Di prima mattina, il 5 febbraio del 62 dopo Cristo, in Campania si verificò uno spaventoso terremoto che nel volgere di pochi secondi uccise migliaia di inconsapevoli abitanti. Vaste aree di Pompei crollarono travolgendo gli abitanti nel sonno e ogni tentativo di salvarli fu ostacolato dallo scoppio di vari incendi. I sopravvissuti si ritrovarono spogliati di ogni cosa, a eccezione degli abiti che avevano indosso e che erano completamente ricoperti di fuliggine, tra gli edifici un tempo eleganti ridotti in rovine. Attraverso l´Impero dilagarono spavento, incredulità e rabbia. "Come è mai possibile", si andava chiedendo, "che i romani, i più potenti al mondo, il popolo tecnologicamente più avanzato, i romani che hanno costruito acquedotti e soggiogato orde di barbari, siano così esposti agli insensati capricci della natura?".
La disperazione e lo sbigottimento - fin troppo diffusi oggi, all´indomani del terremoto al largo dell´Indonesia - attrassero l´attenzione del filosofo stoico romano Seneca. Egli scrisse una serie di testi volti a consolare i suoi lettori, ma, cosa assai tipica in Seneca, il conforto offerto fu del genere più rigoroso e fosco che si potesse concepire: "Voi dite ?Non pensavo che sarebbe accaduto´. Pensate dunque che esista qualcosa che non accadrà quando invece ben sapete che è possibile che accada, quando vedete voi stessi che è già accaduta?".
Seneca cercò di mitigare l´impressione d´ingiustizia che imperversava tra i suoi lettori ricordando loro - nella primavera del 62 - che i disastri naturali e quelli provocati dall´uomo faranno sempre parte della nostra vita, per quanto evoluti e sicuri noi si creda di essere diventati. Pertanto, anche nella nostra epoca dobbiamo sempre attenderci l´imprevisto: la calma è soltanto un intervallo nel caos. Nulla è certo, nemmeno il suolo sul quale poggiamo i piedi. Se non ci soffermiamo a riflettere sui rischi di improvvise onde gigantesche, se di conseguenza paghiamo uno scotto per la nostra ostinata ingenuità intenzionale, è perché la realtà comprende due diversi aspetti che disorientano in modo assai crudele: da una parte il senso di continuità e di sicurezza che si trasmette di generazione in generazione e dall´altra i cataclismi non preannunciati. In pratica, ci ritroviamo a esitare tra il plausibile invito a dare per scontato che il domani sarà molto simile all´oggi e la possibilità che andremo invece incontro a un evento spaventoso, dopo il quale nulla sarà più come prima. Ed è proprio perché abbiamo fortissimi incentivi a non prendere in considerazione il secondo dei due scenari che Seneca ci esortò a ricordare che il nostro destino è sempre nelle mani della Dea Fortuna. Costei può distribuire i suoi doni e poi, con terrificante velocità, osservarci mentre soffochiamo per una lisca di pesce incastrata in gola, o mentre chiudiamo gli occhi per sempre, scomparendo per colpa di uno tsunami insieme all´hotel nel quale eravamo alloggiati.
Il terremoto in Asia ha acquisito un rilievo del tutto particolare perché molte delle aree devastate erano zone turistiche, luoghi dove la gente si è recata espressamente alla ricerca della felicità, soltanto per trovarvi morte e caos. Se si visitano i siti Web degli alberghi ora devastati, si possono ancora osservare magnifiche immagini di spiagge assolate, di camere accoglienti, di barbecue in piscina o di immersioni nei fondali marini.
Seneca sostiene che proprio perché veniamo feriti maggiormente da ciò che non ci aspettiamo, laddove dobbiamo invece aspettarci di tutto ("Non vi è nulla che la Fortuna non osi"), dovremmo sempre tenere ben in mente l´eventualità che si verifichino gli eventi più terribili. Nessuno dunque dovrebbe mai accingersi a partire per un viaggio in macchina, né scendere le scale o salutare un amico senza la consapevolezza - che Seneca per altro non avrebbe voluto che fosse necessariamente funesta o tragica - che possa accadere qualcosa di fatale.
Considerando le nostre competenze tecnologiche, è diventato naturale credere di essere in grado di controllare il nostro destino. L´uomo non deve più essere il trastullo delle forze del caso: esercitando la ragione, tutti i nostri problemi possono essere risolti. Nulla è maggiormente lontano dalla mentalità di uno stoico. Piuttosto, sottolinea Seneca, noi dobbiamo accentuare la consapevolezza di ciò che in un qualsiasi momento della nostra vita può andare storto: "Nulla dovrebbe mai esserci imprevisto. La nostra mente dovrebbe anticipare tutto, in modo da poter far fronte a tutti i problemi. Noi dovremmo considerare non ciò che non è usuale che accada, bensì ciò che può accadere. Che cos´è infatti l´uomo? Un vaso che il più lieve urto, il più lieve movimento brusco può frantumare. Un corpo debole e fragile".
All´indomani del terremoto della Campania, molti sostennero che l´intera zona dovesse essere evacuata e che non si dovesse più edificare nelle zone a rischio di terremoto. Ma Seneca confutò l´implicito principio che sulla Terra potesse esistere un luogo - la Liguria, per esempio - nel quale ci si possa considerare del tutto al sicuro, lontani e al riparo dai capricci della Fortuna: "Chi può garantire che in questo o in quel sottosuolo si possono erigere fondamenta più solide? Tutti i luoghi hanno le medesime caratteristiche e se non sono ancora stati colpiti da un terremoto, ciò non di meno potranno esserlo in futuro. Sbagliamo se riteniamo che al mondo possa esservi un luogo esente da pericoli, sicuro? La natura non ha creato nulla di immutabile". Né - potrebbe aggiungere Seneca qualora fosse vivo oggi - la natura ha creato una costa che non potesse essere investita dall´avanzare della marea.
Per cercare di prepararci psicologicamente al disastro, Seneca invitava a sottoporsi ogni mattina a uno strano esercizio, che egli in latino chiamò praemeditatio - premeditazione - consistente nel rimanere sdraiati prima ancora di colazione e di immaginare tutto ciò che nell´arco della giornata che si ha davanti potrà andare storto. L´esercizio non è fine a se stesso, essendo stato concepito per prepararsi all´eventualità che la città in cui si vive venga distrutta la sera stessa o che per qualche ragione muoiano i propri figli. Così si legge in uno degli esempi di premeditazione: "Viviamo tra cose concepite tutte per cessare di vivere. Esseri mortali ci hanno dato la vita e noi stessi abbiamo dato vita a esseri mortali. Pertanto aspettiamoci di tutto".
Lo stoicismo pretenderebbe dunque che noi si accetti tutto ciò che la vita ci propina? No, essere stoici significa riconoscere quanto siamo vulnerabili nonostante tutto il nostro progresso. Seneca arrivò a chiederci di immaginare di essere simili a cani legati a un carro guidato da un conducente imprevedibile. Il guinzaglio è lungo abbastanza da poterci lasciare un certo qual margine di libertà di movimento, ma non così tanto tuttavia da consentirci di vagare a nostro piacere. Un cane spererebbe per sua stessa natura di potersi allontanare a suo piacimento, ma la metafora di Seneca implica che se non potesse farlo, sarebbe meglio per l´animale seguire docilmente il carro, invece che esserne trascinato a forza e finire strangolato. Così disse infatti Seneca: "L´animale che si dibatte rifiutando il guinzaglio finisce col serrarlo? non esiste giogo più stretto da ferire un animale di quello che l´animale stesso stringe, osteggiandolo invece di assecondarlo. Il miglior sollievo dai mali che ci opprimono consiste nel sopportare e nel piegarsi alla necessità".
Ritornando dunque al passato e alla saggezza dei filosofi stoici, potremmo trovare un metodo utile per ridimensionare alcune delle nostre aspettative e per smorzare il nostro shock davanti ai disastri naturali e allo spargimento di sangue. Nel 65 d. C. quando l´imperatore Nerone ordinò a Seneca di suicidarsi, la moglie e i suoi famigliari scoppiarono in lacrime. Seneca no, poiché aveva imparato a seguire il carro della vita con rassegnazione. Portandosi con tranquillità il coltello ai polsi, pronunciò una frase che faremmo bene a ripeterci, quando leggiamo le notizie sui giornali in alcune mattine particolarmente tristi. Egli disse: "Che bisogno vi è di piangere in alcuni momenti della vita? È per la vita tutta intera che si dovrebbe piangere".
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Traduzione di Anna Bissanti
Il mitico Luca Mercalli di "Che tempo che fa" indirizza una lettera aperta alla candidata del l'Unione alla presidenza della Regione Piemonte. E' una raccolta di temi aggiornati sulla politica ambientale, e non solo. La Mercedes Bresso risponde in modo ragionevole e problematico. C'è una bella differenza con gli argomenti troppo spesso piatti e triviali della campagna elettorale in Emilia-Romagna. Utile per rimanere aggiornati e anche per la linea di politica locale (anche lo slogan è bello). Ciao (a.b.)
Luca Mercalli indirizza una lettera aperta a Mercedes Bresso:
Ti scrivo per porgerti qualche spunto di riflessione "per cambiare il futuro", come recita il Tuo slogan elettorale. Seguendo l'invito che compare sul Tuo sito Internet, questo vuole essere uno di quei contributi "delle più diverse articolazioni della società civile, dell'economia, del lavoro, della politica e della cultura, vale a dire a tutti coloro che condividono il nostro punto di vista e che vogliono cambiare con noi la nostra regione e il modo di governarla".
Del resto, per chi ha a cuore i problemi ambientali, la lettura del Tuo curriculum è un'iniezione di fiducia: "esperta di economia dell'ambiente, economia agraria e di economia del turismo", autrice di saggi tra cui "Per un'economia ecologica" e "Pensiero economico e ambiente", già Assessore regionale alla Pianificazione Territoriale e ai Parchi". "Amante delle passeggiate in montagna e nei boschi".
So anche che sei stata tra le prime in Italia a commentare il pensiero di Georgescu-Roegen, un pioniere, uno che avrebbe meritato il Nobel per l'Economia ben più di Robert Solow.
Ho avuto il piacere di conoscerTi insieme a tuo marito, quel Claude Raffestin "geografo ed esperto di Ecologia umana e Scienze del paesaggio" che completa il quadro del Tuo ambiente culturale come meglio non si potrebbe desiderare.
Insomma, a leggere queste credenziali, il Tuo programma politico dovrebbe avere una marcia in più rispetto - che so io - a quello di un qualsiasi palazzinaro che si metta in politica con obiettivi palesemente meno sostenibili sul piano ambientale.
Sembrerebbe, con un curriculum come il Tuo, di essere in ottime mani: una figura politica che non solo è ben informata su questi problemi, ma ne è pure navigata studiosa.
Ora, a questo punto, i fatti dovrebbero corrispondere alle premesse.
Eppure dal Tuo programma trapelano gli echi delle sirene della crescita continua.
"Con l'Europa per uno sviluppo sostenibile" per evitare il declino del Piemonte, recita il Tuo programma. Ma cosa vuol dire "declino"? Sulla base di quali indicatori? Forse del PIL? O del numero di autovetture prodotte dalla FIAT? Perché mai dovremmo evitare "un dignitoso e magari confortevole declino" a favore "di una dinamica fase di sviluppo"? Sappiamo che "sviluppo", come è inteso oggi (anche se corredato dell'aggettivo "sostenibile") è in realtà un modo addolcito di camuffare la continua crescita dei consumi. E' un'ossessione il ritenere che un luogo sia prospero solo se la sua popolazione aumenta o almeno non decresce, se le merci continuano ad affluire e a ripartire in sempre maggiori quantità, se l'edilizia continua incessantemente a costruire, se il valore degli scambi finanziari continua ad aumentare. A fronte di tali indicatori sappiamo bene che vi è anche l'aumento di rifiuti di qualsivoglia natura - solidi, liquidi e gassosi - e l'irreversibile diminuzione di naturalità del paesaggio, con conseguenze sia sul piano estetico, sia su quello dei cicli biogeochimici.
Ecco dunque che il passo del Tuo programma che recita come "La regione deve essere dotata in primo luogo di tutte le infrastrutture necessarie ad assicurarne la rilevanza economica, culturale, geografica e logistica cui aspira, il tutto nella logica dello sviluppo sostenibile. Vale a dire: le opere pubbliche dovranno essere progettate e portate a termine con il minimo impatto ambientale e al più basso costo sociale possibile. Opere all'avanguardia, concepite come servizi alla terra e agli uomini che debbono ospitarle, realizzate con tecnologie innovative, gestite con tutta la cura resa possibile dalla modernità", contiene inevitabilmente i germi della catastrofe ambientale. E ciò perché non riconosce il limite, ormai raggiunto e oltrepassato da tempo, del nostro territorio di sostenere ulteriori interventi di artificializzazione. In queste infrastrutture è facile vedere l'appoggio a progetti faraonici e non prioritari quali l'alta velocità ferroviaria, la quarta corsia della tangenziale torinese, una ulteriore espansione urbana e industriale capillare.
Sono tutti interventi ormai non più difendibili, inseriti nel mito della crescita continua, che - per quanto mitigata, per quanto addolcita - non può essere sostenibile per via dei meri vincoli fisici del sistema nel quale è concepita: il Piemonte - così come gran parte del nord-Italia, ha ormai subito un ampio superamento di tutte le soglie di attenzione di natura ambientale e deve ora guardare a come ridurre le conseguenze causate da un passo più lungo della gamba.
Per fare questo ritengo che l'unico mezzo sia ormai un serio approccio al concetto di decrescita. Orbene, il passato è passato. Processi storici ed economici hanno condotto fin qui e non ha importanza esaminarne più di tanto le motivazioni. Però Tu ci dici che vuoi cambiare il futuro del Piemonte. Benissimo. E' un'occasione d'oro per dimostrarlo. Se effettivamente desideri proporre un programma politico innovativo - pure rischioso, ovviamente - dovresti fare tuoi i precetti che il mondo scientifico ha da tempo - e con sempre maggior completezza - messo in luce. Il libro che ti allego "Le mucche non mangiano cemento" ne fa una sintesi, proponendo una bibliografia di riferimento che non ho dubbi Tu conosca ampiamente.
Provo comunque a sintetizzare per sommi capi gli obiettivi di un futuro realmente diverso:
1) il paradigma della crescita continua dei consumi e delle infrastrutture (e quindi pure dei relativi rifiuti) dovrebbe essere abbandonato quanto prima. Il suo fallimento è dietro l'angolo, una presa di coscienza anticipata potrebbe ancora consentire una transizione morbida verso una struttura stazionaria, altrimenti il collasso avverrà, come spesso accade nei sistemi non lineari, in modo improvviso e non modulabile da azioni di mitigazione.
2) sviluppo non deve essere confuso con crescita: esiste uno sviluppo culturale, scientifico, spirituale, perseguibile anche al di fuori di uno sviluppo dei consumi materiali o, peggio ancora, di beni superflui ed energivori. E' proprio lo sviluppo dei primi beni elencati a compensare della riduzione dei secondi. In un momento storico nel quale i livelli di benessere fisico sono ampiamente consolidati questa transizione è possibile ed è la sola a garantirne peraltro il mantenimento a lungo termine. Detto in altre parole, con la pancia piena e la casa calda possiamo anche pensare allo sviluppo spirituale/intellettuale/culturale che a sua volta sarà la chiave per continuare ad avere pancia piena e casa calda. Altrimenti si fa indigestione e si vomita. Poi però bisogna ricominciare dall'età della pietra.
3) il consumo di suoli agrari e di «paesaggio» deve essere arrestato immediatamente: in un mondo fisico dalle dimensioni finite non è pensabile espandersi all'infinito. Basterebbe applicare le illuminate proposte del Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Torino, strumento eccellente che Tu ben conosci, purtroppo disatteso. Ovviamente la coerenza è una dote fondamentale del politico di razza: non si possono difendere i preziosi beni agrari dell'Ordine Mauriziano da una parte e contemporaneamente avallare progetti devastanti quali l'alta velocità ferroviaria: entrambi produrrebbero i medesimi risultati finali.
4) l'economia attuale in declino può trovare nuove forme di rigenerazione nell'applicazione dei mezzi di produzione di energie rinnovabili, di efficienza e di risparmio energetico, di promozione dell'agricoltura locale di qualità , di riconversione del "brutto" che ci circonda in qualcosa di almeno accettabile. Pensiamo a una FIAT che finalmente tiri fuori dai cassetti progetti che già aveva sviluppato da decenni, come la cogenerazione, e investa magari sulla produzione di pannelli solari... Le officine per fare tutto ciò sono praticamente le stesse che oggi si usano per fare automobili. Basta volerlo.
5) vi è necessità assoluta di un programma di educazione ai valori della sobrietà e del senso del limite, imposti non da qualsivoglia ideologia, ma da semplice rispetto del II principio della termodinamica. In tale contesto sarebbe fondamentale disincentivare gli sprechi e l'uso del superfluo nonché gli eccessi nell'impiego di materie prime ed energia, a vantaggio di un benessere più sereno e libero dal senso di competizione sociale generato da modelli pubblicitari ormai patologici.
6) abbandono delle grandi opere di scarsa o nulla utilità e dai grandi costi e impatti ambientali/sociali, a vantaggio di un aumento capillare dei servizi e della qualità di vita a scala locale. In effetti, in un'epoca dove le telecomunicazioni potrebbero rendere sempre meno necessario il movimento fisico delle persone, e l'esaurimento delle risorse petrolifere porrà in un futuro prossimo restrizioni importanti alla inutile circolazione di merci banali oggi dettata da meri giochi economici, il gigantismo infrastrutturale è una scelta miope e sottrarrebbe enormi risorse alla disponibilità diffusa di servizi efficienti.
Cara Mercedes,
se vuoi veramente cambiare il futuro, dovresti avere il coraggio di inserire nel Tuo programma politico questi elementi, in apparenza fortemente impopolari in quanto lontani dal pensiero unico oggi vigente. Però il grande politico si riconosce proprio dalla capacità di essere realmente innovatore e cambiare totalmente il punto di vista dei problemi. E' peraltro difficile portare avanti tali obiettivi, però bisogna accorgersi che non solo l'ambiente scientifico sta sempre più assumendo consapevolezza che è necessario cambiare rotta, ma anche molta gente comune. Sono innumerevoli nel mondo le associazioni spontanee di cittadini volte alla decrescita (decrescita felice, décroissance, powerdown). Ma non vengo a mostrare ad arrampicare ai gatti: Georgescu-Roegen aveva scritto queste cose già nel 1974. Forse era in anticipo sui tempi. Trent'anni sono passati e ora le condizioni sono fertili per applicare la teoria bioeconomica o una sua opportuna riformulazione attualizzata.
Eppure sembra che la politica resti indietro, fatichi a cogliere questi segnali di disagio profondo, di una disarmonia con le leggi fondamentali di natura. Non basta aggiungere l'aggettivo "sostenibile" ad ogni azione per cambiarne le conseguenze. Molte azioni dovrebbero semplicemente essere abbandonate, non essere rese "sostenibili" quando non lo sono intrinsecamente. Pensiamo per esempio ai Giochi Olimpici Invernali Torino 2006.
Chi meglio di Te può comprendere queste cose? Con un curriculum così.
Ai miei occhi, come a quelli di molte altre persone mature e consapevoli della nostra situazione, assumi con la Tua candidatura politica una grande, grandissima responsabilità: quella di garantire se non il raggiungimento di questi obiettivi, almeno un segno incisivo verso la loro realizzazione, un cambiamento netto di direzione, un gesto di speranza. Se invece anche Tu, con il tuo perfetto curriculum da persona giusta al posto giusto, cadrai sotto la malìa delle sirene dello "sviluppo a tutti i costi", allora, noi che abbiamo capito di essere in un vicolo cieco, saremmo privati anche della speranza.
E senza speranza non resta che la disperazione.
Torino, febbraio 2005
Luca Mercalli (luca.mercalli@nimbus.it)
RISPOSTA DI MERCEDES BRESSO ALLA LETTERA APERTA DI LUCA MERCALLI
La lettera di Luca Mercalli è stata inserita nella sezione "Contributi al programma" del portale.
Normalmente i "Contributi" non ricevono risposta e vengono attentamente esaminati per recepire proposte e suggerimenti utili al Programma. Ma la lettera di Mercalli, trattando argomenti di grande importanza, ha suscitato molte reazioni e ha conquistato spazio sui media.
Decine di e-mail sono arrivate al nostro indirizzo.
Pubblichiamo quindi, in via del tutto eccezionale, la risposta di Mercedes Bresso.
Una bella lettera, la tua, una lettera alla quale voglio rispondere con grande sincerità, senza nascondermi dietro ai tatticismi elettorali che troppo spesso sono una scusa per non dire quel che si pensa e, soprattutto, per ritenersi in diritto di pensare quel che viene considerato indicibile.
Debbo dirti subito che anch'io, anni fa, pensavo fosse necessario arrivare a una sorta di "blocco dello sviluppo". Mi sono resa conto, col tempo, che il blocco puro e semplice non è possibile.
Ho studiato e riflettuto a lungo sulla teoria dell'arresto della crescita. Ma noi - il Piemonte - non possiamo rimanere fuori dallo sviluppo né possiamo rinunciare alla creazione di reddito, conseguenza immediata dell'arresto della crescita. Al contrario, dobbiamo rimanere dentro questi meccanismi di crescita. E dobbiamo rimanerci perché le dinamiche che governano i processi economici non permettono di fermarsi a un certo livello: chi si ferma non mantiene le posizioni acquisite, ma corre il fortissimo rischio di tornare indietro.
Non possiamo dimenticare poi che una quota crescente degli investimenti si concentra su servizi dematerializzati (internet, telefonia, tecnologie satellitari), che sostengono lo sviluppo e hanno un basso impatto ambientale. Io sostengo - insieme a tutto il centrosinistra - che sarà una società basata sulla conoscenza a sottrarci definitivamente al declino. Ritengo anche che il criterio della sostenibilità è l'unico che ci permette di investire in infrastrutture indispensabili e di lavorare per mantenere una parte dell'industria manifatturiera. Senza dimenticare che gli investimenti per la ricerca devono crescere non solo nazionalmente, almeno il 3% del Pil, ma anche e soprattutto nel nostro Piemonte.
Certo quel che conta è cambiare cultura, abbandonando l'equazione mentale che fa coincidere il benessere con l'incremento di beni materiali e consumi.
Io non credo affatto in uno sviluppo a tutti i costi. Credo invece che nel bilancio di ogni opera debbano essere considerati i costi non solo finanziari ed economici, ma anche sociali e ambientali. Al tempo stesso però vanno anche confrontati i risparmi che si conseguono non realizzando un'opera con quelli che l'opera, portata a termine, può garantire.
Non voglio eludere i problemi che poni, a partire all'Alta velocità. Personalmente mi sono battuta perché non si parlasse solo di Alta velocità, ma anche e soprattutto di alta capacità ferroviaria. Mi spiego. I risparmi ambientali che si ricaverebbero da una nuova ferrovia transalpina dedicata al solo traffico di persone sarebbero risibili. Se, al contrario, gli interventi rientrano in un piano destinato a ridurre il traffico su gomma a livello europeo, credo che il rapporto costi-benefici potrebbe essere interessante. Eliminare, o almeno ridurre drasticamente, il traffico dei Tir attraverso la catena alpina sarebbe un fatto grandioso, in grado di produrre effetti positivi sull'ambiente dal Baltico al Mar di Sicilia. Un elemento, questo, che mi pare sia stato enormemente sottovalutato da una parte del movimento ambientalista che pure stimo.
Non sfugge a nessuno poi che l'arretratezza delle nostre infrastrutture è una delle cause più gravi di inquinamento ambientale: un Paese senza metropolitane, con ferrovie inadeguate e con reti telematiche che toccano a malapena le aree metropolitane è condannato, fatalmente, a morire nel traffico e nell'anidride carbonica.
Le alternative sono tre. La prima: condanniamo noi stessi a marcire nell'arretratezza e a morire nell'inquinamento. La seconda, rincorriamo lo sviluppo - Achille e la tartaruga - così come lo abbiamo conosciuto fino agli anni Ottanta. La terza, facciamo del nostro ritardo il punto di battuta per spiccare un salto culturale e tecnologico. Esempio: l'Italia ha rinunciato al nucleare. Bene. Sarebbe sbagliato e antieconomico, oggi, riprendere a discutere di energia atomica nel nostro Paese. Ma il fatto di non averla ci consente di ragionare liberamente su altre opzioni meno disastrose per l'ambiente. Siamo più liberi dei Paesi che hanno investito sul nucleare e che oggi debbono continuare su quella strada per poter assorbire i giganteschi costi di ammortamento.
Possiamo (e per questo dobbiamo) intraprendere con decisione la strada dell'idrogeno, del fotovoltaico, delle energie pulite.
Non possiamo fare a meno delle grandi opere se non altro per il motivo che tutta l'Europa, di cui facciamo parte, ne è dotata. Si è calcolato che il nostro ritardo riguarda interventi per 250mila miliardi di vecchie lire. Io ho la speranza che esistano oggi tecnologie e culture in grado di colmare questo gap a costi ambientali incommensurabilmente più bassi rispetto al passato.
Quanto al Piemonte, la situazione è chiara. La nostra regione fatica a reggere il passo degli altri.
Ci sono zone dove le cose non vanno malissimo (il Piemonte sud) e aree in cui i problemi persistono. Noi abbiamo bisogno di infrastrutture moderne: non a tutti i costi, certo. Pagando solo quel che possiamo permetterci.
E ora vengo ai temi che proponi per il programma del centrosinistra.
La rinuncia al paradigma della crescita continua di consumi e infrastrutture. Qui non si tratta di aggiungere infrastrutture. Si tratta di adeguarle. Quanto ai consumi, possiamo puntare a ridurli, ma con un occhio di riguardo a chi certi standard non riesce a raggiungerli. Possiamo puntare a ridimensionare la produzione di rifiuti, certo, ma per i consumi devi tener conto dei fatti. Ci sono ormai zone di nuova povertà che stanno già sperimentando la riduzione dei consumi, ma controvoglia.
Lo sviluppo non deve essere confuso con la crescita. Posso essere d'accordo con te sugli stili di vita. Se si ha una casa e se si può contare su amici interessanti e buoni libri, il resto viene dopo. Ma non tutti vivono in questa condizione. E poi: la Regione (o lo Stato) hanno il diritto di giudicare lo stile di vita? Ci provò negli anni Settanta, e non senza una certa energia, Enrico Berlinguer, che lanciò lo slogan dell'Austerità. Non ebbe molta fortuna, neppure fra gli intellettuali. Norberto Bobbio osservò che l'austerità si pratica nelle società autoritarie (Sparta), mentre è l'edonismo il corollario delle democrazie (Atene). Forse avevano ragione entrambi. Berlinguer a chiedere uno sviluppo meno dissennato, Bobbio a dire che la riduzione dei consumi, quando i beni sono disponibili liberamente, si verifica solo con interventi autoritari.
Il consumo dei suoli agrari e del paesaggio deve essere fermato. Qui mi trovi perfettamente d'accordo. Nel nostro programma pensiamo alla tutela delle tipologie architettoniche tradizionali. Proponiamo anche di sperimentare un certo tipo di asfalto che avrebbe proprietà simili al materiale fotovoltaico. Come sai il fotovoltaico porta energia pulita, ma "consuma" molto territorio. Se andremo al governo del Piemonte, proveremo a produrre energia non inquinante utilizzando le strade che già esistono, senza occupare altra terra.
Nuove forme di rigenerazione nell'applicazione dei mezzi di produzione di energie rinnovabili, di efficienza e di risparmio energetico, di promozione dell'agricoltura locale di qualità , di riconversione del "brutto". Siamo perfettamente d'accordo. Sia pure con altre parole, tutto questo è già nel nostro programma. Anche noi, poi, sentiamo l'esigenza di incoraggiare Fiat a proseguire sulla strada dei motori a basso consumo di idrocarburi.
Un programma di educazione ai valori della sobrietà e del senso del limite delle risorse. Siamo d'accordo. Ma qui le istituzioni possono solo aiutare. Tocca prioritariamente alla cultura, alle televisioni (sì), ai giornali, ai partiti, alle chiese trasmettere questi valori. Noi faremo la nostra parte, non dubitare, ma ci vorranno ben altre voci per arrivare alla sensibilità delle persone.
Abbandono delle grandi opere di scarsa o nulla utilità e dai grandi costi e impatti ambientali/sociali, a vantaggio di un aumento capillare dei servizi e della qualità di vita a scala locale. Di questo abbiamo già parlato: alcune grandi opere sono necessarie, altre no. Come forse saprai io non sono d'accordo con chi vuole fare tutto e di tutto, mentre mi pare essenziale conciliare la tutela del welfare con ferrovie efficienti.
Sono per fare il necessario.
E finisco da dove avevo cominciato. Sono perfettamente consapevole del fatto che non possiamo permetterci certi costi. Ma so anche che se rinunciamo al criterio della sostenibilità ambientale, non restano che due alternative: lo sviluppo selvaggio da un lato e la paralisi dall'altro. Due rischi che non possiamo correre.
Grazie per le belle parole che hai avuto per me e mio marito. Spero di non averti deluso e mi auguro di poterti incontrare presto per continuare a discutere di persona.
Mercedes Bresso
Bel tempo nell'economia mondiale per oggi e per buona parte di domani: crescita forte nel 2005, nessun brusco arresto all' orizzonte. Ma per il dopodomani il campo è diviso tra chi annuncia sereno e chi attende tempesta, tra Pangloss, il personaggio di Voltaire ostinatamente convinto che viviamo nel migliore dei mondi possibili, e Cassandra, la preveggente figlia di Priamo, secondo cui la quiete sta per diventare tempesta. La disputa che li divide riguarda non solo l'economia, ma anche la politica. Dice Pangloss: il benessere non è mai tanto cresciuto nel mondo quanto nella presente generazione e grazie al mercato si estenderà sempre più a tutti. Le turbolenze recenti (insolvenze finanziarie, Enron, boom e caduta della Borsa, effetto tsunami, caro petrolio) sono state superate più facilmente di quelle precedenti (primo choc petrolifero, crisi del debito latinoamericano). Sì, ci saranno altre turbolenze, ma il mercato ci penserà. Dopotutto io, Pangloss, non dico che il nostro mondo sia magnifico né che sia il migliore in assoluto, ma è il migliore possibile. Abbiate fiducia: le tempeste verranno, ma le sapremo affrontare.
Dice Cassandra: stiamo prolungando una festa che non può durare, e alla cui fine non ci stiamo preparando. L'energia che usiamo (carbone, petrolio, gas) si estingue, dilapidiamo le risorse del pianeta, di cui minacciamo vita e clima. Il mercato di cui ci beiamo è una bestia senza controllo. Stiamo entrando in un nuovo stato di natura dove è privatizzato l'uso stesso della forza, dal terrorista suicida al mercato nero di armi di distruzione di massa. L'economia sembra governare un mondo anarchico, ma finirà per esserne la vittima.
Che cosa dovremmo pensare noi, cittadini comuni? Provo a suggerire alcuni punti, che nascono da una medesima considerazione: prima ancora del mercato e della politica vi è la società, che influenza entrambi, oltre ad esserne influenzata.
Primo punto: ogni lettore può e deve formarsi una propria opinione. Sbaglierebbe a ritenersi in inferiorità rispetto agli specialisti della materia o ai detentori del potere. Questo punto può inquietare chi si attende miracoli da scienziati e governanti; invece, a mio giudizio, dovrebbe rassicurare. Quando non coincide col buonsenso l'economia di solito sbaglia. Viviamo in democrazia e ciascuno contribuisce a scegliere indirizzi e persone di governo. Il pensare che la generalità dei cittadini abbia buonsenso e informazioni sufficienti a compiere scelte ragionevoli è motivo di profonda fiducia per le sorti della nostra libertà e per le prospettive di un buon governo. Gli atteggiamenti diffusi nel corpo sociale si riflettono sul funzionamento del mercato e della politica.
Secondo punto: il «noi» usato sopra è un aggregato di interessi eterogenei. Comprende imprese e famiglie, consumatori e produttori, settori di punta e settori in declino, debitori e creditori. Spesso la fortuna di alcuni è la sfortuna di altri. I pantaloni e i mobili a basso costo offerti dai cinesi e da Ikea mettono in difficoltà il produttore nazionale, ma sono graditissimi al consumatore. L'eterogeneità degli interessi attraversa la singola persona, la singola impresa, il settore, per non dire il Paese. È come se fossimo, nello stesso tempo, dipendenti di Alitalia (oltre 1000 euro per il volo Roma-Londra) e utenti di Ryan Air (meno di 50 per lo stesso viaggio). Tra interessi eterogenei occorre scegliere e i due processi attraverso cui le scelte si compiono nelle nostre società sono il mercato e la democrazia.
Terzo punto: per capire e per decidere bene occorre uno sguardo lungo. Solo questo permette di non arrivare impreparati agli eventi. Le previsioni dell'economista e le decisioni del governo tendono, invece, a non guardare oltre l'orizzonte breve dei modelli o le scadenze delle prossime elezioni. Guardando più lontano, specialisti e politici mettono a repentaglio quanto hanno di più caro, il prestigio scientifico e il potere. Eppure, solo scrutando il paesaggio nebbioso del dopodomani si possono predisporre soluzioni non troppo dolorose alle difficoltà che ci stanno venendo incontro. La recente disputa con la Cina nel tessile e nell'abbigliamento è venuta per aver quasi dimenticato il giungere a scadenza di accordi commerciali liberamente stipulati e noti da tempo.
Quarto punto: il futuro è aperto. Nell'economia, nella politica economica, nelle relazioni umane, più di un futuro può scaturire da uno stesso presente. Nonostante l'importanza del Fato nella cultura greca, perfino Cassandra descrive catastrofi contro le quali, se fosse creduta, potrebbero essere predisposte contromisure. Il suo dramma è che, per punirla, Apollo le ha lasciato il dono della profezia, ma le ha tolto quello della persuasione. A noi Apollo non ha fatto questo cattivo scherzo.
Gli ammonimenti di Cassandra sono fondati. La più ricca società del pianeta (gli Stati Uniti) non potrà per molti anni ancora vivere sul credito di popolazioni e Paesi più poveri. Il mercato globale non può continuare a svilupparsi in modo pacifico e ordinato, se le istituzioni per il suo governo restano insufficienti, prive di potere e di legittimità. Le risorse della Terra (dalle foreste ai giacimenti energetici) non potranno non rincarare drammaticamente e infine mancare, se il consumo che ne facciamo continua a espandersi come se fossero illimitate. L'equilibrio della vita non potrà non alterarsi, se quasi due secoli dopo averlo scoperto continuiamo a ignorare l'effetto serra. Non può rimanere senza conseguenze profonde la disparità di tenore di vita e di condizioni di lavoro tra esseri umani — come gli europei e gli asiatici — con livelli di cultura e di capacità lavorativa quasi uguali.
Settembre è alta stagione per la diplomazia economica internazionale: in ogni parte del mondo sono in corso analisi e consultazioni, che culminano nelle riunioni del Fondo monetario internazionale a Washington. Incontri regionali (l'Unione Europea, i Paesi asiatici), settoriali (finanza, commercio, energia, sviluppo), consultazioni tra Paesi ricchi (il G7) e tra poveri (Africa, America Latina, Paesi in via di sviluppo). Si fa il punto sull'anno che sta per finire e si definisce l'animo con cui guardiamo al futuro.
Vi è motivo di temere che il messaggio degli specialisti e quello dei governanti abbiano lo sguardo più corto e il tono più rassicurante di quanto giustifichi una disincantata osservazione delle tendenze di lungo periodo operanti nell'economia mondiale e nelle nostre società. Spetta innanzi tutto alla riflessione, al buon senso, al desiderio di informarsi e di capire del cittadino comune rendersene conto e trarne conseguenze per il suo modo di guardare al futuro, ai propri comportamenti economici e sociali.
L’accentramento amministrativo italiano è carattere genetico radicato nell’happening da cui nasce il Regno. Era una partita d’intelligenza: Cavour persuade Napoleone III all’intervento se l’Austria assalisse il Piemonte; Vienna manda l’ultimatum, confermando detti proverbiali; «sot comme un diplomat autrichien». Guerra fulminea: l’alleato desiste dopo Solferino (il patto era: un regno dell’Italia settentrionale fino all’Adriatico; Nizza e Savoia alla Francia); Franz-Joseph cede la Lombardia al confratello parvenu, che la passa a Vittorio Emanuele II. Muoiono suicidi due ducati e un granducato, Parma, Modena, Toscana. Implodono le Due Sicilie: Sua Maestà sabauda va a pigliarsele, consegnate da Garibaldi; en passant, occupa Marche e Umbria papaline. Plebisciti a suffragio universale maschile decidono l’annessione tout court al Piemonte (un re investito dalla plebe, esclama inorridito l’intellettuale reazionario Claudio Cantelmo nelle Vergini delle rocce). I ministri dell’Interno Farini e Minghetti contemplano un ipotetico decentramento burocratico, regioni senza autonomia normativa, ma i decreti del novembre 1861 estendono l’ordinamento piemontese agli ex Stati: urgeva chiudere la partita davanti all’Europa; e nella scelta pesa l’esperienza d’un ingovernabile meridione (briganti, consorterie pericolose, retour de flamme borbonico).
Carlo Cattaneo, milanese (15 giugno 1801-5 febbraio 1869), aborre l’archetipo subalpino: sogna gli Stati Uniti d’Italia e che vendano il Piemonte alla Francia separandosene con una muraglia cinese; ma supponendolo redivivo, non riesco a immaginarlo entusiasta; dista troppo, umanamente, dagli operai della devolution padana. Vediamoli. In territori già democristiani dallo sfacelo partitocratico affiora la Lega, creatura d’un demagogo fiutatore del vento: l’unica costante è una violenta retorica dialettale contro insegne e poteri dello Stato; presta man forte alla corrida giustizialista; convola nell’effimero primo gabinetto B. e l’affonda; coltiva riti fluviali, folklore pseudoceltico, messinscene separatiste, finché trova un’identità, come Mussolini 1920 quando converte i fasci in partito dell’ordine, fornendo squadre e spedizioni punitive agli agrari; la Lega diventa braccio pretoriano dell’impero d’Arcore, congenitamente anti-italiana, xenofoba, razzista, turpìloqua, insofferente delle regole, né nascondeva il fine, dissestare l’apparato statale.
L’assecondano pulsioni masochiste ex adverso. Come se non bastasse la commedia bicamerale, in quel funereo epilogo della XIII legislatura i sicuri perdenti propongono alla Cdl tre materie su cui votare d’accordo: conflitto d’interessi (viene da ridere), meccanismi elettorali, federalismo; i futuri vincitori ridono; e la coalizione moribonda vara un nuovo titolo V della Carta (Regioni, Province, Comuni), illudendosi d’adescare voti nordisti (la Lega «costola della sinistra»). Così lavorano gli apprendisti stregoni. Non essendo votato dai due terzi delle Camere, tale capolavoro richiede un referendum confermativo: ormai governa la Cdl; domenica 7 ottobre 3,4 elettori su 10 vanno alle urne; il 64 per cento della sparuta minoranza diligente risponde sì; nasce un gratuito federalismo italiano. Era scritto con i piedi: l’art. 117 enumera le materie su cui lo Stato può legiferare, chiamando «concorrenti» le altre: ma il participio va inteso nel senso contrario; Stato e Regione non concorrono affatto; una frase riserva «la potestà legislativa alle Regioni», salvi i «princìpi generali»; formula nebulosa su cui «bianco» e «nero» sono egualmente asseribili, infatti la Consulta è oberata d’un largo contenzioso. L’unico che vi guadagni davanti al suo pubblico è il condottiero padano, ora ministro delle Riforme. Naturale che voglia qualcosa in più e l’ottiene dagli alleati riluttanti (i postfascisti coltivavano una fiera retorica unitaria). Probabilmente l’exploit rimane sterile perché gli elettori chiamati al referendum non lo confermeranno, ma qualunque sia l’esito, un effetto negativo pare acquisito. Gl’italiani hanno visto quanto sia facile scardinare le «norme fondamentali», come le chiama Hans Kelsen, definitore classico dei dinamismi costituzionali: le Carte fissano scelte condivise dai costituenti; nell’epoca berlusconiana le Grundnormen sono materia banale, manipolabile da qualunque maggioranza, come le tariffe d’una gabella.
Torniamo a Cattaneo, ignorato pour cause nel tripudio devoluzionistico: cultura enciclopedica, testa fredda, un positivista educato da Giandomenico Romagnosi, contro fondamentalismi, dogmatiche, fumisterie metafisiche, pose istrionesche; con onesta ferocia confuta lo spiritualismo rosminiano; non esercita l’avvocatura né frequenta i politicanti; studia, osserva, scrive, sordo alle passioni patriottiche; nella mistica mazziniana sospetta un Ego gonfio. I moderati lo odiano. Cosa direbbe della devolution padana? Che un conto è il federalismo originario, organico, altro l’artificiale, prodotto dalla decomposizione voluta dello Stato unitario. Strenuo studioso dei fatti, solleverebbe questioni capitali: costi della riforma; razionalità ed economia del sistema futuro; quanto valga la fauna politica pullulante intorno ai nuovi organismi (nelle dispute 1860-61 Giuseppe La Farina combatte le regioni perché teme una reviviscenza delle vecchie cloache governative napoletano-palermitane); possibili perversioni. Ad esempio, la Regione diventa monopolista della scuola. E se legislatori rudi stabiliscono una ratio studiorum sulla loro misura etico-intellettuale?: dialetto, sei ore; folklore locale, altrettante; le rimanenti dodici da spartire tra italiano basic, rudimenti d’"umanità", matematica, scienze, filosofia degli affari, oratoria da tribuna, arti rampanti. Ci vuol poco a imbarbarirsi. Se le previsioni sono attendibili, lo scempio leghista resterà sulla carta, mancando la conferma referendaria, ma il virus circolava già, iniettato dagli autori della l. cost. 18 ottobre 2001 n. 3. I peccati contro l’intelligenza non risultano mai innocui, tanto meno quando fossero ciniche furberie.
T he rules of the game are changing, «le regole del gioco stanno cambiando», annuncia solennemente Tony Blair presentando le sue misure antiterrorismo a un paese in cui «per ovvie ragioni il mood è diverso» da quando, anche dopo l'11 settembre, qualunque stretta emergenzialista del diritto incontrava una fiera opposizione in parlamento o nei tribunali. Il mood , il clima psicologico, adesso è di paura; «le circostanze della nostra sicurezza nazionale sono evidentemente cambiate». Tanto cambiate da legittimare, come fa il premier, strappi nello Human Rights Act inglese e deroghe nella Convenzione europea dei diritti umani? Le regole del gioco sono davvero cambiate, se la deroga alle Carte fondamentali diventa la norma nell'era della guerra al terrorismo. Espulsioni rapide e negazione del diritto d'asilo per gli stranieri che predichino, incoraggino, promuovano, condonino o approvino odio e violenza. Probabile messa al bando di gruppi islamisti radicali come Hizb Ut Tahrir. Sottrazione della cittadinanza a chi agisce contro gli interessi della Gran Bretagna, e procedure più restrittive (compreso un esame sulla conoscenza dell'inglese) per ottenerla. Schedatura di siti, librerie, centri e network «estremisti». Modifiche nella procedura penale con estensione della detenzione preventiva per i sospetti terroristi o filoterroristi. Restrizioni nella mobilità e nella comunicazione per gli stessi cittadini britannici sospetti a loro volta di favoreggiamento o continguità. Ce n'è abbastanza, nell'elenco recitato da Blair (che il parlamento dovrà vagliare e completare da qui all'autunno), per incrinare i fondamenti non solo della tolleranza e della società multiculturale, ma della stessa cittadinanza democratica, di alcuni capisaldi della civiltà dei diritti (primi fra tutti la libertà di espressione e la non contemplabilità dei reati d'opinione), di alcuni fondamenti dell'ordine giuridico internazionale che ha retto le sorti del mondo dopo la fine della seconda guerra mondiale (primo fra tutti l'uguaglianza nella titolarità dei diritti fondamentali senza distinzione di razza, lingua, religione etc.). Sul comune fronte occidentale, l'europea Gran Bretagna si allinea agli Stati uniti di Bush nella perversa strategia che consiste nel difendere le democrazie violandone le basi giuridiche; e poco consola che questo accada paradossalmente in coincidenza con il parziale svuotamento del campo di Guantanamo e con la resa del Pentagono ai doveri di informazione sui caduti in guerra che gli impone il Freedom of Information Act.
Di fronte alla scoperta, dopo il 7 luglio, che il terrorismo non viene dall'altro mondo ma dall'interno delle metropoli occidentali, l'annunciato passaggio dalla Gwot alla Save (ovvero dalla strategia della guerra globale al terrorismo a quella contro il reclutamento violento interno) rischia solo di riprodurre e amplificare all'interno delle democrazie occidentali gli strappi del diritto e la gerarchizzazione dell'umano operati dalla guerra preventiva. Ma anche la palla del pensiero rimbalza all'interno delle democrazie occidentali. Se l'universalismo non regge alla prova della globalizzazione e dei suoi nuovi conflitti; se la cittadinanza non regge alla prova della differenza culturale o religiosa impugnata come un'arma di distruzione totale, qualcosa di cruciale s'è rotto nell'impalcatura che l'occidente ha tentato di dare alla convivenza umana. Contrastare queste tragiche, tragicissime contraddizioni rianimando poteri e barriere della sovranità nazionale con la terapia dello stato d'eccezione non porterà molto lontano.
Giovanni Paolo II muore in pubblico e sigla con l'ostensione della sua agonia un pontificato che della dimensione pubblica ha fatto la sua cifra e la sua forza politica. Non serve a niente esercitarsi in giudizi moralisti e sul numero di telecamere che hanno invaso in queste ore piazza San Pietro, o sull'uso che il Papa ha fatto dei media e che i media hanno fatto del Papa. Non è questione di strumentalità, e non è questione di privacy - quella dell'attore e quella degli spettatori - violata dall'«eccesso» sopra le righe di un Parkinson esibito e di un'agonia in diretta. Wojtyla è stato anche in questo, prima di tutto in questo, interprete del suo e del nostro tempo storico che ha nella visibilità il suo marchio; e se il segno scarno della Croce è parso più e più volte sovrastato dal primato della quantità che ha caratterizzato raduni e giubilei, certo esce rafforzato in questa icona finale della fine, di una morte invincibile e di una sofferenza estenuante, entrambe inseparabili dall'umano ed entrambe costitutive del messaggio del Dio che si è fatto uomo. Certo, la simultaneità della morte naturale del Papa e della morte «artificiale» di Terri Schiavo, entrambe in diretta planetaria, suggeriscono anche un altro giro di pensieri sull'ultimo messaggio che Wojtyla può averci voluto consegnare, ribadendo nella pratica della propria morte un comandamento tante volte enunciato ai vivi: non si può scegliere il momento della fine né la durata della sofferenza, non c'è diritto positivo o giudice terreno che possa avere la meglio sul diritto naturale e sull'imponderabile giustizia divina, non si può staccare la spina ma bisogna fino all'ultimo condividere il dolore altrui che può essere il nostro. Ma nella morte in diretta di Wojtyla c'è molto di più di questo ultimo messaggio: come spesso nella morte, c'è l'impronta di una vita, e come spesso nella morte di un sovrano, c'è l'impronta di un regno.
Sempre in primo piano nel suo pontificato, il corpo di Giovanni Paolo II che si scinde davanti ai nostri occhi nel corpo morente e nel corpo redento è l'emblema incarnato di quel doppio corpo del Re, uno secolare e mortale l'altro sacro e immortale, che tanta parte ha avuto nella teoria e nella storia della sovranità moderna. Direttamente dunque la morte in diretta del vicario di Cristo ci riporta alla vita del Sovrano: dell'unico sovrano che nel mondo post-bipolare e post-politico abbia mantenuto l'aura, mentre attorno a lui quella della politica secolare e di tutti i potenti della terra declinava. C'è nell'ultimo libro di Wojtyla, come in ogni gesto del suo pontificato, questa lucida consapevolezza e volontà di essere un protagonista di un tempo di mutamento epocale, di catastrofe dell'equilibrio precedente, di riscrittura dei confini del pianeta. Non si tratta tanto, o solo, di misurare la parte che il papa polacco ha avuto nella fine del comunismo, quanto di valutare il modo in cui ha interpretato e impersonato la fine della politica novecentesca, i motivi emergenti della biopolitica, le forme di presenza e di azione in una sfera pubblica globalizzata che perdeva le strutture storiche della rappresentanza, degli stati nazionali, del conflitto di classe. Su ciascuna di queste frontiere il pontificato di Wojtyla ha accompagnato il mutamento, sul piano dei contenuti - ambivalenti, e spesso reazionarie - e sul piano altrettanto significativo delle pratiche.
La critica dei due totalitarismi e la distinzione fra il «male assoluto» del nazismo e il «male relativo» del comunismo; la tensione pacifista contro l'emergere della guerra permanente; la critica del liberismo e del consumismo; l'ossessione antiscientifica e antitecnologica contro qualunque rischio di manipolazione della vita naturale e dell'embrione, anche a scopo terapeutico; l'altra ossessione sul controllo del mutamento femminile, del rapporto fra i sessi e della famiglia; l'ostinazione per il recupero delle radici cristiane nel ridisegno dell'identità europea: ciascuno di questi capitoli ci rinvia l'immagine di un pontificato politico estremamente tempista nella scelta stessa dei campi di intervento, e sempre pronto a giocarsi i pensieri lunghi sui tempi brevi e i principi massimi sulle scadenze minime. E altrettanto tempista nella scelta delle forme e delle pratiche con cui dare visibilità all'agire politico. Primo papa della storia a rischiare la vita in un attentato e a essere curato in ospedale, primo ad aver recitato in pubblico e ad aver lavorato in fabbrica, primo a entrare in una sinagoga e in una chiesa protestante, primo a parlare in pubblico ai musulmani, primo ad assistere a un concerto rock, primo a intervenire di persona a un congresso medico: il primato nell'uso strategico dei massmedia va inserito in questa lunga serie di piccoli ma significativi primati, e collegato al primato più significativo di tutto il pontificato, la sua cifra «populista», nel senso di un rapporto diretto con le masse religiose, anch'essa specchio riflettente delle trasformazioni che la politica ha subito, dall'89 in poi, su scala planetaria.
Ci sarà modo, del resto, di guardare la medaglia anche dal suo rovescio. Non sarà infatti certamente un caso se proprio durante il pontificato di Giovanni Paolo II la freccia del tempo della secolarizzazione si è arrestata, e i confini fra laicità e religiosità, nella politica terrena, si sono sbiaditi fino a saltare. Il tempo dei fondamentalismi, compreso quello cristiano, coincide con il tempo del primo papa venuto dall'Est a regnare su un mondo diventato, fu detto al Giubileo, «una sola terra e un solo mare». Su quest'unica terra e quest'unico mare, sono in troppi a imitare il mandato pontificio, imbracciando la spada di Dio come protesi di una sovranità secolare decaduta.
Alessandra Retico
Tra arte, pratica e politica, il subvertising parodizza e rovescia marchi e campagne pubblicitarie delle grandi corporation Usa
Repubblica on line del 7 gennaio 2003
"Obsession" di Calvin Klein: un modello "strafigo" che scruta sotto gli slip con sguardo preoccupato. Dello stesso stilista, "Reality for men": un uomo decisamente poco sexy con pancetta e torso piuttosto villoso. Ma anche "American Excess" con sottotitolo-augurio inequivocabile: "Consumers Welcome". La "M" dagli archi d'oro, quella di McDonald, onnipresente: in commistioni varie, per esempio in (M)icrosoft, o iniziali per le più svariate distorsioni (Mckiller). Esempi di un'arte-movimento-politica che va sotto il nome di subvertising, acronimo (Subvert, sovvertire e advertising, il termine inglese per pubblicità) che "sovverte" di nome e di fatto l'anima dell'economia mondiale, quella del marchio. Rovesciando il senso, illuminando la parte oscura con il potere dell'ironia, il logo viene messo a nudo, svelato per quel che è: illusione. Potentissima illusione.
Sovvertire, dissacrare, parodiare con l'antipubblicità o "spubblicità" non è altro che un gioco del rovescio che l'arte moderna conosce almeno da Velazquez (Las Meninas) ai dadaisti a Andy Warhol fino al situazionismo e alla "guerriglia semiotica" contro il potere dei mass media di cui parlava Eco alla fine dei Settanta. E che oggi, in un'epoca dominata da marketing e branding, gioca e rompe i giocattoli a disposizione, appunto marchi e griffe. Il subvertising, fenomeno insieme artistico e socio-politico, sta assumendo negli ultimi tempi proporzioni e significati importanti soprattutto grazie al palcoscenico in cui si pratica, il più ampio e diffuso che ci sia: Internet.
In Rete infatti circolano decine e decine di "spubblicità", siti di movimenti, di artisti, di "agitatori culturali", che ai grandi totem del consumo, ai marchi delle più note corporation soprattutto americane, mettono quei baffi che Duchamp mise alla Gioconda scardinando alla radice il mito e l'illusione di un'arte "alta" intoccabile. Una delle declinazioni più esemplari del gesto dell'artista dadaista nelle mani degli "spubblicitari" moderni è la bandiera americana che, al posto delle patriottiche stelle, sostiuisce il logo delle più grandi aziende Usa, da Nike a Microsoft a Shell a Coca Cola.
Il di-vertimento è la chiave e il senso multiplo della "filosofia" del subvertising: se il re nudo fa davvero ridere, allo stesso tempo cambia e rovescia il ruolo di chi lo guarda, da semplice spettatore a attore dello spodestamento. In termini economici, il consumatore non è più quello che subisce il mercato, ma lo fa, scegliendo consapevolmente cosa comprare.
E' da questa idea che nasce il subvertising, pratica e pensiero il cui padre ispiratore è una rivista canadese che è oggi un cult per il popolo no global internazionale: Adbusters. Il titolo, un programma: "ad", appunto pubblicità e buster da "to bust", rovinare. Nata nel 1989 come trimestrale a Vancouver, British Columbia, per volontà del suo attuale direttore Kalle Lasn, Adbusters ("rivista per per l'ambiente mentale") è oggi un bimestrale che vende 120 mila copie in tutto il mondo e abbonati in 60 Paesi. Il sito Internet (www. adbusters. org) raggiunge una media di 8.000 contatti al giorno e sessantamila iscritti alla sua lista. A lei si devono due iniziative di successo come il Buy Nothing Day - la giornata del non acquisto lanciata sin dai primi anni '90 - che vede la partecipazione di oltre un milione di persone in cinquanta paesi del mondo, e la Tv Turnoff Week - la settimana senza televisione - che è diventato un appuntamento fisso a cadenza bimestrale, coinvolgendo ogni volta circa ottantamila persone.
La rivista, che dal '99 a Seattle ha conosciuto una crescita che pare inarrestabile, è oggi il cuore e il network di comunicazione dei "culture jammer" di tutto il mondo, cioè proprio di quei "inceppatori culturali" che nel subvertising trovano una delle espressioni più notevoli. Per Feltrinelli è da poco uscito "Errore di sistema", un libro a cura di Franco "Bifo" Berardi, Lorenza Pignatti e Marco Magagnoli che racconta l'esperienza di Adbusters e le sue pratiche contro il dominio del consumo. Il messaggio è che dopo vent'anni di fanatismo economico, di superlavoro e di competizione, siamo in piena fase depressiva. Mentale soprattutto: come quando il computer "cresha" e sullo schermo appare la scritta "system error" seguita da un numero incomprensibile. La soluzione, suggerita da Lasn: "Interrompere la trance mediatica nella quale siamo immersi per riappropriarci della nostra mente, del nostro corpo, della nostra vita."
Carla Ravaioli
Senza piú opposizioni
da “Un mondo diverso è necessario”, Editori riuniti, Roma 2002
[…] L'etica produttivística ha trovato nella favola pubblicitaria, confezionata con un'intelligenza mistificatoria via via piú raffinata e penetrante, lo strumento capace di esercitare sulle persone, fino al limite del plagio, una pesante manipolazione psicologica e comportamentale. Sostenuta dall'analgesica promessa del benessere dell'efficienza della modernitá, confortata dal rozzo edonismo della felicitámerce, mimetizzata sotto la vernice scintillante del progresso tecnologico, maliziosamente ammantata di libertá e trasgressiva disinvoltura; perfino pretendendo di allinearsi al «politically correct» della difesa ambientale per lanciare cibi industriali o sacchetti di plastica in nome della natura; o addirittura camuffandosi di contestazione, con prontezza cogliendo qualche tratto delle giovanili culture della rivolta per divorarle, metabolizzarle e restituirle sotto forma di merce: la pubblicitá non solo ha egregiamente risposto al suo compito di promozione merceologica, ma ha svolto una potente azione conservatrice. Dando un contributo decisivo a quel processo che poco a poco ha imposto il consumo come principale simbolo di affermazione e di successo, ponendosi come pilastro di quella fabbrica di «oggetti del desiderio e soggetti desideranti» che é la realtá antropologica attuale. «L'anima del commercio» era un tempo definita la pubblicitá: oggi é piú esatto parlare di «anima del sistema».
Forse d'altronde la piú convincente riprova di tutto ció é che, proprio mentre la moltiplicazione via via piú accelerata dei messaggi pubblicitari andava surclassando il ritmo della stessa crescita produttiva, e overdosi di comunicati commerciali ci invadevano fino a divenire ininterrotto rumore di fondo delle nostre giornate, anzi dell'intera nostra vita, il discorso critico spesso assai duro che per qualche decennio nel passato si era accentrato su questi problemi, é andato via via perdendo consistenza e attenzione, finché tutta la materia veniva archiviata, inappellabilmente dichiarata fuori moda. Non a caso, mentre il mercato si affermava, praticamente senza piú opposizioni, come perno e motore non solo del sistema economico, ma della cultura vincente nel pianeta, e il consumo diventava dovere e rito di integrazione sociale, e la crescita produttiva veniva brandita e universalmente perseguita come la soluzione di tutti i malanni del mondo, la pubblicitá da promozione di merci finiva per affermarsi come una delle dimensioni caratterizzanti dell'oggi, imponendosi al costume, ai comportamenti e all'intera forma sociale, senza che piú nessuno, di nessuna parte politica, ci trovasse qualcosa da ridire.
Al contrario, con un netto capovolgimento di posizioni sovente da parte di quegli stessi che l'avevano analizzata con l'occhio piú severo, l'attivitá pubblicitaria é andata qualificandosi come una delle piú apprezzate espressioni culturali e addirittura «artístiche». Giornalisti impegnati e opinion leader di prima grandezza fanno a gara nel magnificarne le ultime invenzioni e i loro autori, per antonomasia definiti «i creativi» e a pieno titolo entrati nei piú qualificati ambienti intellettuali, intervistati sui temi piú diversi, festeggiati in serate di gala in loro onore, premiati in concorsi per spot particolarmente efficaci: t vero d'altronde che in mezzo alla gran massa banale e melensa della produzione ordinaria, non sono pochi i messaggi commerciali di qualitá notevole. Ció che non puó stupire dato che in questo campo, attratti da compensi elevatissimi, lavorano i cervelli piú apprezzati del momento; e non solo famosi registi, fotografi, attori, ma anche letterati e poeti non disdegnano di prestare la loro opera, per lo piú in anonimo ma a volte anche platealmente con la loro stessa presenza fisica, alla celebrazione della merce. […]
Niente di nuovo all’Ovest è il titolo di un famoso romanzo di Erich Maria Remarque. Quel titolo, non la vicenda di guerra narrata nel libro, sembra applicarsi alla condizione di questa nostra civiltà occidentale. Niente di nuovo, perché?
Quindici anni fa comparve un saggio altrettanto famoso, di Francis Fukuyama, La fine della storia. Il quale suscitò critiche e anche scherni. Con qualche ragione. La tesi centrale era che ormai il mondo dell’Occidente aveva raggiunto, nel segno della felice congiunzione della democrazia e del mercato, uno stato stabile, steady state: non statico, nel senso che nulla più si muovesse. Tutto avrebbe continuato a muoversi, ma ormai monotonicamente, in una stessa direzione: come un grande fiume tranquillo, senza quelle cascate, rapide, cateratte: insomma quelle discontinuità (rivoluzioni, guerre, massacri, avventi religiosi, rivolgimenti culturali) che fanno, propriamente, la storia. Chi si aspettava questo scenario irenico è rimasto deluso. In questi quindici anni è successo di tutto.
Eppure, in un certo senso, Fukuyama aveva ragione. È successo di tutto, in Occidente – che di questo si trattava nel libro – ma nello stesso tempo, non è successo niente. Niente che abbia mutato il senso generale, propriamente essenziale della sua marcia.
La quale è, avrebbe detto Elias Canetti, la «muta di accrescimento». Non guerre e rivoluzioni, svolte fatali che mutano la direzione della società, ma la pura e semplice crescita della ricchezza economica della società stessa. Questa è la legge, questo è il vangelo. Come legge dell’Occidente e come modello per il mondo intero.
Certo, tensioni sociali esplodono, periferie si incendiano. Ma poi si placano, in un ritorno rassicurante alla normalità. Non c’è risposta che corregga la direzione di marcia delle «democrazie di mercato».
O meglio, la risposta è la teologica imitazione di Cristo (il dio mercato) predicata dalla più intelligente, informata ironica e mercatistica rivista del mondo, l’Economist. Osservando il malumore crescente suscitato nel mondo dalla globalizzazione, essa affermava qualche settimana fa che ciò che è necessario è che, di globalizzazione, ce ne sia di più. Riferendo poi sui moti francesi con britannica esultanza (France’s failure) li ha attribuiti alla rigidità del mercato del lavoro francese, che provoca una massiccia disoccupazione dalla quale scaturisce la rivolta delle periferie; e alla resistenza opposta all’adozione del modello economico americano dove la disoccupazione è molto minore e le periferie stanno tranquille.
Insomma, l’Occidente si muove ormai a senso unico. O senza senso? Il grande fiume tornerà sempre a scorrere. O no? Franco Venturini ha scritto sul Corriere della sera un lucido articolo che si riassume nella constatazione di un «nuovo smarrimento mondiale», di un disarmo di quella Storia che si voleva morta e della necessità di riconoscere il compito vero, che è quello di «ripensare, davvero, l’Occidente».
Non sono, le periferie delle nostre città ricche e meravigliose, il luogo di una sorda inquietudine che chiede spiegazione, non solo a Parigi, ma in tutto l’Occidente? Di un "Western failure"? Non dovrebbe, l’Occidente, anziché "francesizzare" quell’inquietante fenomeno, comprendere che de te fabula narratur: che esso si inquadra in una malattia minacciosa almeno quanto quella dei polli e altrettanto priva di risposte tranquillizzanti? È davvero pensabile che la risposta al disagio sociale, tanto per fare un esempio, sia racchiusa in una scelta esaltante come quella proposta dal liberismo, di una precarietà sottopagata al posto di una disoccupazione assistita?
Il tema del tramonto dell’Occidente non è certo nuovo. Il libro di Spengler, a suo tempo, segnò un’epoca del pensiero pessimista del Novecento. Non si può dire che, concepito durante la prima guerra mondiale, non fosse seguito da catastrofi immani. Dalle quali, però, l’Occidente è rinato sotto un segno compiutamente diverso, per molti versi opposto: il segno della pace (tra i paesi occidentali non ci sono state più guerre dall’ultimo sterminio mondiale, per oltre mezzo secolo) e dello sviluppo economico (la produzione dei paesi dell’Occidente, in questo mezzo secolo, è triplicata). Dunque, la profezia di Spengler è stata falsificata.
Ma il nuovo corso non ha affatto prodotto quello stato di benessere, di felicità pubblica, che gli era sottinteso. Al contrario: il mondo delle società ricche è un mondo angosciato, frustrato, spaventato. La spiegazione più ovvia è che la ricchezza, oltre che soddisfare domande antiche, ha suscitato domande nuove, le quali generano nuove insoddisfazioni e nuove frustrazioni. La risposta dell’Occidente ricorda l’esortazione di un motto celebre: continuez continuez! E cioè, proseguite sulla strada di una crescita che corra dietro alle domande che la crescita stessa genera, in un inseguimento perenne che sembra ormai la costante di una società esposta (questo sì che è nuovo) alle minacce provenienti dal mondo esterno. Sinceramente, non sembra una risposta rassicurante.
Le tensioni generano nuovi «proletariati interni» che possono combinarsi con nuovi «proletariati esterni» creando condizioni non controllabili di disgregazione sociale. Nuovi tremendi problemi, come quello dell’immigrazione di massa, investono, dall’interno e dall’esterno, l’intera Europa. L’autocompiacenza alla quale si ispira il pensiero oggi dominante in Occidente non è una prova di pragmatica saggezza, ma di irresponsabile cecità.
Ci si deve dunque chiedere se la riflessione sull’Occidente debba limitarsi al problema evocato dai fatti di Francia – l’immigrazione e i diversi modelli di integrazione – o non debba estendersi, come è giustamente suggerito, a un ripensamento dell’Occidente sull’Occidente stesso. In questo caso, la questione dominante dovrebbe diventare l’inceppamento di quella forza propulsiva che ha proiettato l’Occidente verso il primato mondiale: e che è la coniugazione, come Fukuyama afferma, della democrazia e del mercato.
Questa formula felice sembra si sia avvitata, infatti, in un circolo vizioso. E la ragione mi sembra questa: che ambedue i fattori del successo dell’Occidente, il mercato e la democrazia, sono mezzi, non fini. I fini sono rappresentati da valori, ideologici o religiosi; oppure da un progetto laico e mondano, che tuttavia soddisfi il bisogno di senso. E l’Occidente, mentre ha smarrito i primi, non è stato capace di elaborare il secondo.
È, questa, una condizione fragile e pericolosa. Una civiltà che perde l’anima è una società già morta. Nè il mercato né la democrazia posssono sostituirla. Non è pensabile che essa si avviti in un eterno ritorno dell’eguale. In assenza di un fine mobilitante, di una tensione trascendente, infatti, essa finirà, prima o poi, per disintegrarsi sotto gli urti degli inevitabili conflitti, interni ed esterni. Di fronte a problemi come quello di integrare la nuova immigrazione di massa, è del tutto frivolo chiedersi come integrarsi, se nel modo multietnico o nel modo etnocentrico; quando il problema è diventato: in che cosa?
È noto che la decisione iniziale di lavorare alla realizzazione della bomba è provocata dal timore che Hitler ne fabbrichi una a sua volta. Ma, nel 1943, i servizi d´informazione alleati stabiliscono che la Germania ha accantonato questo progetto. Tuttavia, le ricerche sul potere della reazione nucleare negli Stati Uniti proseguono. I fisici hanno relegato al fondo della loro coscienza la questione della giustificazione ultima, sono mossi adesso dal desiderio di risolvere un problema tecnico di una straordinaria complessità. Il pensiero strumentale, esemplificato qui in modo eloquente, impone questo collegamento: se una cosa è possibile, essa deve divenire reale; e se esiste uno strumento, allora bisogna servirsene. In nessun momento interviene una domanda sui fini ultimi, sulle ragioni di un simile agire. La tecnica sembra decidere per noi. Sarebbe stato logico, essendo la bomba concepita come una protezione contro Hitler, rinunciare a servirsene una volta sconfitto. Ma è una cosa inconcepibile per il pensiero strumentale e burocratico: poiché il progetto è stato lanciato, bisogna condurlo fino al termine.
L'ambigua reazione di Karol Wojtyla nei confronti di Passion, il film di Mel Gibson, è ben nota. Subito dopo averlo visto, profondamente commosso, ha mormorato: «È proprio come avvenne in realtà!», dichiarazione poi velocemente ritrattata dai portavoce ufficiali del Vaticano. La reazione spontanea del papa è stata dunque immediatamente sostituita dalla posizione neutra «ufficiale», emendata in modo da non ferire nessuno. Con questa ritrattazione, con questa concessione alla sensibilità liberale, il papa ha tradito ciò che di meglio c'era in lui, la sua intrattabile posizione etica. Oggi, in un'epoca di ipersensibilità verso il rischio di essere molestati dall'Altro, sta diventando un atteggiamento sempre più diffuso lamentarsi della «violenza etica» e criticare quegli imperativi etici che ci «terrorizzano» con le loro brutali imposizioni. L'ideale normativo di questa critica è un'«etica senza violenza», che (ri)negozia perennemente le sue norme: la critica culturale più alta incontra qui inaspettatamente la psicologia pop più bassa.
Durante una serie degli «Oprah Winfrey shows» John Gray, l'autore di Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, ha spinto questa posizione all'estremo: dato che, in fin dei conti, «siamo» le storie che raccontiamo a noi stessi su noi stessi, la soluzione a un' impasse psichica sta nella riscrittura «positiva», creativa, del nostro passato. Gray non aveva in mente semplicemente le comuni terapie cognitive che mirano a trasformare le «false credenze» negative su se stessi in un atteggiamento più positivo, nella certezza di essere amati dagli altri e capaci di risultati creativi, quanto piuttosto un'idea più «radicale», pseudo-freudiana, di regressione fino alla scena della ferita traumatica primordiale. Gray accetta la nozione psicoanalitica secondo cui un'esperienza traumatica nella prima infanzia può segnare per sempre lo sviluppo futuro del soggetto facendolo virare in senso patologico, ma propone che il soggetto, sotto la guida del terapeuta, dopo essere regredito fino alla sua scena traumatica originaria ed averla così rivissuta direttamente, «riscriva» questa scena, questa struttura ultima del suo universo di significato, rendendola più «positiva», benigna e produttiva. Se, ad esempio, la scena traumatica primordiale che grava sul nostro inconscio deformando e inibendo la nostra creatività è quella di nostro padre che ci gridava «Non vali niente! Ti disprezzo! Non combinerai niente di buono!», noi dovremmo riscriverla ottenendo così una nuova scena con un padre benevolo che ci sorride affettuosamente dicendoci: «Sei in gamba! Mi fido pienamente di te!»
New Age cristiano
Per portare questo gioco fino alle estreme conseguenze, quando Wolfman, nel famoso caso clinico di Freud, «regredisce» fino alla scena traumatica che aveva determinato il suo sviluppo psichico successivo (il coitus a tergo dei genitori cui aveva assistito) la soluzione non sarebbe forse riscrivere la scena? In questo modo egli avrebbe visto solamente i suoi genitori stesi sul letto e intenti a leggere, il padre un giornale e la madre un romanzo sentimentale.
Il problema è che quanto viene qui evocato come esagerazione satirica, oggi sta succedendo veramente. Si pensi a come le minoranze etniche, sessuali ecc. riscrivono il loro passato in chiave più positiva, di autoaffermazione: gli afro-americani sostengono che molto prima della modernità europea, gli antichi imperi africani possedevano già un alto livello di sviluppo nella scienza e nella tecnologia, ecc.
Su questa falsariga, possiamo immaginare una riscrittura dello stesso Decalogo. Qualche comandamento è troppo severo? Regrediamo fino alla scena sul Monte Sinai e riscriviamola! «Tu non commetterai adulterio, a meno che esso non sia emotivamente sincero e non serva alla tua realizzazione profonda...»
Che cosa va perduto, in questa totale apertura del passato alla sua successiva riscrittura? Esemplare è qui The Hidden Jesus di Donald Spoto, una lettura «liberal» del cristianesimo contaminata dalla New Age, in cui a proposito del divorzio possiamo leggere: «Gesù ha chiaramente condannato il divorzio e il nuovo matrimonio. (...) Ma Gesù non è andato oltre, non ha detto che il matrimonio non può essere rotto (...). Da nessun'altra parte, nel suo insegnamento, c'è una situazione in cui egli incateni per sempre le persone alle conseguenze del suo peccato. Tutto il suo approccio nei confronti delle persone era liberarle, non legiferare (...). È del tutto evidente che di fatto alcuni matrimoni semplicemente crollano, che gli impegni vengono abbandonati, che le promesse vengono violate e l'amore tradito».
Il rovescio del diritto
Queste righe, per quanto comprensibili e «liberal», implicano una confusione fatale tra alti e bassi emotivi, e un impegno simbolico incondizionato che deve resistere proprio quando non è più supportato da emozioni dirette: «Tu non divorzierai, tranne quando il tuo matrimonio `di fatto' crolla, quando diventa un peso emotivo insopportabile che frustra tutta la tua vita». In breve, tranne quando la proibizione di divorziare avrebbe guadagnato il suo pieno significato (giacché chi divorzierebbe quando il suo matrimonio è ancora vitale?). È così che oggi tendiamo a stabilire un collegamento negativo tra il Decalogo (i comandamenti divini imposti traumaticamente) e i diritti umani, sebbene in ultima analisi il tema moderno dei diritti umani sia radicato nella nozione ebraica dell'amore per il vicino. Ossia, all'interno della nostra società liberal-permissiva, post-politica, in fondo i diritti umani sono semplicemente il diritto di violare i dieci comandamenti. «Il diritto alla privacy»: il diritto all'adulterio, commesso in segreto, quando nessuno mi vede o ha il diritto di intromettersi nella mia vita. «Il diritto di cercare la felicità e di possedere la proprietà privata»: il diritto di rubare (o sfruttare gli altri). «La libertà di stampa e la libertà di esprimere la propria opinione»: il diritto di mentire. «Il diritto dei liberi cittadini di possedere armi»: il diritto di uccidere. E, infine, «la libertà di fede religiosa»: il diritto di adorare falsi dei.
Quando, dunque, ci liberiamo di questo meccanismo? L'estrema ironia postmoderna è lo strano scambio tra Europa e Asia: nel momento stesso in cui, a livello dell'«infrastruttura economica», la tecnologia e il capitalismo «europei» stanno trionfando in tutto il mondo, a livello della «sovrastruttura ideologica» l'eredità giudaico-cristiana è minacciata nello stesso spazio europeo dall'assalto del pensiero «asiatico» New Age. Quest'ultimo, nelle sue diverse guise che vanno dal «buddismo occidentale» (odierno contrappunto al marxismo occidentale, in contrapposizione al marxismo-leninismo «asiatico») ai diversi «Tao», si sta affermando come l'ideologia egemonica del capitalismo globale. In questo risiede la più alta identità speculativa degli opposti nella civiltà globale di oggi: pur presentandosi come un rimedio contro la tensione e lo stress della dinamica capitalistica che ci consente di liberare e mantenere la nostra pace interiore, la Gelassenheit, in realtà il «buddismo occidentale» funge da perfetta appendice ideologica a questo tipo di dinamica. Dobbiamo qui menzionare il tema ben noto del «future shock», ossia di come oggi, psicologicamente, le persone non riescono più a tenere testa al ritmo abbacinante dello sviluppo tecnologico e dei cambiamenti sociali che lo accompagnano. Semplicemente, le cose si muovono troppo in fretta: prima che abbiamo il tempo di abituarci a un'invenzione, questa è già soppiantata da un'altra, sicché siamo sempre più privi della più elementare «mappa cognitiva». Il ricorso al taoismo o al buddismo offre un'uscita da questa situazione, decisamente più efficace della fuga disperata nelle vecchie tradizioni: invece di sforzarci di stare al passo con il ritmo in accelerazione del progresso tecnologico e dei cambiamenti sociali, dovremmo piuttosto rinunciare al tentativo di mantenere il controllo su ciò che avviene, rifiutandolo in quanto espressione della moderna logica del dominio. Dovremmo invece «lasciarci andare», vivere alla giornata, opponendo una distanza interiore e un atteggiamento di indifferenza alla danza folle del processo di accelerazione: una distanza basata sulla nozione che tutto questo sconvolgimento sociale e tecnologico è in fin dei conti solo un proliferare non sostanziale di sembianze che non riguardano il nocciolo più recondito del nostro essere... Si è quasi tentati di resuscitare qui il vecchio, famigerato cliché marxista della religione come «oppio dei popoli», come appendice immaginaria della miseria terrestre: la posizione meditativa «buddista occidentale» è probabilmente il modo più efficace, per noi, di partecipare pienamente alla dinamica capitalistica conservando allo stesso tempo l'apparenza della sanità mentale. Se oggi fosse vivo, Max Weber scriverebbe senz'altro un supplemento al suo L'etica protestante e lo spirito del capitalismo intitolato L'etica taoista e lo spirito del capitalismo globale.
La grandezza di Giovanni Paolo II stava nel fatto che egli impersonava il rifiuto di questa facile scappatoia liberale. Anche quanti ne rispettavano la posizione morale, solitamente accompagnavano quest'ammirazione con l'osservazione che egli restava però irrecuperabilmente all'antica, addirittura medievale, attaccato ai vecchi dogmi, non in contatto con le esigenze attuali. Come si può al giorno d'oggi ignorare la contraccezione, il divorzio, l'aborto? Non sono questi, semplicemente, fatti della nostra vita? Come può il papa negare il diritto ad abortire persino a una suora rimasta incinta in seguito a uno stupro (come è effettivamente successo nel caso delle suore stuprate durante la guerra in Bosnia)? Non è evidente che, anche se in linea di principio si è contrari all'aborto, in un caso così estremo si dovrebbe piegare il principio e acconsentire a un compromesso?
Ora possiamo capire perché il Dalai Lama è molto più adatto alla permissiva epoca postmoderna. Egli ci propone un vago spiritualismo basato sul benessere, senza obblighi specifici: chiunque, anche la più decadente star hollywoodiana, può seguirlo continuando allo stesso tempo nel suo stile di vita promiscuo e avido di denaro... Il papa, al contrario, ci ricorda che un atteggiamento propriamente etico comporta un prezzo da pagare; è il suo testardo attaccamento ai «vecchi valori», il suo ignorare le pretese «realistiche» del nostro tempo anche quando le argomentazioni contrarie appaiono «ovvie» (come nel caso della suora stuprata), a renderlo una figura autenticamente etica.
Ma Giovanni Paolo è stato all'altezza del suo compito? La chiesa cattolica ha la sua organizzazione segreta, la famigerata Opus Dei, la «mafia bianca» della chiesa, l'organizzazione (semi)segreta che incarna in qualche modo la pura Legge al di là di ogni legalità positiva: la sua regola suprema è l'obbedienza incondizionata al papa e la spietata determinazione a lavorare per la chiesa, con la (potenziale) sospensione di tutte le altre norme. Di regola i suoi membri, il cui compito è penetrare nei principali circoli politici e finanziari, tengono segreta la loro affiliazione. In quanto membri dell'Opus Dei, essi sono effettivamente «opus dei», «opera di dio», ossia assumono la posizione perversa di strumento diretto della volontà divina.
L'appendice segreta
Ci sono poi i molti casi di bambini molestati sessualmente da preti. Questi casi sono talmente diffusi, dall'Austria e dall'Italia fino all'Irlanda e agli Usa, che possiamo effettivamente parlare di un'articolata «controcultura» all'interno della chiesa, con il suo insieme di regole nascoste. E c'è un'interconnessione tra i due livelli, dato che l'Opus Dei interviene regolarmente per mettere a tacere gli scandali sessuali dei preti. Incidentalmente, la reazione della chiesa agli scandali sessuali rivela anche il suo modo di percepire il proprio ruolo. Essa sostiene che questi casi, per quanto deplorevoli, sarebbero un suo problema interno e mostra una grande riluttanza a collaborare con la polizia nelle indagini. E, in un certo senso, è giusto: molestare i bambini è un problema interno della chiesa, è cioè un prodotto intrinseco della sua organizzazione istituzionale e dell'economia libidica su cui essa si basa. Non si tratta semplicemente di una serie di reati particolari riguardanti individui che si dà il caso siano preti.
Per rispondere a questa riluttanza della chiesa non dovremmo limitarci a dire che abbiamo a che fare con dei reati e che la chiesa, non partecipando pienamente alle indagini, ne diventa complice. Al di là di questo, la chiesa come tale, come istituzione, va indagata in relazione al modo in cui essa crea sistematicamente le condizioni perché tali reati avvengano. Questa è una delle ragioni per cui non possiamo spiegare gli scandali sessuali che vedono coinvolti i preti come una manovra degli oppositori del celibato finalizzata a dimostrare come le pulsioni sessuali dei preti, non trovando uno sbocco legittimo, siano destinate a esplodere in modo patologico. Consentire ai preti cattolici di sposarsi non risolverebbe niente, avremmo comunque dei preti che molestano i ragazzini: la pedofilia è generata dalla stessa istituzione cattolica del sacerdozio, come sua oscena appendice segreta.
Ed è qui che il papa ha fallito: a dispetto delle sue pubbliche espressioni di preoccupazione, egli ha evitato di affrontare le radici e le conseguenze degli scandali sulla pedofilia. Sotto il suo pontificato, l'Opus Dei è diventata più forte che mai e il papa ha persino dichiarato santo il suo fondatore (un antisemita dichiarato e un protofascista), un atto che manifestamente contraddice e dunque cancella la sua apologia nei confronti degli ebrei per i crimini commessi ai loro danni dalla chiesa per secoli. Per questo motivo, Giovanni Paolo II è stato un fallimento etico, una prova di come anche una posizione etica sinceramente radicale possa essere una posa fasulla, vuota se non prende in considerazione le sue condizioni e conseguenze.
Traduzione di Marina Impallomeni
Il colore viola sul dito degli elettori iracheni diventerà d'ora in poi il simbolo del trionfo della democrazia in Iraq e della sua esportabilità (armata) ovunque nel mondo? Realisticamente credo che dovremmo rispondere di sì, unendoci a gran voce al coro dei cantori della vittoria politica e simbolica dell'amministrazione Bush. Di questo trionfo siamo soddisfatti, ne sentiamo nutrito l'orgoglio di appartenere a quel pezzo di mondo che si chiama Occidente e che alla democrazia ha dato i natali e l'ambizione universalista? Realisticamente credo che dovremmo rispondere di no, separandoci nettamente da quel coro. Come stiano assieme questo sì e questo no, è un paradosso che non è ascrivibile allo «scetticismo» che gli entusiati del voto di domenica rimproverano ai pacifisti e a quanti hanno contestato l'occupazione dell'Iraq, la strategia della guerra preventiva e l'esportazione armata della democrazia. E' ascrivibile invece e purtroppo allo stato in cui versa la democrazia: in Occidente dov'è radicata, prima che in Iraq dov'è stata violentemente impiantata. I cronisti della storica giornata elettorale e chi conosce bene la situazione irachena avranno modo di analizzare minutamente le percentuali promettenti di partecipazione al voto, le fratture politiche, etniche e religiose che tuttavia sottostanno ad esse, i conflitti che inevitabilmente continueranno a imperversare, l'altolà che le urne sembrano aver dato al terrorismo, le piegature che l'occupazione dei «volenterosi» prenderà da qui in avanti. A noialtri resta il compito di interrogarsi sulla forbice che divide la fiducia nel rito elettorale di quegli otto milioni di iracheni, donne e uomini, dalla sfiducia che lo contrassegna nelle democrazie occidentali. E non è sopportabile il paternalismo di alcuni commenti della prima ora, che ci invitano a sciacquare il disincanto apatico e spesso astensionista delle democrazie mature nell'acqua fresca del neonato senso civico iracheno, e accusano di razzismo chi ha osato dubitare che la democrazia possa essere esportata a viva forza laddove non c'è ancora. Come sempre, sono accuse che vanno rovesciate sull'ipocrisia di chi le fa. Non era della ricettività democratica, per così dire, degli iracheni che dubitavamo; era, ed è, della qualità della merce esportata e dei suoi venditori.
Gli iracheni hanno tutte le ragioni per riporre fiducia, speranza ed entusiasmo in un atto che comunque offre a una società sofferente e segnata dalla dittatura e dalla guerra una possibilità di espressione e di scelta. Ma noi avremmo tutte le ragioni, e qualche dovere, per interrogarci sul peso e l'efficacia effettiva di quell'atto in quelle condizioni; e sull'immagine della democrazia in Occidente che, come in uno specchio, l'Iraq di domenica ci rimanda. Fahmi Hweidi, firma autorevole del quotidiano egiziano Al Ahram e di altre testate del mondo arabo, in un articolo pubblicato ieri dal Corriere della Sera ha acutamente evidenziato le contraddizioni insite in democrazie che vengono impiantate su terreni privi di libertà, e in «libere elezioni» che si svolgono in assenza di libere opinioni pubbliche.
Ma non è solo questo il punto. Il punto è che l'Occidente esporta un'idea e una pratica di democrazia ridotta al solo rito elettorale, e a un rito elettorale tutt'altro che trasparente, prima che a Baghdad, in casa nostra: dove fra ogni testa e ogni voto si frappone una montagna di opacità fatta di potentati economici e manipolazione massmediatica, la frequentazione delle urne non contrasta la crisi verticale della rappresentanza e della partecipazione, la libertà di voto non compensa la caduta della libertà politica. E' questa la democrazia che esportiamo con le armi, e che ha bisogno delle armi per essere esportata; è questa la democrazia che trionfa, e del cui trionfo c'è poco da gioire. E' di noi che parla l'Iraq.
L’uguaglianza
Le donne e gli uomini sono tutte e tutti uguali. Ogni essere umano nasce con lo stesso diritto ad una vita compiutamente realizzata, senza distinzioni di genere, casta, censo, reddito, etnia, religione. Lo scopo fondamentale della politica è quello di affermare questo principio. Aspirando a costruire un mondo dove le disuguaglianze siano sempre minori. Il compito primario della politica non è quello di assicurare efficienza allo sviluppo, ma di ridurre e cancellare le sopraffazioni e le disuguaglianze nelle relazioni tra persone, popoli, Stati. Solo in questo modo si può garantire il diritto fondamentale all’individualità e alla differenza. Una società equilibrata salvaguarda le differenze e difende i diritti individuali, una società ingiusta e gerarchizzata li cancella. Il dovere essenziale della politica in una società moderna è quello di contrastare tutte le discriminazioni: quelle teoriche e quelle pratiche, quelle economiche e quelle sociali, quelle formali e quelle di sostanza. Di queste discriminazioni il razzismo e la xenofobia sono le più odiose e aberranti.
La libertà
Ogni essere umano nasce libero. Ogni essere umano ha diritto a vivere libero. Non ci potrà essere libertà se non si demoliscono le basi della schiavitù dal bisogno, dello sfruttamento del lavoro, dell’egoismo sociale, dell’oppressione patriarcale, della superstizione, del nazionalismo. La libertà si realizza abbattendo il dominio. L’affermazione di una società pienamente libera avviene attraverso la critica e il ridimensionamento del potere. La libertà degli individui e dei popoli, cioè la possibilità di vivere la propria vita di tutti i giorni e di costruire il proprio destino in razionalità e autonomia, resta un insopprimibile bisogno umano.
La fraternità e la sorellanza
La convivenza solidale tra le persone è alla base di ogni civiltà: solo il vincolo amichevole della specie, solo la capacità di rapporto con l’Altro e con l’Altra, solo la costruzione attiva di un legame di fratellanza e sorellanza, hanno reso possibile la straordinaria storia dell’umanità. Contro le pulsioni distruttive dell’homo homini lupus, contro il ritorno dello spirito maschile e guerriero, contro la pratica della morte e dello sterminio, la sorellanza e la fratellanza sono oggi dimensioni essenziali. Le sole che possono indicarci un orizzonte di felicità.
Lo sviluppo
Lo sviluppo non si misura con la falsa neutralità del Pil: non è la cieca crescita quantitativa di merci. E’ un progetto di rinascita economica e sociale rispettoso dell’ambiente, dei diritti delle generazioni che verranno, e della necessità di un’equa distribuzione della ricchezza. La terra è di tutti. La ricchezza economica e tecnoscientifica deve servire a tutti. Ai viventi e ai futuri abitanti della Terra.
I diritti di nuova cittadinanza
Ogni persona è cittadina se può esercitare i diritti basici di partecipazione alla politica. Se può difendersi dal potere. Se ha di fronte una giustizia non discriminatoria per classe e per censo. Se può liberamente esprimere le proprie idee e le proprie speranze. Ma una cittadinanza piena è imprescindibile dall’estensione di diritti sostanziali universali: allo studio, alla salute, alla mobilità, all’abitazione e alla dignitosa sopravvivenza. La cultura, l’informazione, la sanità, i trasporti di base, la casa, per acquisire davvero questo statuto universale, non possono che essere sottratti al dominio delle merci e del Privato. La scuola pubblica, laica e plurale, luogo della convivenza, dell’incontro e della contaminazione, è la base di questa ispirazione. Lo Stato non deve finanziare la libera istruzione privata.
La famiglia
Le donne sono il soggetto della più straordinaria e prolungata rivoluzione del nostro tempo, fondata sulla libertà e l’autodeterminazione femminile. Alla base della convivenza sociale, che assume la diversità di genere e di orientamento sessuale come tratto distintivo della libertà moderna, c’è dunque la libera scelta delle persone - con il solo limite stabilito dal rispetto della libertà altrui. La famiglia si articola oggi in una vasta molteplicità di opzioni e di libere unioni, contro ed oltre il dominio patriarcale, contro ed oltre ogni gerarchia stabilita autoritativamente, contro ogni idea tradizionale che limiti la libertà sessuale.
Il rifiuto del razzismo
Oggi nessuno può credibilmente argomentare la superiorità dell’“uomo bianco”. Esiste però una posizione, diffusa, che afferma la superiorità culturale e civile dell’occidente sugli altri popoli del pianeta. La chiusura delle frontiere, la categoria del “clandestino” sorreggono questo nuovo razzismo. Noi affermiamo, al contrario, il diritto dei popoli a emigrare, a viaggiare, a mescolarsi e ci opponiamo alle chiusure delle frontiere
Il dialogo tra le civiltà
Il dialogo tra le diverse civiltà è una risorsa per l’umanità. La civiltà occidentale - quel mix complesso di cultura progressista nata dall’illuminismo, dal liberalismo, dal cristianesimo e dal contributo del movimento operaio, è solo una delle civiltà che abitano il pianeta. Altre si sono espresse, anche con molta forza e splendore, in epoche passate, altri orizzonti attraversano l'immaginario delle popolazioni mondiali. Il dialogo tra le civiltà è la nuova frontiera dell’umanità, l’unico orizzonte credibile per un futuro di pace e di benessere reciproco.
La lotta al terrorismo
Il terrorismo è una forma atroce e inaccettabile di lotta politica. Esso annienta i corpi, moltiplica le vittime e perciò stesso rende muta la politica. Oggi l’ipoteca del terrorismo pesa non solo sulle popolazioni occidentali ma molto di più sullo stesso mondo arabo-musulmano schiacciato dal fallimento delle speranze progressiste, dominato dal neocolonialismo e reso ostaggio di formazioni integraliste e reazionarie che fanno dello strumento terroristico un uso spregiudicato quanto lucido. Il terrorismo non si spiega solo con la disperazione sociale in quanto vive di una sua autonoma progettualità politica. Tuttavia l’aggressione dell’occidente capitalistico lo alimenta e lo rafforza. Battere il terrorismo significa innanzitutto offrire una possibilità di autoliberazione democratica ai popoli arabo-musulmani, e questo non può avvenire se non si pone fine alle guerre e all’oppressione nei loro confronti.
La pace e la nonviolenza
La guerra va respinta. Senza se e senza ma. Va espulsa dalla storia e dalla legalità internazionale. Bisogna opporsi alle aggressioni che l’Occidente, e gli Stati Uniti, continuano a perpetrare ai danni del Sud del mondo. Diciamo sì alla pace, alla convivenza dei popoli, alla pari dignità delle culture. Ci impegniamo sulla frontiera dell’interdipendenza e dell’accoglienza. Molti di noi sono convinti che non ci potrà mai essere pace vera, completa e duratura senza una scelta strategica di
Non sorprende che Camillo Ruini, il più autorevole dei nostri vescovi, intervenga così frequentemente sulle scelte del governo italiano. C’è da chiedersi perché si permetta di farlo ora. La gerarchia cattolica non ha mai accettato fino in fondo la separazione di campo tra stato e chiesa. Non è una novità. È dal famoso «non expedit» che i cattolici si sono sentiti addosso l’interdizione vaticana a partecipare alla sfera politica ed è un merito della democrazia cristiana di De Gasperi essere riuscita a far ritirare di fatto questa proibizione, lasciando alla destra o alla disinvoltura di Craxi farsi portavoce dei principi e dei bisogni che oltretevere erano cari. L’avere scomunicato nel dopoguerra chi votava comunista aveva finito con il rivolgersi contro la stessa chiesa e dall’interno del suo stesso gregge. E certo anche per la riflessione aperta dal Vaticano II, sebbene dopo la morte di Giovanni XXIII e del tormentato Montini quel processo sia andato lentamente chiudendosi.
In ogni modo le relazioni tra stato e chiesa parevano aver finalmente imboccato una strada corretta. Non che Giovanni Paolo II non facesse sapere quel che pensava dimolti aspetti della modernità, a cominciare dalla controversa questione della libertà sessuale; ma i suoi messaggi si indirizzavano al mondo, e non erano - mi sembra - un intervento diretto nel fare quotidiano delle istituzioni pubbliche.
È dal suo tramonto che la chiesa ha ricominciato a ribadire che il cattolicesimo non riguarda soltanto la coscienza del singolo ma è una scelta obbligata dell’intera nazione italiana. Ed è da allora che la chiesa ottiene dal governo, con la modesta correzione del capo dello stato, inchini e nuovi privilegi (come la detassazione del suo immenso patrimonio immobiliare) e riceve non solo dalla Casa delle libertà - è di ieri la «speciale convergenza» registrata da Berlusconi e Ratzinger - ma dalla sinistra un ossequio che non aveva neppure più sperato di avere.
Ed è questo, non la persuasione da parte della santa sede di detenere la verità rivelata e di imporla a tutto l’universo, che fa scandalo. Lo scandalo è tutto dalla parte della sfera statuale.
Era cominciato da prima della morte di Giovanni Paolo II, ricevuto dal parlamento più che come un ospite di riguardo come il vero maestro del paese, tanto che ormai una targa commemora l’ingresso di quegli augusti piedi nella sede del potere legislativo. Oscar Luigi Scalfaro, credente sul serio, non lo avrebbe mai permesso. È stato dunque un processo, una svolta tutta interna alla scena politica. Forse l’inizio sta nella definizione sempre più diffusa di quel pontefice come la massima autorità morale del nostro tempo - aveva cominciato Massimo Cacciari, che del cristianesimo fa davvero tutto - ma poteva essere un seppur smisurato omaggio. Ma poco tempo fa Giuliano Amato apriva dalla sua posizione di laico di sinistra un discorso nel quale riconosceva alla chiesa di Roma un alto magistero e l’additava in particolare come modello di tolleranza.
Affermazione davvero temeraria da parte di un uomo così colto giacché non occorre riandare alle crociate o all’inquisizione per ricordare che la tolleranza non è stata certo la sua principale virtù. Basta rifarsi al dopoguerra, dalle dirette pressioni esercitate su Dossetti poi sulla sinistra cristiana e infine sullo stesso Franco Rodano fino al recente gesto di fastidio con il qualeGIovanni Paolo II allontanava da sé Leonardo Boss che gli si era gettato in ginocchio davanti. Ad Amato sono seguite dichiarazioni più goffe da parte dell’ex sinistra. Lasciamo stare Pera e Casini, L’ultimo dei due distintosi per la differenza che fa tra laicità, ammessa, e laicismo, condannato. Piero Fassino sentiva di colpo il bisogno di dichiarare che, essendo stato educato dai gesuiti non poteva che provare sentimenti di venerazione per la chiesa. Seguito rapidamente da Fausto Bertinotti che ha fatto sapere via stampa di avere un problema tutto interiore con Dio, si è intrattenuto con i vescovi sulla trascendenza e ieri l’altro dichiarava al che soltanto la chiesa può essere ai nostri giorni un punto di riferimento morale e che chi, come lui, riflette specialmente sull’uomo, non può non riflettere anche su Dio. Il giorno seguente Piero Sansonetti, su Liberazione, glielo contestava in forma garbata con ragionamenti del tutto condivisibili.
Non so se questa improvvisa ondata di religiosità un po’ sia un modo poco elegante per acchiappare voti di centro, come candidamente confessa Livia Turco, nel lodevole intento di toglierci di torno Berlusconi, o se sia ormai così enorme nella cultura dei nostri leader, sinistra e destra per una volta unite, la confusione di idee fra religiosità, cristianesimo, cattolicesimo e chiesa. Termini dei quali uno solo ha una identità storica indiscutibile ed è il cristianesimo, la religiosità essendo una inclinazione psicologica, il cattolicesimo riflettendo solo una parte dei cristiani, e la chiesa di Roma essendone soltanto l’espressione che più temporale di così non potrebbe essere, con tutti i terrestri guai che alla temporalità sono connessi.
Quale che sia l’interpretazione autentica, la leadership politica della sinistra o ex sinistra ci fa sapere che il suo revisionismo è andato molto ma molto più in là di quanto sia stato fino a un paio di anni fa. Fino a persuadersi, gli uni soddisfatti gli altri con preoccupazione, di essere del tutto sprovvisti e incapaci di un’etica. E di avere scoperto di esserlo sempre stati, come se il fatale illuminismo, con la dichiarazione che l’uomo è peribile e deve a se stesso ogni responsabilità di quel che avviene o non avviene in terra, non fosse stato una rivoluzione di ordine non solo culturale ma morale nella storia europea. Come se l’azzeramento della modernit à, l’attacco alle illusioni della ragione rispetto alle ragioni non più del cuore ma addirittura delle viscere avesse ormai debordato i limiti di una riflessione critica per assumere il carattere di una esorcizzazione di tutto quel che è successo fuori dai palazzi vaticani da Montaigne ai tempi nostri.
Francamente più che una crisi di cultura sembra una crisi di ignoranza. Se non siamo, e non lo siamo, volgarmente progressisti, dobbiamo ammettere che la storia non è tutta un andare avanti, che le regressioni esistono, e che la riduzione della politica ai giorni nostri, forse in particolare in Italia, fa di essa il più clamoroso e mediatizzato veicolo.
Ci sono norme che hanno un altissimo valore simbolico anche se nella pratica soccorre il buon senso di non applicarle. La norma del pacchetto Pisanu che consente di mettere in galera fino a due anni una donna con addosso il burqa o il chador è una di queste, e a nulla serve limitarsi a sperare, come ha fatto qualcuno, che non possa essere applicata a chi si copre per motivi religiosi: nell'immaginario razzista che monta in queste tormentate settimane, essa viene già applicata e con soddisfazione. Le istanze «femministe» di chi dall'11 settembre perora la «liberazione» delle donne da veli, chador e burqa a colpi di leggi o di bombe gettano la maschera più eclatantemente in Italia che altrove. Altrove, ad esempio in Francia, il divieto di portare il velo nelle scuole è stato accompagnato da un amplissimo dibattito pubblico e sostenuto da tutt'altre argomentazioni. Si tratta pur sempre a mio avviso, come già mi è capitato di scrivere su questa colonna, di un cattivo divieto, e di cattive argomentazioni: la laicità intesa come neutralizzazione, l'uguaglianza fra i sessi intesa come omologazione, la libertà intesa come dettato normativo con effetti liberticidi. Ma il Rapporto della Commissione Stasi che ha ispirato la legge francese merita comunque di essere letto come esempio illuminante dei paradossi in cui può cacciarsi l'universalismo occidentale; e la discussione che ne è seguita nell'opinione pubblica francese ha meritato comunque di essere seguita come esempio illuminante delle ragioni a difesa, a correzione o contro di esso.
Nell'Italia berlusconiana tutto è più semplice e più elementare: una legge penale e via. Due anni di galera e la questione è risolta. Le donne velate vanno «liberate» con la repressione: la galera vera, della legge penale occidentale, al posto della galera simbolica, della religione e del patriarcato islamico, dell'abito. Qualcosa di minaccioso - un codice sessuale intraducibile nel linguaggio occidentale dell'ostentazione del corpo - si cela dietro il velo, e questo è a ben leggere il messaggio «velato» della legge francese. Quel qualcosa diventa minacciosissimo - un'arma, una bomba, un kamikaze - nella norma italiana, che lì, nel viso femminile velato, trova modo di incarnare e incardinare il fantasma assoluto del pericolo incombente. E il delirio di onnipotenza del controllo assoluto: un kamikaze a viso scoperto non si può - purtroppo - riconoscere e arrestare preventivamente, una donna velata sì. Lì sta l'ignoto, lì sta la preda, lì sta la presa.
Di nuovo troviamo donne, corpi femminili, come posta in gioco del cosiddetto scontro di civiltà. Il passaggio all'inciviltà è questione di poco. Piccole norme paradossali apparentemente con scarse possibilità di essere applicate. All'immaginario bastano minuscoli slittamenti per scavarsi delle autostrade.
L'immagine è tratta dal sito news.bbc.co.uk
Padre Mikael Mouradian (rettore del Pontificio collegio armeno, ndr), quest'anno ricorre il 90° anniversario del genocidio del popolo armeno, il Metz Yeghèrn, il Grande Male. Fu un vero e proprio genocidio? Sappiamo, infatti, che molti contestano l'utilizzo di questo termine.
«Non si può dire che non sia stato un genocidio perché, se prendiamo la definizione Onu di genocidio, vediamo chiaramente che di genocidio si tratta quando c'è la decisione di sterminare tutto un popolo cancellandone la storia, la memoria, la presenza fisica. I turchi, allora, dissero: "lasceremo soltanto un armeno, un esemplare in un museo". I Giovani Turchi il 24 aprile 1915 hanno massacrato a Istanbul circa 800 personalità armene di spicco. Tra di loro c'erano i vescovi, i prelati, gli scrittori, i deputati. Fu il loro primo colpo. Come dice Gesù nel Vangelo "per massacrare le pecore, dai il primo colpo al pastore". È quello che hanno fatto con gli armeni nel 1915. Penso che non si possa usare un'altra parola per spiegare ciò che è avvenuto nel 1915».
Quali sono le ragioni politiche del mancato riconoscimento del genocidio?
«È stato il primo genocidio del XX secolo anche se non è stato riconosciuto per lunghissimi anni dalla comunità internazionale, e purtroppo ancora adesso continua questa negazione. Ricordo benissimo ciò che mi raccontavano i miei genitori e mio nonno: quando gli armeni sono giunti a Parigi nel 1920, Clemenceau disse: "ancora una volta questi scheletri!". Per ragioni politiche internazionali non è stato riconosciuta l'idea del genocidio armeno perché poteva creare attriti con il governo turco».
Fu solo la rivista dei gesuiti, La Civiltà Cattolica, a denunciare all'epoca l'eccidio?
«Non solo, anche se la Civiltà Cattolica ha avuto la maggiore risonanza. In Armenia c'erano molti missionari e diplomatici stranieri tra i quali l'ambasciatore degli Stati Uniti che sul genocidio ha scritto le sue memorie. Esistono molti documenti che provano la verità del genocidio tra i quali un telegramma che Talat, allora ministro degli interni turco, ha trasmesso al governatore di Aleppo. In esso si legge: «Il diritto degli armeni di vivere è cancellato».
Oggi, a distanza di 90 anni, cosa rappresenta il genocidio per un armeno?
«È una pagina della storia dell'Armenia che non è chiusa e non si chiuderà finché non avremo riconosciuti i nostri diritti su ciò che è stato. È un diritto che ci è negato e che rimane come una spada nel cuore di ogni armeno».
Come affronta la questione la storiografia turca?
«Gli storici turchi avanzano la tesi del trasferimento del popolo armeno. In quel periodo di guerra i turchi erano obbligati a difendere i loro confini e perciò hanno dovuto trasferire molta gente. E quando sposti una massa di gente da un posto a un altro è facile che accadano cose simili a quelle accadute agli armeni. Ma evidentemente non è una spiegazione sufficiente per giustificare uno sterminio di massa. Dicono di non aver fatto niente e che, al contrario, gli armeni hanno massacrato i turchi e aggiungono che nessuno li ha obbligati a lasciare la Turchia e che se ne sono andati da soli (con la diaspora successiva al genocidio ndr)».
In Turchia il genocidio ha colpito anche gli edifici, le chiese, la cultura armeni?
«In Turchia oggi non si parla di presenza di armeni. Purtroppo il genocidio morale e storico continua ancora. Se vai in Turchia a visitare le città dove vivevano gli armeni ti renderai subito conto dalla costruzione delle chiese che c'era un popolo che viveva lì. Purtroppo però il genocidio monumentale continua perché il governo non bada a questi edifici storici. Io definisco tutto ciò genocidio culturale: puoi cancellare la presenza di un popolo non solo massacrando la gente ma cancellando tutti gli edifici e i segni visibili che quella cultura ha costruito».
C'è un'attenzione della stampa su questo?
«No, assolutamente no! Specie per quanto riguarda la distruzione dei monumenti armeni. In sostanza, il governo turco cerca di fare in modo che non ci sia più traccia della nostra storia».
Qual è la posizione della comunità armena sull'opportunità di ammettere l'ingresso della Turchia nell'Unione Europea?
«Gli armeni non sono a tutti i costi contro l'ingresso della Turchia in Europa. Siamo contro l'ingresso della Turchia nello stato attuale delle cose perché una nazione che non riconosce la sua storia non può costruire il suo futuro, e purtroppo la Turchia non riconosce la sua storia. Avremmo in Europa una nazione che manca di rispetto proprio alla costituzione europea».
Pensa che la tragedia degli armeni sia stata e sia ancora oggi trascurata dalla storiografia? Nei programmi scolastici non si studia il genocidio armeno. Pensa che uno studente colleghi l'idea di genocidio allo sterminio degli armeni?
«Dipende dalla spiegazione e dall'apertura mentale che uno studente ha nel capire che genocidio equivale a sterminio di un popolo. Se si parlasse del genocidio armeno, il processo democratico farebbe un grande passo in avanti, pure qui in Italia. Penso molto all'educazione dei giovani, che sono il futuro dell'Italia, dell'Europa, e non hanno un'apertura mentale completa sul termine genocidio che appartiene a tutti quelli che hanno subito, penso al Darfur in Africa. I giovani, gli studenti devono avere la definizione chiara e così si può capire, spiegare».
Le arti hanno trascurato il genocidio?
«Sì. Se prendiamo il cinema, fino a adesso i film sul genocidio sono stati realizzati da soli registi armeni. Non c'è stato un solo regista non armeno che abbia fatto un film con un vigore internazionale. I film sul genocidio sono arrivati anche qui in Italia ma non hanno avuto una propaganda sufficiente per la loro diffusione».
Pensa che l'ingresso in Europa per la Turchia rappresenti una sorta di «promozione morale» in grado di cancellare il passato?
«Come armeno mi sentirei offeso nella mia propria persona umana se la Turchia entrasse nell'Unione europea senza il riconoscimento del genocidio. Sarebbe un'offesa a tutti gli armeni di tutte le nazioni. Sarebbe un mancato riconoscimento del diritto delle minoranze in Europa. Gli armeni turchi non possono oggi gridare "c'è stato un genocidio nel 1915!" così come i curdi i cui diritti non sono riconosciuti da tutti. La Turchia non riconosce la sua storia, come invece ha fatto la Germania che, riconoscendo l'Olocausto, si è conquistata il diritto di andare avanti».
Il buon soldato Graner ha parlato per tre ore davanti alla corte marziale americana che lo ha processato e condannato a dieci anni di galera per le torture di Abu Ghraib. Ha parlato e ha riso, raccontando di quando massacrava i prigionieri, scattava foto e rideva. Perché rideva allora, perché ha riso adesso, gli hanno chiesto. Risposta: «Non ce n'era e non ce n'è motivo. E' la nevrosi. A Abu Ghraib abbiamo fatto cose indicibili, sopportabili solo con l'assuefazione e con l'idea che ci fosse qualcosa di divertente». Il buon soldato Graner ha raccontato che a Abu Ghraib lui e i suoi compari dovevano però adoperarsi a far sì che l'assuefazione non colpisse i prigionieri. Loro no, non dovevano assuefarsi al dolore perché il dolore doveva restare insopportabile e aumentare ogni volta: questa era l'unica regola da osservare. Un po' di fantasia insomma, per non rendere la sofferenza troppo routinier. Botte ovunque sul corpo; schiaffi in faccia; umiliazioni sessuali. A ripetizione, ma con quel tanto di imprevedibilità da vincere ogni istinto di difesa dei detenuti. Trattamenti individualizzati: per ognuno una scheda personalizzata, come in palestra. «Gradi crescenti di privazione del sonno e del cibo, tecniche di pressione fisica e psicologica, uso mirato dell'isolamento notturno e diurno». Nudità obbligatoria. Tempo massimo per mangiare cinque minuti, tempo minimo venti secondi.
Il buon soldato Graner ha aggiunto che lui, e altri come lui, non erano stati addestrati adeguatamente per questi compiti, non erano preparati al meglio, e che per questo le cose sono degenedrate. Con un po' di tecnica in più, chissà, le cose sarebbero andate meglio: un buon sadico deve saper esercitare un perfetto controllo su quello che fa, altrimenti rischia di sbagliare le dosi. La preparazione tecnica invece era stata sostituita dall'imperativo di eseguire gli ordini senza discuterli, punto e basta. E quindi il buon soldato Graner li eseguiva. Aveva provato a obiettare qualcosa, col capitano Brenson, i sergenti Snyder e Ward, il tenente Phillabaum, il maggiore Rayder, ma gli fu detto di tacere e eseguire e lui tacque e eseguì. «Non c'era nulla di legale. Abbiamo commesso atti criminali. Ma per me, allora, erano ordini, anche se ne dubitavo». Che doveva fare allora il buon soldato Graner? Come ha detto sua madre in suo soccorso: «Lo state processando, ma anche se avesse disobbedito lo avreste processato». Che differenza fa? Obbedienza e disobbedienza indifferenti ai contenuti del comando.
Nel 1961, di fronte al tribunale di Gerusalemme che lo processava e lo condannò a morte per lo sterminio degli ebrei, Adolf Eichmann non considerò sufficiente difendersi invocando l'ubbidienza agli ordini; rivendicò anche una più impegnativa obbedienza alla legge, improntata ai princìpi dell'etica kantiana, o meglio a ciò che di quei principi gli pareva di aver afferrato, di un'etica kantiana, come lui stesso disse, «a uso della povera gente». Hannah Arendt, raccontando il processo ne La banalità del male, sottolinea l'importanza di questa distinzione dell'imputato: per fare scorrere la banalità del male non basta darsi l'alibi di eseguire un comando altrui, bisogna interiorizzare quel comando, «identificare la propria volontà col principio che sta dietro la legge, agire come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge cui si obbedisce». Adolf Eichmann non eseguiva passivamente gli ordini di questo o quel superiore, aderiva attivamente all'ordine superiore della legge, che per lui si identificava con il Führer. L'«obbedienza cadaverica», come lui stesso la definì durante il processo, non si alimenta né di fanatismo né di automatismi, ma di una ligia e salda ancorché perversa coscienza. Il buon soldato Graner non lo sa, o è figlio di un'epoca, la nostra, in cui anche la banalità del male si banalizza ulteriormente e come un automa risponde all'impulso automatico di superiori senza neanche l'aura dell'autorità della legge?
Dice il papa che Dio punirà chi sparge in suo nome il sangue del fratello. Ma chi punirà gli stati per il sangue versato, il dolore seminato, le esclusioni sancite nel nome dello Stato? La lunga storia della modernità secolarizzata che si aprì con la pace di Westfalia dopo le guerre di religione e sembra chiudersi o regredire con i conflitti culturali dell'era globale non ha eliminato ma solo regolato e istituzionalizzato quella violenza che le nuove guerre di religione di oggi ci ripresentano in forma postmoderna. Senza tuttavia che il lessico politico della modernità, incapace di fronteggiare e spesso anche solo di rappresentare il panorama del presente, sia uscito dai suoi paradossi originari. Di fronte ai problemi nuovi usiamo parole vecchie, o tarate da vecchie aporie. E di fronte all'offensiva teocon, il lessico politico progressista si rivela in affanno: a chi predica intolleranza sentiamo che non basta replicare con l'appello alla tolleranza, come a chi predica la superiorità della cultura occidentale non basta replicare con la parola magica del multiculturalismo. C'è bisogno di uno sfondamento del discorso; ma in quale direzione?
Multiculturalismodi Laura Lanzillo (Laterza, pp. 140, 10 Euro) è un ottimo strumento per orientarsi in queste difficoltà, proprio perch é l'autrice si pone sul bordo di crisi di questa parola, data per scontata in molte ricette politiche di sinistra, e lo risale fino a rintracciarne l'origine nei paradossi costitutivi dell'universalismo occidentale. Se infatti la storia del termine è relativamente recente (il problema si pone negli Stati uniti negli anni 60, quando l'equilibrio del melting pot cede sotto la pressione all'inclusione dei neri e delle minoranze in lotta per i diritti civili), l'arco spazio- temporale a cui rinvia è quello degli ultimi due secoli su entrambe le sponde dell'Atlantico, e la costellazione concettuale in cui va inserito è quella della politica moderna, a fianco alle grandi parole cardinali - stato, nazione, popolo, libertà, uguaglianza, diritti - che oggi palesano a loro volta segni di crisi irreversibile. E ripercorrendo il dibattito sul multiculturalismo che ha animato prima la filosofia e la scena pubblica americana, poi quella europea nella forma di un rilancio del tema "classico" della tolleranza, si capisce perché le difficoltà in cui versa la ricetta multiculturale vadano riportate a quelle in cui versa quell'intera costellazione. Sia nel dibattito nordamericano (lo scontro fra il paradigma communitarian di Taylor e quello liberal di Rawls, con le successive complessificazioni di Kymlicka, Walzer, Seyla Benhabib), sia in quello europeo (Habermas, Veca, Elisabetta Galeotti), le pur diverse e talora opposte risposte multiculturali al problema del riconoscimento e dell'inclusione nelle democrazie occidentali di gruppi, etnie, culture altre dal nucleo originario della cittadinanza bianca ripetono i paradossi originari dell'universalismo. Riproducono cioè, epistemologicamente prima che politicamente, la logica binaria dentro / fuori, inclusione / esclusione, su cui lo stato moderno e l'universalismo si sono affermati; e anche nelle loro versioni più radicalmente democratiche riproducono la gerarchizzazione fra «noi» e «loro», fra chi accoglie, assimila e tollera - e decide i criteri in base ai quali accoglie, assimila e tollera - e chi viene accolto, assimilato e tollerato. Non solo: anche nelle versioni più radicalmente democratiche, il multiculturalismo ripete la mossa di «essenzializzazione» delle culture altrui, presentandocele come una sorta di «bagaglio» precostituito che «gli altri» si portano appresso, reificandone e fissandone così, performativamente, le caratteristiche. Il che equivale a dire che molte ricette multiculturali, predicando una politica delle differenze, ripropongono in realtà una politica delle identità. E' attraverso queste ripetizioni che l'universalismo si ripresenta, ad ogni allargamento del cerchio, ineluttabilmente segnato dalla sua contraddizione originaria: più include più torna a escludere, più si pone obiettivi egualitari più gerarchizza.
Non c'è via d'uscita? Sì, ma a patto di spostare nettamente la prospettiva, suggerisce giustamente Lanzillo: dallo stato ai soggetti in carne e ossa, dall'identità alla differenza, dal normativismo alla narrazione esperienziale. Partendo dall'antropologia reale del presente, si vede che il mondo non è fatto di culture compatte che si confrontano e si scontrano, ma di soggetti meticciati e ibridi, di identità differenziali e in progress che si formano in relazione ad altro e agli altri, di culture contaminate l'una dall'altra che si nutrono di comunicazione non trasparente. La narrazione di sé di questi soggetti più che il consenso alla norma può suggerire e produrre sul campo nuove abitudini di convivenza. E le due grandi parole cardinali della modernità, uguaglianza e libertà, possono avere ancora da dire se si spogliano l'una della sua valenza omologante e assimilatrice, l'altra delle troppe garanzie da cui è presidiata, per aprirsi al rischio e all'imprevisto che ogni incontro con l'altro inevitabilmente comporta.
Seconda Repubblica. Dalla nazione alla tribù, a passo di gambero
Dal tentativo di D’Alema di “civilizzare” i nuovi barbari, ai trionfi odierni della maggioranza B&B. Da il manifesto del 17 novembre 2005
«Per fortuna, alle nostre spalle non si è consumata alcuna tragedia collettiva, non abbiamo combattuto una guerra, non ci sono vincitori e vinti. Non c'è stato offerto in sorte di salvare la democrazia o di difendere la nazione da un esercito in armi. Gli accidenti della storia hanno fatto sì che toccasse a questa nostra generazione comprendere l'animo di un paese sfiancato da una transizione lunga e irrisolta, cercare di guidarlo verso il tratto di strada conclusivo». Non è una citazione dalla seduta del senato di ieri che ha varato la nuova e scellerata Costituzione italiana, bensì da quella della camera del 26 gennaio 1998, quando l'allora presidente della bicamerale Massimo D'Alema presentò all'aula la bozza di riforma licenziata dalla commissione. Il caso aveva voluto che quel dibattito cadesse nel cinquantenario del varo della Costituzione del `48, e il tono saggiamente misurato di D'Alema serviva a schivare inopportuni confronti: nulla di eroico, non si trattava di scrivere il patto democratico dalle fondamenta come nel `46 ma più modestamente di aggiornarlo, chiamando i nuovi soggetti politici emersi dal terremoto degli anni 90 a condividere con gli eredi dell'antico arco costituzionale una «comune responsabilità verso la Repubblica». La riforma non poteva essere «la bandiera di una maggioranza», ma «il traguardo faticoso di un impegno comune». Si sa come andò a finire quando, di lì a poco, Silvio Berlusconi decise di far saltare il tavolo. Si sa anche che il giudizio sul tentativo dalemiano di «civilizzazione» dell'avversario resterà a lungo controverso, fra quanti ritengono che fosse un argine al sovversivismo costituzionale della nuova destra italiana e quanti ritengono che sia stata viceversa una porta spalancata al suo dispiegamento. Fatto sta che, sette anni dopo, balza agli occhi la differenza: al traguardo la nuova destra c'è arrivata da sola, non con ma contro gli eredi del vecchio arco costituzionale, e senza alcuna remora a sventolare la nuova Carta come la propria esclusiva bandiera, sotto lo slogan - autrice An - «E' nata la nuova Italia» che da domani invaderà per ogni dove gli spazi della propaganda politica.
Balza agli occhi, e alle orecchie, anche la differenza degli argomenti e dei toni. Sembra un serial - l'ultima puntata della serie «La Grande Riforma», anzi la penultima perché ci sarà il referendum e poi magari un altro tentativo di ricominciare daccapo tutti assieme stancamente - ma non è: la transizione infinita ha scavato, come un gambero più che come una talpa, nella (in)cultura costituzionale che pesca nel senso comune e lo rialimenta. L'opposizione dice che più che la devolution si vota la dissolution, dell'unità d'Italia, e niente rende l'idea più che il quadretto familiare dei Bossi seduti là in cima e di tutte quelle camicie e cravatte verdi: dalla nazione alla tribù, a passo di gambero appunto. A passo di gambero anche dalla cittadinanza al popolo: l'opposizione lamenta la fine dei diritti eguali, la salute e la scuola non saranno più la stessa cosa per tutti neppure sulla carta, e la maggioranza risponde che il popolo dev'essere contento perché la riforma gli dà più poteri, perfino il potere di passare da un referendum all'altro ogni volta che il nuovo testo costituzionale qualcuno si permetterà di emendarlo, insomma «la sovranità popolare aumenta», parola di D'Onofrio. Oscar Luigi Scalfaro, padre costituente in carne e ossa, denuncia che non ci sarà più un parlamento né un presidente della Repubblica garante di alcunché, la maggioranza gli contrappone Jefferson in camicia verde. Il Mezzogiorno ci rimette? Nossignore, è l'occasione buona per passare «dalle mance alla liberazione». Una Costituzione scritta a maggioranza non è di tutti ma di parte? Chi la fa l'aspetti, ha cominciato il centrosinistra con il titolo V - unico argomento in verità ineccepibile, se pur pretestuoso, dei vincitori.
Berlusconi brinda all'«impegno mantenuto», anche questa è fatta, La Loggia festeggia «la realizzazione di un sogno» che è piuttosto l'avverarsi di un incubo. La «perversa miscela di autoritarismo e caos» come efficacemente Ida Dentamaro definisce la neonata Carta, è probabile (ma non è detto) che non passerà l'esame referandario. Ma lo sfondamento delle barriere culturali del `48 c'è stato, e la sinistra che oggi si ribella è tutt'altro che innocente nell'averlo consentito. Adesso si capisce che la Seconda Repubblica, finora mai nata fra una rivoluzione giudiziaria e una rivoluzione maggioritaria (già rientrata), può diventare una realtà, molto peggiore della Prima.
Le agitate vicende nelle quali è coinvolto da alcune settimane il governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio, e con lui inevitabilmente l'intero Istituto, ci inducono a rivisitare il ruolo che esso ha avuto nel sessantennio dell'Italia repubblicana e la qualità professionale, politica e umana dei cinque governatori che hanno preceduto quello attualmente in carica: Luigi Einaudi, Donato Menichella, Guido Carli, Paolo Baffi, Carlo Azeglio Ciampi.
Quattro di loro li ho conosciuti bene; con due ho avuto rapporti di amicizia personale che hanno arricchito la mia conoscenza della vita economica italiana e delle sue nervature finanziarie. Tanto più cocente per chi ha avuto un'esperienza così privilegiata è dunque la delusione per quanto sta accadendo ora sotto i nostri occhi, con l'ombra di un declino che penalizza quello che è stato fin qui uno dei punti di massima eccellenza del nostro sconquassato sistema-Paese.
Ricordo a questo proposito che la Banca, oltre a governare in piena indipendenza la politica della moneta e del credito traendo dall'interno dell'Istituto i suoi massimi dirigenti, ha fornito alle istituzioni politiche due presidenti della Repubblica (Einaudi e Ciampi), due presidenti del Consiglio (Dini e Ciampi), tre ministri del Tesoro (Carli, Dini, Ciampi), due ministri del Commercio estero (Carli, Ossola).
Ricordo altresì - affinché il quadro sia completo - che la tecnostruttura della Banca, il suo Direttorio, il suo Ufficio studi, le relazioni annuali del governatore, hanno rappresentato il telaio sul quale è stata tessuta per sei decenni la politica economica del nostro Paese.
Nonché i rilevanti contributi forniti alle autorità monetarie internazionali, dal Fondo monetario alla Banca mondiale, al comitato monetario dell'Unione europea, per finire alla Banca centrale europea nella quale Tommaso Padoa-Schioppa ha rappresentato l'Italia al massimo livello.
Ma i governatori hanno anche avuto, in questo lungo arco di anni, interlocutori di grande rilievo sia nel mondo bancario e imprenditoriale sia nei governi che hanno guidato la politica nazionale. Tra i primi vengono alla memoria personalità come Raffaele Mattioli, Enrico Cuccia, Imbriani Longo, Franco Cingano, Stefano Siglienti, Giovanni Agnelli, Leopoldo Pirelli. Tra i secondi i ministri del Tesoro Ezio Vanoni, Ugo La Malfa, Giovanni Malagodi, Bruno Visentini, Nino Andreatta, Giuliano Amato. Ma anche personaggi dell'opposizione e del sindacato: Giorgio Amendola, Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Luciano Lama, Bruno Trentin. Ed Enrico Berlinguer.
Non sembri, quello che sto ricordando, un arido elenco di nomi ed addirittura un museo delle cere. Dall'opera di queste persone, spesso di diverso sentire e di diversa formazione culturale, è stata costruita la storia d'un Paese fragile ma creativo ed alacre, che tra avanzamenti e cadute ha saputo trasformarsi in pochi decenni da un'economia prevalentemente agricola a un sistema industriale e post-industriale, pagando costi sociali elevati ma procedendo tuttavia verso un futuro che si sperava migliore di quanto infine si sia verificato.
La Banca d'Italia è stata tra i protagonisti di questo percorso; diciamo meglio: della parte virtuosa di questo percorso che ha connotato il sessantennio della nostra storia repubblicana.
Purtroppo la fragilità di fondo è rimasta. Negli ultimi quindici anni è riemersa in forme e misura preoccupanti. Tanto più necessario recuperare dalla parte migliore di questo passato una rinnovata forza morale ed insieme il rispetto di noi stessi e del Paese che amiamo.
* * *
Donato Menichella non era un economista né uno scrittore di altissimo stile come Luigi Einaudi.
Condivideva piuttosto l'interventismo economico di Francesco Saverio Nitti e le capacità realizzatrici di Beneduce, di cui fu stretto collaboratore nella fondazione dell'Iri, strumento di prudente salvataggio creato nella fase più procellosa della crisi mondiale che si abbatté tra il 1931 e il '32 sull'industria e sul sistema bancario europeo.
Quando Einaudi fu chiamato da De Gasperi a guidare l'economia italiana nel 1947 come ministro del Bilancio, creato su misura della sua personalità intellettuale e politica, alla guida della Banca d'Italia fu Menichella a succedergli. Tenne quella carica per tredici anni, fino al 1959. Fu quello il periodo decisivo della ricostruzione del Paese, il periodo del piano Marshall, della rinascita della Fiat, della creazione dal nulla dell'Eni di Enrico Mattei e della siderurgia a ciclo integrale realizzata da Oscar Sinigaglia. Ci voleva una politica del credito ardita e prudente per dare fiato a quei progetti senza compromettere la stabilità della moneta e dei prezzi. E ci voleva al tempo stesso una antiveggente politica di moderazione sindacale che consentisse alle imprese di sviluppare investimenti di ampia portata espandendo in quel modo l'occupazione, il reddito, i consumi delle classi medie e lavoratrici.
Menichella realizzò le premesse di quel miracolo con l'indispensabile collaborazione di Di Vittorio e del sindacato operaio. Nelle sue relazioni annuali il governatore dette puntualmente atto ai sindacati d'aver reso possibile quel miracolo. La voce di Menichella fu la sola a riconoscere il contributo dato alla ricostruzione economica dalla classe operaia, al di là dell'aspra lotta di classe che ebbe luogo nella prima metà degli anni Cinquanta.
Ricordo ancora, pur dopo tanti anni, le lunghe conversazioni che ebbi l'occasione di avere col governatore su questo tema e sull'altro, altrettanto capitale, della gestione dell'industria pubblica che doveva avvenire "come se" essa fosse pubblica nei fini ma privata nel perseguire un modello di gestione improntato all'efficienza, all'onesto profitto e alla allocazione ottimale delle risorse.
"Come se" anche in situazioni semi-monopolistiche (come era infatti il caso della Finsider) le regole del mercato fossero pienamente operanti. In parte si trattava di una concezione virtuale ma essa rappresentò in quegli anni un canone operante, un vincolo di efficienza che la politica creditizia provvide a rispettare e a far rispettare con molto rigore, evitando ogni controllo politico sull'erogazione del credito, che avrebbe potuto essere facilmente radicato visto che l'intero sistema bancario era di proprietà della mano pubblica.
Questi furono i meriti principali di Donato Menichella, il primo vero servitore dello Stato, uomo di grande umanità e grandissima modestia per quanto riguardava se stesso, ma di grandi ambizioni per l'Istituto che diresse con mano ferma, senza alcuna ostentazione di potere. Fu lui, già seriamente ammalato, a volere come successore Guido Carli, già da tempo alla direzione dell'Ufficio italiano dei cambi e da un anno direttore generale della Banca.
Carli aveva carattere e movenze assai diverse da quelle di Menichella, ma identica devozione al bene pubblico e all'interesse generale. Il famoso miracolo economico del quale Menichella aveva gettato le premesse esplose durante il suo governo della Banca. Era il 1960. La lira si guadagnò, per convinta e unanime ammissione di tutte le istituzioni monetarie e internazionali, l'"Oscar" di più solida moneta mondiale, dopo anni di elevata disoccupazione l'Italia realizzò l'ideale del pieno impiego. Il reddito aumentava al ritmo del 5 per cento annuo. Le esportazioni si espandevano su tutti i mercati. La ricostruzione era avvenuta. Una rete di autostrade unificò e "raccorciò" il Paese. Il rapporto con le economie più avanzate divenne intenso.
Il cuore dello sviluppo, originariamente concentrato nel triangolo Torino-Milano-Genova, cominciò ad espandersi verso il Veneto, l'Emilia, la costiera marchigiana. Si disse che l'Italia produttiva stava assumendo la forma d'una stella cometa, la cui coda luminescente si espandeva tra Treviso, Padova, Bologna, al di qua e al di là delle due sponde del Po.
Torino diventò in quegli anni la quarta città meridionale d'Italia, dopo Napoli Palermo Bari. Cinque milioni di contadini provenienti dal Sud e dal Veneto ingrossarono le città. Fu uno sviluppo tumultuoso, non programmato e comportò costi sociali e umani altissimi. Ma impresse un impulso fondamentale alla modernizzazione del Paese.
Al vertice del sistema, direi alla guida di esso, ci furono Vanoni, Carli, Mattei, Valletta, l'Iri, Mattioli, Cuccia. Alla base una miriade d'imprenditori self-made e una classe operaia orgogliosa della sua compattezza e profondamente insoddisfatta d'una troppo lunga moderazione nel salario e nei diritti. Con queste caratteristiche il Paese entrò nel decennio per certi aspetti mitico degli anni Sessanta.
* * *
Di Guido Carli si è tanto scritto e anche favoleggiato. Non sempre a proposito. Aveva un carattere timido nel rapporto con le persone. Spesso brusco e talvolta perfino scortese proprio per vincere l'innata timidezza. Ma estremamente consapevole del ruolo della Banca e del valore degli uomini che lavoravano con lui. Quello di governatore fu il suo momento di grazia proprio perché la struttura che aveva al suo fianco gli infondeva sicurezza nel comando e collegialità nell'esercitarlo.
Non starò a ricordare i momenti d'una profonda amicizia che ci ha legati per tanti anni e che ha avuto anche fasi per me esaltanti. Una di esse fu quando, di comune accordo, inaugurammo una forma di collaborazione del tutto inedita creando una firma e un personaggio fittizio cui demmo il nome di "Bancor". Il contenuto degli articoli, che uscirono sull'Espresso che allora dirigevo, nasceva da libere quanto riservate conversazioni che avvenivano nel suo studio in via Nazionale sui temi dell'attualità economica.
Lui parlava, io interrogavo. Non presi mai alcun appunto.
Guido s'infervorava, esponeva una strategia, ne scorgeva gli ostacoli e i limiti, ne intravedeva i possibili risultati con nella mente sempre l'interesse generale, spesso contraddetto da quelle che lui chiamava le "arciconfraternite" del potere, l'egoismo corporativo, le tentazioni monopoloidi nascoste ad ogni cantone.
Uscendo da quegli incontri frastornato facevo fatica a riordinare fatti e pensieri. Dopo un paio di giorni mi mettevo a scrivere dando una libera interpretazione del suo pensiero. E usciva sull'Espresso l'articolo di "Bancor".
La mattina del giovedì (era il giorno d'uscita del settimanale) gli telefonavo per conoscere le sue reazioni.
Furono sempre positive e così andammo avanti per un paio d'anni; anche quando la voce che dietro quella firma ci fosse lui prese consistenza, Guido decise di continuare ancorché le polemiche si infittissero. Poi raccogliemmo quegli scritti in volume. Gli mandai la prima copia con la dedica "Bancor a Bancor". Lui mi rispose con una bottiglia di Champagne e un biglietto: "Bancor ringrazia Bancor". L'ho conservato tra le lettere che mi sono più care.
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Paolo Baffi è stato un economista insigne e questo è noto. Ereditò la carica di governatore quando i tempi non erano più molto sereni.
Anzi, erano arrivati i cupi anni di piombo e anche l'economia batteva il passo. Gli investimenti languivano, il potere politico effettuava invasioni sempre più pesanti nelle istituzioni, la Banca d'Italia era un intralcio sempre meno tollerato.
Baffi lo sapeva e temeva l'occupazione politica del credito. Era rigoroso per carattere. Diventò inflessibile.
Il capo della Vigilanza, Sarcinelli, ci metteva di suo l'intransigenza giovanile.
Tra gli istituti di credito più influenzati dalla politica e dalle "arciconfraternite" c'era allora l'Italcasse e la Vigilanza decise un'ispezione accurata. Segnalò prestiti di grande rilievo senza sufficienti garanzie in favore dei "palazzinari" di allora, che godevano di larghe protezioni politiche. Il seguito di quella vicenda è noto: la Procura della Repubblica di Roma spiccò mandati contro Baffi e Sarcinelli per un preteso abuso di potere in un'operazione dell'Imi. Sarcinelli fu arrestato, a Baffi fu ritirato il passaporto.
Lo scandalo fu enorme. Si formò un fronte di resistenza e di protesta e mi onoro di ricordare che Repubblica ne fu il capofila. Correva l'anno 1979. La Procura fece macchina indietro, ma il colpo per Baffi fu molto grave. Si dimise e Ciampi ne prese il posto.
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Non parlerò di Ciampi e dei suoi anni da governatore. Ci conosciamo da trent'anni, da quando dirigeva l'Ufficio studi della Banca. Abbiamo vissuto in comunità d'intenti tante vicende, a cominciare da quella per tanti versi drammatica della crisi del Banco Ambrosiano che vide uniti nel malaffare Roberto Calvi, coautore e poi vittima di quella cupa vicenda, elementi mafiosi, infiltrazioni piduiste e perfino l'allora prestigioso Ior, la Banca d'affari del Vaticano.
La tenuta lungimirante e fermissima di Ciampi in quella vicenda risparmiò al Paese un crac che sarebbe stato molto più rovinoso. Va detto che la Banca d'Italia trovò al suo fianco in quell'occasione il ministro del Tesoro Andreatta, il quale chiuse la porta in faccia alle pesanti pressioni del Vaticano e impose allo Ior di rimettere sul tavolo il "maltolto" che era finito nelle sue casse.
Ma di Carlo Azeglio Ciampi non voglio dir altro.
Sembrerebbe la ricostruzione di un amico e lui non ne ha alcun bisogno.
Voglio soltanto ricordare che il nostro giornale, già diretto da Ezio Mauro, si è battuto in favore della sua elezione al Quirinale con gli argomenti che la ragione e il sentimento mettevano a nostra disposizione.
Così, quando Ciampi fu eletto al primo scrutinio con quasi l'unanimità dei voti del Parlamento, per noi di Repubblica è stato il segno che il Paese, pur in mezzo a tante traversie, avrebbe avuto per sette anni una tenda di raccolta, di riferimento e di unità capace di farci superare delusioni e accoramento.
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I lettori si chiederanno forse il perché di questa rievocazione. Purtroppo la Banca d'Italia sembra aver perso gran parte dello smalto accumulato in sessant'anni. Ma le radici sono, io credo, ancora sane e vigorose. Vogliamo trarre dal passato nuova energia e speranza, e questa è la ragione di tanti ricordi.
Le due anime del Regno
Ombre e luci di un pontificato che ha contribuito, contraddittoriamente, a cambiare la storia, nell’analisi del fondatore di la Repubblica, nel numero del 3 aprile 2005
QUANDO si dice la Chiesa, si dicono tante cose e tante diverse realtà con una sola parola: la comunità dei fedeli, le congregazioni religiose, i sacerdoti che amministrano i sacramenti, i vescovi successori degli apostoli, la Curia dei ministeri vaticani, il Papa che guida, decide, rappresenta in terra il legame tra le anime credenti e il Cristo che venne per indicare la via della salvezza e della nuova alleanza.
Ieri, mentre il Papa moriva, la Chiesa è stata tutte queste cose insieme. Il mondo dei fedeli, le famiglie, i giovani, i vecchi, i bambini, hanno pregato, hanno pianto, sperando irragionevolmente ma fervidamente di poter riascoltare quella voce nelle basiliche, nelle parrocchie, nelle piazze di tutto il mondo. Non solo i fedeli cattolici, ma i cristiani delle osservanze evangeliche, ortodosse, anglicane, gli ebrei delle sinagoghe, «fratelli maggiori» come li definì Giovanni Paolo.
Perfino nelle terre dell’Islam la vicenda di Karol Wojtyla è stata seguita con attenzione e rispetto. Nel mondo globale e mediatico la morte di un papa si è trasformata per la prima volta in un evento di commozione planetaria che ha oscurato ogni altra realtà.
Per la Chiesa è stata al tempo stesso l’ora del lutto e quella del trionfo. L’abbiamo visto, il lutto corale e profondo, nella veglia di settantamila anime racchiuse tra le grandi braccia del colonnato di piazza San Pietro con gli occhi fissi su quelle quattro finestre illuminate del Palazzo Vaticano, dietro una delle quali Giovanni Paolo lottava con la morte, assistito dai medici e dai suoi più prossimi collaboratori. E abbiamo visto l’Ecclesia triumphans sotto le volte del Laterano, con il corpo sacerdotale rivestito dai paramenti dorati della settimana pasquale, non ancora sostituiti dal viola delle celebrazioni funebri. Le grandi statue marmoree degli evangelisti e dei profeti facevano ala al sacrificio della messa solenne, al canto dei salmi, al mistero del pane e del vino trasformati dall’officiante nel corpo e nel sangue del Signore.
Questo abbiamo visto negli ultimi tre giorni. Ieri quella voce che ha risuonato nel mondo intero per ventisette anni, prima robusta, solenne, combattiva, pastorale; poi sempre più fievole, infine ridotta a un suono disarticolato, struggente, espressione d’un corpo crocifisso nella finitudine umana e volutamente esibito come esempio e testimonianza; quella voce si è spenta per sempre. Lascia nella Chiesa un vuoto incolmabile e in tutti i noi dolore e affettuoso rispetto. Ma invita anche alla meditazione su questo grande pontificato. Wojtyla ha rivestito la Chiesa con il mantello del suo carisma personale. Ora, dopo la sua scomparsa, la Chiesa è nuda. La sua forza e le sue debolezze appaiono in tutta evidenza insieme alla forza e ai limiti del lungo regno di Giovanni Paolo II, che ci obbligano all’esame e al ricordo.
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Ricordo ancora l’annuncio dato dal cardinale Felici dal balcone del palazzo pontificio subito dopo la fumata bianca che annunciava l’esito felice del Conclave del 1978: «È stato eletto Karol Wojtyla che ha assunto il nome di Giovanni Paolo II».
I milioni di persone che seguivano l’evento da piazza San Pietro e dalle televisioni di tutto il mondo pensarono per qualche secondo che si trattasse di un africano, in pochi capirono che quel cognome era polacco. Comunque, ai non addetti ai lavori risultava del tutto sconosciuto e interrompeva la lunghissima sequenza dei pontefici italiani.
Il nome assunto, tuttavia, sembrava iscriversi nella linea della continuità: riprendeva quello del Papa Luciani appena morto dopo poche settimane di regno e si ricollegava ai due pontefici che l’avevano preceduto nel segno del Concilio Vaticano II, cioè della nuova Chiesa, ecumenica, tollerante, pastorale, aperta alle voci della modernità e della collegialità.
Insomma riformista, se vogliamo usare una definizione calzante anche se non propriamente canonica. Invece cominciava una rivoluzione durata ventisette anni.
Una rivoluzione densa di contraddizioni, tenute insieme come un tiro di cavalli impetuosi e spesso discordi, da una mano che riesce a unificarne il vigore ma non la natura e le finalità. Solo la grande e multiforme personalità di Karol Wojtyla è riuscita nell’impresa di rappresentare al tempo stesso la Chiesa della tradizione e quella dell’innovazione, il Dio degli eserciti e il Dio della misericordia, l’apertura conciliare e il centralismo curiale, la lotta contro il comunismo e la critica incessante al capitalismo, la mano tesa verso gli ebrei "fratelli maggiori" e la sintonia con l’Islam; infine l’attenzione rivolta ai non credenti e la reiterata condanna contro la civiltà dei Lumi e contro l’autonomia della ragione.
Se a questa profonda duplicità del messaggio di Papa Wojtyla si aggiunge una modalità di showman quale non s’era mai vista prima sulla cattedra di Pietro, unita alla propensione ai bagni di folla, ai viaggi planetari, al teatro di massa come forma di comunicazione, all’imponenza del rito utilizzato in tutte le immense risorse che esso possiede nell’epoca della televisione, avrete i contorni d’una figura eccezionale e il vuoto non colmabile che si è spalancato dopo la sua scomparsa.
Il suo successore, chiunque sarà, si troverà alle prese con un’eredità schiacciante che non può essere portata avanti nella sua globalità. La Chiesa di Wojtyla non può succedere a se stessa, si conclude con lui, su quel sepolcro, con quell’immenso funerale di popolo.
È stata una rivoluzione disperata nel tentativo di arginare la laicizzazione della società usando gli strumenti della modernità per frenare la modernità. Partendo da questa diagnosi, l’intero pianeta è stato considerato terra di missione; di qui un papa missionario in viaggio perenne, che ha percorso il mondo in tutte le sue longitudini e latitudini sfidando indifferenze, estraneità, ostilità, esponendosi alla violenza degli attentatori, predicando ovunque fratellanza e pace.
Lascia la Chiesa in uno stato di sbigottimento, nel mezzo di un crocicchio di strade che portano, ciascuna, verso obiettivi e modelli profondamente lontani l’uno dall’altro. Lascia una società che ha accolto con ovazioni il suo messaggio restando tuttavia impermeabile ai suoi contenuti.
Quest’uomo che credeva nei miracoli è stato un miracolo. Perciò non avrà successori. Mi auguro che l’eletto dal Conclave non apra il nuovo pontificato assumendo il nome di Giovanni Paolo, terzo della serie: sarebbe una trovata ipocrita e in qualche modo empia.
La Chiesa di Wojtyla è morta con lui. Il successore dovrà imboccare una delle tante strade che il pellegrino Karol ha percorso. Oppure restare fermo nel crocicchio galleggiando sulle onde di un tempo tempestoso.
Questo papa è stato grande, grandissimo. Ma la missione che intraprese venticinque anni fa è fallita. Da non credente lo dico con rispetto e rimpianto perché una ripresa reale dell’afflato cristiano avrebbe in qualche modo fertilizzato la modernità, i suoi contrasti, la sua vitalità intellettuale e morale; avrebbe contribuito ad arrestarne la desertificazione in atto.
Temo che l’occasione sia passata invano. E forse lo stesso protagonista che l’aveva creata porta, almeno in parte, la responsabilità del suo fallimento.
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Bisogna entrare nelle pieghe di questo lungo pontificato per comprendere la ragione di un esito che ha frastornato la cristianità dopo averla galvanizzata. Seguiamone dunque il percorso, così ampio, vario e in qualche modo sussultorio.
Poco dopo la sua elezione comincia la fase del papa polacco, come viene subito denominato dai media e dal vulgo. Non è propriamente una denominazione affettuosa: ci senti un senso di estraneità, quasi la presenza di un limite al suo ruolo universale. Il papa polacco, del resto, non fa nulla per nascondere questo dato della sua personalità; l’interesse per le sorti del suo paese predominano su tutte le altre cure del nuovo pontificato, ma ben presto questo contenuto nazionale esprime i connotati d’una grande sfida contro il totalitarismo comunista all’insegna dei diritti dell’uomo.
Il papa polacco diventa rapidamente il defensor libertatis, l’angelo che punta la spada contro il regno del male sotto la protezione di Maria e alla guida del cattolicissimo popolo polacco. Le tappe di questa battaglia sono ben note e culminano non solo nel trionfo di Solidarnosc a Varsavia ma, più tardi e consequenzialmente, nella caduta del Muro di Berlino e del regime sovietico.
È probabile che il ruolo di Wojtyla in questo sconvolgimento epocale sia stato sopravvalutato: il regime era ormai marcio dalle fondamenta, l’arrivo di Gorbaciov sulla scena l’aveva avviato verso la catastrofe finale.
Ma non c’è dubbio che il contributo del papa polacco sia stato estremamente rilevante sull’immaginario europeo e sui paesi dell’Est in gran parte cattolici (Ungheria, Romania, Cecoslovacchia, Baltici).
Va aggiunto che la vera e propria crociata lanciata in nome dei diritti di libertà suscitò risonanze di grande amplitudine in un altro bacino cattolico, quello dell’America Latina, dove il clero animato dal messaggio papale si pose di fatto alla testa dei moti di rivendicazione della moltitudine dei poveri, con il miraggio di ripetere in quella parte del mondo il miracolo verificatosi con il crollo del comunismo. Solo che lì le forze avverse avevano diversa natura, si trattava dei militari istruiti a Westpoint, degli uomini d’affari legati alle multinazionali; insomma delle propaggini coloniali del capitalismo americano e del "cortile di casa" dell’unico impero di dimensione mondiale. Un impero, tra l’altro, dove il cattolicesimo ha radici deboli e manca della cassa di risonanza necessaria all’efficacia del messaggio.
Se il messaggio era flebile nel nord del continente americano, rimbombava invece come un tuono di tempesta nel sud. Ma qui nasce la prima vistosa contraddizione del pontificato di Giovanni Paolo: lo scontro con la "nuova teologia", col basso clero, coi preti rivoluzionari, con quella parte dei gesuiti che, specie in centro America, si schierano apertamente con i ribelli armati in Nicaragua, Guatemala, Costarica, Salvador e in tutta la fascia caraibica che ha in qualche modo raccolto il messaggio di Castro e del Che Guevara.
Wojtyla non li segue su questa strada, anzi li ferma con estrema durezza, la sua religiosità contadina prevale sulla modernità della nuova teologia, ma la disputa va bene al di là d’una questione teologica, assume il rilievo della primazia del magistero papale su ogni altra ipotesi di assetto della struttura gerarchica nella Chiesa e si dispiega sul simbolismo religioso, sul ruolo della Madonna, dei Santi, dei Beati, sull’esistenza del Diavolo come dato di fatto attuale, sul gelo che cala tra l’alto clero sudamericano e i movimenti di liberazione contadina di quei paesi.
La drammaticità della crisi che ne deriva tra il Papa e i Gesuiti è lo specchio che riflette questa contraddizione e che culmina nella decapitazione di fatto del gruppo dirigente gesuita e il richiamo all’ordine della Compagnia. Da quel momento il braccio operativo della presenza vaticana nella società cessa definitivamente di essere identificato nell’Ordine fondato da Loiola, sostituito da un’associazione di laicato cattolico molto attiva tra i giovani e molto fattiva nel settore delle opere imprenditoriali, Comunione e Liberazione, e da una prelatura dotata di autonomia gerarchica e di poteri speciali, l’Opus Dei, dedita alla penetrazione e al proselitismo nei settori più esclusivi della finanza e del credito.
Una svolta verso l’integrismo cattolico che rivaluterebbe la politica della Chiesa preconcilare impersonata quarant’anni prima da Papa Pacelli? Per certi aspetti la risposta potrebbe essere affermativa, i segnali in quella direzione sono numerosi, ma Wojtyla non cessa di stupire e spiazzare i suoi esegeti: continua e anzi inasprisce le sue critiche al capitalismo finanziario, al "pensiero unico" di stampo liberista, al consumismo, al mercato come unico regolatore della distribuzione della ricchezza. In buona sostanza, regolata ormai la partita con il totalitarismo comunista, lo scontento cattolico si appunta ora verso gli Stati Uniti e verso la concezione della vita che di lì promana diffondendosi in tutto il mondo.
Dal 1991 (prima guerra del Golfo) a questi temi dei quali è pervasa la predicazione di Giovanni Paolo e che si ritrovano in quasi tutte le sue encicliche si aggiunge un pacifismo ad oltranza, senza se e senza ma si direbbe adottando una terminologia laica ma nella fattispecie del tutto appropriata. La discontinuità rispetto alla fase del papa polacco è palese.
Sul piano degli accostamenti storici con i suoi predecessori prossimi o remoti si potrebbe osservare che la fase pacifista pone Giovanni Paolo molto più vicino a Paolo VI e soprattutto a Giovanni XXIII e a Benedetto XV che non a Pacelli.
Ma il pacifismo del 1991 risulta ancor più marcato e ricco di implicazioni del 2002, nei mesi precedenti e successivi alla guerra contro Saddam Hussein e alla sanguinosa e purulenta ferita dell’"Intifada" e della reazione militare israeliana. Questa volta infatti Giovanni Paolo non si limita a predicare la pace, il disarmo degli animi e il negoziato al posto della guerra, ma indica nominativamente l’America di Bush come l’elemento di turbolenza e nella teoria della guerra preventiva un fattore di destabilizzazione permanente al di fuori della cornice del diritto internazionale e delle istituzioni preposte al suo corretto funzionamento.
Negli ultimi anni del suo pontificato questi della pace, del negoziato, del multilateralismo, della superiorità della diplomazia sulle soluzioni militari, sono stati i tratti salienti della incessante predicazione di Giovanni Paolo.
A essi si sono affiancati i temi sempre presenti della tutela della famiglia, della scuola privata, della rigida moralità sessuale con riguardo anche alla fecondazione artificiale e all’omosessualità. Ma queste posizioni mutuate dalla tradizione non possono bilanciare la novità della svolta che - dopo la caduta del comunismo - ha visto in Wojtyla il solo grande antagonista dell’impero americano.
Il vigore con il quale ha tenuto questa posizione ricorda, se vogliamo ancora giovarci di assonanze con alcuni suoi remoti predecessori, i grandi papi politici che affrontarono la lotta contro l’impero e in genere contro il potere temporale dei regnanti quando si ponevano in contrasto con la supremazia spirituale della Chiesa. Ricorda Gregorio VII e Innocenzo III rivissuti in chiave moderna e nella dimensione di massa che caratterizza l’epoca nostra.
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Giovanni Paolo II è stato anche un papa mistico e papa poeta.
Della sua capacità di tenere la scena e di interpretare i riti in chiave mediatica, in sostanza della modernità del suo carisma, si è già detto. Del resto le modalità irripetibili del suo pontificato sono sotto gli occhi di tutti e credo che molto a lungo vi rimarranno.
Eppure l’obiettivo di cristianizzare l’Oriente e di ricristianizzare l’Occidente è stato mancato. Giovanni Paolo si è tenuto lontano dalla Chiesa dei potenti, si è identificato piuttosto con la causa dei deboli e dei poveri, ma la sua non è stata la Chiesa scalza di Francesco. Ha lottato per i poveri ma non con i poveri. Ha venerato Teresa di Calcutta ma anche la pastorella di Fatima. Ha fatto santo Balaguer, fondatore dell’Opus Dei. Non ha capito la potenza delirante ma lucidissima del pensiero di Pascal. È stato un grandioso e sontuoso contropotere ma non un antipotere.
Questi sono stati i limiti che ha posto alla sua azione pastorale. Alla base della sua immensa popolarità c’è stato il ceto medio di tutto l’orbe cristiano, cioè proprio quella massa indistinta e accomunata dal consumismo e dalla ricerca di Mammona, il luogo sociale che giustamente egli considerava come terreno di missione ma che la sua missione non è riuscita a scalfire.
In un certo senso è stato una luminosa meteora, una splendida stella cometa in transito, dietro la quale il buio si è ben presto richiuso.
Morto un papa se ne fa un altro e così la Chiesa è vissuta per duemila anni e continuerà ancora per molto. Ma le fronde di quell’albero sono ingiallite, le radici affondano in una terra sempre più sabbiosa e impoverita.
Karol Wojtyla ha fatto di tutto per morire sull’altare offrendo il suo corpo in sacrificio. Ma che vale il sacrificio di sé nel tempo fosco dei kamikaze?
Ha anche ammonito i peccatori annunciando con le parole di Geremia che Dio si era ritirato dal mondo disgustato dalle sue creature. Purtroppo gli uomini dimenticano prima la morte del padre che la perdita della roba. Era vero ai tempi di Machiavelli; è ancora più vero oggi. Dopo duemila anni di cristianesimo il mondo non è cambiato e il vitello d’oro è ancora l’idolo delle genti.
Prima che per la distribuzione dei tempi tra i contendenti, è per i contenuti che questa campagna elettorale si è degradata come non mai.
In un libro del 1942, Capitalismo, socialismo e democrazia, Joseph A. Schumpeter ha gettato le basi di una "concezione mercantile" della democrazia, in contrasto con la "dottrina classica" che riconosce al popolo, attraverso diversi meccanismi costituzionali, il potere di decidere sul bene comune e di scegliere gli individui cui affidarne la realizzazione. Questa idea, in quel libro, è denunciata come vuota illusione. L’intrico infinitamente complesso di situazioni, opinioni, volizioni individuali e di gruppo potranno mai produrre qualcosa di simile a una volontà generale circa i tanti nodi del governo della società? D’altra parte, le singole persone sono davvero interessate a farsi un’idea propria del bene comune? Non sono concentrate, piuttosto, su beni particolari, sulle cose che le riguardano molto da vicino, come il posto di lavoro, la vita familiare, la vita di quartiere, la chiesa o, addirittura, le loro piccole manie e abitudini?
Occorre realismo. La democrazia, non dei filosofi ma degli uomini comuni del nostro tempo, per Schumpeter, è un mercato nel quale operano gruppi di interessi in concorrenza tra loro. Per vincere la partita del potere, essi devono acquisire consensi elettorali, gli uni a scapito degli altri. La dottrina classica deve essere rovesciata. Non è il popolo, ma sono i governanti (o, meglio, gli aspiranti tali) a essere politicamente attivi. Il popolo può solo aderire all’una o all’altra offerta politica delle élites del potere. La "volontà popolare" non è altro che la reazione maggioritaria, registrata con le elezioni, a queste offerte. Il popolo crede di esprimere propri orientamenti e bisogni ma si illude. I bisogni e gli orientamenti sono dei potenti e il popolo può solo sostenere gli uni a scapito degli altri.
Le elezioni, in questa visione, diventano contese per dividersi il mercato dei voti e strapparne agli avversari, esattamente come avviene tra imprese. L’uomo politico tratta in voti come l’uomo d’affari tratta in petrolio. Nel primo caso abbiamo imprenditori politici e elettori; nel secondo, imprenditori economici e consumatori, ma il rapporto tra i primi e i secondi è sostanzialmente dello stesso tipo. Anche i metodi per acquisire consensi sono gli stessi, chiamandosi, in un caso, propaganda e, nell’altro, pubblicità. Si può dire che la propaganda sta alle elezioni come la pubblicità sta al commercio.
Sappiamo quanto importante sia la tutela del consumatore dalla pubblicità menzognera, denigratoria e fraudolenta dei prodotti commerciali. Stabilita l’equazione pubblicità-propaganda, si comprende quanto essenziale sia la protezione dell’elettore dalla propaganda, a sua volta, menzognera, denigratoria e fraudolenta.
L’acquisto di beni scadenti farà male al consumatore ma il voto corrotto da propaganda corruttrice farà male a tutti. Inoltre, il consumatore si può accorgere alquanto facilmente se ciò che ha acquistato non vale niente; esistono controlli per evitare i danni alla salute per ciò che ingurgitiamo e siamo quasi sempre in tempo per rivolgerci altrove. L’elettore ingannato, invece, non si accorge o si accorge troppo tardi, e a sue pesanti spese, delle porcherie politiche che, con il suo voto, ha acquistato per sé e per la collettività. Eppure, paradossalmente, l’interesse per l’integrità del confronto elettorale è molto meno elevato che per la correttezza del commercio. Denunciare questo fatto non significa auspicare interventi legislativi, in queste materie sempre pericolosi, con tanto di interventi pubblici di controllo, per lo più inefficaci, e di sanzioni, per lo più inutili. Significa invece sollecitare la vigilanza dell’opinione pubblica, questa sì sempre necessaria.
La concezione mercantile della democrazia è stata contestata: per i pessimisti, nei Paesi dove dovrebbe innanzitutto applicarsi (soprattutto gli Stati Uniti d’America), la classe dirigente è unica e ristretta, cosicché la scelta elettorale è solo una farsa; per gli ottimisti, la svalutazione dell’autonoma iniziativa dei cittadini-elettori, a favore delle élites e dei capi, è una generalizzazione eccessiva. Ma l’idea del mercato dei voti ha comunque una sua verosimiglianza. Dunque: il produttore (a), offre beni (b) al consumatore, in cambio di denaro (c). Nel mercato elettorale, l’uomo politico (a) offre promesse (b), in cambio di voti (c).
Ora, questo schema, già di per sé non esaltante per ogni ideologo della democrazia, subisce una prima deviazione o, se si vuole, un primo imbroglio quando scompare il termine medio (b). La campagna elettorale alla quale assistiamo ha spinto al parossismo la tendenza di taluno a mettere avanti se stesso (a), per ottenere voti (c). Votatemi per quello che sono: compratemi perché sono bello, sensibile, imbattibile, "immoribile", ricco, spiritoso, simpatico; ho una bella famiglia; so fare tante cose, amare, cucinare e cantare. In questo modo, la campagna elettorale perde di significato politico e si trasforma in un tentativo di seduzione personale. Diventa anzi, nel senso preciso delle parole, un’oscena pro-stituzione, un mettersi innanzi senza ritegno, per oscurare ciò che invece è essenziale per giustificare l’ardire di chiedere voti: la ragione politica. Gli elettori vengono degradati. Non sono arbitri delle scelte politiche, ma clienti da adescare. I candidati che esibiscono se stessi sono non solo espressione della volgarità di certi ambienti del potere, ma anche corruttori della democrazia politica.
La seconda deviazione si constata nel modo di usare i dati di fatto, i quali, in quanto tali, dovrebbero essere incontrovertibili o, almeno, determinabili nella loro obiettività, per costruire discorsi onesti. Invece, ognuno ha suoi dati che, naturalmente, gli danno ragione. Il pubblico non capisce: percentuali di e su che cosa? spese effettuate o solo preventivate? occupazione vera o fittizia, stabile o effimera? criminalità reale, denunciata o accertata? aumento dei salari e delle retribuzioni: in termini monetari o reali? distanza tra ricchi e poveri, tra nord e sud? I "dati", anche se non smaccatamente falsi, possono essere costruiti ad hoc. Mai che vi sia qualcuno - i responsabili delle interviste televisive, per primi - che inchiodi chi ne fa uso a una prova della verità.
L’integrità del ragionare è pregiudicata in radice e tutto può andare su e giù, come conviene. Eppure falsità e frode, strumenti del Principe machiavellico, insieme alla violenza da cui poco differiscono, dovrebbero considerarsi quali sono: attentati alla democrazia.
La terza distorsione sta nel considerare l’elettore-spettatore come supporter e non come una persona raziocinante che vuole maturare sue convinzioni. Gli uomini politici spesso coltivano un ridicolo atteggiamento gladiatorio (lo "faccio nero", lo distruggo), studiato a tavolino da esperti di comunicazione di massa. I media lavorano sulla stessa lunghezza d’onda quando stabiliscono classifiche e assegnano vittorie e sconfitte come in un match di pugilato, dal cui lessico si ispirano (knock out; al tappeto; gettare la spugna). Il logos della democrazia, il ragionare insieme, il piacere di apprendere qualcosa dall’altro, in definitiva il carattere costruttivo della discussione sono spesso completamente assenti. Ci si vuole reciprocamente distruggere, senza apprendere nulla. Così si fanno solo macerie; il pubblico percepisce non una discussione ma uno scontro tra pregiudizi. Chi non è partigiano si allontanerà disgustato, avvertendo di essere usato come cosa, non rispettato come essere raziocinante. Eppure, quale prova di onestà, serietà e forza darebbe colui che, in un pubblico dibattito, riconoscesse per una volta, se occorre, le buone ragioni dell’avversario!
Seduzione, falsità e partito preso sono tre vizi capitali delle nostre campagne elettorali. Consideriamo che la loro comune natura è l’estraniazione dal contatto con la realtà delle cose. Allora si capisce l’importanza della distribuzione degli spazi televisivi.
L’efficacia del messaggio elettorale, come di quello commerciale, è determinata dal tempo di esposizione, durante il quale si useranno tutti gli ingredienti e i trucchi di una "comunicazione" sottratta a ogni verifica politica.
Abbiamo iniziato e terminiamo con Schumpeter: più di un argomento razionale contano le affermazioni ripetute mille volte e l’appello al subconscio, nel tentativo di evocare e cristallizzare associazioni gradevoli a proprio favore e sgradevoli a sfavore dell’avversario, con metodi extrarazionali e, molto spesso, con riferimenti sessuali. Forse è per questa ultima ragione che chi ha la fortuna di avere avuto da madre natura un naso gogoliano, quello se lo tiene ben in vista. Noi, cittadini-elettori, non dovremmo pretendere qualcosa di meglio?
La guerra è sempre orribile. Quando è scatenata sulla base di menzogne l’orrore diventa insopportabile. Ma quando all’insopportabilità dell’orrore si aggiunge la tenebra del ricorso a strumenti di morte inumani come quelli che sono stati adoperati a Falluja contro i civili (“pochi civili”, sottolineano le fonti USA) non si trovano più parole per esprimere l’indignazione e lo sgomento.
Non abbiamo documentato tempestivamente il servizio di RadioNews24 riportandone i commenti: ci ha forse frenato lo sbigottimento suscitato dalle rivelazioni e dalle immagini. Riportiamo oggi una bella intervista rilasciata dall’autore di quel memorabile servizio, Sigfrido Ranucci, a Tommaso Di Francesco, un articolo di Alessandro Robecchi, entrambi da il manifesto del 10 e 13 novembre 2005, e alcuni significativi stralci da un rapporto ufficiale USA, scelti e tradotti da Fabrizio Bottini per Eddyburg. In calce il link al servizio di RadioNews24, un canale sempre più indispensabile all'Italia sempre più infangata.
Tommaso Di Francesco,
Falluja, le prove della strage al fosforo
il manifesto, 10 novembre 2005
Intervista al giornalista di Rainews24, Sigfrido Ranucci, autore dell'inchiesta. Tra i testimoni, il marine Jeffe Engleart che ieri ha zittito il Pentagono,
Non è la prima volta che con un servizio televisivo Sigfrido Ranucci, 44 anni e dal 1999 redattore di RaiNews-24, provoca un vero finimondo. E' già accaduto recentemente con la pubblicazione di un Rapporto dell'Eni che, sei mesi prima della guerra all'Iraq nel marzo 2003, spiegava che le truppe italiane dovevano posizionarsi nell'area petrolifera di Nassiriya. Stavolta ha scoperto la documentazione sul mattatoio di Falluja nel novembre 2004 quando la città venne martellata per giorni dai bombardamenti, aerei e di terra, delle truppe occupanti americane. Un evento sanguinoso decisivo. Vale la pena ricordare che la nostra Giuliana Sgrena tra i profughi di Falluja, poco prima di essere rapita, cercava resoconti su quella strage restata poi nel buio mediatico. Intanto il servizio di Ranucci, andato in onda martedì, è stato ripreso da tutta la stampa mondiale e dalle tv arabe
Come hai ottenuto le immagini di quei corpi di civili e combattenti bruciati e disidratati dall'esplosivo al fosforo e che cosa hai provato?
Quando abbiamo visto i filmati siamo rimasti raccapricciati ovviamente dal vedere questi corpi che erano fusi, con i vestiti invece completamente intatti e ci siamo posti subito la domanda se dovevamo fare un'inchiesta su questo materiale e se potevamo andare in onda con questo materiale. Alla fine abbiamo deciso di sì perché, secondo noi, la guerra la si può raccontare solo in questo modo. Io ho volutamente chiuso l'inchiesta-reportage con le immagini della sparatoria da parte degli americani sui resistenti iracheni che si vedeva attraverso il monitor di un elicottero. Perché? Perché la percezione che ha oggi l'Occidente, che abbiamo oggi noi della guerra è come di un gigantesco videogioco fatto con bombe intelligenti. I corpi secondo noi avevano qualcosa di sospetto, così li abbiamo fatti vedere ad alcuni periti, esperti di terrorismo, e ci hanno detto che era forte il sospetto che fossero state utilizzate armi non convenzionali o comunque degli ordigni incendiari, ma non potevano rilasciarci una perizia scritta sulla base di foto e filmati. Abbiamo mostrato gli stessi filmati anche a militari che frequentano zone di guerra, soprattutto a quegli apparati che vanno in zone dove si sono verificati determinati tipi di attacchi. Appena li hanno visti hanno subito detto che alcuni erano chiaramente corpi carbonizzati dal napalm e che altri portavano segni evidenti dell'utilizzo di fosforo bianco. Chi visita il sito di Rainews24 ( www.rainews24.it) e va a vedere l'inchiesta, vede che abbiamo pubblicato insieme le foto dei morti del bombardamento di Dresda del 1945. Si vede chiaramente che c'è una tremenda somiglianza tra quei resti che non sembra poiù nemmeno umani. Ma come potevamo essere sicuri che questi corpi siano proprio di Falluja? Ci sono fotografie che hanno numeri di matricola riportate nei registri cimiteriali, che noi abbiamo pubblicato sempre sul sito, redatti dalle autorità americane ad identificazione del corpo, quando è stato possibile: ci dice dove è stato trovato e dove è stato sepolto. Per noi era la sicurezza che quel corpo fosse stato trovato lì, per esempio nel quartiere di Jolan piuttosto che in quello di Askari, i due più colpiti.
Avete avuto testimonianze dirette da Falluja?
Sì, la seconda testimonianza importante è quella di persone di Falluja che ci hanno detto di questa pioggia di fuoco che veniva dal cielo e che colpiva le persone. Ce ne ha parlato direttamente Mohammed Tareq Halderaji che racconta nel reportage comele persone hanno visto questa pioggia di fuoco che veniva dal cielo e che colpiva tanti civili che hanno cominciato ad incendiarsi mentre venivano a contatto con queste sostanze. Ora c'è un Comitato dei diritti umani di Falluja che ha coinvolto anche il Parlamento europeo. Poi dovevamo andare a cercare qualcuno che stava materialmente a Falluja, ma dall'altra parte. Cioè il punto di vista degli americani. Abbiamo coinvolto anche una ex deputata laburista, Alice Mahaon, che ha chiesto al governo inglese se era vero che gli americani avevano utilizzato armi tipo napalm. Il ministero inglese aveva sempre smentito fino al 13 giugno 2005. Poi ha chiesto scusa per la smentita ammettendo l'utilizzo da parte Usa dell'MK77, la nuova versione del napalm. Per il Pentagono mai usata in zone abitate da civili.
Negli Stati uniti, in Colorado, hai intervistato soldati americani che ora sono contro la guerra ma che nel 2004 hanno combattuto a Falluja...
Li abbiamo rintracciati via internet attraverso un blog, siamo stati quaranta giorni per vincere la loro diffidenza. Uno dei due contatti, quello con il nome in codice, definito soldato Engle - che mi è stato passato da Mario Portanova, autore di un'inchiesta su Falluja pubblicata da Diario, fatta in maniera splendida - rimasto anonimo fino a quel momento, dopo una quarantina di contatti ha avuto fiducia ed ha accettato di incontrarmi. Lui è stato a Falluja nel novembre del 2004 e mi ha detto che ha sentito con le sue orecchie l'ordine del comando americano di utilizzato il fosforo bianco - nei codici militari viene chiamato Willie Pit. A quel punto avevamo la testimonianza della delegazione irachena, i corpi che mostravano dei segni particolari e la testimonianza del marine. Sono allora andato a cercare i documenti filmati che i circuiti internazionali avevano proposto a novembre e ho trovato il filmato di questa pioggia di fuoco che viene scaraventata dagli elicotteri. Quando ho visto che coincideva con la data che mi è stata detta dal marine, abbiamo fatto vedere quella pioggia di fuoco a esperti militari che ci hanno confermato che quello era fosforo bianco. Eravamo pronti con l'inchiesta. E' importante dire che il soldato è stato messo ieri mattina a confronto in una intervista in tv con il Pentagono ed ha confermato tutto. E il Pentagono ha annaspato. Il soldato si chiama Jeff Engleart. Il Pentagono ha detto che smentiva l'utilizzo delle armi chimiche anche se ancora non aveva visto il filmato di Rainews24.
Come reagirà il mondo musulmano?
Il mondo musulmano sa già cosa è successo a Falluja. Siamo noi ad avere la percezione sbagliata della guerra. E io non mi ritengo l'autore di uno scoop. La notizia del fosforo bianco era già uscita anche su Al Jazeera sul Daily Mirror. E' accaduto che il Pentagono il 9 dicembre 2004 ha smentito le voci del fosforo con una nota in cui diceva di aver utilizzato il fosforo solo come traccianti, cioè «nell'uso che ne è consentito» Non è vero. Ci sono gli estremi di un crimine di guerra dell'amministrazione Usa che nel novembre 2004 per bombardare Falluja aspettò l'esito delle elezioni presidenziali.
Alessandro Robecchi, Fosforo e distintivi
il manifesto, 13 novembre 2005
Effetti del fosforo bianco sui civili iracheni di Falluja: bruciature micidiali che sciolgono la carne e lasciano intatti i vestiti. Effetti del fosforo bianco sull'informazione italiana: bruciature di intere pagine,Se le usa Bush si fa finta di niente e chi lo documenta è semplicemente accecato dall'odio antiamericano (che sia detto per inciso è sempre meglio che essere accecati dal fosforo bianco). Così, i giornali italiani e le televisioni (con le eccezioni di RaiNews24 e Raitre, grazie a Primo Piano) fanno finta di niente. I più lucidi tra gli embedded, Giuliano Ferrara e Clarissa Burt non hanno scritto una riga né detto una parola. Niente fiaccolate per il nuovo napalm. Un rapido giro nel controllo della malafede mi ha indotto persino a un gesto dadaista e disperato: comprare il Riformista, spassoso giornale satirico. Ed ecco l'articolo dell'ambasciatore americano in Italia che ci ringrazia per aver mandato a morire alcuni italiani in Iraq, ci assicura che entreranno nei libri di storia, ma sulle armi chimiche americane niente, nemmeno una virgola. Devo dedurre che tra gli effetti collaterali del fosforo bianco ci siano disturbi alla memoria, anche se naturalmente il Riformista chiede con un accorato appello una giornata della memoria. Effetti devastanti sulla memoria anche per il nostro premier, tutto impegnato a ricordare alla masse che lui la guerra non la voleva e che era contrario, anzi è un noto pacifista. Ma quando è arrivato in Italia il presidente iracheno, installato dagli invasori, ha assicurato che la guerra era inevitabile. Quando quello se n'è andato ha ricominciato a dire che lui era contrario: un bi-Silvio ad assetto variabile, forse un altro effetto collaterale del fosforo bianco (occhio alla caduta dei capelli!). Il premier anzi fa di più, dipana davanti ai giovani azzurri (puffi? effetti del fosforo?) una semplice equazione: dire che l'Italia ha voluto la guerra, e ha anche fornito le prove (false) agli americani per avere una scusa per l'attacco non è più solo anti-americano, ma addirittura anti-italiano. E se verrà qui un qualche kamikaze a rovinarci le feste di Natale sarà colpa di chi ha appeso la bandiera della pace. Inutilmente ho cercato i pezzi di Teodori, Fallaci, Pera Marcello e altri corifei del settimo cavalleggeri, magari anche piccoli corsivi e trafiletti. Niente: il fosforo bianco ha bruciato tutto, meno male che ha lasciato intatti i vestiti. Tutti quelli abituati a farci enormi pipponi su come si fa il giornalismo sono preda di gravi attacchi di amnesia.
Ora, dopo appena qualche timida voce che si leva dai banchi dell'Unione, aspetto con trepidazione una netta posizione dei Ds, una dichiarazione di Prodi e una di quelle fulminanti battute dietro le quali si intuisce il talento politico di Rutelli: qualcuno dei nostri eroi oserà dichiarare che usare armi chimiche sui civili è piuttosto incivile? Che Bush è un criminale di guerra? Che Berlusconi è un suo complice? Che non vogliamo restare laggiù mentre i nostri alleati cuociono donne e bambini? Ops, scusate, mi è scappata. Sono proprio anti-italiano, maledizione. Sarà l'effetto del fosforo bianco.
La Battaglia di Fallujah, Field Artillery, marzo-aprile 2005
Estratto da: Indirect Fires in the Battle of Fallujah, memoriale redatto da: Capitano James T. Cobb, Tenente Christopher A. LaCour, Sergente William H. Hight
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1. Premesse e Obiettivo.
La Battaglia di Fallujah è stata condotta dall’8 al 20 novembre 2004, con l’ultimo attacco di fuoco il 17 novembre. La battaglia è stata combattuta da uno schieramento di Esercito, Marina e forze dell’Iraq di 15.000 uomini sotto il comando dello I Marine Expeditionary Force (IMEF), da nord a sud. Le forze congiunte hanno circondato la città e cercato casa per casa, liberando gli edifici e impegnando gli insorti nelle strade: è riconosciuta come la più feroce battaglia urbana sostenuta dai Marines, dopo quella di Hue City in Vietnam del 1968.
Fallujah si trova a circa 40 chilometri a ovest di Baghdad sul fiume Eufrate. La popolazione prima della battaglia era di circa 250.000 abitanti; ad ogni modo, l’unità TF 2-2 IN [ Task Force 2d Battalion 2d INfantry] ha incontrato pochi civili durante il proprio attacco a sud.
La missione di TF 2-2 IN inizialmente era di attaccare a sud della Phase Line (PL) Fran (Highway 10) dal margine nord-orientale della città per proteggere il nostro fianco est e distruggere le Forze Anti-Irachene (AIF), mantenendo aperte le linee di comunicazione. Per l’attacco, la città è stata suddivisa da nord a sud in sei zone di competenza ( Area Of Responsibility/AOR): la TF 2-2 IN nella fascia nord-orientale, con la TF 1-3 Marines sul nostro fianco ovest, seguita (da est a ovest) da TF 1-8 Marines, TF 2-7 Cav, TF 3-5 Marines e, infine, TF 3-1 Marines nella AOR nord-occidentale lungo il fiume Eufrate.
Durante l’attacco, sono stati emessi numerosi fragmentary orders (FRAGO), che hanno spinto la TF 2-2 IN a sud della Phase Line Fran, verso il margine meridionale della città. Il centro operativo tattico di retrovia della TF 2-2 IN (RTOC) e due mezzi corazzati M109A6 Paladin erano a Camp Fallujah (22 chilometri a sud-ovest di Fallujah), e da qui i Paladins hanno fatto fuoco nel corso della Battaglia di Fallujah.
La città ha un fronte di circa cinque chilometri e altrettanti di profondità. È divisa da est a ovest dalla Highway 10, con quartieri residenziali al nord e il settore industriale a sud. All’estremità meridionale si trova un quartiere povero, pieno di combattenti stranieri, soprannominato “Distretto dei Martiri”. È in questo settore che abbiamo incontrato la resistenza più forte.
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9. Munizioni
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b. Fosforo Bianco. Il Fosforo Bianco ( White Phospor/WP) si è dimostrato un’arma efficace e versatile. L’abbiamo utilizzato per missioni di copertura a due brecce e, più tardi nel corso della battaglia, come potente arma psicologica contro gli insorti lungo la linea delle trincee e dei cunicoli [ spider holes] quando non riuscivamo ad ottenere effetti con gli esplosivi ad alto potenziale. Abbiamo utilizzato attacchi “scuoti e cuoci” [ shake and bake] contro gli insorti, utilizzando WP per spingerli e HE per tirarli fuori.
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14. Conclusioni.
Il ruolo degli indirect fires è stato parte decisiva della Battaglia di Fallujah e ha contribuito massicciamente al suo risultato.
Hanno consentito alle forze in campo di muoversi rapidamente attraverso la città con perdite minime e hanno dimostrato quello che possono fare gruppi congiunti che operano insieme. Gli effetti sono stati fisicamente e psicologicamente devastanti. Non solo gli indirect fires hanno distrutto le forze AIF, ma hanno anche distrutto la loro volontà di resistere e combattere. Hanno anche avuto un influsso positivo sulle nostre forze dimostrando ai comandanti sul campo che era a loro disposizione una soverchiante potenza di fuoco.
Il plotone dei Paladin ha notevolmente aumentato il potere di fuoco della TF, la sua tempestività e flessibilità, consentendo di muoverci a un ritmo senza precedenti attraverso una città fortificata.
Abbiamo imparato ad utilizzare gli indirect fires presto e spesso in grandi volumi. Nel corso della battaglia, sono stati consumati più di 2.000 caricatori di artiglieria e mortaio, and e più di dieci tonnellate di munizioni di precisione della Air Force.
Ad ogni modo, per quanto si sia avuto successo, se la battaglia fosse durata più a lungo sarebbe stato difficile proseguire con le attività del fuoco di sostegno. Dobbiamo imparare da questa battaglia a prepararci per il futuro. Alla fine, abbiamo riflettuto su alcune delle cose di cui eravamo più fieri. Quello che saltava agli occhi sulla linea del fronte erano fanteria e sergenti dei reparti carristi, comandanti di plotoni e di compagnia a dirci che artiglieria e mortai erano stati paurosi. Alla fine della giornata, lo si può dire: i nostri compagni di sul campo hanno capito perché ci chiamano i “Re della Battaglia”.
Il servizio di RaiNews24 è scaricabile qui
QUESTO è un tempo triste per chi non possiede la verità e crede nel dialogo e nella libertà. Anch’essi sono "relativisti" e il relativismo è malattia terminale della nostra società: così dice la Chiesa cattolica, forte della sua verità e della sua autorità. Verità e autorità sono ovviamente incompatibili con dialogo e libertà. Relativisti e assolutisti possono solo combattersi. Ma la Chiesa non è sola. Ci sono coloro che l’appoggiano da fuori, anzi la incitano trovandola troppo remissiva. Della sua verità e della sua morale non si curano, ma tengono in gran conto il suo patrimonio di autorità, da investire politicamente. Con questi atei clericali, cui senza scandalo la Chiesa spalanca portoni d’onore e braccia materne a dimostrazione che ormai il fine giustifica ogni mezzo, il dialogo è non tanto impossibile, quanto impensabile.
Si rischia una spaccatura sociale e culturale dalle conseguenze imprevedibili.
Eppure, quanto accade non è senza cause profonde. In un ormai famoso dialogo con l’allora cardinale Joseph Ratzinger, Jürgen Habermas ha ricordato una formula pregnante, anche se un poco sibillina, del costituzionalista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde, una formula che potrebbe piacere agli atei clericali: «lo Stato basato sulle libertà e secolarizzato si nutre di premesse normative che esso, da solo, non è in grado di garantire». In questa constatazione, apparentemente priva di passione, avvertiamo un rintocco a morte per il nostro tempo debole e malato e, all’opposto, una nota nostalgica per un’epoca forte e sana in cui i vincoli morali di appartenenza e obbedienza (le "premesse normative", appunto) erano dati a priori.
In origine, c’è l’invito di san Paolo ai cristiani di Roma affinché ubbidiscano all’autorità, perché voluta da Dio: nulla potestas nisi a Deo. Più importante, però, in questa formula è l’ipoteca sui futuri rapporti tra cristianesimo e imperatore. I fedeli riconoscano la loro sudditanza all’imperatore; ma, soprattutto, l’imperatore riconosca la sua sudditanza a Dio e, per lui, al capo della sua Chiesa, il Papa. Era l’avvio della "teologia politica": la fondazione in Dio del governo degli uomini. I Padri della Chiesa colsero subito lo spunto e con Costantino e la Chiesa costantiniana l’ipoteca paolina entrò nella nostra storia.
Da allora, per più d’un millennio, politica e religione sarebbero restate strettamente intrecciate, sia pure tra infinite dispute dei dotti per definire i rapporti tra "spirituale" e "temporale" in teoria; e tra contese di eserciti e potenze mondane per regolare i conti in pratica. In ogni caso, fuori discussione era il principio che l’obbligazione civile, cioè la pretesa dell’imperatore di ottenere obbedienza, è radicata nel più solido e indiscusso dei terreni, la fede religiosa. L’impero non poteva sciogliersi dalla Chiesa di Dio e dalla sua concezione provvidenziale della storia: res publica christiana. La scomunica papale dell’imperatore infedele liberava i sudditi dall’obbedienza, a garanzia di questo radicamento.
Volendo ancora ricorrere, nell’epoca presente, al motto paolino, lo si dovrebbe rovesciare: nulla potestas nisi a hominibus. Gli uomini stanno insieme e obbediscono all’autorità in nome non del Dio comune ma dei propri diritti. La base della società e del governo è l’essere umano come tale, né più né meno. L’origine spirituale di questa rivoluzione è l’Umanesimo; il compimento, il razionalismo sei-settecentesco, sfociato nella Rivoluzione francese. Il prodotto costituzionale di questa emancipazione è lo Stato laico, lo Stato che deve vivere di forza propria perché gli manca l’aiuto che un tempo era offerto dalla Chiesa, garante delle "premesse normative" della vita politica.
Ma può reggersi durevolmente una società basata solo sui singoli e sui loro diritti, cioè su pretese individuali? Dove trova le forze che garantiscano quel minimo di omogeneità, solidarietà, identità, necessario a evitare l’autodissoluzione? Quanto a lungo le società possono vivere solo sulla libertà e sui diritti dei singoli, senza un legame profondo che ne sterilizzi le valenze distruttive? Si può credere di eliminare il problema, assegnando allo Stato, come compito, solo l’eudemonìa sociale, cioè la vita bella, o addirittura la felicità? Questo è un terreno senza confini, mentre i mezzi sono limitati. Il rapporto tra Stato e cittadini si nutre di promesse sempre crescenti e via via eluse. Elusione da cui delusione e crisi. Lo Stato emancipato, in breve, sembra destinato a fagocitare le premesse che dovrebbero legittimarlo. Dove potrebbe appoggiarsi un simile Stato, in tempi di pretese crescenti e di risorse scarseggianti?
Ecco perché attingere a quel serbatoio di legittimità politica che è la Chiesa cattolica, per assicurare, ancora una volta, quelle "premesse normative" che sono venute a mancare.
Santa ingenuità o diabolica astuzia. Un’idea come questa può venire in mente solo a costo di ignorare la ragione storica dell’emancipazione o "secolarizzazione" dello Stato. Le guerre civili di religione sono di fronte a noi, a insegnare che cosa produce l’intreccio tra politica e religione quando non è data unità di fede. Incrinata l’unità dei cristiani dai movimenti ereticali a partire dal XII secolo, rotta poi dalla riforma luterana e dallo scisma anglicano, quell’intreccio ha alimentato solo divisioni e sopraffazioni. L’Europa cristiana divisa divenne campo di battaglia, con faide crudelissime tra cristiani di diverse confessioni, inquisizioni, cacce alle streghe, roghi di eretici e pogrom di ebrei. Eserciti di Stati scesero in campo in nome delle diverse professioni religiose. La religione, una volta rotta la sua unità, non era più assicurazione di alcuna "premessa normativa". Anzi: era diventata endemico fattore di sovversione, odio, miseria, ostilità. Se ne uscì non con vincitori e vinti ma con una soluzione costituzionale: l’emancipazione dello Stato, la sua distinzione dalla religione e la regolamentazione di questa come elemento della coscienza individuale e sociale, e non più come elemento direttamente politico.
Nell’Europa di oggi, la ri-cristianizzazione della politica sarebbe una cosa diversa? Non si sente già dividere il mondo tra i credenti, in generale, e i non credenti, quelli che hanno reso Dio superfluo? Regolato questo primo conto, non si continuerebbe poi con i credenti in un Dio diverso? E non si finirebbe con chi crede nello stesso Dio, ma diversamente? I metodi, certo, non sarebbero più quelli. L’Europa si è ingentilita. Non è questione di roghi, sante inquisizioni, massacri, guerre di religione, bracci secolari. Sono più consoni ai tempi le campagne culturali (come quella per accreditare l’idea che ai non credenti manchi qualcosa, siano un meno rispetto ai credenti); le leggi che traducono in diritto dello Stato la morale di Chiesa; i privilegi finanziari e fiscali; le agevolazioni nell’uso di luoghi e servizi pubblici, l’ingerenza nella formazione e nell’attività delle istituzioni civili.
Ecco il modo attuale di garantire le nostre "premesse normative": privilegi e discriminazioni. In una società divisa, non potrebbe che essere così. Non sarebbero più tali, ovviamente, se fosse ripristinata l’unità di fede, se tutti fossimo ugualmente fedeli dello stesso Dio. Una condizione impossibile, alla quale il cardinale Ratzinger invita a ovviare con un "come se": "anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse; […] è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno". Non comandi, dunque, ma consigli; libertà, non soggezione. C’è però in questo invito qualcosa di sorprendente, dallo stesso punto di vista cristiano. Non è la fede una fiamma che trasforma? Non è l’imitatio Christi, cui ogni credente è chiamato, follia per il mondo? Non si implica invece una fede ridotta a semplice morale di vita mondana, a codice di buona condotta? C’è, comunque, un’insuperabile difficoltà. In che consista l’essere e l’agire conformemente a quel che l’esistenza di Dio richiede, il laico non sa e gli uomini di fede si sono combattuti per mill’anni ciascuno ritenendo di saperlo meglio degli altri. Occorre un’autorità riconosciuta ed è sottinteso che sia il magistero cattolico. Ma come può chiedersi a un non credente di contraddire così profondamente se stesso, al punto di affidarsi a ciò che gli si dice a proposito di un Dio che non conosce? Il consiglio che la Chiesa rivolge così al non credente ha un solo contraddittorio significato: seguimi, per atto di fede.
Quando la filosofia incominciò a ribellarsi a essere ancilla theologiae, nel corso del XVII secolo, si disse l’inverso: che ci fossero proposizioni morali e giuridiche valide anche se Dio non esistesse, etsi Deus non daretur. Con ciò si voleva dire che c’è una moralità e una giustizia valide obbiettivamente, "naturalmente", che obbligano anche Dio, se esistente. Ma la Chiesa respinse la "scellerata finzione", la "ipotesi empia". Veniva messo in gioco il suo potere di interpretazione autentica della volontà divina, insidiata dall’autorità della ragione, cioè, in effetti, dalle cattedre del pensiero razionalista.
Dietro questi "come se", si scorgono contese di potere. Essi non servono a far accettare volentieri i privilegi e le discriminazioni. C’è un altro senso della formula, tuttavia, sul quale ha richiamato l’attenzione, qualche anno fa, Gian Enrico Rusconi: l’etsi Deus non daretur di Dietrich Bonhoeffer, il teologo della «chiesa confessante» tedesca, impiccato dai nazisti a Flossenbürg nell’aprile 1945. Nelle lettere dal carcere pubblicate in Italia col titolo Resistenza e resa, è abbozzato il progetto di una teologia che abbandona il Dio delle chiese storiche dogmatiche e si rivolge al Dio della fede e dell’Evangelo: una teologia che si rende possibile anche se, anzi proprio perché il Dio della religione non esiste (più). Nella «maggiore età del mondo», di un mondo che «basta a se stesso» e «funziona anche senza "Dio"» grazie allo straordinario sviluppo delle esperienze scientifiche, etiche e artistiche che riescono perfino a esorcizzare il terrore della morte - dice Bonhoeffer - non c’è più posto per un deus ex machina, pensato per dare certezze all’essere umano e sopperire alle sue paure e ai suoi interrogativi senza risposta. Poiché è venuto meno questo Dio che proclama la Verità dall’alto della croce, trono del mondo, si apre il tempo della fede nel Dio sofferente «che si lascia cacciare fuori dal mondo» e che possiamo conoscere gratuitamente e problematicamente nella fede purificata e disinteressata: una conoscenza che all’autorità del dogma trionfante - in certo senso blasfema, perché sostituisce, fissandola, una voce umana a quella mai integralmente esperibile di Dio - sostituisce il fragile, umile e responsabile ascolto del sussurro divino che chiede di essere inteso, senza garanzia di certezza, nella sequela delle esperienze umane. Questo può essere il terreno comune: attraverso una teologia del Cristo sofferente, si guadagna la condizione di tutti gli uomini, a partire dalla quale costruire insieme, col Cristo come compagno che soffre con l’umanità intera.
Non ci si aspetta tanto dalla Chiesa cattolica. Ma certo l’accentuazione dogmatica degli ultimi tempi - almeno questo si può dire - non va nel senso di quel dialogo, di cui si diceva all’inizio, pur riconosciuto "così necessario" dallo stesso cardinal Ratzinger; nel senso della pace tra tutti gli uomini di buona volontà che Dio ama, secondo l’annuncio dell’Angelo (Lc 2, 14). Riprendiamo ancora una volta l’espressione "garanzia delle premesse normative" da cui abbiamo iniziato. E’ vero che la democrazia - altra parola per "Stato basato sulla libertà e secolarizzato" - è priva di garanzia. Se l’avesse, del resto, non sarebbe democrazia ma autocrazia. Essa è, tra tutti i regimi politici, il più fragile. Ma proprio per questo, il dialogo è non solo auspicabile, ma necessario per le premesse normative che andiamo cercando, mentre l’accentuazione dogmatica in politica, che tanto piace agli atei clericali, è un rischio democratico. Se si procede da verità assolute non si dialoga. Ci si catechizza e, con sterili contrapposizioni, si scuote alla base la democrazia, questa sì orgoglio dell’Occidente.
Gli scritti citati:
(1) J. Habermas - J. Ratzinger, Was die Welt zusammenhält. Vorpolitische moralische Grundlagen eines freiheitlichen Staates (Che cosa tiene insieme il mondo. Fondamenti morali prepolitici di uno Stato basato sulla libertà) (2004), trad. it. Ragione e fede in dialogo, Venezia, Marsilio, 2005; (2) E.-W. Böckenförde, Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation (La formazione dello Stato come processo della secolarizzazione), in Recht, Staat, Freiheit - Studien zur Rechtsphilosophie, Staatstheorie und Verfassunsgeschichte, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1991, pp. 92-114 (passo citato a pag. 112); (3) J. Ratzinger, L’Europa nella crisi delle culture, in il regno-documenti 9/2005, pp. 214-219; (4) G. E. Rusconi, Come se Dio non ci fosse. I laici, i cattolici e la democrazia, Torino, Einaudi, 2000; (5) D. Bonhoeffer, Widerstand und Ergebung (1970), trad. it. Resistenza e resa, a cura di A. Gallas, Cinisello Balsamo, Ed. Paoline, 1988,
DIECI anni fa venne pubblicato in Inghilterra un libro dal titolo "The Revival of Death", traducibile come "il ritorno della morte". La morte non era scomparsa , ma era stata socialmente rifiutata, era divenuta la "morte negata" di cui ci ha parlato Philippe Ariès: espulsa dai discorsi, esclusa dagli ambienti familiari, medicalizzata, trasferita negli ospedali.
Lontana il più possibile dagli sguardi, avvolta nel silenzio, consegnata con misura al compianto. Ma non è stato uno spontaneo mutamento della sensibilità collettiva a riconsegnarci la morte come momento ineludibile dalla riflessione pubblica. È stato il lento stratificarsi dei trattamenti tecnologici dei morenti a mostrarci una morte diversa da quella alla quale eravamo abituati, e ad obbligarci a riaprire gli occhi. Sono state le immagini terribili delle ultime ore di Franco e Tito, ormai ridotti ad appendice disumanizzata di apparecchiature per la sopravvivenza, a dirci che allontanare il momento della morte non era una forma di rispetto della persona, ma un oltraggio alla sua dignità, per una ragion di Stato che esigeva qualche ora ancora per regolare le partite politiche aperte dalla scomparsa di un dittatore.
Da allora la morte è ritornata tra noi, in forme sempre più esigenti. La vicenda di Terri Schiavo sta appassionando e dividendo il mondo, ed obbliga anche a guardare ad un caso simile di casa nostra, dove da anni il padre di Eluana Englaro lotta per sottrarre la figlia ad una sopravvivenza senza speranza, assicurata solo dalla alimentazione e dalla idratazione forzata. E il mutamento del clima sociale e culturale è testimoniato dai molti film che negli ultimi tempi ci hanno parlato della dignità del morire, delle decisioni difficili intorno alla morte – "Le invasioni barbariche", "Mare dentro", "Million dollar baby".
Sono, questi, i segni di una deriva culturale che sta perdendo il valore della vita o, al contrario, di una progressiva presa di coscienza di che cosa significhi oggi il morire, non più l’attimo in cui ci si congeda dalla vita, ma un tragitto sempre più lungo, drammatico, dolorosissimo? Poteva essere così anche prima del radicarsi e del diffondersi di tecnologie della sopravvivenza. Ma non siamo più nella condizione descritta da Karen Blixen narrando degli africani che portavano i morenti sull’altra riva del fiume e, da lontano, assistevano serenamente al loro lento spegnersi. Oggi la tecnologia può chiudere i corpi in una prigione per un tempo senza speranza, che può divenire intollerabile. Per questo, da decenni ormai si rifiuta l’"accanimento terapeutico", anche nei codici di deontologia medica, e si è giunti ad attribuire a ciascuno di noi il diritto di rifiutare le cure, che è appunto il diritto di lasciarsi consapevolmente morire, come ha fatto poco tempo fa una persona che, ritenendo intollerabile il vivere con una gamba amputata, ha rifiutato l’intervento ed è morta poco tempo dopo.
Non è vero, dunque, che stiamo abbandonando il rispetto per la vita. Vogliamo rifiutare il sostegno tecnico o farmacologico quando può rendere la vita intollerabile.
Ci siamo riappropriati delle decisioni sul morire, ma siamo ancora esitanti di fronte al modo in cui si esercita questo nuovissimo potere. Se Terri Schiavo e Eluana Englaro avessero lasciato scritto che rifiutavano ogni terapia di sopravvivenza, di questa loro volontà si sarebbe dovuto tener conto. Ma, in assenza di una dichiarazione esplicita, possono altri, marito o padre, decidere della vita di chi si trova in uno stato vegetativo permanente? E l’alimentazione e la ventilazione forzata possono essere considerate terapie di sopravvivenza, come tali rifiutabili, o sono trattamenti che non rientrano in tale categoria (è l’argomento con il quale i giudici rifiutano l’interruzione delle cure per Eluana Englaro)?
Il quadro giuridico è in rapido mutamento in tutti i paesi, e la tendenza è chiaramente nel senso di ammettere sempre più largamente la possibilità di "morire bene". Alla fine della passata legislatura, ad esempio, una commissione nominata dal ministro Veronesi aveva concluso nel senso di ritenere legittima l’interruzione dell’alimentazione e della idratazione di chi si trovi in stato vegetativo permanente: ora proprio su questo dovrà esprimersi la Corte di Cassazione, alla quale spetta l’ultima parola sul caso di Eluana Englaro. E la Corte d’appello di Milano, che aveva respinto la richiesta del padre di Eluana sostenendo che alimentazione e idratazione non sono trattamenti terapeutici, aveva tuttavia affermato che spettava a lui il diritto di "esprimere o rifiutare il consenso al trattamento terapeutico", riconoscendo così che, in casi come questo, può esservi un "tutore" che decide al posto di chi è ormai del tutto incapace.
Siamo di fronte a casi estremi che, tuttavia, devono essere valutati tenendo conto che ci muoviamo in un contesto in cui ormai il principio di base non è quello della sopravvivenza ad ogni costo. Il potere di decisione è nelle mani di ciascuno di noi: abbiamo il diritto di rifiutare le cure, di lasciarci morire, di rinunciare per il futuro alle terapie di sopravvivenza (è il cosiddetto "testamento di vita", di cui sta tornando ad occuparsi il Parlamento). Così stando le cose, casi come quelli di Terri Schiavo e Eluana Englaro si collocano già nell’area in cui è legittima la decisione di porre fine alla vita. E questo è confermato dal fatto che, per superare la legittima decisione di un giudice, negli Usa è stata necessaria una specifica legge.
Ma così si va nella direzione sbagliata, con una rinnovata pretesa dello Stato di prendere decisioni che riguardano la sorte di singole persone. Quando si è sottratto al potere del medico, e affidato al consenso dell’interessato, il potere delle decisioni sulla propria esistenza, si è detto che nasceva un nuovo "soggetto morale": l’individuo non più oggetto del potere del terapeuta, ma libero nelle proprie determinazioni. Abbiamo così stabilito che la sopravvivenza non è una finalità da perseguire ad ogni costo. Le regole giuridiche, allora, possono essere opportune per fissare procedure grazie alle quali giungere alle decisioni con adeguata informazione e riflessione. Non possono, invece, impadronirsi esse stesse della vita, imporre il dolore al morente che invoca aiuto, negare al morente la dignità nel morire.
Alla cerimonia dell’addio non si addice un clamore mediatico mascherato da rispetto per la vita.