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Anche sulle immagini si può (a volte si deve) riflettere. Spesso esprimono più di quanto possano le parole. Ho raccolto le fotografie in una cartella di immagini intitolata alle Torture ad Abu Ghraib. Esse sono riprese dal sito Indibay, in cui servizio in cui sono commentate.

Vedi anche in Eddyburg gli scritti di Rosetta Loy, di Giorgio Agamben, di Ida Domijanni

IDA DOMINIJANNI

Non c'è più estraneità femminile rispetto alla guerra: se avesse un senso filtrare qualche sedimento positivo dal panorama devastato del dopo 11 settembre, questo sarebbe uno. Ancora all'inizio degli anni 90, durante la guerra del Golfo, e poi di nuovo durante la guerra in Kosovo, la rivendicazione dell'innocenza delle donne - storica o «naturale» che fosse - rispetto al mestiere maschile delle armi finiva con l'assumere, nel dibattito femminista, una funzione di schermo: esentava dalla presa di parola, dalla responsabilità, dall'azione politica. Già allora in verità lo schema non teneva: c'era Melissa nel deserto iracheno, la marine spaccata in due, mezza soldatessa emancipata mezza femmina stuprata, a dire di un coinvolgimento volente o nolente della donna, e del gioco della differenza sessuale, sul campo. Ma poi sono arrivate le altre: Condoleeza Rice a dirigere le operazioni, e Lyndie England a eseguire sevizie e torture divertendosi allegramente. Tirarsi da parte non si può più: sono donne. Forse degli imprevisti, ma non certo dei meri incidenti, sulla strada della libertà femminile. E l'imprevisto, insegna Hannah Arendt, è ciò che apre la storia e il pensiero. Qualcosa va ripensato, nella piena del mutamento del presente. Come scrive Lia Cigarini sull'ultimo numero di Via Dogana, collocato fra 11 settembre 2001 e 11 marzo 2004: «Ora veramente la cosa della guerra ci tira per i capelli fuori dalle collocazioni che ci siamo date. Impossibile rifugiarsi nell'estraneità». E come scrive Anna Maria Crispino sull'ultimo numero di Leggendaria, dedicato alla sinistra vicenda della tortura nel carcere di Abu Ghraib: «Il fatto che a quelle torture abbiano attivamente partecipato delle giovani donne e il modo in cui ne siamo venute a conoscenza suppongono una prova di realtà cui non possiamo sfuggire». Crispino prova a riordinare le questioni sulla base di una domanda circolata anche in alcuni incontri dei mesi scorsi alla Casa internazionale delle donne di Roma, nonché su queste stesse pagine: Lyndie England «è un esito perverso dell'emancipazione, o anche un portato della libertà femminile che non contiene, non necessariamente né in modo lineare, un ordine di civiltà altra?». Le risposte di Leggendaria sono svariate, ma tutte accurate e da meditare. Bia Sarasini parla della «banalità del male in forma di donna» che emerge nello shifting dall'immaginario della forza femminile stile Kill Bill alla realtà della soldatessa sadica ventunenne del West Virginia. Kenneth Kusmer individua nella saga di Abu Ghraib alcuni elementi sintomatici degli Usa di oggi e dell'Occidente di sempre, come la perversione sessuale innestata sulla violenza razziale, antico marchio del colonialismo, e una certa eroticizzazione in chiave sadomaso della cultura americana, recente marchio dell'America sessuofobica degli anni `90, sul quale torna in altra chiave Roberta Tatafiore. Mariella Gramaglia lavora sul tratto androgino che accomuna i e le ventenni di oggi da New York a Roma a Teheran, dal comportamento fallico di Lyndie England alle giovani teste rasate, maschili e femminili, delle nostre periferie, tratto tuttavia fratturato al suo interno da linee di classe sempre più implacabili. Anna D'Elia conta i danni dell'effetto Abu Ghraib: demonizzazione della parità fra uomini e donne che porta a par orrori di uomini e donne, demonizzazione della scommessa sulla differenza che ne esce smentita, affossamento del multiculturalismo, strada spianata alla prossima guerra preventiva contro il femminismo dopo quella contro il terrorismo. Letizia Paolozzi interroga l'afasia maschile di fronte a quelle foto, Gabriella Bonacchi e Alberto Leiss le confrontano con altre sintomatiche immagini pescate nella miniera cinematografica dell'inconscio collettivo.

La strategia, o le strategie femministe non ne escono intatte. Ma neanche azzerate. Acutamente Marco Bascetta vede nel gesto di obbedienza al corpo militare della torturatrice l'esatto contrario del gesto di diserzione dal corpo militante operato dal femminismo negli anni 70. E Lia Cigarini - torno a Via Dogana - individua in Lyndie England non una deriva imprevista della libertà femminile, bensì la traccia di un'antica contraddizione, fra il progetto della libertà femminile e la permanenza del tratto fallico della sessualità di donne non libere, che si mettono al servizio del simbolico maschile. Resta che Lyndie England e Condoleeza Rice non bastano ad azzerare alcuni guadagni della pratica politica delle donne, come argomentano su Via Dogana con toni segnati dal dolore del presente, Marina Terragni, Ana Maneru Mendez, Luisa Cavaliere. Tornare alla pratica dell'inconscio, dice Terragni, ci aiuterebbe a capire che cosa corre in noi sotto questi cieli di guerra. Inconsciamente appunto, Mariella Gramaglia ci prova su Leggendaria. Racconta di come le capitò di vedere per la prima volta, a 10 anni, un nudo di uomo, in una mostra sui campi di sterminio nazisti, «un corto circuito emotivo indimenticabile per l'intera vita», monito a non dimenticare che, «se si spezza il legame fra esporsi ed essere accolti, qualcosa di atroce può essere in agguato»: il salto del confine fra l'umano e l'inumano, direbbe Judith Butler.

«Siamo intrappolati in una cattiva parità». Così Stanley Greenberg, il celebre consulente strategico di Bill Clinton e Al Gore (ma anche di Tony Blair e Gerhard Schroeder), ora con John Kerry, sintetizza le cose nel suo libro The Two Americas. E «cattiva parità» significa che entrambe le parti politiche possono a turno assaggiare il frutto della vittoria, ora l´elefante repubblicano, ora l´asino democratico: Carter-Reagan-Reagan-G.H.Bush-Clinton-Clinton-G.W.Bush. L´alternanza è generalmente un bene per le democrazie, ma questo genere di parità così stretta (come nell´indimenticabile e a momenti ridicolo novembre-dicembre americano del 2000) produce dei veleni: battaglie aspre che lasciano il paese ogni volta più diviso, cittadini costretti a una scelta di campo, di qua o di là del fossato.

Perché questa «cattiva parità» fa male alla politica? Greenberg tira fuori, per rispondere a questa domanda, un principio di teoria. E si capisce perché quando il think-tank italiano «Glocus», guidato da Linda Lanzillotta, ha portato l´autore davanti a un uditorio di politici di casa nostra tutti hanno drizzato le orecchie al momento della spiegazione, anche se si tratta propriamente delle due Americhe e non delle due Italie. Le elezioni del 2000, ecco il punto, non sono un incidente casuale e questo incidente non dipende soltanto dal sistema elettorale. Si tratta di una impasse, di un deadlock, del blocco di un´America la cui divisione si è cronicizzata. E questo processo suona indubbiamente familiare anche dalle nostre parti.

Il fenomeno si manifesta perché nessun partito-polo riesce ad affermare la propria egemonia sopra la società e a sopravanzare l´altro. L´ultima volta che si è visto qualcosa del genere è accaduto con il rooseveltismo, ma dalla metà del secolo, nonostante le alterne fortune, si è camminato in direzione della parity. Né il kennedismo né il reaganismo, nonostante la loro epopea mediatica, hanno prodotto qualcosa di simile all´egemonia repubblicana dell´inizio dell´Ottocento o a quella democratica del New Deal. E la parity secondo Greenberg radicalizza il conflitto perché lo spinge sul terreno della cultura: stili di vita molto più che punti di programma, valori più che progetti. Si sceglie il partito in relazione ai giudizi su aborto, omosessualità, accesso alle armi, diritti delle donne, immigrazione e multiculturalismo più che nel confronto tra programmi economici o di politica estera.

Il fatto è che per vincere, il primo comandamento di una strategia elettorale, in queste condizioni di parità, è che devi mobilitare il tuo elettorato e devi in ogni modo evitare di mettere a repentaglio la tenuta dei sostenitori fedeli. Il tentativo di conquistare gli incerti o i voti degli altri viene secondo.

La forza dello stratega Greenberg non sta solo nell´astuzia dei consigli sussurrati all´orecchio del Principe, quanto nella preparazione del terreno della battaglia: lo studio della società americana e del modo in cui l´opinione si forma segmento per segmento.

Ne vengono fuori zone azzurre e zone rosse, a netta prevalenza liberal o a netta prevalenza conservatrice. Il vantaggio dei democratici sui repubblicani è abissale tra gli african-americani (86 contro 8 per cento) e molto largo tra gli ispanici (55 a 37), le donne super-istruite (con titoli di studio post-laurea, 58 a 36), i militanti delle cause laiche (aborto, niente armi, ambientalismo, 63 a 30).

Il mondo dei partisans pro-repubblicani è radicato invece tra i cristiani militanti (72 a 23) nel «profondo Sud» (i bianchi degli Stati del Sud, 59 a 35), i bianchi senza titolo di studio (63 a 30), i «privilegiati» (maschi sposati con laurea, 61 a 32). Ci sono poi le zone grigie dove la partita è aperta: cattolici devoti, uomini con istruzione post laurea, donne anziane senza titolo di studio, donne con redditi famigliari sotto i 30.000 dollari.

Il dramma della scelta strategica sul cammino di ogni politico si presenta sempre come un bivio ad alto rischio. Da una parte sta la prospettiva di conquista nelle aree incerte, dall´altra quella di assicurarsi le proprie truppe: «Prima di tutto non devi minacciare l´entusiasmo dei loyalists», i tuoi elettori fedeli, insiste Greenberg. (Guai dunque ai democratici che dimenticassero l´importanza del voto tra i neri o tra i cittadini di provata fede laica!). Rende di più, nei fatti, lo sforzo per aumentare la convinzione di voto (e l´affluenza alle urne) dei tuoi, che non qualunque stratagemma per spostare dalla tua parte gli incerti.

Ma c´è anche la ambizione cui un politico non può ovviamente neppure rinunciare, quella di combattere nelle zone competitive, dove la battaglia è aperta. L´idea, molto spesso evocata dai politici «realisti», che le campagne elettorali in regime di parità si decidono con la conquista di una manciata di voti incerti, «al centro», ha un fondamento ma va presa con cautela e deve misurarsi con il «realismo» di Greenberg secondo il quale devi portare al voto i tuoi. Ma devi stare attento che la polarizzazione non soffochi la tua narrative, come è accaduto ultimamente ai Democratici.

La parola «narrative» ci conduce al punto decisivo del programma elettorale. E qui non basta più la somma di eventuali promesse alle varie categorie. Qualche volta il politico riformista, moderato, di governo, di centro-sinistra o di centro-destra, tende a pensare il programma come qualche cosa di obbligato, spigoloso e talora indigesto, che deve essere offerto al pubblico con una aggraziata presentazione ad opera di consulenti. Tuttavia lo spin-doctoring di un programma indigesto non basta a renderlo vincente. Il buon racconto in un certo senso è il programma stesso, non solo la sua cosmesi. E il suo contenuto non si può allontanare da quel che una effettiva politica di governo potrà poi essere.

Il famoso «contratto con gli Italiani», per fare un esempio di casa, aveva forza narrativa ed era capace di mobilitare le truppe partisan, dunque funzionava. Era anche irrealistico, fatto che poi è diventato un problema. Ma questo è un altro discorso e riguarda il governare non il votare, il che avrà magari il suo peso sull´elettorato più riflessivo.

Il modello di tutte le «narrative» era la grande eloquenza di John Kennedy, volta al futuro. Non fu da meno il Clinton del ´92 (che aveva accanto Greenberg) con il suo progetto democratico riformista. Correzioni di timone sono necessarie per vincere, ma il leader non deve mai perdere contatto con l´ispirazione di fondo della sua parte. Le politiche dell´immigrazione non possono eccedere in lassismo, ma i Democratici non devono neppure abbandonare il valore della «diversità» che rende la loro visione fortemente alternativa a quella dei Repubblicani.

I voti di area repubblicana che Kerry guadagnerebbe con una politica più simile a quella dell´elefante sono meno di quelli che perderebbe tra i democratici, regalandoli magari al guastafeste «narcisista» Ralph Nader.

Ci sono molti mezzi che possono aiutare a vincere le elezioni, alcuni dei quali Greenberg illustra anche se li colloca tra le idee «che gli vengono e non gli piacciono». Uno di questi è la strategia definita in tedesco «ber dem» o «del 100 per cento»: se in una zona sociale hai una netta prevalenza puoi spingere, radicalizzare e sfondare le linee fino a fare il pieno. I Democratici potrebbero farlo per esempio tra le donne super-istruite o tra i militanti laici (quelli che adorano Michael Moore) calcando la mano sui temi dell´aborto o dell´ambiente (come i Repubblicani possono fare spingendo su una linea dura anti-immigrazione). A farlo bene si vince, confessa lo stratega. I problemi verranno dopo. Anche questo è Greenberg-pensiero, pensiero tattico: «strategia numero 4».

Ma il programma ideale rimane quello modellato sul progetto Apollo. E il New Apollo Project, che forse andrà in scena con John Kerry, è quanto segue: sforzo dirompente, paragonabile a quello che finì sulla Luna, per affrontare il riscaldamento globale; riduzione delle emissioni di biossido di un terzo in 25 anni; investimenti nella gasificazione del carbone; crediti di imposta per sviluppare energie rinnovabili e auto a idrogeno; mettere gli Stati Uniti alla guida del mondo in questo virtuoso rinnovamento tecnologico.

Lo stratega non rinuncia all´idea che all´America farebbe bene un ciclo egemonico su queste basi, anziché il contrasto sul filo del rasoio, fino al conteggio dell´ultimo voto. Un ciclo Democratico, naturalmente.

I riconoscimenti alla bravura di Greenberg arrivano da ogni parte del mondo, da Israele come dal Sud Africa (da Barak a Mandela), dai boss accademici di Yale e Harvard (come Robert Dahl, Theda Skocpol, Joseph La Palombara), ma il più spiritoso lo ha pronunciato un falco neocon e leo-straussiano come Willliam Kristol, il direttore della rivista «The Weekly Standard»: «Memo per il candidato democratico 2004: non leggere questo libro perché tira fuori la miglior strategia mai vista per battere Bush, il che sarebbe male per l´America. Dunque, please, please, ignora Greenberg».

MILANO - Aveva sette anni Umberto Ambrosoli, quando una notte - ascoltando nascosto dietro una porta - sentì una voce registrata minacciare di morte suo padre. Una voce dal forte accento siciliano: «Lei è degno solo di morire ammazzato come un cornuto! Lei è un cornuto e bastardo!». Umberto, detto Betò, tornò a letto in punta di piedi. Ma non dormì più, a scuola cadeva con la testa sul banco. La maestra gli chiese cosa succedeva: «Ho delle gravi preoccupazioni», rispose lui. Mandarono a chiamare la mamma. Lui taceva. Solo con la nonna, scoppiando a piangere, raccontò di quella voce nella notte.

Adesso sono passati venticinque anni da quel terribile 1979: la telefonata minatoria in gennaio, e il 12 luglio un killer pagato da Michele Sindona uccide Giorgio Ambrosoli. Umberto (per amici e familiari ancora Betò) ha 33 anni, è avvocato come il padre, ha un bambino di 11 mesi che si chiama Giorgio. Un quarto di secolo, l´età di un uomo adulto, e il figlio affronta il peso e l´occasione della ricorrenza per ricordare ancora che cosa dobbiamo tener caro dell´esempio di suo padre, l´"eroe borghese"del memorabile libro di Corrado Stajano.

Un ricordo che, quasi con rammarico, muove dalla persistente "anomalia" della figura di Giorgio Ambrosoli: il giovane avvocato milanese, conservatore rigoroso, che si trova a metter mano al calderone dell´impero di Michele Sindona, che resiste a pressioni e lusinghe di mafiosi, piduisti e politicanti («A quarant´anni di colpo ho fatto politica, in nome dello Stato e non per un partito») , fino a morire ammazzato in una notte d´estate. «Negli anni di Tangentopoli - dice Umberto - la percezione dell´anomalia era evidente. C´era la piena consapevolezza che il Paese andava avanti su binari diversi da quelli che mio papà aveva scelto. E, a occhio e croce, non mi pare che oggi le cose siano cambiate».

«Non penso che oggi siamo davanti a un cambiamento nella gestione del potere e della cosa pubblica, ma ancora di più nel comportamento personale - continua Umberto - C´è poca percezione della legalità, a livello individuale. Difficile vedere persone che si distinguono per aver affrontato con rigore le proprie responsabilità». Un´anomalia, quella della figura di Giorgio Ambrosoli, che paradossalmente viene sottolineata e tenuta viva da quanti non hanno dimenticato: «Incontro spesso persone che mi dicono quanto sia importante per loro l´esempio di mio papà. Vedo come quei princìpi siano attualissimi, in un contesto diverso. Ma poi, siccome non sono così pessimista, o forse per superare la delusione, resto attento ai comportamenti soggettivi, e vedo anche molto impegno, molti modi in cui ciascuno può contribuire a migliorare il nostro Paese».

Un insegnamento di libertà, quello che i figli di Giorgio Ambrosoli hanno più caro. «Ciò che resta più forte della figura di mio papà, dopo 25 anni, è l´aver insegnato l´importanza di affermare la propria libertà. Con se stesso, quando ha scelto quella responsabilità e ne ha accettato i rischi. Con gli altri, quando ha respinto ricatti e blandizie, senza cercare protezioni. Poi c´è l´onestà, e tutto il resto. Ma, prima di tutto, viene la libertà». «Quando mi dicono che mio papà è stato un esempio - dice Umberto - è come se dicessero che è difficile affermare la propria libertà».

Ma non è impossibile: «Se sei un avvocato, devi saper essere libero anche dal tuo cliente, se sei un medico dai giochi di potere, se lavori in un´azienda dagli interessi che violano le regole. L´onestà finisce per essere una scelta, l´affermazione della tua libertà». E, dice, nemmeno si sta parlando di grandi poteri, di giochi enormi: «Intendo l´essere autonomi e liberi, ciascuno nel suo mondo».

Umberto Ambrosoli è ancora curioso della vita e della gente: «Mi è sempre piaciuto curiosare». Come quella notte, bambino, dietro una porta: «La casa si prestava, c´era un corridoione lungo, e quella porta fra giorno e notte, fra il guardaroba e la cucina». «Ormai, di quella notte, confondo memoria e ricostruzione. Ricordo le luci, l´essere nascosto anche senza volere. Il tono estremamente tranquillizzante della voce di papà con mamma». Giorgio Ambrosoli faceva ascoltare quella telefonata minatoria ad Annalori, la moglie, e provava a dirle che quello era solo «un pazzo».

Sei mesi più tardi la minaccia si avverò. A Umberto raccontarono la verità sono un poco per volta: «Ricordo, al di là della difficoltà di capire, l´illusione che non fosse una cosa definitiva, la percezione che invece lo fosse, e l´immaginarsi che cosa fosse non avere più un papà. Quei giorni confusi, il dolore». Poi, negli anni, il lungo lavoro della curiosità non più infantile: «Capire i ragionamenti, le domande, l´importanza di quel papà aveva fatto, la parole delle persone vicine, pian piano realizzare. La prima sensazione, che lui avesse fatto qualcosa di eccezionale, ma qualcosa di condiviso solo dalla famiglia, senza riscontro pubblico».

Umberto ricorda il processo a Michele Sindona, per l´omicidio di suo padre.

Era un ragazzino, allora. «Ricordo le riunioni a casa, dopo cena. C´erano gli amici: Giorgio Balzaretti, Francesco Rosica, l´avvocato Dedola, Silvio Novembre, Pino Gusmaroli. Noi figli - Francesca, Filippo ed io - venivamo mandati a letto presto. Ma io curiosavo sempre, di nascosto. Un giorno ho voluto vedere un´udienza. Ci sono andato da solo, la mamma mi ha trovato lì: sono rimasto poco, mi diceva che i bambini non potevano».

Ha voluto fare l´avvocato, come il padre. Ha continuato a curiosare: «Ho rivisto molti documenti. L´Italia, anche allora, aveva i suoi strumenti di controllo. E invece l´insofferenza alle regole, l´arroganza erano devastanti. Ho rivisto tante cose che mi sembrano attuali: le denunce subìte da papà, il gioco a scaricare le responsabilità, l´inefficienza dei controlli, i piccoli azionisti e creditori raggirati. E invece, siamo ancora qui, a storie come quella della Parmalat». E l´anomalia Ambrosoli, malgrado l´ottimismo del giovane Umberto, che resiste: «Resiste, sì. Ma la vicenda di papà qualcosa ha insegnato. E qualcuno ha lasciato un esempio a cui ancorarsi in determinati momenti della propria vita».

Cosa c’entra il delitto Matteotti con la realtà politica dei nostri giorni? Veramente poco, se non fosse che qualche settimana fa, il 10 giugno, si è celebrato l’ottantesimo anniversario dell’assassinio del parlamentare socialista per mano dei sicari fascisti. Così come, figuriamoci, non c’è né potrebbe esserci relazione alcuna tra il nascente regime di allora e l’Italia nella quale tutti noi possiamo, fortunatamente, vivere e prosperare. A nessuno, poi, salterebbe in mente di accostare la figura del presidente del Consiglio, e non ancora dittatore, del 1924 con il presidente del Consiglio del 2004. E chi si sognerebbe di tracciare paragoni tra le progressive, drammatiche restrizioni a cui la liberta di stampa e di parola venivano sottoposte in quegli anni e le questioni dell’informazione e della concentrazione di potere mediatico con cui abbiamo a che fare?. Questa premessa è a beneficio di quanti a sentire parlare di regime di oggi sono pronti a insorgere scandalizzati per un possibile accostamento con il regime di ieri; paragone che massimamente considerano ingiusto, sbagliato, offensivo oltre che storicamente indecente. Se, dunque, nelle righe che seguono citeremo ampi brani di un libro che molto c’è piaciuto e che tratta degli eventi di ottant’anni or sono, cercheremo di farlo evitando che al lettore possano subdolamente essere suggeriti collegamenti impropri e congiunzioni innaturali (lasciando naturalmente al lettore medesimo il sacrosanto diritto di collegare e congiungere quanto più gli garba).

Ciò precisato, il titolo del libro, fresco di stampa, è: «Matteotti e Mussolini» (editore Mursia, pagine 492). Ne è autore Claudio Fracassi che, nelle prime pagine, ci spiega come, pur in un clima di crescente violenza squadristica e con un parte consistente dei poteri forti (industriali, agrari, alta burocrazia) che si andavano accodando al nascente regime, e tuttavia, in quel 1924, né la società né lo Stato erano fascistizzati: «Non pochi tra i magistrati erano gelosi dell’indipendenza solennemente garantita loro dalle leggi. La libertà di sciopero era difesa dai sindacati, così come la libertà di stampa dai giornalisti». A proposito di giornali, tuttavia, non mancavano gli apologeti del presidente del Consiglio che un cronista più incantato degli altri descriveva di abitudini frugali, di carattere chiuso ma portato al romanticismo: «È per esempio, assai amante dei fiori, e, tra questi, preferisce la rosa: spesso è veduto con questo fiore tra le labbra, mentre cavalca, e ne aspira anche spesso la viva fragranza mentre siede al tavolo di lavoro».

Nelle relazioni internazionali e con i potenti emergeva il carattere contraddittorio del personaggio che, stando alla testimonianza di un futuro ambasciatore a Londra «quando parlava alla folla era un leone, e nei dialoghi a quattr’occhi, soprattutto con stranieri, diventava una pecora», poiché, «egli aveva soprattutto sviluppatissimo il dono di sapersi adeguare al sentimento dei suoi ospiti, precedendoli, anzi, nel giudizio».

Secondo un grande oppositore, Piero Gobetti, «la lotta politica in regime mussoliniano non è facile: non è facile resistergli perché egli non resta fermo a nessuna coerenza, a nessuna posizione, a nessuna distinzione precisa, ma è pronto sempre a tutti i trasformismi». Quanto alla grande stampa, essa vede progressivamente ridotta la sua libertà anche perché si lascia intimidire come dimostra la lettera che, nel giugno ’23 l’editore del «Corriere della Sera», Mario Crespi, manda al direttore Albertini: «...pare a noi che il “Corriere”, ben lungi dall’accodarsi agli adoratori del nuovo idolo, potrebbe, ripigliando l’antica sua tradizione di giudice pacato ed obiettivo, prestare al fascismo quella serena attesa che ormai gli è offerta dagli uomini più rappresentativi d’ogni colore politico affine al nostro, senza infliggergli continui colpi di spillo...».

Quanto al’opposizione, pur consistente nel numero dei parlamentari eletti e radicata nel paese, in essa le rivalità prevalgono sulla comune contrapposizione al fascismo. Commenta il leader dei socialisti Turati in una lettera: «I comunisti fanno da sé, quindi anche i massimalisti, e i popolari sono sempre oscillanti ed equivoci...». Scrive Fracassi che lo stesso Turati assisteva desolato non solo alle manifestazioni di trasformismo politico, ma anche ai comportamenti quotidiani di quei suoi colleghi di partito che, nei rapporti con gli esponenti della maggioranza, sembravano muoversi come se quello fascista al potere fosse un normale movimento democratico e parlamentare: «Troppi nostri sono stanchi di stare di continuo con i pugni tesi e non domandano di meglio che un po’ di détente (distensione ndr.)...Quando vedo Gonzales a braccetto con Terzaghi o sento Modigliani scherzare coi i vari Ciano e Finzi e Corbino, mi sento venir male. Non abbiamo forse che un’arma: dare sempre la sensazione del nostro irreducibile disprezzo, e mi pare che, se questa ci è tolta di mano, siano finiti». Alla fiera ma scoraggiata impotenza di Turati, spiega Fracassi, Giacomo Matteotti opponeva la convinzione che la battaglia per la democrazia potesse ancora essere condotta e vinta, a tre condizioni: che l’opposizione fosse unita, che non ci fossero cedimenti nei confronti del governo, che il regime nascente in Italia - in quanto alla lunga contagioso e pericoloso per l’intera Europa - fosse combattuto non solo a Roma ma in ambito continentale.

Con il discorso parlamentare di venerdì 30 maggio 1924, culminato nell’accusa di brogli elettorali sbattuta sulla faccia di un Mussolini stravolto, Matteotti firma la sua condanna a morte. Turati non nasconde che quel drammatico intervento, se aveva entusiasmato e trascinato molti dei suoi, aveva anche suscitato critiche tra coloro che, a sinistra, aspiravano a una qualche normalizzazione dei rapporti col fascismo al governo: «Non mancano fra noi i cacadubbi che trovano che si è fatto male, che il discorso di Matteotti era inopportuno...». Il presidente del Consiglio coglie il disorientamento nel fronte avversario e con il discorso del 7 giugno tende all’opposizione un ramoscello d’ulivo avvelenato: «L’opposizione ci deve essere!... L’opposizione è necessaria; non solo, ma vado più in là e dico: può essere educativa e formativa. Ma allora ci si domanda: perché siete così irrequieti, così insofferenti? Non è l’opposizione che ci irrita. È il modo dell’opposizione». Mussolini propone agli avversari, per adeguarsi al nuovo clima, di seguire i suoi consigli: «Qualche volta l’opposizione è opposizione piena di rancori che si mette in un angolo... Poi accade talvolta che l’opposizione si dà delle arie cattedratiche che ci indispongono: pare che là ci siano dei pozzi di sapienza, delle arche di dottrina, uomini che recano lo scibile ambulante! Altro vizio dell’opposizione: è sempre in attesa dello sfascio».

Nel frattempo il parlamento viene esautorato, come osserva Turati: «I bilanci non si discutono più se non in quei capitoli che importino variazioni al bilancio precedente! Gli emendamenti di qualche importanza non si posono votare, ossia è inutile neppure presentarli e sostenerli se non sono previamente accettati dal governo! Insomma, è la sostituzione effettiva del governo al parlamento».

Dopo l’assassinio di Matteotti, il ritrovamento del suo corpo alla Quartarella e la pubblica denuncia del ruolo e delle responsabilità avute nell’omicidio dal governo fascista e dal suo capo, il regime nascente conosce i suoi giorni peggiori. Mussolini è alle corde. L’opposizione si prepara alla spallata finale. Scrive Gobetti: «Alla Camera le minoranze non dovranno porre questioni di competenza tecnica,ma provocare battaglie pregiudiziali, differenziarsi in modo così reciso e violento da costringere gli avversari alle reazioni più sincere. Nessuna illusione costruttiva: nessun pensiero di tregua e di normalizzazione».I giornali di regime reagiscono scompostamente e se la prendono con i commentatori esteri che al delitto Matteotti danno, ovviamente, enorme rilievo. Commenta il filogovernativo “Messaggero” : «Ancora una volta... con infinita voluttà la stampa di vari paesi ha colto il pretesto per assalirci e per tentare di gettare il discredito sull’intera Nazione... Si distingue, in tale campagna antitaliana, la stampa francese». Il presidente del Consiglio viene chiamato direttamente in causa dal “Corriere della sera”: «Di fronte a certe imputazioni si ha il dovere di mettersi a disposizione della giustizia rinunciando alle prerogative e all’immunità che il potere accorda di fatto...». Sull’orlo del baratro, Mussolini fa appello all’Italia che chiede ordine, e ricorda i suoi meriti di normalizzatore: «Bastava il minimo presteto perchè i ferrovieri sospendessero la marcia dei treni... C’è stato uno sciopero dei maestri. Immaginate se si può pensare a qualcosa di più paradossale di uno sciopero di maestri... Siccome c’era un sindacalismo di magistrati siamo stati a un solo pelo dall’avere lo sciopero della giustizia...». Ai suoi, Mussolini così illustra la strategia del contrattacco: «La battaglia è difficile e delicata. Bisogna cloroformizzare le opposizioni e anche il popolo italiano. Lo stato d’animo del popolo italiano è questo: fate tutto, ma fatecelo sapere dopo. Non pensateci tutti i giorni dicendo che volete fare i plotoni di esecuzione. Questo ci scoccia. Una mattina quando ci svegliamo diteci di aver fatto questo e saremo contenti, ma non uno stillicidio continuo».

Malgrado il sacrificio di Giacomo Matteotti, il fascismo, come sappiamo, riuscirà purtroppo a cloroformizzare l’Italia. Persa l’occasione storica di rovesciare il regime, l’opposizione verrà definitivamente sconfita, dispersa, perseguitata. Come racconta Fracassi al termine del ’24 si aprì la fase delle «leggi eccezionali». Il 14 gennaio 1925 la Camera approvò in una sola seduta oltre duemila decreti-legge presentati dal governo. I deputati dell’opposizione furono dichiarati formalmente «decaduti» dal parlamento nel novembre del 1926. Prima che fossero espulsi dal parlamento, agli esponenti dell’Aventino Mussolini aveva posto, intervenendo alla Camera dai banchi del governo, la seguente condizione: «Chiunque dell’Aventino voglia ritornare, semplicemente tollerato, in quest’aula, deve solennemente e pubblicamente riconoscere il fatto compiuto della rivoluzione fascita, per cui un’opposizione preconcetta è politicamente inutile, storicamente assurda...».

Quale ragione ci spinge a parlare di Matteotti e Mussolini, ottanta anni più tardi, in un sabato di estate inoltrata? Nient’altro che una semplice associazione di idee.

Tanto per cominciare: la coppia Ratzinger-Wojtyla batte tutti i nostri leader nonché i nostri intellettuali di sinistra, moderata e radicale, dieci a zero. La Chiesa prende atto del «problema» del rapporto fra i sessi, lo colloca giustamente su un livello ontologico in quanto tale anche politico, si preoccupa del portato umano e sociale della rivoluzione femminista, si informa sulle sue diverse tendenze e se ne lascia interpellare; mentre a sinistra del problema tuttora non si prende atto, del femminismo si parla come dell'ultimo, fastidioso residuo ideologico novecentesco, delle sue tendenze interne si ignora tutto e tutto si confonde in un rituale ritornello su diritti e opportunità che annacqua nel nulla la politica, figurarsi l'ontologia. Non vedrei perciò nella «Lettera ai vescovi sulla collaborazione dell'uomo e della donna» una mera versione aggiornata dell'ossessione del pontificato di Wojtyla per la donna e per il controllo della sessualità femminile (che pure resta); c'è in essa, a me pare, un ascolto del divenire storico, del mutamento innescato dalla rivoluzione femminile, che va riconosciuto e incassato. Ferme restando le critiche all'esito - largamente prescrittivo - che le gerarchie vaticane imprimono al discorso. C'è, dicevo, la collocazione del problema al giusto livello dell'antropologia politica e non della contabilità dei diritti e dei poteri. C'è la declinazione della differenza sessuale come differenza relazionale, costitutiva dello statuto dell'umano. C'è l'indicazione di una soluzione appunto relazionale, non separatista e solipsista né rivendicativa e vendicativa, del conflitto uomo-donna. C'è l'individuazione della sessualità come dimensione «non solo fisica ma psicologica e spirituale», rilevante ai fini del pensiero e del linguaggio, dell'essere umano. E c'è la visione della differenza femminile come vocazione relazionale della donna (quella «capacità dell'altro» citata dal documento in cui mi sembrano riconoscibili echi dell'ultima riflessione di Luisa Muraro), non necessariamente incardinata sul destino biologico materno e matura per improntare di sé la vita sociale.

Ciò detto, non è tutto oro quello che luccica. Perché dall'insieme del testo (sui cui passaggi teologici, vetero e neotestamentari, spero che altre interverranno con maggior cognizione di causa) risulta altrettanto evidente la volontà di riportare ciascuna di queste acquisizioni nei binari della morale cattolica, e di imbrigliare la libertà femminile, che della scoperta femminista della differenza è figlia, nel destino sessuale e matrimoniale tradizionale, ancorché rivalorizzato sul piano sociale. La differenza relazionale fra uomo e donna, antidoto alla deriva del solipsismo maschile (deriva risalente a Adamo, se Dio non gli avesse messo a fianco Eva), ricade tutta sulle spalle di lei, mentre esenta lui da qualsivoglia responsabilità: il documento non fa parola della differenza maschile e non la convoca ad alcuna prova di quella «reciprocità» che pure predica. La relazionalità inscritta nella differenza femminile, d'altra parte, viene finalizzata al ruolo «sponsale», privato o sociale che sia, della donna, e una volta disarcionata dal destino biologico della Madre trova un altro esempio solo nella Vergine. E il giusto no al femminismo rivendicativo e belligerante della «guerra fra i sessi» (primo fronte avverso fra le tendenze interne al femminismo) finisce con l'eludere il nodo del potere sessuale fallocratico: fu il peccato, non il dominio della sessualità maschile, a rompere l'equilibrio fra Adamo ed Eva, ed è l'uscita dal peccato, non la lotta al fallocentrismo, a poterlo ristabilire.

Nel documento risulta rivelatore come una cartina al tornasole, infatti, l'individuazione della «gender theory» come secondo fronte avverso all'interno del femminismo. Qui il documento - per quanti motivi di diffidenza possa avere contro certe derive postmoderne di smaterializzazione della sessualità - cade, per almeno due ragioni. Una è teorica, perché non è con le teorie del gender (molte delle quali in verità coincidono con la «prima tendenza» del femminismo rivendicativo) che Ratzinger combatte, bensì con la teoria del gender trouble di Judith Butler (evocata ma non esplicitamente citata), ovvero con la teoria che contesta l'identità compatta del genere femminile per aprire - non diversamente da quanto fa il femminismo italiano della differenza sessuale - alla soggettività femminile tutto il campo possibile delle scelte sessuali, sociali, politiche, discorsive, di pensiero. Per aprire insomma alla differenza femminile la possibilità di dirsi in prima persona, senza che nessuno, né l'ordine fallocratico né la Chiesa, ne decidano una definizione oggettiva. Su questo Ratzinger e Wojtyla non ci stanno: ne vedono solo l'esito sessuale «perverso» - le famiglie «irregolari» gay e lesbiche - che la Chiesa non può tollerare, né in Nordamerica né qui. Per quanto sia accettata, è pur sempre oggettivata e imbrigliata nello «sposalizio» tradizionale che la differenza fra i sessi deve restare.

«L'emendamento italiano secondo cui le violenze o minacce devono essere reiterate perché si possa parlare di tortura è il massimo dell’abiezione». Non ha dubbi Giorgio Agamben nel puntare il dito su quella che appare una barbarie senza precedenti, nemmeno nella Germania nazista. Le immagini dei prigionieri iracheni seviziati, resi oggetto di ogni sorta di violenze e degradazioni sessuali, stanno facendo il giro del mondo. Torture note ai vertici del potere americano e inglese. Forse addirittura autorizzate. Ma non legalizzate. Agamben, docente di Estetica allo Iuav di Venezia, curatore delle opere di Walter Benjamin in Italia, filosofo che nei suoi lavori più recenti ha riflettuto sui temi della violenza del potere sulle persone, sposta volutamente lo sguardo sulla situazione italiana. Perché, insiste, in questo caso ci troviamo di fronte non a una situazione di fatto, ma alla possibilità che la tortura entri a pieno titolo nella legislazione dello Stato. Modalità, peraltro, alla quale il nostro Paese non è estraneo: la Procura di Genova ha firmato ieri la richiesta di 47 rinvii a giudizio per i soprusi avvenuti nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova, appellandosi alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La china verso «una società che non è più neanche umana», per usare una definizione di Agamben, sembra già iniziata.

Professore, lo scorso 22 aprile la Camera ha approvato un emendamento della Lega alla legge sull’introduzione del reato di tortura nel codice penale in base al quale le violenze o le minacce devono essere «reiterate» altrimenti non è tortura. Si tratta dell’ennesima manifestazione dello «stato di eccezione», ossia quella sospensione dell’ordine giuridico che dovrebbe essere una misura provvisoria e straordinaria, ma che - come lei ha teorizzato in uno dei suoi lavori («Lo stato di eccezione», Bollati Boringhieri) - sta oggi diventando sotto i nostri occhi un paradigma normale di governo?

«Non si tratta, per essere precisi, di stato di eccezione, perché questo implica una sospensione della legge di fronte a circostanze eccezionali. Qui, piuttosto, si rende stabilmente e legalmente praticabile la tortura. Siamo di fronte, cioè, a qualcosa di ancora più atroce del semplice fatto della tortura, perché in questione è, appunto, la sua legalizzazione, il suo inserimento nell’ordinamento giuridico dello Stato. Ciò non è avvenuto nemmeno nella Germania nazista, in cui nessuna legge ha mai autorizzato la tortura. Con questo emendamento, l’Italia diventa un paese barbaro, uno stato i cui funzionari sono legalmente abilitati a praticare la tortura, non importa se reiterata o meno. Una sola tortura è sufficiente a segnare per sempre la vita di chi la commette e di chi la subisce, così come una sola tortura può provocare la morte».

A gennaio, in seguito all’introduzione di nuovi dispositivi di controllo, imposti dal governo americano ai cittadini stranieri che si recano in Usa, con l’obbligo di lasciare le proprie impronte digitali e di essere schedati, lei ha annullato il corso che doveva tenere presso la New York University. Come ha reagito, allora, all’emendamento che di fatto vuole legalizzare in Italia la tortura?

«Mi sono dimesso dal mio incarico all’Università di New York per le ragioni che ha detto. Ma qui in Italia io sono professore in una università dello stato. Come potrei continuare a insegnare - e a vivere - in un paese in cui fosse legittima la tortura? Ma questo vale per tutti. Mi chiedo come potrebbe il Capo dello stato accettare di essere il presidente di una repubblica aguzzina? Con la legittimità della tortura, verrebbe meno non un articolo della costituzione, ma il principio stesso su cui la costituzione si fonda».

Dopo il G8 di Genova la tortura sembra essere nel nostro Paese una realtà. Quale società rende possibile una pratica come questa?

«Io credo che siamo al di là o al di qua di un’analisi propriamente politica. Mi chiedo, a volte, se siamo ancora fra esseri umani. Una società che oggi legittima la tortura non è una società umana. Che uomini sono coloro che hanno proposto e votato questo emendamento? È possibile che non si rendano conto che un paese in cui venisse oggi legalmente praticata la tortura sarebbe un paese in cui ogni convivenza umana sarebbe resa durevolmente impossibile? Come si può vivere in un paese i cui cittadini possono incontrare per strada i loro legali torturatori o i torturatori delle loro mogli e delle loro madri, dei propri figli e fratelli? Io penso che i giornali dovrebbero pubblicare i nomi e le fotografie dei deputati che hanno votato a favore dell’emendamento con la semplice scritta: vogliono la tortura».

La legittima difesa secondo Castelli, la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini sulle droghe, il progetto Burani-Procaccini di riforma della 180, ora la tortura reiterata: c’è un filo rosso che unisce tutte queste «eccezioni»?

«Più che cercare un collegamento di ordine politico fra queste leggi, vorrei piuttosto invitare a riflettere su un processo che caratterizza profondamente le società in cui viviamo. Qui una decadenza inarrestabile delle coscienze democratiche e un progressivo imbarbarimento delle forme di vita va di pari passo a un’ipertrofia legislativa senza precedenti e a un processo di crescente giuridificazione di ogni ambito della vita individuale e sociale. Tutto, anche l’atto più anodino e privato (fumare, domani anche camminare o orinare) o ciò che è gia evidentemente reato (la tortura), deve diventare una fattispecie giuridica particolare. Mi sembra significativo da questo punto di vista che l’emendamento che legalizza la tortura sia contenuto proprio in una legge che introduce il reato di tortura nel codice penale. La tortura, in quanto violenza su un altro essere umano, era già reato: il fatto che si sia sentito il bisogno di farne una fattispecie particolare mostra in realtà che si stava smarrendo la coscienza della sua punibilità, che l’imbarbarimento della società era giunto al punto che la tortura come istituto giuridico diventava, dopo secoli, nuovamente possibile. Di qui a renderla legale, il passo è stato breve».

Se poi spostiamo lo sguardo a livello mondiale, ci troviamo oggi di fronte alle torture dei soldati americani e inglesi ai danni dei prigionieri iracheni. Torture che, almeno stando alle informazioni a disposizione, sono gratuite, non hanno neanche lo scopo di estorcere informazioni, di fiaccare la volontà dei detenuti. Sembra trattarsi non di una pratica coercitiva purtroppo diffusissima, ma di una manifestazione di estrema violenza. Quale spiegazione possiamo dare a questo fenomeno?

«Si è parlato molto e a ragione della tortura in Iraq. Ma non mi risulta che il governo americano - che pure, insieme a quello israeliano, pratica oggi senz’alcun dubbio la più massiccia e sistematica politica del terrore - e neanche quello inglese abbiano giustificato le torture in Iraq. Persino le canaglie che in tempi recenti avevano provato negli Stati Uniti a legittimare la tortura oggi tacciono. Le ripeto che l’emendamento italiano rappresenta il massimo dell’abiezione concepibile. E di questo non mi sembra che si parli abbastanza».

Ci sono teorie filosofiche, politiche, sociologiche che hanno giustificato o giustificano la tortura?

«La tortura, come ogni istituto giuridico e come ogni prassi umana, va iscritta nel contesto culturale in cui si produce. È del tutto evidente che quella di oggi non può essere messa in connessione con la tortura praticata, ad esempio, nei tribunali dell’Inquisizione, dove essa si fondava su presupposti teologici che oggi non avrebbero senso. Chi volesse servirsi di questi precedenti per giustificare o anche soltanto per rendere pensabile la tortura come istituto giuridico oggi - poiché di questo si tratta - sarebbe, oltre che un irresponsabile, un ignorante».

Per usare ancora alcune sue categorie (esposte soprattutto in «Homo sacer», Einaudi, 1995, «Quel che resta di Auschwitz», Bollati Boringhieri, 1998, «Aperto. L’uomo e l’animale», Bollati Boringhieri, 2002) si può dire che ormai rischiamo di diventare un po’ tutti una «nuda vita», biologica di fronte al potere sovrano?

«Perché “rischiamo”? Nell’orizzonte del biopotere moderno, lo siamo da un pezzo. Piuttosto occorre ripensare da capo la relazione privilegiata fra violenza e diritto che definisce l’ordine statuale. E, insieme, pensare le condizioni che renderebbero possibile una forma di vita in cui non sia mai possibile separare, come avviene nella tortura, qualcosa come una nuda vita. Ma questa è un’altra questione».

Le critiche più incisive alla moderna democrazia rappresentativa sono state rivolte per un verso dal liberalismo conservatore e per l´altro dal comunismo. Queste correnti hanno condiviso il considerare una mera ideologia e un pregiudizio privo di fondamento la concezione della democrazia come «forma di governo» di «tutti i cittadini». Per entrambe la democrazia era invece il movimento delle masse diseredate diretto contro i possidenti per assumere da ultimo il potere. Sennonché per la sinistra rivoluzionaria la «democrazia» delle masse ? volta a diventare «dittatura» sui possidenti - era una benedizione, la vera democrazia; per i liberali conservatori una maledizione, in quanto destinata a produrre la «tirannide della maggioranza».

Alla critiche rivolte da tali opposte scuole all´idea di una democrazia esercitata da tutti i cittadini attraverso le istituzioni rappresentative e alla concezione della democrazia come potere delle masse si collega decisamente Luciano Canfora nel suo libro La democrazia. Storia di un´ideologia (Laterza, pagg. 421, euro 20), che parte della Grecia per arrivare alla nostra epoca. La tesi dell´autore è chiara e semplice: fin dall´Atene di Pericle la democrazia era sentita dai suoi avversari come «un sistema liberticida» in quanto attentava alla libertà e alle proprietà dei ricchi, con cui si poneva in antitesi; sennonché in effetti già allora essa diede luogo non già ad un governo popolare, ma ad «una guida del "regime popolare"» da parte di una frazione dei ricchi che accettava e sfruttava il sistema. Così nell´Atene antica, e così più che mai oggi, mutatis mutandis, nelle democrazie di matrice liberale. La democrazia è sempre stata e può essere una sola: la lotta di coloro che mirano a stabilire l´eguaglianza contro il predominio delle oligarchie fautrici della diseguaglianza. E perciò Canfora insiste che la democrazia «non è una forma, non è un tipo di costituzione»; che essa è presente nelle «più diverse forme politico-costituzionali», dove e quando si fa sentire con efficacia l´azione della parte popolare. Il che aveva capito Croce, il quale «aveva ben chiaro che "democrazia" non è un regime politico, ma un modo di essere dei rapporti di classe sbilanciato in direzione della "prevalenza del demo", per dirla con Aristotele».

Impostata in questi termini la questione, Canfora traccia una storia della democrazia assai poco interessata alla ricostruzione delle dottrine democratiche e dei grandi dibattiti a queste legate. Quel che piuttosto per lui conta ? e il richiamo ad Arthur Rosenberg è insistente - è la ricostruzione di una serie di capitoli esemplari dei conflitti tra le classi dominanti e le classi subalterne volta a mostrare come la teoria della democrazia intesa quale eguaglianza formale di tutti nella legge, formazione della volontà comune mediante la rappresentanza delle diverse parti sociali nelle istituzioni parlamentari sia in effetti una «ideologia» in senso marxiano a beneficio delle minoranze al potere. Nella ricostruzione di questi capitoli egli appare sovrabbondante, mentre assai ridotti o soffocati sono i richiami a coloro che del significato della democrazia in epoca moderna discussero «classicamente» non solo sul versante liberale ma anche marxista. Basti dire che non compare il nome di Kelsen e che la grande controversia tra Kautsky e i leader bolscevichi è assente. L´attenzione poi è pressoché tutta eurocentrica e all´America sono dedicati cenni. I riferimenti a Bobbio il quale sostiene che «l´egualitarismo è l´essenza della democrazia» riescono fuorvianti, poiché svincolati dal contesto della sua tesi centrale che la democrazia può basarsi unicamente sull´individualismo e che quella dei moderni è e deve essere la «democrazia di tutti i cittadini».

Ma non si comprende lo spirito del libro di Canfora se non si coglie il suo rammarico per il fatto che «il "punto di vista" comunista è quasi del tutto svanito» nel contesto di sinistre europee nella grande maggioranza integratesi nel sistema dominante. Riesce evidente l´intenzione di Canfora di ricostruire la buona memoria di quel punto di vista. E a sostegno della memoria da non perdere Canfora dedica pagine significative alla tradizione comunista. Grandi le lodi a Togliatti, ad aspetti esemplari della costituzione staliniana del 1936 e persino apprezzamento della via «leninista» seguita da Stalin nello stringere il patto con i nazisti nel 1939. Certo, egli non può non cogliere tutta la portata del naufragio del comunismo; sennonché è per lui pur sempre il naufragio della parte che ha in prima fila incarnato nel nostro secolo la battaglia per la democrazia: e perciò di questa battaglia l´autore rivendica tutto il valore. Ma la sua analisi sui progetti di una democrazia di classe pervenuti alla dittatura di nuove oligarchie impostesi in primo luogo sulle masse lavoratrici non dà risposta alla questione: può una forza intesa ad affermare una «democrazia di classe» non finire per promuovere un potere dispotico?

La conclusione di Canfora è che nel mondo occidentale «ha vinto la libertà» come libertà dei ricchi e che la democrazia - ormai «inesistente», ma sempre «indispensabile» - è «rinviata ad altre epoche», affidata «altri uomini», «forse non più europei». La democrazia della parte popolare - secondo l´autore rimasta viva come aspirazione ma senza ancoraggio nel mondo sviluppato - è così da lui stesso ridotta ad un´"utopia" che non ha più un soggetto in grado di farsene portatore efficace nella realtà presente. A me sembra che l´impostazione di Canfora vada rovesciata. La democrazia attuale nel mondo occidentale tradisce largamente le sue promesse, soggiace alle più pesanti deformazioni e la libertà dei ricchi tende a soffocare quella degli altri. Ma da ciò non segue che la partita sia chiusa e da rinviarsi ad un futuro e a luoghi indeterminati. La partita è tanto più aperta quanto più difficile. Niente di peggio può accadere agli strati poco o non difesi che cedere allo strapotere delle oligarchie per le disillusioni causate dalle vicende del comunismo.

Pagine di Luciano Canfora sulla democrazia

"Sono una guida religiosa, le prigioniere mi riconobbero. Il resto fu pianto, mio e loro"

«Era notte - racconta Abdul - quando i soldati americani vennero a casa a mia. Cercavano non so cosa, armi, esplosivo forse. Urlavano parole incomprensibili. Rovistarono in ogni angolo buttando tutto all´aria senza rispetto per nessuno, i vecchi, le donne, i bambini. Non trovarono nulla perché non c´era nulla. Le mie sole armi sono le parole. Quelle stesse, durissime che avevo pronunciato nella mia ultima predica del venerdì. Avevo detto che bisognava cacciare l´invasore con ogni mezzo, riprenderci la nostra vita, determinare il nostro futuro senza padroni né tutori. Quella era la mia colpa. La stessa di milioni di iracheni come me, sunniti, sciiti, cristiani che vorrebbero che le truppe di occupazione se ne tornassero a casa. Di questo mi ero macchiato, ma non avevo alcun tipo di contatto con la guerriglia di Falluja o Bagdad».

«Arrivammo ad Abu Ghraib che era l´alba. Mi misero in una cella insieme ad una ventina di altri disgraziati come me, accusati anche loro di non so cosa.

Gli americani con noi non ci vanno troppo per il sottile. Parlano di democrazia, ma a loro basta un sospetto, anche il più piccolo, per sbatterci dentro e trattarci come il più feroce dei criminali. La mia presenza sembrò confortare i miei compagni di cella. Provai a rincuorarli, pregammo insieme.

Ma durò poco perché dopo due giorni dopo fui messo in isolamento e affidato alle cure di soldatesse. Feci l´errore di pensare che essendo donne potessero avere più cuore. Mi sbagliavo e di grosso. Erano peggiori degli uomini. Arrivò il giorno dell´interrogatorio. Fui portato in una stanzetta. Erano in tre più un´interprete. Mi ordinarono di spogliarmi. Rimasi in mutande ma mi urlarono di togliere anche quelle. Non capisco perché, protestai. Ma quella che sembrava la capa mi zittì con un: "Qui le domande le faccio solo io". Rimasi nudo, dunque. Mi vergognavo mentre quelle non facevano che ridere godendo del mio imbarazzo. Istintivamente ero portato con le mani a coprirmi il basso ventre. E fu allora che una delle mie aguzzine tirò fuori da una borsa un indumento rosso. Un ridottissimo slip, da donna. "Copriti con questo, se ti vergogni". Avevo capito cosa volevano. Quando si è nudi, abituati oltre tutto come noi iracheni a vivere in una società dove il pudore è una componente essenziale, si è assai più fragili. Più disponibili a parlare, a collaborare, a tradire, pensavano loro. Ma io non avevo segreti da svelare. Non avevo complici da coprire, non sapevo nulla, non conoscevo i nomi dei capi della guerriglia, non potevo quindi fornire informazioni che non avevo. Indossai quello slip sentendomi ridicolo come mai in vita mia. E loro sghignazzavano dicendo cose che non capivo ma di cui intuivo il senso. Poi arrivarono le domande, sempre le stesse. Tu non puoi non sapere chi nel tuo quartiere, nella tua zona nasconde armi, esplosivo. Chi sta preparando attentati. Se parli, puoi rivestirti, altrimenti è peggio per te. Non riuscivo a immaginare cosa fosse peggio di quello stare in piedi nudo davanti a delle donne che mi mancavano di rispetto come uomo e come religioso».

«Ripetei fino alla nausea che non sapevo nulla, che dovevano credermi. Mi lasciarono solo per un´ora, forse due. Pensavo di averle convinte, di aver finalmente fatto breccia nei loro cuori. Pregai con tutte le mie forze che fosse così. Ma ritornarono e mi portarono nudo come ero nel settore delle donne. Non capivo cosa volessero. Poi aprirono una cella e mi spinsero dentro. C´erano sedici detenute. Giovani e meno giovani. Madri, mogli, figlie o sorelle di uomini sospettati di non si sa bene cosa. Fu terribile, per noi la stanza delle donne è sacra è inviolabile. Alcune di quelle poverette mi riconobbero e abbassarono gli occhi rendendosi conto della mia vergogna che non era inferiore alla loro. Non possono farci anche questo, fu l´unica cosa che sentii dire. Perché tutto il resto fu soltanto un interminabile pianto. Il mio ed il loro. Tre ore dopo, che mi sembrarono lunghe una vita, tornai nella mia cella. Mi restituirono i vestiti. Due giorni dopo ero fuori da Abu Ghraib».

Deve la fede, intesa come verità, prevalere non solo nel contesto di ciascuna vita di credente ma anche nella vita dei non credenti, nelle decisioni politiche che riguardano tutti? Se la fede prevale, non si forma una sorta di imposizione in nome della verità religiosa che si trasforma in legge?

Queste domande nascono da un titolo di questo giornale (8 ottobre) che, dando notizia della conclusione della Settimana Sociale dei cattolici, riassumeva con la frase: "Appello del Papa ai cattolici: entrare in politica per imporre la fede". Il titolo era motivato da alcuni passaggi letti, a conclusione dell’evento cattolico, dal Card. Ruini. Il passaggio chiave era quello che attribuiva al laicismo la colpa di coltivare il relativismo (ovvero il riconoscimento di altre verità diverse dalla propria) definendolo "rischio e minaccia per la democrazia". La democrazia - secondo il testo letto da Ruini - sarebbe stata garantita solo se "fondata sulla verità". Perché "senza il radicamento nella verità l’uomo e la società rimangono esposti alla violenza delle passioni e a condizionamenti occulti". Una lettrice, la signora Anna Maria Stua, aveva scritto per dire, da credente, che "la fede non si può imporre perché appartiene alla inviolabile libertà della coscienza". L’ipotesi dell’autrice della lettera era che l’Unità, con quel titolo, aveva deformato i fatti e forzato il senso delle cose dette nella Settimana Sociale dei cattolici. La lettera della signora Stua e la mia risposta sulle pagine de l’Unità sono state seguite da numerose lettere e-mail che rendono utile tornare sull’argomento.

IL 23 ottobre avevo risposto alla lettera della signora Stua (pag. 1 e pag. 24 de l’Unità) notando due aspetti del problema: il primo è che vi è certo un’aspirazione a imporre la fede quando si chiede che essa si trasformi in legge per tutti. La seconda per notare che, per fortuna, un clima di intelligente e rispettosa convivenza esiste in Italia, accanto, e nonostante l’integralismo di molti. E usavo come testimonianza una frase di Mons. Vincenzo Paglia, Vescovo di Terni, che in occasione di un dibattito con non credenti ha detto (questa era la mia citazione a memoria): "Ciascuno di noi possiede solo una piccola parte della verità. Perciò possiamo vivere accanto, ciascuno rispettoso dell’altro". Si trattava di un dialogo fra Mons. Paglia e Arrigo Levi, che per fortuna è riflessa in modo molto più completo in due libri che citerò secondo la data di pubblicazione: "Lettera a un amico che non crede" di Mons. Vincenzo Paglia, Rizzoli, 1998, e "Dialoghi sulla fede" di Arrigo Levi, Il Mulino, 2000.

Di Vincenzo Paglia ricorderò questa frase essenziale: "Ai laici e ai credenti è chiesto di inventare nuove "vie di mezzo", di interrogarsi sulle vie della salvezza, sui modi per combattere la superstizione e allontanare l’idolatria, sulle strategie per difendersi dai sincretismi ingannatori e ostacolare i fondamentalismi, su come praticare la vita interiore e difendere la pace e saper ascoltare il grido di tanti popoli" (pag. 27). Come si vede è una affermazione coraggiosa, una finestra aperta su un vasto paesaggio di comprensione reciproca fra ispirazioni diverse che corrisponde alla frase "ciascuno di noi possiede una piccola parte di verità..." che gli avevo attribuito nel mio articolo.

Il libro di Arrigo Levi che ho appena citato è notoriamente un diario in pubblico sul "dialogo delle fedi", ovvero sul come sentimenti e culture diverse convivono. Stiamo parlando di un’Italia profondamente civile che precede l’epoca sboccata dei finti credenti (si pensi alla invocazione delle radici cristiane da parte della Lega e di An)e di eventi come "il caso Buttiglione" destinato a segnare tristemente la storia della nuova Europa. Qui, nell’Italia del rispetto che stiamo citando, ogni parola ha un peso, e non è il "politicamente corretto" delle parole che conta, ma l’elaborazione attenta e misurata di passaggi difficili, da parte di persone che non si accontentano delle buone maniere e cercano, nella diversità, veri punti di contatto sia umani che culturali.

A pag. 55 del suo libro, Levi cita il Card. Martini che dice: "Le religioni sono l’esprimersi storico, dottrinale, sociale della fede e in questo esprimersi storico possono entrare valori e disvalori etnici, politici, nazionali che diventano motivo di conflitto". A questo punto Levi chiede al card. Martini: "Non vi è illogicità nel dialogo fra credenti, ciascuno dei quali ha una sua verità rivelata?". "No - replica il Cardinale - perché la verità rivelata non è una verità matematica. Verità è una parola che uso malvolentieri perché è una parola troppo grande, è una apertura su un mistero più grande, e io non riesco se non a intuire qualcosa, a balbettare qualcosa di questo mistero più grande di noi. Perciò è possibile dialogare con altri che, come me, non si accontentano delle cose che hanno davanti, se no non dialogherebbero. Citando Bobbio, l’importante è essere pensanti: non ci domandiamo se siamo credenti o non credenti, ma pensanti o non pensanti".

Queste parole del Card. Martini ad Arrigo Levi, che Levi riporta nel suo libro, corrispondono nitidamente alla citazione di Mons. Paglia da me riportata, sia pure a memoria. E ci indicano un modo di parlare di fede in un tempo e in un luogo (questa Italia) in cui la religione viene usata come strumento di intimidazione e di governo nel tentativo di isolare i miscredenti, vuoi islamici (la invocazione ripetuta alla guerra santa), vuoi "comunisti" (ovvero tutti coloro che si oppongono). Ci parla della preoccupazione morale e culturale di impedire uno scontro come conseguenza del non riconoscersi. È una testimonianza di civiltà. E per questo, in un momento difficile e torbido della vita italiana, è sembrato importante, rispondendo alla lettera della signora Stua e poi alle molte e-mail ricevute, parlarne ancora in queste pagine.

Insegnare a scuola mette in contatto con le verità del giorno: è come raccogliere uova appena fatte, ancora calde, magari con il guscio un po´ sporco. Gli storici interrogano i secoli, ma in una classe di una qualsiasi periferia italiana si ascolta il battere dei secondi. Ebbene, oggi una ragazza di quindici anni, un´allieva che non aveva mai rivelato una particolare brillantezza, ha fatto una riflessione che mi ha lasciato a bocca aperta. Eravamo negli ultimi dieci minuti di lezione, quelli che spesso si spendono in chiacchiere con gli alunni.

La ragazza raccontava di volersi comprare un paio di mutande di Dolce e Gabbana, con quei nomi stampati sull´elastico che deve occhieggiare bene in vista fuori dai pantaloni a vita bassa. Io le obiettavo che lungo la Tuscolana, alle sei di pomeriggio, passeggiano decine e decine di ragazze vestite così. Non è un po´ triste ripetere le scelte di tutti, rinunciare ad avere una personalità, arrendersi a una moda pensata da altri? E da bravo professore un po´ pedante le citavo una frase di Jung: «Una vita che non si individua è una vita sprecata. «Insomma, facevo la mia solita parte di insegnante che depreca la cultura di massa e invita ogni studente a cercare la propria strada, perché tutti abbiamo una strada da compiere. A questo punto lei mi ha esposto il suo ragionamento, chiaro e scioccante: «Professore, ma non ha capito che oggi solo pochissimi possono permettersi di avere una personalità? I cantanti, i calciatori, le attrici, la gente che sta in televisione, loro esistono veramente e fanno quello che vogliono, ma tutti gli altri non sono niente e non saranno mai niente. Io l´ho capito fin da quando ero piccola così. La nostra sarà una vita inutile. Mi fanno ridere le mie amiche che discutono se nella loro comitiva è meglio quel ragazzo moro o quell´altro biondo. Non cambia niente, sono due nullità identiche. Noi possiamo solo comprarci delle mutande uguali a quelle di tutti gli altri, non abbiamo nessuna speranza di distinguerci. Noi siamo la massa informe. «Tanta disperata lucidità mi ha messo i brividi addosso. Ho protestato, ho ribattuto che non è assolutamente così, che ogni persona, anche se non diventa famosa, può realizzarsi, fare bene il suo lavoro e ottenere soddisfazioni, amare, avere figli, migliorare il mondo in cui vive. Ho protestato, mettendo in gioco tutta la mia vivacità dialettica, le parole più convincenti, gli esempi più calzanti, ma capivo che non riuscivo a convincerla. Peggio: capivo che non riuscivo a convincere nemmeno me stesso. Capivo che quella ragazzina aveva espresso un pensiero brutale, orrendo, insopportabile, ma che fotografava in pieno ciò che sta accadendo nella mente dei giovani, nel nostro mondo. A quindici anni ci si può già sentire falliti, parte di un continente sommerso che mai vedrà la luce, puri consumatori di merci perché non c´è alcuna possibilità di essere protagonisti almeno della propria vita. Un tempo l´ammirazione per le persone famose, per chi era stato capace di esprimere - nella musica o nella letteratura, nello sport o nella politica - un valore più alto, più generale, spingeva i giovani all´emulazione, li invitava a uscire dall´inerzia e dalla prudenza mediocre dei padri. Grazie ai grandi si cercava di essere meno piccoli. Oggi domina un´altra logica: chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori per sempre. Chi fortunatamente ce l´ha fatta avrà una vita vera, tutti gli altri sono condannati a essere spettatori e a razzolare nel nulla. Si invidiano i vip solo perché si sono sollevati dal fango, poco importa quello che hanno realizzato, le opere che lasceranno. In periferia ho conosciuto ragazzi che tenevano nel portafoglio la pagina del giornale con le foto di alcuni loro amici, responsabili di una rapina a mano armata a una banca. Quei tipi comunque erano diventati celebri, e magari la televisione li avrebbe pure intervistati in carcere, un giorno. Questa è la sottocultura che è stata diffusa nelle infinite zone depresse del nostro paese, un crimine contro l´umanità più debole ideato e attuato negli ultimi vent´anni. Pochi individui hanno una storia, un destino, un volto, e sono gli ospiti televisivi: tutti gli altri già a quindici anni avranno solo mutande firmate da mostrare su e giù per la Tuscolana e un cuore pieno di desolazione e di impotenza.

L'otto di settembre due (tre, quattro?) giorni dopo la strage nella scuola di Beslan, in una marea di articoli e di trasmissioni televisive dai toni concitati e drammatici, fra un diluvio di parole e di immagini, è uscita su un quotidiano una vignetta di Altan. Il suo solito personaggio nasuto è afflosciato in poltrona, mancano, credo per la prima volta, i colori del viso, e la frase sotto recita: «Forse è ora che l'umanità si dimetta». Ecco, credo che nessun altro sia stato capace di comunicare con più lucidità il sentimento del tempo che ci è toccato in sorte. Quel quadratino di carta sintetizzava in maniera folgorante, come una stilettata al cuore, la nostra impotenza e nello stesso tempo la nostra ignominia. Ci ho pensato quando, nella notte, è arrivata la notizia: hanno ucciso le due Simone, e poi la lunga sequenza di incertezza, di alti e bassi, di angoscia.

Alla fine di agosto mi era capitato di sentire un concerto in un museo lungo la Via Flacca, a poche decine di metri dal mare. L'acustica era pessima per via del sottile ronzio di un'aria condizionata che nessuno aveva avuto il criterio di spegnere, ma il pianista era bravo e appassionato. Suonava le Kinderzenen di Schumann e nel secondo tempo, la terza sonata di Chopin, e alla meravigliosa sonorità della musica si accompagnava la visione di alcuni frammenti di statue che si stagliavano nella penombra mentre si avvertiva, dalle vetrate, la luce del mare al crepuscolo. Accanto a me, su un piedistallo, la mano di Ulisse, grande il doppio del normale, con le cinque dita dischiuse, premeva contro le pieghe di una tunica il Palladio sottratto con l'inganno dal tempio di Troia.

Una mano virile di una forza e di una grazia che appartiene solo alla gioventù. Teneva il piccolo simulacro di Atena come un oggetto sacro e prezioso, ma anche come un trofeo. Qualcosa di perfetto e di commovente per la bellezza perduta di una statua che aveva lasciato solo quel piccolo dettaglio. Per la fragilità della civiltà che l'aveva concepita e poi si era disfatta come un organismo putrefatto lasciando che la sabbia e il fango la seppellissero e le radici degli alberi e la stratificazione di pietra e terra ne cancellassero i tratti, ogni armonia distrutta come insopportabile alla vista. Per un tempo, il nostro, dove la bellezza è tornata a essere uno spauracchio che va immediatamente esorcizzato scimmiottandola e scempiandola. Un tempo dove è possibile solo riconoscersi nell'orrore e nel mostruoso.

Quella mano, come gli altri frammenti di statue sparsi nel museo, appartenevano alla residenza che l'imperatore Tiberio si era fatto costruire sulla sponda del mare, non lontano da dove si diceva che avesse abitato la maga Circe. Le statue ornavano una grande piscina alimentata da una sorgente di acqua dolce al cui centro un enorme Polifemo di marmo veniva accecato da Ulisse. Poco più lontano, sempre in marmo, si specchiava nell'acqua la nave di Argo in mezzo ai flutti mentre alle spalle si apriva una grande grotta naturale collegata con un passaggio scavato nella roccia al resto della villa. Ma più che una villa era una piccola città che ospitava oltre duemila persone, ricca di mosaici e di marmi di cui restano pochissimi frammenti.

Tutto, la nave di Argo e Polifemo, i mosaici e le statue che la rendevano una delle più splendide dimore di Tiberio, venne fatto a pezzi dopo il crollo dell'impero romano, quando nella grotta si rifugiarono i monaci nei tempi bui delle invasioni barbare. Vedevano in quelle statue una religione che era stata bellezza e edonismo, sensualità. Peccato. E si accanirono contro il marmo anche se non era facile e dovettero usare molta energia mentre le onde sbattevano contro gli scogli e lentamente si mangiavano quanto restava delle mura di quella mirabile residenza, la sabbia inghiottiva le pietre e i mosaici, i frammenti delle cisterne e delle condutture di acqua calda e fredda, le colonne spezzate.

È rimasto un piede, una mano, un volto sfigurato, un lembo di tunica e una quantità di minuscoli frammenti che gli archeologi come formiche pazienti tentano di rimettere insieme alla ricerca di una bellezza sfigurata per sempre. È durata secoli l'espansione dell'impero romano, la costruzione delle strade e dei ponti attraverso cui si è diffusa in ogni direzione, insieme ai guerrieri e ai mercanti, anche la concezione che essere uomini significa «Nihil mihi humanum alienum puto». Il dissolversi di quello stesso impero, al contrario, è stato una sorta di autofagocitazione dove l'idolatria del dominio ha trasformato il potere in un Dio Moloch che ha divorato se stesso. E mentre le note sublimi di Chopin scivolavano come una carezza su quella lucida mano di marmo sembrava di avvertire l'ultimo lancinante richiamo della bellezza. Prima del buio.

Non so perché mi è venuto di collegare quel ricordo alla vignetta di Altan, a quel Cipputi afflosciato in poltrona, perduto ogni colore del viso. Non sono state solo le immagini della devastazione e della morte nella scuola di Beslan, ma i numeri, quei numeri che si moltiplicano come su un libro contabile di bambini e donne, uomini inermi che giorno dopo giorno crepano fra le bombe e il fuoco in Iraq. Neanche sappiamo quanti, perché fanno meno storia. Forse non ne fanno affatto. O ne fanno troppa, allora si tappano gli occhi e le orecchie. Così per quei mille, forse mille e cinquecento haitiani spazzati via dall'uragano Jeanne (che grazioso nome per una morte, sepolti nel fango e sbattuti dal vento, massacrati dai detriti che Jeanne trascina con sé). Una morte di terza, di quarta categoria relegata nelle pagine interne dei giornali, perché arriva in uno dei Paesi che siamo riusciti a rendere fra i più poveri del mondo dove nessuno ha i mezzi per difendersi o venire difeso, poltiglia indistinta. Così se Jeanne passando lungo le coste degli Stati più forti si piglia al massimo una ventina di corpi, e tutti partecipano alla drammaticità dell'evento, a Haiti «Jeanne» può nutrirsi e impinguarsi come un maiale. Come è riuscito Altan a centrare così esattamente il nostro peccato mortale?

(È stato Terenzio a scrivere: «Homo sum, nihil mihi humanum alienum puto». Era un commediografo di grande successo nato a Cartagine nel II secolo Avanti Cristo e diventato prima schiavo e poi liberto, appassionato di cultura greca. Dopo di lui il concetto di uomo così sinteticamente espresso ha viaggiato attraverso Seneca, Cicerone, Sant'Agostino, Montaigne, fino ad approdare sui nostri banchi di scuola. Era bello e ci faceva sentire di appartenere a qualcosa di alto e universale).

Ecco che tutti si sono messi in cerca dell´Islam moderato. Col lanternino, perché quasi ciascuno dice che ci sia, dove sia nessuno lo sa. Neanch´io, ma mi pare di sapere che cosa sia il suo più prezioso equivalente, e dove sia. Dove fosse, piuttosto. Era nell´Afghanistan monarchico, prima. In Bosnia, prima. In Cecenia, ancora poco fa. È in Turchia, chissà se ancora abbastanza a lungo da scuotere le pensose autorità europee. È in Iran, ancora mimetizzato dai chador. È nelle donne che vanno a testa alta nelle strade di Algeri, in Khalida Messaoudi che l´ha tenuta alta anche nei giorni delle teste mozzate, e ora si è compromessa, secondo gli schizzinosi, andando al governo. A meno che si intenda quel pugno di personalità intellettuali laiche e anche religiose che aspirano a una riforma della loro legge e della loro fede e pagano con la galera un amore per la libertà, e meriterebbero di diventare i nostri eroi, a meno di quelle testimonianze inermi, l´Islam moderato non è che la gente di nascita musulmana che vive prendendosi una libertà personale, di pensare, di parlare, di abbigliarsi e pettinarsi e radersi, di votare, di scegliersi per amore. Questo è l´islam moderato in cui bisogna riconoscersi, oltretutto perché ci assomiglia, assomiglia alla parte migliore di noi. Mentre facciamo chiasso attorno alla fata morgana dell´Islam moderato, quello vero, quel modo di vita e di convivenza, ci scompare sotto gli occhi.

Lo sprofondamento cominciò nell´Iran di Khomeini, che presentò il suo lugubre conto sciita all´occidentalizzazione forzata dei Pahlavi. Poi è continuato, seguendo quell´oscillazione forzata del pendolo. Nell´Afghanistan dei talebani, suscitato dall´invasione sovietica. (Chi ha voglia di ricordare, oggi, che i capi degli indipendentisti ceceni erano in prima fila nell´Armata Rossa in Afghanistan?) Oggi, a Kabul almeno, qualche breccia si è aperta nella grande galera in cui i Taliban avevano sigillato donne e bambini. In Bosnia si lasciò che l´odio razzista e urbicida facesse fuoco così a lungo da spalancare campi di addestramento ed edifici di culto fanatico a Iran, Arabia Saudita e altri disinteressati finanziatori. E non era facile, se si ricordi che riparo della convivialità cosmopolita ed europea era Sarajevo, e che i musulmani di Bosnia sono diversi dai cristiani jugoslavi solo per l´accidente storico di una conversione religiosa. La Cecenia di pochi anni fa vedeva concorrere tre modi di governo sociale: la legge laica dello Stato, la legge patriarcale tradizionale del teip, la legge coranica. L´ultima era la meno influente, e solo qualche maniaco auspicava l´avvento della sharia.

L´Islam ceceno era recente, e messo al servizio di una causa nazionale e anzi transnazionale, come quella dell´autonomia del Caucaso del Nord. Era famosa la Cecenia, nei trattati etnologici, per la diffusione di confraternite iniziatiche dell´islam mistico, la Naqshbandiya, la Qadirya, niente a che fare col wahabismo ? che arriva a far proselitismo coi soldi, assai prima che con la dottrina. Del resto quando arrivavate in Cecenia, e andavate in cerca di sufi adepti di Naqshbandia e di Qadirya, a meno che aveste il fiuto affinato di un vecchio professore di storia delle religioni, stentavate a trovarne le tracce. L´Islam fu richiamato in servizio nella mobilitazione contro l´impero sovietico che si disfaceva, ma il presidente Dudaev sfotteva i neofiti fasciati dalla benda verde mandandoli ad arruolarsi nella marina del Caspio. Nella prima guerra cecena ? la prima di questi dieci anni, che ne hanno ospitate due e ne annunciano una terza - e dopo la sua conclusione, l´islam restò dietro alla rivendicazione nazionale, e gli arabi "afghani" come l´emiro Khattab erano pochi, sopportati dai loro ospiti d´arme, malvisti dagli altri. Alla fine il trentenne Shamil Basaev non sapeva ancora che cosa fare di sé: il più eroico patriota caucasico, il più temuto terrorista mondiale, il presidente della repubblica (primo ministro era già), il mercante di computer, il giocatore d´azzardo coi servizi russi, il contrabbandiere di petrolio, o chissà che altro. L´Islam era solo una delle sue devozioni, e più moderata di altre mondanissime.

Assai più laico era Aslan Maskhadov, che era stato, come Jokhar Dudaev, un alto ufficiale sovietico, poi il comandante militare della resistenza antirussa, e nel 1997 il presidente regolarmente eletto della repubblica di Ichkeria. Era invece islamista bigotto, e legato a quei paesi del Golfo dove l´anno scorso i sicari di Mosca l´hanno assassinato, Zelimkhan Jandarbiev, e fu battuto di gran lunga nelle elezioni.

La svolta venne nel 1999, quando Basaev e Khattab compirono la grottesca invasione del confinante Daghestan, isolata dentro quel paese, che è il più straordinario crogiolo di popoli e lingue al mondo, e conclusa di lì a poco con una ovvia disfatta. Fu il segnale che aspettavano il Cremlino e il delfino Putin, e i capi militari russi umiliati dalla sconfitta e decisi comunque alla vendetta. Da allora Basaev ha cessato di essere il redivivo Shamil, l´eroe della sua gente, e l´ha presa sempre più in ostaggio delle proprie gesta oltranziste. La sua gente, e i capi più prudenti, compreso Maskhadov, ostile al terrore contro i civili, desideroso di un negoziato e, da un certo momento in poi, di un´interposizione internazionale che disarmasse ambedue le parti, rinviando sine die la questione dell´indipendenza.

Mi è difficile ricapitolare la storia di una catastrofe, con l´animo dell´aderente alla minuscola e sempre più disperata confraternita dei difensori europei della vita e della dignità dei ceceni, frustrate Cassandre. Il distratto ascolto pubblico tende ad attribuire a questi pazzi di Cecenia una faziosità o una intransigenza che sono da loro lontanissime. E non solo perché amano la Russia. Essi sono realisti, misurati. Vladimir Putin ha messo insieme nel suo pugno forte l´eredità dello zar e quella del Kgb; ha costruito sulla sfida dell´annientamento della Cecenia la sua ascesa; ha manomesso televisione e stampa libere con i metodi più spicci (anche a non voler considerare la sequela di assassinii di giornalisti indipendenti); ha espropriato con gli stessi metodi la concorrenza degli oligarchi; ha imposto in Cecenia elezioni e referendum farseschi. Tuttavia Putin è il presidente della Federazione Russa (anche dei ceceni, sapete). Dopo la trionfale rielezione, non aveva più avversari che potessero fargli ombra: e perfino questa sua onnipotenza ha indotto noi, i pazzi per la Cecenia, e forse lo stesso Maskhadov, a sperare che Putin aprisse finalmente una trattativa nella quale non aveva niente da perdere, e tutti avrebbero guadagnato la fine della carneficina quotidiana di ceceni e di russi.

Non è successo, al contrario. L´abietta impresa di Beslan ha messo una pietra sopra ogni spiraglio di umanità. Ma già prima la speranza in un negoziato che isolasse Basaev era morta. Putin ha voluto rinnovare l´investimento nelle milizie squadriste di Ramzan Khadirov e in un nuovo presidente filorusso, Alu Alchanov, il quale si è premurato di dichiarare una guerra senza quartiere a Maskhadov, tornato nella morsa degli attentati di Basaev, e rassegnato a dare l´addio alla proposta di smobilitazione controllata dall´Onu. La proposta era stata sostenuta dai radicali e specialmente da Olivier Dupuis, e da adesioni significative nel parlamento europeo, benché del tutto inadeguate alla sua ambizione. Eppure, provate a ripensare, dopo che Beslan ha spalancato l´inferno del Caucaso davanti agli occhi del pubblico, all´importanza di episodi e segni che rimasero pressoché inosservati. Membri del governo Maskhadov in esilio, da lui autorizzati, come il ministro degli esteri, Ilias Akhmadov, o della sanità, il medico Umar Khambiev, che si pronunciano in favore della nonviolenza anche dove la resistenza armata sia legittimata dall´occupazione di una potenza militare schiacciante. Manifestazioni toccanti, come la partecipazione a un digiuno per l´ingresso delle donne nel governo provvisorio afghano da parte di civili ceceni profughi nei tristissimi campi dell´Inguscezia. Episodi di rottura aperta fra Maskhadov e Basaev. Segnali come questi avrebbero potuto eccitare la commozione e la premura dell´opinione e delle autorità europee, per non dire delle Nazioni Unite, così dolorosamente chiamate in soccorso. Non è avvenuto.

Si dice che la compiacenza verso Putin, così spericolata nel nostro Berlusconi, spieghi questa ottusità, nemmeno incrinata dall´evidenza di un genocidio. È vero, ma temo che prima ancora ci sia una più gratuita distrazione, l´abitudine a voltare la testa dall´altra parte, delle persone e delle autorità: ora una mano assassina ce l´ha afferrata, la testa, e ce l´ha schiacciata dentro il sangue degli scolari e delle madri e delle maestre di Beslan, e non ce la facciamo a tenere gli occhi aperti. I radicali hanno idee grandiose e forze poche: bisognerebbe prenderli sul serio, quando la loro sola disponibilità induce genti guerriere per tradizione antica, ma finalmente stanche di guerra, e consapevoli dell´impossibilità di vincere con le armi, a cercare un´altra strada. E´ successo con i ceceni, e anche con gli uiguri del Xinjiang cinesizzato, con i Montagnards vietnamiti, con altre minoranze combattive e spossate. La nonviolenza, che è la più difficile e strenua delle forme di vita e di lotta, non è autosufficiente: non lo è neanche, e Gandhi lo sapeva, rispetto al ricorso alla forza. Può farne a meno a condizione di cercarsi alleati non per calcolo militare o economico, ma per la solidarietà nella buona ragione. Senza il sostegno internazionale, e in particolare europeo (il Caucaso è la culla dell´Europa), la nonviolenza, che è la più ardua delle rivoluzioni dovunque, e tanto più in un piccolo e maschio paese di fieri guerrieri, è una irrisoria chimera. Ci vuole un´audacia senza pari per pronunciare dalla Cecenia dei signori della guerra, dei teip rivali, dell´odio antirusso, le parole del disarmo, della trattativa, del rispetto per i civili, della nonviolenza. Alcuni fra i capi ceceni lo ebbero, e non per un breve momento. Putin continuò a chiamarli terroristi e sgherri di Al Qaeda: ridicola pretesa, che gli serviva a esigere l´appoggio del mondo intero, nel momento stesso in cui dichiarava la Cecenia un suo geloso affare interno, suo e dei suoi mercenari e torturatori.

Nella minuscola e desolata confraternita di pazzi della Cecenia, ebbi da tempo una speranza ancora più disperata. Ero persuaso che la trattativa non si sarebbe aperta, schiacciata fra il terrorismo ceceno, ormai travestito dal jihad islamista, l´oltranzismo gangsteristico dei capi militari russi, l´indifferenza e il cinismo dell´Occidente. Oltretutto, la leggendaria unità cecena di fronte al secolare nemico russo era andata in pezzi. I resistenti moderati, come Maskhadov, sarebbero stati ributtati continuamente in braccio agli estremisti, che hanno dalla loro il vantaggio della spavalderia militare e della sfrenatezza morale, così da isolarsi dalla gente ma da sedurre le reclute sempre più giovani ed esasperate. Mi ero convinto che in Cecenia bisognasse sperare in una società civile pressoché inesistente, perché i superstiti di quel popolo decimato sono un volgo disperso senza nome e senza voce. Una società civile, in quella patria del valor militare, vuol dire una società femminile. Le donne cecene sono piegate a un regime patriarcale rigido, sul quale l´islamismo ha impresso un violento giro di vite. Ma sono fiere, colte e capaci di una forte libertà. Obbediscono ai loro uomini - fin dai figli maschi neanche adolescenti - ma non con una sottomissione servile, bensì con una misteriosa superiorità, la docilità amorevole di sorelle e mogli e madri che sanno come gli uomini di tutte le età siano infantili e prepotenti, e non ci si può far niente: scherzarci su nelle cucine da cui i maschi restano fuori. Nei campi dei rifugiati, nelle cantine rovinate delle città, nelle case assediate dai sequestratori e dai razziatori, le donne vedono il consumarsi di una follia: a loro è riservata la debolezza del pianto, ma anche l´intelligenza delle cose. Gli uomini fanno la guerra. Se qualcuno ? l´Occidente, l´Europa, i volontari, gli amanti della pace, le madri russe - trovasse il modo di dare la parola alle donne cecene, ne troverebbe una capace di gridare su quel campo di rovine: «È tutta una pazzia», e mostrare il re nudo. Lo so, non succede. Vedo che cosa succede: un mondo che uccide i bambini ogni giorno, ma lo mette nel conto dei danni collaterali, ed ecco che passa a sterminare i bambini prendendo bene la mira. Non è successo che la sapienza e il coraggio delle donne cecene abbia trovato un altoparlante in cui gridare: «È tutta una pazzia». È successo, invece, che alcune tra loro abbiano preso un posto di nero spicco, cinte di esplosivo, spesso orfane o vedove o orbate di fratelli e figli, a volte incinte, e ora infine assassine suicide di bambini al primo giorno di scuola. Così le donne hanno reclamato la loro lugubre parte in tragedia. Oppure, bandite per aver subito l´onta dello stupro russo, sono mandate a purificarsene nella strage suicida.

Ci riguarda? Non ricordo una sola frase che l´Europa abbia saputo indirizzare alla gente cecena inerme, quando era sterminata, torturata, deportata, stuprata. Adesso possiamo lavarcene le mani. Possiamo dire che ormai è troppo tardi. Le donne cecene, erano loro l´Islam moderato, prima che se ne parlasse tanto. Adesso le donne cecene sono note al mondo come ragni spaventosi, vedove nere.

«Il problema è che cosa accadrà in questi giorni col ritorno in classe delle `ragazze velate', e la cosa è largamente imprevedibile. Indipendentemente dai fatti drammatici dell'ultima settimana, resta evidente che la legge sulla laicità non regola nessuno dei problemi di fondo cui allude: né quelli relativi alla concezione della laicità in una società transnazionalizzata, né quelli che riguardano lo statuto individuale e collettivo dei discendenti degli immigrati in una società post-coloniale».

Per biografia e formazione - le sue critiche alla politica del Pcf sull'immigrazione che gli valsero l'espulsione dal partito nel 1981, la sua attenzione costante alle lotte dei migranti negli anni Ottanta e Novanta, il suo lavoro teorico sulla riqualificazione dell'universalismo nelle società solcate dalle differenze etniche e culturali, la sua recente e ricca elaborazione di un'idea di Europa anti-identitaria e aperta all'alterità - Etienne Balibar è certo uno degli intellettuali francesi più attrezzato a interpretare la fitta trama di questioni che si agitano dentro, sotto e a lato della legge francese contro l'uso del velo e degli altri segni di appartenenza religiosa, legge oggi al centro del drammatico ricatto sulla vita dei due giornalisti francesi sequestrati in Iraq. E infatti alle valenze simboliche del conflitto sull'uso del velo Balibar è attento fin dall''89, quando il preside del Collegio di Creil escluse due studentesse dalla scuola. E contro la legge voluta da Chirac si è espresso fin da subito, firmando con altri intellettuali la petizione «Sì alla scuola laica, no alle leggi di emergenza». Un suo denso saggio sull'argomento è apparso nel volume collettivo Le foulard islamique en question (a cura di Charlotte Nordmann, Ipam 2004), e sarà pubblicato sul numero di ottobre della rivista del manifesto.

Pensi che il conflitto fra lo Stato francese e le comunità islamiche si intensificherà nei prossimi mesi?

Non è detto: gli eventi del Medio oriente potrebbero al contrario portare le comunità a tenere basso il profilo delle rivendicazioni. Già qualche mese fa, quando la legge fu approvata, una comunità che si rifà ad Al Quaeda o si è presentata come tale, aveva minacciato la Francia di rappresaglie, ma salvo una piccolissima minoranza di integralisti i musulmani francesi, anche quelli fondamentalisti, non apprezzarono la cosa. A maggior ragione oggi la paura dell'assimilazione ai terroristi - paura in parte indotta dall'islamofobia dilagante - spingerà la «comunità musulmana», o meglio i gruppi e i segmenti assai eterogenei che la compongono, a esplicitare la loro appartenenza alla nazione francese e a marcare fortemente la loro rottura con il terrorismo, i rapimenti eccetera. Che d'altronde la maggioranza dei musulmani condanna radicalmente. Penso che le ragazze reagiranno alla stessa maniera - il che non esclude che scoppino comunque dei drammi individuali. Tutto questo fa il gioco, comunque, della politica del governo francese e in particolare del ministro per l'educazione nazionale. E bisognerà vedere se il governo e il corpo insegnante, mobilitati su «posizioni di principio», riusciranno a evitare di fare fronte comune e di pensare che gli avvenimenti diano loro ragione e facciano loro guadagnare dei punti nel controllo delle ragazze musulmane o nella eternizzazione del «modello francese».

Del «modello francese» la laicità è un pilastro cruciale. Nel tuo saggio tu scrivi però che la legge sul velo, invece di rafforzarlo, rischia di mostrarne le crepe irreversibili. Dove sta la crisi del valore della laicità?

Molto dipende dal modo in cui la parola «laicità» viene usata _ non a caso in tedesco e in inglese si usa piuttosto il termine «secolarizzazione», che ha un significato diverso. E' noto che lo stato moderno ha costruito la sua egemonia vincendo sulle guerre di religione, imponendo una identità civile e laica su appartenenze e comunità religiose che venivano soppresse o quantomeno relativizzate e relegate nella sfera privata. La costruzione politica dello stato nazionale implica questa svalorizzazione delle identità religiose. Ma quello che viene fuori oggi, con i processi di transnazionalizzazione, è che il rapporto fra religione e politica non è risolto una volta per tutte: l'epoca delle identità religiose non è finita, mente la crisi delle identità nazionali è già cominciata. Non è vero che il teologico-politico appartiene al passato, come afferma la visione lineare della storia e della secolarizzazione, da Weber a Durkheim.

«Laicità» è una parola controversa. Ma anche la religione, di questi tempi, non si sa più bene che cosa sia. E' una dimensione soggettiva o un fatto pubblico? Attiene alla coscienza individuale o alla comunità?

La separazione fra individuo e stato, privato e pubblico, presuppone che la religione sia una questione personale, una pratica dell'intimità e della coscienza soggettiva, e dunque che proibendone le manifestazioni esteriori non la si ostacola ma la si riporta alla sua forma più autentica. Ma questa concezione della religione appartiene alla tradizione cristiana, non a quella islamica né a quella ebraica, le quali hanno tutt'altro concetto della reazione fra pubblico e privato e ritengono che il compito essenziale della religiosità stia precisamente nella costruzione della comunità e di un ambiente morale. Capisci bene dunque che tutta questa discussione sul divieto di «ostentare» i simboli religiosi è viziata in partenza da una serie di giudizi e pregiudizi che legano laicità dello stato e tradizione cristiana. «Pregate nel segreto del cuore e sarete così buoni cristiani e insieme buoni cittadini», predica lo Stato laico; ma questa idea non può essere condivisa da islamici ed ebrei. Del resto in Francia, da Napoleone a De Gaulle, quello che ha vinto non è una laicità ideale, bensì un compromesso politico fra stato e chiesa cattolica. Il cattolicesimo in Francia è largamente dominante e gode di molti privilegi. Mentre l'Islam rimane una religione discriminata: formalmente i mussulmani godono di tutti i diritti, di fatto la Francia è piena di chiese ma costruire una moschea è difficilissimo. La cosiddetta laicità è la religione civile dello stato francese che maschera riflessi patriottici, nazionalisti e postcoloniali.

A questo proposito: si può ipotizzare una sorta di parallelismo fra l'uso che Bush ha fatto dopo l'11 settembre della parola d'ordine della libertà e l'uso che Chirac ha fatto della laicità con la legge sul velo? Come fossero due armi del rigurgito nazionalista occidentale, nelle due diverse versioni americana e francese, che a loro volta si combattono fra loro?

Di sicuro questo parallelismo l'ha ravvisato Bin Laden, che ha messo la legge francese sul velo sullo stesso piano dell'invasione americana dell'Iraq. Ed è vero anche che Bush, anzi tutti gli Stati uniti, da Bush ai queer californiani, hanno attaccato la legge, in nome del principio liberale della libertà d'espressione _ una occasione meravigliosa di rivincita del nazionalismo americano su quello francese. E del modello multiculturale americano sul modello assimilativo e integrazionista francese.

Senonché la globalizzazione ha messo in crisi tutti e due questi modelli, ovvero i due modi di coniugare identità nazionale e differenze di là e di qua dall'Atlantico.

Infatti. Il modello multiculturale americano finisce col costruire società fatte di comunità chiuse e incomunicanti. Il modello integrazionista francese non funziona più, perché i popoli ex-coloniali non si lasciano assimilare come gli italiani o i polacchi in passato. E il problema non riguarda solo la Francia, riguarda tutta l'Europa.

Secondo te qual è la posta in gioco vera della legge contro il velo, la laicità dello stato o la libertà femminile? O tutt'e due insieme, e legate in che modo?

Tutt'e due, ma tutt'e due mal tematizzate. Non sono d'accordo con chi riduce il dibattito su questa legge a un referendum, pro o contro la laicità. Chi, come me, ha criticato la legge non intende attaccare il principio della laicità, ma adattarlo alle condizioni attuali della Francia e dell'Europa. E nelle attuali condizioni della Francia e dell'Europa, francamente non vedo contraddizione fra il nocciolo della laicità dell'insegnamento scolastico e la possibilità di entrare in una scuola con il velo o con un altro segno di appartenenza. E penso che il divieto avrà conseguenze più negative dell'autorizzazione.

Quanto alla libertà femminile, è la cartina di tornasole della complessità di tutta la questione, e di come essa ci costringa a smarcarci continuamente dagli schieramenti in campo. Esempio: c'è chi contesta la legge sul velo in nome della lotta anticoloniale e pensa che quest'ultima «converga» spontaneamente con la lotta per l'emancipazione femminile. Cosa sulla quale, ovviamente, non sono affatto d'accordo: fra queste due rivendicazioni di emancipazione - quella che combatte il razzismo culturale e l'egemonismo delle vecchie nazioni coloniali, e quella che lotta contro la soggezione delle donne nei popoli colonizzati - c'è una contraddizione drammatica, che dobbiamo saper guardare in faccia. Non possiamo credere a nessuno dei due discorsi simmetrici che vorrebbero cancellarla: né a quello che accomuna la «lotta delle donne» e «la lotta dei popoli oppressi» e dei gruppi etnico-religioso minoritari, né a quello che presenta le istituzioni e i valori dell'«Occidente» come modello e veicolo di emancipazione delle donne in tutto il mondo, e in particolare nel mondo mussulmano: anche l'Occidente ha sviluppato forme massicce di assoggettamento femminile.

Personalmente sono del tutto d'accordo con te. Non tutto il femminismo però la pensa così. Molte femministe, in Francia specialmente, difendono la legge sulla laicità, contro l'obbligo di portare il velo che il patriarcato islamico impone alle donne, adottando per le donne non occidentali una fede cieca in quegli stessi diritti occidentali di cui per noi stesse, all'interno delle nostre democrazie, abbiamo contestato limiti e finzioni. E offrendo alle donne islamiche quella tutela statale che abbiamo rifiutato per noi...

E' la tragedia delle donne islamiche, che si trovano per un verso a essere vittime del marchio patriarcale della loro cultura, per l'altro verso a essere stigmatizzate come «le altre» dalle donne occidentali. Sia chiaro: io penso che l'accesso a diritti universali sia necessario per aprire a queste donne la possibilità di sottrarsi ai vincoli oppressivi delle comunità d'origine. Quello che rimprovero al laicismo nazionalista francese è di trasformare questa possibilità in una lotta di potere fra uomini islamici da una parte e uomini (e donne falliche) occidentali dall'altra, di cui le islamiche sono la posta in gioco passiva. L'interdizione dell'uso del velo può cadere su di loro come un'imposizione dall'alto uguale e contraria ai comandamenti patriarcali della loro cultura. Le motivazioni di quelle che sono favorevoli a portare il velo sono molto diversificate: vanno dalla sottomissione alle pressioni familiari a forme personali di ricerca femminista volte a esprimere la «doppia differenza» islamica e femminile, all'adesione all'islamismo militante. Bisognerebbe garantire a queste donne di studiare nella scuola pubblica francese facendo le loro esperienze di conflitto fra l'appartenenza alla comunità di origine e i valori repubblicani francesi, e trovando da sé le giuste mediazioni.

Le donne tutte, islamiche e occidentali, rischiano ogni giorno di diventare la posta in gioco della «guerra al terrorismo», che è stata legittimata fin dall'inizio come guerra contro il burka, contro il patriarcato islamico, per l'estensione alle «altre» dei diritti di cui godiamo noi occidentali. Senonché l'emancipazione e la parità che vorremmo esportare genera anche mostri, come lo scenario di guerra dimostra: penso alle torturatrici di Abu Ghraib. Mi pare che l'attenzione a come si ridisloca il conflitto fra i sessi sia una chiave importante per capire le dinamiche di questa guerra.

Questo è vero per tutte le guerre, ma oggi, hai ragione, c'è qualcosa di più profondo in gioco. Tutte le guerre della storia hanno avuto come bersaglio simbolico le donne: la guerra si fa tra uomini, le nazioni sono male-nations, e questo mette in partenza le donne nella posizione di cittadine di secondo rango. Anche il razzismo è marcato dal sesso, la comunità razzista è una comunità maschile, perché il razzismo è lotta per la genealogia e dunque per il controllo delle donne, che della genealogia sono le portatrici. Senonché oggi questo dispositivo è entrato in crisi in tutto il mondo: il controllo collettivo maschile sulle donne non è più possibile.

Infatti, è la libertà femminile che ha rotto il dispositivo. Ma la libertà femminile produce anche - e sanamente - divisioni fra le donne: per resatre all'occidente, ci sono donne che scelgono percorsi di autonomia, e donne che «si arruolano», alla lettera, nell'esercito dei diritti universali...

Perché è in corso, come insegna Gayatri Spivak, una sorta di appropriazione simbolica delle donne da parte dell'egemonismo occidentale camuffato di universalismo: l'estrema forma di appropriazione dell'universalismo da parte di interessi particolari di classe, di sesso, di potere. Una posizione molto difficile per le stesse donne. Prendi un'afghana che lotta per il suo diritto di studiare, di parlare, di lavorare, e a un certo punto diventa oggetto di un discorso di conquista occidentale che pretende di rappresentare i suoi interessi: si ritrova in un double bind insostenibile.

Perciò io penso che politicamente l'unica strada percorribile sia quella della costruzione di solide relazioni fra donne occidentali libere dai diktat dell'emancipazionismo universalistico e donne islamiche libere dai vincoli del comunitarismo.

Io penso piuttosto che l'universalismo bisogna ricostruirlo, liberandolo dall'eurocentrismo, dal monoteismo, dalla ripetizione del discorso tradizionale dei diritti, e rilanciandolo nel senso dell'incontro fra i movimenti di libertà del mondo di oggi e di domani. Un universalismo programmatico invece che dogmatico. Non che sia facile, ma forse potrebbe essere questo il compito di una nuova istituzione mondiale: un compito di traduzione, messa a confronto e arbitraggio, fra domande eterogenee.

Onorevole Presidente, Le trasmetto il messaggio con il quale chiedo alle Camere una nuova deliberazione, ai sensi dell' articolo 74, primo comma, della Costituzione, sulla legge: Delega al Governo per la riforma dell' ordinamento giudiziario di cui al regio decreto 30 gennaio 1941, n.12, per il decentramento del Ministero della giustizia, per la modifica della disciplina concernente il Consiglio di presidenza della Corte dei conti e il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, nonchè per l' emanazione di un testo unico«, approvata dal Senato della Repubblica il 21 gennaio 2004, modificata dalla Camera dei Deputati il 30 giugno 2004, nuovamente modificata dal Senato della Repubblica il 10 novembre 2004 e approvata in via definitiva dalla Camera dei Deputati il 1 dicembre 2004. Voglia gradire, Onorevole Presidente, i sensi della mia più alta considerazione.

Cio premesso, espongo qui di seguito quanto da me rilevato. 1. L' articolo 2, comma 31, lettera a), così recita: «(Relazioni sull' amministrazione della giustizia). 1. Entro il ventesimo giorno dalla data di inizio di ciascun ano giudiziario, il Ministro della giustizia rende comunicazioni alle Camere sull' amministrazione della giustizia nel precedente anno e sulle linee di politica giudiziaria per l' anno in

corso...».

Questa norma, laddove prevede che le comunicazioni del Ministro della giustizia alle Camere comprendono le «linee di politica giudiziaria per l' anno in corso», si pone in evidente contrasto con le seguenti disposizioni costituzionali: con l' articolo 101, in base al quale i giudici «sono soggetti soltanto alla legge»; con l' articolo 104, secondo cui la magistratura «costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»; con l' articolo 110, che, nel definire le attribuzioni del Ministro della giustizia, le limita - «ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura» - alla «organizzazione» e al «funzionamento dei servizi relativi alla giustizia».

La norma approvata dalle Camere configura un potere di indirizzo in capo al Ministro della giustizia, che non trova cittadinanza nel titolo IV della Costituzione, in base al quale l' esercizio autonomo e indipendente della funzione giudiziaria è pienamente tutelato, sia nei confronti del potere esecutivo, sia rispetto alle attribuzioni dello stesso Consiglio superiore della magistratura.

Aggiungo che l' indicazione di obiettivi primari che l' attività giudiziaria dovrebbe perseguire nel corso dell' anno («linee di politica giudiziaria») determina di per sè la violazione anche dell' articolo 112 della Costituzione, in base al quale «il pubblico ministero ha l' obbligo di esercitare l' azione penale»; il carattere assolutamente generico della formulazione della norma in esame crea uno spazio di discrezionalità politica destinato ad incidere sulla giurisdizione.

2. Strettamente connessa a quella appena esaminata è la questione posta dal criterio direttivo della delega indicato dall' articolo 2, comma 14, lettera c); «istituzione presso ogni direzione generale regionale o interregionale dell' organizzazione giudiziaria dell' ufficio per il monitoraggio dell' esito dei procedimenti, in tutte le fasi o gradi del giudizio, al fine di verificare l' eventuale sussistenza di rilevanti livelli di infondatezza giudiziariamente accertata della pretesa punitiva manifestata con l' esercizio dell' azione penale o con mezzi di impugnazione ovvero di annullamento di sentenze per carenze o distorsioni della motivazione, ovvero di altre situazioni inequivocabilmente rivelatrici di carenze professionali».

Anche questa disposizione si pone in palese contrasto con gli articoli 101, 104 e 110 della Costituzione. Infatti, se si considera la finalità espressamente indicata dalla norma, risulta evidente che il monitoraggio dell' esito dei procedimenti - fase per fase, grado per grado - affidato a strutture del Ministero della giustizia, esula dalla «organizzazione» e dal «funzionamento dei servizi relativi alla giustizia», che costituiscono il contenuto e il limite costituzionale delle competenze del Ministro.

Inoltre, da questa forma di monitoraggio, avente ad oggetto il contenuto dei provvedimenti giudiziari, deriva un grave condizionamento dei magistrati nell' esercizio delle loro funzioni; in particolare, il riferimento alla possibilità di verificare livelli di infondatezza «della pretesa punitiva manifestata con l' esercizio dell' azione penale» integra una ulteriore violazione del citato articolo 112 della Costituzione.

L' assegnazione da parte del Consiglio superiore della magistratura deve avvenire «secondo l' ordine di graduatoria di cui rispettivamente al concorso per titoli ed esami, scritti ed orali, o al concorso per soli titoli, salvo che vi ostino specifiche e determinate ragioni delle quali deve fornire dettagliata motivazione e, a parità di graduatoria, secondo l' anzianità di servizio» (articolo 2, comma 1, lettera l) numero 3.5). Nello stesso senso recitano le disposizioni contenute nei numeri 4,5, 7.5 e 9.5 della lettera l) e, per le funzioni semidirettive, nel numero 2 della lettera m).

Il sistema sopra delineato sottopone sostanzialmente il Consiglio superiore della magistratura a un regime di vincolo che ne riduce notevolmente i poteri definiti nel citato articolo 105 della Costituzione. L' invasione della sfera di competenza riservata al Consiglio è particolarmente evidente nell' ipotesi in cui i candidati siano stati esclusi nell' ambito delle predette procedure. Infatti, allorchè manchino il favorevole giudizio conseguito presso la Scuola superiore o la positiva valutazione nel concorso da parte della commissione, il Consiglio non può neppure prendere in considerazione la posizione del

candidato escluso.

Per i motivi di palese incostituzionalità innanzi illustrati, chiedo alle Camere - a norma dell' articolo 74, primo comma, della Costituzione - una nuova deliberazione in ordine alla legge a me trasmessa il 3 dicembre 2004.

Con l' occasione ritengo opportuno rilevare quanto l' analisi del testo sia resa difficile da fatto che le disposizioni in esso contenute sono condensate in due soli articoli, il secondo dei quali consta di 49 comuni ed occupa 38 delle 40 pagine di cui si compone il messaggio legislativo.

A tale proposito, ritengo che questa possa essere la sede propria per richiamare l' attenzione del Parlamento su un modo di legiferare - invalso da tempo - che non appare coerente con la ratio delle norme costituzionali che disciplinano il procedimento legislativo e, segnatamente, con l' articolo 72 della Costituzione, secondo cui ogni legge deve essere approvata «articolo per articolo e con una votazione finale».

«Quando si deve parlare di scuola», dice Tullio De Mauro a un certo punto del suo libro-intervista intitolato La cultura degli italiani, che uscirà a giorni da Laterza a cura di Francesco Erbani (pagg. 244, euro 10), «i leader politici spariscono tutti. Hanno sempre cose più urgenti da fare». E´ una sorta di epigrafe per un libro duro, polemico, tagliente. L´intervistato, che è il massimo linguista italiano ed è stato ministro della Pubblica Istruzione nel governo presieduto da Giuliano Amato, sfoga qui le amarezze e i furori accumulati durante quell´esperienza. Dalla quale uscì rafforzato nella sua diagnosi sulla inadeguatezza dell´intera classe dirigente italiana di fronte ai problemi dell´Istruzione. Perché la sua denunzia risulti più efficace, l´autore si sveste dei panni accademici. Gli accenni - che pure nel libro non mancano - alla sua ricca biografia intellettuale sono intesi in funzione di questa requisitoria in difesa della scuola. E lì sfocia anche la sua specializzazione di studioso: non è possibile parlare della lingua, di quella italiana in specie, se non partendo dalla scuola, dove essa si impara (o dovrebbe impararsi).

L´istruzione pubblica riflette il livello culturale d´un paese: nel nostro, è lo specchio fedele di una grave minorità rispetto al resto dell´Europa. E i dati che De Mauro esibisce sono perentori. Da noi, gli analfabeti completi sono più di due milioni, ma ad essi vanno aggiunti quasi quindici milioni di semianalfabeti. Altri quindici milioni di cittadini rischiano di diventarlo. E´ vero che, mentre negli anni Cinquanta le persone che non avevano completato la scuola elementare erano il 59 per cento, oggi sono percentualmente il 6. Ma è una consolazione illusoria, perché le competenze acquisite fra i banchi, se non vengono esercitate, regrediscono in una misura pari a cinque anni di scuola. «A un paleo-analfabetismo, eredità del passato», dice De Mauro, «si è cumulato un neo-analfabetismo fisiologico nei paesi industriali e di alto livello consumistico».

I confronti sono presto fatti. In Italia possiede il diploma di scuola superiore il 42 per cento della popolazione adulta di fronte a una media europea del 59 per cento. Solo il 9 per cento degli italiani adulti possiede una laurea, di fronte a una media europea del 21 per cento. Da un´indagine che un istituto specializzato, il Cede, ha condotto presso un campione della popolazione risulta che il 5 per cento dei nostri connazionali adulti non sa leggere il primo e più semplice dei questionari che gli vengono proposti. Il testo, per la precisione, consta di tre parole, tipo «il gatto miagola». Ma c´è ancora un 33 per cento che arretra di fronte a frasi appena un po´ complicate («il gatto miagola perché vorrebbe il latte»). Come meravigliarsi, allora, che i due terzi della popolazione italiana non leggano mai né un libro né un giornale?

Ecco il terreno sul quale la scuola italiana è chiamata a muoversi, tentando di dissodarlo. Ne ha la forza? Riescono a dargliela le classi dirigenti? Il linguista risponde di no, con veemenza. Sull´attualità, sui guasti provocati dal ministro Letizia Moratti («una persona poco competente in fatto di scuola», la definisce) il suo giudizio è perfino scontato. «Veri e propri errori di grammatica» commette la responsabile di viale Trastevere appena s´intrattiene sulle materie che concernono il suo ministero. Ha parlato ad esempio del «crollo» della nostra scuola elementare, quando è noto e confermato che essa è «una delle più buone del mondo, per giunta in ulteriore miglioramento». La sua mannaia si abbatte su istituzioni create dai governi precedenti, come le direzioni regionali dell´Istruzione. E´ riuscita a peggiorare ancora quell´esame di maturità che già «dal 1970 in poi si era trasformato in una burla». Ha tagliato i finanziamenti alla scuola per l´infanzia e al tempo pieno. Ha ridotto il sostegno ai portatori di handicap. Ha imposto che a tredici anni «ragazzini e ragazzine scelgano il loro "profilo professionale"». Ha sancito la divaricazione fra scuole di serie A e scuole di avviamento alla professione. Ha «ridotto all´asfissia» i centri per l´educazione degli adulti.

Ma non è qui il peggio. La scuola di base e la stessa scuola superiore sono - osserva De Mauro - corpaccioni immani, capaci di sopportare qualche ferita: «due, tre anni della Moratti fanno danno, ma il danno, se non si prolunga oltre, si può riparare». Diverso è il discorso per i centri di ricerca e per le università, organismi assai più delicati, paragonabili a cellule cerebrali della cultura d´un paese. La formazione dell´alta ricerca si gioca in tempi stretti. «Cinque anni di questi ministri di centro-destra annientano due, tre generazioni di ricercatori... Se non riusciamo a liberarcene, i danni per ricerca e università li pagheremo per decenni».

La requisitoria di De Mauro non contempla frontiere politico-parlamentari. Mentre egli loda più volte, come «grande ministro della Pubblica Istruzione», la democristiana Franca Falcucci, e si dice d´accordo con vari provvedimenti scolastici che prese a suo tempo Margaret Thatcher - rivolge alla sinistra impetuosi rimproveri. Ne mette in luce le storture teoriche, facendo risalire per esempio a Giorgio Amendola la convinzione in base alla quale «se i figli degli operai avessero preso tutti il diploma della media superiore e fossero andati all´università, nessuno poi avrebbe fatto l´operaio». Rileva la persistente tendenza a considerare la cultura come «una sovrastruttura di natura intellettuale», estranea alla vita sociale vera. Ricorda come furono faticosi, quarant´anni fa, i tentativi di sensibilizzare il Pci sul tema della scuola media unificata, una vera conquista civile. Durante la sua esperienza, prima come assessore alla Cultura della Regione Lazio e poi come ministro, ha avvertito «vari scricchiolii, che poi sono diventati una voragine» nella sensibilità scolastica degli esponenti del Pci e poi dei Ds sui temi a lui cari (con le eccezioni di Veltroni e di Prodi).

Racconta come siano state fatte deperire, e infine troncate, alcune iniziative importanti, e di sinistra, come la rivista Riforma della scuola e i «Libri di base», la più fortunata collana degli Editori Riuniti. Sostiene che sia Fassino che Rutelli provano imbarazzo quando si parla di scuola, per poca confidenza con il tema. Altri non sono più ferrati in materia ma si mostrano più energici. Quando, a causa di un incidente giornalistico, venne fuori che il ministro De Mauro aveva definito «di fame» gli stipendi degli insegnanti - ma lui assicura di aver usato soltanto l´aggettivo «infami» - ecco insorgere Sergio Cofferati, per il quale il proposito di ritoccare i compensi nel campo della scuola avrebbe innescato «una spirale retributiva nel pubblico impiego». Non sarà stato il caso del segretario della Cgil, ma De Mauro ha notato nella sinistra al governo «una scarsa considerazione», e in qualcuno «persino disprezzo», per gli insegnanti, considerati «ignoranti e pelandroni». (Anche a destra, d´altronde, si lamenta che essi «sono troppi e costano troppo». E´ uno stato d´animo «bipartisan» che l´ex ministro considera ingeneroso).

Per Luigi Berlinguer, che lo precedette come ministro, De Mauro professa rispetto. Considera un «grande progetto» quello che portò il suo nome. Ma anche a lui rivolge delle critiche. La prima è di aver «preso di petto» l´intera architettura dell´istruzione, con il risultato di «coalizzare contro di sé tutte le forze» e di venir isolato anche nel suo partito. La seconda è di non aver discusso la riforma con gli insegnanti, già umiliati dalla «gogna dei quiz» (denominati, al singolare, «il quizzone»), strumento alquanto rudimentale per valutarne il livello culturale e le capacità didattiche.

Con molti universitari suoi colleghi, anche se di sinistra, De Mauro non si mostra tenero. Gli è anzi sembrato, a un certo punto, che l´intera cultura di sinistra prendesse posizione contro la politica del centrosinistra in materia di istruzione. Ci fu una sollevazione in difesa della cultura umanistica, e in particolare del liceo classico, quasi che fosse intenzione del ministero boicottarla e deprimerla. Fra i contestatori annovera gli storici Lucio e Rosario Villari, Girolamo Arnaldi, Giovanni Sabbatucci, Chiara Frugoni, Luciano Canfora, il filologo Cesare Segre, il matematico Lucio Russo, lo storico dell´arte Cesare De Seta. Li elenca con rammarico o con acredine; e se la prende anche con «il club degli opinionisti» che avrebbe spalleggiato la rivolta.

Un complesso di persecuzione? Sembra di ascoltare la risposta di De Mauro: la vera perseguitata è la scuola, questa «tragedia italiana».

Tullio De Mauro, La cultura degli italiani, a cura di Francesco Erbani, Laterza, Bari 2004, € 10

Prefazione

La conversazione che segue verte su un tema: la cultura degli italiani. Ed è motivata da un quesito: l’Italia è culturalmente un paese che vive una condizione di minorità rispetto agli altri paesi che a lei sono più assimilabili per storia, per posizione geografica, per vicende politiche e istituzionali? E’, insomma, l’Italia una nazione culturalmente arretrata? L’interrogativo ha un aspetto immediatamente rudimentale e, nella sua brutalità, induce a risposte secche. Ma un libro è l’antitesi di una risposta secca. Questo libro, un libro-intervista con Tullio De Mauro, nasce dal proposito di fornire una risposta articolata, motivata, argomentata a un interrogativo che, pur nella sua perentorietà, molti si pongono. Molti, ma non moltissimi.

Sul tema dell’arretratezza esiste vasta bibliografia. Cui qui non è neanche il caso di accennare. Frequentemente l’arretratezza di un paese – arretratezza nella sua accezione più generale possibile - si misura con indicatori che riguardano le condizioni economiche della popolazione, dal prodotto interno lordo al tasso di inflazione, dai livelli della produzione industriale a quelli della bilancia commerciale. Tali voci contribuiscono a comporre il benessere, o il malessere, materiale di una comunità.

La conversazione con Tullio De Mauro intende infilare una sonda in un altro settore della vita pubblica di una nazione, di questa nazione. Nella convinzione che gli indicatori del livello di cultura abbiano stretti rapporti con quelli relativi al suo benessere materiale e che, lungi dall’esserne l’automatico e marginale corollario, rappresentino un elemento insostituibile del benessere equilibrato e complessivo di una comunità. E’ stato così anche in Italia? Oppure questo paese, acquisite soddisfacenti forme di benessere materiale, rischia di perderle se ad esse la sua classe dirigente non fa corrispondere un altrettanto soddisfacente attenzione verso i temi della scuola, della formazione, della lettura, della ricerca?

A titolo di pura campionatura si possono citare alcuni dati acquisiti. Rispetto alla media europea l’Italia ha un numero più basso di adulti in possesso di una laurea e di un diploma di scuola secondaria. E fra i laureati scarseggiano quelli in discipline scientifiche. In Italia si leggono, sempre rispetto alla media europea, meno libri e meno giornali. Di molto inferiore è il numero delle biblioteche pubbliche. Destano preoccupazione le rilevazioni sugli indici di analfabetismo. La spesa per la ricerca, in percentuale rispetto al Prodotto interno lordo, è quasi la metà della media europea. Il numero dei ricercatori, sul totale delle persone impiegate, è fra i più bassi d’Europa, e l’età dei ricercatori è fra le più alte.

Tullio De Mauro non ha bisogno di essere presentato. Qui la competenza di linguista, di studioso e di filosofo del linguaggio, si abbina a una particolarità del suo profilo intellettuale che in qualche modo rende la sua una figura a sé sulla scena della cultura italiana. E’ uno dei rari uomini di ricerca e di indagine che non si sia mai stancato di seguire tutto intero il tracciato della produzione e della trasmissione del sapere: dai punti più elevati della riflessione e dello studio fino all’ordinamento delle scuole per l’infanzia. Questa costante attitudine a frequentare i luoghi alti della conoscenza e i temi del sapere diffuso ha fatto sentire il bisogno di abbracciare in una conversazione sulla cultura degli italiani quel profilo intellettuale, il suo stesso profilo intellettuale, quasi fosse l’ossatura di un discorso che altrimenti avrebbe rischiato di perdere la concretezza di una vicenda reale, di una storia personale dentro una storia collettiva sviluppatesi nell’arco di un cinquantennio.

Dal capitolo I. La cultura, le culture

Come prima cosa, per avviare questa conversazione, proviamo a chiarirne l’oggetto. E’ possibile, parlando di una popolazione, definirne la cultura? E, più in dettaglio, è possibile parlare di una cultura degli italiani?

De Mauro Da parecchio tempo cerco di non usare la parola cultura al singolare in riferimento a una popolazione, e specialmente agli italiani. Perché credo che il vocabolo copra una serie di realtà molto diverse. L’uso restrittivo di questa parola è correntemente testimoniato da intere colonne del Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, e arriva, grosso modo, fino al bravo Paolo Villaggio che ha scritto un libretto, Come farsi una cultura mostruosa. In questa accezione restrittiva cultura vuole dire “cultura intellettuale”. Ma ancor più che cultura genericamente intellettuale, nella nostra tradizione italiana cultura vuol dire specificamente “cultura letteraria”. Se si vuole, “letterario-filosofica”, ma io direi piuttosto “letterario-ideologica”.

[...]

Cosa vuol dire dimensione tecnica delle culture intellettuali?

De Mauro L’ingegnere, il medico, ma persino il funzionario di banca o il finanziere, sono anche loro portatori di ciò che secondo me va chiamato cultura. Direi di più. La spinta a grandi elaborazioni intellettuali, anche scientifiche, anche molto astratte, è venuta proprio da tecniche molto prossime all’operatività e alla pratica. Ciò è accaduto dalle scienze mediche all’idraulica, o alla scienza delle costruzioni. Per conto mio questo è evidente e mi pare strano che un fisico come Bernardini, molto attento alla storia delle idee scientifiche, e del come si siano formate, di fronte al valore intrinseco e di promozione conoscitiva delle pratiche ingegneristiche – tanto per fare un esempio - si chiuda a riccio e sostenga solo le virtù della cultura intellettuale e scientifica nelle sue forme più astratte. E invece non ci dovrebbe essere bisogno di ricordare quello che sappiamo dalla storia delle elaborazioni scientifiche, anche le più sofisticate, e cioè quanto agiscano le spinte che vengono dalla pratica addirittura artigianale. Il caso di Galilei è clamoroso: Galilei elabora una prospettiva radicalmente nuova per guardare agli eventi fisici, costruita attraverso la lettura matematica e quantitativa dei fenomeni e la replicabilità delle esperienze, ma muovendo da ciò che osserva nell’Arsenale di Venezia, dove per far navigare una nave era necessario rispettare una serie di procedure pratiche che poi hanno trovato la loro interpretazione organica nella meccanica classica.

E’ quantomeno singolare che lei, di formazione umanistica, debba convincere i suoi colleghi scienziati del valore della pratica.

De Mauro Una volta mi è capitato di parlare nella facoltà di medicina della Sapienza di Roma e di leggere lo stupore dipinto sulla faccia dei colleghi quando ho provato a dire che, non solo nel mondo antico, ma anche nel mondo contemporaneo, le pratiche mediche sono la madre di tutte le scienze, una fonte fondamentale di spinte teoriche. L’hanno scambiata per una forma dipiaggeria nei loro confronti. Ricordo che Marino Raicich, che ha dedicato studi insuperabili a molti aspetti di storia dell’istruzione in Italia, negli ultimi anni di vita diceva di essersi pentito per aver lasciato in ombra la cultura dei manuali Hoepli. Non perché la ritenesse di serie B, mi diceva, ma perché, essendo ritenuta di serie B o di serie C addirittura, anche lui aveva finito con l’occuparsi di latino, di greco, di italiano, di filosofia, di storia del loro insegnamento, lasciando del tutto a margine il ruolo che hanno avuto questi veicoli di cultura tecnica che furono i Manuali. Del resto, se si legge la legge Casati sull’istruzione, che risale al 1859, il disegno è già assolutamente chiaro. C’è una cultura alta, che è quella classico-umanistica, c’è una cultura marginale, quella scientifica, e poi c’è una cultura per vili meccanici, che pure serve per sopravvivere, ed è quella degli studi tecnici.

E questa è rimasta la partizione classica che ha dominato per decenni nel sistema scolastico italiano...

De Mauro ...e che a me pare profondamente sbagliata. Ma questa è solo una parte del dubbio che l’uso della parola cultura provoca se riferito esclusivamente alle forme intellettualmente più elaborate. Io resto affezionato a una definizione larga di quel termine, e più precisamente a quella che forniscono etologi e antropologi.

E quale definizione danno etologi e antropologi?

De Mauro Chiamano, chiamiamo cultura quel complesso di elaborazioni, condizionate dal patrimonio genetico di una specie vivente, ma non dettate da questo, nascenti dal rispondere ai bisogni che quella specie trova sul suo cammino. Trasmissione per imitazione, ricombinazione di elementi già dati, invenzione sono le tre radici della cultura intesa a questo modo. Negli anni Settanta Danilo Mainardi pubblicò un libro di larga divulgazione intitolato provocatoriamente L’animale culturale, in cui analizzava tutti i fenomeni legati alla capacità innovativa di specie viventi, diverse dagli esseri umani. Queste capacità innovative sono originate non da una curiosità intellettuale, ma da un bisogno pratico che stimola la curiosità intellettuale. Ora possediamo una gran quantità di conoscenze sulle capacità culturali di altri esseri viventi diversi dall’uomo, non solo di grandi mammiferi o di scimmie, perfino di specie evolutivamente più lontane da noi, compresi i microrganismi. Capire come funzionano i sistemi simbolici e di accumulo dell’informazione da parte dei virus è un acquisizione di enorme interesse per chi si occupa di semiotica e di teoria della comunicazione allo stato puro, ma queste indagini hanno poi ricadute sull’immunologia e l’immunologia ne ha, a sua volta, sulla nostra vita di esseri umani. Quindi lo sviluppo che ha realizzato quella che chiamiamo zoosemiotica, dagli anni Quaranta e Cinquanta in poi, cioè lo studio delle culture linguistiche, comunicative quanto meno, di altri esseri viventi, è uno studio che risponde continuamente a sollecitazioni molto pratiche, di sopravvivenza o di migliore sopravvivenza.

[...]

E qual è questo dato?

De Mauro In Italia – sono misurazioni del 1999 - ha il diploma appena il 42 per cento della popolazione adulta compresa fra i 25 e i 64 anni. La media europea è del 59 per cento. Francia e Gran Bretagna sono al 62. La Germania è all’81. La Grecia è intorno al 50, l’Irlanda supera il 50. Peggio dell’Italia sono solo Spagna e Portogallo. Vuole anche i dati sui titoli universitari?

Certamente.

De Mauro Solo il 9 per cento degli italiani adulti, fra i 25 e i 64 anni, posseggono una laurea. La media europea è del 21 per cento, quella inglese del 25, quella tedesca del 23, quella francese del 21. Ma mi permetta di insistere con i dati, scavalcando la soglia dei diplomi di scuola secondaria e di università, che sono pur sempre livelli formali di accertamento. In un’indagine condotta dal CEDE è risultato che oggi il 5 per cento della popolazione adulta non riesce nemmeno a leggere il primo e più semplice di cinque questionari (l’indagine era a carattere internazionale e le modalità erano fissate dall’OCSE) ed è quindi da considerarsi radicalmente analfabeta. Al primo dei cinque questionari si ferma il 33 per cento degli italiani adulti e non va oltre: tenga conto che questo primo questionario è composto di frasi assolutamente elementari e di calcoli altrettanto elementari. Un secondo 33 per cento si ferma al questionario successivo.

Può provare a tradurre queste cifre in termini, per così dire, politici e culturali?

De Mauro Intanto traduco in cifre assolute: più di 2 milioni di adulti sono analfabeti completi, quasi quindici milioni sono semianalfabeti, altri quindici milioni sono a rischio di ripiombare in tale condizione e comunque sono ai margini inferiori delle capacità di comprensione e di calcolo necessarie in una società complessa come ormai è la nostra e in una società che voglia non solo dirsi, ma essere democratica.

Qual è il rapporto con gli altri paesi europei?

De Mauro Se in Italia abbiamo un 66 per cento di persone con una insufficiente competenza alfabetica e aritmetica funzionale, in Europa la media supera di poco il 50. La Svezia è al di sotto del 30, mentre Germania e Gran Bretagna sono in linea con la percentuale europea.

Sono dati sconvolgenti. E vorrei aggiungere anche molto poco noti.

De Mauro Queste cifre circolano da tre anni, sono state registrate e poi accantonate. Sui quotidiani se ne è parlato per un giorno e poi basta. Pochi si domandano perché negli altri paesi europei si cerca di innalzare complessivamente un livello di competenze che è già così alto, certamente più alto del nostro. Di fronte a queste cifre mi sembra pericolosa l’obiezione che le citavo prima: ma voi volete che tutti studino? Sciocchezze, insistono, le persone sono diverse, c’è chi vuole studiare e c’è chi vuole dedicarsi alla prassi.

Questa è la politica che ispira la destra oggi al governo in Italia?

De Mauro Le posso dire questo. Un ragionamento del genere di cui parlavamo prima (chi non ha voglia di studiare, mandiamolo a lavorare…) lo ha fatto in campagna elettorale l’attuale vice premier Gianfranco Fini. Io, del tutto in buona fede, credevo che fosse solo una battuta elettorale. L’ho detto e mi sono guadagnato un secchio di insulti da parte di An con un comunicato in cui si diceva che il ministro De Mauro si era “bevuto il cervello”. Effettivamente, se non mi ero bevuto il cervello, certo concedevo troppo a Fini e ad An: era proprio una loro intenzione, maturata e convinta, quella di andare a una spaccatura, a una rinnovata spaccatura, tra licei e scuole di serie B. Questa spaccatura ha trovato una giustificazione ideologica – non voglio dire teorica – in uno dei consulenti del ministro Moratti, Giuseppe Bertagna, il quale dice: ci devono essere – nella secondaria superiore – le scuole della teoria - che il professor Bertagna scrive col ‘th’ – e le scuole della praxis – con la ‘x’. Insomma, non dice “vili meccanici”, ma il senso è quello. Bertagna, però, può sostenere impunemente – mi si passi l’espressione – una cosa del genere, anche perché in luoghi insospettati della nostra cultura intellettuale c’è la convinzione che ci sia una scissione tra l’elaborazione teorica pura e la vile pratica. Per carità,sarei un mascalzone se dicessi che Carlo Bernardini è un alleato di Bertagna. Bernardini avrebbe diritto di trascinarmi in tribunale e farmi condannare. Però l’idea che la scissione c’è è un’idea che alcuni di noi, altamente formati e con cultura intellettuale sofisticata, professano e cioè che da una parte ci sono i vili ingegneri, i medici, questa gente così praticona, e dall’altra gli scienziati puri, e al sommo i purissimi letterati. Questa idea purtroppo gioca a favore di turpi sciocchezze. Cosa deve fare un ragazzino di 12-13 anni, messo di fronte alla scelta fra la theoria e la praxis? Cosa deve dire un ragazzino che viene da una famiglia con pochi libri, nessun giornale e in cui la theoria naviga, se naviga, solo attraverso la tv (italiana) e, se c'è, la capacità di uso di Internet? Questo ragazzino sceglie automaticamente la praxis, che gli dà la sensazione di poter spendere, dopo qualche anno, ciò a cui si è formato nel mercato del lavoro. E questo sappiamo che è falso, perché l’evoluzione produttiva è troppo rapida per sperare che ciò che si impara in una scuola di formazione professionale si possa riutilizzare a 10 anni di distanza. Del resto questo vale anche per le forme del sapere puro, oltre che del sapere pratico. E allora, Fini e An avevano ragione nel dirmi che io capivo male e che era proprio un loro obiettivo ripristinare, complice Bertagna, questa disastrosa scissione.

Tutto questo è sintomo di una arretratezza culturale?

De Mauro Sì, e anche di una arretratezza informativa. E’ sintomo ulteriore di una frantumazione tra chi possiede alcuni strumenti di accesso alla cultura intellettuale, all’informazione e il resto della popolazione italiana. Uno dei problemi è, purtroppo, che autorevoli commentatori, come Angelo Panebianco o Mario Pirani, che posseggono tutti gli strumenti intellettuali, non comprendono il danno di una persistente divaricazione di competenze, il danno di una classe dirigente che sa parlare ma non ha nessuna esperienza del saper fare, e il danno di un’enorme massa di popolazione che acquisisce un modesto saper fare che varrà – se vale – per pochi anni, ma non ha poi gli strumenti per riorganizzarsi mentalmente e passare, quando diventa necessario, ad altre tecnologie. Questo è un danno spaventoso per tutti. Questo sistema mortifica – per riprendere le polarizzazioni di don Milani – non solo Gianni, ma anche Pierino.

In che cosa consiste concretamente questo danno?

De Mauro Intanto una classe dirigente che sa parlare, ma non sa fare è lontana dai bisogni minimi di sopravvivenza propria e della popolazione. E’ una classe dirigente che o non decide o decide in modo imbonitorio, solo per durare. E quindi non governa. E tutto il resto del paese è condannato a quello che Carlo Bernardini chiama giustamente “l’inverno culturale”, a vivere, cioè, nella nebbia mentre il mondo è diventato troppo complicato perché ci si possa orientare con i piccoli gruzzoli di sapere personale e privato.

La Francia di Chirac, avamposto europeo del no antiamericano alla guerra in Iraq, si iscrive al fronte della fermezza e mette a rischio la vita dei suoi due giornalisti ostaggi dei terroristi iracheni in nome di una legge votata dal suo parlamento e tuttavia controversa, contrastata, sbagliata. Una legge che antepone il valore occidentale della laicità al valore occidentale della tolleranza. Che fa dell'integrazione universalistica modello francese un feticcio da agitare, prima che contro l'integralismo islamico, contro il multiculturalismo anglosassone e americano. Che simbolicamente riconsegna la libertà femminile, delle donne islamiche ma anche di quelle occidentali, allo scambio fra uomini, infilandola nella tenaglia fra l'oppressione del patriarcato fondamentalista islamico e la tutela del paternalismo statale democratico. Non era stato solo l'ideologo di Al Queda ad attaccare la legge che vieta l'esibizione del velo, della croce e della kippah nelle scuole: erano stati - lo documenta il lungo dibattito svoltosi lo scorso inverno su Le Monde e altrove - molti e molte intellettuali francesi ed europei, consapevoli della sua impronta illiberale nonché dell'evidente rischio in essa implicito di suonare come una provocazione agli occhi di più di un settore del mondo islamico e delle sue comunità sparse in occidente. Lo scontro di civiltà si fa e si fomenta in due, o non si fa e non si fomenta. Di fronte al nuovo, atroce ricatto del gruppo terrorista iracheno, che non ha tenuto conto ieri degli intenti pacifisti di Enzo Baldoni e non tiene conto oggi dell'appartenenza a un governo no-war di Cristian Chesnot e Georges Malbrunot, non c'è oggi opinionista che non sottolinei il salto di strategia del terrorismo islamico, insensibile ai distinguo politici, radicalmente antioccidentale, globale nel raggio dell'azione anche se tradizionalista nelle rivendicazioni. Ma pochissimi, ancora oggi come dopo l'11 settembre, rilevano quanto sia incongruo e sbagliato, inefficace e autolesivo rispondere a questa scala del problema innalzando barriere veteronazionaliste. La bandiera a stelle e strisce e l'esercito nell'America pro-war di Bush, la grandeur repubblicana nella Francia no-war di Chirac. Non funziona. Nel mondo globale che mette le civiltà a contatto, e che sradica e mescola le identità fino a provocare i tragici crampi identitari e integralisti del nuovo terrorismo, l'occidente non ha scelta: o contamina i suoi valori o li perde. O cede al contatto, o viene preso nello scontro. O si apre o regredisce: con le guerre, e con le leggi.

Fa parte di questa regressione, parte attiva, l'uso delle donne come bandiera, posta in gioco e trofeo, da una parte quanto dall'altra delle civiltà in guerra. Dall'Iran di Komeini all'Algeria all'Iraq, ci indottrina André Gluksmann e altri non mancheranno, il fondo roccioso dei fondamentalismi è sempre lo stesso, l'inferiorizzazione, la lapidazione, il massacro delle donne. Lo sappiamo e lo combattiamo non da oggi, facendo leva, a differenza di Gluksmann e compari, sui movimenti di libertà femminile che abitano anche le società islamiche e non solo le nostre. Ma assieme a quelle donne islamiche, velate e non, che intimano ai terroristi di non imbrattare quel velo di sangue, noi diciamo agli uomini e ai governi occidentali di non imbrattare di sangue la laicità, i diritti e quant'altro della sua contraddittoria storia (e nessuno quanto noi donne sa quanto sia contraddittoria) l'occidente usa oggi come arma contundente contro quanti e quante non vogliono farsi assimilare alle sue misure. Non è in nostro nome che il gioco al massacro dello scontro di civiltà può continuare.

Doppio bicentenario, quest’anno, per Napoleone. Il 21 marzo 1804 veniva promulgato il Codice civile che porta il suo nome, e il 2 dicembre dello stesso anno veniva celebrato a Notre Dame «le Sacre de l’Empereur», la sua Incoronazione. All’immagine di Napoleone legislatore moderno che, nelle stanze del Consiglio di Stato, presiede più della metà delle sedute durante le quali il codice viene elaborato e dove, pur senza abbandonare mai l’autorità del Primo Console, si rivolge ai presenti ancora con l’appellativo rivoluzionario di «cittadino», si accompagna così una rappresentazione che, tramandata dai quadri di David e Ingres, lo vede adorno degli antichi segni del potere - corona, scettro, ermellino.

Mai, però, Napoleone volle che altre immagini offuscassero quella di legislatore, alla cui costruzione, anzi, si dedicò sempre con convinzione. Nel suo racconto dei tempi di prigionia a Sant’Elena, Charles de Montholon riferisce come Napoleone gli confidasse d’essere sicuro che la sconfitta di Waterloo avrebbe cancellato il ricordo delle sue quaranta vittorie, aggiungendo tuttavia che «ce que rien n’effacera, ce qui vivra éternellement, c’est mon Code civil». Non è, questo, il solo momento di una identificazione quasi fisica di Napoleone con il codice, come dimostra l’uso costante del possessivo «mio» tutte le volte che si riferisce a quel testo. «Mon code est perdu», avrebbe esclamato apprendendo che cominciavano ad apparire i commenti e le interpretazioni che ad esso dedicavano i giuristi. E, sempre a Sant’Elena, si domandava con qualche amarezza, e con una linguaggio doppiamente possessivo, «pourquoi mon Code Napoléon n’eut-il servi de base à un Code européen?».

Ci si è chiesti se davvero Napoleone possa essere ritenuto, come egli voleva, l’autore di quel codice e, per dare una risposta, si sono seguite le più diverse piste: quale fu il suo contributo effettivo nelle discussioni al Consiglio di Stato? quali tracce il codice portava della legislazione rivoluzionaria e delle molteplici altre tradizioni culturali che in esso affiorano? e chi, di questa impresa, fu l’effettivo motore? dove finisce il lavoro collettivo, l’ « oeuvre à tous», e si svela un apporto personale? Anche se diverse ricerche confermano il ruolo di Napoleone nel definire le grandi linee della codificazione, non v’è bisogno di filologia giuridica per rendersi conto del fatto che l’approdo a un testo fondamentale dei tempi moderni è stato reso possibile «dall’incontro tra un uomo ed una situazione», da un’intuizione e da una iniziativa politica che hanno permesso di eliminare, anche in modo autoritario, le ultime resistenze e di uscire così da una situazione di stallo, dall’«impossibile code civil» dei tempi post-rivoluzionari, così definito da uno storico fine come Jean-Louis Halpérin.

Il Code civil come opera politica, dunque, che lo trascina al di là della pur rilevantissima dimensione tecnica e gli consente di «dare il tono ad un’epoca nuova», caso unico nella pur ricca vicenda delle codificazioni moderne, come ha messo in evidenza un grande storico del pensiero giuridico, Franz Wieacker. Così lo percepirono i contemporanei, e non solo politici e giuristi, tanto che Heinrich von Kleist interruppe il lavoro letterario per intraprenderne una traduzione e, più tardi, Stendhal lo additava come inarrivabile lezione di stile. Peraltro, proprio perché accompagnato da un segno politico così forte, il Code fu oggetto delle ripulse e delle polemiche aspre che accompagnarono il disegno e l’azione di Napoleone.

Ma non è soltanto intorno all’immagine napoleonica che dev’essere sviluppata l’analisi del Code civil. «Ecco in mano mia il Codice civile. Non è per nulla il prodotto della società borghese. E’ piuttosto la società borghese, nata nel XVII secolo e sviluppatasi nel XIX, che semplicemente trova nel Codice una forma giuridica»: così Karl Marx nel 1849. E Antonio Labriola incalza: «Il novello stato, che ebbe bisogno del 18 brumaio per diventare una ordinata burocrazia poggiata sul militarismo vittorioso, questo stato che completava la rivoluzione nell’atto che la negava, non potea fare a meno del suo testo, e l’ebbe nel Codice civile, che è il libro d’oro della società che produca e venda merci». Questa critica, che ha le sue radici nella Congiura degli Eguali e nel socialismo, ci porta così al tema del soggetto storico di quella codificazione, la borghesia.

Esponendo i motivi della codificazione, il maggiore tra i suoi artefici, Jean-Etienne-Marie Portalis, scrive: «al cittadino appartiene la proprietà, al sovrano l’impero». Ecco indicati, con ammirevole semplicità, il senso e la portata dell’operazione politica realizzata attraverso il Code, individualista e patrimonialista.

La proprietà dà il tono al codice. Lo aveva già detto con assoluta chiarezza Cambacérès, scrivendo che «la legislazione civile regola i rapporti individuali e attribuisce a ciascuno i suoi diritti in relazione alla proprietà». Lo sapeva bene Napoleone che, nel suo proclama del 18 brumaio, si presentava appunto come il difensore di «libertà, eguaglianza e proprietà», reinterpretando, attraverso la cancellazione della fraternità, la triade rivoluzionaria.

Peraltro la liberazione della proprietà dai pesi feudali, e la sua libera circolazione, erano alla base della stessa Rivoluzione.

Proprietà e contratto definiscono così non solo lo statuto della borghesia vittoriosa, ma l’intera trama delle relazioni tra i cittadini. Il Code s’insedia come «una massa di granito» nella società, si presenta come il piano dei rapporti sociali, diventa «la costituzione civile dei francesi». Flaubert, processato per Madame Bovary, vuole ottenere legittimazione sociale davanti al tribunale e si dichiara «proprietario». Il culmine dell’ascesa sociale della Nana di Zola si realizza quando finalmente può esclamare «Sono proprietaria».

Questa, peraltro, è l’indicazione che viene dalla formula di Portalis, dove la proprietà, presentandosi come un assoluto, costituisce un limite al potere stesso del sovrano. Nasce da qui una vicenda che accompagnerà i codici civili fino al Novecento, attribuendo ad essi un sostanziale valore costituzionale di fronte alle costituzioni in senso proprio, il cui contenuto riguardava i soli rapporti politici. Questo valore costituzionale dei codici civili scomparirà quando, a partire dalla «lunga» Costituzione di Weimar del 1919, i principi della legislazione civile verranno trasferiti nei testi costituzionali e sotto l’impulso di un nuovo soggetto storico, la classe operaia, faranno penetrare l’idea sociale nella cittadella proprietaria.

Ma il Code, come modello, è anche strumento di unificazione politica e di identificazione sociale. E’ il codice della doppia secolarizzazione, nei confronti della Chiesa e dell’Ancien Régime.

E farà dire a Tocqueville che «le torrent démocratique a débordé sur les lois civiles», sia pure nella misura che, storicamente, Napoleone riteneva compatibile con il suo potere.

A quel modello possiamo riferirci oggi, soprattutto nella prospettiva di un codice europeo? No, se si considera che la «costituzionalizzazione della persona» rende improponibile una logica tutta patrimonialista; che l’idea di una inscalfibile massa di granito contrasta con i bisogni di una società che, segnata da una innovazione continua, richiede anche una legislazione per principi, omeostatica, capace di adeguarsi al mutamento; che i valori costituzionali sono nelle costituzioni e nelle carte dei diritti, e ad essi i codici civili devono essere coerenti, avendo perduto l’autoreferenzialità. Sì, se pensiamo alle possibilità di unificazione e razionalizzazione degli strumenti giuridici; all’effetto di trasparenza e di democratizzazione di regole comuni dei rapporti personali e sociali non affidate soltanto alle logiche di mercato o all’azione, non sempre controllabile, di tecnocrazie nazionali o sopranazionali. Di nuovo, il codice come impresa politica, non come operazione tecnica.

Ma, quale che possa essere il destino di un codice, dubito che uno scrittore del futuro potrà piegarsi sul suo testo con lo spirito che spingeva Stendhal a scrivere così a Balzac: «en composant la Chartreuse, pour prendre le ton, je lisait de temps en temps quelques pages du Code civil».

«Abbiamo una ricchezza finanziaria e patrimoniale pari a 8 volte il reddito annuale. Se bisogna trovare risorse, perché si deve sempre considerare il reddito corrente, cioè quell'ottavo, e non il resto?». Insomma, una patrimoniale: corollario obbligato al lungo ragionamento sulla necessità di una redistribuzione dei redditi che Guglielmo Epifani viene a fare a Rimini, ospite del meeting di Cl. Il segretario Cgil è accolto cordialmente: da chi c'è, perchè la sala rimane semivuota; strariperà invece nel pomeriggio, ospitando un incontro col cardinale Scola.

TASSE. Di una patrimoniale, dice Epifani, «conosco bene i rischi. Bisogna valutare bene i pro ed i contro, e può darsi che i contro prevalgano. Ma so anche che se colpisco il reddito che si genera anno dopo anno, colpisco lo sviluppo: allargare la platea su cui intervenire mi pare sensato. Del resto Siniscalco ha calcolato il valore del patrimonio pubblico includendovi l'aria e l'acqua. Si può vendere tranquillamente tutto questo e considerare intoccabili i patrimoni accumulati? Oggi per ogni euro invest ito in attività produttive, cento lo sono in attività finanziarie: questa sproporzione è uno dei grandi problemi che frenano lo sviluppo»«. Altra faccia della medaglia: »Negli ultimi quattro anni gli indici di disuguaglianza sono tornati ad aumentare. C' è stata una redistribuzione dei redditi non giusta e non efficiente: questo problema va rimesso al centro delle responsabilità pubbliche. Non condivido una politica di riduzione fiscale che avvantaggi chi ha di più. Una concentrazione esagerata della ric chezza non conviene a nessuno».

AUTUNNO. Quanto caldo sarà? Dice, Epifani: «Al governo chiedo solo di non peggiorare la situazione che c'è, intervenendo su quattro punti». Il primo riguarda i prezzi: «Ci hanno sempre risposto che non è vero che aumentano. Vorrei che cambiassero opinione , e che provassero a tenerli sotto controllo: quel poco che possono fare, lo facciano». Il secondo, è l'equo reperimento di risorse. Il terzo: «Vorrei che facessero qualcosa di utile per le imprese italiane, sostenendo quelle che vogliono investire: il problema non è il profitto, è come viene impiegato». L'ultimo: «Non vengano fatti tagli alle spese sociali fondamentali». Il segretario Cgil aggiunge alcune idee e proposte. Ad esempio, «più che pensare a panieri differenziati, sarebbe più semplice inserire nel paniere universale qualche bene che stranamente non compare, per esempio la casa, le spese per i mutui, le ristrutturazioni. . .». Per raffreddare i prezzi, «sarebbe utile, sul modello francese, una convenzione tra governo e grande distribuzione». Approva, Epifani, la modulazione dell'accisa sulla benzina: «Ma bisognerà eliminare anche l'Iva sull'accisa, una tassa sulla tassa, una cosa assurda, mai vista».

DELOCALIZZAZIONI. «Andrebbero accompagnate da politiche europee, non nazionali; altrimenti avremo solo risposte nazionalistiche, corporative, difensive. Questa Europa è strana: ci sono settori in cui disciplina anche le virgole, altri su cui non c'è nulla . Si arriva al paradosso di imprese che ricevono dall'Europa fondi per investimenti nel proprio paese, e li utilizzano all'estero».

CONTRATTI. Prospettive dopo l'interruzione del rapporto con Confindustria? «La verifica del sistema contrattuale ed un suo riordino non possono prescindere da una posizione unitaria di Cgil-Cisl-Uil: questa è architettura di sistema, bisogna farla in quat tro, non sono possibili architetture separate. Il problema è quando - e se - riusciremo a stabilire una piattaforma comune». Ci sono commissioni da riattivare per avviare il confronto fra i tre sindacati, afferma Epifani: «Se arriviamo ad una mediazione trasparente, se i lavoratori la approvano, potrà iniziare il confronto con Confindustria. Se le opinioni divergenti superano il bisogno di compromesso, continueremo come abbiamo fatto fino ad oggi: ognuno tirerà dalla sua parte». La prospettiva non gli garba: «La cosa peggiore comunque è che neanche si provi a metterci a confronto. Io preferisco un percorso di chiarezza: ognuno dica cosa pensa e perché. Ci vuole uno sforzo non piccolo, ma preferisco affrontare di petto il cuore delle difficoltà piuttosto che far finta di nulla, non mi piace lo sfilacciamento che ne deriverebbe». E come cambierebbe la Cgil il sistema contrattuale? «Il problema più rilevante è il numero di contratti collettivi, oltre 400: bisogna ridurre, accorpare». Poi, il rapporto tra contrattazioni: «Non persuade che per rafforzare il secondo livello si debba indebolire il primo. In Italia la contrattazione aziendale si fa nel 30% delle imprese: se il contratto nazionale è debole, condanniamo la maggioranza dei lavoratori ad una bassa protezione».

Secondo Silvio Berlusconi, gli elettori italiani sono come bambini di seconda media, e per di più non siedono nemmeno nei primi banchi (vale a dire: non sono i primi della classe). Il concetto può apparire cinico e riprovevole, tanto più se ripetuto (il Presidente, circa due anni fa, sostenne che l'elettore medio ha un'età mentale di anni undici), e immagino che la reazione di molti sia lo sdegno. Grave errore, poiché purtroppo il Cavaliere - nell'analisi - ha ragione. Vale la pena chiedersi, però, i motivi di quel dato di fatto; se quel dato di fatto sia negativo, e come lo si possa in questo caso modificare; quali siano le conseguenze che ne trae la sua parte politica, e quali dovrebbero trarne i suoi oppositori.

Cominciamo dall'inizio. Perché l'italiano medio avrebbe un'età meno che adolescenziale? È forse stupido, incolto, babbeo, razzialmente inferiore, nevrotizzato dalle mamme? La risposta è più semplice: gli italiani trascorrono quotidianamente tre ore e quaranta di media dinanzi alla televisione (i bambini fino a cinque), e non hanno altro forte legame sociale col mondo.

Solo che la televisione frammenta per sua natura la società (ti tiene chiuso in casa), e si ripropone come l'unico orizzonte in grado di ricomporla (dice cosa fare, cosa è bene e male, cosa avviene nell'intero pianeta, ma lo spettatore è solo passivo, non può mai dire la sua). Inoltre, la televisione si fonda apparentemente su un gusto “medio” del pubblico, ma in verità lo schiaccia sempre verso il basso: crea insomma una mentalità abbastanza appiattita. Se a tutto questo aggiungiamo che la stampa è ormai in scia del mondo televisivo, che il cinema e la musica operano in chiave televisiva, che lo sport non esiste senza televisione, e che perfino i sogni di carriera dei giovani si modellano sulla tv (fare la velina, partecipare al Grande Fratello), il gioco è fatto.

Il fenomeno è valutabile? O dobbiamo soltanto prenderne atto? Una volta, francamente, le cose non stavano così, anzi esistevano strutture di mediazione capaci di guidare l'interpretazione individuale della realtà, o quanto meno di discuterla (la parrocchia, la casa del popolo, il circolo sportivo e ricreativo, il bar, la sala da gioco, la sala da ballo, l'osteria). Si aveva una maggiore circolazione di idee, anche conflittuali, e la capacità di scelta era più ponderata. Paradossalmente, una società che nel complesso andava meno a scuola aveva più strumenti di confronto della nostra, che distribuisce più titoli di studio. Uno studioso americano, David Putnam, nel libro Bowling Alone, ha esaminato il grado di socializzazione negli Stati Uniti dall'epoca di Kennedy a oggi, e ha calcolato che questa si sia ridotta dell'80%. Si tratta di un fatto grave, perché senza socializzazione non c'è più identità, non c'è più coscienza collettiva, non c'è più cittadinanza, ma solo piccoli interessi individuali. Il fenomeno va dunque fronteggiato e combattuto, offrendo nuove occasioni di incontro e confronto a chi le ha perdute e a chi non le ha mai avute. Ma qui siamo ormai nel bel mezzo della politica, intesa non già come pura amministrazione della cosa pubblica, ma come progetto per la vita quotidiana della comunità.

Veniamo così alle conseguenze sul piano elettorale. Berlusconi riconosce con abilità l'esistenza in Italia di una “società bambina”, e ne ricava una strategia. Questa consiste nel trattare gli elettori come clienti (non a caso ha anche sostenuto che nella cabina, al momento del voto, ci si comporta come al supermercato: ci sono tanti marchi concorrenti, e si sceglie quello più promettente). È il marketing politico più stretto e finalizzato. Si basa sui sondaggi (il calcolo dei desideri che il pubblico-bambino crede di avere) e sulla tecnica della seduzione (io sono ciò che tu stai desiderando). Va da sé che i desideri sono individualisti e non tengono conto di un progetto sociale, e va da sé che proporsi come l'oggetto del desiderio non mette mai in discussione i modi per realizzarlo. Soprattutto, finisce per considerare e far considerare la politica solo come una mera questione di potere, quando invece essa è soprattutto una filosofia della vita, una maniera per immaginare un futuro migliore, persino “educando” la popolazione a praticare una simile ricerca. A quella strategia si può e si deve contrapporre qualcos'altro. Ad esempio, si può tentare la strada della persuasione (ti propongo un progetto che non hai ancora pensato, e ti convinco che è davvero desiderabile). E da lì, quella di suscitare la partecipazione e l'entusiasmo dei cittadini.

Il piccolo problema è che tutto ruota attorno a una parola magica: il progetto. Gli oppositori di Berlusconi dovrebbero smetterla sia di scandalizzarsi per ogni frase del Cavaliere (l'irritualità è una sua precisa tattica proprio per essere seduttivo), sia di inseguirlo sul terreno della pura concorrenza merceologica, dando così ragione all'idea della scheda come scaffale del supermarket. Dovrebbero invece seriamente pensare alla qualità della proposta da offrire ai cittadini. Le tradizioni di pensiero su cui si fonda l'alleanza di centrosinistra sono tutte nobili e importanti, ma hanno storicamente identificato singoli partiti: la loro somma non è automatica, non contrassegna l'intera alleanza, non dà il senso di una precisa organizzazione della vita sociale. E poi, diciamocelo, quelle idee sono datate, e nessuno ha ancora pensato a come ammodernarle, o a come rendere evidente la loro eventuale capacità di interpretare i problemi contemporanei. Se si vuole creare davvero entusiasmo - sentimento che Walter Veltroni ha invocato in modo egregio dalle pagine di “Repubblica” per il centrosinistra - occorre ridefinire quale stile di vita si vuol proporre agli italiani attraverso le leggi e l'amministrazione delle leggi. In caso contrario, resteremo nel supermercato, ma, purtroppo, la capacità della concorrenza di confezionare buoni contenitori per lo scaffale del voto è molto alta (campagne soprattutto televisive, affermazioni populiste, promesse non realizzabili, demolizioni dello stato sociale fatte passare per defiscalizzazioni). Insomma, per tornare alle battute di Berlusconi, proviamo a comunicare con quegli elettori-fanciulli di cui parla, e tentiamo di fornire loro occasioni di crescita. Ricordiamoci che, in fondo, il massimo desiderio di un ragazzo è

La lettera di Ratzinger «sulla collaborazione dell'uomo e della donna» continua a far discutere e divide il mondo laico e il femminismo, come ha documentato di recente Ritanna Armeni sul Magazine del Corsera. E a proposito delle reazioni femministe, ho ricevuto da Patrizia Colosio, curatrice del portale della lista lesbica, una lettera che mi pare interessante riportare. Scrive Colosio: «Ho letto con molto stupore Politica o quasi del 3 agosto di Ida Dominijanni, in particolare là dove parla di «vocazione relazionale della donna» evidenziando la sintonia tra il pensiero di Ratzinger e quello del pensiero della differenza sessuale. Coincidenza che potrebbe suscitare qualche inquietudine e rimandare a quei «regimi di verità che stabiliscono i criteri secondo cui è dato essere, legittimamente, `femminili' o `maschili'». La citazione è tratta dalla recente edizione italiana di GenderTrouble di Judith Butler ( Scambi di genere, Sansoni). Dominijanni spiega che è proprio contro le teorie di Butler che Ratzinger combatte, ovvero contro «la teoria che contesta l'identità compatta del genere femminile per aprire alla soggettività femminile tutto il campo possibile delle scelte sessuali, sociali, politiche discorsive, di pensiero». E, secondo lei, «non diversamente da quanto fa il femminismo italiano della differenza sessuale». Non mi interessano le polemiche, mi spiace però quando anziché rilevare contraddizioni che possono aprire nuove prospettive di confronto e di pensiero si appiattisce il discorso in nome di una presunta omogeneità dei fini. La sovversività del pensiero di Butler sta proprio nel mettere in guardia certo tipo di femminismo dall'idealizzare espressioni del genere che finiscono per produrre a loro volta forme di gerarchia e di esclusione, molto spesso con risvolti omofobici. Già, perchè cosa ne facciamo di quelle donne che non mostrano, ad esempio, «vocazione relazionale» o di cura, che sviluppano una progettualità non necessariamente legata alla maternità, che si muovono a proprio agio nelle dinamiche di potere? E lo stesso vale per gli uomini. Il rigido binarismo maschio-femmina che rimanda a tutta un'altra serie di dicotomie tanto care ai pensieri unici, si pone come una delle presunte «verità» da contrastare. La ricerca di Judith Butler parte dalla violenza sperimentata rispetto alle norme di genere: uno zio incarcerato per il suo corpo anomalo; cugini gay cacciati di casa per via della loro sessualità; il proprio turbolento coming out, come lesbica, a sedici anni. Il richiamo nella lettera ai vescovi alla «costituzione essenziale» di ogni persona dovrebbe costituire un campanello di allarme. Ciò che nella lettera viene posto come problema: la messa in discussione della famiglia, per sua indole bi-parentale, e cioè composta di padre e madre, l'equiparazione dell'omosessualità all'eterosessualità, un modello nuovo di sessualità polimorfa, non è altro che la sfida che certe pratiche riescono a portare al concetto di «realtà», che risulta quindi modificabile. E' contro questa moltiplicazione delle possibilità che da sempre si scagliano i regimi di verità; stiamo attente a non fare il loro gioco».

Mi pare che questa lettera, prendendo spunto dal documento cattolico, riproponga una ritornante polemica che contrappone la prospettiva postmoderna del gender trouble di Judith Butler, che sarebbe differenzialista e libertaria, al presunto «essenzialismo» del pensiero della differenza sessuale italiano, che sarebbe invece identitario e prescrittivo. La questione, ovviamente, non può essere sciolta in poche righe. Patrizia ha perfettamente ragione nel rilevare che nel mio pezzo di due settimane fa (in cui prendevo ampiamente le distanze dagli esiti prescrittivi della lettera di Ratzinger: su questo non torno) tendevo a trovare il punto di contatto fra queste due tendenze della teoria femminista che si suole da più parti contrapporre. L'ho fatto e lo ribadisco, perché sono effettivamente convinta che esse puntano entrambe alla decostruzione dell'identità di genere e alla libera significazione della soggettività femminile in tutte le sue possibili espressioni. Credo che i sospetti di essenzialismo che tuttora gravano sul pensiero della differenza sessuale italiano dipendano da un grossolano equivoco grammaticale e concettuale, che vede la differenza sessuale come l'oggetto del pensiero invece che il soggetto, il significato invece che il significante. «Pensiero della differenza sessuale», insomma, non è altro che differenza sessuale pensante: donne (e uomini) che pensano e si pensano, a partire da sé, liberamente e fuori dai regimi di verità. Con ciò, mi pare che molti motivi di polemica cadano. Resta in piedi invece un'altra questione, accennata da Luisa Muraro nel suo articolo sul manifesto del 7 agosto, e sulla quale mi ha interrogata in un'altra lettera Chiara Zamboni: quanto è presente, nelle gender theories angloamericane che riportano al solo terreno culturale tutta la problematica del conflitto fra i sessi, la pretesa prometeica e smaterializzante di una totale emancipazione da quella radice biologica da cui pure, in quanto esseri umani, dipendiamo? Anche questa è una domanda importante. Anche, credo, per la più recente riflessione di Butler, che proprio sullo statuto dell'umano è largamente incentrata.

Di Luigi Einaudi ce n´è più d´uno. Alle personalità importanti per altezza di ingegno, fermezza di carattere, purezza di intenti, capita spesso. Si muove il mondo, si muovono perfino le piramidi d´Egitto - come esemplificava Montaigne - e sarebbe dunque ben strano che uomini di talento non cogliessero quel movimento restando incartapecoriti e immobili. La loro preziosa funzione di testimoni del tempo ne risulterebbe vanificata. La loro coerenza apparente si trasformerebbe in una incoerenza sostanziale poiché - muovendosi l´intera realtà che li circonda e restando essi in uno stato di mummificata fissità - i loro rapporti con la società in movimento ne risulterebbero profondamente alterati. Sicché, spostandosi tutte le cose, la vera coerenza consiste nel mantenere il rapporto con esse e non già nell´allontanarsene.

Massimamente ciò accade per chi - come appunto Luigi Einaudi - abbia nutrito per tutta la sua lunga vita convinzioni e cultura liberali, non agganciate ad alcuna schematica e utopica ideologia ma a convinzioni flessibili quali sono quelle ispirate dalla libertà degli individui e delle società nelle quali essi vivono e operano.

Dunque nessuna sorpresa nel constatare che il pensiero di Einaudi sia stato un modello di coerenza e al tempo stesso di molteplici «letture» della realtà sociale nella quale e sulla quale egli operò in un arco di anni che dalla «Belle Époque», dal «ballo Excelsior» e dalla lira che faceva aggio sull´oro, ci avrebbe portati alla conquista della Luna, all´invenzione dei microprocessori, alla scoperta delle cellule staminali e infine al terrorismo globale, passando attraverso fasi oscene che hanno fatto regredire il mondo a livello d´un mattatoio gigantesco, attraverso due guerre mondiali, l´Olocausto, i lager staliniani e l´atomica di Hiroshima e Nagasaki.

Come tutti sanno, Einaudi fu attento soprattutto agli aspetti economici e alle dottrine che cercano di spiegare le leggi che li governano e i meccanismi che incitano i soggetti a competere gli uni con gli altri per conseguire posizioni ottimali nell´incessante lotta per la vita.

Nel dedicarsi allo studio di questi temi, compì due operazioni apparentemente contraddittorie: restrinse il campo delle sue ricerche agli aspetti monetari e tributari dell´economia politica, ma contemporaneamente lo allargò ai princìpi morali che debbono presiedere anche ai comportamenti dei soggetti economici. Del resto Adam Smith, che fu il suo maggiore punto di riferimento, duecento anni prima aveva fatto un´analoga operazione, tanto che si discute oggi se l´autore della Ricchezza delle nazioni abbia lasciato più profonde tracce nella dottrina economica o nella filosofia morale. A mio parere si tratta di due campi del sapere talmente interconnessi che l´uno non è concepibile senza l´altro. Ma questo è un altro discorso, e ci porterebbe troppo lontano.

Eppure, desidero richiamare l´attenzione dei lettori sul fatto che le osservazioni più innovative del pensiero economico einaudiano sono emerse tutte le volte che esso, fissando uno specifico segmento della vita sociale, ha usato al tempo stesso l´analisi economica e il sentimento morale. Così quando esaminò la naturale tendenza del mercato a produrre situazioni di oligopolio e addirittura di monopolio ove non intervengano severe norme di tutela della libera concorrenza; e ancora quando, raccontando le conseguenze economiche della guerra (quella del ‘14-‘18), mise in luce gli sfacciati arricchimenti prodotti dalla collusione tra le industrie degli armamenti e degli approvvigionamenti militari con settori del mondo bancario e apparati della pubblica amministrazione; infine quando teorizzò, nelle lezioni di politica sociale tenute in Svizzera nel ‘44 mentre ancora infuriava la seconda guerra mondiale, la necessità di fornire a tutti gli individui eguali condizioni di partenza, affinché il libero gioco del mercato, la selezione dei talenti, l´accumulazione delle risorse e la distribuzione della ricchezza prodotta non avvenissero sulla base di carte truccate, ma fossero l´effettivo risultato d´una competizione tra eguali in fondo alla quale avrebbero prevalso i migliori, fermo restando il dovere della comunità di darsi carico dei perdenti per metterli in grado di tornare in campo e partecipare a nuove competizioni.

Queste impennate del pensiero einaudiano verso le conseguenze sociali del mercato e delle variabili che ne condizionano il funzionamento restano comunque saldamente innestate su un nucleo costante e invariato che ha come valore primario e attore principale l´individuo e la sua libertà. Libertà organizzata nelle sue specifiche articolazioni, quelle indicate e codificate come diritti dell´uomo, che furono successivamente definite dalla vulgata marxista come libertà borghesi, per dire che esse erano più formali che sostanziali, o anche come elementi sovrastrutturali, prodotti dalle forze strutturali operanti nel tessuto economico e nei rapporti di forza tra le varie classi sociali.

Ci volle molto tempo (e molti eventi) affinché fosse riconosciuto anche dagli adepti dell´ideologia marxista che le libertà da essi definite borghesi erano comunque necessarie per garantire la dignità e l´autonomia individuale e che tra struttura delle forze produttive e sovrastruttura istituzionale, giuridica, politica, il rapporto non era improntato a un determinismo semi-automatico tra causa ed effetto ma ad un´interazione dialettica di cause che producono effetti che a loro volta suscitano reazioni e correzioni nelle cause stesse.

Einaudi non si riconobbe mai in questo dibattito e, almeno in apparenza, non vi partecipò salvo una volta: nell´accesa polemica che lo vide contrapporsi ad un altro grande liberale, Benedetto Croce, sul rapporto tra liberalismo e liberismo. Paradossalmente in quel dibattito fu proprio Einaudi a far sua la concezione marxista di struttura e sovrastruttura quando teorizzò che il liberalismo inteso come filosofia della libertà e delle libertà non avrebbe potuto esplicarsi in assenza della proprietà privata dei mezzi di produzione e del libero mercato. Croce sostenne invece, almeno in linea di principio, che il liberalismo poteva esistere in forme originali ma non per questo meno autentiche anche in presenza di strutture economiche non liberiste.

Fu un dibattito appassionato, condotto da due maestri non soltanto del pensiero ma anche dello stile, della qualità eccelsa della prosa e dell´uso del linguaggio: limpido in entrambi come acqua purissima e al tempo stesso profondo nelle sue implicazioni.

Per quanto riguarda Einaudi - a parte il paradosso che ho poco fa segnalato ma del quale mi pare di poter dire che egli non si fosse reso conto - emerge dalle pagine di quel dibattito il nucleo del suo pensiero e cioè l´importanza storica della micro-economia, della piccola proprietà terriera, delle innovazioni applicate alla trasformazione e commercializzazione delle derrate in beni di consumo diretto, dell´armonica integrazione tra agricoltura e industria, dell´uso dell´imposta per avocare alla comunità le rendite nel senso ricardiano del termine; infine del risparmio come principale fonte di accumulazione del capitale e quindi di finanziamento degli investimenti produttivi.

Oggi si applicherebbe probabilmente a Einaudi lo slogan «piccolo è bello» e si troverebbero nei suoi scritti numerose conferme a sostegno di quella tesi, suffragate altresì dalla sua concezione dello Stato e del governo dello Stato. E qui veniamo a questo libro che raccoglie una parte dei suoi innumerevoli interventi sul tema del buongoverno, che dà il titolo all´intero volume.

Einaudi è intervenuto nella vita pubblica italiana utilizzando numerosi strumenti di comunicazione. Non parlo degli scritti di carattere dottrinale che hanno dato luogo a specifiche pubblicazioni: scritti sulla natura e sugli effetti dell´imposta, sui modelli teorici dell´equilibrio economico, sulle regole che dovrebbero assicurare al mercato un funzionamento ottimale e in mancanza delle quali lo strumento pratico si allontana rapidamente dal modello teorico fino addirittura a divorarlo dando vita al «mostro» del monopolio.

Parlo invece degli innumerevoli articoli da lui scritti con serrato ritmo sul Corriere della Sera rifondato e diretto da Luigi Albertini, dei suoi interventi su riviste di politica economica e sociale, delle lettere e «memorandum» da lui inviati al presidente del Consiglio ed altre autorità pubbliche durante il settennato che passò al Quirinale come presidente della Repubblica.

Tutti questi suoi interventi raffigurano nel loro variegato insieme il suo ideale di buon governo, di cui le pagine qui raccolte rappresentano la quintessenza. Quest´ideale è reso concreto dalla descrizione dei singoli casi, scelti come esempi paradigmatici di ciò che un buon governo deve fare o non deve fare, e riguardano soprattutto i comportamenti della pubblica amministrazione nei confronti dei cittadini da un lato e delle forze politiche dall´altro.

La continuità dell´amministrazione, vivificata dall´alternarsi delle forze politiche alla guida del governo, configura per Einaudi la concreta distinzione tra Stato e Governo, che era chiarissima nella sua mente e che viceversa non lo era affatto sia nel personale politico sia nel personale amministrativo, tendenti entrambi ad appropriarsi ciascuno dei poteri dell´altro producendo di conseguenza situazioni di malgoverno, di sopraffazione, di inefficienza, di costi crescenti e benefici calanti nei confronti dei cittadini.

In queste pagine c´è la denuncia puntuale e ostinata di singole devianze da quel modello ideale, secondo il quale spetta al Governo di indicare gli obiettivi che l´amministrazione deve perseguire e a quest´ultima l´esecuzione degli atti idonei a realizzarli nei tempi dovuti. Al Parlamento il controllo politico dell´insieme degli atti amministrativi e di ciascuno di essi. Alle magistrature amministrative, Corte dei Conti e Consiglio di Stato, la tutela dell´interesse dei cittadini e quella altresì dell´indipendenza dei pubblici impiegati dall´eventuale interferenza dei politici.

Resta da dire perché l´editore Laterza abbia voluto farci dono di questo volume ormai introvabile, uscito in prima edizione nel maggio 1954, e poi ripubblicato nel 1973 con una Premessa di Massimo L. Salvadori.

Non svelo alcun segreto, anzi adempio ben volentieri al compito di comunicare ai lettori che quest´iniziativa intende ricordare l´opera non dimenticata - perché non dimenticabile - di Vito Laterza, a tre anni dalla sua scomparsa.

La sostanza dell´operazione culturale di Vito fu quella di un grande innesto tra cultura liberale, cultura radicale e cultura marxista. Gli innesti sono operazioni assai delicate: richiedono prudenza, selettività e intuizione; si debbono scegliere gli aspetti - e in questo caso gli autori e i testi - più dinamici e più densi di futuro, combinandoli con elementi altrettanto idonei a fruttificare nuove specie. Il rischio è elevato perché può accadere che l´innesto faccia appassire le varie specie combinate o dia luogo a prodotti privi di sapore e affetti da sterilità.

Non è stato così nel caso Laterza.

Una bella pagina di Luigi Eimnaudi è già in Eddyburg

L'infamia delle torture nel carcere iracheno di Abu Ghraib aveva testimoniato la continuità fra regimi torturatori - quello del tiranno Saddam Hussein e quello del democratico George Bush - accomunati dal disprezzo dei diritti delle persone, della loro dignità, della loro vita. Oggi, l'infamia giuridica della sentenza di una corte d'appello britannica - e l'esaltazione che il ministro degli interni David Blankett ne ha fatto - allarga il cerchio della complicità fra regimi torturatori. La sentenza della corte britannica ha legittimato la tortura come procedura giuridica per la raccolta di prove non solo contro le persone torturate, ma anche contro altri soggetti formalmente innocenti. Quella sentenza legittima gli orrori di Guantánamo, se ne rende moralmente e giuridicamente corresponsabile. Il governo laburista britannico si era già reso responsabile di una lunga serie di violazioni del diritto internazionale e di crimini contro il diritto umanitario. Basti ricordare le atrocità commesse dal contingente britannico nel carcere di Mazar-i-Sharif, in Afghanistan, atrocità che nessuna assise penale internazionale è intervenuta e mai interverrà a indagare e a sanzionare. Da questo punto di vista, la notizia di ieri potrebbe non sorprendere. Ma la sua estrema gravità sta nel fatto che la legittimazione della tortura viene ora dalla sentenza di una corte.

E' un'intera tradizione giuridica che viene brutalmente cancellata nei suoi valori più alti e nelle sue pratiche più consolidate. E' la tradizione britannica del rule of law, una tradizione che è all'origine della dottrina delle libertà fondamentali e dei diritti dell'uomo. Che è la base dell'intera esperienza dello «stato di diritto» euro-continentale. La tradizione del rule of law si è affermata proprio grazie alle corti ordinarie che hanno strenuamente difeso le «libertà degli inglesi» contro ogni possibile attentato sia del potere esecutivo sia del Parlamento. La gloriosa tradizione dell' habeas corpus - la scrupolosa tutela dei diritti dell'imputato e della sua presunzione di innocenza - è nata in Inghilterra, grazie a questa tradizione giudiziaria profondamente radicata nella «costituzione» non scritta condivisa da un popolo intero. Ora tutto questo sembra tramontato. Ora dei giudici britannici ignorano che la tortura è una pena inflitta a una persona innocente, contro il principio giuridico nulla poena sine judicio. Ignorano che in Europa, grazie alla rivoluzione penale illuministica, l'imputato non può essere costretto a dire la verità, che l'imputato non ha il dovere di confessare, come pretendeva la giustizia torturatrice dell'Inquisizione. Ignorano quello che Cesare Beccaria, in Dei delitti e delle pene, aveva lucidamente segnalato: la tortura non offre alcuna prova attendibile, perché le sevizie inflitte a una persona conducono a risultati diversissimi in funzione di una infinità di circostanze, inclusa l'incapacità del torturato di sopportare il dolore o, al contrario, la sua estrema determinazione morale che lo può portare a sfidare la sofferenza e la morte.

I giudici britannici sono dunque testimoni di un processo che a partire dall'11 settembre si è fatto sempre più allarmante: l'Occidente nega se stesso, si congeda dagli elementi più nobili della sua identità giuridica e politica, sfregia la sua immagine. Forse si potrebbe dire meglio: l'Occidente nega le sue radici europee, nega l'Europa. L'Occidente coincide in questo senso con la sua propaggine estrema - l'emisfero dominato dagli Stati Uniti - e l'Europa non è che un'illustre tradizione che non riesce a incarnarsi in un soggetto politico autonomo.

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