Luca Mercalli indirizza una lettera aperta a Mercedes Bresso:



Ti scrivo per porgerti qualche spunto di riflessione "per cambiare il futuro", come recita il Tuo slogan elettorale. Seguendo l'invito che compare sul Tuo sito Internet, questo vuole essere uno di quei contributi "delle più diverse articolazioni della società civile, dell'economia, del lavoro, della politica e della cultura, vale a dire a tutti coloro che condividono il nostro punto di vista e che vogliono cambiare con noi la nostra regione e il modo di governarla".

Del resto, per chi ha a cuore i problemi ambientali, la lettura del Tuo curriculum è un'iniezione di fiducia: "esperta di economia dell'ambiente, economia agraria e di economia del turismo", autrice di saggi tra cui "Per un'economia ecologica" e "Pensiero economico e ambiente", già Assessore regionale alla Pianificazione Territoriale e ai Parchi". "Amante delle passeggiate in montagna e nei boschi".

So anche che sei stata tra le prime in Italia a commentare il pensiero di Georgescu-Roegen, un pioniere, uno che avrebbe meritato il Nobel per l'Economia ben più di Robert Solow.

Ho avuto il piacere di conoscerTi insieme a tuo marito, quel Claude Raffestin "geografo ed esperto di Ecologia umana e Scienze del paesaggio" che completa il quadro del Tuo ambiente culturale come meglio non si potrebbe desiderare.

Insomma, a leggere queste credenziali, il Tuo programma politico dovrebbe avere una marcia in più rispetto - che so io - a quello di un qualsiasi palazzinaro che si metta in politica con obiettivi palesemente meno sostenibili sul piano ambientale.

Sembrerebbe, con un curriculum come il Tuo, di essere in ottime mani: una figura politica che non solo è ben informata su questi problemi, ma ne è pure navigata studiosa.

Ora, a questo punto, i fatti dovrebbero corrispondere alle premesse.

Eppure dal Tuo programma trapelano gli echi delle sirene della crescita continua.

"Con l'Europa per uno sviluppo sostenibile" per evitare il declino del Piemonte, recita il Tuo programma. Ma cosa vuol dire "declino"? Sulla base di quali indicatori? Forse del PIL? O del numero di autovetture prodotte dalla FIAT? Perché mai dovremmo evitare "un dignitoso e magari confortevole declino" a favore "di una dinamica fase di sviluppo"? Sappiamo che "sviluppo", come è inteso oggi (anche se corredato dell'aggettivo "sostenibile") è in realtà un modo addolcito di camuffare la continua crescita dei consumi. E' un'ossessione il ritenere che un luogo sia prospero solo se la sua popolazione aumenta o almeno non decresce, se le merci continuano ad affluire e a ripartire in sempre maggiori quantità, se l'edilizia continua incessantemente a costruire, se il valore degli scambi finanziari continua ad aumentare. A fronte di tali indicatori sappiamo bene che vi è anche l'aumento di rifiuti di qualsivoglia natura - solidi, liquidi e gassosi - e l'irreversibile diminuzione di naturalità del paesaggio, con conseguenze sia sul piano estetico, sia su quello dei cicli biogeochimici.

Ecco dunque che il passo del Tuo programma che recita come "La regione deve essere dotata in primo luogo di tutte le infrastrutture necessarie ad assicurarne la rilevanza economica, culturale, geografica e logistica cui aspira, il tutto nella logica dello sviluppo sostenibile. Vale a dire: le opere pubbliche dovranno essere progettate e portate a termine con il minimo impatto ambientale e al più basso costo sociale possibile. Opere all'avanguardia, concepite come servizi alla terra e agli uomini che debbono ospitarle, realizzate con tecnologie innovative, gestite con tutta la cura resa possibile dalla modernità", contiene inevitabilmente i germi della catastrofe ambientale. E ciò perché non riconosce il limite, ormai raggiunto e oltrepassato da tempo, del nostro territorio di sostenere ulteriori interventi di artificializzazione. In queste infrastrutture è facile vedere l'appoggio a progetti faraonici e non prioritari quali l'alta velocità ferroviaria, la quarta corsia della tangenziale torinese, una ulteriore espansione urbana e industriale capillare.

Sono tutti interventi ormai non più difendibili, inseriti nel mito della crescita continua, che - per quanto mitigata, per quanto addolcita - non può essere sostenibile per via dei meri vincoli fisici del sistema nel quale è concepita: il Piemonte - così come gran parte del nord-Italia, ha ormai subito un ampio superamento di tutte le soglie di attenzione di natura ambientale e deve ora guardare a come ridurre le conseguenze causate da un passo più lungo della gamba.

Per fare questo ritengo che l'unico mezzo sia ormai un serio approccio al concetto di decrescita. Orbene, il passato è passato. Processi storici ed economici hanno condotto fin qui e non ha importanza esaminarne più di tanto le motivazioni. Però Tu ci dici che vuoi cambiare il futuro del Piemonte. Benissimo. E' un'occasione d'oro per dimostrarlo. Se effettivamente desideri proporre un programma politico innovativo - pure rischioso, ovviamente - dovresti fare tuoi i precetti che il mondo scientifico ha da tempo - e con sempre maggior completezza - messo in luce. Il libro che ti allego "Le mucche non mangiano cemento" ne fa una sintesi, proponendo una bibliografia di riferimento che non ho dubbi Tu conosca ampiamente.

Provo comunque a sintetizzare per sommi capi gli obiettivi di un futuro realmente diverso:

1) il paradigma della crescita continua dei consumi e delle infrastrutture (e quindi pure dei relativi rifiuti) dovrebbe essere abbandonato quanto prima. Il suo fallimento è dietro l'angolo, una presa di coscienza anticipata potrebbe ancora consentire una transizione morbida verso una struttura stazionaria, altrimenti il collasso avverrà, come spesso accade nei sistemi non lineari, in modo improvviso e non modulabile da azioni di mitigazione.

2) sviluppo non deve essere confuso con crescita: esiste uno sviluppo culturale, scientifico, spirituale, perseguibile anche al di fuori di uno sviluppo dei consumi materiali o, peggio ancora, di beni superflui ed energivori. E' proprio lo sviluppo dei primi beni elencati a compensare della riduzione dei secondi. In un momento storico nel quale i livelli di benessere fisico sono ampiamente consolidati questa transizione è possibile ed è la sola a garantirne peraltro il mantenimento a lungo termine. Detto in altre parole, con la pancia piena e la casa calda possiamo anche pensare allo sviluppo spirituale/intellettuale/culturale che a sua volta sarà la chiave per continuare ad avere pancia piena e casa calda. Altrimenti si fa indigestione e si vomita. Poi però bisogna ricominciare dall'età della pietra.

3) il consumo di suoli agrari e di «paesaggio» deve essere arrestato immediatamente: in un mondo fisico dalle dimensioni finite non è pensabile espandersi all'infinito. Basterebbe applicare le illuminate proposte del Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Torino, strumento eccellente che Tu ben conosci, purtroppo disatteso. Ovviamente la coerenza è una dote fondamentale del politico di razza: non si possono difendere i preziosi beni agrari dell'Ordine Mauriziano da una parte e contemporaneamente avallare progetti devastanti quali l'alta velocità ferroviaria: entrambi produrrebbero i medesimi risultati finali.

4) l'economia attuale in declino può trovare nuove forme di rigenerazione nell'applicazione dei mezzi di produzione di energie rinnovabili, di efficienza e di risparmio energetico, di promozione dell'agricoltura locale di qualità , di riconversione del "brutto" che ci circonda in qualcosa di almeno accettabile. Pensiamo a una FIAT che finalmente tiri fuori dai cassetti progetti che già aveva sviluppato da decenni, come la cogenerazione, e investa magari sulla produzione di pannelli solari... Le officine per fare tutto ciò sono praticamente le stesse che oggi si usano per fare automobili. Basta volerlo.

5) vi è necessità assoluta di un programma di educazione ai valori della sobrietà e del senso del limite, imposti non da qualsivoglia ideologia, ma da semplice rispetto del II principio della termodinamica. In tale contesto sarebbe fondamentale disincentivare gli sprechi e l'uso del superfluo nonché gli eccessi nell'impiego di materie prime ed energia, a vantaggio di un benessere più sereno e libero dal senso di competizione sociale generato da modelli pubblicitari ormai patologici.

6) abbandono delle grandi opere di scarsa o nulla utilità e dai grandi costi e impatti ambientali/sociali, a vantaggio di un aumento capillare dei servizi e della qualità di vita a scala locale. In effetti, in un'epoca dove le telecomunicazioni potrebbero rendere sempre meno necessario il movimento fisico delle persone, e l'esaurimento delle risorse petrolifere porrà in un futuro prossimo restrizioni importanti alla inutile circolazione di merci banali oggi dettata da meri giochi economici, il gigantismo infrastrutturale è una scelta miope e sottrarrebbe enormi risorse alla disponibilità diffusa di servizi efficienti.

Cara Mercedes,

se vuoi veramente cambiare il futuro, dovresti avere il coraggio di inserire nel Tuo programma politico questi elementi, in apparenza fortemente impopolari in quanto lontani dal pensiero unico oggi vigente. Però il grande politico si riconosce proprio dalla capacità di essere realmente innovatore e cambiare totalmente il punto di vista dei problemi. E' peraltro difficile portare avanti tali obiettivi, però bisogna accorgersi che non solo l'ambiente scientifico sta sempre più assumendo consapevolezza che è necessario cambiare rotta, ma anche molta gente comune. Sono innumerevoli nel mondo le associazioni spontanee di cittadini volte alla decrescita (decrescita felice, décroissance, powerdown). Ma non vengo a mostrare ad arrampicare ai gatti: Georgescu-Roegen aveva scritto queste cose già nel 1974. Forse era in anticipo sui tempi. Trent'anni sono passati e ora le condizioni sono fertili per applicare la teoria bioeconomica o una sua opportuna riformulazione attualizzata.

Eppure sembra che la politica resti indietro, fatichi a cogliere questi segnali di disagio profondo, di una disarmonia con le leggi fondamentali di natura. Non basta aggiungere l'aggettivo "sostenibile" ad ogni azione per cambiarne le conseguenze. Molte azioni dovrebbero semplicemente essere abbandonate, non essere rese "sostenibili" quando non lo sono intrinsecamente. Pensiamo per esempio ai Giochi Olimpici Invernali Torino 2006.

Chi meglio di Te può comprendere queste cose? Con un curriculum così.

Ai miei occhi, come a quelli di molte altre persone mature e consapevoli della nostra situazione, assumi con la Tua candidatura politica una grande, grandissima responsabilità: quella di garantire se non il raggiungimento di questi obiettivi, almeno un segno incisivo verso la loro realizzazione, un cambiamento netto di direzione, un gesto di speranza. Se invece anche Tu, con il tuo perfetto curriculum da persona giusta al posto giusto, cadrai sotto la malìa delle sirene dello "sviluppo a tutti i costi", allora, noi che abbiamo capito di essere in un vicolo cieco, saremmo privati anche della speranza.

E senza speranza non resta che la disperazione.

Torino, febbraio 2005

Luca Mercalli (luca.mercalli@nimbus.it)

RISPOSTA DI MERCEDES BRESSO ALLA LETTERA APERTA DI LUCA MERCALLI



La lettera di Luca Mercalli è stata inserita nella sezione "Contributi al programma" del portale.

Normalmente i "Contributi" non ricevono risposta e vengono attentamente esaminati per recepire proposte e suggerimenti utili al Programma. Ma la lettera di Mercalli, trattando argomenti di grande importanza, ha suscitato molte reazioni e ha conquistato spazio sui media.

Decine di e-mail sono arrivate al nostro indirizzo.

Pubblichiamo quindi, in via del tutto eccezionale, la risposta di Mercedes Bresso.



Una bella lettera, la tua, una lettera alla quale voglio rispondere con grande sincerità, senza nascondermi dietro ai tatticismi elettorali che troppo spesso sono una scusa per non dire quel che si pensa e, soprattutto, per ritenersi in diritto di pensare quel che viene considerato indicibile.

Debbo dirti subito che anch'io, anni fa, pensavo fosse necessario arrivare a una sorta di "blocco dello sviluppo". Mi sono resa conto, col tempo, che il blocco puro e semplice non è possibile.

Ho studiato e riflettuto a lungo sulla teoria dell'arresto della crescita. Ma noi - il Piemonte - non possiamo rimanere fuori dallo sviluppo né possiamo rinunciare alla creazione di reddito, conseguenza immediata dell'arresto della crescita. Al contrario, dobbiamo rimanere dentro questi meccanismi di crescita. E dobbiamo rimanerci perché le dinamiche che governano i processi economici non permettono di fermarsi a un certo livello: chi si ferma non mantiene le posizioni acquisite, ma corre il fortissimo rischio di tornare indietro.

Non possiamo dimenticare poi che una quota crescente degli investimenti si concentra su servizi dematerializzati (internet, telefonia, tecnologie satellitari), che sostengono lo sviluppo e hanno un basso impatto ambientale. Io sostengo - insieme a tutto il centrosinistra - che sarà una società basata sulla conoscenza a sottrarci definitivamente al declino. Ritengo anche che il criterio della sostenibilità è l'unico che ci permette di investire in infrastrutture indispensabili e di lavorare per mantenere una parte dell'industria manifatturiera. Senza dimenticare che gli investimenti per la ricerca devono crescere non solo nazionalmente, almeno il 3% del Pil, ma anche e soprattutto nel nostro Piemonte.

Certo quel che conta è cambiare cultura, abbandonando l'equazione mentale che fa coincidere il benessere con l'incremento di beni materiali e consumi.

Io non credo affatto in uno sviluppo a tutti i costi. Credo invece che nel bilancio di ogni opera debbano essere considerati i costi non solo finanziari ed economici, ma anche sociali e ambientali. Al tempo stesso però vanno anche confrontati i risparmi che si conseguono non realizzando un'opera con quelli che l'opera, portata a termine, può garantire.

Non voglio eludere i problemi che poni, a partire all'Alta velocità. Personalmente mi sono battuta perché non si parlasse solo di Alta velocità, ma anche e soprattutto di alta capacità ferroviaria. Mi spiego. I risparmi ambientali che si ricaverebbero da una nuova ferrovia transalpina dedicata al solo traffico di persone sarebbero risibili. Se, al contrario, gli interventi rientrano in un piano destinato a ridurre il traffico su gomma a livello europeo, credo che il rapporto costi-benefici potrebbe essere interessante. Eliminare, o almeno ridurre drasticamente, il traffico dei Tir attraverso la catena alpina sarebbe un fatto grandioso, in grado di produrre effetti positivi sull'ambiente dal Baltico al Mar di Sicilia. Un elemento, questo, che mi pare sia stato enormemente sottovalutato da una parte del movimento ambientalista che pure stimo.

Non sfugge a nessuno poi che l'arretratezza delle nostre infrastrutture è una delle cause più gravi di inquinamento ambientale: un Paese senza metropolitane, con ferrovie inadeguate e con reti telematiche che toccano a malapena le aree metropolitane è condannato, fatalmente, a morire nel traffico e nell'anidride carbonica.

Le alternative sono tre. La prima: condanniamo noi stessi a marcire nell'arretratezza e a morire nell'inquinamento. La seconda, rincorriamo lo sviluppo - Achille e la tartaruga - così come lo abbiamo conosciuto fino agli anni Ottanta. La terza, facciamo del nostro ritardo il punto di battuta per spiccare un salto culturale e tecnologico. Esempio: l'Italia ha rinunciato al nucleare. Bene. Sarebbe sbagliato e antieconomico, oggi, riprendere a discutere di energia atomica nel nostro Paese. Ma il fatto di non averla ci consente di ragionare liberamente su altre opzioni meno disastrose per l'ambiente. Siamo più liberi dei Paesi che hanno investito sul nucleare e che oggi debbono continuare su quella strada per poter assorbire i giganteschi costi di ammortamento.

Possiamo (e per questo dobbiamo) intraprendere con decisione la strada dell'idrogeno, del fotovoltaico, delle energie pulite.

Non possiamo fare a meno delle grandi opere se non altro per il motivo che tutta l'Europa, di cui facciamo parte, ne è dotata. Si è calcolato che il nostro ritardo riguarda interventi per 250mila miliardi di vecchie lire. Io ho la speranza che esistano oggi tecnologie e culture in grado di colmare questo gap a costi ambientali incommensurabilmente più bassi rispetto al passato.

Quanto al Piemonte, la situazione è chiara. La nostra regione fatica a reggere il passo degli altri.

Ci sono zone dove le cose non vanno malissimo (il Piemonte sud) e aree in cui i problemi persistono. Noi abbiamo bisogno di infrastrutture moderne: non a tutti i costi, certo. Pagando solo quel che possiamo permetterci.

E ora vengo ai temi che proponi per il programma del centrosinistra.

La rinuncia al paradigma della crescita continua di consumi e infrastrutture. Qui non si tratta di aggiungere infrastrutture. Si tratta di adeguarle. Quanto ai consumi, possiamo puntare a ridurli, ma con un occhio di riguardo a chi certi standard non riesce a raggiungerli. Possiamo puntare a ridimensionare la produzione di rifiuti, certo, ma per i consumi devi tener conto dei fatti. Ci sono ormai zone di nuova povertà che stanno già sperimentando la riduzione dei consumi, ma controvoglia.

Lo sviluppo non deve essere confuso con la crescita. Posso essere d'accordo con te sugli stili di vita. Se si ha una casa e se si può contare su amici interessanti e buoni libri, il resto viene dopo. Ma non tutti vivono in questa condizione. E poi: la Regione (o lo Stato) hanno il diritto di giudicare lo stile di vita? Ci provò negli anni Settanta, e non senza una certa energia, Enrico Berlinguer, che lanciò lo slogan dell'Austerità. Non ebbe molta fortuna, neppure fra gli intellettuali. Norberto Bobbio osservò che l'austerità si pratica nelle società autoritarie (Sparta), mentre è l'edonismo il corollario delle democrazie (Atene). Forse avevano ragione entrambi. Berlinguer a chiedere uno sviluppo meno dissennato, Bobbio a dire che la riduzione dei consumi, quando i beni sono disponibili liberamente, si verifica solo con interventi autoritari.

Il consumo dei suoli agrari e del paesaggio deve essere fermato. Qui mi trovi perfettamente d'accordo. Nel nostro programma pensiamo alla tutela delle tipologie architettoniche tradizionali. Proponiamo anche di sperimentare un certo tipo di asfalto che avrebbe proprietà simili al materiale fotovoltaico. Come sai il fotovoltaico porta energia pulita, ma "consuma" molto territorio. Se andremo al governo del Piemonte, proveremo a produrre energia non inquinante utilizzando le strade che già esistono, senza occupare altra terra.

Nuove forme di rigenerazione nell'applicazione dei mezzi di produzione di energie rinnovabili, di efficienza e di risparmio energetico, di promozione dell'agricoltura locale di qualità , di riconversione del "brutto". Siamo perfettamente d'accordo. Sia pure con altre parole, tutto questo è già nel nostro programma. Anche noi, poi, sentiamo l'esigenza di incoraggiare Fiat a proseguire sulla strada dei motori a basso consumo di idrocarburi.

Un programma di educazione ai valori della sobrietà e del senso del limite delle risorse. Siamo d'accordo. Ma qui le istituzioni possono solo aiutare. Tocca prioritariamente alla cultura, alle televisioni (sì), ai giornali, ai partiti, alle chiese trasmettere questi valori. Noi faremo la nostra parte, non dubitare, ma ci vorranno ben altre voci per arrivare alla sensibilità delle persone.

Abbandono delle grandi opere di scarsa o nulla utilità e dai grandi costi e impatti ambientali/sociali, a vantaggio di un aumento capillare dei servizi e della qualità di vita a scala locale. Di questo abbiamo già parlato: alcune grandi opere sono necessarie, altre no. Come forse saprai io non sono d'accordo con chi vuole fare tutto e di tutto, mentre mi pare essenziale conciliare la tutela del welfare con ferrovie efficienti.

Sono per fare il necessario.

E finisco da dove avevo cominciato. Sono perfettamente consapevole del fatto che non possiamo permetterci certi costi. Ma so anche che se rinunciamo al criterio della sostenibilità ambientale, non restano che due alternative: lo sviluppo selvaggio da un lato e la paralisi dall'altro. Due rischi che non possiamo correre.

Grazie per le belle parole che hai avuto per me e mio marito. Spero di non averti deluso e mi auguro di poterti incontrare presto per continuare a discutere di persona.

Mercedes Bresso

Bel tempo nell'economia mondiale per oggi e per buona parte di domani: crescita forte nel 2005, nessun brusco arresto all' orizzonte. Ma per il dopodomani il campo è diviso tra chi annuncia sereno e chi attende tempesta, tra Pangloss, il personaggio di Voltaire ostinatamente convinto che viviamo nel migliore dei mondi possibili, e Cassandra, la preveggente figlia di Priamo, secondo cui la quiete sta per diventare tempesta. La disputa che li divide riguarda non solo l'economia, ma anche la politica. Dice Pangloss: il benessere non è mai tanto cresciuto nel mondo quanto nella presente generazione e grazie al mercato si estenderà sempre più a tutti. Le turbolenze recenti (insolvenze finanziarie, Enron, boom e caduta della Borsa, effetto tsunami, caro petrolio) sono state superate più facilmente di quelle precedenti (primo choc petrolifero, crisi del debito latinoamericano). Sì, ci saranno altre turbolenze, ma il mercato ci penserà. Dopotutto io, Pangloss, non dico che il nostro mondo sia magnifico né che sia il migliore in assoluto, ma è il migliore possibile. Abbiate fiducia: le tempeste verranno, ma le sapremo affrontare.

Dice Cassandra: stiamo prolungando una festa che non può durare, e alla cui fine non ci stiamo preparando. L'energia che usiamo (carbone, petrolio, gas) si estingue, dilapidiamo le risorse del pianeta, di cui minacciamo vita e clima. Il mercato di cui ci beiamo è una bestia senza controllo. Stiamo entrando in un nuovo stato di natura dove è privatizzato l'uso stesso della forza, dal terrorista suicida al mercato nero di armi di distruzione di massa. L'economia sembra governare un mondo anarchico, ma finirà per esserne la vittima.

Che cosa dovremmo pensare noi, cittadini comuni? Provo a suggerire alcuni punti, che nascono da una medesima considerazione: prima ancora del mercato e della politica vi è la società, che influenza entrambi, oltre ad esserne influenzata.

Primo punto: ogni lettore può e deve formarsi una propria opinione. Sbaglierebbe a ritenersi in inferiorità rispetto agli specialisti della materia o ai detentori del potere. Questo punto può inquietare chi si attende miracoli da scienziati e governanti; invece, a mio giudizio, dovrebbe rassicurare. Quando non coincide col buonsenso l'economia di solito sbaglia. Viviamo in democrazia e ciascuno contribuisce a scegliere indirizzi e persone di governo. Il pensare che la generalità dei cittadini abbia buonsenso e informazioni sufficienti a compiere scelte ragionevoli è motivo di profonda fiducia per le sorti della nostra libertà e per le prospettive di un buon governo. Gli atteggiamenti diffusi nel corpo sociale si riflettono sul funzionamento del mercato e della politica.

Secondo punto: il «noi» usato sopra è un aggregato di interessi eterogenei. Comprende imprese e famiglie, consumatori e produttori, settori di punta e settori in declino, debitori e creditori. Spesso la fortuna di alcuni è la sfortuna di altri. I pantaloni e i mobili a basso costo offerti dai cinesi e da Ikea mettono in difficoltà il produttore nazionale, ma sono graditissimi al consumatore. L'eterogeneità degli interessi attraversa la singola persona, la singola impresa, il settore, per non dire il Paese. È come se fossimo, nello stesso tempo, dipendenti di Alitalia (oltre 1000 euro per il volo Roma-Londra) e utenti di Ryan Air (meno di 50 per lo stesso viaggio). Tra interessi eterogenei occorre scegliere e i due processi attraverso cui le scelte si compiono nelle nostre società sono il mercato e la democrazia.

Terzo punto: per capire e per decidere bene occorre uno sguardo lungo. Solo questo permette di non arrivare impreparati agli eventi. Le previsioni dell'economista e le decisioni del governo tendono, invece, a non guardare oltre l'orizzonte breve dei modelli o le scadenze delle prossime elezioni. Guardando più lontano, specialisti e politici mettono a repentaglio quanto hanno di più caro, il prestigio scientifico e il potere. Eppure, solo scrutando il paesaggio nebbioso del dopodomani si possono predisporre soluzioni non troppo dolorose alle difficoltà che ci stanno venendo incontro. La recente disputa con la Cina nel tessile e nell'abbigliamento è venuta per aver quasi dimenticato il giungere a scadenza di accordi commerciali liberamente stipulati e noti da tempo.

Quarto punto: il futuro è aperto. Nell'economia, nella politica economica, nelle relazioni umane, più di un futuro può scaturire da uno stesso presente. Nonostante l'importanza del Fato nella cultura greca, perfino Cassandra descrive catastrofi contro le quali, se fosse creduta, potrebbero essere predisposte contromisure. Il suo dramma è che, per punirla, Apollo le ha lasciato il dono della profezia, ma le ha tolto quello della persuasione. A noi Apollo non ha fatto questo cattivo scherzo.

Gli ammonimenti di Cassandra sono fondati. La più ricca società del pianeta (gli Stati Uniti) non potrà per molti anni ancora vivere sul credito di popolazioni e Paesi più poveri. Il mercato globale non può continuare a svilupparsi in modo pacifico e ordinato, se le istituzioni per il suo governo restano insufficienti, prive di potere e di legittimità. Le risorse della Terra (dalle foreste ai giacimenti energetici) non potranno non rincarare drammaticamente e infine mancare, se il consumo che ne facciamo continua a espandersi come se fossero illimitate. L'equilibrio della vita non potrà non alterarsi, se quasi due secoli dopo averlo scoperto continuiamo a ignorare l'effetto serra. Non può rimanere senza conseguenze profonde la disparità di tenore di vita e di condizioni di lavoro tra esseri umani — come gli europei e gli asiatici — con livelli di cultura e di capacità lavorativa quasi uguali.

Settembre è alta stagione per la diplomazia economica internazionale: in ogni parte del mondo sono in corso analisi e consultazioni, che culminano nelle riunioni del Fondo monetario internazionale a Washington. Incontri regionali (l'Unione Europea, i Paesi asiatici), settoriali (finanza, commercio, energia, sviluppo), consultazioni tra Paesi ricchi (il G7) e tra poveri (Africa, America Latina, Paesi in via di sviluppo). Si fa il punto sull'anno che sta per finire e si definisce l'animo con cui guardiamo al futuro.

Vi è motivo di temere che il messaggio degli specialisti e quello dei governanti abbiano lo sguardo più corto e il tono più rassicurante di quanto giustifichi una disincantata osservazione delle tendenze di lungo periodo operanti nell'economia mondiale e nelle nostre società. Spetta innanzi tutto alla riflessione, al buon senso, al desiderio di informarsi e di capire del cittadino comune rendersene conto e trarne conseguenze per il suo modo di guardare al futuro, ai propri comportamenti economici e sociali.

Dice il papa che Dio punirà chi sparge in suo nome il sangue del fratello. Ma chi punirà gli stati per il sangue versato, il dolore seminato, le esclusioni sancite nel nome dello Stato? La lunga storia della modernità secolarizzata che si aprì con la pace di Westfalia dopo le guerre di religione e sembra chiudersi o regredire con i conflitti culturali dell'era globale non ha eliminato ma solo regolato e istituzionalizzato quella violenza che le nuove guerre di religione di oggi ci ripresentano in forma postmoderna. Senza tuttavia che il lessico politico della modernità, incapace di fronteggiare e spesso anche solo di rappresentare il panorama del presente, sia uscito dai suoi paradossi originari. Di fronte ai problemi nuovi usiamo parole vecchie, o tarate da vecchie aporie. E di fronte all'offensiva teocon, il lessico politico progressista si rivela in affanno: a chi predica intolleranza sentiamo che non basta replicare con l'appello alla tolleranza, come a chi predica la superiorità della cultura occidentale non basta replicare con la parola magica del multiculturalismo. C'è bisogno di uno sfondamento del discorso; ma in quale direzione?

Multiculturalismodi Laura Lanzillo (Laterza, pp. 140, 10 Euro) è un ottimo strumento per orientarsi in queste difficoltà, proprio perch é l'autrice si pone sul bordo di crisi di questa parola, data per scontata in molte ricette politiche di sinistra, e lo risale fino a rintracciarne l'origine nei paradossi costitutivi dell'universalismo occidentale. Se infatti la storia del termine è relativamente recente (il problema si pone negli Stati uniti negli anni 60, quando l'equilibrio del melting pot cede sotto la pressione all'inclusione dei neri e delle minoranze in lotta per i diritti civili), l'arco spazio- temporale a cui rinvia è quello degli ultimi due secoli su entrambe le sponde dell'Atlantico, e la costellazione concettuale in cui va inserito è quella della politica moderna, a fianco alle grandi parole cardinali - stato, nazione, popolo, libertà, uguaglianza, diritti - che oggi palesano a loro volta segni di crisi irreversibile. E ripercorrendo il dibattito sul multiculturalismo che ha animato prima la filosofia e la scena pubblica americana, poi quella europea nella forma di un rilancio del tema "classico" della tolleranza, si capisce perché le difficoltà in cui versa la ricetta multiculturale vadano riportate a quelle in cui versa quell'intera costellazione. Sia nel dibattito nordamericano (lo scontro fra il paradigma communitarian di Taylor e quello liberal di Rawls, con le successive complessificazioni di Kymlicka, Walzer, Seyla Benhabib), sia in quello europeo (Habermas, Veca, Elisabetta Galeotti), le pur diverse e talora opposte risposte multiculturali al problema del riconoscimento e dell'inclusione nelle democrazie occidentali di gruppi, etnie, culture altre dal nucleo originario della cittadinanza bianca ripetono i paradossi originari dell'universalismo. Riproducono cioè, epistemologicamente prima che politicamente, la logica binaria dentro / fuori, inclusione / esclusione, su cui lo stato moderno e l'universalismo si sono affermati; e anche nelle loro versioni più radicalmente democratiche riproducono la gerarchizzazione fra «noi» e «loro», fra chi accoglie, assimila e tollera - e decide i criteri in base ai quali accoglie, assimila e tollera - e chi viene accolto, assimilato e tollerato. Non solo: anche nelle versioni più radicalmente democratiche, il multiculturalismo ripete la mossa di «essenzializzazione» delle culture altrui, presentandocele come una sorta di «bagaglio» precostituito che «gli altri» si portano appresso, reificandone e fissandone così, performativamente, le caratteristiche. Il che equivale a dire che molte ricette multiculturali, predicando una politica delle differenze, ripropongono in realtà una politica delle identità. E' attraverso queste ripetizioni che l'universalismo si ripresenta, ad ogni allargamento del cerchio, ineluttabilmente segnato dalla sua contraddizione originaria: più include più torna a escludere, più si pone obiettivi egualitari più gerarchizza.

Non c'è via d'uscita? Sì, ma a patto di spostare nettamente la prospettiva, suggerisce giustamente Lanzillo: dallo stato ai soggetti in carne e ossa, dall'identità alla differenza, dal normativismo alla narrazione esperienziale. Partendo dall'antropologia reale del presente, si vede che il mondo non è fatto di culture compatte che si confrontano e si scontrano, ma di soggetti meticciati e ibridi, di identità differenziali e in progress che si formano in relazione ad altro e agli altri, di culture contaminate l'una dall'altra che si nutrono di comunicazione non trasparente. La narrazione di sé di questi soggetti più che il consenso alla norma può suggerire e produrre sul campo nuove abitudini di convivenza. E le due grandi parole cardinali della modernità, uguaglianza e libertà, possono avere ancora da dire se si spogliano l'una della sua valenza omologante e assimilatrice, l'altra delle troppe garanzie da cui è presidiata, per aprirsi al rischio e all'imprevisto che ogni incontro con l'altro inevitabilmente comporta.

Seconda Repubblica. Dalla nazione alla tribù, a passo di gambero

Dal tentativo di D’Alema di “civilizzare” i nuovi barbari, ai trionfi odierni della maggioranza B&B. Da il manifesto del 17 novembre 2005

«Per fortuna, alle nostre spalle non si è consumata alcuna tragedia collettiva, non abbiamo combattuto una guerra, non ci sono vincitori e vinti. Non c'è stato offerto in sorte di salvare la democrazia o di difendere la nazione da un esercito in armi. Gli accidenti della storia hanno fatto sì che toccasse a questa nostra generazione comprendere l'animo di un paese sfiancato da una transizione lunga e irrisolta, cercare di guidarlo verso il tratto di strada conclusivo». Non è una citazione dalla seduta del senato di ieri che ha varato la nuova e scellerata Costituzione italiana, bensì da quella della camera del 26 gennaio 1998, quando l'allora presidente della bicamerale Massimo D'Alema presentò all'aula la bozza di riforma licenziata dalla commissione. Il caso aveva voluto che quel dibattito cadesse nel cinquantenario del varo della Costituzione del `48, e il tono saggiamente misurato di D'Alema serviva a schivare inopportuni confronti: nulla di eroico, non si trattava di scrivere il patto democratico dalle fondamenta come nel `46 ma più modestamente di aggiornarlo, chiamando i nuovi soggetti politici emersi dal terremoto degli anni 90 a condividere con gli eredi dell'antico arco costituzionale una «comune responsabilità verso la Repubblica». La riforma non poteva essere «la bandiera di una maggioranza», ma «il traguardo faticoso di un impegno comune». Si sa come andò a finire quando, di lì a poco, Silvio Berlusconi decise di far saltare il tavolo. Si sa anche che il giudizio sul tentativo dalemiano di «civilizzazione» dell'avversario resterà a lungo controverso, fra quanti ritengono che fosse un argine al sovversivismo costituzionale della nuova destra italiana e quanti ritengono che sia stata viceversa una porta spalancata al suo dispiegamento. Fatto sta che, sette anni dopo, balza agli occhi la differenza: al traguardo la nuova destra c'è arrivata da sola, non con ma contro gli eredi del vecchio arco costituzionale, e senza alcuna remora a sventolare la nuova Carta come la propria esclusiva bandiera, sotto lo slogan - autrice An - «E' nata la nuova Italia» che da domani invaderà per ogni dove gli spazi della propaganda politica.

Balza agli occhi, e alle orecchie, anche la differenza degli argomenti e dei toni. Sembra un serial - l'ultima puntata della serie «La Grande Riforma», anzi la penultima perché ci sarà il referendum e poi magari un altro tentativo di ricominciare daccapo tutti assieme stancamente - ma non è: la transizione infinita ha scavato, come un gambero più che come una talpa, nella (in)cultura costituzionale che pesca nel senso comune e lo rialimenta. L'opposizione dice che più che la devolution si vota la dissolution, dell'unità d'Italia, e niente rende l'idea più che il quadretto familiare dei Bossi seduti là in cima e di tutte quelle camicie e cravatte verdi: dalla nazione alla tribù, a passo di gambero appunto. A passo di gambero anche dalla cittadinanza al popolo: l'opposizione lamenta la fine dei diritti eguali, la salute e la scuola non saranno più la stessa cosa per tutti neppure sulla carta, e la maggioranza risponde che il popolo dev'essere contento perché la riforma gli dà più poteri, perfino il potere di passare da un referendum all'altro ogni volta che il nuovo testo costituzionale qualcuno si permetterà di emendarlo, insomma «la sovranità popolare aumenta», parola di D'Onofrio. Oscar Luigi Scalfaro, padre costituente in carne e ossa, denuncia che non ci sarà più un parlamento né un presidente della Repubblica garante di alcunché, la maggioranza gli contrappone Jefferson in camicia verde. Il Mezzogiorno ci rimette? Nossignore, è l'occasione buona per passare «dalle mance alla liberazione». Una Costituzione scritta a maggioranza non è di tutti ma di parte? Chi la fa l'aspetti, ha cominciato il centrosinistra con il titolo V - unico argomento in verità ineccepibile, se pur pretestuoso, dei vincitori.

Berlusconi brinda all'«impegno mantenuto», anche questa è fatta, La Loggia festeggia «la realizzazione di un sogno» che è piuttosto l'avverarsi di un incubo. La «perversa miscela di autoritarismo e caos» come efficacemente Ida Dentamaro definisce la neonata Carta, è probabile (ma non è detto) che non passerà l'esame referandario. Ma lo sfondamento delle barriere culturali del `48 c'è stato, e la sinistra che oggi si ribella è tutt'altro che innocente nell'averlo consentito. Adesso si capisce che la Seconda Repubblica, finora mai nata fra una rivoluzione giudiziaria e una rivoluzione maggioritaria (già rientrata), può diventare una realtà, molto peggiore della Prima.

Le agitate vicende nelle quali è coinvolto da alcune settimane il governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio, e con lui inevitabilmente l'intero Istituto, ci inducono a rivisitare il ruolo che esso ha avuto nel sessantennio dell'Italia repubblicana e la qualità professionale, politica e umana dei cinque governatori che hanno preceduto quello attualmente in carica: Luigi Einaudi, Donato Menichella, Guido Carli, Paolo Baffi, Carlo Azeglio Ciampi.

Quattro di loro li ho conosciuti bene; con due ho avuto rapporti di amicizia personale che hanno arricchito la mia conoscenza della vita economica italiana e delle sue nervature finanziarie. Tanto più cocente per chi ha avuto un'esperienza così privilegiata è dunque la delusione per quanto sta accadendo ora sotto i nostri occhi, con l'ombra di un declino che penalizza quello che è stato fin qui uno dei punti di massima eccellenza del nostro sconquassato sistema-Paese.

Ricordo a questo proposito che la Banca, oltre a governare in piena indipendenza la politica della moneta e del credito traendo dall'interno dell'Istituto i suoi massimi dirigenti, ha fornito alle istituzioni politiche due presidenti della Repubblica (Einaudi e Ciampi), due presidenti del Consiglio (Dini e Ciampi), tre ministri del Tesoro (Carli, Dini, Ciampi), due ministri del Commercio estero (Carli, Ossola).

Ricordo altresì - affinché il quadro sia completo - che la tecnostruttura della Banca, il suo Direttorio, il suo Ufficio studi, le relazioni annuali del governatore, hanno rappresentato il telaio sul quale è stata tessuta per sei decenni la politica economica del nostro Paese.

Nonché i rilevanti contributi forniti alle autorità monetarie internazionali, dal Fondo monetario alla Banca mondiale, al comitato monetario dell'Unione europea, per finire alla Banca centrale europea nella quale Tommaso Padoa-Schioppa ha rappresentato l'Italia al massimo livello.

Ma i governatori hanno anche avuto, in questo lungo arco di anni, interlocutori di grande rilievo sia nel mondo bancario e imprenditoriale sia nei governi che hanno guidato la politica nazionale. Tra i primi vengono alla memoria personalità come Raffaele Mattioli, Enrico Cuccia, Imbriani Longo, Franco Cingano, Stefano Siglienti, Giovanni Agnelli, Leopoldo Pirelli. Tra i secondi i ministri del Tesoro Ezio Vanoni, Ugo La Malfa, Giovanni Malagodi, Bruno Visentini, Nino Andreatta, Giuliano Amato. Ma anche personaggi dell'opposizione e del sindacato: Giorgio Amendola, Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Luciano Lama, Bruno Trentin. Ed Enrico Berlinguer.

Non sembri, quello che sto ricordando, un arido elenco di nomi ed addirittura un museo delle cere. Dall'opera di queste persone, spesso di diverso sentire e di diversa formazione culturale, è stata costruita la storia d'un Paese fragile ma creativo ed alacre, che tra avanzamenti e cadute ha saputo trasformarsi in pochi decenni da un'economia prevalentemente agricola a un sistema industriale e post-industriale, pagando costi sociali elevati ma procedendo tuttavia verso un futuro che si sperava migliore di quanto infine si sia verificato.

La Banca d'Italia è stata tra i protagonisti di questo percorso; diciamo meglio: della parte virtuosa di questo percorso che ha connotato il sessantennio della nostra storia repubblicana.

Purtroppo la fragilità di fondo è rimasta. Negli ultimi quindici anni è riemersa in forme e misura preoccupanti. Tanto più necessario recuperare dalla parte migliore di questo passato una rinnovata forza morale ed insieme il rispetto di noi stessi e del Paese che amiamo.

* * *

Donato Menichella non era un economista né uno scrittore di altissimo stile come Luigi Einaudi.

Condivideva piuttosto l'interventismo economico di Francesco Saverio Nitti e le capacità realizzatrici di Beneduce, di cui fu stretto collaboratore nella fondazione dell'Iri, strumento di prudente salvataggio creato nella fase più procellosa della crisi mondiale che si abbatté tra il 1931 e il '32 sull'industria e sul sistema bancario europeo.

Quando Einaudi fu chiamato da De Gasperi a guidare l'economia italiana nel 1947 come ministro del Bilancio, creato su misura della sua personalità intellettuale e politica, alla guida della Banca d'Italia fu Menichella a succedergli. Tenne quella carica per tredici anni, fino al 1959. Fu quello il periodo decisivo della ricostruzione del Paese, il periodo del piano Marshall, della rinascita della Fiat, della creazione dal nulla dell'Eni di Enrico Mattei e della siderurgia a ciclo integrale realizzata da Oscar Sinigaglia. Ci voleva una politica del credito ardita e prudente per dare fiato a quei progetti senza compromettere la stabilità della moneta e dei prezzi. E ci voleva al tempo stesso una antiveggente politica di moderazione sindacale che consentisse alle imprese di sviluppare investimenti di ampia portata espandendo in quel modo l'occupazione, il reddito, i consumi delle classi medie e lavoratrici.

Menichella realizzò le premesse di quel miracolo con l'indispensabile collaborazione di Di Vittorio e del sindacato operaio. Nelle sue relazioni annuali il governatore dette puntualmente atto ai sindacati d'aver reso possibile quel miracolo. La voce di Menichella fu la sola a riconoscere il contributo dato alla ricostruzione economica dalla classe operaia, al di là dell'aspra lotta di classe che ebbe luogo nella prima metà degli anni Cinquanta.

Ricordo ancora, pur dopo tanti anni, le lunghe conversazioni che ebbi l'occasione di avere col governatore su questo tema e sull'altro, altrettanto capitale, della gestione dell'industria pubblica che doveva avvenire "come se" essa fosse pubblica nei fini ma privata nel perseguire un modello di gestione improntato all'efficienza, all'onesto profitto e alla allocazione ottimale delle risorse.

"Come se" anche in situazioni semi-monopolistiche (come era infatti il caso della Finsider) le regole del mercato fossero pienamente operanti. In parte si trattava di una concezione virtuale ma essa rappresentò in quegli anni un canone operante, un vincolo di efficienza che la politica creditizia provvide a rispettare e a far rispettare con molto rigore, evitando ogni controllo politico sull'erogazione del credito, che avrebbe potuto essere facilmente radicato visto che l'intero sistema bancario era di proprietà della mano pubblica.

Questi furono i meriti principali di Donato Menichella, il primo vero servitore dello Stato, uomo di grande umanità e grandissima modestia per quanto riguardava se stesso, ma di grandi ambizioni per l'Istituto che diresse con mano ferma, senza alcuna ostentazione di potere. Fu lui, già seriamente ammalato, a volere come successore Guido Carli, già da tempo alla direzione dell'Ufficio italiano dei cambi e da un anno direttore generale della Banca.

Carli aveva carattere e movenze assai diverse da quelle di Menichella, ma identica devozione al bene pubblico e all'interesse generale. Il famoso miracolo economico del quale Menichella aveva gettato le premesse esplose durante il suo governo della Banca. Era il 1960. La lira si guadagnò, per convinta e unanime ammissione di tutte le istituzioni monetarie e internazionali, l'"Oscar" di più solida moneta mondiale, dopo anni di elevata disoccupazione l'Italia realizzò l'ideale del pieno impiego. Il reddito aumentava al ritmo del 5 per cento annuo. Le esportazioni si espandevano su tutti i mercati. La ricostruzione era avvenuta. Una rete di autostrade unificò e "raccorciò" il Paese. Il rapporto con le economie più avanzate divenne intenso.

Il cuore dello sviluppo, originariamente concentrato nel triangolo Torino-Milano-Genova, cominciò ad espandersi verso il Veneto, l'Emilia, la costiera marchigiana. Si disse che l'Italia produttiva stava assumendo la forma d'una stella cometa, la cui coda luminescente si espandeva tra Treviso, Padova, Bologna, al di qua e al di là delle due sponde del Po.

Torino diventò in quegli anni la quarta città meridionale d'Italia, dopo Napoli Palermo Bari. Cinque milioni di contadini provenienti dal Sud e dal Veneto ingrossarono le città. Fu uno sviluppo tumultuoso, non programmato e comportò costi sociali e umani altissimi. Ma impresse un impulso fondamentale alla modernizzazione del Paese.

Al vertice del sistema, direi alla guida di esso, ci furono Vanoni, Carli, Mattei, Valletta, l'Iri, Mattioli, Cuccia. Alla base una miriade d'imprenditori self-made e una classe operaia orgogliosa della sua compattezza e profondamente insoddisfatta d'una troppo lunga moderazione nel salario e nei diritti. Con queste caratteristiche il Paese entrò nel decennio per certi aspetti mitico degli anni Sessanta.

* * *

Di Guido Carli si è tanto scritto e anche favoleggiato. Non sempre a proposito. Aveva un carattere timido nel rapporto con le persone. Spesso brusco e talvolta perfino scortese proprio per vincere l'innata timidezza. Ma estremamente consapevole del ruolo della Banca e del valore degli uomini che lavoravano con lui. Quello di governatore fu il suo momento di grazia proprio perché la struttura che aveva al suo fianco gli infondeva sicurezza nel comando e collegialità nell'esercitarlo.

Non starò a ricordare i momenti d'una profonda amicizia che ci ha legati per tanti anni e che ha avuto anche fasi per me esaltanti. Una di esse fu quando, di comune accordo, inaugurammo una forma di collaborazione del tutto inedita creando una firma e un personaggio fittizio cui demmo il nome di "Bancor". Il contenuto degli articoli, che uscirono sull'Espresso che allora dirigevo, nasceva da libere quanto riservate conversazioni che avvenivano nel suo studio in via Nazionale sui temi dell'attualità economica.

Lui parlava, io interrogavo. Non presi mai alcun appunto.

Guido s'infervorava, esponeva una strategia, ne scorgeva gli ostacoli e i limiti, ne intravedeva i possibili risultati con nella mente sempre l'interesse generale, spesso contraddetto da quelle che lui chiamava le "arciconfraternite" del potere, l'egoismo corporativo, le tentazioni monopoloidi nascoste ad ogni cantone.

Uscendo da quegli incontri frastornato facevo fatica a riordinare fatti e pensieri. Dopo un paio di giorni mi mettevo a scrivere dando una libera interpretazione del suo pensiero. E usciva sull'Espresso l'articolo di "Bancor".

La mattina del giovedì (era il giorno d'uscita del settimanale) gli telefonavo per conoscere le sue reazioni.

Furono sempre positive e così andammo avanti per un paio d'anni; anche quando la voce che dietro quella firma ci fosse lui prese consistenza, Guido decise di continuare ancorché le polemiche si infittissero. Poi raccogliemmo quegli scritti in volume. Gli mandai la prima copia con la dedica "Bancor a Bancor". Lui mi rispose con una bottiglia di Champagne e un biglietto: "Bancor ringrazia Bancor". L'ho conservato tra le lettere che mi sono più care.

* * *

Paolo Baffi è stato un economista insigne e questo è noto. Ereditò la carica di governatore quando i tempi non erano più molto sereni.

Anzi, erano arrivati i cupi anni di piombo e anche l'economia batteva il passo. Gli investimenti languivano, il potere politico effettuava invasioni sempre più pesanti nelle istituzioni, la Banca d'Italia era un intralcio sempre meno tollerato.

Baffi lo sapeva e temeva l'occupazione politica del credito. Era rigoroso per carattere. Diventò inflessibile.

Il capo della Vigilanza, Sarcinelli, ci metteva di suo l'intransigenza giovanile.

Tra gli istituti di credito più influenzati dalla politica e dalle "arciconfraternite" c'era allora l'Italcasse e la Vigilanza decise un'ispezione accurata. Segnalò prestiti di grande rilievo senza sufficienti garanzie in favore dei "palazzinari" di allora, che godevano di larghe protezioni politiche. Il seguito di quella vicenda è noto: la Procura della Repubblica di Roma spiccò mandati contro Baffi e Sarcinelli per un preteso abuso di potere in un'operazione dell'Imi. Sarcinelli fu arrestato, a Baffi fu ritirato il passaporto.

Lo scandalo fu enorme. Si formò un fronte di resistenza e di protesta e mi onoro di ricordare che Repubblica ne fu il capofila. Correva l'anno 1979. La Procura fece macchina indietro, ma il colpo per Baffi fu molto grave. Si dimise e Ciampi ne prese il posto.

* * *

Non parlerò di Ciampi e dei suoi anni da governatore. Ci conosciamo da trent'anni, da quando dirigeva l'Ufficio studi della Banca. Abbiamo vissuto in comunità d'intenti tante vicende, a cominciare da quella per tanti versi drammatica della crisi del Banco Ambrosiano che vide uniti nel malaffare Roberto Calvi, coautore e poi vittima di quella cupa vicenda, elementi mafiosi, infiltrazioni piduiste e perfino l'allora prestigioso Ior, la Banca d'affari del Vaticano.

La tenuta lungimirante e fermissima di Ciampi in quella vicenda risparmiò al Paese un crac che sarebbe stato molto più rovinoso. Va detto che la Banca d'Italia trovò al suo fianco in quell'occasione il ministro del Tesoro Andreatta, il quale chiuse la porta in faccia alle pesanti pressioni del Vaticano e impose allo Ior di rimettere sul tavolo il "maltolto" che era finito nelle sue casse.

Ma di Carlo Azeglio Ciampi non voglio dir altro.

Sembrerebbe la ricostruzione di un amico e lui non ne ha alcun bisogno.

Voglio soltanto ricordare che il nostro giornale, già diretto da Ezio Mauro, si è battuto in favore della sua elezione al Quirinale con gli argomenti che la ragione e il sentimento mettevano a nostra disposizione.

Così, quando Ciampi fu eletto al primo scrutinio con quasi l'unanimità dei voti del Parlamento, per noi di Repubblica è stato il segno che il Paese, pur in mezzo a tante traversie, avrebbe avuto per sette anni una tenda di raccolta, di riferimento e di unità capace di farci superare delusioni e accoramento.

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I lettori si chiederanno forse il perché di questa rievocazione. Purtroppo la Banca d'Italia sembra aver perso gran parte dello smalto accumulato in sessant'anni. Ma le radici sono, io credo, ancora sane e vigorose. Vogliamo trarre dal passato nuova energia e speranza, e questa è la ragione di tanti ricordi.

Le due anime del Regno

Ombre e luci di un pontificato che ha contribuito, contraddittoriamente, a cambiare la storia, nell’analisi del fondatore di la Repubblica, nel numero del 3 aprile 2005

QUANDO si dice la Chiesa, si dicono tante cose e tante diverse realtà con una sola parola: la comunità dei fedeli, le congregazioni religiose, i sacerdoti che amministrano i sacramenti, i vescovi successori degli apostoli, la Curia dei ministeri vaticani, il Papa che guida, decide, rappresenta in terra il legame tra le anime credenti e il Cristo che venne per indicare la via della salvezza e della nuova alleanza.

Ieri, mentre il Papa moriva, la Chiesa è stata tutte queste cose insieme. Il mondo dei fedeli, le famiglie, i giovani, i vecchi, i bambini, hanno pregato, hanno pianto, sperando irragionevolmente ma fervidamente di poter riascoltare quella voce nelle basiliche, nelle parrocchie, nelle piazze di tutto il mondo. Non solo i fedeli cattolici, ma i cristiani delle osservanze evangeliche, ortodosse, anglicane, gli ebrei delle sinagoghe, «fratelli maggiori» come li definì Giovanni Paolo.

Perfino nelle terre dell’Islam la vicenda di Karol Wojtyla è stata seguita con attenzione e rispetto. Nel mondo globale e mediatico la morte di un papa si è trasformata per la prima volta in un evento di commozione planetaria che ha oscurato ogni altra realtà.

Per la Chiesa è stata al tempo stesso l’ora del lutto e quella del trionfo. L’abbiamo visto, il lutto corale e profondo, nella veglia di settantamila anime racchiuse tra le grandi braccia del colonnato di piazza San Pietro con gli occhi fissi su quelle quattro finestre illuminate del Palazzo Vaticano, dietro una delle quali Giovanni Paolo lottava con la morte, assistito dai medici e dai suoi più prossimi collaboratori. E abbiamo visto l’Ecclesia triumphans sotto le volte del Laterano, con il corpo sacerdotale rivestito dai paramenti dorati della settimana pasquale, non ancora sostituiti dal viola delle celebrazioni funebri. Le grandi statue marmoree degli evangelisti e dei profeti facevano ala al sacrificio della messa solenne, al canto dei salmi, al mistero del pane e del vino trasformati dall’officiante nel corpo e nel sangue del Signore.

Questo abbiamo visto negli ultimi tre giorni. Ieri quella voce che ha risuonato nel mondo intero per ventisette anni, prima robusta, solenne, combattiva, pastorale; poi sempre più fievole, infine ridotta a un suono disarticolato, struggente, espressione d’un corpo crocifisso nella finitudine umana e volutamente esibito come esempio e testimonianza; quella voce si è spenta per sempre. Lascia nella Chiesa un vuoto incolmabile e in tutti i noi dolore e affettuoso rispetto. Ma invita anche alla meditazione su questo grande pontificato. Wojtyla ha rivestito la Chiesa con il mantello del suo carisma personale. Ora, dopo la sua scomparsa, la Chiesa è nuda. La sua forza e le sue debolezze appaiono in tutta evidenza insieme alla forza e ai limiti del lungo regno di Giovanni Paolo II, che ci obbligano all’esame e al ricordo.

* *

Ricordo ancora l’annuncio dato dal cardinale Felici dal balcone del palazzo pontificio subito dopo la fumata bianca che annunciava l’esito felice del Conclave del 1978: «È stato eletto Karol Wojtyla che ha assunto il nome di Giovanni Paolo II».

I milioni di persone che seguivano l’evento da piazza San Pietro e dalle televisioni di tutto il mondo pensarono per qualche secondo che si trattasse di un africano, in pochi capirono che quel cognome era polacco. Comunque, ai non addetti ai lavori risultava del tutto sconosciuto e interrompeva la lunghissima sequenza dei pontefici italiani.

Il nome assunto, tuttavia, sembrava iscriversi nella linea della continuità: riprendeva quello del Papa Luciani appena morto dopo poche settimane di regno e si ricollegava ai due pontefici che l’avevano preceduto nel segno del Concilio Vaticano II, cioè della nuova Chiesa, ecumenica, tollerante, pastorale, aperta alle voci della modernità e della collegialità.

Insomma riformista, se vogliamo usare una definizione calzante anche se non propriamente canonica. Invece cominciava una rivoluzione durata ventisette anni.

Una rivoluzione densa di contraddizioni, tenute insieme come un tiro di cavalli impetuosi e spesso discordi, da una mano che riesce a unificarne il vigore ma non la natura e le finalità. Solo la grande e multiforme personalità di Karol Wojtyla è riuscita nell’impresa di rappresentare al tempo stesso la Chiesa della tradizione e quella dell’innovazione, il Dio degli eserciti e il Dio della misericordia, l’apertura conciliare e il centralismo curiale, la lotta contro il comunismo e la critica incessante al capitalismo, la mano tesa verso gli ebrei "fratelli maggiori" e la sintonia con l’Islam; infine l’attenzione rivolta ai non credenti e la reiterata condanna contro la civiltà dei Lumi e contro l’autonomia della ragione.

Se a questa profonda duplicità del messaggio di Papa Wojtyla si aggiunge una modalità di showman quale non s’era mai vista prima sulla cattedra di Pietro, unita alla propensione ai bagni di folla, ai viaggi planetari, al teatro di massa come forma di comunicazione, all’imponenza del rito utilizzato in tutte le immense risorse che esso possiede nell’epoca della televisione, avrete i contorni d’una figura eccezionale e il vuoto non colmabile che si è spalancato dopo la sua scomparsa.

Il suo successore, chiunque sarà, si troverà alle prese con un’eredità schiacciante che non può essere portata avanti nella sua globalità. La Chiesa di Wojtyla non può succedere a se stessa, si conclude con lui, su quel sepolcro, con quell’immenso funerale di popolo.

È stata una rivoluzione disperata nel tentativo di arginare la laicizzazione della società usando gli strumenti della modernità per frenare la modernità. Partendo da questa diagnosi, l’intero pianeta è stato considerato terra di missione; di qui un papa missionario in viaggio perenne, che ha percorso il mondo in tutte le sue longitudini e latitudini sfidando indifferenze, estraneità, ostilità, esponendosi alla violenza degli attentatori, predicando ovunque fratellanza e pace.

Lascia la Chiesa in uno stato di sbigottimento, nel mezzo di un crocicchio di strade che portano, ciascuna, verso obiettivi e modelli profondamente lontani l’uno dall’altro. Lascia una società che ha accolto con ovazioni il suo messaggio restando tuttavia impermeabile ai suoi contenuti.

Quest’uomo che credeva nei miracoli è stato un miracolo. Perciò non avrà successori. Mi auguro che l’eletto dal Conclave non apra il nuovo pontificato assumendo il nome di Giovanni Paolo, terzo della serie: sarebbe una trovata ipocrita e in qualche modo empia.

La Chiesa di Wojtyla è morta con lui. Il successore dovrà imboccare una delle tante strade che il pellegrino Karol ha percorso. Oppure restare fermo nel crocicchio galleggiando sulle onde di un tempo tempestoso.

Questo papa è stato grande, grandissimo. Ma la missione che intraprese venticinque anni fa è fallita. Da non credente lo dico con rispetto e rimpianto perché una ripresa reale dell’afflato cristiano avrebbe in qualche modo fertilizzato la modernità, i suoi contrasti, la sua vitalità intellettuale e morale; avrebbe contribuito ad arrestarne la desertificazione in atto.

Temo che l’occasione sia passata invano. E forse lo stesso protagonista che l’aveva creata porta, almeno in parte, la responsabilità del suo fallimento.

* * *

Bisogna entrare nelle pieghe di questo lungo pontificato per comprendere la ragione di un esito che ha frastornato la cristianità dopo averla galvanizzata. Seguiamone dunque il percorso, così ampio, vario e in qualche modo sussultorio.

Poco dopo la sua elezione comincia la fase del papa polacco, come viene subito denominato dai media e dal vulgo. Non è propriamente una denominazione affettuosa: ci senti un senso di estraneità, quasi la presenza di un limite al suo ruolo universale. Il papa polacco, del resto, non fa nulla per nascondere questo dato della sua personalità; l’interesse per le sorti del suo paese predominano su tutte le altre cure del nuovo pontificato, ma ben presto questo contenuto nazionale esprime i connotati d’una grande sfida contro il totalitarismo comunista all’insegna dei diritti dell’uomo.

Il papa polacco diventa rapidamente il defensor libertatis, l’angelo che punta la spada contro il regno del male sotto la protezione di Maria e alla guida del cattolicissimo popolo polacco. Le tappe di questa battaglia sono ben note e culminano non solo nel trionfo di Solidarnosc a Varsavia ma, più tardi e consequenzialmente, nella caduta del Muro di Berlino e del regime sovietico.

È probabile che il ruolo di Wojtyla in questo sconvolgimento epocale sia stato sopravvalutato: il regime era ormai marcio dalle fondamenta, l’arrivo di Gorbaciov sulla scena l’aveva avviato verso la catastrofe finale.

Ma non c’è dubbio che il contributo del papa polacco sia stato estremamente rilevante sull’immaginario europeo e sui paesi dell’Est in gran parte cattolici (Ungheria, Romania, Cecoslovacchia, Baltici).

Va aggiunto che la vera e propria crociata lanciata in nome dei diritti di libertà suscitò risonanze di grande amplitudine in un altro bacino cattolico, quello dell’America Latina, dove il clero animato dal messaggio papale si pose di fatto alla testa dei moti di rivendicazione della moltitudine dei poveri, con il miraggio di ripetere in quella parte del mondo il miracolo verificatosi con il crollo del comunismo. Solo che lì le forze avverse avevano diversa natura, si trattava dei militari istruiti a Westpoint, degli uomini d’affari legati alle multinazionali; insomma delle propaggini coloniali del capitalismo americano e del "cortile di casa" dell’unico impero di dimensione mondiale. Un impero, tra l’altro, dove il cattolicesimo ha radici deboli e manca della cassa di risonanza necessaria all’efficacia del messaggio.

Se il messaggio era flebile nel nord del continente americano, rimbombava invece come un tuono di tempesta nel sud. Ma qui nasce la prima vistosa contraddizione del pontificato di Giovanni Paolo: lo scontro con la "nuova teologia", col basso clero, coi preti rivoluzionari, con quella parte dei gesuiti che, specie in centro America, si schierano apertamente con i ribelli armati in Nicaragua, Guatemala, Costarica, Salvador e in tutta la fascia caraibica che ha in qualche modo raccolto il messaggio di Castro e del Che Guevara.

Wojtyla non li segue su questa strada, anzi li ferma con estrema durezza, la sua religiosità contadina prevale sulla modernità della nuova teologia, ma la disputa va bene al di là d’una questione teologica, assume il rilievo della primazia del magistero papale su ogni altra ipotesi di assetto della struttura gerarchica nella Chiesa e si dispiega sul simbolismo religioso, sul ruolo della Madonna, dei Santi, dei Beati, sull’esistenza del Diavolo come dato di fatto attuale, sul gelo che cala tra l’alto clero sudamericano e i movimenti di liberazione contadina di quei paesi.

La drammaticità della crisi che ne deriva tra il Papa e i Gesuiti è lo specchio che riflette questa contraddizione e che culmina nella decapitazione di fatto del gruppo dirigente gesuita e il richiamo all’ordine della Compagnia. Da quel momento il braccio operativo della presenza vaticana nella società cessa definitivamente di essere identificato nell’Ordine fondato da Loiola, sostituito da un’associazione di laicato cattolico molto attiva tra i giovani e molto fattiva nel settore delle opere imprenditoriali, Comunione e Liberazione, e da una prelatura dotata di autonomia gerarchica e di poteri speciali, l’Opus Dei, dedita alla penetrazione e al proselitismo nei settori più esclusivi della finanza e del credito.

Una svolta verso l’integrismo cattolico che rivaluterebbe la politica della Chiesa preconcilare impersonata quarant’anni prima da Papa Pacelli? Per certi aspetti la risposta potrebbe essere affermativa, i segnali in quella direzione sono numerosi, ma Wojtyla non cessa di stupire e spiazzare i suoi esegeti: continua e anzi inasprisce le sue critiche al capitalismo finanziario, al "pensiero unico" di stampo liberista, al consumismo, al mercato come unico regolatore della distribuzione della ricchezza. In buona sostanza, regolata ormai la partita con il totalitarismo comunista, lo scontento cattolico si appunta ora verso gli Stati Uniti e verso la concezione della vita che di lì promana diffondendosi in tutto il mondo.

Dal 1991 (prima guerra del Golfo) a questi temi dei quali è pervasa la predicazione di Giovanni Paolo e che si ritrovano in quasi tutte le sue encicliche si aggiunge un pacifismo ad oltranza, senza se e senza ma si direbbe adottando una terminologia laica ma nella fattispecie del tutto appropriata. La discontinuità rispetto alla fase del papa polacco è palese.

Sul piano degli accostamenti storici con i suoi predecessori prossimi o remoti si potrebbe osservare che la fase pacifista pone Giovanni Paolo molto più vicino a Paolo VI e soprattutto a Giovanni XXIII e a Benedetto XV che non a Pacelli.

Ma il pacifismo del 1991 risulta ancor più marcato e ricco di implicazioni del 2002, nei mesi precedenti e successivi alla guerra contro Saddam Hussein e alla sanguinosa e purulenta ferita dell’"Intifada" e della reazione militare israeliana. Questa volta infatti Giovanni Paolo non si limita a predicare la pace, il disarmo degli animi e il negoziato al posto della guerra, ma indica nominativamente l’America di Bush come l’elemento di turbolenza e nella teoria della guerra preventiva un fattore di destabilizzazione permanente al di fuori della cornice del diritto internazionale e delle istituzioni preposte al suo corretto funzionamento.

Negli ultimi anni del suo pontificato questi della pace, del negoziato, del multilateralismo, della superiorità della diplomazia sulle soluzioni militari, sono stati i tratti salienti della incessante predicazione di Giovanni Paolo.

A essi si sono affiancati i temi sempre presenti della tutela della famiglia, della scuola privata, della rigida moralità sessuale con riguardo anche alla fecondazione artificiale e all’omosessualità. Ma queste posizioni mutuate dalla tradizione non possono bilanciare la novità della svolta che - dopo la caduta del comunismo - ha visto in Wojtyla il solo grande antagonista dell’impero americano.

Il vigore con il quale ha tenuto questa posizione ricorda, se vogliamo ancora giovarci di assonanze con alcuni suoi remoti predecessori, i grandi papi politici che affrontarono la lotta contro l’impero e in genere contro il potere temporale dei regnanti quando si ponevano in contrasto con la supremazia spirituale della Chiesa. Ricorda Gregorio VII e Innocenzo III rivissuti in chiave moderna e nella dimensione di massa che caratterizza l’epoca nostra.

* * *

Giovanni Paolo II è stato anche un papa mistico e papa poeta.

Della sua capacità di tenere la scena e di interpretare i riti in chiave mediatica, in sostanza della modernità del suo carisma, si è già detto. Del resto le modalità irripetibili del suo pontificato sono sotto gli occhi di tutti e credo che molto a lungo vi rimarranno.

Eppure l’obiettivo di cristianizzare l’Oriente e di ricristianizzare l’Occidente è stato mancato. Giovanni Paolo si è tenuto lontano dalla Chiesa dei potenti, si è identificato piuttosto con la causa dei deboli e dei poveri, ma la sua non è stata la Chiesa scalza di Francesco. Ha lottato per i poveri ma non con i poveri. Ha venerato Teresa di Calcutta ma anche la pastorella di Fatima. Ha fatto santo Balaguer, fondatore dell’Opus Dei. Non ha capito la potenza delirante ma lucidissima del pensiero di Pascal. È stato un grandioso e sontuoso contropotere ma non un antipotere.

Questi sono stati i limiti che ha posto alla sua azione pastorale. Alla base della sua immensa popolarità c’è stato il ceto medio di tutto l’orbe cristiano, cioè proprio quella massa indistinta e accomunata dal consumismo e dalla ricerca di Mammona, il luogo sociale che giustamente egli considerava come terreno di missione ma che la sua missione non è riuscita a scalfire.

In un certo senso è stato una luminosa meteora, una splendida stella cometa in transito, dietro la quale il buio si è ben presto richiuso.

Morto un papa se ne fa un altro e così la Chiesa è vissuta per duemila anni e continuerà ancora per molto. Ma le fronde di quell’albero sono ingiallite, le radici affondano in una terra sempre più sabbiosa e impoverita.

Karol Wojtyla ha fatto di tutto per morire sull’altare offrendo il suo corpo in sacrificio. Ma che vale il sacrificio di sé nel tempo fosco dei kamikaze?

Ha anche ammonito i peccatori annunciando con le parole di Geremia che Dio si era ritirato dal mondo disgustato dalle sue creature. Purtroppo gli uomini dimenticano prima la morte del padre che la perdita della roba. Era vero ai tempi di Machiavelli; è ancora più vero oggi. Dopo duemila anni di cristianesimo il mondo non è cambiato e il vitello d’oro è ancora l’idolo delle genti.

Prima che per la distribuzione dei tempi tra i contendenti, è per i contenuti che questa campagna elettorale si è degradata come non mai.

In un libro del 1942, Capitalismo, socialismo e democrazia, Joseph A. Schumpeter ha gettato le basi di una "concezione mercantile" della democrazia, in contrasto con la "dottrina classica" che riconosce al popolo, attraverso diversi meccanismi costituzionali, il potere di decidere sul bene comune e di scegliere gli individui cui affidarne la realizzazione. Questa idea, in quel libro, è denunciata come vuota illusione. L’intrico infinitamente complesso di situazioni, opinioni, volizioni individuali e di gruppo potranno mai produrre qualcosa di simile a una volontà generale circa i tanti nodi del governo della società? D’altra parte, le singole persone sono davvero interessate a farsi un’idea propria del bene comune? Non sono concentrate, piuttosto, su beni particolari, sulle cose che le riguardano molto da vicino, come il posto di lavoro, la vita familiare, la vita di quartiere, la chiesa o, addirittura, le loro piccole manie e abitudini?

Occorre realismo. La democrazia, non dei filosofi ma degli uomini comuni del nostro tempo, per Schumpeter, è un mercato nel quale operano gruppi di interessi in concorrenza tra loro. Per vincere la partita del potere, essi devono acquisire consensi elettorali, gli uni a scapito degli altri. La dottrina classica deve essere rovesciata. Non è il popolo, ma sono i governanti (o, meglio, gli aspiranti tali) a essere politicamente attivi. Il popolo può solo aderire all’una o all’altra offerta politica delle élites del potere. La "volontà popolare" non è altro che la reazione maggioritaria, registrata con le elezioni, a queste offerte. Il popolo crede di esprimere propri orientamenti e bisogni ma si illude. I bisogni e gli orientamenti sono dei potenti e il popolo può solo sostenere gli uni a scapito degli altri.

Le elezioni, in questa visione, diventano contese per dividersi il mercato dei voti e strapparne agli avversari, esattamente come avviene tra imprese. L’uomo politico tratta in voti come l’uomo d’affari tratta in petrolio. Nel primo caso abbiamo imprenditori politici e elettori; nel secondo, imprenditori economici e consumatori, ma il rapporto tra i primi e i secondi è sostanzialmente dello stesso tipo. Anche i metodi per acquisire consensi sono gli stessi, chiamandosi, in un caso, propaganda e, nell’altro, pubblicità. Si può dire che la propaganda sta alle elezioni come la pubblicità sta al commercio.

Sappiamo quanto importante sia la tutela del consumatore dalla pubblicità menzognera, denigratoria e fraudolenta dei prodotti commerciali. Stabilita l’equazione pubblicità-propaganda, si comprende quanto essenziale sia la protezione dell’elettore dalla propaganda, a sua volta, menzognera, denigratoria e fraudolenta.

L’acquisto di beni scadenti farà male al consumatore ma il voto corrotto da propaganda corruttrice farà male a tutti. Inoltre, il consumatore si può accorgere alquanto facilmente se ciò che ha acquistato non vale niente; esistono controlli per evitare i danni alla salute per ciò che ingurgitiamo e siamo quasi sempre in tempo per rivolgerci altrove. L’elettore ingannato, invece, non si accorge o si accorge troppo tardi, e a sue pesanti spese, delle porcherie politiche che, con il suo voto, ha acquistato per sé e per la collettività. Eppure, paradossalmente, l’interesse per l’integrità del confronto elettorale è molto meno elevato che per la correttezza del commercio. Denunciare questo fatto non significa auspicare interventi legislativi, in queste materie sempre pericolosi, con tanto di interventi pubblici di controllo, per lo più inefficaci, e di sanzioni, per lo più inutili. Significa invece sollecitare la vigilanza dell’opinione pubblica, questa sì sempre necessaria.

La concezione mercantile della democrazia è stata contestata: per i pessimisti, nei Paesi dove dovrebbe innanzitutto applicarsi (soprattutto gli Stati Uniti d’America), la classe dirigente è unica e ristretta, cosicché la scelta elettorale è solo una farsa; per gli ottimisti, la svalutazione dell’autonoma iniziativa dei cittadini-elettori, a favore delle élites e dei capi, è una generalizzazione eccessiva. Ma l’idea del mercato dei voti ha comunque una sua verosimiglianza. Dunque: il produttore (a), offre beni (b) al consumatore, in cambio di denaro (c). Nel mercato elettorale, l’uomo politico (a) offre promesse (b), in cambio di voti (c).

Ora, questo schema, già di per sé non esaltante per ogni ideologo della democrazia, subisce una prima deviazione o, se si vuole, un primo imbroglio quando scompare il termine medio (b). La campagna elettorale alla quale assistiamo ha spinto al parossismo la tendenza di taluno a mettere avanti se stesso (a), per ottenere voti (c). Votatemi per quello che sono: compratemi perché sono bello, sensibile, imbattibile, "immoribile", ricco, spiritoso, simpatico; ho una bella famiglia; so fare tante cose, amare, cucinare e cantare. In questo modo, la campagna elettorale perde di significato politico e si trasforma in un tentativo di seduzione personale. Diventa anzi, nel senso preciso delle parole, un’oscena pro-stituzione, un mettersi innanzi senza ritegno, per oscurare ciò che invece è essenziale per giustificare l’ardire di chiedere voti: la ragione politica. Gli elettori vengono degradati. Non sono arbitri delle scelte politiche, ma clienti da adescare. I candidati che esibiscono se stessi sono non solo espressione della volgarità di certi ambienti del potere, ma anche corruttori della democrazia politica.

La seconda deviazione si constata nel modo di usare i dati di fatto, i quali, in quanto tali, dovrebbero essere incontrovertibili o, almeno, determinabili nella loro obiettività, per costruire discorsi onesti. Invece, ognuno ha suoi dati che, naturalmente, gli danno ragione. Il pubblico non capisce: percentuali di e su che cosa? spese effettuate o solo preventivate? occupazione vera o fittizia, stabile o effimera? criminalità reale, denunciata o accertata? aumento dei salari e delle retribuzioni: in termini monetari o reali? distanza tra ricchi e poveri, tra nord e sud? I "dati", anche se non smaccatamente falsi, possono essere costruiti ad hoc. Mai che vi sia qualcuno - i responsabili delle interviste televisive, per primi - che inchiodi chi ne fa uso a una prova della verità.

L’integrità del ragionare è pregiudicata in radice e tutto può andare su e giù, come conviene. Eppure falsità e frode, strumenti del Principe machiavellico, insieme alla violenza da cui poco differiscono, dovrebbero considerarsi quali sono: attentati alla democrazia.

La terza distorsione sta nel considerare l’elettore-spettatore come supporter e non come una persona raziocinante che vuole maturare sue convinzioni. Gli uomini politici spesso coltivano un ridicolo atteggiamento gladiatorio (lo "faccio nero", lo distruggo), studiato a tavolino da esperti di comunicazione di massa. I media lavorano sulla stessa lunghezza d’onda quando stabiliscono classifiche e assegnano vittorie e sconfitte come in un match di pugilato, dal cui lessico si ispirano (knock out; al tappeto; gettare la spugna). Il logos della democrazia, il ragionare insieme, il piacere di apprendere qualcosa dall’altro, in definitiva il carattere costruttivo della discussione sono spesso completamente assenti. Ci si vuole reciprocamente distruggere, senza apprendere nulla. Così si fanno solo macerie; il pubblico percepisce non una discussione ma uno scontro tra pregiudizi. Chi non è partigiano si allontanerà disgustato, avvertendo di essere usato come cosa, non rispettato come essere raziocinante. Eppure, quale prova di onestà, serietà e forza darebbe colui che, in un pubblico dibattito, riconoscesse per una volta, se occorre, le buone ragioni dell’avversario!

Seduzione, falsità e partito preso sono tre vizi capitali delle nostre campagne elettorali. Consideriamo che la loro comune natura è l’estraniazione dal contatto con la realtà delle cose. Allora si capisce l’importanza della distribuzione degli spazi televisivi.

L’efficacia del messaggio elettorale, come di quello commerciale, è determinata dal tempo di esposizione, durante il quale si useranno tutti gli ingredienti e i trucchi di una "comunicazione" sottratta a ogni verifica politica.

Abbiamo iniziato e terminiamo con Schumpeter: più di un argomento razionale contano le affermazioni ripetute mille volte e l’appello al subconscio, nel tentativo di evocare e cristallizzare associazioni gradevoli a proprio favore e sgradevoli a sfavore dell’avversario, con metodi extrarazionali e, molto spesso, con riferimenti sessuali. Forse è per questa ultima ragione che chi ha la fortuna di avere avuto da madre natura un naso gogoliano, quello se lo tiene ben in vista. Noi, cittadini-elettori, non dovremmo pretendere qualcosa di meglio?

La guerra è sempre orribile. Quando è scatenata sulla base di menzogne l’orrore diventa insopportabile. Ma quando all’insopportabilità dell’orrore si aggiunge la tenebra del ricorso a strumenti di morte inumani come quelli che sono stati adoperati a Falluja contro i civili (“pochi civili”, sottolineano le fonti USA) non si trovano più parole per esprimere l’indignazione e lo sgomento.

Non abbiamo documentato tempestivamente il servizio di RadioNews24 riportandone i commenti: ci ha forse frenato lo sbigottimento suscitato dalle rivelazioni e dalle immagini. Riportiamo oggi una bella intervista rilasciata dall’autore di quel memorabile servizio, Sigfrido Ranucci, a Tommaso Di Francesco, un articolo di Alessandro Robecchi, entrambi da il manifesto del 10 e 13 novembre 2005, e alcuni significativi stralci da un rapporto ufficiale USA, scelti e tradotti da Fabrizio Bottini per Eddyburg. In calce il link al servizio di RadioNews24, un canale sempre più indispensabile all'Italia sempre più infangata.

Tommaso Di Francesco,

Falluja, le prove della strage al fosforo

il manifesto, 10 novembre 2005

Intervista al giornalista di Rainews24, Sigfrido Ranucci, autore dell'inchiesta. Tra i testimoni, il marine Jeffe Engleart che ieri ha zittito il Pentagono,

Non è la prima volta che con un servizio televisivo Sigfrido Ranucci, 44 anni e dal 1999 redattore di RaiNews-24, provoca un vero finimondo. E' già accaduto recentemente con la pubblicazione di un Rapporto dell'Eni che, sei mesi prima della guerra all'Iraq nel marzo 2003, spiegava che le truppe italiane dovevano posizionarsi nell'area petrolifera di Nassiriya. Stavolta ha scoperto la documentazione sul mattatoio di Falluja nel novembre 2004 quando la città venne martellata per giorni dai bombardamenti, aerei e di terra, delle truppe occupanti americane. Un evento sanguinoso decisivo. Vale la pena ricordare che la nostra Giuliana Sgrena tra i profughi di Falluja, poco prima di essere rapita, cercava resoconti su quella strage restata poi nel buio mediatico. Intanto il servizio di Ranucci, andato in onda martedì, è stato ripreso da tutta la stampa mondiale e dalle tv arabe

Come hai ottenuto le immagini di quei corpi di civili e combattenti bruciati e disidratati dall'esplosivo al fosforo e che cosa hai provato?

Quando abbiamo visto i filmati siamo rimasti raccapricciati ovviamente dal vedere questi corpi che erano fusi, con i vestiti invece completamente intatti e ci siamo posti subito la domanda se dovevamo fare un'inchiesta su questo materiale e se potevamo andare in onda con questo materiale. Alla fine abbiamo deciso di sì perché, secondo noi, la guerra la si può raccontare solo in questo modo. Io ho volutamente chiuso l'inchiesta-reportage con le immagini della sparatoria da parte degli americani sui resistenti iracheni che si vedeva attraverso il monitor di un elicottero. Perché? Perché la percezione che ha oggi l'Occidente, che abbiamo oggi noi della guerra è come di un gigantesco videogioco fatto con bombe intelligenti. I corpi secondo noi avevano qualcosa di sospetto, così li abbiamo fatti vedere ad alcuni periti, esperti di terrorismo, e ci hanno detto che era forte il sospetto che fossero state utilizzate armi non convenzionali o comunque degli ordigni incendiari, ma non potevano rilasciarci una perizia scritta sulla base di foto e filmati. Abbiamo mostrato gli stessi filmati anche a militari che frequentano zone di guerra, soprattutto a quegli apparati che vanno in zone dove si sono verificati determinati tipi di attacchi. Appena li hanno visti hanno subito detto che alcuni erano chiaramente corpi carbonizzati dal napalm e che altri portavano segni evidenti dell'utilizzo di fosforo bianco. Chi visita il sito di Rainews24 ( www.rainews24.it) e va a vedere l'inchiesta, vede che abbiamo pubblicato insieme le foto dei morti del bombardamento di Dresda del 1945. Si vede chiaramente che c'è una tremenda somiglianza tra quei resti che non sembra poiù nemmeno umani. Ma come potevamo essere sicuri che questi corpi siano proprio di Falluja? Ci sono fotografie che hanno numeri di matricola riportate nei registri cimiteriali, che noi abbiamo pubblicato sempre sul sito, redatti dalle autorità americane ad identificazione del corpo, quando è stato possibile: ci dice dove è stato trovato e dove è stato sepolto. Per noi era la sicurezza che quel corpo fosse stato trovato lì, per esempio nel quartiere di Jolan piuttosto che in quello di Askari, i due più colpiti.

Avete avuto testimonianze dirette da Falluja?

Sì, la seconda testimonianza importante è quella di persone di Falluja che ci hanno detto di questa pioggia di fuoco che veniva dal cielo e che colpiva le persone. Ce ne ha parlato direttamente Mohammed Tareq Halderaji che racconta nel reportage comele persone hanno visto questa pioggia di fuoco che veniva dal cielo e che colpiva tanti civili che hanno cominciato ad incendiarsi mentre venivano a contatto con queste sostanze. Ora c'è un Comitato dei diritti umani di Falluja che ha coinvolto anche il Parlamento europeo. Poi dovevamo andare a cercare qualcuno che stava materialmente a Falluja, ma dall'altra parte. Cioè il punto di vista degli americani. Abbiamo coinvolto anche una ex deputata laburista, Alice Mahaon, che ha chiesto al governo inglese se era vero che gli americani avevano utilizzato armi tipo napalm. Il ministero inglese aveva sempre smentito fino al 13 giugno 2005. Poi ha chiesto scusa per la smentita ammettendo l'utilizzo da parte Usa dell'MK77, la nuova versione del napalm. Per il Pentagono mai usata in zone abitate da civili.

Negli Stati uniti, in Colorado, hai intervistato soldati americani che ora sono contro la guerra ma che nel 2004 hanno combattuto a Falluja...

Li abbiamo rintracciati via internet attraverso un blog, siamo stati quaranta giorni per vincere la loro diffidenza. Uno dei due contatti, quello con il nome in codice, definito soldato Engle - che mi è stato passato da Mario Portanova, autore di un'inchiesta su Falluja pubblicata da Diario, fatta in maniera splendida - rimasto anonimo fino a quel momento, dopo una quarantina di contatti ha avuto fiducia ed ha accettato di incontrarmi. Lui è stato a Falluja nel novembre del 2004 e mi ha detto che ha sentito con le sue orecchie l'ordine del comando americano di utilizzato il fosforo bianco - nei codici militari viene chiamato Willie Pit. A quel punto avevamo la testimonianza della delegazione irachena, i corpi che mostravano dei segni particolari e la testimonianza del marine. Sono allora andato a cercare i documenti filmati che i circuiti internazionali avevano proposto a novembre e ho trovato il filmato di questa pioggia di fuoco che viene scaraventata dagli elicotteri. Quando ho visto che coincideva con la data che mi è stata detta dal marine, abbiamo fatto vedere quella pioggia di fuoco a esperti militari che ci hanno confermato che quello era fosforo bianco. Eravamo pronti con l'inchiesta. E' importante dire che il soldato è stato messo ieri mattina a confronto in una intervista in tv con il Pentagono ed ha confermato tutto. E il Pentagono ha annaspato. Il soldato si chiama Jeff Engleart. Il Pentagono ha detto che smentiva l'utilizzo delle armi chimiche anche se ancora non aveva visto il filmato di Rainews24.

Come reagirà il mondo musulmano?

Il mondo musulmano sa già cosa è successo a Falluja. Siamo noi ad avere la percezione sbagliata della guerra. E io non mi ritengo l'autore di uno scoop. La notizia del fosforo bianco era già uscita anche su Al Jazeera sul Daily Mirror. E' accaduto che il Pentagono il 9 dicembre 2004 ha smentito le voci del fosforo con una nota in cui diceva di aver utilizzato il fosforo solo come traccianti, cioè «nell'uso che ne è consentito» Non è vero. Ci sono gli estremi di un crimine di guerra dell'amministrazione Usa che nel novembre 2004 per bombardare Falluja aspettò l'esito delle elezioni presidenziali.

Alessandro Robecchi, Fosforo e distintivi

il manifesto, 13 novembre 2005

Effetti del fosforo bianco sui civili iracheni di Falluja: bruciature micidiali che sciolgono la carne e lasciano intatti i vestiti. Effetti del fosforo bianco sull'informazione italiana: bruciature di intere pagine,Se le usa Bush si fa finta di niente e chi lo documenta è semplicemente accecato dall'odio antiamericano (che sia detto per inciso è sempre meglio che essere accecati dal fosforo bianco). Così, i giornali italiani e le televisioni (con le eccezioni di RaiNews24 e Raitre, grazie a Primo Piano) fanno finta di niente. I più lucidi tra gli embedded, Giuliano Ferrara e Clarissa Burt non hanno scritto una riga né detto una parola. Niente fiaccolate per il nuovo napalm. Un rapido giro nel controllo della malafede mi ha indotto persino a un gesto dadaista e disperato: comprare il Riformista, spassoso giornale satirico. Ed ecco l'articolo dell'ambasciatore americano in Italia che ci ringrazia per aver mandato a morire alcuni italiani in Iraq, ci assicura che entreranno nei libri di storia, ma sulle armi chimiche americane niente, nemmeno una virgola. Devo dedurre che tra gli effetti collaterali del fosforo bianco ci siano disturbi alla memoria, anche se naturalmente il Riformista chiede con un accorato appello una giornata della memoria. Effetti devastanti sulla memoria anche per il nostro premier, tutto impegnato a ricordare alla masse che lui la guerra non la voleva e che era contrario, anzi è un noto pacifista. Ma quando è arrivato in Italia il presidente iracheno, installato dagli invasori, ha assicurato che la guerra era inevitabile. Quando quello se n'è andato ha ricominciato a dire che lui era contrario: un bi-Silvio ad assetto variabile, forse un altro effetto collaterale del fosforo bianco (occhio alla caduta dei capelli!). Il premier anzi fa di più, dipana davanti ai giovani azzurri (puffi? effetti del fosforo?) una semplice equazione: dire che l'Italia ha voluto la guerra, e ha anche fornito le prove (false) agli americani per avere una scusa per l'attacco non è più solo anti-americano, ma addirittura anti-italiano. E se verrà qui un qualche kamikaze a rovinarci le feste di Natale sarà colpa di chi ha appeso la bandiera della pace. Inutilmente ho cercato i pezzi di Teodori, Fallaci, Pera Marcello e altri corifei del settimo cavalleggeri, magari anche piccoli corsivi e trafiletti. Niente: il fosforo bianco ha bruciato tutto, meno male che ha lasciato intatti i vestiti. Tutti quelli abituati a farci enormi pipponi su come si fa il giornalismo sono preda di gravi attacchi di amnesia.

Ora, dopo appena qualche timida voce che si leva dai banchi dell'Unione, aspetto con trepidazione una netta posizione dei Ds, una dichiarazione di Prodi e una di quelle fulminanti battute dietro le quali si intuisce il talento politico di Rutelli: qualcuno dei nostri eroi oserà dichiarare che usare armi chimiche sui civili è piuttosto incivile? Che Bush è un criminale di guerra? Che Berlusconi è un suo complice? Che non vogliamo restare laggiù mentre i nostri alleati cuociono donne e bambini? Ops, scusate, mi è scappata. Sono proprio anti-italiano, maledizione. Sarà l'effetto del fosforo bianco.

La Battaglia di Fallujah, Field Artillery, marzo-aprile 2005

Estratto da: Indirect Fires in the Battle of Fallujah, memoriale redatto da: Capitano James T. Cobb, Tenente Christopher A. LaCour, Sergente William H. Hight

[...]

1. Premesse e Obiettivo.

La Battaglia di Fallujah è stata condotta dall’8 al 20 novembre 2004, con l’ultimo attacco di fuoco il 17 novembre. La battaglia è stata combattuta da uno schieramento di Esercito, Marina e forze dell’Iraq di 15.000 uomini sotto il comando dello I Marine Expeditionary Force (IMEF), da nord a sud. Le forze congiunte hanno circondato la città e cercato casa per casa, liberando gli edifici e impegnando gli insorti nelle strade: è riconosciuta come la più feroce battaglia urbana sostenuta dai Marines, dopo quella di Hue City in Vietnam del 1968.

Fallujah si trova a circa 40 chilometri a ovest di Baghdad sul fiume Eufrate. La popolazione prima della battaglia era di circa 250.000 abitanti; ad ogni modo, l’unità TF 2-2 IN [ Task Force 2d Battalion 2d INfantry] ha incontrato pochi civili durante il proprio attacco a sud.

La missione di TF 2-2 IN inizialmente era di attaccare a sud della Phase Line (PL) Fran (Highway 10) dal margine nord-orientale della città per proteggere il nostro fianco est e distruggere le Forze Anti-Irachene (AIF), mantenendo aperte le linee di comunicazione. Per l’attacco, la città è stata suddivisa da nord a sud in sei zone di competenza ( Area Of Responsibility/AOR): la TF 2-2 IN nella fascia nord-orientale, con la TF 1-3 Marines sul nostro fianco ovest, seguita (da est a ovest) da TF 1-8 Marines, TF 2-7 Cav, TF 3-5 Marines e, infine, TF 3-1 Marines nella AOR nord-occidentale lungo il fiume Eufrate.

Durante l’attacco, sono stati emessi numerosi fragmentary orders (FRAGO), che hanno spinto la TF 2-2 IN a sud della Phase Line Fran, verso il margine meridionale della città. Il centro operativo tattico di retrovia della TF 2-2 IN (RTOC) e due mezzi corazzati M109A6 Paladin erano a Camp Fallujah (22 chilometri a sud-ovest di Fallujah), e da qui i Paladins hanno fatto fuoco nel corso della Battaglia di Fallujah.

La città ha un fronte di circa cinque chilometri e altrettanti di profondità. È divisa da est a ovest dalla Highway 10, con quartieri residenziali al nord e il settore industriale a sud. All’estremità meridionale si trova un quartiere povero, pieno di combattenti stranieri, soprannominato “Distretto dei Martiri”. È in questo settore che abbiamo incontrato la resistenza più forte.

[...]

9. Munizioni

[...]

b. Fosforo Bianco. Il Fosforo Bianco ( White Phospor/WP) si è dimostrato un’arma efficace e versatile. L’abbiamo utilizzato per missioni di copertura a due brecce e, più tardi nel corso della battaglia, come potente arma psicologica contro gli insorti lungo la linea delle trincee e dei cunicoli [ spider holes] quando non riuscivamo ad ottenere effetti con gli esplosivi ad alto potenziale. Abbiamo utilizzato attacchi “scuoti e cuoci” [ shake and bake] contro gli insorti, utilizzando WP per spingerli e HE per tirarli fuori.

[...]

14. Conclusioni.

Il ruolo degli indirect fires è stato parte decisiva della Battaglia di Fallujah e ha contribuito massicciamente al suo risultato.

Hanno consentito alle forze in campo di muoversi rapidamente attraverso la città con perdite minime e hanno dimostrato quello che possono fare gruppi congiunti che operano insieme. Gli effetti sono stati fisicamente e psicologicamente devastanti. Non solo gli indirect fires hanno distrutto le forze AIF, ma hanno anche distrutto la loro volontà di resistere e combattere. Hanno anche avuto un influsso positivo sulle nostre forze dimostrando ai comandanti sul campo che era a loro disposizione una soverchiante potenza di fuoco.

Il plotone dei Paladin ha notevolmente aumentato il potere di fuoco della TF, la sua tempestività e flessibilità, consentendo di muoverci a un ritmo senza precedenti attraverso una città fortificata.

Abbiamo imparato ad utilizzare gli indirect fires presto e spesso in grandi volumi. Nel corso della battaglia, sono stati consumati più di 2.000 caricatori di artiglieria e mortaio, and e più di dieci tonnellate di munizioni di precisione della Air Force.

Ad ogni modo, per quanto si sia avuto successo, se la battaglia fosse durata più a lungo sarebbe stato difficile proseguire con le attività del fuoco di sostegno. Dobbiamo imparare da questa battaglia a prepararci per il futuro. Alla fine, abbiamo riflettuto su alcune delle cose di cui eravamo più fieri. Quello che saltava agli occhi sulla linea del fronte erano fanteria e sergenti dei reparti carristi, comandanti di plotoni e di compagnia a dirci che artiglieria e mortai erano stati paurosi. Alla fine della giornata, lo si può dire: i nostri compagni di sul campo hanno capito perché ci chiamano i “Re della Battaglia”.

Il servizio di RaiNews24 è scaricabile qui

QUESTO è un tempo triste per chi non possiede la verità e crede nel dialogo e nella libertà. Anch’essi sono "relativisti" e il relativismo è malattia terminale della nostra società: così dice la Chiesa cattolica, forte della sua verità e della sua autorità. Verità e autorità sono ovviamente incompatibili con dialogo e libertà. Relativisti e assolutisti possono solo combattersi. Ma la Chiesa non è sola. Ci sono coloro che l’appoggiano da fuori, anzi la incitano trovandola troppo remissiva. Della sua verità e della sua morale non si curano, ma tengono in gran conto il suo patrimonio di autorità, da investire politicamente. Con questi atei clericali, cui senza scandalo la Chiesa spalanca portoni d’onore e braccia materne a dimostrazione che ormai il fine giustifica ogni mezzo, il dialogo è non tanto impossibile, quanto impensabile.

Si rischia una spaccatura sociale e culturale dalle conseguenze imprevedibili.

Eppure, quanto accade non è senza cause profonde. In un ormai famoso dialogo con l’allora cardinale Joseph Ratzinger, Jürgen Habermas ha ricordato una formula pregnante, anche se un poco sibillina, del costituzionalista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde, una formula che potrebbe piacere agli atei clericali: «lo Stato basato sulle libertà e secolarizzato si nutre di premesse normative che esso, da solo, non è in grado di garantire». In questa constatazione, apparentemente priva di passione, avvertiamo un rintocco a morte per il nostro tempo debole e malato e, all’opposto, una nota nostalgica per un’epoca forte e sana in cui i vincoli morali di appartenenza e obbedienza (le "premesse normative", appunto) erano dati a priori.

In origine, c’è l’invito di san Paolo ai cristiani di Roma affinché ubbidiscano all’autorità, perché voluta da Dio: nulla potestas nisi a Deo. Più importante, però, in questa formula è l’ipoteca sui futuri rapporti tra cristianesimo e imperatore. I fedeli riconoscano la loro sudditanza all’imperatore; ma, soprattutto, l’imperatore riconosca la sua sudditanza a Dio e, per lui, al capo della sua Chiesa, il Papa. Era l’avvio della "teologia politica": la fondazione in Dio del governo degli uomini. I Padri della Chiesa colsero subito lo spunto e con Costantino e la Chiesa costantiniana l’ipoteca paolina entrò nella nostra storia.

Da allora, per più d’un millennio, politica e religione sarebbero restate strettamente intrecciate, sia pure tra infinite dispute dei dotti per definire i rapporti tra "spirituale" e "temporale" in teoria; e tra contese di eserciti e potenze mondane per regolare i conti in pratica. In ogni caso, fuori discussione era il principio che l’obbligazione civile, cioè la pretesa dell’imperatore di ottenere obbedienza, è radicata nel più solido e indiscusso dei terreni, la fede religiosa. L’impero non poteva sciogliersi dalla Chiesa di Dio e dalla sua concezione provvidenziale della storia: res publica christiana. La scomunica papale dell’imperatore infedele liberava i sudditi dall’obbedienza, a garanzia di questo radicamento.

Volendo ancora ricorrere, nell’epoca presente, al motto paolino, lo si dovrebbe rovesciare: nulla potestas nisi a hominibus. Gli uomini stanno insieme e obbediscono all’autorità in nome non del Dio comune ma dei propri diritti. La base della società e del governo è l’essere umano come tale, né più né meno. L’origine spirituale di questa rivoluzione è l’Umanesimo; il compimento, il razionalismo sei-settecentesco, sfociato nella Rivoluzione francese. Il prodotto costituzionale di questa emancipazione è lo Stato laico, lo Stato che deve vivere di forza propria perché gli manca l’aiuto che un tempo era offerto dalla Chiesa, garante delle "premesse normative" della vita politica.

Ma può reggersi durevolmente una società basata solo sui singoli e sui loro diritti, cioè su pretese individuali? Dove trova le forze che garantiscano quel minimo di omogeneità, solidarietà, identità, necessario a evitare l’autodissoluzione? Quanto a lungo le società possono vivere solo sulla libertà e sui diritti dei singoli, senza un legame profondo che ne sterilizzi le valenze distruttive? Si può credere di eliminare il problema, assegnando allo Stato, come compito, solo l’eudemonìa sociale, cioè la vita bella, o addirittura la felicità? Questo è un terreno senza confini, mentre i mezzi sono limitati. Il rapporto tra Stato e cittadini si nutre di promesse sempre crescenti e via via eluse. Elusione da cui delusione e crisi. Lo Stato emancipato, in breve, sembra destinato a fagocitare le premesse che dovrebbero legittimarlo. Dove potrebbe appoggiarsi un simile Stato, in tempi di pretese crescenti e di risorse scarseggianti?

Ecco perché attingere a quel serbatoio di legittimità politica che è la Chiesa cattolica, per assicurare, ancora una volta, quelle "premesse normative" che sono venute a mancare.

Santa ingenuità o diabolica astuzia. Un’idea come questa può venire in mente solo a costo di ignorare la ragione storica dell’emancipazione o "secolarizzazione" dello Stato. Le guerre civili di religione sono di fronte a noi, a insegnare che cosa produce l’intreccio tra politica e religione quando non è data unità di fede. Incrinata l’unità dei cristiani dai movimenti ereticali a partire dal XII secolo, rotta poi dalla riforma luterana e dallo scisma anglicano, quell’intreccio ha alimentato solo divisioni e sopraffazioni. L’Europa cristiana divisa divenne campo di battaglia, con faide crudelissime tra cristiani di diverse confessioni, inquisizioni, cacce alle streghe, roghi di eretici e pogrom di ebrei. Eserciti di Stati scesero in campo in nome delle diverse professioni religiose. La religione, una volta rotta la sua unità, non era più assicurazione di alcuna "premessa normativa". Anzi: era diventata endemico fattore di sovversione, odio, miseria, ostilità. Se ne uscì non con vincitori e vinti ma con una soluzione costituzionale: l’emancipazione dello Stato, la sua distinzione dalla religione e la regolamentazione di questa come elemento della coscienza individuale e sociale, e non più come elemento direttamente politico.

Nell’Europa di oggi, la ri-cristianizzazione della politica sarebbe una cosa diversa? Non si sente già dividere il mondo tra i credenti, in generale, e i non credenti, quelli che hanno reso Dio superfluo? Regolato questo primo conto, non si continuerebbe poi con i credenti in un Dio diverso? E non si finirebbe con chi crede nello stesso Dio, ma diversamente? I metodi, certo, non sarebbero più quelli. L’Europa si è ingentilita. Non è questione di roghi, sante inquisizioni, massacri, guerre di religione, bracci secolari. Sono più consoni ai tempi le campagne culturali (come quella per accreditare l’idea che ai non credenti manchi qualcosa, siano un meno rispetto ai credenti); le leggi che traducono in diritto dello Stato la morale di Chiesa; i privilegi finanziari e fiscali; le agevolazioni nell’uso di luoghi e servizi pubblici, l’ingerenza nella formazione e nell’attività delle istituzioni civili.

Ecco il modo attuale di garantire le nostre "premesse normative": privilegi e discriminazioni. In una società divisa, non potrebbe che essere così. Non sarebbero più tali, ovviamente, se fosse ripristinata l’unità di fede, se tutti fossimo ugualmente fedeli dello stesso Dio. Una condizione impossibile, alla quale il cardinale Ratzinger invita a ovviare con un "come se": "anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse; […] è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno". Non comandi, dunque, ma consigli; libertà, non soggezione. C’è però in questo invito qualcosa di sorprendente, dallo stesso punto di vista cristiano. Non è la fede una fiamma che trasforma? Non è l’imitatio Christi, cui ogni credente è chiamato, follia per il mondo? Non si implica invece una fede ridotta a semplice morale di vita mondana, a codice di buona condotta? C’è, comunque, un’insuperabile difficoltà. In che consista l’essere e l’agire conformemente a quel che l’esistenza di Dio richiede, il laico non sa e gli uomini di fede si sono combattuti per mill’anni ciascuno ritenendo di saperlo meglio degli altri. Occorre un’autorità riconosciuta ed è sottinteso che sia il magistero cattolico. Ma come può chiedersi a un non credente di contraddire così profondamente se stesso, al punto di affidarsi a ciò che gli si dice a proposito di un Dio che non conosce? Il consiglio che la Chiesa rivolge così al non credente ha un solo contraddittorio significato: seguimi, per atto di fede.

Quando la filosofia incominciò a ribellarsi a essere ancilla theologiae, nel corso del XVII secolo, si disse l’inverso: che ci fossero proposizioni morali e giuridiche valide anche se Dio non esistesse, etsi Deus non daretur. Con ciò si voleva dire che c’è una moralità e una giustizia valide obbiettivamente, "naturalmente", che obbligano anche Dio, se esistente. Ma la Chiesa respinse la "scellerata finzione", la "ipotesi empia". Veniva messo in gioco il suo potere di interpretazione autentica della volontà divina, insidiata dall’autorità della ragione, cioè, in effetti, dalle cattedre del pensiero razionalista.

Dietro questi "come se", si scorgono contese di potere. Essi non servono a far accettare volentieri i privilegi e le discriminazioni. C’è un altro senso della formula, tuttavia, sul quale ha richiamato l’attenzione, qualche anno fa, Gian Enrico Rusconi: l’etsi Deus non daretur di Dietrich Bonhoeffer, il teologo della «chiesa confessante» tedesca, impiccato dai nazisti a Flossenbürg nell’aprile 1945. Nelle lettere dal carcere pubblicate in Italia col titolo Resistenza e resa, è abbozzato il progetto di una teologia che abbandona il Dio delle chiese storiche dogmatiche e si rivolge al Dio della fede e dell’Evangelo: una teologia che si rende possibile anche se, anzi proprio perché il Dio della religione non esiste (più). Nella «maggiore età del mondo», di un mondo che «basta a se stesso» e «funziona anche senza "Dio"» grazie allo straordinario sviluppo delle esperienze scientifiche, etiche e artistiche che riescono perfino a esorcizzare il terrore della morte - dice Bonhoeffer - non c’è più posto per un deus ex machina, pensato per dare certezze all’essere umano e sopperire alle sue paure e ai suoi interrogativi senza risposta. Poiché è venuto meno questo Dio che proclama la Verità dall’alto della croce, trono del mondo, si apre il tempo della fede nel Dio sofferente «che si lascia cacciare fuori dal mondo» e che possiamo conoscere gratuitamente e problematicamente nella fede purificata e disinteressata: una conoscenza che all’autorità del dogma trionfante - in certo senso blasfema, perché sostituisce, fissandola, una voce umana a quella mai integralmente esperibile di Dio - sostituisce il fragile, umile e responsabile ascolto del sussurro divino che chiede di essere inteso, senza garanzia di certezza, nella sequela delle esperienze umane. Questo può essere il terreno comune: attraverso una teologia del Cristo sofferente, si guadagna la condizione di tutti gli uomini, a partire dalla quale costruire insieme, col Cristo come compagno che soffre con l’umanità intera.

Non ci si aspetta tanto dalla Chiesa cattolica. Ma certo l’accentuazione dogmatica degli ultimi tempi - almeno questo si può dire - non va nel senso di quel dialogo, di cui si diceva all’inizio, pur riconosciuto "così necessario" dallo stesso cardinal Ratzinger; nel senso della pace tra tutti gli uomini di buona volontà che Dio ama, secondo l’annuncio dell’Angelo (Lc 2, 14). Riprendiamo ancora una volta l’espressione "garanzia delle premesse normative" da cui abbiamo iniziato. E’ vero che la democrazia - altra parola per "Stato basato sulla libertà e secolarizzato" - è priva di garanzia. Se l’avesse, del resto, non sarebbe democrazia ma autocrazia. Essa è, tra tutti i regimi politici, il più fragile. Ma proprio per questo, il dialogo è non solo auspicabile, ma necessario per le premesse normative che andiamo cercando, mentre l’accentuazione dogmatica in politica, che tanto piace agli atei clericali, è un rischio democratico. Se si procede da verità assolute non si dialoga. Ci si catechizza e, con sterili contrapposizioni, si scuote alla base la democrazia, questa sì orgoglio dell’Occidente.

Gli scritti citati:

(1) J. Habermas - J. Ratzinger, Was die Welt zusammenhält. Vorpolitische moralische Grundlagen eines freiheitlichen Staates (Che cosa tiene insieme il mondo. Fondamenti morali prepolitici di uno Stato basato sulla libertà) (2004), trad. it. Ragione e fede in dialogo, Venezia, Marsilio, 2005; (2) E.-W. Böckenförde, Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation (La formazione dello Stato come processo della secolarizzazione), in Recht, Staat, Freiheit - Studien zur Rechtsphilosophie, Staatstheorie und Verfassunsgeschichte, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1991, pp. 92-114 (passo citato a pag. 112); (3) J. Ratzinger, L’Europa nella crisi delle culture, in il regno-documenti 9/2005, pp. 214-219; (4) G. E. Rusconi, Come se Dio non ci fosse. I laici, i cattolici e la democrazia, Torino, Einaudi, 2000; (5) D. Bonhoeffer, Widerstand und Ergebung (1970), trad. it. Resistenza e resa, a cura di A. Gallas, Cinisello Balsamo, Ed. Paoline, 1988,

DIECI anni fa venne pubblicato in Inghilterra un libro dal titolo "The Revival of Death", traducibile come "il ritorno della morte". La morte non era scomparsa , ma era stata socialmente rifiutata, era divenuta la "morte negata" di cui ci ha parlato Philippe Ariès: espulsa dai discorsi, esclusa dagli ambienti familiari, medicalizzata, trasferita negli ospedali.

Lontana il più possibile dagli sguardi, avvolta nel silenzio, consegnata con misura al compianto. Ma non è stato uno spontaneo mutamento della sensibilità collettiva a riconsegnarci la morte come momento ineludibile dalla riflessione pubblica. È stato il lento stratificarsi dei trattamenti tecnologici dei morenti a mostrarci una morte diversa da quella alla quale eravamo abituati, e ad obbligarci a riaprire gli occhi. Sono state le immagini terribili delle ultime ore di Franco e Tito, ormai ridotti ad appendice disumanizzata di apparecchiature per la sopravvivenza, a dirci che allontanare il momento della morte non era una forma di rispetto della persona, ma un oltraggio alla sua dignità, per una ragion di Stato che esigeva qualche ora ancora per regolare le partite politiche aperte dalla scomparsa di un dittatore.

Da allora la morte è ritornata tra noi, in forme sempre più esigenti. La vicenda di Terri Schiavo sta appassionando e dividendo il mondo, ed obbliga anche a guardare ad un caso simile di casa nostra, dove da anni il padre di Eluana Englaro lotta per sottrarre la figlia ad una sopravvivenza senza speranza, assicurata solo dalla alimentazione e dalla idratazione forzata. E il mutamento del clima sociale e culturale è testimoniato dai molti film che negli ultimi tempi ci hanno parlato della dignità del morire, delle decisioni difficili intorno alla morte – "Le invasioni barbariche", "Mare dentro", "Million dollar baby".

Sono, questi, i segni di una deriva culturale che sta perdendo il valore della vita o, al contrario, di una progressiva presa di coscienza di che cosa significhi oggi il morire, non più l’attimo in cui ci si congeda dalla vita, ma un tragitto sempre più lungo, drammatico, dolorosissimo? Poteva essere così anche prima del radicarsi e del diffondersi di tecnologie della sopravvivenza. Ma non siamo più nella condizione descritta da Karen Blixen narrando degli africani che portavano i morenti sull’altra riva del fiume e, da lontano, assistevano serenamente al loro lento spegnersi. Oggi la tecnologia può chiudere i corpi in una prigione per un tempo senza speranza, che può divenire intollerabile. Per questo, da decenni ormai si rifiuta l’"accanimento terapeutico", anche nei codici di deontologia medica, e si è giunti ad attribuire a ciascuno di noi il diritto di rifiutare le cure, che è appunto il diritto di lasciarsi consapevolmente morire, come ha fatto poco tempo fa una persona che, ritenendo intollerabile il vivere con una gamba amputata, ha rifiutato l’intervento ed è morta poco tempo dopo.

Non è vero, dunque, che stiamo abbandonando il rispetto per la vita. Vogliamo rifiutare il sostegno tecnico o farmacologico quando può rendere la vita intollerabile.

Ci siamo riappropriati delle decisioni sul morire, ma siamo ancora esitanti di fronte al modo in cui si esercita questo nuovissimo potere. Se Terri Schiavo e Eluana Englaro avessero lasciato scritto che rifiutavano ogni terapia di sopravvivenza, di questa loro volontà si sarebbe dovuto tener conto. Ma, in assenza di una dichiarazione esplicita, possono altri, marito o padre, decidere della vita di chi si trova in uno stato vegetativo permanente? E l’alimentazione e la ventilazione forzata possono essere considerate terapie di sopravvivenza, come tali rifiutabili, o sono trattamenti che non rientrano in tale categoria (è l’argomento con il quale i giudici rifiutano l’interruzione delle cure per Eluana Englaro)?

Il quadro giuridico è in rapido mutamento in tutti i paesi, e la tendenza è chiaramente nel senso di ammettere sempre più largamente la possibilità di "morire bene". Alla fine della passata legislatura, ad esempio, una commissione nominata dal ministro Veronesi aveva concluso nel senso di ritenere legittima l’interruzione dell’alimentazione e della idratazione di chi si trovi in stato vegetativo permanente: ora proprio su questo dovrà esprimersi la Corte di Cassazione, alla quale spetta l’ultima parola sul caso di Eluana Englaro. E la Corte d’appello di Milano, che aveva respinto la richiesta del padre di Eluana sostenendo che alimentazione e idratazione non sono trattamenti terapeutici, aveva tuttavia affermato che spettava a lui il diritto di "esprimere o rifiutare il consenso al trattamento terapeutico", riconoscendo così che, in casi come questo, può esservi un "tutore" che decide al posto di chi è ormai del tutto incapace.

Siamo di fronte a casi estremi che, tuttavia, devono essere valutati tenendo conto che ci muoviamo in un contesto in cui ormai il principio di base non è quello della sopravvivenza ad ogni costo. Il potere di decisione è nelle mani di ciascuno di noi: abbiamo il diritto di rifiutare le cure, di lasciarci morire, di rinunciare per il futuro alle terapie di sopravvivenza (è il cosiddetto "testamento di vita", di cui sta tornando ad occuparsi il Parlamento). Così stando le cose, casi come quelli di Terri Schiavo e Eluana Englaro si collocano già nell’area in cui è legittima la decisione di porre fine alla vita. E questo è confermato dal fatto che, per superare la legittima decisione di un giudice, negli Usa è stata necessaria una specifica legge.

Ma così si va nella direzione sbagliata, con una rinnovata pretesa dello Stato di prendere decisioni che riguardano la sorte di singole persone. Quando si è sottratto al potere del medico, e affidato al consenso dell’interessato, il potere delle decisioni sulla propria esistenza, si è detto che nasceva un nuovo "soggetto morale": l’individuo non più oggetto del potere del terapeuta, ma libero nelle proprie determinazioni. Abbiamo così stabilito che la sopravvivenza non è una finalità da perseguire ad ogni costo. Le regole giuridiche, allora, possono essere opportune per fissare procedure grazie alle quali giungere alle decisioni con adeguata informazione e riflessione. Non possono, invece, impadronirsi esse stesse della vita, imporre il dolore al morente che invoca aiuto, negare al morente la dignità nel morire.

Alla cerimonia dell’addio non si addice un clamore mediatico mascherato da rispetto per la vita.

Spetta dunque a me, visto che l´ho aperto, concludere questo dibattito sul laicismo che si è sviluppato con ampiezza sulle pagine di «Repubblica» per oltre due mesi valendosi di firme qualificate sia di laici sia di cattolici, di credenti e di non credenti, e che ha avuto larga eco anche su altri giornali e riviste.

Non nego che l´avvio a riprendere un tema plurisecolare ci è stato fornito dall´uso delle religioni nelle battaglie politiche e financo nelle guerre vere e proprie, condotte da terroristi organizzati e da eserciti regolari; un uso anch´esso plurisecolare, anzi addirittura plurimillenario che peraltro si sperava caduto finalmente in desuetudine. Non era così ed è infatti ripreso con nefasto vigore in questi ultimi anni e in questi ultimi mesi. Ma quel tema, del rapporto tra la religione e i principi della civile convivenza, tra le gerarchie che amministrano le chiese e quelle che gestiscono la «polis», infine tra il peccato e il reato punito dalla legge, è ben più ampio di quello delle guerre di religione che ne radicalizzano uno dei molteplici aspetti.

Quel tema coinvolge la concezione stessa del divino, il senso della vita, l´autonomia della coscienza individuale e infine la crisi della modernità.

Credo di non allargare indebitamente l´argomento che ci occupa se dico che in questo dibattito c´è anche un ospite inquietante del quale non abbiamo neppure pronunciato il nome ma la cui presenza è stata data quasi per sottintesa in tutti gli interventi.

Quel nome deve essere ora reso esplicito poiché è con esso che dobbiamo fare i conti, laici e religiosi, credenti e non credenti, assertori di verità assolute e relativisti.

E´ con il nichilismo che dobbiamo fare i conti poiché è quello il nome che riassume la crisi della modernità.

Il nichilismo, la «décadence», la disarticolazione dei valori, sono stati d´animo che hanno pervaso i nostri spazi mentali e modificato profondamente i nostri comportamenti. Hanno aggredito tutte le società ? quelle occidentali in particolare ma non esse soltanto ? che siano emerse dal livello della pura sussistenza e dell´appagamento dei soli bisogni primari. Sono penetrati nell´arte, nella filosofia, nella politica, nei rapporti interpersonali. Hanno capovolto i rapporti tra l´uomo e la tecnologia trasformando quest´ultima in un fine e gli uomini in altrettanti strumenti al suo servizio.

E' dagli ultimi decenni del XIX secolo che il nichilismo ha fatto la sua comparsa; negli anni a cavallo tra i due secoli sembrò aver raggiunto il culmine, ma non era così. Ha continuato ad espandersi e a produrre i suoi effetti per tutto il Novecento che ne ha trasferito la virulenza al secolo in cui siamo appena entrati. Da questo punto di vista mi sembra dunque sbagliato trattare il Novecento come un secolo breve che sarebbe cominciato nel 1914 con la guerra e la fine della «Belle Époque» e si sarebbe concluso con l´implosione del comunismo sovietico nel 1989.

Se infatti si guarda alla ferita profonda che si è aperta in Occidente con l´avvio del nichilismo, le date cambiano, il Novecento comincia a metà del XIX e non sappiamo ancora quando si concluderà. Parliamo spesso di transizione politica forse senza renderci pienamente conto che stiamo attraversando da 150 anni una fase di transizione epocale che ha travolto culture, religioni, modi di vivere e di sentire.

Il dibattito sul laicismo, nelle forme in cui oggi si può e si deve condurre, non è dunque simile a quelli che ebbero luogo ai tempi del positivismo o, risalendo ancora più indietro, quando la società dei Lumi ne pose i fondamenti rovesciando le culture dell´«Ancien Régime».

Dopo Auschwitz, dopo i lager, dopo Hiroshima, tutto è cambiato. Il problema della gratuità del Male ha intaccato la fede nella Provvidenza. Le nozioni stesse di peccato e di salvezza sono state sconvolte.

Occorre quindi avere il coraggio intellettuale di porre questo dibattito su nuove basi, essendo ben consapevoli che non si uscirà dal nichilismo rimettendo indietro le lancette dell´orologio e brandendo il vessillo del Dio degli eserciti contro il vessillo di chi affida allo stesso Dio un´appartenenza e un colore diversi. Dio è dunque una costruzione così antropomorfica che lo si può arruolare nella guerra santa di Al Qaeda o alla testa dei marines seguendo l´esempio di Costantino il grande o di re Carlo dalla barba fiorita? Chiaro che no.

* * *

In questo nostro dibattito c´è un punto che merita, io credo, d´esser chiarito. Nell´articolo di apertura ho usato il termine laicismo ma in molti degli interventi successivi al posto di quella parola e del concetto che essa esprime è stata usata la parola laicità. La quale esprime un concetto diverso.

La laicità appartiene sia ai credenti che ai non credenti e distingue tutti coloro che aderiscono e praticano la distinzione tra spirito religioso e attività politica. Il «date a Cesare ciò che è di Cesare» con quel che segue è appunto il fondamento della laicità, la separazione di due sfere di influenza, i due «soli» dei quali parla Dante nel «De Monarchia» a proposito del Papato e dell´Impero. Va da sé che l´Impero cui Dante si riferisce è pur sempre un regno cristiano il quale rivendica una sua autonomia rispetto alla gerarchia ecclesiastica chiamata a gestire la comunità dei fedeli in quanto tali. La dialettica tra quei due poteri riguarda dunque i rispettivi confini e la rispettiva legittimità; i contrasti avvengono quando quei confini siano messi in discussione ed eventualmente violati ora dall´uno ora dall´altro come infinite volte è storicamente accaduto.

Ho già osservato (e Pietro Scoppola nel suo intervento ha approfondito questo aspetto della questione) che la convivenza tra i due «soli» danteschi ha favorito l´evoluzione delle chiese cristiane, allontanandole da quel modello teocratico che ha invece ingessato l´Islam nonostante la ricchezza originaria e l´immenso deposito culturale di cui dispose nei primi secoli del suo fulgore.

Sorte in qualche modo analoga fu riservata alle chiese che, dopo lo scisma, restarono sotto l´influenza bizantina e di lì trasferirono in Russia quell´ortodossia a canone inverso, accettando o dovendo subire una forma di teocrazia rovesciata che aveva l´imperatore a capo della gerarchia ecclesiastica. Proprio da questi confronti emerge la superiorità culturale delle chiese cristiane di occidente e in particolare di quella cattolica cui la compresenza di un potere civile, prima legittimato anch´esso dall´investitura sacra e poi da quella democratico-popolare, ha consentito un´integrazione e un´articolazione con la modernità, con la libera scienza, con culti e religioni diversi e quindi una sensibilità ai diritti civili e alle libertà che vi sono connesse, che il riflusso teocratico avrebbe impedito e spento.

In questo quadro il «date a Cesare» è diventato il fondamento di quella laicità partecipata al tempo stesso da credenti e da non credenti che, per quanto in particolare riguarda questi ultimi, costituisce uno degli elementi essenziali del loro laicismo. Il quale tuttavia contiene la laicità ma non si esaurisce in essa, così come la laicità costituisce la proiezione civile e politica dei cristiani che rifiutano il temporalismo, coerenti con una fede imperniata sul messaggio evangelico dell´amore, del perdono, della dignità della persona e del suo libero arbitrio nella scelta del Bene, nel faticoso cammino sorretto dalla grazia verso la salvezza e l´eterna beatitudine al cospetto di Dio.

* * *

Nel suo notevole intervento in questo dibattito Giuliano Amato sostiene che i credenti «hanno una marcia in più» rispetto ai non credenti nel loro empito di fratellanza e di attivo amore del prossimo. Concorda con lui Arrigo Levi, che pure definisce «fede civile» quella dei laici. Scrive Levi che «l´amore che sostanzia quella marcia in più ha una portata mille volte più pervasiva della ragione e della severità su cui si fonda l´etica laica».

Può darsi che sia così oppure può darsi di no: quest´immagine della marcia in più appartiene piuttosto al campo delle sensazioni non provate e non provabili. Si potrebbe obiettare (con Kant) che un´azione è etica solo quando non rechi beneficio a chi la compie. Mentre questo requisito manca per definizione in chi si affida alle opere per meritarsi la salvezza. Ma discutere di marcia in più o in meno non mi sembra inerente al tema di fondo del dibattito, a meno di non considerare il sentimento religioso soprattutto come un elemento utile alla coesione sociale. Il che è probabilmente vero ma sminuisce il contributo spirituale che la fede nella trascendenza può diffondere nella società.

Ebbene, questa fede nella trascendenza è esattamente il centro del problema. La crisi della modernità e il diffondersi del nichilismo promanano infatti dall´affievolirsi progressivo di quella fede. La morte di Dio, prima che un proclama, è una constatazione. La morte di Dio (attenzione) non equivale alla morte del sentimento religioso né all´assenza del divino; tantomeno equivale al dominio esclusivo d´una razionalità che tutto spiegherebbe dissipando ogni mistero e illuminando ogni zona d´ombra. I «philosophes» dell´Enciclopedia, salvo i più grossolani tra loro come d´Holbach, non affermarono mai questa banalità; tantomeno l´aveva affermata Spinoza. Quanto a Nietzsche, la sua religiosità è fuori discussione.

In realtà la morte di Dio postula il deperimento della trascendenza e quindi dell´assoluto. Il nascere d´un nuovo tipo di metafisica, cancellata quando si analizzano le modalità di funzionamento della «ragion pura» ma riproposta nell´ambito della «ragion pratica» o del mondo come «volontà e rappresentazione».

E´ evidente tuttavia che il deperimento della trascendenza, quello che lo stesso Giovanni Paolo II ha definito il «ritiro di Dio dal mondo», il suo sconsolato (o irato) allontanamento di fronte al prevalere del Male scelto dagli uomini che hanno fatto pessimo uso della libertà di scelta che Dio stesso ha loro concesso nel momento in cui li ha gettati nella storia; quel deperimento è stato foriero di profonde modificazioni nei modelli mentali e comportamentali. I più importanti e i più gravidi di conseguenze etiche, sociali, politiche e soprattutto culturali, sono stati la filosofia dell´apparenza e il relativismo.

Lascio da parte la prima che ci porterebbe ad un discorso arduo da approfondire in questa sede; ma è il relativismo che entra in pieno nel nostro tema. Esso è un punto di discrimine decisivo tra la coscienza moderna e i puntelli della tradizione. Riguarda la disputa antica anzi antichissima tra oggettività e soggettività e quella, più recente, sulla verità.

Esiste una verità assoluta? Una verità da accertare, da raggiungere passo dopo passo fino al momento in cui saremo interamente arrivati a possederla? Avremo allora trovato finalmente la chiave con cui potremo aprire la porta che nasconde i segreti del mondo e il senso della vita?

Le grandi religioni monoteistiche ci hanno rivelato la strada per arrivare a quella verità; essa è scritta nei libri sacri e nelle parole dei fondatori e dei profeti.

Talvolta si tratta di parole arcane, misteriose quanto i misteri che vorremmo penetrare; parole dense di significati, parole ineffabili, da percepire attraverso lo slancio mistico della fede e attraverso l´interpretazione «autentica» delle Chiese, autoproclamatesi come il tramite esclusivo tra la realtà visibile e la vera vita dell´oltremondo.

Oppure quella verità assoluta sarà conquistata dalla scienza nel suo graduale processo conoscitivo che sta via via affiancando al metodo sperimentale una sorta di religiosità non mistica ma intuitiva, un affidamento crescente ai processi induttivi rispetto a quelli deduttivi.

Che la verità assoluta sia dominio della fede religiosa oppure d´una formula matematica capace di tradurre in numeri il divino, resta in ambedue questi modelli mentali, un´analoga tensione di ricerca dell´assoluto ed è proprio di lì che passa il crinale che segna la differenza con la filosofia dell´apparenza. Essa postula la cancellazione (la morte) dell´assoluto, il relativismo della verità, il dominio del caso rispetto ad ogni ipotesi di destino, il riferimento all´autonomia della coscienza individuale e la responsabilità che ogni individuo non solo si assume ma anzi rivendica come elemento della sua nobiltà. Mentre le altre specie si distinguono secondo la capacità di volare nell´aria o di camminare e strisciare sulla terra o di nuotare nelle acque dei mari e dei fiumi e in mille altri modi, la specie dell´uomo possiede una mente riflessiva capace di pensare se stessa e una coscienza resa vigile dalla memoria di sé e responsabile verso se stessa delle azioni che compie e degli effetti che esse producono.

* * *

Qui avviene l´incontro con la morale e con il cosiddetto diritto naturale. Per i credenti e per le chiese che li rappresentano si tratta di due assoluti; per i laici di concetti relativi, cioè variabili secondo i luoghi, le epoche, i risultati della scienza sperimentale, i costumi e soprattutto i risultati delle libere decisioni della coscienza individuale.

Il cardinale Ratzinger, nello scambio di lettere con Marcello Pera, parla a lungo sul tema della coscienza individuale e del libero arbitrio. Si tratta infatti del nodo centrale di controversia tra la Chiesa e i laici e all´interno stesso della Chiesa. Per Ratzinger la libera scelta consiste nella scelta del Bene e della fede. Una scelta diversa si autocondanna all´esclusione. Il Bene e la fede comportano l´adesione alla precettistica morale indicata dalla gerarchia. Il credente dunque, quando si avvale della libertà di scelta che Dio gli ha concesso, non ha altra via da quella di rinunciare a quella libertà.

Questo modo di impostare la questione preclude ovviamente qualunque forma di dialogo tra credenti e non credenti che naufraga inevitabilmente sul tema dell´autonomia della coscienza individuale. Mi ricorda il dialogo che ebbero Blaise Pascal e monsignor de Saci, allora direttore spirituale del convento di Port Royal des Champs, quando Pascal chiese di entrare a far parte di quel gruppo e di quel movimento religioso.

De Saci l´interrogò a lungo sulle sue letture e sui libri preferiti. Pascal citò innanzitutto i Vangeli e Agostino, ma poi anche Epitteto e Montaigne. De Saci ascoltava silenzioso. Pascal gli chiese se conoscesse quegli autori, De Saci rispose di no. Ne aveva sentito parlare ma non li aveva mai letti; non ne aveva bisogno.

Pascal ne perorò l´importanza, disse che secondo lui quelle letture profane erano comunque propedeutiche per consolidare la fede o per arrivarci anche con il puntello della ragione; della mente in aggiunta al cuore. De Saci replicò che la fede non deve nulla alla mente e anzi arrivare alla fede seguendo la strada della mente è un atto di superbia. Alla fine concluse dicendo che, se Pascal voleva entrare nel gruppo di Port Royal, doveva fare proponimento di abbandonare quel tipo di letture.

Bene. La concezione di Ratzinger mi ricorda molto le prescrizioni di monsignor de Saci. Pienamente legittime per la mistica cristiana (agostiniana) della fede e della grazia, ma incomprensibili per chi, dalla sponda cristiana, si propone il problema di dialogare con i laici non necessariamente credenti.

L´incontro sulla morale è certamente il terreno fertile per un dialogo del genere, ma presuppone una religione che non continui a porsi come la sola depositaria d´una verità assoluta. Il relativismo non è nichilismo, al contrario. Il relativismo comporta un impegno continuo e responsabile sulle verità morali di volta in volta valide nell´epoca e nel luogo. Verità assolute nel luogo e nell´epoca, ma variabili secondo i mutamenti d´epoca e di luogo. Nulla meno di questo ma anche nulla di più.

* * *

In un articolo bellissimo oltre che importante anche ai fini di questo dibattito («Repubblica» del 24 dicembre, con il titolo «I Cristiani») Pietro Citati ha scritto: «L´idea della morte di Dio non dovrebbe preoccuparci. In alcune grandi religioni gli dei non sono eterni... [ma] credo che una grande religione non muoia mai. La religione greca non è morta. Apollo o Ermes o Dioniso o Iside ? Afrodite-Demetra non sono scomparsi dalla nostra esistenza.

Dopo aver impregnato le immagini del cristianesimo antico, sono vivi ancora oggi come forme mentali o psicologiche. La compassione del Buddha ha modellato la sensibilità occidentale; il Tao ha influenzato la nostra intelligenza».

Dal canto mio aggiungo che Gesù di Nazareth ha modificato il Dio di Abramo, di Giobbe, del Qoèlet, il creatore del Leviatano, il Dio incontinente e tuonante dall´alto dei cieli. Il Figlio dell´Uomo ha modificato il Padre anzi l´ha sostituito. Forse è proprio di lì che il vecchio Dio ha cominciato a morire.

Questo discorso attiene ai credenti quanto ai laici.

Esso può aiutarci a chiudere la minaccia del nichilismo e ridare senso alla vita. Non è un senso unico, cardinal Ratzinger. E´ il senso che ciascuno di noi costruisce con fatica tenace, anche quando è consapevole che quel senso emerge da un caos insensato dove farà naufragio comunque ma dal quale riemergerà come tutte le forme periture che la natura crea e alla natura ritornano per riemergere ancora, sempre nuove e sempre periture.

Non so dire se ciò abbia un senso. Ma credo che questo eterno processo sia indistruttibile. Credo che il nulla sia l´ombra di Dio e che il divino sia dovunque, nel filo d´erba, nella rosa, nel passero, nel leone, nell´uomo. In questo ho fede.

Il rapporto fra mercato e diritto, fra il gioco e le sue regole, ripropone il paradosso di Achille e della tartaruga, col secondo (il diritto) rassegnato a inseguire il primo (il mercato) sapendo che non lo raggiungerà mai. Il punto nuovo è però che mentre per qualche secolo il diritto è parso accettare questa sua scomodissima condizione, negli ultimi anni sembra avere sostituito alla rassegnazione un iperattivismo fine a se stesso, e a secernere senza soluzione di continuità norme sostanzialmente autoreferenziali, che non incidono sulla realtà sociale né contribuiscono a garantire una ragionevole equità o a tutelare i soggetti giuridici più deboli. È come se la visione che del diritto proponeva Hans Kelsen[1],e che ha di gran lunga dominato tutta la filosofia del capitalismo moderno, avesse perso i connotati di pura speculazione teorica, vestendo i panni della realtà fattuale. Bisognerebbe provare a capire adesso in che modo tutto questo sia potuto accadere.

Per Kelsen, il diritto è l’insieme delle regole che determinano il comportamento umano. E la sanzione presuppone lo Stato, cioè l’unica entità legittimata a giudicare il comportamento umano. La cesura con tutta la tradizione precedente è nettissima. Kelsen infatti esclude, e lo fa con grande rigore, qualunque riferimento a norme non scritte, ai princìpi superiori invocati da Antigone, alle leggi divine, insomma a quello che da secoli la dottrina giuridica aveva chiamato il diritto naturale, cioè quell’insieme di norme generali valide per tutti gli esseri umani, «superiori» a qualsiasi norma scritta dai legislatori. Per quanto radicale, o metafisica, questa concezione del diritto possa apparire ai nostri occhi, non bisogna dimenticare che in un certo senso rappresentava una formazione di compromesso fra idee (e pratiche) della giustizia molto più estreme. Ad Atene esisteva un tribunale, il Pritaneo, che basandosi su una sorta di diritto primitivo giudicava anche gli oggetti inanimati: in caso di incidente, l’oggetto responsabile veniva processato, condannato e distrutto. Nel Medioevo il diritto si estendeva a tutti gli esseri viventi, al punto che gli animali incriminati finivano in appositi tribunali, e venivano giudicati come gli uomini – applicando del resto l’insegnamento del grande giurista romano Ulpiano, secondo il quale il diritto era «quod natura omnia animalia docuit », cioè quel che la natura ha insegnato a tutti gli animali. E gli esempi possibili arrivano ai giorni nostri, e alle recenti modifi- che della costituzione indiana, che sanciscono il diritto alla vita – e alla cura, in caso di malattia, per tutti gli esseri viventi.

L’immagine del diritto proposta da Kelsen è, in partenza, molto più semplice. Le leggi riguardano,appunto, solo ed esclusivamente il comportamento umano, e nient’altro. Neppure i problemi della giustizia, in quanto attengono alla felicità sociale – cioè a un’entità irrazionale, sulla quale è impossibile giungere a conclusioni oggettive – sono, a rigore, problemi di diritto. E quando mai lo fossero, sarebbero problemi di diritto naturale, e non di diritto positivo. Ciò che allora può fare il diritto per la giustizia è solo minacciare la sanzione prevista dal legislatore per alcuni comportamenti. Ed è solo la norma primaria, quella cioè che contiene la sanzione, a qualificare il diritto come ordinamento coercitivo. Le norme secondarie – di pura condotta, ma senza sanzione, come ad esempio «non uccidere» – nulla hanno a che vedere con il diritto.

Il diritto, quindi, discende dalla volontà del legislatore. Questa sua genesi impone la necessità di individuare una norma fondamentale – che Kelsen chiama Grundnorm, o basic rule – su cui fondare la validità delle singole norme. Negli ordinamenti moderni, la Grundnorm altro non è che la costituzione, cioè appunto la norma fondamentale che fissa i princìpi generali, ma prima ancora fonda la legittimità delle norme successive – che verranno poi approvate dai parlamenti, a loro volta legittimati dalle diverse carte costituzionali. E qui la teoria di Kelsen incappa in una prima difficoltà. Ogni costituzione è infatti un atto giuridico, che ha la sua base in situazioni storiche molto precise – a volte in conseguenza di un particolare clima politico, ma più spesso in coincidenza con una rivoluzione. In nessuno di questi due casi (o delle loro possibili varianti) il nuovo ordinamento è figlio dell’ordinamento precedente: a volte è in patente contraddizione con esso, in casi più estremi nasce da istanze apertamente antigiuridiche.

È molto difficile che il diritto segua un andamento armonico. In molti casi ha una genesi «sporca», e nel corso della sua vita utile affronta aporie che nerendono quantomeno opinabile la presunta «purezza ». Le lacune, ad esempio, che non a caso costituiscono la cartina di tornasole per tutte le teorie giuridiche. Come ogni altra cosa sotto il sole, anche le norme sono caduche. Da un certo momento in poi, non coprono più alcune fattispecie, e devono essere abbandonate, modificate o riscritte. Per la jurisprudence americana le lacune sono una finzione, poiché costituiscono semplicemente il momento in cui diritto naturale e diritto positivo tornano a dividersi.

Per un filosofo del diritto americano come Ronald Dworkin, è del tutto ovvio che il diritto naturale intervenga dove quello positivo non può arrivare, mentre per Kelsen questa commistione risulta inaccettabile. In altre parole, non esistono, né possono esistere, princìpi sanzionabili dalla morale, che alla fine si intreccia e confonde con il diritto naturale. In presenza di una lacuna ci si deve comportare nel modo sancito dall’articolo 1 del codice civile svizzero – che non è stato scritto da Kelsen, ma avrebbe potuto esserlo. Secondo tale articolo il giudice deve applicare in primis la legge, e in caso di lacune deve rifarsi alla consuetudine, cioè al comportamento reiterato che una certa collettività ritiene accettabile come precetto. E se neppure la consuetudine è di ausilio, il giudice applicherà la norma che avrebbe dettato qualora avesse rivestito la funzione di legislatore – ampliando così le proprie competenze molto oltre il ruolo di giudicante. Questa norma farebbe rabbrividire sia Montesquieu sia Beccaria. Ma è proprio con questo richiamo al codice civile svizzero che Kelsen si ritrova in palese contraddizione, poiché non è per nulla chiaro a quali fattispecie debba riferirsi il giudice-legislatore. Si inserisce qui prepotente un elemento irrazionale nella costruzione kelseniana, in quanto il legislatoregiudice, che evidentemente non ha alcun supporto dalla Grundnorm, finisce per cadere nella trappola di Dworkin[2],cioè si comporta riferendosi a quei «princìpi» non scritti che rientrano facilmente nell’ambito del diritto naturale e che tutta la teoria tendeva a escludere categoricamente. La risposta per Kelsen, ancora una volta, è nella Grundnorm: deve essere la costituzione – e quindi la Corte Costituzionale – a stabilire se la norma emanata dal legislatore è giusta o ingiusta, e tutte le questioni di volta in volta aperte si riducono, per così dire, a un problema di diritto costituzionale.

Per così dire, appunto. Se sulla carta il meccanismo appare pressoché perfetto, nella prassi rischia di tradursi in una sorta di abuso istituzionalizzato della maggioranza sulla, o sulle, minoranze. Il costituzionalismo chiuso, infatti, non tutela a sufficienza o non tutela affatto i diritti delle minoranze, che da una concezione rigorosamente autoreferenziale del diritto – fondata sull’esclusione di qualsiasi principio «esterno» – risultano letteralmente stritolati. Criticabile in sé, l’autopoiesi o l’autoreferenzialità del diritto diventa difficilmente sostenibile (e gestibile) in un sistema di democrazie allargate come quello in cui viviamo, e dove l’esigenza di rappresentare i diritti di tutti è particolarmente sentita. In realtà uno dei rimedi possibili è, ancora, il ricorso al costituzionalismo, ma a un costituzionalismo aperto, in cui la carta costituzionale diventa da un lato garante dei princìpi fondamentali, quindi dei diritti dei quali la maggioranza non è legittimata a disporre, e, dall’altro, la matrice di ulteriori princìpi in base ai quali definire il limite esterno. Di fatto le costituzioni vanno assumendo, negli Stati moderni, un valore nuovo, quello di difesa del principio di democrazia come impedimento esterno a ogni possibile abuso da parte della maggioranza. Tutto il contrario di quanto pre figurano sia la dottrina di Kelsen sia la maggior partedelle norme che governano l’economia del capitalismo.

E come sempre quando sono in gioco i princìpi, le dicotomie astratte pongono problemi molto concreti, costringendo a scelte spesso tragiche. L’esempio più immediato – tecnicamente – è la pornografia minorile. In questo caso la difesa di un principio (e cioè il diritto dei minori alla tutela) si scontra con quella di un principio opposto, almeno qui: la condanna di ogni tipo di censura. Diventa quindi inevitabile appellarsi a una valutazione esterna, cioè a un principio terzo. Finora in casi del genere ha prevalso il «principio di differenza» enunciato da Rawls, secondo il quale il soggetto più svantaggiato deve sempre e comunque godere di maggiore tutela. Ma nelle ultime sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, ad esempio, sembra prevalere un orientamento molto diverso e preoccupante, poiché la difesa aggressiva di princìpi assoluti, quali la libertà di opinione e di espressione, appare destinata a travolgere qualsiasi altra istanza, compresa la tutela dei più deboli. E se si immagina questo metodo trasposto su terreni ancora molto vaghi come la bioetica, la preoccupazione si trasforma in allarme. Il dibattito tuttora in corso sulle staminali offre del resto un quadro abbastanza eloquente delle difficoltà in cui ci dibattiamo.

Proprio la mancata tutela dei diritti delle minoranze, della democrazia deliberativa e della concezione in base alla quale uno Stato democratico ha il dovere di sanzionare ogni abuso di maggioranza sono peraltro valse a Kelsen un’accusa molto pesante, quella di aver giustificato – alla luce della Grundnorm, e al di fuori di qualsiasi distinzione di carattere etico – l’assetto giuridico dello Stato nazista. In effetti, le tesi di Kelsen sono molto più sottili di quel che farebbero pensare certe forzature del giuspositivismo, ma al tempo stesso si prestano alla radicalizzazione. E la rassicurazione che «il principio di maggioranza è osservato in una democrazia quando è consentito a tutti i cittadini di partecipare alla creazione dell’ordinamento giuridico, per quanto il suo contenuto sia determinato dalla volontà della maggioranza » – cioè il richiamo al diritto di voto come contrappeso preliminare di qualsiasi futuro abuso – non appare sufficiente. La verità è che per la produzione normativa dell’economia capitalista – anche nelle sue punte di «avanguardia», come il fenomeno cinese – il meno che si possa dire è che la tutela delle minoranze non rappresenta una priorità. Sono argomenti su cui si potrebbe discutere molto a lungo, e lo si è anche fatto. Ma che l’autoreferenzialità del diritto si richiuda come una trappola su chi vi si affida, e porti a costituire sistemi di regole sempre più articolati e sempre meno utili alla costruzione e al mantenimento di società fondate su un minimum di princìpi condivisi, appare innegabile.

Ed è forse da questo stallo che occorre ripartire. I limiti di una concezione autoreferenziale del diritto si toccano con mano quando il modello pangiuridico entra in contatto con un’entità con la quale sembra ambire per natura a fondersi: il cosiddetto libero mercato. Al mercato, oggi, viene attribuita una sorta di potenza magica, in grado di comporre e risolvere qualunque problema economico. Il mercato, secondo i suoi apologeti più intransigenti, si porrebbe come un locus artificialis (non come un locus naturalis), e si identificherebbe solo con lo statuto giuridico, da cui trae il massimo di libertà contrattuale – che è poi la libertà del più forte –, di chi è in grado di imporre la propria volontà.

È abbastanza ovvio che le cose non stanno così, e che quel poco o quel tanto di razionalità presenti in ogni mercato non si reggono necessariamente su un sostrato giuridico. Il mercato è un organismo molto più complesso delle operazioni giuridiche che in esso si svolgono, o della disciplina che lo regola. È un insieme di scambi che fuoriescono dagli schemi contrattuali, e anche dalla sfera del diritto, e la mera esistenza di costi di transazione pone seri limiti alla sua efficienza. A meno di non inseguire il mercato ideale vagheggiato da Pareto, dove il vantaggio di qualcuno non provoca svantaggi ad altri, anche se per partorire questa bizzarra creatura è necessario un genitore scomodo e ingombrante, cioè un «sistema di comando »1[3]autoritario, formale ed esclusivamente riferibile al diritto, con l’esclusione di ogni elemento esterno e quindi di ogni costo di transazione (ma con la presenza inevitabile di forti squilibri fra le condizioni economiche e giuridiche dei vari attori). Al di fuori dei laboratori teorici, cioè nel mondo reale, il mercato è prima di tutto la sede (naturale) di un vastissimo e capillare bargaining, cioè di una contrattazione continua (e solo in parte «giuridica ») che si articola in una serie di pratiche informali. Al suo interno, spesso fortunatamente, regna il disordine, e i contratti sono valutati, e considerati vincolanti, solo in base alla loro efficacia.

La dottrina della Law and Economics americana ha dimostrato, per una volta in modo molto convincente, come anche nella valutazione degli schemi giuridici possa prevalere un opportunismo che va ben al di là del «dilemma del prigioniero». Questo esempio classico della teoria dei giochi vuole che due imputati di uno stesso crimine, se non possono comunicare fra loro, scelgano, in base a uno stesso calcolo di convenienza, la soluzione più svantaggiosa. I contratti e le norme giuridiche vengono spesso considerati in base a un criterio strettamente imprenditoriale: è più conveniente seguire lo schema contrattuale e obbedire alla legge, o essere inadempienti e affrontare le sanzioni che quella stessa legge prevede? Di fatto, nell’ambito del bargaining la valutazione è, per così dire, precedente al diritto, e nei comportamenti il peso di quest’ultimo si va attenuando. Le recenti tendenze alla deregolamentazione dei mercati in tutti i paesi a capitalismo avanzato rappresentano un’ulteriore inconfutabile prova che nega l’esistenza stessa di un ordine rigorosamente legislativo del mercato.

Insomma, il capitalismo finisce, come ho già sopra osservato, per essere vittima di una alluvione legislativa che se da un lato tende ad affermare i princìpi di libertà (contrattuale, d’impresa, di mercato), dall’altro stritola quegli stessi princìpi attraverso la difesa burocratica delle asimmetrie, in un groviglio di regole che fanno prevalere la volontà del contraente più forte, o di quello che paradossalmente non rispetta alcuna regola.

Di fatto, il comportamento «anarchico» dei vari attori ha una causa ben precisa: il bargaining è infatti per definizione around the law, intorno alla legge. Esiste cioè una realtà che precede la legge, e in qualche caso la ignora. Il caso tipico è quello dei cosiddetti grey market, termine col quale i giuristi anglosassoni definiscono tutte quelle situazioni in cui esiste il mercato, ma non il diritto. I grey market, in altre parole, vivono tranquillamente (o no) al di fuori delle preoccupazioni di chi dovrebbe, o vorrebbe, regolamentarli. In Italia, ad esempio, il mercato dei futures esisteva già quando ancora i giuristi discutevano l’ammissibilità di quel tipo di scambio, per certi versi equiparabile al gioco d’azzardo e alla scommessa. E mentre si ipotizzava la nullità degli scambi, gli investitori su quegli stessi scambi guadagnavano – o perdevano – fortune.

Artificiale o naturale che sia, il mercato nasce dal basso, e il diritto è destinato a rincorrerlo, e tutt’al più a tentare di condizionarlo. In questo, precisamente, risiede il suo ruolo – tutt’altro che marginale, come ovvio, ma molto diverso dall’assolutismo normativo con cui a volte lo si identifica. Se regole nuove (e possibilmente efficaci) servono, non vanno dunque derivate (solo) da altre regole, a meno di non voler innescare una proliferazione incontrollabile e vagamente sinistra; non solo di norme, ma anche di comportamenti che le eludono e che richiedono un ulteriore, immediato, intervento normativo. Prendiamo la trasparenza, da tutti considerata una precondizione inaggirabile dell’efficienza e della credibilità dei mercati. Il giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, Louis D. Brandeis, la paragonava qualche anno fa alla «luce del sole, che tutti sanno essere il miglior disinfettante». Eppure quella stessa luce, secondo la fulminante chiosa di Louis Loss, «può causare il cancro della pelle»[4].1 Per fare solo un esempio, escogitare regole che incoraggino i dipendenti di una società a denunciare ogni presunto comportamento «opaco» della società stessa può tradursi nella rottura di altre regole, comunemente accettate per tutele diverse. È così che la trasparenza diventa delazione, quando, come avviene nel Sarbanes-Oxley Act (s. 806), i delatori (i ben noti whistleblowers) siano protetti o vengano addirittura ampiamente ricompensati. Occorreranno regole aggiuntive in grado di tutelare al tempo stesso dipendente e società, in una spirale perniciosa, e tendente all’infinito, di aggiustamenti formali. No, le regole vanno ispirate, nei limiti del possibile, alla realtà e alle sue evoluzioni. Anziché ai codici si deve guardare, come suggeriva Auden, a ciò che esiste sotto il sole: «La Legge, dicono i giardinieri, è il sole, / la Legge è quella / cui tutti i giardinieri obbediscono / domani, ieri, oggi»[5].

[1]Soprattutto in General Theory of Law and State, Cambridge, Mass., 1945 (trad. it. Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, 1952).

[2]Si veda in particolare Taking Rights Seriously, London, 1977

(trad. it. I diritti presi sul serio, Bologna, 1982).

[3]Secondo la definizione di G. Calabresi, L’inutilità di Pareto: un tentativo di andare oltre Coase, in AA.VV., Analisi economica del diritto privato, Milano, 1998, pp. 16 sgg.

[4]Foundamentals of Securities Regulation, Boston, 1983.

[5] W.H. Auden, Un altro tempo, a cura di N. Gardini, Milano, 1997, p. 19.

Il fondamentalismo aziendalista del governo Berlusconi emette dal letto di morte i suoi estremi (ed estremistici) sussurri e grida. Secondo un documento distribuito a tutti i ministri dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Letta "la realtà dello sfruttamento del bene culturale si inquadra a pieno titolo nell´economia d´impresa. In particolare stiamo parlando di una impresa del settore tempo libero-turismo culturale". Coerenti con questa impostazione sono le conseguenze..

Coerenti con questa impostazione sono le conseguenze.

"la gestione (dei beni culturali) dev´essere improntata a logiche imprenditoriali che producano reddito attraverso una impresa ad hoc, proprio perché (il reddito è) destinato a sostenere la conservazione e la fruizione (…) Lo sfruttamento del bene pubblico risponde alle logiche del mercato e collima, sua sponte, con le esigenze della fruizione e della conservazione, poiché il bene è esso stesso il fattore di produzione della impresa". In questo credo iperliberista, il mercato è tutto, regola tutto, è onnipotente. Il bene culturale esiste per essere sfruttato, e solo in quanto produce reddito potrà essere conservato e fruito dai cittadini. Se non produce reddito, è il corollario implicito, liberiamocene velocemente. Non esiste nella Repubblica nulla che meriti il nome di cultura, tradizione, memoria storica, identità nazionale: esiste al massimo il turismo culturale, ed esiste perché può produrre reddito. Si capisce così perché il taglio ai bilanci degli archivi di Stato sia arrivato al 70%: gli archivi non sono fra le mete del turismo culturale. Per la stessa ragione, si mortificano gli Istituti storici nazionali, si licenzia in tronco la Giunta centrale per gli studi storici assoggettandola allo spoil system, si pongono funzionari amministrativi alla testa di soprintendenze territoriali.

Questa offensiva d´inverno arriva, come di rito, in stagione di Finanziaria, e si giova del periodico pianto greco sulla crescita del debito pubblico: un problema, beninteso, drammaticamente reale. Ma come risolverlo? Mettendo a reddito i musei, sostiene Letta. L´illustre giurista Giuseppe Guarino ha un´idea ancor più radicale. In una relazione tenuta a Roma il 26 ottobre egli ha osservato che le enormi (e crescenti) dimensioni del debito pubblico in Italia sono tali da far temere una crisi irreversibile. La soluzione, per Guarino, è di monetizzare la proprietà pubblica, e per tale egli non intende solo le partecipazioni in borsa, quotate e non quotate, o i beni immobili di proprietà pubblica, bensì anche "i beni immobili di interesse storico, archeologico e artistico che sono giuridicamente inalienabili. Per immettere sul mercato tali beni bisogna fornirli di un reddito, ed insieme abrogare, con atto avente forza di legge, il vincolo della inalienabilità". Insomma, Guarino – rimuovendo dal suo scenario la Costituzione – propone un´edizione riveduta e corretta (in peggio) della Patrimonio S. p. A., che come ognun sa si è rivelata un clamoroso fallimento, anche se resta in piedi col suo largo corrredo impiegatizio, come tanti altri enti inutili, accrescendo la spesa pubblica anziché contenerla.

Ma c´è chi continua ostinatamente a credere che il patrimonio culturale ci sia solo per essere "sfruttato", non sia che una fonte a cui attingere per rimpolpare le magre casse dello Stato. Si evita accuratamente di analizzare gli sprechi che sono sotto gli occhi di tutti, e si rimuove dalla coscienza pubblica il più devastante spreco di risorse che ci attende, quello che metterà in ginocchio l´Italia se verranno attuate le devoluzioni imposte dalla riforma costituzionale leghista, irresponsabilmente controfirmata da tutta la maggioranza. Si chiudono gli occhi di fronte alla gigantesca evasione fiscale: secondo una stima del ministero dell´Economia ("Il Sole-24 ore" del 19 luglio di quest´anno) le tasse evase ammontano ogni anno a 210 miliardi di euro. E´ una stima conservativa: come ha scritto Vladimiro Giacché, sulla base di dati della Guardia di Finanza si potrebbe arrivare a una stima ben più alta, 410 miliardi di euro l´anno. Ma l´evasione fiscale non si può toccare, in un Paese il cui presidente del Consiglio ama elogiare l´economia sommersa e l´evasione fiscale, e farlo in un discorso alla Guardia di Finanza (11 novembre 2004), e in cui si susseguono senza tregua e senza pudore condoni su condoni.

La questione del patrimonio culturale è, su questo sfondo desolante, doppiamente centrale: perché l´esecuzione sommaria prospettata da documenti come quelli citati ignora e calpesta la Costituzione e le molte sentenze della Corte che ribadiscono la primarietà del valore culturale su quello economico. Ma anche perché dimostra l´incompetenza tecnica di chi ritiene che i costi di gestione dei musei e dei monumenti si possano coprire "mettendoli a reddito", con maldestro riferimento al modello americano. Negli Stati Uniti, i musei privati non coprono mai più del 15-20% dei costi di gestione con ricavi propri. Il resto è coperto dal loro endowment (che è spesso di svariati miliardi di dollari), debitamente investito, o da donazioni. La rilevanza economica del patrimonio culturale si calcola sulla base dell´indotto che innesca, non dei ricavi diretti che produce. Dovrebbero averlo capito anche i bambini. In questo scenario di improvvisazioni e di imboscate ai danni del nostro patrimonio culturale e della Costituzione, più urgente ancora è, nella vigilia elettorale che attraversiamo, che tutti i partiti, finora chiusi in uno strano riserbo, dicano a chiare lettere quali sono i loro progetti su questo fronte tormentato.

La documentazione del sito PatrimonioSOS

Cos’è il futuro? È qualcosa verso la quale noi tutti siamo diretti, e quindi, volendo allargare il concetto, il futuro è esattamente la nostra vita. Ed è naturale, dunque, che ognuno di noi guardi alla propria vita nella maniera migliore possibile. Spesso la gente mi chiede di predire il futuro, ma tutto quello che io voglio è prevenire il futuro, o meglio, costruirlo. Predire il futuro è troppo facile, comunque, basta guardare la gente attorno a te, la strada dove cammini, l’aria che respiri, e il gioco è fatto, perché in futuro ci sarà altra gente, altre strade, altra aria. Io voglio di più di questo, voglio di meglio.

Oggi noi accettiamo l’esistenza dei "futurologi", categoria alla quale personalmente non appartengo. Io non prevedo il futuro, non ho mai avuto né l’ambizione di farlo né le possibilità. Quello che ho fatto è stato cercare di prevenire il futuro, di imparare dagli errori del passato per cercare di evitare che questi errori siano ripetuti in futuro. Come? Scrivendo i miei libri, i miei racconti, cercando di raccontare agli altri quello che deve e può essere evitato. E tutti noi possiamo farlo. Attraverso l’educazione, l’insegnamento, le cose più importanti per assicurare a noi stessi e ai nostri eredi un futuro, un futuro migliore.

In questi tempi sono al lavoro assieme agli studenti del California Institute of Arts per la Future Fest, una manifestazione nella quale gli studenti presentano i loro lavori che hanno come tema il futuro. Io seleziono i migliori, ne ho visti tanti, e devo dire che i ragazzi hanno un idea del futuro che è particolarmente affascinante, perché immaginano un mondo che, nonostante tutto quello che vedono e leggono ogni giorno, è senza dubbio migliore. Io non credo che siano ottimisti, credo che abbiano, piuttosto, amore per la vita.

È possibile un futuro migliore. Tutti lo abbiamo sempre desiderato e fino ad oggi credo che ci siamo riusciti. Non sono un pessimista per natura, ma so anche che la vita in passato è stata certamente peggiore di quella che oggi viviamo. Gli esseri umani hanno ottenuto buoni risultati nella loro evoluzione, hanno inventato oggetti meravigliosi, hanno vissuto spingendosi sempre oltre quelle che apparentemente erano le loro più estreme possibilità, sono andati sempre avanti e hanno migliorato le condizioni di vita su questo pianeta anche per le generazioni che sono arrivate dopo, e che hanno continuato su questa strada. E quando gli uomini hanno scelto strade sbagliate, altri uomini li hanno combattuti.

Il nostro futuro come sarà? Non lo so, non lo posso sapere, ma di certo, leggendo la storia , so che abbiamo battuto dittature terribili, negli anni quaranta il nazismo e il fascismo, negli anni ottanta abbiamo battuto il comunismo, e ora arrivano segnali che persino la Cina si sta muovendo e la Corea non potrà restare nelle condizioni in cui è ancora a lungo. Certo, ci sono problemi come quelli del Medio Oriente dove è ancora difficile vedere una soluzione definitiva, ma credo che nonostante tutto anche in quella sofferente parte del mondo, come in Africa, le cose andranno meglio. Prevedo il futuro? No, prevedo il passato e cerco di prevenire il futuro. So che ci sono molte cose che possono essere fatte, proprio perché in passato gli esseri umani ne hanno fatte altre, spesso più complicate e difficili di quelle che oggi dobbiamo affrontare.

C’è chi pensa che il mio Farhenheit 451 fosse un libro pessimista, che dipingesse un futuro di censure e controlli terribili. E invece io credo che non lo fosse affatto, non solo perché anche in quel racconto c’era chi si opponeva alla censura e al controllo, ma anche perché l’intero racconto era, lo ripeto ancora, un modo per prevenire il futuro. Penso che uno degli scopi della letteratura sia proprio quello di provare non ad immaginare il futuro ma a costruirlo in maniera migliore. Io ho sempre pensato che il mio lavoro fosse quello di far innamorare chi legge.

Ho un solo consiglio da dare a chi vuole provare ad immaginare il proprio futuro: quello di vivere la vita con il massimo della passione, cercando di impegnarsi nel proprio campo con ingegno ma soprattutto con amore. Io volevo scrivere e amavo la letteratura, in sessant’anni non ho mai tradito il mio desiderio per la scrittura e il mio amore per la letteratura, non ho passato un solo giorno della mia vita senza leggere o scrivere qualcosa e credo che questo abbia contribuito a far si che il mio futuro fosse sempre brillante, anche quando le cose non andavano esattamente come io speravo. E poi bisogna riempire i propri occhi di meraviglia, cercare sempre cose nuove, esplorare il mondo come se si avessero davanti solo dieci minuti di vita. Il mondo, da questa prospettiva, è più fantastico di qualsiasi sogno, e il presente è il futuro più meraviglioso che c’è.

Testo raccolto da Ernesto Assante

Aveva vent’anni anche lui, in piazza Santo Stefano, ma lui solo aveva paura. Era l’unico armato, era un soldato lasciato di guardia: forse ce n’erano altri, ma nel ricordo mi appare da solo, un elmetto calato su occhi sgranati e lucidi fra gente che sognava il cielo o una terra diversa. Settembre del ’77, Bologna invasa dagli “autonomi” dell’ultra sinistra e dai fedeli del Congresso Eucaristico: nel bozzolo d’una cappa da frate o d’un sacco a pelo in tanti avevamo vent’anni, ed anche lui, armato e imbacuccato in un sole multicolore che pareva importato dalla riviera.

«I militari americani hanno sempre il diritto all’autodifesa quando si sentono minacciati», ha spiegato il sergente Don Dees, portavoce del comando militare della forza multinazionale in Iraq. Meglio di così non poteva esprimersi, nella notte della libertà per Giuliana Sgrena e della morte per un soldato come lui, Nicola Calipari.

I militari dei check point hanno il diritto, hanno sempre il diritto, di cancellare col fuoco la sgradevole percezione di una minaccia. Tanti camerati uccisi danno loro questo potere, ma anche l’impunità del bambino che ammazza le formiche.

Non disprezzo chi ha sparato, anche Calipari sapeva cos’è un pattugliamento e che nessuno è padrone della sua paura. Sapeva anche che al check point il soldato sta sulla prima linea dell’odio, icona polverosa e sgualcita della libertà di cui ti priva un tizio venuto da lontano che non capisce la tua parlata, apre al rovescio il tuo passaporto, potrebbe essere tuo figlio ed è padrone del tuo tempo, di tutto il tuo tempo.

Tanti ne ho visti, e non ho girato moltissimo.

Quando penso a Luisa Guidotti, medico missionario, uccisa da una guardia in Rhodesia (aveva accelerato, dissero, ma aveva anche fatto, mesi prima, qualcosa che non era piaciuto al presidente dell’epoca), ricordo i soldati in mutande e casacca che fermavano le macchine, sulle piste d’un altro paese africano. Ubriachi, cercavano soldi, per bere ancora. Sbronzi come il riservista israeliano, al check point sulla strada per Betlemme, cui chissà perché venne voglia di baciare il padre Boismard, allora quasi ottuagenario. Di tanti anni di code e controlli, è un ricordo alla Bonvi, amaro e in fondo simpatico. E quell’altro d’origine russa,inscimmionito da strati di juta e di fritto, biondo e paonazzo di rabbia, che prese a calci la garitta ad Hebron quando il suo ufficiale gli disse di non fare il cretino.

Lo sguardo ebete e duro di chi mischia droghe e paura, ma armati, maledettamente armati, e tronfi del loro diritto di sparare because they feel. Da un lato la soggettività d’un sospetto, d’una valutazione, dall’altro uno che non c’è più. Più e basta, oggettivamente.

Tanto, nella lingua degli ascari, la fifa assassina si chiamerà incidente, casualità, fatale errore, come un aereo da guerra che centra una funivia di turisti, e chi è morto non potrà parlare. Non ne aveva «il diritto» quand’era vivo, quando poteva ancora mostrare una tessera, dare ragioni, spiegarsi, figuriamoci adesso.

L’OSSERVAZIONE della realtà attraverso le lenti nazionali trae in inganno. Le cause delle periferie francesi in fiamme non vanno rintracciate soltanto in Francia, così come non fanno presa i concetti apparentemente ovvi di «disoccupazione», «povertà», «giovani immigrati». In effetti, qui affiora una nuova linea di conflitto del ventunesimo secolo. La questione centrale è la seguente: che fare di coloro che vengono esclusi dal bel mondo nuovo della globalizzazione?

La globalizzazione economica ha spaccato il mondo, provocando una frattura che taglia trasversalmente i confini nazionali. Centri superindustrializzati in rapida espansione sorgono accanto a deserti improduttivi - e non «là fuori», in Africa, ma anche a New York, Parigi, Roma, Madrid e Berlino. L’Africa è ovunque. È diventata il simbolo dell’esclusione. C’è un’Africa esterna e ci sono molte Afriche interne, in Asia e in America meridionale, ma anche nelle metropoli europee, dove le disuguaglianze radicali del mondo modellano il loro volto particolare in tendenze globalizzanti e localizzanti. E i significati apparentemente eterni delle parole «povero» e «ricco» cambiano.

I vecchi ricchi si servivano dei poveri per diventare ricchi. I nuovi ricchi globalizzati non hanno più bisogno dei poveri. Per questo i figli francesi di immigrati africani e arabi, che trascinano un’esistenza senza prospettive ai margini delle grandi metropoli, sono più che semplici poveri, più che semplici disoccupati. Infatti, i concetti di «povertà» e «disoccupazione», così come li intendiamo, erano riconducibili al gioco di potere della società di classe organizzato nel quadro degli Stati nazionali. Ma questo presupponeva ciò che vale sempre meno per quote crescenti della popolazione mondiale, ossia che la povertà è una conseguenza dello sfruttamento e quindi è utile: la povertà degli uni consentiva la ricchezza degli altri. Questa premessa storica diventa fragile.

All’ombra della globalizzazione economica sempre più persone cadono in uno stato di disperazione senza vie d’uscita, dovuto principalmente al fatto che di questi individui semplicemente non c’è bisogno. C’è di che restare sgomenti. Essi compongono un «esercito di riserva» (come lo chiamava Marx) che tiene basso il prezzo della forza-lavoro umana. L’economia può crescere anche senza il loro contributo. I governanti possono essere eletti anche senza i loro voti. I giovani «superflui» sono cittadini solo sulla carta, ma in realtà sono non-cittadini e quindi rappresentano un’accusa vivente per tutti gli altri. Essi rimangono fuori anche dall’immaginario del movimento operaio. Cosa sono per la società? Un «fattore di costo»! La loro «utilità residuale» sta forse nel fatto che alla fine, spinti dall’odio e dalla violenza insensata, essi distruggono sé stessi e inscenando questo dramma che spaventa i borghesi offrono ai movimenti e ai politici della destra populista un’occasione per ottenere visibilità.

In Germania, ma anche in molti altri Paesi, si è addirittura ossessivamente convinti che le cause dell’inclinazione alla violenza di questi giovani vandali immigrati vadano rinvenute nella cultura d’origine e nella religione tradizionali dei migranti. Studi empirici prodotti dalla sociologia meglio attrezzata per affrontare queste questioni dimostrano il contrario: non è la mancata integrazione, ma l’integrazione riuscita o, più precisamente, la contraddizione tra assimilazione culturale e l’emarginazione sociale di questi ragazzi a nutrire il loro odio e la loro disposizione alla violenza. Non si tratta affatto di immigrati legati alla loro cultura di origine. Questi ragazzi assimilati, figli di immigrati, non hanno desideri e atteggiamenti diversi dai gruppi di loro coetanei del Paese ospitante. Al contrario, gli assomigliano molto; e proprio perché commisurato a questa realtà, il razzismo dell’emarginazione è così tremendamente insopportabile per questi eterogenei gruppi giovanili e così scandaloso per tutti gli altri.

Per esprimere questo stato di cose con un paradosso, si può dire che la mancata integrazione della generazione dei genitori attenua i problemi e i conflitti, mentre l’integrazione riuscita della generazione dei figli li aggrava. I genitori dei giovani vandali, che erano emigrati dall’Africa del Nord ed erano rimasti legati al loro contesto d’origine, controbilanciavano la loro insufficiente integrazione e la loro aperta discriminazione con la crescita materiale che ciò nonostante avevano conosciuto. Perciò sopportavano il loro destino di outsider e di emarginati meglio dei loro figli, che hanno perduto il contatto con il contesto africano d’origine.

Corrispondentemente, i giovani protagonisti della rivolta delle periferie descrivono la propria condizione con i concetti di dignità, diritti umani ed emarginazione. È però significativo che, anche se sono disoccupati, non facciano alcun riferimento al lavoro.

Non si riesce a togliere dalla testa delle élite dell’economia e della politica l’idea del lavoro per tutti. Pertanto, esse sono singolarmente incapaci di percepire quanta disperazione che si stia diffondendo nei ghetti dei superflui che si vedono tagliati fuori dalla possibilità di ottenere, grazie

SALVO improbabili sconquassi fra i partiti di governo, oggi il Senato porrà il timbro finale sulla riforma della Costituzione. Una riforma unilaterale, come e più di quella decisa dall'Ulivo in solitudine, sul volgere dell'ultima legislatura. Una brutta riforma, come dichiarano all'unisono costituzionalisti di destra e di sinistra, e che d'altronde non pochi parlamentari s'apprestano a votare turandosi il naso con due dita. Una riforma quantomai ambiziosa, dato che rivolta come un calzino la nostra vecchia Carta, correggendo 52 dei suoi 134 articoli, e aggiungendone altri 3 per sovrapprezzo. Ma infine una riforma che approda in porto dopo 26 anni d'insuccessi (era il 1979 quando Craxi, con un fondo sull'Avanti, avanzò per primo l'idea della «grande riforma»), d'accordi sfumati per un soffio (come quello fra D'Alema e Berlusconi, nel 1998), di progetti e bicamerali e comitati finiti in malora uno dopo l'altro.

Ecco: perché? Perché in Italia non si riesce a battezzare una riforma sufficientemente condivisa? E perché, quando una parte s'impone contro l'altra, l'esito è sempre mediocre, sul piano tecnico ma altresì ideale? Eppure una Costituzione è quanto di più vicino a un testo sacro che la legge umana possa concepire; non a caso fra i rivoluzionari francesi del secolo dei lumi c'era chi pensava di vietarne la revisione con la minaccia della morte. E del resto ogni Costituzione ambisce a sopravvivere alla generazione che l'ha partorita, proteggendosi con un procedimento speciale ed aggravato per modificarne il testo. Anche a costo d'infrangere lo stesso principio democratico, che vorrebbe la maggioranza liberamente scelta a propria volta libera di stabilire le regole della comune convivenza. Ma invece no: in questo caso serve (dovrebbe servire) l'accordo con l'opposizione, e perciò un colpo di reni tra forze politiche divise, un soprassalto d'unità quale avvenne nel 1947, fra i banchi della Costituente, e quale in Italia non si è più ripetuto.

Sicché torna ad affacciarsi la domanda: perché? E dove si fonda la pretesa della generazione costituente di vincolare le generazioni successive, d'impegnarle su un testo scritto da altri, in un'altra epoca, in un altro clima culturale? Potremmo rispondere con le parole di John Adams, che fu il secondo presidente degli Stati Uniti, a cavallo fra il Settecento e l'Ottocento. Lui diceva che quella pretesa discende dall'eccezionalità dell'opera compiuta dalla generazione costituente: la liberazione dalla tirannide, l'edificazione della libertà, dell'indipendenza nazionale, della pace, della prosperità. È questo che le dà diritto di decidere un governo per sé e per i propri figli, facoltà che in genere gli uomini non possiedono più di quanta ne abbiano di scegliersi l'aria, la terra su cui nascono, il clima. Insomma un diritto guadagnato in uno di quei rari tornanti della storia che ai nostri costituenti capitò di attraversare, affratellandoli come non è più accaduto alle generazioni successive.

Perché fra di loro c'era un vissuto comune, una comune esperienza di vita. Quella temprata dalla guerra, ma ancor prima dall'«università del carcere», dove fermentò l'intesa tra operai ed intellettuali, così come fra laici e cattolici, fra liberali e socialisti, chi più chi meno tutti perseguitati dalla dittatura, dato che le galere fasciste si aprirono per Gramsci e per Pertini, ma anche per De Gasperi. D'altra parte a Napoli fu devastata la casa di Benedetto Croce al pari di quella di Arturo Labriola. E don Sturzo sperimentò l'esilio non diversamente da Togliatti. Sì, erano uomini d'una pasta speciale, i nostri padri fondatori. Le nuove istituzioni vennero progettate da un'élite, da un gruppo composito e compatto d'intellettuali e di politici quale forse mai l'Italia aveva avuto nel passato. Ecco perché quella generazione riuscì infine a licenziare una Costituzione che le è sopravvissuta. Agendo, secondo il verso dantesco, «come quei che va di notte, che porta il lume dietro e a sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte». Lo ricordò in un suo celebre intervento Piero Calamandrei, costituente fra i più illustri. Ma Calamandrei non c'è più; adesso c'è soltanto Calderoli.

micheleainis@tin.it

Sullo stesso argomento, l'Opinione di Vezio De Lucia

A novembre scorso, quando si votò per le presidenziali negli Stati uniti, l'America cattolico-militante, creazionista e familista che premiò Bush per la guerra contro l'Islam pareva ancora lontana, e il dibattito che ne seguì per le sorti del centrosinistra italiano - paga di più puntare sugli interessi o sui valori - fu come al solito alquanto accademico e salottiero. Meno di sei mesi dopo, con il referendum sulla procreazione assistita, quell'America ci è piombata in casa nelle sembianze dei teo-con nostrani (Ferrara+Fallaci), del potere temporale del cardinal Ruini, degli appelli cattolici all'astensione della seconda e terza carica dello Stato laico, del sinistro miscuglio di ontologia sacra e riduzionismo biologico con cui si santifica l'embrione, della bolla papale di ieri sera contro la «liberazione della natura da Dio». Un anno fa, quando la Francia laica votò la legge contro l'uso del velo nelle scuole, camuffando con argomenti egualitari ed emancipazionisti e integrazionisti un provvedimento che colpevolizza le ragazze islamiche che si velano per forza o per scelta, la Francia pareva lontana. Anch'essa invece si avvicina, nelle sembianze del nostrano ministro della giustizia che propone di denunciare e multare le donne con il burqa. Il paragone è blasfemo, lo so: la legge francese agisce in nome della Republique, della sua religione laica, dei principi dell'89, dell'integrazione degli immigrati nella cittadinanza neutra; l'ingegner Castelli agisce in nome del binomio paura e ordine, punto e basta. Però anche lui, come il rapporto della commissione Stasi che preparò la legge francese, parla di principi e valori basilari che devono accomunare tutti quelli e quelle che abitano il territorio nazionale; e anche se la sua intenzione è esplicitamente criminalizzante, mentre quella della legge francese lo è solo implicitamente, il risultato è lo stesso: «le donne degli altri uomini» come posta in gioco dello scontro di civiltà, sulla linea inaugurata dalla solita America di Bush con le guerre all'Afghanistan e all'Iraq legittimate in nome della liberazione delle afghane e delle irachene dal burqa e dal patriarcato islamico.

Pochi giorni fa, quando Newsweek diede notizia del Corano buttato nelle latrine nel campo di Guantanamo e poi ritrattò, abbiamo sperato tutti che la notizia fosse falsa e la ritrattazione veritiera, ma poi è arrivata la conferma del Pentagono: la notizia era vera, e aggiunge sale sulle ferite degli ordinari trattamenti disumanizzanti di Guantanamo e delle torture dell'anno scorso a Abu Ghraib. L'Afghanistan non ha gradito, l'Egitto nemmeno: il caso non è chiuso.

Stiamo precipitando, anzi siamo già precipitati, nel mondo postmoderno delle guerre di religione premoderne. Preventive, dichiarate o malcelate che siano. Combattute dalle istituzioni o dai civili, dai credenti e anche dai laici. L'Islam è stato solo il nemico numero uno, ma la caccia si è rapidamente estesa alla scienza, alle biotecnologie, agli eredi del totalitarismo (cioè agli ex comunisti, perché gli ex fascisti invece vanno assolti), al femminismo. Leggere Fallaci per credere. Oppure la hit parade neo-con americana dei «dieci libri più dannosi della storia umana», resa nota venerdì scorso da Vittorio Zucconi su Repubblica: il Manifesto di Marx e Engels, Mein Kampf di Hitler (unico titolo di destra), il libretto rosso di Mao, il Rapporto Kinsey sulla sessualità, la filosofia pragmatista di John Dewey e quella positivista di Auguste Comte, Il Capitale di Marx, La mistica della femminilità di Betty Friedan e Il secondo sesso di Simone De Beauvoir che diederorigine alla rivolta femminista negli anni 60, Al di là del bene e del male di Nietzsche, e poi ancora Keynes, Darwin, la relativista Margaret Mead, Adorno e Freud, i Quaderni dal carcere di Gramsci. Di che stupirsi? Guerre di religione e roghi di libri sono sempre andati a braccetto. E' la democrazia che non si sa come collocare in questa compagnia.

Il gesto d'amore con cui l'allenatore di pugilato Clint Eastwood, in Million Dollar Baby, stacca la spina del respiratore che tiene in vita la sua disgraziata allieva Hilary Swank è il miglior intervento politico proveniente dagli Stati uniti dell'era Bush sulla triste materia dell'eutanasia. Dalla massima istituzione degli Stati uniti, invece, proviene un gesto di arroganza che di politico non ha nulla, salvo rassegnarci ormai a considerare questo aggettivo sinonimo di strumentale.

La posta in gioco della trovata escogitata dal Congresso per tentare di sospendere l'interruzione dell'alimentazione artificiale di Terri Schiavo non è la vita di Terri Schiavo: è la campagna pubblicitaria di un governo che impugna alternativamente la bandiera della Vita o quella della Bibbia o quella del Bene per rastrellare consensi a una politica fatta di guerra e di cinismo. I sovversivi di Hollywood contro i reazionari di Washington, copione già sperimentato nella storia americana? Il grande schermo che ancora una volta batte in qualità e verità il piccolo schermo su cui va quotidianamente in onda il gioco politico postdemocratico? Anche, ma non solo.

La materia triste dell'eutanasia è anche una materia tragica, infinitamente tragica, cioè indecidibile una volta per tutte. Una di quelle materie - di questi tempi di sconfinamento fra biologia e tecnologia ce ne sono sempre più - in cui non c'è norma ma sempre eccezione; e dunque la legge non dovrebbe pretendere di dire la parola definitiva, ma solo consentire alle storie singolari di decidere dosando la pena e la speranza, la ragione e l'istinto con umana pietà. Il cinema sa raccontare questi territori impervi della condizione umana, ai quali la politica non sa più arrivare né parlare. Ma nel caso di Terri c'è di più.

C'è una inquietante e sintomatica analogia fra accanimento terapeutico e accanimento istituzionale. Quindici anni di stato vegetativo di una malata senza speranza, dodici di battaglie combattute fra tribunali, corti d'appello, corte suprema, parlamento statale e federale; e i Bush al gran completo, prima il governatore Jeb poi il presidente George W., a tentare di mettere il marchio di famiglia sulla sopravvivenza muta di quella vita senza vita. Così è fatto il biopotere del terzo millennio: marche da bollo, tribunali, parlamenti e tecnologie, alleati e concorrenti nella gara per il potere di vita e di morte sulla nostra vita e sulla nostra morte e sul loro indecidibile, singolare confine.

Quella spina ieri è stata infine staccata. Il giudice ha vinto sul Congresso? Non è ancora detto: nell'ultima riserva di sopravvivenza di Terri possono infilarsi ulteriori macabri colpi. Piccoli avvoltoi nostrani intanto si avventano sul suo corpo senza parola per trarne argomenti a favore della crociata sull'embrione. L'accanimento biopolitico a difesa della vita è l'ultima arma di una politica senza vita.

L’anno che comincia dovrebbe, dovrà, essere l’anno della liberazione del nostro paese dall’occupazione di Berlusconi e delle sue bande, dalla Lega ad An. Tutte bande ambiziose, ma oggettivamente subalterne al Cavaliere. Nell’aprile del 2005 questa liberazione - dato il risultato delle elezioni regionali - la davamo per scontata. L’Italia era uscita -pensavamo noi del manifesto -dall’ubriacatura e saremmo tornati a ragionare. Purtroppo la storia non va come le lezioni a scuola. La grande guerra delle banche e l’audace tentativo di Unipol di impadronirsi della Bnl - la banca nazionale di Nitti e poi di Mussolini - ci hanno messo nei guai. Quasi a dimostrare - con ostinazione classista - che i poveri e le cooperative non possono sedersi al tavolo dei signori. Il tentativo di Unipol e di Giovanni Consorte, che io stimo, di ottenere un posto alla tavola dei signori è fallito e su Unipol e Consorte sono cadute tutte le accuse - dovranno esser dimostrate, ma non sarà difficile - di corruzione e imbroglio. L’idea che si possa avere una finanza rossa è priva di fondamento e contraddittoria: la finanza (Marx aveva scritto qualcosa a proposito) è finanza e ha le sue regole che niente hanno a che fare con le speranze del proletariato. Così è andata male. Il tentativo di conquistare il castello del potere, usando le armi del castello del potere, è andato male, e non poteva essere diversamente. E’ una regola: nessuno vince imitando l’avversario. Però si potrebbe dire che le sconfitte, quella dell’Unipol, sono (possono essere) anche un insegnamento. Un insegnamento a essere diversi: se vogliamo assomigliare all’originale, è sicuro che vince l’originale e che noi siamo condannati come bassi imitatori. In questa epoca di massima globalizzazione (una relativa globalizzazione c’era già ai tempi dell’impero romano) bisogna avere idee globali, antiteticamente globali. Questa è la sfida dell’anno che viene, di questo 2006, che potrà essere la conferma di quel che già si è realizzato, o una svolta. Questo - e mi scuso per la presun-zione di questo giornale da tanti anni «dalla parte del torto» - per dire che non si può andare avanti attraverso piccoli aggiustamenti, «io faccio le stesse tue cose, ma un po’ meglio di te». Se entriamo nel 2006 bisogna cambiare qualcosa delle nostre vecchie astuzie politiche, quelle che - bene o male - hanno funzionato nel secolo scorso. Siamo da qualche anno nel nuovo secolo e dobbiamo sforzarci di avere l’intelligenza, la curiosità e la volontà di capire che il tempo è cambiato e che gli insegnamenti del passato sono piuttosto obsoleti. Se - come possiamo - vogliamo liberarci di Berlusconi, dobbiamo avere idee nuove e più coraggiose. Non credo che le astuzie della vecchia politica, le idee di partito democratico o altro ci possano aiutare. Sforziamoci di non essere come quei vecchi che sanno come finiscono tutte le storie. Nel mondo c’è del nuovo che dobbiamo sforzarci di capire. Capire per agire.

Pier Paolo Pasolini prima di tutto fu poeta. Poi autore di romanzi, basti pensare al suo esordio nel 1955 con 'Ragazzi di vita' e al successo, quattro anni dopo, con 'Una vita violenta'. Ma era anche drammaturgo e saggista appassionato, fazioso. Quindi, a partire dal 1961 con 'Accattone', tra i più grandi del cinema italiano. Sino al 1975: l'anno di 'Salò o le 120 giornate di Sodoma'. E l'anno della sua tragica fine, assassinato il 2 novembre. Cosa è rimasto, a trent'anni dalla sua morte, di così tanta e poliedrica opera di Pasolini? In questa esclusiva, e dissacrante, intervista è uno dei maggiori poeti e intellettuali tedeschi, Hans Magnus Enzensberger, a prendere posizione sulla sua figura e opera. Enzensberger ha tutti i titoli per farlo. Non solo in quanto grande poeta e uomo per decenni impegnato nelle battaglie politiche e culturali, come lo fu Pasolini, ma anche perché è stato lui, assieme all'editore Klaus Wagenbach, a far conoscere l'opera di Pasolini in Germania e un po' in tutta l'Europa: è stato lui a trasformare la figura del poeta assassinato in un simbolo non solo italiano, ma di tutto il nostro Continente.

Signor Enzensberger. Partiamo dalla domanda del poeta tedesco Hölderlin: "Perché i poeti nel tempo della povertà"? Per dirla in prosa, che senso ha la poesia, quando si parla di un uomo come Pasolini?

"Rispondere oggi alla domanda di Hölderlin, e di Pasolini, significa constatare con sincera brutalità che l'istituzione e il mestiere del poeta hanno perso d'importanza. Oggi il terreno su cui il poeta si muove a suo agio si è drasticamente ridotto. C'è meno spazio per le passioni e per la violenta rabbia, tipiche di Pasolini".

Cosa in particolare è cambiato nel mestiere del poeta e, soprattutto, perché?

"Non c'è spazio per il sublime. E così è cambiata la posizione sociale del poeta: in giro non si vedono i mostri sacri. Pasolini è stato recepito in Italia come l'ultimo dei mostri sacri. Così come l'ultimo dei nostri - nello spazio tedesco - è stato il poeta Paul Celan. Nella galleria dei 'mostri' che da Hölderlin finisce da noi con Celan, Pasolini occupa l'ultima sezione, ormai museale, delle muse italiane".

Sta dicendo che Pasolini è un classico?

"È stato l'ultima istanza a cui la gente ai suoi tempi si poteva ancora, nel bene o nel male, appellare. Sino agli anni Settanta, infatti, ci si rivolgeva al poeta per scrutare il segreto della vita. E Pasolini credeva e corrispondeva alla sua funzione di sacro mediatore dell'ultimo senso delle cose e della vita. E questo è solo il primo dei sacri furori che hanno gravato nella sua biografia e opera".

Qual è l'altro?

"Il secondo è legato alla divinazione del destino politico di una società, anzi del genere umano. Pasolini ha creduto come pochi altri in Italia alla funzione politica, cioè pubblica del poeta. Oggi ci siamo liberati di questi due estremi pesi, sia sociali che politici, della poesia: siamo più liberi di Pasolini, e più leggeri nel nostro mestiere".

Da dove derivava in Pasolini questa doppia funzione del mestiere poetico?

"Si può credere di rivelare nella poesia il senso delle cose, mostrando al contempo all'umanità il fine ultimo, solo se si crede all'idea romantica del poeta come Genio. Ma che razza di vita, che carriera è quella del presunto Genio? Io non vedo un pizzico di gioia in queste vite costruite come opere d'arte che, per giunta, hanno sempre paura di contaminare la propria lingua e, appunto, la vita".

Le prime composizioni di Pasolini sono in dialetto, una lingua che lui sentiva pura. È un aspetto di Pasolini che a lei non piace?

"Anche la mia giornalaia qui all'angolo della strada a Monaco parla un perfetto bavarese. Ma non si pone il problema se la sua sia una magica lingua paradisiaca o adamitica. Lei, nel dialetto, si sente bene, come a casa propria, punto. È solo ideologia cercare di scavare nei dialetti chissà quali tesori ancestrali e originari".

All'origine del lavoro poetico di Pasolini rivede i romantici tedeschi, vero? Ed è questo che non piace a lei illuminista?

"Certo. I romantici hanno abilmente ricostruito ballate popolari e dialettali. E il tutto proiettato sull'oscuro sfondo di un melenso medioevo neogotico. Èd è qui che ha l'origine l'ideologia della lingua poetica pura e vera, tanto cara a Pasolini".

Non le pare di esagerare legando il gramsciano Pasolini alle reazionarie fantasticherie dei Romantiker tedeschi?

"Non è colpa mia se Pasolini, e prima di lui Gramsci, hanno creduto a certi filosofemi della storia e della lingua, che in realtà sono solo abbreviazioni mitologiche".

Ha sempre però riconosciuto la grandezza di Pasolini.

"Pasolini era una geniale bomba radicale, un esplosivo miscuglio di autentica fede cattolica più marxismo eterodosso più omosessualità. A cui si aggiunga la miccia del suo estremo gusto per la provocazione. Pasolini era un vero poeta che ha tentato, visto i tempi in cui ha vissuto, di appigliarsi e appropriarsi in fretta della terminologia marxista dell'epoca. Ma che certo non poteva che travisare sia la natura della tecnica che delle scienze moderne. Al vero marxista esse appaiono come meraviglioso sviluppo delle forze produttive. Agli occhi di un poeta come Pasolini, invece, alla ricerca della lingua e del paradiso perduti, non potevano che apparire come l'ultimo 'genocidio'".

Il suo primo grande scandalo è, nel '55, il romanzo 'Ragazzi di vita', per cui Pasolini subi-sce il primo processo per oscenità. Che valore ha, per un poeta, lo scandalo?

"Un valore per cui l'epoca e l'opera di Pasolini sono invidiabili: nemmeno la più cruda industria pornografica fa oggi scandalo, figuriamoci se può riuscirci un romanziere o la più rarefatta poesia".

Vuol dire che oggi Pasolini non farebbe più scandalo?

"Voglio dire che oggi Pasolini lancerebbe i suoi strali contro i produttori dello scandalo continuo: dalla tv al cinema. E poi, secondo lei, chi è stato, nel campo sempre più stretto della letteratura, a cominciare con questa litania dello scandalo?".

Non mi dica il vostro Goethe...

"Proprio lui col suo romanzo del giovane suicida Werther: e da allora, anno 1775, il leitmotiv della provocazione - far la pipì su crocifissi o mettere cacche di mucca su madonne, come vediamo ogni giorno nei teatri di provincia- non sconvolge più nessuno. La poetica dello scandalo s'è ridotta al formato del chiacchiericcio molesto del quotidiano: mica c'è bisogno di un grande Pasolini per scioccare il lettore".

'Una vita violenta' fu il vero successo internazionale di Pasolini...

"Ho sempre preferito la rocambolesca macchina linguistica di Gadda. Per me, la vera vena di Pasolini era altrove".

Dove?

"È stato un polemista micidiale, irriverente, un pirata. Incredibile quello che riusciva a dire nei suoi interventi così politicamente scorretti: infilarsi nella mente dei poliziotti nel periodo della contestazione di massa era allora una cosa da vero coraggioso corsaro".

Nell'officina di Pasolini c'era antropologia, psicologia e linguistica: che ne è oggi di questa vena in poesia?

"Non ho capito perché i poeti contemporanei si fermano a scienze così deboli come la sociologia. E non entrano nei paradisi della matematica o nella linguistica, passione che condivido con Pasolini".

Qui potete leggere, e scaricare il file musicale, della bellissima cantata di Giovanna Marini

«Forse non è un caso che la nuova lista di proscrizione, stilata dalla rivista conservatrice Human Events, provenga dal paese che ha generato il maccartismo», dice Luciano Canfora, autore di un saggio laterziano intitolato Libri e Libertà. «Liber, in latino, vuol dire due cose: libero e libro. Un accostamento che vorrà dire pure qualcosa».

Letture pericolose, infide, nefaste per la salute mentale dell’umanità. La storia è piena di roghi reali e simbolici, che attraversano epoche e culture differenti. A destra come a sinistra. Allestiti dai pagani ma anche dai cristiani, dai seguaci della Riforma Protestante e dai Controriformisti, dai compagni di Diderot e dai loro nemici. «Quando si parla di censura libraria, si tende a indignarsi: questo è giusto. L’elemento falso è che se ne attribuisce tutta la responsabilità all’oscurantismo, distinguendo in perfidi e virtuosi. In realtà quella dei libri messi all’indice è una storia molto più sfumata e complessa».

Inesauribile appare a destra la pratica della proscrizione, se è vero che anche di recente Il Secolo d’Italia non ha rinunciato a colpire il Pier Paolo Pasolini di Salò (in altri tempi definito "pornografo", incline a "zozzure"). Abissi di depravazione toccati soltanto da Alberto Moravia: la Noia è stata a lungo considerata da quelle parti "erotismo di bassa lega dozzinale". Non migliore sorte è toccata ad autori come Calvino, Pratolini, Pavese o Umberto Eco, rubricato da Civiltà cattolica tra gli "eretici" e gli "empi". «Le intolleranze della destra, nel lungo dopoguerra, sono state innumerevoli: il più delle volte in nome d’un perbenismo sessuale e religioso da "Dio patria e famiglia". Si tratta però d’un canone di proibizioni puramente immaginario, che nell’età repubblicana non ha mai avuto la forza di imporsi ai lettori».

Quasi mai, lei sostiene, i libri vengono seppelliti completamente.

«Sì, un’opera censurata ha comunque la forza per sopravvivere. Mi viene in mente l’esempio di Cremuzio Cordo, lo storico che ai tempi di Tiberio scrisse una storia della guerra civile di orientamento ostile a Cesare. Fu denunciato per lesa maestà, l’opera condannata alla distruzione. Ebbene: Tacito ci racconta che quei libri continuarono a vivere "occultati et editi", ossia passavano di mano in mano nonostante il divieto. Il talento perseguitato, è la conclusione di Tacito, acquista maggiore autorità».

La messa all’indice è una pratica frequente tra i cristiani come tra i loro persecutori.

«Fu un vescovo fanatico a volere la distruzione del Serapeo di Alessandria (IV-V secolo d. C), con la sua sterminata biblioteca pagana. Viceversa, insieme ai cristiani vennero eliminati i loro libri: i traditori erano quelli che tradebant libros, ossia consegnavano al nemico i libri vietati».

Nessuno è innocente.

«Basti pensare che la democratica Atene brucia i libri di Anassagora, così nei trattati di Cicerone le traduzioni latine di Epicuro sono stigmatizzate come letture insidiose. Il catalogo delle nefandezze s’arricchisce nell’Età della Controriforma. La chiave per comprendere il fenomeno è nel libro del gesuita bavarese Jacob Gretser, De jure et more prohibendi et comburendi libros noxios. Cosa dice l’acuto prelato al principio del Seicento? Ci accusano di bruciare le pagine dei protestanti, ma i seguaci della Riforma fanno lo stesso con i loro libri: Michele Serveto liquidato da Calvino».

Anche i rivoluzionari francesi non sono immuni dal libricidio.

«Diderot, si sa, fu rinchiuso nella Bastiglia con il divieto di stampare l’Encyclopédie: ma poi riprese la direzione dell’opera, che ebbe gran successo a dispetto dell’oscurantismo clericale. Spesso però ci si dimentica che la celebre Bibliotèque National, nata dopo l’Ottantanove, si fonda su un violento triage, una traumatica selezione: i depositi non riuscivano a contenere tutti i libri confiscati nei conventi e nelle dimore nobiliari, così si decise in modo violento di tagliare via tutte le pubblicazioni ecclesiastiche. È un caso paradossale: l’istituzione concepita per la promozione della lettura nasce da un atto di intolleranza antireligiosa».

La censura raggiunse il suo acme nel celebre rogo di libri allestito dal nazismo.

«Sì, un atto di grande potenza simbolica nato dal ventre mistico del nazionalsocialismo. Perfino le opere di un liberale progressista come Carl von Ossietzky furono gettate nel fuoco e metaforicamente restituite agli inferi: ogni lancio veniva preceduto da una formula rituale che doveva rimarcare il carattere quasi sacrale della cerimonia. Un caso unico di libricidio. Anche se non dobbiamo sottovalutare, nel campo della censura libraria, la straordinaria efficienza mostrata da Mussolini».

La lotta tra il libro e il potere ha radici antiche.

«A proposito delle polemiche di oggi, mi viene in mente il caso d’un imperatore cinese del III secolo a. C., il costruttore della Grande Muraglia. Un suo perfido consigliere gli suggerì di polverizzare tutti i libri di storia, salvando i trattati di agricoltura e medicina. La ragione? Raccontano il passato, si poteva criticare il governo presente. Un’accusa che sento ripetere ancora oggi».

La domanda è: che paese è un paese che da sei mesi guarda una complicata soap-opera economico-finanziaria con un cast mediocre di star dell'editoria, prim'attori affaristi e comparse politiche, fa fatica - comprensibilmente - a capire il plot, contempla rassegnato un'economia bloccata, non sogna più né cultura né ricerca né lavoro né consumi, e non reagisce? Domanda fuori luogo: nessuno story-liner ha davvero a cuore le sorti del suo pubblico, gli basta tenerlo incollato davanti al video e suscitarne mediocri reazioni emotive. Che tutto fa un po' schifo è la mediocre reazione che la soap suscita, alimentando la deriva antipolitica che travolge l'Italia in perenne transizione. Una transizione che da quindici anni scorre e si impantana sul crinale, anzi sull'intreccio, fra affari e politica. Troppi paragoni si sprecano fra Bancopoli e Tangentopoli, peggio questa o peggio quella, come se un paese governato da Silvio Berlusconi potesse stupirsi se il problema è rimasto lo stesso sotto la finta numerazione delle repubbliche in prima, seconda e terza: fine dell'autonomia della politica; subordinazione della politica all'economia, e degli interessi pubblici agli interessi privati; gestione mass-mediatica della sfera pubblica. Il problema sta qui, e chi prima riesce non diciamo a risolverlo, ma almeno a istruirlo avrebbe qualche chance di vincere la partita.

Non è stato un buon modo di risolverlo, e nemmeno di istruirlo, l'idea che bastasse aggiungere una finanza rossa al panorama per passare la linea d'ombra della modernizzazione di un partito ex-comunista e partecipare al mercato politico ad armi più pari. Non è e non è mai stata in questione la liceità della scalata Unipol; ma non può nemmeno bastare adesso liberarsi delle mele marce Consorte e Sacchetti e perseverare come nulla fosse. L'episodio, dice Napolitano, porti consiglio ai vertici diessini: sulle prospettive della finanza rossa, sul rapporto fra soldi e politica, sui criteri di valutazione dei «capitani», rossi e non, che di volta in volta tentano - legittimamente, ma la legittimità non fa lo stile né il senso né il consenso - l'assalto a questo o quel bastione del capitalismo nazionale.

Ma non solo. Checché resti legittima l'opa Unipol è morta, si dice ora; il partito democratico, invece, può nascere. Al saldo delle scalate e delle inchieste, il risultato è che il precoce crack della finanza rossa travolge con sé quel residuo di mondo ex-comunista che le coop rappresentano e quel residuo di leadership più socialista che democratica che Massimo D'Alema, agli occhi infastiditi di molti, ancora incarna. Consorte ha barato, D'Alema e Fassino hanno perso, Carlo De Benedetti ha ragione, il futuro è democratico, Veltroni e Rutelli si mettano al volante. La sequenza sarebbe questa, con l'oscar per la regia al Corsera, che in soli sei mesi sbaraglia gli scalatori suoi e quelli altrui e detta la linea della riforma finale della politica e della normalizzazione finale dell'Italia.

Troppo facile. Dietro le quinte della mediocre soap bancaria, resta il problema, e vale per il salotto buono non meno che per i parvenus, di un capitalismo italiano che non ha mai conosciuto un'etica del capitalismo. Resta il problema di un suo perimetro troppo ristretto, familistico e arroccato per consentire a nuovi attori, più presentabili di Ricucci e Consorte, di venire alla luce. Resta il problema di una politica troppo impastata di affari e di una televisione fatta di affari e politica, ma anche quello di una stampa troppo legata ai suoi azionisti di riferimento. Resta il problema di un blocco di potere, economico ed editoriale, che a scadenze ritornanti sbarra la strada, con metodi propri e impropri barche comprese, allo squilibrio che nell'establishment italiano potrebbe portare quello che resta del ricordo della sinistra di ieri. Resta infine, immutato, il problema di una sinistra di oggi, che l'ennesimo cambio di etichetta, più americana che europea, archivia senza risolvere. E che forse, più che con gli alfabeti accattivanti su Europa, potrebbe provare a inaugurare l'anno con una ruvida analisi del capitalismo italiano.

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