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Non si sa se piangere o ridere davanti ai «non è vero», «è una bugia», «è una menzogna», gridati dai berlusconiani afflitti perché le cose vanno proprio male per loro. La povera Concita De Gregorio, una brava giornalista (l’elogio non vorrebbe danneggiarla presso i ministeriali addetti della cultura popolare, tenutari dei libri neri) faceva proprio pena quando a «Primo piano» del Tg3 tentava di far domande all’onorevole Bondi e lui, con l’atteggiamento del bambino cattivo colto sul fatto, negava senza pudore ogni verità documentata.

Negava anche come un adulto in ipnosi, tra ira e disperazione. E lei, paziente, riprovava a dire, a chiarire, a contestare, a smentire, a cercare di far capire l’accaduto ristabilendo un minimo di rapporto umano. Questo è successo a proposito di Telekom Serbia e delle sue vergogne, ma accade a proposito di tutto, economia, finanza, Iraq, imposte e tasse, carovita, scuola, pensioni, Istat e prodotto interno lordo.

E quando il ministro Tremonti fa trasparire la possibilità di cambiare la rovinosa legge sul falso in bilancio e butta là un ironico «udite, udite», perché conosce benissimo i guasti prodotti da quella legge, suscita gli entusiasmi dell’Ulivo: il successo dell’opposizione, la politica ritrovata, il dialogo possibile.

È un gran chiacchierare, nel cortile della Repubblica. Rutelli tira fuori d’improvviso, all’insaputa dei Ds, una vecchia proposta della Margherita sul problema delle carriere dei magistrati, sulla riforma della giustizia. Piace al Polo. Scompagina idee e programmi del centrosinistra. Non si parlano tra loro i leader alleati? Forse non hanno tempo.

In una sola sera li trovi su tre tv diverse e visto che l’ubiquità è da escludere e le trasmissioni sono il più delle volte registrate, significa che il pomeriggio l'hanno dedicato alla visibilità mediatica.

La mattina è dedicata invece alla radio, a scrivere qualche intervento per i giornali, a concedere qualche intervista. E poi c’è da guardare la rassegna stampa. Un vero disastro il tempo che fugge.

Le parole scoppiano, dunque. Giuliano Amato, in un convegno organizzato dalla Cgil, ha detto che «anche noi dobbiamo fare un contratto con gli italiani». Chi farà il Vespa? Qualcuno scelto con sagacia per non spaventare il ceto medio. Un terzista, magari con un piede di qua e la testa di là.

C’è anche Fassino nel cancan delle parole. Il segretario Ds ha commentato l’approdo di Cirino Pomicino al centrosinistra, tramite Mastella, citando la parabola del figliol prodigo. Sorretto dal presidente D’Alema: «Cirino Pomicino fa parte di un fenomeno di massa: il distacco dalla destra, la sfiducia in Berlusconi.

Perciò non trovo un solo motivo per dispiacermi, né per imbarazzarmi». Significa che il centrosinistra acquisirà di certo nuovi voti dalla palude di ’O ministro (libro-inchiesta di Andrea Cinquegrani, Enrico Fierro, Rita Pennarola, pubblicato nel 1991 da Publiprint-la Voce della Campania). Ma quanti voti perderà tra i dispiaciuti e gli imbarazzati, poco tattici che resteranno a casa il giorno delle elezioni?

E poi la Lega che attacca il Papa per le parole in romanesco rivolte ai parroci. Chissà perché.

Non è una prova dell’amato localismo, anche se antagonista, un test da spettacolo di paese che dovrebbe piacere ai leghisti dei dintorni di Bèrghem? Bossi attacca invece l’otto per mille. Non sa bene cos’è. Da ministro della Repubblica è stato favorevole ai provvedimenti clericali del governo in favore della scuola privata e alla legge sulla fecondazione assistita e dovrebbe essere prudente. Non si pretende che abbia letto almeno Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni di Arturo Carlo Jemolo, ma qualche nozione sul potere temporale, sulle lacerazioni, conflitti e dolori dei cattolici e dei non cattolici potrebbe pur averla.

Il problema è sempre quello, irrisolto, della classe dirigente italiana. Un sommo banchiere e grande umanista, Raffaele Mattioli, creatore della collana della Ricciardi, fondamentale per nostra cultura, La letteratura italiana. Storia e testi, venduta con profitto l’anno scorso dalla Einaudi di Berlusconi all’Istituto dell’Enciclopedia italiana, fondò nel 1972 l’«Associazione per lo studio della formazione della classe dirigente nell’Italia unita». Il progetto che si proponeva analisi e ricerche restò senza seguito per la orte di Mattioli avvenuta l’anno seguente. Nessuno, dopo, ha pensato di riprendere quell’idea essenziale per la conoscenza di un paese.

Trent’anni fa, Mattioli definiva così la classe dirigente italiana: «È gente che non sa di che cosa parla. Si è appropriata di una serie di slogan e di una terminologia più o meno repellente di cui non capisce il significato. Oggi tutti parlano in modo incomprensibile: quando ti hanno detto quel po’ di balle, se tu gli chiedi che cosa significa, non lo sanno. “Più non dimandare”, è il loro motto. L’ignoranza democratica non è ancora diventata cultura popolare».

Che cosa direbbe oggi il presidente della Banca Commerciale, il grande amico di Benedetto Croce, della politica quotidiana di parole che volano?

Rossana Rossanda pone, sui nuovi movimenti, le domande dal suo punto di vista cruciali: sono antiliberisti o anticapitalisti? Sono «antipolitici» o intendono «ridiscutere la rappresentanza»? E siccome evoca «i miei amici e compagni di Carta», ecco che sentiamo il dovere, oltre che il piacere, di interloquire. Lo facciamo, però, da un diverso punto di vista. La nostra domanda non è se tutti i pezzi di «sinistra radicale» riusciranno a sommare le loro percentuali di elettori, fino a raggiungere quel 15 per cento che consentirebbe loro di condizionare «da sinistra» il 30 o poco più per cento della «sinistra moderata». E' questa una aritmetica non solo legittima, ma necessaria, considerata la rapidità con la quale il berlusconismo si frantuma. Se, però, a questa urgenza si fa seguire la domanda «come si fa a coinvolgere i movimenti?», allora si commette, secondo noi, un errore di prospettiva. Sono piuttosto i movimenti a coinvolgere la politica, fenomeno che noi abbiamo chiamato «terzo movimento»: dopo l'insorgenza (tra Seattle, Porto Alegre e Genova), dopo il consolidamento (dall'11 settembre alle manifestazioni globali per la pace), oggi il movimento ha tanto allargato le sue reti, ci pare, da voler influire anche nelle elezioni. Questo è avvenuto nei voti spagnolo, francese, indiano, ecc. E lo si può vedere facilmente nella proliferazione di programmi, liste e candidati «partecipati», ispirati all'iniziativa della Rete del nuovo municipio, nelle recenti amministrative, nonché nel successo di certi candidati in certe aree del paese alle europee.

Il punto non sta nel fatto che «finalmente» il movimento è diventato «politico» e quindi affronta il problema della rappresentanza. Quel che succede è appunto l'opposto. Se il «movimento dei movimenti» è apparso assai tiepido sulla rappresentanza è perché la considerava secondaria, in confronto a come fronteggiare la guerra e le politiche di organismi come Wto e Fmi, e a come promuovere, in quelle che Marco Revelli chiama le reti «di prossimità», la resistenza agli effetti locali del liberismo e la sperimentazione delle alternative pratiche (la cessione dell'acqua alle multinazionali è stata più ostacolata dalle centinaia di iniziative territoriali, o dalla sinistra in parlamento?). Oggi, nel momento in cui una massa critica di nuove relazioni sociali è stata raggiunta, il movimento diventa «costituente»: tende a creare un nuovo rapporto tra società e istituzioni date, specialmente i municipi. Non è «antipolitico», ma «neopolitico». Constatata la debolezza dei governi nazionali nella globalizzazione, cerca altre vie, quella globale dell'opposizione alla guerra e quella locale della ricostruzione di una legittimità democratica di ciò che è pubblico. Senza per questo rinunciare a utilizzare quel che resta della sovranità nazionale.

Ora siamo tutti impegnati, mi pare, a cercare la maniera per sconfiggere Berlusconi e, insieme, per impedire a un centrosinistra di nuovo al governo di esibirsi nei suoi tristi numeri da circo, come la guerra in Kosovo, l'istituzione dei Cpt, la proto-riforma Moratti, e così via. Per questo scopo, bisognerebbe domandarsi che cosa sia, come si esprime, che cosa fa tutto quel che c'è tra il 15 per cento della «sinistra radicale» e il 60 per cento che secondo i sondaggi (per stare a questo metro un po' demenziale) è contro la guerra in Iraq. Ecco un metodo che è anche sostanza. Un conto è procedere tracciando linee per terra: di qua gli elettori della «sinistra radicale», di là tutti gli altri; un altro conto è vedere che, dal punto di vista della coesione della società, del suo ben-essere (e non alludo al Prodotto lordo, anzi), la pace è meglio della guerra, l'acquedotto municipale è meglio di quello in mano alla Lyonnaise des Eaux, lo Stretto è meglio senza il Ponte, la scuola è meglio se non è una variabile dipendente dalla competitività, l'immigrazione è meglio accoglierla che respingerla, e così via. Ed è, questa, una sostanza perché, oltre a una critica dello «sviluppo» (altro tema su cui le sinistre sono ferme all'Ottocento, salvo lo spreco dell'aggettivo «sostenibile»), implica una ri-creazione democratica, un nuovo «spazio pubblico».

Il nostro amico e collaboratore Raúl Zibechi, che vive a Montevideo ed è un gran narratore dei movimenti sociali latinoamericani, consiglia di guardare «le lotte sociali da una prospettiva di `immanenza' (cioè senza attribuirgli intenzioni, ma deducendole dalla loro attività)». Se si accetta questo consiglio, si constaterà che la «neopolitica» è prima di tutto e sostanzialmente municipale; che le Province, istituzioni per decenni ritenute inutili, stanno ritrovando un loro ruolo come strutture di servizio dei municipi; che le Regioni sono piccoli stati neocentralisti; che, come nelle elezioni spagnole, si vota per esercitare pressione su un punto, in quel caso la guerra, punendo le destre più che premiando le sinistre.

Se questa è la situazione, si può fare un passo ulteriore? Come si può cioè suscitare quella «costituente dei movimenti» che, come Rossana ricorda a Bertinotti, non si è stati in grado di avviare, dato che «nessuno delega nessuno»? Forse, lo si può fare nelle città, dove la «non delega» assume la forma positiva del dialogo. Un esempio utile è quello del «Forum per Firenze», cui parteciparono per mesi, in gruppi di lavoro tematici, centinaia di persone: singoli, reti e associazioni, militanti del sindacato e di tutti i partiti del centrosinistra. La visione di città che ne uscì aveva concretezza e allo stesso tempo radicalità di proposte: infatti il candidato del centrosinistra, Domenici, rifiutò di prenderne atto (con il risultato di essere costretto al ballottaggio).

E' possibile immaginare, città per città, tanti «Forum per Firenze», auto-promossi, cui partecipi la maggior quantità possibile delle persone e dei soggetti di molti tipi, culture ed età che sono parte dei tanti movimenti? Forum in cui ci si pongano domande su come l'esperienza locale possa fare da laboratorio per le politiche nazionali? In questo modo, la «sinistra radicale» potrebbe interpretare - non rappresentare - non solo l'elettorato «di sinistra», ma ambiti sociali assai più ampi e plurali, che a loro volta terrebbero a che quella certa politica, elaborata sulla base delle esperienze diffuse, diventi qualcosa con cui anche il centrosinistra, oggi drogato dalla certezza di vittoria e in marcia verso il mitico «centro», dovrebbe per lo meno fare i conti. In fondo, Cofferati ha esplicitamente contrapposto il modello bolognese di apertura alla società civile, alla chiusura di Domenici: dunque, un varco c'è anche nel centrosinistra. Non è certamente facile, saper parlare a tanta gente, e saper ascoltare. Ma la somma di gruppi dirigenti, e delle percentuali, non servirebbe che a ritagliarsi una fettina del «mercato» politico, da giocare nel flipper in cui le palline rimbalzano da D'Alema a Rutelli, o da Follini a Berlusconi. Ma a chi interessa? Se la sinistra fosse di sinistra, ricomincerebbe dal punto di partenza, come quando nel gioco dell'oca si finisce nella casella sbagliata. Il punto di partenza è la società. Come essa è.

E finalmente, dopo tre anni di bugie, di barzellette, di malgoverno e di non governo, di propaganda demagogica, che hanno portato il paese al punto più basso della sua storia morale e politica, anche per la spettabile ditta Berlusconi-Tremonti è arrivato il momento della verità. Delle spalle al muro.

Della scelta senza appello. Un doppio appuntamento, politico-elettorale ed economico-finanziario. Affrontati entrambi, bisogna dirlo, con intelligenza e furberia; due scommesse molto rischiose e strettamente legate l´una all´altra, sulle quali la spettabile ditta gioca il tutto per tutto. O la va o la spacca, questione di settimane. Il 13 giugno sapremo se la giocata uscirà dalle urne vincente o perdente. Del resto non avevano alternative.

Tutto è cominciato dal rapporto deficit/Pil e dalla lettera di ammonimento che la Commissione di Bruxelles ha l´obbligo d´inviare ai governi di quei paesi che hanno superato la soglia del 3 per cento del suddetto rapporto, imposta dal patto di stabilità europeo.

Secondo il nostro governo quella soglia è ora stimata al 2.96 per cento; basterebbe un peggioramento minimo, di appena 140 milioni di euro (280 miliardi di vecchie lire) per varcarla. Secondo le valutazioni della Commissione di Bruxelles ne siamo già oltre, al 3.2. Secondo il Ragioniere dello Stato, massima autorità in materia, siamo già al 3.5.

Altri Paesi europei, Francia Germania Gran Bretagna per nominare i più importanti, si sono trovati e alcuni ancora si trovano in analoghe condizioni, ma con una differenza fondamentale rispetto a noi: il loro debito pubblico è molto inferiore a quello italiano. Inferiore al 60 per cento del Pil che è il limite massimo fissato dal trattato di Maastricht. L´Italia è al 106 per cento, il doppio. Perciò l´Italia (non per malizia di Prodi e della Commissione da lui presieduta) è in libertà vigilata. Qualora superasse la soglia del 3 per cento e ricevesse la lettera di ammonimento già scritta e in attesa di essere spedita a Palazzo Chigi subito dopo il 13 giugno, le conseguenze sulla nostra posizione finanziaria sarebbero molto gravi. Le agenzie di "rating" abbasserebbero la valutazione dei titoli emessi dal Tesoro. Il loro prezzo sul mercato registrerebbe uno scossone al ribasso. Gli oneri degli interessi aumenterebbero contestualmente. Tutta l´opera paziente e tenace di risanamento effettuata a suo tempo da Ciampi ne uscirebbe distrutta come in parte è già avvenuto per quanto riguarda l´avanzo di bilancio delle partite correnti, passato in tre anni dal 5 al 2 per cento

Ecco perché questa complessa vicenda è cominciata da lì: dalla necessità urgente d´intervenire per trattenere il rapporto deficit/Pil al di sotto della soglia per noi fatale e non superabile. Prima del 13 giugno. Prima che la lettera imbucata a Bruxelles con destinazione Roma arrivi a destinazione.

Tremonti sa che continuare con i giochi di prestigio della finanza creativa gli è precluso per due ragioni: Bruxelles non li considererebbe validi ai fini del patto di stabilità e l´ha già fatto sapere in accordo con le valutazioni del Fondo monetario internazionale e della Banca centrale europea. E poi non c´è più granché da inventare in tema di finanza creativa: tutti i condoni possibili sono stati già effettuati, tutta la legna è diventata cenere. Questa volta bisogna fare sul serio: tagliare spese effettive in misura adeguata. E strutturale. Non si possono però toccare né la spesa sociale (sanità, assistenza), né la scuola, né la sicurezza, né le spese militari, né le pensioni in corso di erogazione. Ne risulterebbero effetti sociali e politici devastanti. In più, anzi in sovrappiù, Berlusconi per rimontare la china d´una fiducia che da mesi è in caduta libera, deve assolutamente tagliare le tasse prima del 13 giugno poiché questo è il solo strumento rimasto nelle sue mani per evitare la catastrofe elettorale, la sconfitta alle elezioni europee, la sconfitta alle regionali in Sardegna, alle comunali di Bologna, di Padova, forse di Bari, forse alla Provincia di Milano. Insomma una débacle che continuerebbe poco dopo a Catania alla Regione Liguria, alla Regione Piemonte.

Perciò bisogna tagliare le imposte e prima tra tutte l´Irpef.

Dai primi calcoli sembrava che l´operazione potesse esser contenuta nella misura di 6 miliardi di euro. Ma Fini e Follini avvertirono: con quella cifra si possono a stento alleggerire le imposte sui ceti più deboli, quelli al di sotto dei 20 mila euro di reddito annuo. Se si vuole dare un sia pur modesto acconto ai contribuenti dei ceti medi, dai 20 ai 60 mila euro di reddito annuo, bisogna raddoppiare la cifra complessiva: non 6 ma 12 miliardi. Il rebus è stato a questo punto girato a Tremonti. Risolverlo sembrava impossibile anche per la sua mente fertile di grande «imbroglione».

* * *

E invece no. La trovata del grande «imbroglione» è stata la seguente.

Un decreto-legge con effetto immediato taglierà la spesa per incentivi alle imprese private e pubbliche per 12 miliardi di euro. Per le pubbliche il taglio riguarda soprattutto le Ferrovie. Per le private, tutte quelle che hanno accesso alle varie formule e leggi incentivanti a cominciare dalle dazioni a fondo perduto sui nuovi investimenti, sulla creazione di nuovi posti di lavoro, sull´emersione dal "sommerso", eccetera.

Un taglio secco di 12 miliardi e mezzo con effetto immediato sulla cassa del Tesoro e in gran parte anche sulla competenza dell´esercizio 2004.

Bruxelles ne sarà felice, il rapporto deficit/Pil resterà decisamente sotto il 3 per cento, la lettera di ammonimento non partirà, gli oneri del servizio del debito pubblico non aumenteranno.

Certo le imprese strilleranno a più non posso. La Confindustria per la prima volta nella sua storia di un secolo dissotterrerà l´ascia di guerra contro un governo in carica. E la diminuzione delle imposte, altro essenziale elemento del rebus affidato al ministro dell´Economia? Tranquilli. Bisogna distinguere nettamente tra le impellenti necessità dell´esercizio finanziario 2004 e quelle dell´esercizio 2005. Nel primo si fa il decreto sul taglio degli incentivi con effetto immediato. Nel secondo, con decorrenza dal gennaio 2005, si tagliano le tasse per 12 miliardi e si apre una linea di crediti ventennali e trentennali dalla Cassa Depositi e Prestiti Spa (ormai messa fuori dal bilancio dello Stato pur essendo posseduta interamente dallo Stato) verso le imprese che beneficiavano degli incentivi a fondo perduto.

Lo sgravio fiscale sarà finanziato in parte con il taglio già effettuato degli incentivi, in parte con la vendita del patrimonio immobiliare per l´ammontare di 21 miliardi, in parte con la sperata crescita del Pil e quindi del gettito fiscale provocato dal taglio dell´Irpef.

Tutti contenti: i contribuenti che pagheranno meno tasse, le imprese che riavranno, sia pure sotto forma di prestiti a lungo termine e a basso tasso d´interesse (mezzo percento) gli incentivi tagliati nel 2004, il Tesoro che avrà evitato in curva lo sfascio finanziario, Berlusconi che avrà potuto mantenere il punto più delicato e più atteso del suo contratto con gli italiani, la Casa delle libertà in tutte le sue componenti che utilizzeranno questa messe di argomenti favorevoli per riguadagnare il consenso degli elettori. E infine Tremonti: risolvere un rebus gremito di ostacoli e di incognite con questa eleganza formale e sostanziale non era da tutti. Lui ci è riuscito, alla faccia di chi gli vuol male.

Dov´è l´imbroglio?

* * *

Tra il taglio degli incentivi (immediato, entro il corrente mese di maggio) e il taglio delle imposte che scatterà nel gennaio 2005 ci sono sette mesi.

Egualmente sette mesi passeranno tra il taglio degli incentivi e l´entrata in funzione del fondo per i prestiti alle imprese gestito dalla Cassa Depositi e Prestiti.

Tremonti punta sull´ipotesi che la congiuntura cominci a tirare anche per l´Europa e per l´Italia e quindi che aumentino i consumi, gli investimenti, le esportazioni, l´occupazione, la produttività.

Naturalmente ci vuole un tempo tecnico di almeno un anno. Diciamo che i primi effetti di queste misure si potranno vedere a fine 2005, inizio 2006.

Nel frattempo Tremonti spera che si capovolgano le aspettative in seguito all´effetto d´annuncio dell´intero piano. Se le aspettative passeranno dalla sfiducia alla fiducia entro maggio, ci sarà un effetto politico positivo di carattere elettorale e un effetto economico positivo sugli investimenti in previsione dell´aumento dei consumi. Questa è la scommessa della spettabile ditta B. T.

Naturalmente occorre che nel frattempo non ci sia un aumento dei tassi di interesse in Europa e neppure in Usa, che l´inflazione resti sotto controllo, che il prezzo del petrolio scenda almeno da 40 a 30 dollari al barile, che il dollaro non si deprezzi ma anzi si apprezzi riportando il cambio sull´euro per stimolare esportazioni e competitività.

Se tutto andrà così, tutto andrà bene. Per loro, ma anche per l´economia italiana. Bisognerà dirgli bravi, sia pure a denti stretti.

* * *

Ma ci sono anche elementi negativi e sono i seguenti.

Nei setti mesi che passeranno tra il taglio degli incentivi e il taglio delle imposte ci sarà, oggettivamente, un effetto restrittivo sulla domanda.

Dodici miliardi di spese in meno non sono bruscolini: 24 mila miliardi di vecchie lire rappresentano in un´economia senza crescita un elemento deflattivo non da poco.

Gli imprenditori che si vedranno diminuire l´ossigeno degli incentivi cambieranno le loro aspettative da negative in positive? Ho fondati dubbi che questo avvenga. Sette mesi all´addiaccio sono una notte piuttosto lunga da passare in fondo alla quale la prospettiva è poi quella di doversi ulteriormente indebitare sia pure ad un tasso simbolico. Ma se nel frattempo il livello dei tassi in Usa e in Europa dovesse aumentare, il che è abbastanza probabile? Quali diverse aspettative si metteranno in moto in quel momento? Puntare sulle esportazioni, come ha fatto la Germania nei mesi scorsi con notevole successo per il sostegno della domanda, è molto rischioso in un´Italia precipitata in tre anni al 51? posto nella classifica mondiale della competitività. Le speranze vanno concentrate dunque su consumi e su investimenti. Ma quali sono le politiche di sostegno? Il taglio degli incentivi, sia pure sostituiti in seconda battuta da prestiti, non è propriamente un sostegno, al contrario. L´effetto restrittivo delle spese tagliate nei sette mesi di vuoto non è propriamente un sostegno, al contrario.

La riduzione fiscale di 350 euro l´anno sui redditi da 10 a 20 mila euro e i 590 sui redditi da 20 a 30 mila euro sono gocce. Serviranno a rilanciare i consumi? Con 590 euro si comprano un paio di magliette o un pullover. Con 350 ci si paga un paio di cene di famiglia in pizzeria.

I vantaggi sono più consistenti per i redditi da 40 mila euro in su, ma non per cifre da euforia, siamo a 5 milioni di vecchie lire annue di risparmio d´imposta, che diventano 9 milioni oltre i 60 mila euro di reddito. Ma a quei livelli il numero dei beneficiari si assottiglia fino a diventare sottile ai livelli ulteriori.

Che cosa ne farà la platea dei beneficiati di queste cifre risparmiate sull´imposta? Aumenterà i consumi? Rimborserà i debiti? Aumenterà il risparmio? Comprerà le obbligazioni che intanto avranno invaso il mercato per assicurare i finanziamenti, i prestiti, le sofferenze bancarie sempre più numerose e pesanti?

Se queste saranno le aspettative, come non è affatto da escludere, la scommessa della spettabile ditta B. T. farà flop e allora non ci sarà un´altra prova d´appello perché questa è l´ultima che il calendario politico economico e finanziario le accorda.

Ecco dov´è l´imbroglio: nell´estrema fragilità e rischiosità della scommessa. Ho chiesto ad un economista italiano che è anche un alto dirigente di Autorità monetaria e quindi uomo di pratica oltre che di teoria: tu a quanto la dai? Ci ha pensato un momento e poi ha risposto: al 50 per cento.

La spettabile ditta B. T. gioca dunque al rosso e nero con l´economia nazionale. Questa è la loro politica, da sempre. Così inviarono le truppe in Iraq nella speranza che finita la guerra, il dopoguerra si svolgesse all´insegna del pane e delle rose. Lì purtroppo la scommessa è andata malissimo. Ora vediamo questa e sia l´ultima.

Durante i processi di Mani pulite colpivano le espressioni esterrefatte dei carabinieri di servizio nelle aule dei tribunali quando giudici, avvocati, imputati facevano un po’ di conti sull’entità delle ruberie, il gran ballo dei miliardi delle tangenti. Non potevano non far confronti tra la loro magra busta paga e quelle somme ingenti che ministri, segretari di partito, manager di Stato e non di Stato avevano messo in tasca. Non era necessario aver frequentato scuole di alta finanza per capire quanto era costato alla collettività nazionale il ladrocinio generalizzato, per sé stessi e/o per il partito, di quei personaggi che ora rispondevano con visi simili a Madonne addolorate alle domande dei magistrati e, persa l’antica alterigia, tentavano maldestramente di spiegare cos’erano mai quei numeretti scritti su un’infinità di documenti che provavano le loro malefatte. (Un chilometro di passante ferroviario a Milano veniva a costare, fino al 1992, 80 miliardi di lire; dopo il 1992, 45 miliardi).

Adesso quelle ruberie sembra che non siano mai esistite e la corruzione sembra non sia più un reato. In dieci anni non è stata approvata alcuna legge per contrastarla. Pare che non sia più neppure un peccato da confessare al penitenziere, mentre prosperano i condoni, le agevolazioni, le facilitazioni, gli abbuoni e si allungano i termini dei provvedimenti di clemenza inventati per cercar di sanare e di tamponare il dissesto della finanza pubblica. Il governo ha bisogno di soldi e avalla istituzionalmente in questi modi borbonici l’illecito offendendo le persone oneste. Il presidente del Consiglio suggerisce paternamente di non pagare le imposte se sono troppo elevate.

E si guarda bene dal promuovere miglioramenti dei servizi e delle prestazioni pubbliche come avviene nel Nord Europa dove a una pressione fiscale elevata corrispondono da parte dello Stato servizi adeguati.

Che cosa succede in un Paese dove il governo non sembra il gran maestro della legalità? Il rapporto tra il cittadino e lo Stato, da sempre precario qui da noi, è di nuovo peggiorato. Lo Stato non è nemico, come si dice, ma è ancora peggio, complice, maniglia utile per aggirare la legge. Tutti i vizi nazionali antichi e nuovi che, tra la fine degli anni Ottanta del Novecento e gli inizi degli anni Novanta, parevano essersi attenuati, si sono ora aggravati, ingigantiti.

Il conflitto di interessi di cui è portatore il presidente del Consiglio, rimasto irrisolto dopo due anni di governo, dieci anni dopo l’ingresso in Parlamento - se si pensa poi che risale al 1957 la legge 361 che prevede l’ineleggibilità per chi è titolare di concessioni dello Stato, come, ad esempio, le frequenze televisive, caso macroscopico - ha provocato una cascata di illegalità imitative. Protagonisti cittadini che si sentono protetti da un clima istituzionale in cui le regole sono considerate nemiche, i magistrati «figure da ricordare con orrore», i rappresentanti eletti dal popolo ladri.

L’eterna arte di arrangiarsi è sempre più di attualità. Non soltanto a livello necessitato dalla sopravvivenza, visto che le condizioni di vita si sono appesantite, le promesse si sono rivelate degli imbrogli e non serve a nulla l’ottimismo di maniera diffuso a piene mani. I caratteri negativi degli italiani, il familismo amorale, l’apoliticismo settario, il rifiuto della politica come incontro-scontro di idee e di progetti, il qualunquismo, il rigetto della morale che disturba il manovratore, un gioioso «liberi tutti» in nome del mitologico mercato, incontrollata bestia rampante, sono diventati i simboli dell’era berlusconiana.

L’ambiguità è un altro dei caratteri che soprattutto nei tempi grami della depressione economico-culturale trova nutrimento nel bel Paese. Ci sono quelli che guardano da dietro le persiane; c’è la «zona grigia dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi», secondo la definizione di Primo Levi («I sommersi e i salvati»). Ci sono quelli del «però», che non rinunciano a rimarcare il bene anche dove il male è chiaramente trionfante; ci sono quelli che fanno il doppio o triplo gioco, un colpo di qui, l’altro di là, con l’illusione o la falsa coscienza dell’oggettività; ci sono gli opportunisti, i trasformisti, gli equilibristi.

Nel 1938, 96 professori ebrei, tra i più illustri, furono cacciati dalle università italiane a causa delle leggi razziali del fascismo: 96 colleghi presero il loro posto. Con qualche problema di coscienza? Con qualche moto di vergogna?

Poi, in ogni tempo, ci sono gli altri, quelli che pagano per tutti in nome della dignità personale e collettiva. Forse è sufficiente ricordare la quindicina di professori (su 1250) che nel 1931 rifiutarono il giuramento di fedeltà imposto dal fascismo e furono espulsi dalle Università italiane. E i 600mila soldati e ufficiali catturati dai nazisti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 che rifiutarono anch’essi il giuramento di adesione alla repubblica di Salò e in nome dell’onore preferirono i rischi del lager, la fame, il dolore, spesso la morte.

Anche oggi sono infinite le generosità sconosciute che fruttificano in una società infinitamente lontana dalle istituzioni. La grande informazione «indipendente» che dovrebbe raccontare i fenomeni sociali preferisce occuparsi della rivoluzione di Armani. Ignora, come lo ignorano i politici, quel che succede nei piccoli paesi, nei quartieri delle grandi città, nelle aree metropolitane dove nasce, rinasce, si muove una società minuta, complessa, ricca di vitalità, non rappresentata. Una rete enorme di energie nuove.

Non sono sicura che l´importanza della cosiddetta liberazione delle donne sia stata bene percepita. Eppure l´espansione così rapida delle lotte femminili in tutto il mondo ne è una testimonianza.

Ma siccome si tratta di un passaggio epocale della storia dell´umanità, la cosa è difficile da immaginare.

Ognuna, ognuno ne coglie un aspetto solo, inoltre a partire da sé e da oggi. Bisognerebbe anzi saltare in un altro tempo, o anticipare il futuro. E non solo come nella fantascienza ma come un altro mondo possibile, non nell´aldilà ma quaggiù.

Diventare degli uomini. L´interpretazione più immediata della liberazione femminile corrisponde alla sua identificazione con l´uguaglianza all´uomo. Questo non ha bisogno di nessun cambiamento nel modo di pensare, di nessuna (r)evoluzione culturale. Basta far entrare la donna in una categoria esistente - gli operai, gli schiavi, gli oppressi. Rimaniamo così nella stessa logica padrone-schiavo, con il volere dello schiavo di diventare il padrone e, al massimo, con una certa accondiscendenza del padrone rispetto allo schiavo, a meno che accada un capovolgimento del rapporto. Ma siamo sempre nella stessa economia, un´economia a cui le donne accettano di partecipare, sacrificando la loro libertà per perpetuarla, e ricevere per questo qualche compenso dal padrone.

Ma lei non parla di uguaglianza - mi obietterete. Vi chiederò allora di dimostrare che la strada dell´uguaglianza possa sfuggire alla logica padrone-schiavo. Vi suggerirò anche di comprarvi, per festeggiare l´otto marzo, un album Mafalda (fumetti dello scrittore argentino Dino). Mafalda è una maestra in liberazione femminile! Se siete fortunati, troverete in questo album la risposta di Mafalda a suo padre che sostiene che «l´occhio di Dio ci vede tutti uguali»: «Ma chi è il suo oculista?» lei gli chiede.

Notate, in questa occasione, che, per argomentare a proposito dell´esistenza dell´uguaglianza, il padre ha bisogno di ricorrere a Dio - quello con cui la parità rimane sempre impossibile. In ogni caso, prendere l´uomo come modello della propria liberazione non è una scelta che testimonia una grande autonomia né immaginazione. Il successo dell´uguaglianza è basato sul fatto che il metodo già esiste, che fa parte di una cultura al maschile e che è mantenuto dal risentimento fuori da un reale cambiamento, cosa indispensabile per compiere la liberazione delle donne.

Diventare delle donne. La cosa è già più complessa perché difettiamo di mezzi culturali per compiere questa evoluzione. Inoltre essa richiede che le donne preferiscano essere donne e non uomini. E´ il primo, e più decisivo, passo per incamminarsi verso la propria liberazione. Ma poche donne l´hanno già superato, nemmeno sospettato. Per esempio, le famose parole di Simone de Beauvoir: non si nasce donna ma si diventa donna, non manifestano una grande stima per l´identità femminile, che sarebbe soltanto il risultato di stereotipi sociali imposti alle donne. Lo stesso vale nell´affermare che l´altro è necessariamente il secondo rispetto all´uno, come attesta il titolo Il secondo sesso. Non voglio con questo disprezzare il lavoro che Simone de Beauvoir ha compiuto ma dire che esso non basta per assicurare la liberazione della donna in quanto tale. E´ necessario capire che: se sono nata donna, devo anche diventare la donna che sono, e che questa donna è differente, ma non seconda, rispetto all´identità maschile. Certo, diventare donna, sviluppare un´altra identità umana non può ridursi a trasferire nei luoghi pubblici tutti gli affetti e passioni che avevano luogo in casa, in parte perché la donna non godeva di altri mezzi di espressione. Si tratta di elaborare un´identità culturale nuova, che permetta alla donna di fare sbocciare tutte le sue capacità, sia nell´intimità che nella vita pubblica. La prima mediazione indispensabile è il diritto a un´identità civile appropriata. E´ il mezzo che può assicurare la svolta dallo statuto naturale, in cui la donna è stata confinata, a uno statuto civile che consenta alla donna di essere riconosciuta come libera e autonoma nella vita pubblica - cioè che conferisce alla donna un diritto paritetico, pur essendo differente, alla cittadinanza. Una piattaforma civile appropriata alle donne è anche ciò che permette di costruire una democrazia mondiale al femminile.

Diventare degli umani. Questo passaggio dalla naturalità alla civiltà è pure necessario per superare la parte di animalità che troppo spesso regola le relazioni uomo(ini) donna(e). Se queste si fondano solo sull´istinto - sia a livello dell´attrazione sessuale che su quello della procreazione - non possono essere realmente umane. E´ vero nei rapporti amorosi e parentali ma anche nel resto della vita. E´ dunque decisivo che le donne sfuggano a uno stato di semplice naturalità non solo per loro ma per l´insieme dell´umanità. D´altronde chiedere cambiamenti a livello economico e sociale senza modificare i rapporti sessuali non conduce a un granché. Si constata, per esempio, che in certi paesi dove la parità sociale è migliore che altrove, le donne sono più violentate. Manca il riconoscimento della donna come persona, per di più portatrice di valori diversi.

Ma quali sono questi valori, domandano quelli e quelle che pensano che l´essere umano è unico e che la sua cultura è necessariamente al neutro (per non dire al maschile)? Per rispondere a questa interrogazione, ho raccolto tante parole e disegni di ragazze e ragazzi, di donne e uomini. L´analisi di questo materiale non permette nessun dubbio sul fatto che fra i sessi esiste una differenza. Questa differenza non è solo biologica o sociale, come si è immaginato. Si tratta piuttosto di un modo diverso di essere in relazione con sé, con l´altro, con il mondo.

Questa identità relazionale propria di ciascun sesso corrisponde a una maniera specifica di costruire passaggi fra natura e cultura. Non è il sintomo di un´alienazione, come ho sentito dire a proposito del discorso delle ragazze. Questo discorso si dimostra, d´altronde, molto più precoce e creativo che quello dei ragazzi, una ricchezza che si può spiegare per il fatto che la vita relazionale della ragazza è più vivace di quella del ragazzo. La differenza fra identità relazionali interviene nell´attrazione fra i sessi in un modo più umano che la semplice attrazione fisica. Essa rappresenta una fonte di energia, di creatività, di cultura che merita di essere considerata e coltivata per lo sviluppo e la felicità dell´umanità.

È rimasto quasi senza voce il professor Giovanni Sartori, girando fra trasmissioni tv, partecipando ai dibattiti, rispondendo alle telefonate dei tanti fan. Più Berlusconi procede nella sua marcia fracassona, più questo arguto politologo di sicura ispirazione liberale, accademico dei Lincei in Italia e professore emerito alla Columbia University negli Stati Uniti, che ora manda il libreria il suo ultimo saggio, 'Mala tempora' ( box a pag. 59), diventa un'icona di quella sinistra a cui non ha mai appartenuto, se non addirittura un simbolo di resistenza girotondina.

Professor Sartori, Berlusconi ha aperto la sua personale campagna elettorale accusando i politici di essere ladri e irrompendo in un club di tifosi come la 'Domenica sportiva'. Che cosa possiamo aspettarci nei prossimi mesi?

"Se vogliamo capire quel che sta succedendo dobbiamo sapere che tutto quel che fa Berlusconi ha una sua razionalità. Lui è il tipico esempio di uomo politico eterodiretto dai sondaggi, che prima di aprire bocca aspetta di conoscere come batte il cuore italico. Non ci sono strappi o improvvisazioni, né quando parla di politici che rubano, né tanto meno quando si butta su un tema trasversale come il calcio. Sapendo benissimo che il 70 per cento degli italiani si occupa solo di sport, Berlusconi gioca una carta demagogica sicura".

Però c'è un'insofferenza crescente nella gente, ci sono intere categorie in rivolta e non solo per ragioni economiche.

"Una metà di questo paese che non ne può proprio più, ed è il popolo di sinistra, sempre più irato e ferito. E poi c'è l'altra metà, quelli che avevano votato per il Polo. È gente disincantata, perplessa, ormai convinta che le promesse non sono state mantenute. Per ora è un popolo che si astiene, che non pensa ancora di passare dall'altra parte. Questo spiega perché Berlusconi si è buttato alla ricerca spasmodica del loro consenso".

Non sembra che tutto il popolo di destra accetti volentieri questo disprezzo crescente di ogni regola.

"È vero. In questo senso ha fatto benissimo Lucia Annunziata a intervenire subito alla 'Domenica sportiva'. Senza le sue parole in diretta l'intervento di Berlusconi sarebbe stato solo un discorso più lungo del normale. Così invece ha creato il caso, ha fatto risaltare una scorrettezza clamorosa".

È un'esagerazione da estremisti dire che in Italia c'è un regime?

"Non credo mi si possa classificare come un sovversivo, eppure lo sostengo anch'io. Ma regime non vuol dire dittatura. Questa è un'invenzione dei media, che pure avevano parlato per tanto tempo di regime democristiano. In un regime c'è una forte personalizzazione del potere, come nel gollismo. C'è un leader che conta più dei meccanismi della democrazia".

Quali meccanismi sono più indeboliti nel caso italiano?

"È la garanzia della pluralità dell'informazione a essere fortemente amputata. Quando l'informazione è praticamente in mano a un monopolio, il cittadino sa solo quel che gli vuol far sapere il potere. In questo senso anche le elezioni, che una dittatura non consentirebbe e a cui invece Berlusconi si sottomette, sono meno libere di quel che sembrano, data l'altissima manipolazione delle opinioni dei votanti".

Perché secondo lei una parte dell'opposizione continua a ripetere che non bisogna alzare i toni della polemica? "All'Ulivo non conviene replicare al Cavaliere", ha detto nei giorni scorsi Giuliano Amato.

"Dissento decisamente. Se vedo qualcuno che ammazza un uomo mi metto a gridare 'assassino, assassino'. Invece Giuliano Amato, che ama i toni bassi, dice: 'C'è qualcuno che ha dato una martellata in testa a un altro'. È assurdo non chiamare le cose con il loro nome. È il tatticismo di una classe politica senz'altro competente, ma che è così coinvolta nei giochi di potere da pensare di poter ottenere qualcosa da ogni situazione".

Lei ha mai provato a dare qualche buon consiglio al centro-sinistra?

"Quando erano al governo avevo cercato in tutti i modi di convincerli che bisognava regolare il conflitto d'interessi. 'Se non fate adesso una legge siete fritti per sempre, non avete neanche idea del volume di fuoco mediatico che vi cadrà addosso', dicevo. 'Ma come si fa, così si antagonizza troppo Berlusconi, sembrerebbe una legge ad personam', mi rispondevano. Come se tutte le leggi non si facessero ogni volta in funzione di circostanze precise, anche se poi valgono per tutti. E lì le circostanze erano gravissime, si sapeva dai sondaggi che il padrone di Mediaset stava per vincere. Il brillante risultato è che le elezioni le hanno perse lo stesso, e Berlusconi ha conquistato quasi il 100 per cento dell'informazione di massa".

Come giudica l'operazione della lista unica alle prossime elezioni? Crede che aiuterà l'opposizione ad andare avanti?

"Ho pensato fin dal primo momento che creava più problemi di quanti ne risolvesse. In elezioni proporzionali come sono le europee non c'è bisogno di liste uniche, che fra l'altro in Italia non hanno mai avuto risultati brillanti. Spero che la regola questa volta venga smentita. Ma intanto, a dimostrazione di quanto la mossa fosse incauta, si è verificato il paradosso che alle elezioni Prodi non si presenterà, ma Berlusconi sì. Ha preso a pretesto la situazione per candidarsi per davvero, e si è garantito quell'effetto di traino che non è detto che Prodi riuscirà a esercitare".

Intanto il listone si è trovato alle prese con la grana dei soldati italiani a Nassiriya.

"Ormai è il tema della pace la grossa mina vagante della sinistra. Negli ultimi anni si è saldato un pacifismo che si potrebbe definire cattocomunista, che è destinato a creare problemi continui, a disunire le coalizioni. Penso che mostrarsi divisi e conflittuali, come è appena successo, sia disastroso. Dà un vantaggio colossale a Berlusconi perché la gente, a torto o a ragione, di liti non ne può proprio più".

Il popolo di sinistra però si è dimostrato nella grande maggioranza contrario alla guerra.

"Lo sono stato anch'io. Ma adesso il no alla missione in Iraq sarebbe irresponsabile. Se gli Stati Uniti fossero costretti ad andarsene, può saltare in aria tutto il Medio Oriente. L'astensione era l'unico modo per tenere insieme il centro-sinistra".

Le divisioni hanno riguardato soprattutto i Ds. Cosa ne pensa della leadership di Fassino?

"Non è che Fassino sia un indeciso. È che non può fare più di tanto, con un partito che stranamente è ancora controllato da D'Alema, con la conflittualità della Margherita, con questi cespugli micidiali. È un miracolo che riesca a tenere in piedi la baracca".

Che effetto le fa sentirsi indicare oggi dalla destra come una specie di sovversivo, come un guru di tutte le opposizioni?

"Non sono di sinistra, ma le circostanze mi hanno portato certamente a sinistra. Credo che nell'Italia di oggi sia quasi un dovere, soprattutto per uno studioso della politica, opporsi ad un sistema che sta distruggendo lo Stato costituzionale, che scivola verso la democrazia totalitaria. E poi c'è una cosa che non posso sopportare".

Quale, professor Sartori?

"Che Berlusconi pretenda di insegnare a me che cos'è la democrazia. Questo, me lo lasci dire, è veramente troppo".

10 anni di mala tempora Il nuovo libro di Giovanni Sartori

Un libro di 'storia vissuta', dove gli avvenimenti sono raccontati quando ancora si stanno svolgendo, e nessuno sa come andranno a finire. È la definizione che Giovanni Sartori dà del suo ultimo libro, 'Mala tempora', uscito da pochi giorni da Laterza e già arrivato alla seconda edizione dopo aver bruciato 14 mila copie. Eppure 'Mala tempora', titolo che allude al pessimo periodo che sta vivendo l'Italia, è un volumone di più di 500 pagine, che per di più raccoglie articoli già apparsi sui giornali, ma scelti e riordinati in modo da dare una lettura piuttosto intrigante degli ultimi 10 anni. Definito da Claudio Magris un manuale di resistenza, il libro di Sartori smonta giorno dopo giorno i meccanismi del Palazzo, racconta l'occupazione del sistema Italia da parte del Polo e le condizioni che rendono possibile una seconda vittoria di Berlusconi, a cominciare da quel Mattarellum, indicato come la fonte di molti mali. Ma è soprattutto nel racconto puntuale e senza sconti dei numerosi errori della sinistra al governo, dalla Bicamerale al ribaltone a un federalismo troppo frettoloso, che 'Mala tempora' si accredita come un utile vademecum per un'opposizione che vuol tornare a vincere.

FINO AL 10 marzo tutti i sondaggi davano il partito di Aznar certo vincitore delle elezioni politiche e probabile detentore della maggioranza assoluta. Il giorno dopo, quel fatale 11 marzo, dopo le primissime notizie della strage sui treni e prima ancora che cominciasse lo sconcio balletto dell’attribuzione del massacro, la reazione automatica dei poteri dentro e fuori dalla Spagna - ma presumibilmente anche d’una parte degli elettori - fu quella di stringersi attorno al governo, al suo leader e al delfino da lui designato.

È sempre avvenuto così ed è una delle turpi ragioni che spinge i poteri mal certi a cercare nei conflitti esterni ed interni e financo nelle guerre lo strumento per recuperare un consenso in via di disfacimento.

Ma nei successivi tre giorni quelle previsioni sono diventate sempre più incerte fino al tracollo elettorale del 14 marzo. In tre giorni il Pp è crollato al 37 per cento dei voti; in tre giorni una super-maggioranza sbriciolata e travolta; in tre giorni capovolta la geografia politica della Spagna con ripercussioni non dappoco su quelle dell’Italia, della Gran Bretagna e perfino degli Usa e delle sorti del duello tra Bush e Kerry. Tutto ciò perché il governo Aznar ha usato la menzogna e la reticenza nell’indicare gli autori del massacro dei treni. È possibile spiegare in questo modo la sorprendente vittoria del socialismo spagnolo?

Dico francamente che questa lettura non mi convince affatto. Questa lettura, tra l’altro, riconoscerebbe ai macellai di Al Qaeda il potere di intervenire nella politica con effetti mirati e decisivi e presupporrebbe nel popolo spagnolo una dose di viltà che è smentita da un storia secolare: è un popolo fiero, orgoglioso, tenace nelle sue convinzioni. No, non mi convince affatto una giravolta così improvvisa nell’arco di poche ore e dinanzi ad un lutto collettivo di quella tragica intensità. La menzogna del governo ha certamente provocato indignazione, ha certamente scatenato rabbia e disprezzo, ma le ragioni della vittoria di Zapatero sono più profonde.

Qualche giornale ha titolato: «Non ha vinto Zapatero, ma ha perso Aznar». No, non è andata così.

Ha vinto Zapatero, ha vinto l’onda lunga di un’opinione pubblica che giusto un anno fa invase le piazze e le strade di Spagna per dimostrare contro la guerra americana in Iraq, contro una decisione unilaterale che umiliava l’Onu e la legalità internazionale, contro il proprio governo che si affiancava alla superpotenza senza alcun rispetto della volontà chiaramente espressa dal 90% del popolo spagnolo. Il popolo è dunque sovrano soltanto quando il potere decide che lo sia? Quest’onda lunga nella pubblica opinione ha aspettato un anno. Ha assistito al fallimento manifesto dell’impresa irachena. Ha visto il terrorismo, che doveva essere sconfitto o almeno indebolito da quell’impresa, uscirne moltiplicato come un’idra dalle molte teste ruggenti e sanguinose. Infine ha raccolto con dignità dolorosa e silenziosa i suoi morti e tre giorni dopo ha votato. Il risultato l’abbiamo visto: il popolo spagnolo ha riassunto nelle sue mani la sovranità, ha tolto la delega a chi aveva tradito la delega e l’ha affidata a chi aveva fin dall’inizio condiviso le scelte del popolo.

Questo è accaduto nella giornata del 14 marzo e chi ancora non l’ha capito avrà presto altre occasioni per rendersene conto.

* * *

In realtà non fu solo il popolo spagnolo a schierarsi contro l’avventura americana in Iraq, basata su una tesi priva di fondamento e preparata prima ancora dell’attentato alle torri di Manhattan. Non fu solo il popolo spagnolo, anche se in Spagna la percentuale della protesta fu quella massima; ma tutti i popoli europei si schierarono in quella decisiva occasione: in Italia, in Gran Bretagna, in Germania, in Olanda, in Belgio, in Svezia, in Norvegia. E lo fecero quale che fosse la posizione dei propri governi, lo fecero indipendentemente dai propri governi.

Mi permisi di scrivere in quei giorni che forse, proprio su quel delicatissimo terreno e in quella delicatissima circostanza, era nato il popolo dell’Europa. Sono stato criticato per averlo scritto e accusato di enfasi pericolosa, di corta vista, di mente debole e demagogica come tutti i pacifisti.

Ebbene io non sono pacifista, il nostro giornale non è pacifista nel senso della pace comunque e a ogni prezzo, anche se ti ammazzano il fratello, anche se ti aggrediscono, anche se calpestano i tuoi diritti e i tuoi più radicati valori. Io non sono per porgere l’altra guancia dopo il primo schiaffo. Non a caso, noi prendemmo posizione per la fermezza contro le Br ai tempi del rapimento Moro, convinti come eravamo e come siamo che il terrorismo si combatte con la fermezza e non con la trattativa.

Che cosa significa scegliere la fermezza? Temo che si sia fatta molta confusione e dette molte, troppe parole vaghe su questo punto capitale.

Perciò conviene parlar chiaro mentre l’ombra del terrorismo globale si stende ormai nel cielo dell’Europa democratica.

* * *

È fin troppo evidente che il terrorismo non si combatte con i carri armati, con gli elicotteri, con i bombardamenti, con le divisioni di fanteria di cavalleria di marines. Ed è sommamente vero fino al punto d’essere ormai diventato un luogo comune che si combatte invece con l’"intelligence", con il controspionaggio, con le misure di sicurezza preventiva nei modi in cui è possibile adottarle.

Ma si tratta comunque di strumenti parziali e non risolutivi; improponibili comunque in ambienti nei quali il terrorista sia allevato, istruito, predisposto e coperto da un diffuso consenso e da una diffusa omertà. Se i pesci grandi e piccoli del terrorismo nuotano in un’acqua nutritiva e abbondante saranno imprendibili, comunque si riprodurranno, allargheranno il loro raggio d’azione, si diffonderanno come una cancrena fino ad inquinare e uccidere l’intero organismo sociale.

Perciò esiste una sola valida ricetta per combattere il terrorismo: prosciugare l’acqua che lo circonda lasciandolo a secco e lì, una volta a secco, estirpare il fenomeno alle radici.

Così fu distrutta la prima e la seconda generazione terrorista nell’Italia degli anni di piombo. Quando ancora oggi si parla, a proposito del terrorismo brigatista, di album di famiglia per mettere allo scoperto le derivazioni leniniste di quel fenomeno (peraltro discutibili sul piano ideologico-culturale) si crede di mettere in imbarazzo i figli e i nipoti della politica di Berlinguer. Si dimentica che la vittoria sulle Br fu dovuta soprattutto, ma vorrei dire quasi interamente, alla fermezza con la quale il Pci di allora e il sindacato di allora prosciugarono l’acqua nelle fabbriche e nella classe operaia intorno al pesce brigatista.

Non credo che vi sia altro modo. Esso presuppone che sul terrorismo non ci siano né perdoni né silenzi. Tanto più si è per la pace - pacifisti o non pacifisti - tanto più si deve essere contro il terrorismo poiché esso è l’esatto contrario della pace: infatti semina guerra, morte, terrore, servitù al terrore, fanatismo, duplicità.

* * *

In che modo si prosciuga l’acqua in cui prospera il terrorismo? Con il dialogo, con la comprensione dei bisogni materiali morali psicologici di quei popoli, etnie, nazioni nei quali il terrorismo cerca di metter radici perché vi ravvisa un humus fertile dove le sue radici velenose potranno più facilmente attecchire.

La lotta al terrorismo si fa dialogando con quei popoli, con quelle nazioni, con quelle etnie e non bombardandoli e massacrandoli. Ecco perché i popoli d’Europa dimostrarono grande saggezza un anno fa opponendosi alla guerra americana e alla cosiddetta pax americana che non è mai diventata pace. Si opposero perché avevano capito che la guerra americana avrebbe infiammato e stimolato il terrorismo, avrebbe reso purulento un tessuto che conosceva arretratezze dittatura tribalismo ma non conosceva il terrorismo e anzi gli si opponeva.

Diciamo la verità: la guerra irachena di Bush, di Blair e dei loro alleati-satelliti è stata il più grande e manifesto errore che si potesse compiere dopo l’attentato di Manhattan. Ha giovato solo alla popolarità d’un presidente male eletto e rafforzato da un lutto nazionale e mondiale.

Quel presidente aveva bisogno della sua guerra e l’ha avuta. Ne ha tratto giovamento politico. Probabilmente effimero, probabilmente quel giovamento è arrivato al capolinea. Ma nel frattempo non ha prodotto che nuovi guai, nuovi lutti, nuovo e rafforzato terrorismo.

I pacifisti debbono dire alto e forte no al terrorismo se vogliono essere credibili. Sicché non esiste contraddizione alcuna a marciare sotto le bandiere della pace e dell’antiterrorismo poiché si tratta della stessa bandiera e anche questo deve essere ben chiaro.

* * *

Zapatero non ritirerà subito i soldati spagnoli dall’Iraq; una cosa è mandarli - ha detto - un’altra ritirarli. Ma subito prima e subito dopo la vittoria elettorale Zapatero ha ribadito l’impegno: se il 30 giugno l’Onu non avrà assunto la piena e totale responsabilità, anche militare, del dopoguerra iracheno, i soldati spagnoli saranno ritirati.

Anche l’Ulivo e i Ds in particolare hanno preso lo stesso impegno. Sicché restano incomprensibili gli insulti che gli sono stati rivolti da alcuni arruffapopoli che hanno promesso schiaffi umanitari e hanno definito quei dirigenti politici come delinquenti. Chi parla in questo modo manifesta solo faziosità e vaniloquio.

Per il resto: non si vince il terrorismo soltanto marciando ma se proprio si vuol marciare, marci ciascuno con le proprie insegne senza promiscuità che generano solo confusione e cattiva coscienza. I socialisti spagnoli hanno ben dimostrato di essere per la pace e contro il terrorismo ed hanno cacciato dal governo Aznar. Basta essere chiari come loro sono stati per realizzare lo stesso obiettivo.

Secondo me per arrivare all’Europa unita e dotata d’una sola voce e d’un appropriato peso politico bisogna cambiare alcuni governi. Uno di essi è cambiato il 14 marzo. Mi sembra un ottimo inizio.

In una lettera del 1872 indirizzata al paleontologo scozzese Hugh Falconer, Charles Darwin scriveva che «la sua teoria dell´evoluzione sarebbe stata rifiutata in blocco dai creazionisti che l´avrebbero considerata pura spazzatura, robaccia (rubbish)». Centocinquant´anni dopo, la profezia, almeno qui da noi, si è avverata, e la teoria darwiniana dell´evoluzione, che oggi neppure il magistero ecclesiastico contesta, ha rischiato di essere eliminata dai testi scolastici che, alla spiegazione scientifica dell´evoluzione, avrebbero dovuto preferire la narrazione mitico-simbolica della creazione.

Di questo si è discusso ampiamente in questi giorni sui nostri giornali, per cui non vale qui la pena di ritornare, se non per rimarcare l´enorme fatica che fa la scienza a prendere piede nella nostra cultura, per una sorta di malinteso "umanismo" che, sotto la falsa apparenza di nobilitare l´uomo, nasconde almeno due truci intenzioni che qui vorremmo evidenziare.

La teoria creazionista, concependo l´uomo a immagine di Dio, gli conferisce il privilegio del dominio incontrastato sull´intera natura. Leggiamo infatti nel primo libro della Bibbia: «Poi Iddio disse: facciamo l´uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza; domini sopra i pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sopra la sua superficie» (Genesi 1,26).

Per la mentalità greca antica questa concezione sarebbe stata considerata la più alta espressione di Hybris, di tracotanza, di inaudito oltrepassamento del limite. E questo perché, per il greco antico, la natura «che nessun uomo e nessun Dio fece» (Eraclito) rappresentava quello sfondo immutabile le cui leggi, regolate dal vincolo della necessità (ananke), costituivano il punto di riferimento da cui trarre indicazioni per il governo della città e per la buona conduzione di sé. Qui Platone è stato chiarissimo: «Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto col cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice condizione dell´universa armonia. Non per te infatti questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica» (Leggi 903 c).

All´opposto della mentalità greca, la tradizione giudaico-cristiana concepisce la natura non come lo sfondo immutabile su cui l´uomo deve regolarsi, ma come il prodotto della "volontà" di Dio che l´ha creata a disposizione della "volontà" dell´uomo, a cui è concesso l´incontrastato dominio.

Questa concezione del "dominio", che non è greca ma giudaico-cristiana, se un tempo era compatibile con le dimensioni della terra e la scarsa densità della popolazione umana, oggi, a rapporto invertito, non è più praticabile. E sulla base della tradizione giudaico-cristiana, che ha sempre concepito la morale come una regolatrice dei rapporti fra gli uomini, non disponiamo di una morale che si faccia carico degli enti di natura, come la salvaguardia dell´aria, dell´acqua, della vegetazione, del clima, del mondo animale, con particolare riferimento alle specie in via di estinzione non per selezione naturale, ma ad opera dell´uomo.

E allora a me viene il dubbio che la teoria evoluzionista darwiniana, che, al pari del pensiero greco, colloca l´uomo nella grande catena dell´essere senza accordargli alcun privilegio rispetto alle altre specie viventi, sia messa a tacere a favore della teoria creazionista non tanto per salvaguardare la dignità dell´uomo fin dalla sua origine divina, quanto per garantirsi, in nome di Dio, il dominio incontrastato sulla terra come vuole l´insensibilità del profitto, del denaro e del mercato oggi globalizzato.

A fianco di questa prima malcelata intenzione, che vuole legittimarsi su base religiosa, ce n´è una seconda, ancora più truce, che utilizza impropriamente la teoria evoluzionista di Darwin per giustificare gli stessi risultati a cui è approdata, probabilmente suo malgrado, la teoria creazionista.

Volendo riassumere in una formula la teoria di Darwin potremmo dire: «L´ambiente propone e la selezione dispone». Ciò significa che l´ambiente (che comprende tanto l´ambiente fisico quanto gli altri viventi) agisce sull´organismo che, per conseguire il successo riproduttivo, si adatta a cambiamenti evolutivi o, in caso di insuccesso, si estingue. Per Darwin c´è dunque un´unica causa dell´evoluzione, il cui meccanismo, per dirla in modo un po´ truculento, è quello del carnefice o del boia che rimuove gli individui inadatti una volta emersi quelli adatti, seguendo processi che pazientemente si possono identificare.

Questa teoria, che Darwin aveva limitato all´ambito biologico, è stata impropriamente estesa all´ambito sociale e, sotto la denominazione di "darwinismo", si è fatta passare per "legge naturale", per cui anche nella società il pesce grosso può mangiare il pesce piccolo.

Equiparare l´evoluzione sociale all´evoluzione naturale significa riconoscere libertà illimitata a chi è più forte, accettazione indiscussa della disuguaglianza, nessun intervento dello Stato per aiutare i più svantaggiati, con tutto ciò che ne consegue praticamente in ordine all´assistenza agli anziani, lo sfruttamento delle donne e dei minori, le cure mediche a chi non dispone di risorse, l´istruzione a chi non può permetterselo, fino alla malattia, la fame e la morte per chi non ha denaro. E´ evidente che qui a garantire la «sopravvivenza del più adatto» non sono più le risorse biologiche come prevede la teoria di Darwin, ma le risorse economiche, ossia la ricchezza e la potenza che la ricchezza garantisce.

Il capitalismo non controllato, il mercato non regolato, la mancata distribuzione della ricchezza attraverso la tassazione che garantisce lo stato sociale sono le espressioni più evidenti della teoria biologica darwiniana impropriamente applicata alla società. Marx (che proprio a Darwin intendeva dedicare Il Capitale) propose di correggere il darwinismo sociale con il progetto comunista che, naufragato nella sua versione integrale in Russia e in Cina, ha consentito in Europa la creazione di uno stato sociale che oggi vediamo sottoposto a una continua limatura nei paesi capitalisti, e del tutto assente nel resto del mondo.

A questo punto risulta a tutti evidente che gli esiti finali della teoria creazionista, che prevede il dominio incontrastato dell´uomo sulla terra, e l´impropria applicazione alla società della teoria evoluzionista di Darwin vanno perfettamente d´accordo, perché l´astuzia della ragione, coniugata alla malafede, fa sotterraneamente camminare in perfetta armonia gli esiti pratici di teorie che in superficie vengono presentate come opposte e inconciliabili.

L´assenza di cultura, di pensiero e di riflessione critica del nostro tempo, mescolata all´egoismo individuale completano il quadro desolante di un´umanità che all´uso della terra ha sostituito l´usura, e al rispetto dell´uomo il diritto della forza. La storia a questo punto ribolle, come sempre accade quando il suo artefice, l´uomo, regola la sua vita sul registro animale.

Chi è Charles Darwin

Dirò cose forse sgradevoli e se qualcuno dovesse personalmente dolersene me ne scuso fin d´ora. D´altra parte la retorica di pronto uso, l´esagerazione piagnona, la demagogia impudente, l´acquiescenza complice dei mass media nei confronti degli aspetti più deplorevoli del nostro carattere nazionale hanno raggiunto negli ultimi tempi una intensità di proporzioni tali da indurre chi, come il sottoscritto, ne prova disagio, ad un modesto richiamo alla realtà delle cose, più che alla loro rappresentazione.

Prendiamo la scelta di apporre la qualifica di «eroe» a tante povere e rimpiante vittime di incidenti, di malori o anche di azioni belliche o terroristiche. Ora, se le parole hanno un senso, la definizione di eroe andrebbe applicata con sorvegliato spirito di limitazione a «chi sa lottare con eccezionale coraggio e generosità fino al cosciente sacrificio di sé, per una ragione o un ideale ritenuti validi e giusti». Così recita lo Zanichelli che, non a caso, ricorda come l´eroe rappresentasse nelle mitologie antiche un essere intermedio fra gli dei e gli uomini che interviene nel mondo con imprese eccezionali. Ma anche nella storia politico-militare moderna gli eroi, anche il modesto fante in missione volontaria che salta in aria tagliando i reticolati sul Carso, innalzato ad esempio nei testi scolastici della mia adolescenza, erano personaggi eponimi che simboleggiavano le virtù patrie, cui pedagogicamente ispirarsi. Ora, invece, la definizione si allarga fino a perdere senso o, peggio, viene utilizzata per facilitare operazioni di copertura strumentale così che, ad esempio, il perché e il come quella vittima ha perso la vita non sia oggetto di accertamenti critici o chiamate di correo.

Per contro, assunta nell´empireo degli eroi, la sua morte acquista un sigillo di sublimazione che la rende «indiscutibile», oggetto solo di omaggio, venerazione e, al massimo, rimpianto.

Prendiamo, ad esempio, la morte di Pantani. Un campione di grandissimi successi e di rovinoso declino, imputabile in grande misura all´uso prolungato di droghe eccitanti assunte per vincere le gare e che, alla fine, ne hanno fiaccato il corpo oltre allo spirito. Orbene che senso ha avuto l´inondazione mass-mediatica che ha riempito pagine e pagine di ogni giornale e ore di trasmissione tv? Quale "eroe" si è celebrato in questo caso con sì ridondante espressione di lutto e rimembranza? Non andava, piuttosto, con più misurata cronaca, indicato soprattutto come quella fine esemplificasse il decadere dello sport, di tutte le discipline, dove i soldi, gli alti ingaggi, i premi miliardari e le molte speculazioni alle spalle e sulla pelle degli atleti hanno trasformato stadi, piste e altri luoghi di certame sportivo in bacini di corruzione e decadenza?

Un caso tutto diverso è la caduta dei tre cardio chirurghi in volo per Cagliari con un cuore da trapiantare. Il cordoglio è sincero, ma anch´esso è venato da una qualche retorica di troppo, compresa quella nobilitata dalle lodevoli intenzioni del presidente Ciampi e dalla medaglia d´oro che Sirchia propone di conferire a questi «eroi di oggi». Crediamo che non fossero, non si sentissero, non volessero essere chiamati eroi ma riconosciuti in tempo quali persone impegnate fino in fondo nel servizio pubblico, come tantissimi loro colleghi. Meglio ricordare che quel chirurgo, subentrato da nove anni al professore diventato deputato, attendeva da allora invano la nomina a primario e che ogni qualvolta si trovava un cuore da impiantare doveva darsi personalmente da fare per organizzare in un battibaleno il trasporto. Vogliamo gratificare le migliaia di medici presenti in corsia oltre ogni orario di lavoro, gli infermieri che accudiscono i malati depositati nei corridoi per il taglio dei letti, i ricercatori che studiano senza mezzi, distribuendo loro tanti bei certificati di «eroi del giorno d´oggi»?

E, infine, il più controverso degli «eroismi», quello dei Caduti di Nassiriya. Si dirà che il mestiere delle armi comporta potenzialmente il rischio della vita. È vero ma in questo caso l´impegno per il quale erano stati ingaggiati era formalmente una missione umanitaria e non bellica.

Eppure si sono trovati in piena guerriglia e con il terrorismo scatenato, non certamente predisposti ad azioni di combattimento. Non per questo erano stati mandati o avevano scelto di partire. Sono martiri ma non eroi. Eppure, in nome della sacralità dell´eroismo non si dovrebbe parlare del sacrificio loro imposto, delle responsabilità del profilo mendace della missione, del permanere di un quadro d´assieme incerto e pericoloso. Un caso tipico di retorica governativa multiuso

Caro direttore, il presidente Ciampi ha sollevato con forza il problema della scarsa presenza femminile nella rappresentanza politica. Il caso italiano è, in effetti, scandaloso. Purtroppo, nell’imminenza di una scadenza elettorale, bisogna registrare un avvio di discussione tra le forze politiche con deformazioni caricaturali delle proposte in campo per aumentare la rappresentanza di genere.

E’ stata dunque opportuna la pubblicazione su questo giornale dell’articolo di Dahrendorf "Le quote e le ingiustizie", nel quale il grande studioso ricolloca la discussione sulle "quote" nei suoi più ampi termini filosofici e sociali.

I pari diritti, dice Dahrendorf, non bastano a garantire la partecipazione di tutti i cittadini ai beni sociali più ambiti - l’istruzione è l’esempio che gli sta particolarmente a cuore - ed in generale per garantirne la partecipazione alla vita pubblica. Una barriera invisibile separa dall’accesso alla cittadinanza attiva interi gruppi di cittadini diseguali o diversi: la storia del XX secolo è stata anche storia del tentativo di «dare sostanza sociale al concetto astratto di parità di diritti». E proprio la difficoltà di questo compito ha dato origine, in primo luogo negli Stati Uniti, a quella che Dahrendorf definisce la coraggiosa innovazione politica dell’affirmative action (di cui le quote sono un aspetto): una politica che agisce contro la discriminazione e che, con il fine dell’eguaglianza di fatto, deroga all’egual trattamento formale degli individui, favorendo gruppi di svantaggiati o di diversi. Fin qui dunque Dahrendorf loda questa esperienza, inscritta nella vicenda della cittadinanza liberal-democratica. Poi però esprime delle riserve sulle quali vale la pena di soffermarsi, proprio perché propongono in forma alta gli stessi interrogativi che confusamente si aggirano nel dibattito italiano attuale.

Non si rischia, con azioni mirate a promuovere chi appartiene a certi gruppi, di creare nuove ingiustizie? O di promuovere chi è meno capace? Insomma, si interroga Dahrendorf, «può la parità coesistere con l’eccellenza?». Dahrendorf rievoca un famoso caso giudiziario americano, lo studente bianco che non fu ammesso ad una prestigiosa facoltà di medicina a numero chiuso, pur avendo titoli più alti di suoi concorrenti afroamericani che potevano usufruire di una quota. Dahrendorf non ricorda però il dibattito che ne è seguito, un dibattito in cui intervennero non solo politici, ma anche grandi filosofi come Rawls e Dworkin. La Corte Suprema vi pose fine con una sentenza mediatoria: le quote sono legittime, purché non siano rigide, ma semplici orientamenti quantitativi verso i quali tendere. E’ dunque giusto derogare dai trattamenti uguali per creare un’uguaglianza futura: non si crea con ciò ingiustizia, non si impoverisce la qualità della vita sociale e ne può risultare un beneficio d’insieme per tutti. In un recente studio di grande impegno l’ex rettore dell’Università di Harvard, Bok, ha ricostruito con altri studiosi i percorsi e gli ottimi esiti professionali degli studenti che avevano avuto accesso alle Università più prestigiose degli Stati Uniti in virtù delle quote: la parità non è andata contro la qualità. Ma è anche stato rilevato che, se lo stimolo della promozione viene meno, quegli stessi studenti smettono di provare: è accaduto in California, quando 5 anni fa sono state abolite le quote di accesso ed è rapidamente caduta la presenza dei candidati afroamericani e delle donne, gli stessi che avevano avuto successo in precedenza, nel regime protetto.

Questo ci porta a considerare un altro dubbio di Dahrendorf, quello che lui chiama la clausola di temporaneità, la "sunset clause", secondo cui l’azione positiva dovrebbe essere un rimedio temporaneo. Lo studio di Bok ed altri suggerisce che la "sunset clause" non va applicata, se la società continua a riprodurre condizioni di svantaggio: l’affirmative action, l’azione positiva come diciamo in Europa e in Italia, dura finché ce n’è bisogno, di fronte al riprodursi delle diseguaglianze e in mancanza di altri rimedi. Ma cosa accade dell’affirmative action e della sua durata di fronte alle differenze? La domanda ci porta a considerare un altro dei dubbi di Dahrendorf.

Il superamento degli svantaggi è altra cosa dalla cancellazione delle diversità: le differenze possono essere ineliminabili anche perché volute e valorizzate; ciò vale per il genere, le etnie, le religioni. Ha ragione Dahrendorf a non auspicarsi una società meccanicamente omogenea. Ma dimentica che nell’affirmative action vi è anche un messaggio di rispetto della differenza, certo più difficile da realizzare che non quello del superamento della diseguaglianza. E’ più difficile perché porta ad interrogarsi su quali differenze vadano rispettate, e fino a che punto. Ci sono differenze che possono entrare in conflitto con i principi di cittadinanza universale in modo assai più grave delle quote, quando ad esempio alcune minoranze chiedono rispetto per una cultura che lede i diritti degli individui ? si pensi all’infibulazione - in un modo che la società ospite trova intollerabile.

Ma torniamo al punto di partenza. Si tratta di diseguaglianza o di differenza quando si discute di rafforzare la rappresentanza delle donne in politica? Dahrendorf "rabbrividisce" al pensiero di un Parlamento i cui membri siano scelti in base al criterio di appartenenza ad un gruppo, e la preoccupazione è condivisibile. Ma ritengo che Dahrendorf semplifichi troppo un problema complesso quando suggerisce che volere più donne in politica si giustifica solo con la teoria della "democrazia a specchio", mirror democracy, secondo cui ogni gruppo sociale dovrebbe aver titolo ai suoi "naturali" rappresentanti: una teoria che risale alla democrazia corporativa, ed è impropria per una democrazia liberale. Ma è anche improprio per una democrazia liberale che interi gruppi sociali si allontanino dalla partecipazione politica: una massiccia sotto-rappresentanza rappresentativa indica un deficit di democrazia. Come trovare modi per far sì che diseguaglianze e differenze non si traducano in esclusione? Certo, le elezioni sono un punto d’arrivo e bisognerebbe intervenire prima, nel momento in cui si formano le carriere politiche, i gusti per la partecipazione politica. E se non ci si riesce? Quali lezioni trarre dalle esperienze di altre democrazie, in cui spesso le quote sono state efficaci? Sarà meglio studiare e discutere di un problema che si riconosce complesso, piuttosto che liquidarlo con giudizi troppo facili.

(L’autrice è docente di Sociologia del lavoro. Nel 2001 ha pubblicato per Feltrinelli "Donne in quota")

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Ralf Dahrendorf, Quando le “quote” provocano ingiustizia

Credo che una sensazione molto diffusa fra gli italiani premoderni, quelli della lotta di classe, dei diritti civili, del miracolo economico, che era poi il mettere assieme il pranzo con la cena, della morale comune che era poi il comune pudore, la comune decenza, sia di galleggiare nell'aria come gli astronauti senza più peso di gravità. Senza più capire in che mondo viviamo, indefinibile, ingiudicabile, inafferrabile, ma certamente mediocre, certamente osceno, riempito dal vuoto della televisione, delle immagini, del virtuale e della prostituzione universale.

La cosa più difficile da sopportare è l'oscenità diffusa senza limiti. Esempio: la televisione pornografica trasmette due servizi: uno è sulla moglie di un famoso cantante che pur di far carriera nello spettacolo posa seminuda per uno dei soliti servizi da calendari, da casalinga porcacciona; il secondo di una, come chiamarla?, meteorologa di Retequattro che per affermarsi tra le fanciulle con la fritola al vento, posa anche lei per le fotografie del tipo sesso a sonda. Sesso che non solo si infila fra tette e glutei ma che penetra in una libido anatomica, in tutti i fori corporali, se permettete il linguaggio, non le fotografie di un sedere ma di un buco del sedere, di un retto, di un colon. E il mondo degli addetti ai lavori, fotografi, sceneggiatori, registi, coreografi, pubblicitari, direttori di reti è perfettamente d'accordo su questo modernismo da pervertiti: "Ma via che c'è di male? Cosa è questo moralismo da parrocconi? Sono fotografie normali".

Domina lo spettacolo l'ambiguità da suburra di Renato Zero. Un po' di frociaggine con contorno di coda alla vaccinara e di pappardelle, la Roma trasteverina, la Roma del Testaccio in cui l'Italia del Risorgimento si illuse di creare una capitale.

La televisione come strumento principe del potere berlusconiano non è nulla al confronto della televisione plebea che affonda le sue radici nei vizi antichi di un'Italia minore del tira a campare, unta, mezzana che celebra le fanciulle in fiore che fanno carriera vendendosi ai direttori e agli onorevoli. Ma che brave! Non sanno cantare, recitare, ballare ma sono già dive del reality show che sarebbe la negazione del realismo sostituito da zuccherose favole per analfabeti.

Non è piacevole, anzi è decisamente sgradevole e spesso soffocante, vivere in un paese che non ha più il coraggio di essere se stesso, partigiano ma schierato e fedele, un paese che preferisce nascondersi nel trasformismo dei fascisti che fanno i democratici e di democratici che si comportano come fascisti. La sola cosa certa è che in questo paese hanno pochissima fortuna, pochissima popolarità gli eroi civili come l'avvocato Ambrosoli e gli altri che sono morti combattendo la mafia e il malaffare. Un paese pronto a recuperare il peggio, il falso patriottismo, la falsa beneficenza, con il rimpianto del colonialismo.

L'ideologia vincente che guida il governo è un furbesco carpe diem. La 'missione' in Iraq di cui parla il nostro presidente è un opportunistico stare dalla parte del più ricco e del più forte che non è neppure un buon calcolo, perché nel pantano iracheno ci sta pure lui e non sa come tirarsene fuori. Di cosa capiterà agli iracheni e quale sarà il futuro prossimo dei soldati di occupazione americani e nostri, ai governi importa assai meno che le prossime elezioni.

Francamente non è piacevole galleggiare senza peso in questo tempo senza saggezza e senza morale.

Qualcosa si sta guastando nel motore nelle democrazie, anche nelle migliori. Non si tratta di raffreddori passeggeri, ma di malanni cronici che riguardano le strutture portanti: diffuso discredito dei politici, insoddisfazione verso i governi, scarsa partecipazione degli elettori alle elezioni e alle discussioni, invasività dei poteri economici, declino delle idee egualitarie, scarsa capacità del sistema politico di rappresentare settori sociali non tradizionali. Nello spirito del tempo ritorna qualche cosa che ricorda l´era pre-democratica, quando idee dirompenti con il marchio dell´uguaglianza, come il diritto di voto per tutti, dovevano ancora affacciarsi. La lista delle doléances è molto pesante.

Cominciamo da una moda: l´abbandono dell´egualitarismo come anticaglia. Il fatto che ci siano stati eccessi di segno opposto nel sindacalismo europeo degli anni Sessanta e Settanta non giustifica che lo Zeitgeist sposi l´idea che tutto quel che ha odore di uguaglianza sia da buttare. Ci voleva Paul Krugman, dalle colonne del New York Times e nel libro che raccoglie i suoi articoli (The Great Unravelling) per far presente che una società e una economia in cui una pattuglia di tredicimila famiglie raduni lo stesso reddito di venti milioni di famiglie povere è meno stabile e moderata di quella rooseveltiana con una forte classe media e manager meno inclini a falsificare i bilanci per giustificare i loro prelievi devastanti.

Proseguiamo con uno stile: il trasimachismo dei neoconservatori al governo a Washington. Trasimaco è rimasto famoso per il detto breve ma molto denso: giusto è quel che conviene al più forte. Fine del detto. Se la cosa funziona, va. Se ce la fai, è andata. Santificata dalla legge. Spiega Shadia Drury, politologa canadese, una specialista di neocons, autrice di Leo Strauss and the American Right, che per gli ideologi alla Wolfowitz la naturale condizione umana non è quella della libertà ma della subordinazione e che celebrare il diritto naturale significa rendere omaggio non alla parità ma alla dominazione.

Approfondiamo con una teoria: la bugia come dovere dell´élite. Ha spiegato Christopher Hitchens in un articolo di feroce critica alla Casa Bianca su Slate.com (Machiavelli in Mesopotamia): per gli straussiani verità e libertà non si addicono alle rozze masse, premesse e obiettivi di una scelta politica (come la guerra in Iraq) non possono essere pubblicamente confessati, l´arcano è indispensabile, niente perle ai porci, l´élite ha il dovere di proteggersi. E poi chi ha le posizioni di comando sulla base di una selezione "naturale" dei "migliori" tende a percepirsi perennemente come vittima di una persecuzione in agguato, deve proteggersi.

E veniamo alla sintesi di Colin Crouch, in Postdemocrazia (Laterza, pagg. 154, euro 14), un pamphlet destinato a provocare un check-up dei nostri sistemi politici e che vuole mettere uno stop agli assalti alla cultura da cui la democrazia è venuta fuori. Crouch è un sociologo inglese che ha studiato l´Europa e vede nel disprezzo per l´eguaglianza un segno dei tempi da prendere sul serio perché è un termometro del declino della democrazia. La parola stessa, postdemocrazia, contraddice l´idea corrente che le sorti della formula politica di maggior successo nel mondo siano magnifiche e progressive. È vero che continua a crescere il numero dei paesi nei quali si svolgono elezioni ragionevolmente libere, ma nei luoghi del pianeta dove la democrazia dovrebbe sfolgorare nella sua splendida maturità (Europa occidentale, Stati Uniti, Giappone) il suo tracciato storico assomiglia di meno a una linea ascendente e di più a una parabola la cui linea tocca due volte la stessa altezza, una volta in salire e una seconda volta in scendere. Ora si sta scendendo.

Che cos´è la postdemocrazia in cui stiamo per calarci? È un regime perforato e teleguidato da poteri esterni alla rappresentanza politica, da plotoni di specialisti delle transazioni al vertice che tendono a diventare inamovibili, mentre il dibattito elettorale diventa uno spettacolo saldamente controllato da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione. Questa scarsa circolazione e competizione delle élites più che il modello realistico schumpeteriano ricorda epoche pre-democratiche.

La storia del New Labour è descritta da Crouch come una tipica manifestazione di postdemocrazia imminente. Con la base operaia costretta a un ruolo difensivo, il partito di Blair ha dovuto distaccarsene cercando di affermarsi "nel vuoto", diventando una forza fresca e vincente con il riavvicinarsi all´economia. Il grande, esemplare enigma dei laburisti era quello di trovare una base sociale sostitutiva. Le contraddizioni della postdemocrazia sono dannatamente difficili da domare. Accade così che le sinistre che si spingono meno in là di Blair – come i Ds italiani, i socialdemocratici belgi, francesi e tedeschi – non lo fanno perché abbiano trovato il modo di rappresentare gli interessi della nuova popolazione dei lavoratori subordinati postindustriali (il terzo inferiore della popolazione attiva, il mercato dei "flessibili"), ma perché continuano a dover fare più compromessi con i vecchi sindacati e gli altri rappresentanti della società industriale. Queste sfuggenti e scivolose contraddizioni spiegano perché, nel deficit di rappresentanza, prenda piede in vari settori sociali l´unica identità disponibile: quella nazionale di fronte alle minoranze etniche in arrivo con l´immigrazione. Fenomeni alla Fortuyn, Haider, Le Pen, Bossi rispondono più che a spinte autenticamente razziste al bisogno di avere politici rivolti ai bisogni della gente al di fuori del quadro delle élites consolidate.

Che cosa diventeranno i partiti nel XXI secolo? Se nel partito di massa del XX il gruppo dirigente era un piccolo cerchietto intorno al quale c´erano i circoli più larghi dei funzionari, dei militanti, degli elettori fedeli, nel partito postdemocratico al centro ci sarà una ellissi, risultante dall´abbraccio permanente tra i dirigenti, i consulenti professionali, i lobbisti. Il cerchio si stira in direzione del denaro, scavalcando i ranghi intermedi del partito. Ma d´altro canto il contributo degli esperti di opinione è indispensabile perché, nelle nuove condizioni, molto più utile dell´entusiasmo dilettantesco dei militanti, che nel partito di massa era funzionale alla costruzione del consenso.

Se dunque la democrazia non è più un destino garantito come la freccia del tempo che non torna mai indietro, se corriamo il rischio di confermare le teorie dei cicli con i loro corsi e ricorsi, che cosa possiamo tentare per contenere le tendenze postdemocratiche? Crouch prende a prestito vari suggerimenti in circolazione che spingono in tre direzioni: la prima, politiche che taglino le unghie alle élites economiche più aggressive e invadenti; la seconda, politiche che riformino la prassi politica stessa; la terza, iniziative rivolte direttamente ai cittadini. In sostanza si tratta di mantenere i benefici della dinamica del capitalismo senza consegnargli tutte le chiavi della politica. Va escogitato un compromesso, geniale come fu quello escogitato da Keynes e Beveridge, e questa volta bisogna scendere a patti non più con il capitalismo industriale ma con quello finanziario globalizzato. Servono dunque nuove regole per prevenire o contenere i flussi di denaro tra partiti, gruppi di consulenti e lobbies. Sul finanziamento legale dei partiti, Crouch appoggia la proposta di Philippe Schmitter: una somma fissa sul reddito di ciascun cittadino viene assegnata al partito politico scelto ogni anno dal cittadino stesso (il che vale anche per finanziare associazioni e gruppi di interesse). Un´altra proposta si ispira alla cultura "deliberativa", vale a dire alle teorie che valorizzano la discussione pubblica tra i cittadini: istituzione di un´assemblea, da mettere in carica per un mese, di persone estratte a sorte per esaminare un piccolo numero di disegni di legge loro sottoposti da una minoranza (un terzo) del Parlamento. L´assemblea avrebbe il diritto di approvare o respingere la legge.

Ma la premessa di ogni azione di contenimento della postdemocrazia è che si rimettano sobriamente in valore le idee egualitarie e liberali che portarono a inventare il diritto di voto per tutti e che si concordi un minimo denominatore di decenza per cui se un governo inganna i cittadini con bugie questa non è una raffinatezza ma una mascalzonata. E così via ridisegnando meglio i confini tra realismo e utopia.

Prefazione, L’Europa contro le nostre paure

Siamo entrati nel XXI secolo sentendoci intorno un mondo profondamente cambiato; un mondo nel quale buona parte dei nostri punti di riferimento si sono spostati e il futuro che ci aspetta è incerto e non è affatto detto che per noi europei sia migliore.

Certo, la scienza sta aprendo speranze prima impensabili per il miglioramento della vita, ma varca limiti sino a ieri invalicabili nella lotta alla malattia e alla fame e ci pone dilemmi etici che mai avremmo pensato di dover risolvere. Gravano poi su di noi l’insicurezza e gli incubi che nascono da un terrorismo che stentiamo a capire, ma che avvertiamo come un portato di quella globalizzazione, che negli ultimi decenni ha abbattuto confini a cui eravamo abituati da secoli. E poi le ansie legate ai cambiamenti climatici, al deterioramento dell’ambiente, alla sicurezza dei cibi che mangiamo. E infine le incertezze che vengono da un’economia che smuove imprese,capitali e persone da una parte all’altra del mondo, che genera in tal modo opportunità sinora sconosciute, ma elimina anche vecchie sicurezze di lavoro, di reddito, di identità stessa delle nostre città, dove oggi ci troviamo a vivere con persone tanto diverse, ed espongono così a cambiamenti e tensioni da cui si rischia molto spesso di uscire più da perdenti che da vincitori.

Sono rischi, tensioni e paure, che risalgono a cause che sentiamo lontane da noi, matasse di cui non possiamo afferrare il bandolo. Ma non è così. Nulla di ciò che speriamo, ma anche nulla di ciò che temiamo, accade per cause estranee a1le nostre ‘scelte ‘e alle nostre azioni. La scienza, l’economia, il modo in cui le nostre società sono organizzate e in larga misura lo stesso clima sono ciò che noi li facciamo essere, anche quando hanno dimensioni planetarie e globali. Se vogliamo cambiare in meglio, occorre solo che ci portiamo all’altezza ditali dimensioni. Le trasformazioni del mondo entrano infatti nelle nostre case, ma non è certo da lì che le possiamo orientare. E’ l’Europa che ci permette di farlo.

Grazie alla lungimiranza della generazione che ci ha preceduto, noi europei abbiamo la fortuna di averla l’Europa. Nel corso del XX secolo essa ci ha dato la pace fra noi, un mercato comune, una moneta unica. Ora sta a noi adeguarla alle nuove sfide e renderla più forte davanti ad esse, e tuttavia anche più vicina ai suoi cittadini, più trasparente. E’ un’Europa con la quale entrare fiduciosi nel futuro quella di cui abbiamo bisogno e per realizzarla è necessario che tutti sappiano compiere delle scelte: le istituzioni europee, i nostri Governi, ma anche noi cittadini.

Occorrono scelte perché nel mondo vinca la pace, e questo vuol dire battersi affinché le guerre finiscano, non semplicemente tirarsene fuori; per rilanciare una crescita che dia lavoro e non distrugga l’ambiente, i dire saper rinunciare a molte comode posizioni di rendita; per avere servizi migliori, e questo vuole anche dire imparare a guardare al di là dei propri cancelli e dei propri steccati. Diritti e responsabilità. Condividere le politiche della Lista Prodi significa contribuire a realizzarle, perché per un’Europa al servizio di tutti serve l’impegno di ognuno.

La Lista Prodi ha ascoltato tutti e ciascuno, ha chiesto il contributo degli esperti e della gente comune, ha mobilitato associazioni di cittadini e parti sociali. E nel farlo ha percepito quanta attenzione ci sia in esse all’interesse collettivo, quanto esse siano capaci di elaborare proposte lungimiranti, quanto lavoro comune la politica possa intraprendere con loro. Perciò oggi siamo sicuri di avere un buon progetto complessivo e proposte concrete efficaci.

Il programma che presentiamo in queste pagine - con una prima parte dedicata al disegno generale e una seconda alle proposte specifiche per ciascuna figura sociale e per singoli temi - si articola intorno a un preciso filo conduttore: più libertà e più iniziativa, ma anche più governo o, meglio, migliore governo per promuovere e valorizzare le capacità di tutti e di ciascuno. Perché l’Europa, dalle imprese alla ricerca, dall’agricoltura alla finanza, dal welfare ai sistemi formativi soffre per un uso sbagliato e distorto delle sue risorse e per un eccesso di cattiva regolamentazione, molto spesso nazionale, e a volte anche europea: vincoli imposti non per stupidaggine, ma per difendere questo o quell’interesse. La ripresa della crescita e una politica sociale giusta e promotrice essa stessa di crescita cominciano da qui: dal buon governo, dalla capacità di scrivere regole intelligenti, nell’interesse di tutti, non per favorire pochi.

Non ci sono, ricette miracolose. Quando. le. Ferrari perdevano il Gran Premio i meccanici di Maranello non hanno pensato neppure per un minuto che fosse possibile tornare a vincere solo usando una benzina più potente: hanno smontato il motore e poi lo hanno rimontato pezzo per pezzo, sostituendo quelli che non funzionavano. Così sono tornati a vincere. Questo è l’impegno della Lista Prodi: dare all’Europa, e all’Italia, un buon governo.

1. Per tornare a crescere

“Costruire l’Economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. Era il marzo del 2000 quando il Consiglio europeo di Lisbona si poneva questo obiettivo. Sono passati quattro anni. Ma come una palla da tennis sgonfia che ad ogni lancio rimbalza sempre meno, così l’Europa, ogni anno, vede arretrare la sua competitività e la sua capacità di creare crescita e posti di lavoro. Con l’Italia del Governo di Silvio Berlusconi che si distingue in termini negativi in quasi tutti gli indicatori.

Servono palle nuove. Serve una classe dirigente che sappia esercitare la sua 1eadei serve un disegno complessivo per creare sviluppo e sicurezza, servono progetti concreti per centrare l’obiettivo.

Questa è la sfida della Lista Prodi. L’Europa non può più aspettare: deve tornare a crescere e deve rafforzare la sua posizione nel mercato globale. Deve liberarsi dalla trappola in cui è finita, stretta tra la grande capacità innovativa dell’economia americana e i successi asiatici spinti dall’imitazione e dai bassi salari. Solo con più crescita e più qualità nella crescita potremo affrontare i problemi di una società che invecchia e trasformare, rafforzandolo, lo Stato sociale: per tornare a creare sviluppo nella sicurezza di tutti.

Più governo meno dirigismo. Tagliare le tasse non basta. Il centro-destra in questi anni ha teorizzato un assoluto liberiamo sia sociale sia economico, lasciando gli italiani soli davanti a uno dei peggiori cicli economici del dopoguerra. Un liberismo a parole, che in realtà non ha neppure realizzato l’uguaglianza delle opportunità: ha semplicemente privilegiato i più forti e gli interessi corporativi, dalle leggi ad hoc per le squadre di calcio alle liberalizzazioni bloccate, in primis quelle dei servizi pubblici locali

L’Europa ha bisogno di più mercato, di più concorrenza, ma questo richiede una forte capacità di governo. Il che non vuol dire statalismo o dirigismo, ma regole - in primis per abbattere rendite e monopoli - e politiche pubbliche capaci di incidere sui fattori decisivi della crescita, senza le quali neppure una riduzione delle tasse può generare una crescita solida e duratura. I tagli fiscali sono positivi solo se davvero aumentano la capacità di acquisto dei cittadini e non generano, invece, una riduzione dei servizi a loro disposizione o un aumento nel costo degli stessi servizi e delle tasse degli enti locali. Ma non basterebbero comunque da soli in un’Europa dove il costo di troppi servizi risente ancora della mancanza di concorrenza, dove la ricerca e l’innovazione sono insufficienti a renderci competitivi, dove per molti, a partire dalle donne, sono di altra natura gli ostacoli che impediscono di lavorare.

Un nuovo “Patto di stabilità” per mettere i denti al processo di Lisbona. Per tornare a crescere vanno innanzi tutto messi i denti al processo di Lisbona, che si occupa appunto di questi problemi. La nostra proposta è collegare tali politiche al Patto di stabilità, estendendo anche ad esse il sistema di vincoli e sanzioni che oggi protegge l’equilibrio dei bilanci europei.

Il Patto va rafforzato ponendolo maggiormente al servizio della crescita. L’obiettivo del bilancio in surplus o vicino al pareggio va mantenuto, ma bisogna fare sì che, nella valutazione dei saldi, da un lato una attenzione speciale sia riservata alle voci di spesa che contribuiscono direttamente alla crescita, come gli investimenti in formazione superiore, ricerca, innovazione, infrastrutture; dall’altro siano penalizzate le entrate che sono frutto di misure una tantum, come i condoni, che indeboliscono nel medio periodo la sostenibilità dei bilanci. Insomma: meno incentivi ad abbellire artificialmente i conti, e più incentivi a fare le riforme e a investire nel capitale umano.

In questo contesto, i paesi della zona euro potranno procedere con maggiore coordinamento degli altri, definendo criteri comuni per i rispettivi bilanci in modo da potenziare gli effetti positivi delle loro azioni e da prevenire invece divergenze di politiche nazionali, dalle quali tutti sarebbero danneggiati proprio in ragione della moneta che condividono.

Nuove regole per l’Europa della ricerca. Quando un’economia diventa ricca, come è oggi l’Europa, tre soli fattori possono consentirle di continuare a crescere: miglior capitale umano, e cioè più istruzione, e poi ricerca e innovazione. L’investimento in istruzione, ricerca e innovazione è oggi il motore fondamentale della crescita. L’Irlanda, che a tale investimento ha prioritariamente destinato le stesse risorse dei fondi strutturali europei, è il paese che è cresciuto di più In molti altri Paesi d’Europa, invece, davanti alle difficoltà dei conti pubblici, è proprio questo il primo capitolo di spesa ad essere penalizzato. Ma sarebbe un’illusione ritenere che sia solo una questione di soldi. Possiamo spendere quanto vogliamo, ma se prima non abbatteremo le barriere, nazionali e corporative, dietro le quali, in nome delle ricerca, si difendono interessi particolari , non andremo lontano.

La priorità è trattenere in Europa i migliori e anche attrarre i migliori dal resto del mondo. Ma per riuscirci, nell’università come nella ricerca bisogna saper fare delle scelte. Creiamo lo spazio europeo dell’università e della ricerca, in modo da spingere le Università a uscire dal loro localismo e da consentire alla comunità scientifica di convergere sui migliori centri di ricerca europei, senza interferenze burocratiche.

Le università devono tornare ad essere, come avveniva alle loro origini medioevali, una rete del sapere senza barriere tra Stati. Va resa possibile la mobilità dei professori al di là dei confini nazionali, e soprattutto va introdotta un po’ di sana concorrenza fra le università, eliminando le barriere e le nicchie oggi esistenti. In Europa non esistono centri di eccellenza come Boston o Stanford negli Stati Uniti: non solo perché mancano le risorse, ma prima ancora perché quelle poche di cui disponiamo si disperdono in mille rivoli per l’incapacità di scegliere e dire qualche no. Vanno creati centri di eccellenza, avendo il coraggio di concentrare le risorse su pochi istituti di alta qualità. Vanno create cattedre di ricerca europee da assegnare sulla base di una selezione che non guardi alla nazionalità, ma garantisca che vengano scelti i migliori; va fissato un sistema comune di riferimento per la valutazione dei professori e dei risultati della ricerca, basato non su strumenti burocratici, ma semplicemente sulla qualità delle pubblicazioni scientifiche internazionali prodotte; i finanziamenti devono essere assegnati in funzione della capacità degli atenei di attrarre studenti da luoghi anche lontani.

La ricerca europea, però, non andrà lontano senza una profonda revisione del bilancio dell’Unione, che oggi destina alla ricerca solamente un decimo delle risorse destinate all’agricoltura. Vanno, poi, incentivati gli investimenti privati attraverso una legislazione che favorisca la cooperazione tra Università e imprese, attraverso crediti di imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo, attraverso una nuova disciplina comune della proprietà intellettuale, attraverso incentivi a brevettare - ad esempio prevedendo il rimborso del costo delle pratiche necessarie per ottenere un brevetto in funzione dei risultati poi ottenuti - che alimenti i processi di spin-off, attraverso una più favorevole disciplina per il venture capital, attraverso la completa deducibilità fiscale di tutti i contributi privati a titolo gratuito alla ricerca e all’istruzione.

Oggi molti giovani promettenti debbono abbandonare gli studi, mentre il costo vero dell’istruzione non è addebitato neppure a chi potrebbe pagarlo. Per questo è imprescindibile un’altra priorità: la promozione e la valorizzazione dei talenti, indipendentemente dalla loro provenienza sociale. La Lista Prodi ne fa uno dei suoi obiettivi principali. Ne parleremo anche più avanti, ma da subito va sottolineata la nostra determinazione a far pagare chi può e al tempo stesso allargare il sistema delle borse di studio, utilizzando anche il prestito di laurea, da rimborsare solo dopo il conseguimento di un reddito da lavoro non inferiore a un dato ammontare. Un programma da estendere anche a studenti scelti all’inizio dell’ultimo anno della scuola media superiore, perché è lì che spesso si decide il futuro dei talenti.

Sostenere le imprese d’avanguardia, non proteggere i monopoli locali. Ci sono ambiti nei quali la ricerca europea è all’avanguardia e ha alimentato imprese d’avanguardia. Su questi settori dobbiamo puntare con forza per una crescita che sia insieme innovativa e ispirata alla tutela dell’ambiente per l’oggi e il domani. Perché la protezione dell’ambiente non solo può essere in armonia con la crescita economica, ma è anche strumento di promozione di nuove tecnologie. Ed è con tali tecnologie, prima ancora che con i vincoli, che potremo assicurarci la qualità dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo, di un habitat dal quale non scompaiano né le foreste né le biodiversità; per non parlare dei nuovi e tanti lavori di cui abbiamo bisogno.

Vogliamo Stati che incentivino gli imprenditori coraggiosi a rischiare, non Stati che consentono l’accumularsi di rendite e quindi offrono agli imprenditori l’incentivo perverso a catturare quelle rendite anziché a competere sui mercati globali.

Servono investimenti nelle biotecnologie e nelle scienze della vita, nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nelle fonti d’energia rinnovabili, nell’industria aero-spaziale, nelle grandi reti europee. Qui gli Stati hanno un ruolo importante da svolgere: non attraverso la proprietà delle imprese, che devono stare sul mercato, ma attraverso una regolamentazione intelligente e investimenti pubblici nelle tecnologie. D’altronde tra principali successi economici dell’Europa unita ci sono proprio due imprese — due “campioni europei” - il Consorzio Airbus nell’aeronautica e la STMicroelectronics nei semiconduttori, nate in virtù di una cooperazione transnazionale e cresciute lungo quel delicato crinale che è il rapporto fra la ricerca e l’industria.

E servono investimenti nell’innovazione applicata ai processi produttivi, organizzativi e amministrativi di industrie più tradizionali. Un aspetto, quest’ultimo, particolarmente importante per l’Italia. Perché c’è una specificità del nostro settore industriale, che è quella dei prodotti di alta qualità che può trarre grandi vantaggi dall’innovazione applicata ai processi.

Una buona politica deve saper “accompagnare” le imprese sui mercati del mondo con una efficiente rete di servizi, incéntivandole a “fare squadra”; deve proteggere i marchi del Made in Italy dalla concorrenza sleale; deve offrire una burocrazia amica che dia risposte in tempi certi; deve favorire il merito e la qualità anche attraverso norme che facilitino la contendibilità delle imprese a livello europeo; deve utilizzare ogni margine possibile per incentivi fiscali mirati a favorire la crescita delle aziende.

Non più una giustizia poco civile. Una giustizia civile efficiente è una formidabile infrastruttura per lo sviluppo. La sua celerità e la sua affidabilità, non solo garantiscono meglio i diritti di tutti i cittadini, ma incidono sulle scelte di lungo periodo delle aziende.

In questo senso la Lista Prodi sostiene una rapida approvazione della Costituzione europea che introduce il principio del mutuo riconoscimento tra gli Stati membri delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziarie e della loro esecuzione; e prevede la promozione della compatibilità delle norme di procedura civile applicabili negli Stati membri.

Il nostro Paese ha il record di durata dei processi: oltre 9 anni e mezzo per tutti e tre i gradi di giudizio, circa il 70% in più della media UE. Questo danneggia fortemente la possibilità dell’Italia di tenere il passo delle economie degli altri Paesi Ue.

Occorre perciò istituire tribunali specializzati in materia commerciale e occorre intervenire sulle inutili farraginosità delle procedure, sulla eccessiva ampiezza delle impugnazioni e sulla dimensione e distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari. Ma anche liberalizzare la professione di avvocato nell’Unione, permettendo ad avvocati provenienti da nazionalità diverse di lavorare insieme uniformando le professionalità. Per l’Italia non potrà che essere un vantaggio. La liberalizzazione, infatti, accompagnata dalla determinazione forfettaria dell’onorario - non legata quindi al numero delle prestazioni fornite in ciascun processo - induce a non abusare delle garanzie processuali e costituisce un forte incentivo per l’avvocato a chiudere rapidamente la controversia con una transazione.

Una finanza a supporto della crescita. Le imprese europee hanno bisogno di un sistema finanziario che assicuri al più ampio insieme di soggetti un accesso immediato al credito.

La vicenda Parmalat, e ancor prima la Cirio e i bond argentini, hanno gravemente danneggiato un gran numero di risparmiatori e pericolosamente scosso la fiducia in tutto il sistema creditizio e produttivo italiano. La Lista Prodi è dalla parte dei risparmiatori: qualunque ipotesi di riforma deve partire dalla necessità di difendere il risparmio dei cittadini. Anche perché solo partendo da qui, sarà possibile ricostruire la fiducia necessaria intorno a tutto il sistema del credito.

In questo senso c’è una riforma complessiva del sistema dei controlli italiani da portare a termine in tempi rapidi, ma il caso Parmalat ha anche evidenziato come davanti a questi problemi l’Italia da sola non basta più, serve più Europa.

Molte transazioni economico-finanziarie oggi avvengono su scala continentale o mondiale. E’ necessario, dunque, dotarsi di strumenti di controllo almeno di livello continentale. Le resistenze nazionali sono ancora forti, ma sempre più miopi: bisogna creare in tempi brevi una “centrale dei rischi” europea, per poi far nascere una vera e propria Commissione di Vigilanza europea.

Ma senza una maggiore concorrenza fra le banche europee, che superi la segmentazione nazionale dei mercati, difficilmente si centrerà l’obiettivo di avere un sistema del credito che finanzi progetti e idee vere, e non scatole vuote. Vogliamo che imprese e consumatori possano servirsi di banche efficienti, indipendentemente da quale sia la loro nazionalità, non che siano costretti a pagare i costi di banche inefficienti solo perché battono bandiera nazionale. Alle banche italiane dobbiamo chiedere di mettersi alla testa di aggregazioni europee, non di difendersene o di subirle. E le istituzioni devono avere l’intelligenza di saper accompagnare tali processi.

Il parlamento europeo non è ancora riuscito ad approvare una legge sulle acquisizioni societarie. Troppi interessi costituiti, travestiti da sentimenti patriottici, hanno ostacolato ogni iniziativa in questo senso. La Destra italiana e’ corresponsabile di questo fallimento. Una priorità per il nuovo parlamento europeo e’ quella di approvare una legge che non discrimini contro le acquisizioni estere e metta tutte le imprese europee sullo stesso piano.

Le liberalizzazioni da completare: un’arma per fermare l’inflazione. Al di là delle banche c’è tutto il ciclo delle liberalizzazioni da completare. Dal settore delle utilities , alle professioni, all’energia, vi sono beni e servizi fondamentali per i cittadini e le imprese che continuano ad essere gravati da rendite di posizione. Non si può più restare in mezzo al guado. Solo una compiuta liberalizzazione potrà andare incontro alle esigenze de consumatori e degli utenti, garantendo loro beni e servizi migliori e più economici, ed eliminando uno svantaggio di costi che oggi è tra le zavorre che più frenano la competitività delle nostre aziende.

L’Italia continua ad esser il grande paese europeo con l’inflazione più elevata. Il governo Berlusconi non è stato capace di completare le liberalizzazioni e quindi dice che è colpa dell’euro. Lo Stato ha una sola arma per combattere l’inflazione: la concorrenza. Inizi ad usarla e vedrà quanto rapidamente scenderanno i prezzi.

Esistono ancora troppe differenti barriere all’entrata nei diversi paesi europei. In Francia ci vogliono 16 permessi diversi, che richiedono almeno 66 giorni, per iniziare una qualsiasi attività economica. In Inghilterra i permessi sono solo 7 e i giorni 11.

Queste restrizioni rappresentano una forma di protezione delle imprese esistenti ed un ostacolo alla forma one di nuove imprese. E’ compito del parlamento europeo uniformare queste misure, cercando di ridurre i costi all’entrata.

Ambiente e agricoltura. La qualità ambientale è la condizione imprescindibile del progresso economico. La Lista Prodi la considera come parte integrante di una modernizzazione strutturale dell’economia e come una dimensione trasversale di ogni politica settoriale. La politica nei confronti dell’ambiente può essere un fattore determinante per la ripresa della crescita economica. Ciò richiede di ribaltare in la visione tradizionale che considerava l’ambiente come un freno allo sviluppo economico.

Le politiche agricole, innanzi tutto, vanno viste in questo contesto. La Lista Prodi promuove una maggiore competitività del settore agricolo europeo attraverso la qualità, la sicurezza alimentare dei consumatori e la sostenibilità ambientale e territoriale delle attività rurali, non con l’accettazione incontrollata e acritica di tecnologie produttive, di cui non sia comprovata la compatibilità con tale sicurezza e con tale sostenibilità.

Ma anche qui si devono compiere delle scelte. L’iperprotezione di cui godono alcune produzioni agricole europee è francamente inconciliabile con il giusto obiettivo di una globalizzazione più democratica. Anziché difendere produzioni anacronistiche di commodities, gli agricoltori devono avere il coraggio di puntare sulla capacità di aggiungere valore alle produzioni esaltando la qualità storica dei propri prodotti e le potenzialità, anche turistiche, dei territori. Uno strumento essenziale per la modernizzazione, in primo luogo della catena alimentare, sono le grandi cooperative agricole, che rafforzano i produttori e difendono gli stessi consumatori dalle speculazioni che si annidano nell’intermediazione. Gli agricoltori sanno che lungo la strada della modernizzazione l’Europa guidata da noi non li lascerà soli.

Il rilancio dell’agricoltura può avere un ruolo cruciale nella difesa del territorio e dell’ambiente. Ma non basterà l’agricoltura a contrastare il degrado degli equilibri naturali e soprattutto le profonde alterazioni climatiche indotte dalle emissioni di gas serra. La Lista Prodi rilancerà in questo senso il ruolo dell’Europa nella promozione e nel coordinamento di politiche sostenibili di consumo energetico e di protezione del territorio.

Politiche che passano per l’attuazione degli accordi di Kyoto, ma anche per una nuova sfida: l’uso generalizzato dell’energia prodotta dall’idrogeno e dalle altre fonti non inquinanti. L’Europa deve dare a se stessa, ed estenderlo al mondo, l’obiettivo di un progressivo abbattimento dell’uso dei combustibili fossili per generare energia Per questo dovrà dedicare grandi risorse allo sviluppo di programmi di ricerca per lo sviluppo di fonti energetiche di tipo rinnovabile, con la speranza che un giorno essa possa davvero trasformarsi in un’economia libera dai fossili.

Il Mezzogiorno è Europa. La crescita dell’intera Unione Europea, nei prossimi decenni dipenderà in gran parte dalla capacità delle sue regioni più deboli di camminare con le proprie gambe.

Non servono trasferimenti improduttivi, ma investimenti nei fattori di competitività: ricerca e innovazione, infrastrutture fisiche e immateriali, capitale umano. E’ una strada che l’Ullivo e la stessa Europa hanno già intrapreso con successo: ora bisogna soprattutto vigilare che le risorse per le politiche di coesione vengano adeguatamente finanziate anche dopo 1’ allargamento, semplificare ulteriormente le procedure, accrescere la sussidiarietà, rafforzare la diffusione delle buone pratiche.

Dopo i tanti errori del passato, il Mezzogiorno d’Italia ha davanti a sé la possibilità concreta di un futuro diverso. Nella globalizzazione, infatti, l’atout di un patrimonio storico, culturale e ambientale come quello del nostro Sud può trasformarsi in un grande vantaggio competitivo. Se sapremo valorizzarlo con un’organizzazione efficiente, il Mezzogiorno potrà davvero diventare un ineguagliabile fornitore di servizi tradizionali e avanzati all’intera Europa, con straordinarie possibilità di crescita.

C’è poi un’ulteriore occasione. E’ quella determinata dai mutati scenari geopolitici che possono fare del Sud un ponte dell’Europa nel Mediterraneo. E’ interesse del Continente intero valorizzare il Mezzogiorno come avamposto per intercettare commerci, possibilità imprenditoriali, nuovi mercati che nel Mediterraneo possono aprirsi. E sarà senz’altro utile, in questo senso, l’istituzione della Banca euromediterranea, come strumento di finanziamento di infrastrutture e di promozione delle imprese in questa direzione.

Il patrimonio storico dell’Europa, le sue città, la sua cultura: straordinarie leve di crescita civile. Nell’economia “globale” i paesi ce la fanno solo se sanno trovare una propria specializzazione, aree nelle quali eccellere e distinguersi dagli altri. Abbiamo già parlato di innovazione e capitale umano, ma vi è un’altra area nella quale l’Europa ha un forte vantaggio comparato: la sua storia, la sua cultura, le sue città.

La valorizzazione del patrimonio storico e culturale dell’intera Europa può essere uno straordinario volano per la crescita di tutto il Continente. Le città, i territori, i paesaggi, i monumenti, le tradizioni, i borghi antichi sono valori primari della nostra riconoscibilità, della nostra memoria e della nostra cultura, ma sono anche un’infrastruttura d’importanza decisiva per la qualità ed il futuro del nostro sviluppo.

L’Unione deve riconoscere che questo capitale diffuso, ma spesso soffocato o degradato, è una grande risorsa per rilanciare un modello europeo capace di coniugare realmente innovazione economica e coesione sociale. In questo senso i fondi europei dovranno essere impegnati sempre meno in interventi settoriali e sempre più in progetti integrati urbani e territoriali. Anche così le risorse per le politiche di coesione territoriale potranno sviluppare il massimo delle potenzialità locali.

Molte delle città europee - Barcellona, tra tutte - hanno intrapreso questo cammino mostrando formule attraverso cui far lavorare insieme finanziamenti comunitari, politica ed imprenditoria locale. I successi sono stati evidenti e li vogliamo replicare potenziando le azioni a favore dello sviluppo urbano.

Ma, su tutto, va promosso un programma straordinario per ristrutturare e restituire ai propri abitanti i centri storici degradati delle città di alto valore storico-culturale (con quelle del nostro Mezzogiorno in primo piano). Perché è lì, da Palermo a Lisbona, che c’è la nostra storia e la nostra identità. Ed è da lì che l’Europa deve ripartire per trovare un nuovo senso al suo stare nel mondo.

Per valorizzare al meglio questa risorsa, e in considerazione della specificità italiana, la Lista Prodi si farà anche promotrice dell’istituzione di un”Agenzia europea per la conservazione e il restauro” con sede nel nostro Paese. Un istituto che avrà come missione, appunto, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale e artistico degli Stati membri nel proprio contesto ambientale e naturale, attraverso il finanziamento di centri di studio di eccellenza, la catalogazione dei beni, il controllo qualificato sulle aggressioni ambientali e la valorizzazione del turismo.

Dobbiamo difendere le tante specificità culturali locali, ma dobbiamo anche essere capaci di metterci insieme per creare quella massa d’urto necessaria per imporre il nostro patrimonio e la nostra produzione culturale in giro per il mondo. Dall’invadenza dell’industria culturale americana ci si difende anche così, non erigendo inutili barriere.

Le città, luoghi di convivenza. Le città non sono soltanto una parte del nostro patrimonio storico e culturale. Sono anche i luoghi dove si rende concreta la globalizzazione facendo vivere le une accanto alle altre persone di etnie e di culture diverse. Sono i luoghi dove crescono la maggior parte dei nostri bambini, dove gli adulti lavorano e sono alla disperata ricerca di più distesi tempi di vita, sono i luoghi dove molti dei nostri anziani passano i loro ultimi anni in un crescente bisogno di servizi che funzionano.

Città sicure, città nelle quali sia possibile spostarsi con facilità, trovare case a basso costo e di buona qualità, avere spazi verdi dove i bambini possano giocare e strade sicure perché possano andare a piedi a scuola; servizi sanitari e assistenziali per chiunque né abbia bisogno e, in primo luogo, per gli anziani: tutto questo non è e non può essere un sogno, deve essere un impegno comune delle città europee, a garanzia irrinunciabile della civile convivenza tra diversi e del modello sociale di cui i ‘Europa vuole essere espressione e paladina nel mondo.

Più pluralismo e migliore servizio pubblico nei mezzi di comunicazione. Della nostra cultura e della nostra democrazia, infine, fanno parte anche i mezzi di comunicazione di massa e, in particolare, le televisioni. In questo settore, purtroppo, l’Italia non dà un buon esempio all’Europa.

La Lista Prodi intende perciò chiedere al nuovo Parlamento europeo un forte impegno perché il futuro dei media sia più democratico e più ricco. Promuoverà, dunque, politiche tese a rafforzare il pluralismo informativo, ad allargare il mercato dei media e a qualificare il ruolo del servizio pubblico, che va riportato agli standard che ne sono la ragion d’essere e che legittimano lo speciale finanziamento che esso riceve dai cittadini. Ma si farà anche promotrice di una disciplina europea del conflitto di interessi contenente una chiara separazione tra proprietà o gestione di imprese radiotelevisive e l’esercizio di rilevanti funzioni istituzionali.

2. Lavoro, Welfare e risorse umane

Un’Europa in cui si lavori di più, perché si può lavorare di più. Troppe donne oggi sono prigioniere di una doppia vita che le costringe a rinunciare o alla maternità o al lavoro, troppe donne e troppi uomini restano fuori dal mondo del lavoro perché non hanno professionalità adeguate o semplicemente non trovano l’occasione giusta, troppi bambini e troppi giovani sono condannati sin dalla prima infanzia a un destino di esclusione.

Il risultato è che in Europa troppo pochi lavorano. Il 60 per cento delle persone tra i 15 e i 64 anni, contro il 70 per cento negli Stati Uniti e obiettivo che i capi di Governo dell’Unione si sono dati per il 2010. E qui l’Italia ha il primato del tasso di occupazione più basso d’Europa, il 55 per cento. E’ questo il primo vincolo alla nostra crescita, sono queste le priorità che in campo sociale una buona politica oggi deve affrontare e risolvere.

L’orgoglio di una società diversa da quella americana. Purché funzioni. Siamo orgogliosi di essere europei per le istituzioni di sicurezza sociale che l’Europa si è data e molti, anche negli Stati Uniti ci invidiano. Tuttavia le sfide dei nuovi tempi, l’allungamento della vita media, l’accesso delle donne al mondo del lavoro, la diffusione di percorsi più liberi ma anche più individuali e flessibili, sino alla precarietà, la difficoltà a creare nuovi posti di lavoro hanno reso quelle istituzioni inadeguate a rispondere ai nuovi bisogni.

Perciò, pur nella consapevolezza che non esiste e non potrà esistere un unico modello di Welfare europeo, il riformismo non può sottrarsi alla sfida di riformare le istituzioni sociali, nella certezza che tale sfida e quella altrettanto prioritaria per il lavoro si intrecciano oggi a doppio filo. In un tempo nel quale la stessa crescita dipende largamente dalla valorizzazione del nostro capitale umano, riformare il welfare significa renderlo non un peso, ma un fattore propulsivo della stessa crescita attraverso la valorizzazione di ogni giovane, di ogni donna, di ogni adulto. Vanno rimossi gli ostacoli che oggi cancellano progetti di vita e ciascuno va messo in condizione di formarsi, di aggiornarsi e di lavorare. E vanno difesi coloro che non possono difendersi da soli.

Il Welfare inclusivo. Paradossalmente, lo stato sociale europeo, da strumento di inclusione sociale, sta diventando sempre più una ragione di esclusione di chi sta fuori, anche nell’ambito dei confini europei. Per evitarlo ecco le nostre proposte, cominciando dalla rete di protezione minii loro che sono i veri esclusi di oggi.

• Tolleranza zero nei confronti della povertà minorile e delle disuguaglianze che già nell’età pre-scolare predispongono all’esclusione i bambini poveri. Bisogna contrastare il peso dell’eredità familiare e sociale in modo da rendere indipendenti le potenzialità di successo nella vita dai privilegi sociali ed ereditari. Per questo l’Unione dovrà aderire alla Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo, secondo la quale bambine e bambini, ovunque siano e da qualunque parte del mondo vengano, devono essere trattati tutti allo stesso modo e avere tutti gli stessi diritti. Per questo una rete di servizi educativi e di assistenza familiare per i bambini da O a 3 anni è un obiettivo prioritario, non solo per conciliare il lavoro della madre e del padre con la cura dei figli, ma prima di tutto per favorire la piena formazione degli stessi figli, così come avevamo cominciato a fare in Italia con la legge del 1996 che riguardava la promozione dei diritti dei bambini. La Carta di Barcellona ci chiede di accogliere negli asili nido almeno il 33% delle bambine e dei bambini. E’ un obiettivo minimo che l’Europa dovrà realizzare.

• Coordinamento tra le reti di protezione sociale di ultima istanza fra i paesi europei, facendo sì che gradualmente il diritto a un reddito minimo, conformato sia pure da ciascun paese in ragione delle proprie specificità (e quindi come reddito minimo garantito da alcuni, come reddito di inserimento da altri) diventi comunque una delle istituzioni cardine di cittadinanza europea. Sono, infatti, proprio queste le componenti dello stato sociale che rischiano per prime di venire ridimensionate dalla concorrenza al ribasso tra gli Stati al fine di attrarre capitali. Coordinarle al livello europeo serve non solo a proteggerle dalle pressioni competitive ma anche ad evitare che i flussi di immigrazione si concentrino sui Paesi che hanno le misure di protezione più generose.

In Europa ci sono 18 milioni di immigrati regolari che hanno fatto dei nostri paesi il loro progetto di vita. Sono donne, sono bambini, sono famiglie. Loro per primi sono tra le risorse umane che dobbiamo imparare a valorizzare, soprattutto oggi, alla vigilia dell’allargamento. Ci aiutano a crescere di più perché vanno dove il mercato del lavoro ne ha più bisogno, compensando la scarsa mobilità di noi europei. Le restrizioni ai flussi migratori non servono a impedire l’immigrazione. Possono solo renderla più graduale. Barriere anacronistiche come quelle contemplate dal Governo italiano (30.000 ingressi nel 2004 quando le imprese nei chiedono 4 volte tanti) ci impediscono di crescere e finiscono per alimentare l’immigrazione clandestina. Gli immigrati arrivano comunque, anche senza permesso di lavoro, e finiscono per lavorare in nero, il che significa che possono solo ricevere e non contribuire allo stato sociale. La clandestinità fa arrivare i meno qualificati e poi, con l’immancabile sanatoria, ci troviamo con persone che hanno una più alta probabilità di dovere in futuro ricorrere alle prestazioni dello stato sociale. Serve una politica europea dell’immigrazione e serve che sia l’Europa a stabilire le garanzie minime dei diritti degli immigrati, dalla cittadinanza di residenza ai limiti di quella vera e propria reclusione che è la detenzione nei centri di permanenza temporanea. Dovrà uscirne un patto che insieme ai diritti preveda precisi doveri, in nome della condivisione di regole e valori, che sono alla base della nostra convivenza in Europa.

Il Welfare al di sopra della rete di protezione minima. Al di sopra della rete di protezione minima l’asse del Welfare europeo dovrà essere la riduzione delle diseguaglianze attraverso le politiche attive del lavoro e la formazione permanente, grazie alla progressiva convergenza di tutti i nostri Stati verso esistenti all’interno dell’Unione.

C’è molto da imparare dai paesi più piccoli dell’Unione, che riescono a ridurre di più le disuguaglianze in proporzione a ciò che spendono in politiche sociali. Questo significa che molte politiche sociali possono essere meglio gestite su piccola scala e, quindi, per i grandi paesi, a livello locale. Importante è avere politiche attive, che spingano i beneficiari a cercare un lavoro, pena la riduzione del sostegno loro offerto, mentre ha funzionato con successo nel Regno Unito e in Svezia legare la concessione di sostegni al reddito al fatto di avere un lavoro. I sussidi o i crediti di imposta condizionati al lavoro facilitano anche il reinserimento nella vita attiva di quel 30 per cento di donne che in Italia non rientrano nel mercato del lavoro dopo la maternità. Mentre è essenziale è che i contratti di lavoro per gli adolescenti fino a 18 anni abbiano un contenuto prevalentemente formativo.

Altri paesi dell’Unione hanno fatto importanti passi in avanti nella formazione permanente che consente di aggiornare le proprie competenze oltre gli anni degli studi scolastici: formazione per i giovani che interrompono gli studi per un lavoro spesso non qualificato e che rischiano così di condannarsi alla serie B per il resto della vita, per i lavoratori adulti che prima ancora dei cinquant’anni rischiano l’espulsione perché hanno conoscenze obsolete, per le e donne che interrompono la vita lavorativa per crescere i figli o per altre ragioni di cura familiare.

La trasparenza su chi paga e chi riceve, infine, è condizione necessaria per migliorare il welfare. Proponiamo di introdurre una contabilità generazionale delle spese sociali che renda chiaro a tutti come la spesa sociale viene ripartita per età.

Il Welfare che libera tempo. I genitori hanno la necessità e il diritto di non sacrificare il lavoro per la famiglia. E i bambini hanno bisogno del tempo dei genitori. I paesi del Nord Europa si distinguono per il loro più alto tasso di occupazione femminile e per il più alto tasso di natalità rispetto all’Italia ed altri Paesi dell’Europa del Sud. Ci sono pratiche che da loro dobbiamo imparare e di esse fanno parte interventi mirati per aiutare donne e uomini a conciliare lavoro e cura di sé e della famiglia, vita professionale e vita privata, attraverso reti di servizi, dagli asili al pieno tempo scolastico, e reti di cooperazione sociale e collettiva, che liberano le persone “producendo tempo”.

Il Welfare che incoraggia la mobilità. Oggi in Europa muoversi, cercare lavoro in un paese diverso è difficile e spesso non è la lingua l’ostacolo maggiore. Ma della mobilità abbiamo bisogno non solo per ragioni economiche (abbiamo fortissimi divari nei livelli di produttività, dunque possiamo diventare molto più ricchi con una diversa distribuzione territoriale della forza lavoro), ma anche politiche. I cittadini che hanno vissuto in più di un paese dell’Unione sono quelli maggiormente favorevoli all’integrazione politica in Europa.

Il Welfare per chi ha diritto all’assistenza. Nessuno sarà lasciato solo. Uno Stato sociale che sia davvero universale ed inclusivo non esaurisce i suoi compiti nell’aiutare le persone ad aiutarsi. C’è infatti chi - o perché troppo anziano, o perché troppo isolato, o perché semplicemente malato o gravato da handicap permanenti — non saprà che farsene della formazione permanente, degli incentivi a trovare lavoro, dei servizi che “liberano” il tempo. E’ questa una condizione che col passare degli anni colpisce soprattutto le donne, che vivono più a lungo, rimangono sole con redditi spesso bassi, sono esposte alla violenza. Il fondamentale diritto ad una vita serena e dignitosa va assicurato anche a loro.

Il potenziamento dei servizi sanitari e l’assistenza domiciliare e non degli anziani sono diventate, anche in considerazione dell’evoluzione demografica dei prossimi anni, vere e proprie emergenze sociali. E davanti ad esse le istituzioni pubbliche di tutta Europa devono abituarsi, o riabituarsi, a considerare i destinatari dei servizi non soltanto come consumatori, ma come cittadini che fanno valere diritti essenziali di cittadinanza. A questo fine, reti integrate fra pubblico e privato, basate ovunque possibile sul perno ‘essenziale dell’impegno volontario del terzo settore, dovranno offrire insieme più risorse, più energie, più libertà di scelta per gli stessi cittadini.

3. L ‘Europa nel mondo

Europa potenza civile. In un’epoca dominata da rischi globali e dalla minaccia del terrorismo internazionale, gli europei chiedono anzitutto all’Europa più sicurezza e più protezione. E sappiamo che per averle occorre attorno a loro un mondo di pace e di maggiore giustizia.

Sanno che l’Europa è stata in grado di offrirla la pace e lo ha fatto attraverso l’integrazione politica ed economica, che è l’eredità principale dell’ultimo mezzo secolo di storia europea. Attraverso l’Europa, gli Stati nazionali hanno rinunciato alla guerra e posto le basi di uno sviluppo economico e democratico che ha gradualmente coinvolto l’intero Continente. L’allargamento ai paesi dell’Europa centro-orientale, infatti, è il compimento di questo processo.

Tutto questo, però, non è più sufficiente. Gli europei sanno anche — e gli attentati a Madrid lo hanno drammaticamente ricordato — che la loro pace non reggerà se non riuscirà a fare progressi anche altrove. L’Europa non è già più un’isola di stabilità; e lo sarà sempre meno se il mondo attorno ai suoi nuovi confini continuerà a precipitare nei conflitti e nella arretratezza. In un mondo globale, l’insicurezza esterna diventa la nostra stessa insicurezza, la fine della pace interna.

L’Europa deve quindi imparare ad occuparsi del mondo per riuscire ad occuparsi di sé: dovrà diventare una potenza civile con una influenza globale e non solo regionale.

I valori condivisi dell’Unione rappresentano la nostra identità collettiva: la democrazia come metodo di buon governo, la sicurezza attraverso l’integrazione, sono tratti fondanti dell’esperienza comunitaria. Un’esperienza che i paesi europei non devono dimenticare, dividendosi nuovamente di fronte alle sfide globali; ma devono invece valorizzare, trasferendola in un’azione internazionale comune.

Europa-potenza civile non significa una politica estera priva di strumenti militari. Significa una potenza che sceglie di integrare interessi e valori; e che subordina l’uso della forza all’esterno, necessario in casi estremi, ad obiettivi politici democratici, alla difesa dei diritti umani e a regole multilaterali. Proteggere i diritti umani e rafforzare il diritto internazionale sono in realtà l’unica speranza per dare a un mondo che appare fuori controllo, e dominato da rischi globali, speranze di sviluppo, di giustizia, di stabilità. Costruire un multilateralismo efficace è per l’Europa potenza civile un obiettivo strategico da raggiungere e insieme una condizione per esistere sul piano internazionale.

Se parlerà con una voce sola, anche se non sempre unica, l’Europa potrà incidere: lo dimostra il peso europeo nella Organizzazione mondiale del Commercio. Se parlerà con voci nazionali in contrasto, l’Europa non peserà affatto.

Per contare di più sarà importante, anche, poter contare su industrie della difesa maggiormente integrate. Investire nella creazione di un’industria della difesa europea non significa essere guerrafondai: significa piuttosto dare all’Europa l’opportunità di giocare un ruolo indipendente nella soluzione dei conflitti mondiali, senza restare alla mercé degli Stati Uniti.

Contro il terrorismo. Il terrorismo internazionale, nel tragico nesso che unisce l’11 settembre americano all’ 11 marzo europeo, costituisce per i popoli di entrambi i lati dell’Atlantico un terribile nemico comune da contrastare con uguale determinazione e convinzione. Questo non significa che i paesi europei, a cominciare dall’Italia, debbano per ciò stesso appoggiare le scelte internazionali compiute dall’amministrazione Bush. Compito dell’Europa, e di una nuova politica estera italiana, è anzi di puntare a costruire una strategia multilaterale più efficace di lotta al terrorismo.

L’Europa potenza civile deve attuare concretamente una strategia unitaria contro il terrorismo. Deve evitare rimozioni, ma deve anche evitare l’illusione che il terrorismo internazionale possa essere sconfitto solo con la forza militare. E deve riuscire a chiarire in che modo combinerà maggiore sicurezza e continua difesa delle libertà democratiche. Se le società democratiche sono bersagli privilegiati del terrorismo internazionale, è solo mantenendo le nostre caratteristiche di società democratiche che possiamo sconfiggerlo.

La lotta al terrorismo è la priorità: ma richiede, proprio per potere avere successo, che le tensioni politiche e sociali esistenti sul piano internazionale vengano affrontate e non trascurate. E’ la priorità che sottolinea l’importanza delle altre priorità: la lotta alla povertà, alle malattie, all’emarginazione, all’esclusione dalla formazione e dalle risorse.

L’Europa deve credere in una battaglia globale e a lungo termine per l’uscita di milioni di persone da condizioni di miseria. E deve trovare, per poterla vincere, nuovi e più efficaci strumenti di azione: deve coinvolgere il settore privato negli aiuti allo sviluppo (per esempio, con meccanismi simili all’8 per mille); deve azzerare il debito degli Stati più poveri, deve liberalizzare i mercati e abolire un protezionismo agricolo che d’altra parte impedisce una riforma indispensabile del bilancio ‘dell’Unione, deve essere in prima linea per l’affermazione dei diritti democratici là dove essi sono negati, per i diritti delle donne (una chiave essenziale per la modernizzazione delle società islamiche), per i diritti dei bambini e degli adolescenti e contro il loro sfruttamento nel lavoro, contro la prostituzione minorile, la tratta, l’abuso, la violenza, il loro uso nelle guerre.

Nei rapporti transatlantici, vanno discusse le condizioni perché possa esistere una “comunità d’azione” transatlantica rinnovata, non puramente rivolta al passato ma in grado di identificare le priorità comuni di oggi. Storicamente, la politica americana ha avuto successo quando è stata internazionalizzata, coinvolgendo anche l’Europa: questo significa che un ruolo globale più solido dell’Europa offre un’alternativa multilaterale agli Usa che fondamentalmente riflette gli interessi sia degli americani sia degli europei.

Ciò vale anche per il futuro del Medio Oriente e del Mediterraneo, e cioè della vasta area che costituisce - assieme ai Balcani e all’Asia centrale - una priorità geopolitica decisiva dell’Europa allargata. L’allargamento, che già è andato oltre i loro confini, è destinato ad includere gli stessi Balcani, mentre nei confronti di altri paesi vicini l’Europa dovrà creare l’anello degli amici, attraverso speciali rapporti di partnership privilegiata. Verso il mondo arabo essa dovrà impegnarsi per rispondere alle tre ragioni principali che secondo i rapporti delle Nazioni Unite sono alla base del suo mancato sviluppo: assenza di libertà, esclusione delle donne dalla vita civile e scarso accesso alla conoscenza. Un ampio settore del mondo arabo è tuttavia in movimento, alla ricerca di spazi di libertà e di crescita. Questo fermento va incanalato, favorendo la creazione di una rete tra associazioni dei paesi dell’area, e incentivando così la nascita di sindacati e partiti politici, in quei paesi dove le uniche forme assembleari avvengono nelle moschee. E’ vitale, per il destino del mondo arabo e per l’integrazione di milioni di persone nelle società europee, che l’Islam moderato prevalga sul fondamentalismo.

E’ altrettanto vitale, per il futuro di quest’area, che i conflitti ancora aperti vengano risolti in modo pacifico ed equo: l’Europa ha un interesse comune alla soluzione del conflitto Israelo-palestinese, sulla base di due Stati reciprocamente sicuri; alla stabilizzazione di un Iraq democratico e governato dai propri cittadini; alla graduale evoluzione di un Iran che rinunci a dotarsi di armi nucleari.

La democrazia non deve essere imposta dall’alto, ma deve essere un processo che veda protagonisti gli arabi stessi. Non c’è nessuna vera incompatibilità tra Islam e democrazia, e l’avvicinamento della Turchia all’Unione potrà dimostrarlo. Il conflitto, piuttosto, è tra regimi autoritari e stato di diritto.

In nome di un multilateralismo efficace, l’Europa deve contribuire ad una riforma complessiva dell’ONU — composizione del Consiglio di sicurezza, criteri di intervento, strumenti a disposizione — che permetta di fondare sulla forza del diritto internazionale azioni collettive a difesa della sicurezza e dei diritti umani. La responsabilità di proteggere i popoli, che è parte. integrante degli obiettivi della Carta delle Nazioni Unite, deve prevalere sulle barriere degli Stati nazionali. In un sistema di sicurezza collettiva adattato alle sfide del dopoguerra fredda, le Nazioni Unite, l’UE e la NATO si rafforzeranno a vicenda.

Una leadership politica europea. La prima condizione perché l’Europa riesca a compiere questo salto di qualità — da area regionale a potenza civile globale — è la convergenza e coerenza delle posizioni nazionali: un “ministro degli esteri” europeo, come disegnato dal Trattato costituzionale, costituisce un elemento-chiave in tal senso. La Costituzione europea permette quindi dei passi avanti importanti, ma che andranno consolidati attraverso dei passi ulteriori: creazione di un servizio diplomatico europeo, integrazione crescente delle forze militari, armonizzazione delle posizioni nelle Nazioni Unite, fino a un seggio europeo nel Consiglio di Sicurezza.

La seconda condizione di una Europa attore globale è la chiarezza dei valori e dei principi internazionali su cui orientare la posizione dell’Unione: giustizia, pace e democrazia non possono più rimanere confinati alle politiche nazionali. L’Unione europea non può quindi abdicare alla responsabilità di difendere questi valori, quando vengano violati diritti umani fondamentali, anche attraverso l’uso della forza sotto mandato delle Nazioni Unite: ma la forza sarà sempre, per l’Unione, una risorsa ultima.

La natura complessa dei processi di globalizzazione richiede, infatti, forme di intervento ad ampio spettro e con strumenti diversi ma integrati. Non si fronteggiano i grandi dilemmi legati all’evoluzione demografica e ai flussi migratori, al degrado ambientale, ai grandi divari di reddito e condizioni di vita, alle grandi reti criminali e al terrorismo con istituzioni parcellizzate e prive di bussole e di obiettivi davvero prioritari e comuni.

L’Europa, da questo punto di vista, ha almeno tre vantaggi comparati, che deve sfruttare al meglio: dispone di strumenti di azione e di influenza ad ampio raggio (dalla diplomazia al peso economico, dai legami culturali alla forte presenza nelle principali sedi internazionali); è forte di una sorta di “legittimità intrinseca” derivante dalla sua natura di organizzazione multinazionale democratica con una forte componente sopranazionale; e infine è parte integrante di una più ampia comunità di Stati e di popoli, che ha un enorme potenziale di influenza su scala mondiale.

Abbiamo di fronte a noi un mondo gravido di rischi, vecchi e nuovi; ma anche di opportunità. L’Europa è una tipo di potenza “adatta” per contribuire a trasformare i rischi in opportunità: per aiutare a governare, in modo equo e democratico, i processi di globalizzazione. Ma bisogna che l’Unione europea voglia farlo e che sia in grado di farlo, come del resto chiedono i cittadini europei.

La premessa indispensabile è una nuova leadership politica europea, che sia conscia di due verità molto semplici: nessuno degli Stati nazionali, preso singolarmente, è più in grado di esercitare una vera influenza all’esterno e quindi a proteggere i suoi cittadini all’interno; non ci sarà vera sicurezza europea senza sicurezza e giustizia globali.

4. La Costituzione europea

Rimettiamoci al lavoro per la Costituzione europea. E’ questa la nostra carta di identità: quella che ci permette di indicare a tutto il mondo i valori in cui crediamo.

Con la Costituzione noi offriamo a noi stessi la possibilità di organizzare con decisioni condivise la nostra sicurezza e il nostro sviluppo. Ma è anche la maniera di dire al mondo intero che è possibile vivere concretamente, in un grande spazio di mezzo miliardo di persone, la democrazia, la sicurezza, lo Stato di diritto: garantendo con la nostra Carta fondamentale diritti e principi che valgono non solo per i nostri cittadini ma per ogni persona umana che si trovi nel nostro territorio.

L’Unione europea propone così un ordinamento politico che supera le divisioni fra gli Stati nazionali. Esso è un modello, già imitato, per una democrazia internazionale basata su regioni multistatali. Dimostra che non vi è una deriva incontrollabile alla globalizzazione, ma che la globalizzazione si può governare con politiche adeguate alle sue dimensioni. E soprattutto con un’azione politica costante dell’Unione che abbia al suo centro, come dice la Carta dei diritti approvata a Nizza, la persona. La Carta dei diritti costituisce una vera e propria carta di identità dell’Unione, perché disegna un modello sociale europeo diverso da altri propri dell’Occidente democratico -basti pensare al valore attribuito ai diritti sociali e al divieto assoluto della pena di morte- e permette una civile convivenza fra persone di diversa nazionalità, cultura, lingua e religione, assicurando a ciascuno il rispetto della sua identità della sua dignità, della sua libertà, della sua diversità. La lai delle istituzioni e di tutti i poteri pubblici è lo strumento per garantire equamente i diritti di ciascuno. E su tale garanzia è fondato lo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia comune dell’Unione.

Il progetto costituzionale elaborato dalla Convenzione non è fino in fondo quello che avremmo voluto e che avrebbe voluto la stessa Commissione Prodi. Eppure l’approvazione del progetto da parte della Convenzione rimane il segno di un nuovo inizio della comune impresa europea, da cui non si può più tornare indietro. Tutti sanno che le attuali istituzioni, pensate per una comunità di Stati molto più ristretta di quella che prospetta con l’allargamento, non sarebbero in grado di fronteggiare le sfide che attendono l’Europa fuori e dentro i suoi confini. D’altra parte, la prospettiva di club ristretti di Stati che decidono per tutti - cosa diversa dalle speciali “cooperazioni”, previste e in qualche caso auspicate dal progetto della Convenzione - ha il fiato corto, riflette un’epoca che è alle nostre spalle. Solo l’approvazione della Costituzione può evitare la paralisi decisionale dell’Unione.

Nessuno, alla Convenzione, ha pensato a un “Superstato” europeo. Al contrario, l’obiettivo che la Convenzione si è dato è stato quello di disegnare istituzioni concentrate su funzioni chiaramente delineate, in modo che la loro forza non contrasti con quella delle istituzioni nazionali, ma sia una risorsa comune a disposizione di tutti.

La grande, storica avventura dell’allargamento a 25 Stati, guidata dalla Commissione europea di Romano Prodi, si è rivelata ogni giorno di più una necessità più che una opportunità. Ma l’allargamento significa anche che l’Unione deve poter contare su istituzioni forti ma non rigide. Istituzioni che devono consentire la flessibilità necessaria per tenere insieme tutti. gli Stati membri intorno a comuni obiettivi, ma rispettandone i diversi ritmi di integrazione.

Il governo delle “differenziazioni” fa parte di questo nuovo ordinamento della Grande Europa, reso coerente e “uguale” dal grande quadro istituzionale unico: un solo Parlamento, un solo Consiglio, una sola Corte dì giustizia, soprattutto una sola, indipendente Commissione europea.

Rimettiamoci al lavoro per riportare l’Italia in Europa. E l’Unione europea in Italia.

IL LIBRO di Will Hutton ( Europa versus America. Perché la nostra economia è più efficiente e la nostra società più equa) costituisce un mosaico quasi perfetto della maggior parte, e certo per noi la più importante, delle tessere che compongono lo stato del mondo attuale. Ignora e non è succube dello "spirito dei tempi", togliendo così ogni banalità alle sue argomentazioni; stabilisce con vigore intellettuale e stilistico alcuni principi di riferimento, basati su vasta cultura e conoscenza approfondita della storia politica e delle idee dell’Occidente. Ogni prefazione o presentazione che non fosse un semplice invito alla lettura, potrebbe dunque rivelarsi superflua. Ma è difficile sottrarsi alla tentazione di indicare alcune osservazioni, risvegliate a latere della lettura, che riguardano la situazione soprattutto culturale italiana ed europea, oltre a qualche possibile minore divergenza di valutazioni critiche. Tutto ciò in ordine sparso o senza pretese organiche che risulterebbero in ogni caso inadeguate. Ed è perciò quel che farò.

Le tesi di Hutton sono un macigno che cade nella palude delle provinciali e stantie elucubrazioni di molti nostri autoproclamati riformisti di sinistra e di destra. Il riformismo nostrano è, infatti, spesso appiattito sull’esaltazione di un acritico e malinteso trapianto di istituti e ideologie proprie del nuovo capitalismo finanziario nordamericano, che nel "dio mercato", nella deregolamentazione, nell’unica regola posta dall’economia privata, nella privatizzazione del diritto, in cui tutto si affida alla volontà delle parti, hanno prosperato prima e sono naufragati poi con il fallimento della dittatura dei mercati finanziari. Mercati senza regole, senza freni e che obbediscono solamente alla volontà e agli interessi di individui sempre più spregiudicati. E tutto avviene in un gioco capace solo di creare squilibri difficilmente correggibili e irrimediabili ingiustizie sia a livello di economia mondializzata, sia nelle vicende di politica internazionale. La presunta razionalità assoluta dei mercati, già storicamente contestata da Fernand Braudel, sta alla base di queste nuove tendenze e costituisce peraltro l’armamentario intellettuale delle tesi più conservatrici e retrive oggi in voga negli Stati Uniti.

Anticipiamo parte della prefazione che ha scritto per il volume di Will Hutton Europa versus America. Perché la nostra economia è più efficiente e la nostra società più equa (Fazi, pagg. 400, euro 21,50 con un saggio di Massimo Panarari) il libreria da domani

Quelle, per intenderci, che hanno portato al fallimento di Enron, Arthur Andersen, WorldCom e via dicendo, e, mentre scrivo, al ben più grave fallimento del vertice di Cancun.

Singolare destino quello del nostro finto riformismo che trova radici culturali solo nel superficiale conservatorismo d’oltreoceano, contro il quale l’autore dispiega una sfilata di critiche severe con una sequela di argomenti che mettono a nudo la società americana.

La seconda lezione che Will Hutton ci impartisce riguarda l’impostazione europea dei problemi ed è una lezione che viene da un cittadino del Regno Unito, paese che conta il maggior numero di euroscettici.

La mondializzazione dell’economia, e più genericamente i fenomeni, non solo economici, che si qualificano nella globalizzazione, comportano un superamento dello Stato-nazione. A una cultura esclusivamente americana, Will Hutton contrappone un bagaglio di alternative, che affondano radici profonde nella civiltà europea. Queste radici si sono sviluppate nell’humus del Cristianesimo, formalizzato o meno nella nuova Costituzione europea, in principi di solidarietà che trovano la loro filosofia di base nelle spinte del socialismo democratico. Radici, infine, che uniscono tutti gli Stati membri dell’Unione Europea e che si contrappongono al selvaggio individualismo americano, del quale questo libro ci offre una descrizione precisa e a volte spietata sia nei confronti della vita interna della società americana (e perché non ricordare anche che oltre cinque milioni di americani sono rinchiusi nelle carceri?), sia della politica estera del governo USA. Entrambe sono accomunate da utilitaristiche quanto grossolane - ancorché oggi vincenti - credenze neoconservatrici, le quali sono riuscite a sommergere almeno parzialmente la pur nobile tradizione di tutela delle libertà individuali e dell’associazionismo che Alexis de Tocqueville aveva individuato come la più solida piattaforma della democrazia americana.

La contrapposizione fra la cultura europea e quella conservatrice e dominante d’America risulta impietosa. La ricostruzione attenta dell’influente pensiero politico di Robert Nozick svela le profonde ingiustizie sociali, conseguenziali a un’ideologia che considera qualsivoglia intervento pubblico di giustizia redistributiva nei confronti delle classi meno abbienti come una minaccia allo Stato di libertà che ogni individuo deve considerare come l’unica suprema virtù da tutelare, per evitare derive totalitarie.

La tesi keynesiana che gli uomini pratici, che pretendono di essere liberi da qualsivoglia influenza intellettuale, sono in genere schiavi di qualche defunto economista è ancora corretta. E lo è anche perché lo stesso Keynes considera sul medesimo piano le idee degli economisti e quelle dei filosofi politici.

Cade qui un riferimento alla suprema ipocrisia, decantata da Bernard de Mandeville nella sua opera La favola delle api del 1728, quella cioè che consiste nel fingere di fare la felicità dei bisognosi rifiutando loro ogni assistenza. Ma certamente la «mano invisibile» di Adam Smith o il laissez-faire dei fisiocrati che presuppongono un’armonia e un ordine naturale degli interessi privati accompagnano questa visione dell’ideologia conservatrice americana, che sta permeando non solo la storia contemporanea del capitalismo, ma gli stessi meandri di una globalizzazione condotta secondo profonde sproporzioni fra paesi poveri e paesi ricchi, come Joseph Stiglitz ha dimostrato una volta per tutte.

Certamente non sono solo gli europei, aggiunge poi Will Hutton, ad avere il monopolio dell’idea di eguaglianza e di giustizia sociale. Anzi, contro il conservatorismo degenerativo del capitalismo finanziario che permea la vita materiale e intellettuale americana, si erge l’elaborazione filosofica di un nuovo contrattualismo sociale da parte di John Rawls, il quale nella sua Teoria della giustizia del 1971, vede la stipula di quel contratto sociale nella originaria posizione di chi è condizionato da un «velo di ignoranza» e non conosce nulla né della sua vita passata né delle chance future, ma desidera vivere in una società nella quale le libertà di tutti siano rispettate e il principio di uguaglianza imponga che sia favorito il più debole. Questa teoria è decisamente influenzata dalla più autentica tradizione europea e si contrappone decisamente alla vincente filosofia minimalista, estranea a qualsiasi principio di welfare state teso a garantire libertà e uguaglianza.

Il conservatorismo ha avuto il suo centro di irradiazione nelle grandi corporation che non solo hanno portato l’intero sistema economico a una morbosa dipendenza da Wall Street, ma hanno ridotto la cultura totalizzante della società americana alle valutazioni di Borsa e ai sofisticati meccanismi del capitalismo finanziario.

Le ideologie che si sprigionano dalla formuletta della ricerca del «valore per gli azionisti» (shareholders’ value), assurta a unico obiettivo della corporation, hanno portato alla grande rinuncia a ogni principio che non sia quello del profitto, sia nella vita economica che in quella politica. Manca qui, forse, il rilievo che le vicende delle corporation, pur così attentamente esaminate, hanno subìto il distruttivo paradosso di essere spinte prima a uno sviluppo inarrestabile per poi essere travolte dalla stessa matrice, cioè il conflitto di interessi generalizzato che ha colpito, senza che se ne sia trovato un rimedio efficace, i gangli vitali della civiltà materiale americana.

La dittatura dei mercati finanziari, infiacchiti dal virus del conflitto di interessi, ha distrutto buona parte degli altri poteri dello Stato e sta minacciando ogni principio della tradizionale grande democrazia americana, privandola di quell’equilibrio che un sistema di controlli e contrappesi (checks and balances) garantiva in modo esemplare. Le regole dei commerci internazionali sono ormai elaborate dalle grandi corporation multinazionali. Il governo americano e gli altri governi coinvolti nel processo di globalizzazione, all’insegna del libero mercato, seguono, e dove possono favoriscono, il nuovo centro di potere sovranazionale, svincolato da qualsiasi limite o condizionamento politico.

Non è un caso che anche i più acuti intellettuali americani inizino a paventare e a denunciare la perdita o l’offuscamento degli stessi diritti di libertà, che possono velocemente portare a una zoppa democrazia illiberale. Citerò solo, rinviando ad esso, il libro di Fareed Zakaria, The Future of Freedom, del 2003. Inoltre, basterà ricordare la mancanza di ogni diritto alla difesa e al giusto processo ai presunti terroristi rinchiusi nella base americana di Guantanamo.

Insomma, la strategia intellettuale del neoconservatorismo americano che ha avuto in Robert Nozick l’estremo e più accreditato profeta, sembra ingoiare se stessa in una sorta di irreversibile cupio dissolvi. Non mancano neppure nel libro gli accenni ai tentativi da parte degli Stati Uniti di riportare indietro la situazione, come se queste marce a ritroso fossero possibili in una stagione storica di movimenti tellurici mai sperimentati prima con tale accelerazione. E qui potremmo citare da ultimo il tentativo di rimettere in pista una legislazione che aveva avuto in altre epoche - e il riferimento d’obbligo è alla crisi del 1929 col New Deal roosveltiano - un indiscusso successo. Ma il Sarbanes-Oxley Act del 2002 frettolosamente approntato dal Senato americano subito dopo lo scoppio dei grandi scandali finanziari sopra citati, si è subito rivelato un’arma spuntata e inefficace per combattere il virus del conflitto di interessi che insidia, ancora oggi indisturbato, la dittatura dei mercati finanziari. La possibilità del passo indietro è inesorabilmente impedita dall’espansione dei processi di globalizzazione che hanno mostrato finora una caratteristica univoca, quella cioè di essere null’altro che un’appendice del capitalismo finanziario americano e della sua politica.

Da un lato il processo di globalizzazione, dettato dalla dittatura dei mercati finanziari, e dall’altro l’abbandono, all’interno di singoli Stati membri dell’Unione, delle loro radici culturali e storiche, hanno condotto spesso anche in Europa a una sorta di scimmiottamento delle regole e dell’ideologia del conservatorismo americano. L’autore parla del micidiale abbraccio dell’orso che stringe la Gran Bretagna, sempre più contigua alle direttive d’oltreoceano. Ma la situazione italiana sembra ancora peggiore.

E veniamo dunque al trapianto in Europa delle mode americane.

Inizio subito con qualcuno dei miti che costituiscono il cascame dell’ideologia del «dio mercato» senza regole. Primo fra questi quello che va sotto il nome di corporate governance. Più di quaranta codici di corporate governance sono stati elaborati nei paesi dell’Unione Europea e ognuno di essi, come ho cercato di dimostrare altrove, ha rivelato inefficacia e inconsistenza. D’altra parte negli Stati Uniti le cosiddette regole di corporate governance hanno dimostrato la loro assoluta inutilità di fronte alle crisi finanziarie di Enron e di quelle che l’hanno seguita: inutilità quasi pari a quella dei codici etici.

Ma vi è una ragione di più per rifiutare il trapianto Europa delle mode americane di corporate governance. Basta infatti rendersi conto che l’esigenza di avere una disciplina societaria, ancorata, più che a norme, a regole di autoregolamentazione, è dovuta alla situazione del tutto particolare presente negli Stati Uniti. Va infatti considerato che il diritto societario americano è di appannaggio dei singoli Stati, mentre il diritto dei mercati finanziari è federale. Siccome le leggi statali lasciano la massima libertà agli statuti societari nel disciplinare ad libitum i rapporti fra gli organi sociali (assemblee dei soci, amministratori, manager), il raccapricciante risultato è stato che ogni società quotata aveva una disciplina diversa, a seconda dello Stato in cui era incorporata e degli articoli del proprio statuto creati in totale libertà. Dopo l’ubriacatura delle scalate societarie degli anni Ottanta, si rese necessario cercare un minimo di uniformità per le società quotate che facevano appello al pubblico risparmio, alla ricerca di una sorta di correttivo alla deriva nei mercati finanziari della deregolamentazione selvaggia. Ed ecco che nacquero le regole di corporate governance, le quali, per la maggior parte, quando non si limitano ad affermazioni generiche, sono già contenute nelle legislazioni societarie europee. Il trapianto in Europa non solo è inutile, ma anche dannoso, perché mina il rigore normativo tradizionale al diritto europeo e favorisce l’affievolimento delle norme giuridiche ad esclusivo vantaggio dell’autoregolamentazione contrattuale degli interessi privati all’insegna del neoconservatorismo liberista. Non è però un caso che la recente riforma del diritto societario italiano sia stata impostata sulla piena libertà e autonomia statutaria, con un impianto che si rivela intempestivamente ispirato all’ideologia neoconservatrice americana, nel momento in cui, fra l’altro, viene abbandonata negli Stati Uniti col Sarbanes-Oxley Act del 2002 e, soprattutto, dal diritto comunitario europeo. [...]

In conclusione, quella di Will Hutton è una ricerca che affonda i suoi artigli nelle più riposte radici della cultura europea. Più riposte perché vive soprattutto in quei settori che l’opinione pubblica anche colta tende a trascurare. Ed è ancora un inno all’Europa, per il quale dobbiamo essere grati all’autore, che ci ha consegnato una testimonianza di giustificato ottimismo sul nostro destino.

L’Assemblea Costituente è stata guidata da grandi giuristi che, oltre a essere giuristi di chiara fama, avevano una dote fondamentale, più importante, a mio avviso, dell’essere giuristi famosi: quella di non avere mai piegato la schiena di fronte alla dittatura. Costoro hanno scelto e per così dire, fatto nascere, una democrazia parlamentare.

La forza del Parlamento invece, se passasse questa riforma verrebbe fortemente menomata. La formula per l’elezione del capo dello Stato era, all’inizio, semplice, tipica di una democrazia parlamentare a tutti gli effetti.

Mentre questa assemblea che si andrebbe costituendo poco alla volta renderà difficile l'elezione del capo dello Stato, e ho la sensazione - non voglio fare il profeta, perché non è il mio mestiere - che trovare un denominatore comune tra i parlamentari, il che non è facile neppure in situazioni ottimali, possa diventare pressoché impossibile.

Secondo quanto è previsto dalla Costituzione, attualmente, è il Parlamento che dà la fiducia al Governo ed è il medesimo Parlamento che lo licenzia, invece secondo questa proposta di riforma, il premier non ha bisogno di chiedere la fiducia, perché essendo stato eletto e designato, presenta il programma, la squadra di governo e il gioco è fatto.

In questa ipotesi di riforma, si aggiunge che se però il premier dovesse chiedere la fiducia, dovrebbe chiederla non su un singolo tema, ma su tutto e nell'eventualità in cui non dovesse ottenerla, allora dovrebbe intervenire il capo dello Stato e sciogliere le Camere. Ma, come voi capite, in questo modo il capo dello Stato diventa una figura di nessun rilievo, metaforicamente si potrebbe dire che “il capo dello Stato, si trova nella condizione di un uomo messo in canottiera”, perché nel momento stesso in cui il premier risulti sfiduciato, non c'è nessuna altra soluzione se non lo scioglimento delle camere, di conseguenza il decreto di scioglimento potrebbe firmarlo chiunque, anche un commesso della presidenza del Consiglio, o chiunque altro, a tal punto il ruolo del capo dello Stato risulta inficiato!

Ma non si creda che io sia così critico per il fatto che ora è in carica un premier che certamente non riscuote la mia fiducia, in realtà il problema è più complesso e con una tale riforma non mi sentirei sicuro per la nostra democrazia neppure per il futuro, chiunque fosse il premier! Come è possibile pensare che il capo dell'esecutivo possa sciogliere il Parlamento? Questo è un atto di guerra! Si badi, nella proposta di legge, non si afferma che a sciogliere le Camere è il Primo Ministro, anzi su questo specifico punto si raggiunge un fariseismo incredibile, perché si afferma che il presidente del Consiglio, anzi il Primo Ministro, chiede lo scioglimento “sotto sua esclusiva responsabilità” e il capo dello Stato deve limitarsi a ratificare una decisione già presa da altri. Anche a una analisi sommaria appare chiaro che l'istituto del capo dello Stato, come garante della vita parlamentare, appare del tutto svuotata di significato. Mi è capitato di sentire dei commenti subito dopo che era stata presentata questa proposta, da parte di alcune persone che sembravano voler sfuggire al caldo, ma pare che non siano sfuggiti e dicevano esattamente così: «Con questa proposta di legge viene fortemente rafforzata la funzione di garante del capo dello Stato»! Giorni fa, parlando ai magistrati ricordavo l'esperienza all'Assemblea Costituente: «Eravamo 555 all'Assemblea Costituente, certo si è fatto un lavoro incredibile di mediazione» mentre ora si propongono soluzioni che stravolgono totalmente la Costituzione, si arriva persino a presentare proposte che risultano tragicomiche. Infatti si dice che il Senato per votare deve avere la maggioranza, ma si deve, nel computo, tener conto dei soli membri eletti, come a dire che i senatori a vita scelti dal capo dello Stato non hanno sufficienti facoltà intellettuali per votare! È come se il capo dello Stato, pensando di nominare qualcuno Senatore a vita, lo chiamasse e gli dicesse: «Guardi, io vorrei nominarla senatore a vita, lei è un pittore famoso, lei è un commediografo, lei è un poeta, lei è uno scrittore, e per questi suoi meriti intellettuali può intervenire su grandi temi, può essere una voce veramente importante nel momento in cui c'è bisogno di fare grandi scelte, ma sappia che quando poi si vota, lei non conta, è come se non ci fosse!». Mi chiedo, se la situazione è effettivamente questa, come si può dire che in questo modo si rafforza la posizione del capo dello Stato?

Mi è capitato, in un incontro con tre o quattro amici, sere fa, non per scelta mia, c'era qualche altra persona che manovrava il televisore, di sentire l'intervista del vertice responsabile di Forza Italia che non ha esattamente il dono di un eloquio garbato. Ha descritto l'Italia dicendo che mai era riuscita a contare nella politica internazionale e adesso invece ha un peso incredibile! Di fronte ad affermazioni di questo genere non c'è bisogno di nessun commento!

Riguardo ai girotondi, il mio pensiero potrà apparire un po' semplicistico, eppure a mio parere ritengo estremamente positivo il fatto che la gente si interessi, che intervenga nel dibattito politico, perché le democrazie vivono in proporzione di quanta fiducia e partecipazione raccolgono, se si occupano di politica persone di altissimo valore, ma numericamente poche, allora la democrazia è estremamente debole.

In generale, mi pare importante che si riesca a raccogliere le firme di persone nuove, per così dire conquistate alla causa e che hanno manifestato fino ad ora idee diverse, ma se sono valide e coraggiose ben venga il loro contributo, ben vengano anche coloro che appaiono dubbiosi e tormentati, che non sono pochi, ne ho trovati tanti anche nella mia città, perché ci sono persone che sono pentite, però occorre fare attenzione, perché spesso da parte di costoro si sente dire, «basta, mai più, mi hanno portato via il voto, non pensavo che si sarebbe arrivati a tanto, non li voterò mai più!», poi questo stato di grazia e di meditazione si esaurisce e queste stesse persone dicono: «ma questa sinistra, tutti in guerra uno contro l'altro!». Con questo sistema della rissa continua non si potrà migliorare la situazione.

Infatti di fronte ad una male occorre chiedersi come evitare che aumenti e cercare di estirparlo, lottando uniti. Questo è il punto.

Nel momento in cui esplode una malattia, i bravi medici cercano in primis delle soluzioni per prevenirla e per bloccarla, poi cercano la cura più idonea. In politica non è molto diverso. Sarà forse una proposta semplicistica, ma la lunghissima esperienza, sono al cinquantottesimo anno di vita politica, mi suggerisce questo: è sufficiente avere una sola idea forte ed essere disposti a viverla e ad attuarla. Questo è davvero importante, questo significa collaborare, questo significa essere uniti.

Non mi sembra neppure opportuno optare per formule troppo vincolanti, perché poi realizzarle è difficile e diventa faticoso dimostrare che si è comunque uniti, anche se su qualche punto si è in disaccordo.

Evitiamo quindi di apparire deboli sotto questo profilo e che certe divisioni naturali siano strumentalizzate e si possa essere accusati di essere sempre divisi, tenendo anche conto che è infinita la forza di chi ha in mano tutti i mezzi di comunicazione e quindi è facile far dire ai media: «ecco, guardate sono già tutti divisi»…

Vorrei sperare - e ho finito e vi ringrazio - che di fronte a questa riforma ci siano coloro che, pur appartenendo ad orizzonti politici diversi, provenendo dall'esperienza democristiana, socialista, laica, religiosa, abbiano il coraggio, la forza e la nettezza di essere conseguenti, perché temo molto, proprio a causa della mia lunghissima esperienza, quella che è una delle vocazioni più invincibili, cioè la vocazione ad essere servo. Mi viene sempre il terrore che questa vocazione finisca per prevalere e che tutte le impostazioni teoriche si svuotino di significato e, grazie a due o tre avverbi, sia possibile passare dall'altra parte e allinearsi con il più forte. (…) Cerchiamo di essere ragionevolmente ottimisti, perché presentarsi col tono della sconfitta è sbagliato, ma occorre avere un'idea chiara: e affermarla con coraggio: non siamo, con l'aiuto di Dio, assolutamente disponibili a cedere in nessun modo.

Questo intervento sulla riforma dello Stato è pubblicato dal n. 99 di “Critica liberale”, il mensile della sinistra liberale diretto da Enzo Marzo (
info@criticaliberale.it)


QUALCUNO del centrodestra, forse Bondi con quella sua faccia da omino di burro che portava Pinocchio e Lucignolo nel paese dei balocchi, ha apostrofato l´opposizione pochi giorni fa dicendo: «Dovete smetterla di considerarci inadatti a guidare il paese e di pensare che voi e soltanto voi abbiate questo compito affidatovi dal destino». Io non so se nelle file dell´opposizione ci sia veramente chi ritiene che la sua parte abbia ricevuto quell´investitura quasi per diritto divino. Non credo, ma se c´è e se la pensa in questo modo sbaglia di grosso. Ma che questa destra italiana, pur sostenuta da un cospicuo consenso elettorale, sia strutturalmente inadatta a guidare la politica d´un grande e complesso paese europeo, lo credo anch´io. E non perché difettino nella maggioranza parlamentare persone degne per moralità, buoni studi e vivace intelligenza, ma per una ragione più profonda: questa maggioranza non ha alle sue spalle una struttura sociale portatrice di valori, di costumanze e di interessi che costituiscono il terreno fertile nel quale la rappresentanza politica può mettere a dimora le sue radici. Manca una classe che, sia pure partendo da una propria visione del bene comune, esprima una cultura adeguata a interpretare l´interesse generale e a rappresentarlo politicamente.

Questa lacuna spiega il fallimento della politica berlusconiana e il progressivo sfaldarsi della maggioranza parlamentare dopo appena due anni e mezzo dalla vittoria elettorale del 2001; spiega l´occasionalità delle scelte compiute, la loro frequente reversibilità, l´ossessione scompaginante dell´eventuale perdita del potere poiché il potere si è dimostrato l´unico collante capace di tenere insieme una coalizione elettorale senza radici.

La destra di Fini, i cattolici moderati di Follini, la stessa Lega, vantano almeno una loro sia pure parziale rappresentatività sociale; ma Forza Italia no, le cosiddette partite Iva non esprimono valori comuni e tanto meno comuni interessi. E non è affatto casuale che le crepe dell´attuale maggioranza si siano rivelate proprio in quelle terre del Nordest dove la piccola imprenditoria e le ditte artigiane hanno la maggiore densità sul territorio.

Manca insomma una borghesia degna del nome, che abbia non solo la capacità di condurre i propri affari ma anche quella di farsi carico degli interessi del paese e di esprimere un´egemonia culturale senza la quale la rappresentanza politica galleggia nel vuoto, soggetta a tutti i venti delle cangianti emozionalità e alla pressione di tutte le lobby e di tutte le corporazioni.

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Per la verità la lacuna borghese non può essere imputata alla coalizione berlusconiana poiché è un fenomeno di arretratezza che ha accompagnato la storia d´Italia per quasi i tre quarti del suo percorso. Soltanto la destra storica, quella dei Minghetti, e dei Sella, dei Ricasoli, dei Lambruschini, degli Spaventa, poté governare e costruire lo Stato unitario traendo la sua investitura da quella borghesia fondiaria che possedeva, a metà dell´Ottocento, i tre quarti della ricchezza nazionale.

Quella borghesia, dislocata soprattutto nel Centronord del paese, investì gran parte dei suoi profitti agricoli nell´ammodernamento delle sue aziende e nella commercializzazione dei suoi prodotti, impegnò il nascente Stato unitario da lei medesima guidato ad una politica di grandi infrastrutture nei settori delle acque e dei trasporti ferrati, promosse l´esproprio delle terre e dei benefici ecclesiastici avendo di mira l´estensione d´una borghesia agricola anche nelle zone del latifondo meridionale e sopportò infine senza fiatare il peso dell´imposta fondiaria che proprio in quegli anni fece affluire nelle casse dell´erario più del 50 per cento del gettito tributario totale.

Dopo di allora ci fu soltanto un´altra fioritura borghese che coincise con il quindicennio liberale di Zanardelli e di Giolitti e fu all´origine dell´industria italiana.

Il resto nella nostra storia unitaria è silenzio. La borghesia degradò da classe dirigente a potere assistito, delegando l´esercizio della politica e autoconfinandosi nella difesa dei propri interessi di categoria tutelati dai dazi, dalle commesse pubbliche, dai pubblici appalti trasformati in benefici, dall´accesso al credito bancario e dalle facilitazioni fiscali.

La lacuna borghese è stata dunque, salvo brevi intervalli, una costante della vita italiana. L´ultimo tentativo di soffiare sulle sue ceneri e risvegliarne un´ormai spenta vitalità fu effettuato da Ugo La Malfa che i residui dell´Italia borghese ignorarono o addirittura sospettarono di para-comunismo. Di lui si accorsero solo quando fu morto, ma allora evidentemente era troppo tardi anche perché la sua lezione non ha avuto successori.

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Senza una borghesia vitale, creativa, portatrice di cultura e d´un progetto politico realmente riformatore, una destra democratica ed europea non può nascere e infatti non è nata. Basta osservare il mediocre collateralismo della Confindustria di D´Amato e di Fossa per misurare il danno storico di quella lacuna.

Si dirà che la Democrazia cristiana, nel quarantennio durante il quale ha guidato lo Stato, ha esercitato il suo potere politico in rappresentanza della borghesia; ma non è vero, non è così. La Dc ha fortemente contribuito ad alimentare la piccola borghesia degli impieghi pubblici e para-pubblici, ha scambiato favori con la grande industria del Nord, ha tenuto a balia il capitalismo di Stato (verso il quale è forse lecito qualche rimpianto vedendo oggi all´opera i suoi successori privati), ha dato mano ai palazzinari e ha prosperato all´ombra dell´Italia parrocchiale.

Nelle condizioni date, la Dc è stata probabilmente il meglio del possibile, realizzando l´anomalia d´un partito di centro politicamente chiuso a destra e progressivamente aperto verso sinistra. Quando l´impalcatura è crollata si è avuta conferma che la sua classe dirigente era molto più avanzata della sua base la quale – come del resto la base del socialismo craxista – è quasi interamente rifluita sulla scia berlusconiana.

Si è parlato molto nei giorni scorsi di Giulio Andreotti in occasione della sua assoluzione dai reati che gli erano stati attribuiti, ma con una speciale attenzione alla sua opera di uomo politico e di uomo di Stato. A me è venuta in mente un´immagine che usai molti anni fa per definire la sua funzione nel panorama politico nazionale. Forse era un´immagine un po´ troppo colorita ma non voleva essere insultante, soltanto didascalica. Andreotti, dicevo allora e continuo a pensare adesso, ricorda i mitili o cozze che dir si vogliano, che prosperano nutrendosi con acque reflue e rendendole depurate dai bacilli che le inquinano. Funzione che in un certo senso fu svolta dall´intero partito, anche se alcuni di quei bacilli passarono in circolo con tutti i loro effetti inquinanti.

Oggi la barriera dei mitili non c´è più e il depuratore naturale delle acque reflue è venuto a mancare. Purtroppo si vede.

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Una borghesia seria e consapevole dell´ufficio che è tenuta a svolgere per poter esistere, non avrebbe tollerato che il governo del paese fosse nelle mani del solo vero monopolista esistente in Europa. Murdoch è più forte di lui in termini di fatturato ma non detiene monopolio in nessuno dei paesi nei quali opera.

Una borghesia seria e consapevole non avrebbe tollerato che il bilancio dello Stato fosse gestito da un commercialista funambolo che riesce a salvare l´erario dalla bancarotta vendendo in anticipo i ricavi dei cespiti tributari, liquidando il patrimonio pubblico, trasferendo furbescamente le spese dell´ultimo trimestre dell´esercizio al primo trimestre dell´esercizio successivo e aiutandosi con i riporti staccati (alias swap) stipulati col sistema bancario. Il tutto per mantenere aperta l´ipotesi d´uno sgravio fiscale in favore dei contribuenti più agiati, ancora di là da venire.

Una borghesia seria e consapevole non avrebbe sopportato un premier che si è autotrasformato in un cane da riporto al servizio di Bush e di Putin, mettendosi per sua scelta alla berlina di tutta Europa, sia di sinistra che di destra.

Ma una borghesia consapevole e seria non c´è, non c´è più, ammesso che vi sia mai stata.

Per questo una destra decente, moderata, europea, non esiste e tarderà molto a venire. Quella che poteva essere la sua rappresentanza politica è un carro di Tespi dove gli attori recitano senza copione. Improvvisano. Berciano.

Fanno le smorfie. Raccontano barzellette. Ma, lo ripeto, la colpa non è loro.

La sinistra, che pure non brilla, fu educata dalla classe operaia e dal Terzo Stato: un´educazione di cui per fortuna restano ancora le tracce.

I SONDAGGISTI più seri avvertono che in tutto il mondo democratico e in Italia in particolare le elezioni vengono decise non già da passaggi di voti da uno schieramento all'altro, bensì dai flussi tra astensionismo e partecipazione. Così è avvenuto (tanto per citare casi recenti) nelle ultime elezioni politiche in Germania quando Schröder si aggiudicò la vittoria sul filo di lana per la scelta del pacifismo e del non intervento nella guerra in Iraq e così è avvenuto due settimane fa in Spagna, dove la vittoria di Zapatero è stata assicurata dal rientro in gioco del 7 per cento di astenuti, in gran parte di orientamento socialista e pacifista.

Decisioni di questo genere sono prese di solito nelle ultime settimane o addirittura negli ultimi giorni che precedono il voto e possono essere quindi influenzate da avvenimenti dell'ultim'ora; tuttavia quella che comunemente si chiama "onda lunga" e cioè la tendenza di fondo in quella fase della società, gioca un ruolo rilevante, costituisce una predisposizione favorevole ad uno schieramento e contraria a quello avverso.

Da questo punto di vista il caso Zapatero è esemplare. Le bugie di Aznar sugli attentati dell'11 marzo furono la motivazione immediata che spinse centinaia di migliaia di elettori dall'astensione al voto per i socialisti mentre altrettanti elettori di Aznar decidevano di restarsene a casa; ma l'onda lunga del pacifismo delineatosi un anno prima in occasione della guerra irachena di Bush aveva predisposto il corpo elettorale in favore di quella scelta che fu poi realmente presa il 13 marzo.

Dimenticare questa verità di esperienza significa puntare soltanto sull'improvvisazione. In realtà significa sottovalutare la saggezza degli elettori, un errore grave per chi, partecipando, punta ovviamente alla vittoria della propria parte.

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Per una serie di ragioni che sono state ampiamente illustrate nei giorni scorsi e che quindi è ora inutile ripetere, Zapatero rappresenta in questa fase il braccio di leva decisivo per realizzare al tempo stesso tre risultati della massima importanza.

1. Porre gli Stati Uniti nella condizione di dover accettare e addirittura di promuovere una nuova risoluzione dell'Onu sull'Iraq che attribuisca alle Nazioni Unite un ruolo primario nella costruzione del nuovo Stato iracheno e nella gestione della sicurezza e dello sviluppo economico di quel paese.

2. Recuperare l'unità europea, frantumata dalla guerra irachena e di conseguenza avviare un confronto positivo tra Europa e Usa per la soluzione della crisi.

3. Render possibile a breve o meglio ancora a brevissima scadenza l'approvazione della Costituzione europea, bloccata tre mesi fa dalla Spagna di Aznar con la palese connivenza di Blair e di Berlusconi e l'altrettanto palese incoraggiamento della Casa Bianca.

Il peso che il nuovo governo socialista spagnolo sta già esercitando prima ancora di insediarsi al palazzo della Moncloa non dipende ovviamente dalle qualità del "cerbiatto" Zapatero (così lo chiamano amichevolmente i suoi amici e fan) che sono certamente notevoli ma non necessariamente eccelse, né dal peso della Spagna nel contesto dell'Unione europea, rilevante ma non determinante.

Con Aznar l'America di Bush era riuscita a dividere l'Europa, a paralizzarne le istituzioni e a promuovere la "coalizione dei volenterosi" accorsi per sostenere la guerra di Bush a dispetto delle violazioni della legalità internazionale e delle molte menzogne che l'avevano motivata. La sconfitta di Aznar sconvolge questo equilibrio e ne crea un altro per il semplice fatto di essere avvenuta. Quando due piatti della bilancia si equivalgono è sufficiente spostare un peso anche piccolo dall'uno all'altro per determinare il mutamento di tutte le condizioni preesistenti, ed è esattamente quanto è avvenuto a Madrid.

Del resto Colin Powell che ha fatto l'anticamera di quarantacinque minuti prima d'essere ricevuto da Zapatero impegnato nel suo studio a colloquio con Chirac, ha addirittura offerto al premier spagnolo di sottoporgli preventivamente il testo della risoluzione sull'Iraq che gli Usa si apprestano a presentare al Consiglio di sicurezza dell'Onu, nella speranza che sulla base di quel documento la Spagna non ritiri il suo corpo di spedizione.

Quanto all'Europa, il premier irlandese, presidente di turno dell'Unione, ha ottenuto un voto unanime dal vertice europeo sulla volontà dei Venticinque di arrivare all'approvazione della Costituzione entro il prossimo 30 giugno.

Il solo a borbottare il suo disagio è rimasto Berlusconi insieme al suo fedele scudiero degli Esteri, ma non pare che gli altri ventiquattro - Blair compreso - se ne diano gran pena.

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Approvare rapidamente la Costituzione europea è della massima importanza e non perché si tratti di un testo mirabile, tutt'altro, ma per due ragioni essenziali: è una Costituzione "aperta", esplicitamente dichiarata perfettibile; consente, nel quadro di regole valide per tutta l'Unione, di sperimentare collaborazioni rafforzate da parte di gruppi promotori in materie di comune interesse, anch'essi aperti a chi successivamente vorrà e potrà aderirvi, sull'esempio di quanto è avvenuto per la moneta comune senza che nel frattempo gli altri membri dell'Unione restino a galleggiare senza regola alcuna cui riferirsi.

Si profila dunque non più un'Europa paralizzata come è avvenuto nel 2003 e fino ad oggi, e neppure un'Europa a due velocità cristallizzate in una avanguardia e in una retroguardia esiziali; bensì un'Unione a varie velocità e con vari gruppi intrecciati che possono formarsi sulla base di interessi più avvertiti da alcuni e meno da altri, ma comunque vincolati tutti insieme dalle regole costituzionali e dai comuni valori resi espliciti nella Carta fondamentale.

Questo è dunque il pregio dell'operazione e questo il motivo per il quale la sua realizzazione è necessaria e urgente. In un'Europa spaccata tra filoamericani e antiamericani tutto ciò sarebbe stato impossibile; ma in un'Unione che recuperi la propria unità e il colloquio con gli Usa in condizioni di pari dignità, tutto ciò diventa fattibile, a cominciare dalla lotta contro il terrorismo e dal ripristino della legalità internazionale in Iraq e in tutto il Medio Oriente, road map israeliana-palestinese compresa.

È auspicabile che anche il governo italiano comprenda queste ragioni e partecipi con slancio alla ripresa europea come il presidente Ciampi va da mesi auspicando e insistendo. Ormai la divaricazione tra il Quirinale e Palazzo Chigi sul tema europeo è arrivata al suo culmine e l'incomunicabilità tra i due presidenti ha raggiunto un'intensità quale mai prima d'ora si era vista nei cinquant'anni di storia repubblicana.

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Forse è proprio per questo che, mentre l'Europa sembra finalmente unita nell'obiettivo di darsi la sua Costituzione, il governo italiano cerca di frenarne i tempi e, dal canto suo, sta cercando di smantellare pezzo per pezzo la nostra Costituzione. Siamo dunque nelle mani d'un governo anticostituzionale sia in Europa che in Italia? Un governo strutturalmente refrattario a valori comuni e a regole generali proprio perché è nato nello spirito di chi privilegia la propria legge sulle norme comuni, il proprio interesse su quello della collettività e la giustizia propria su quella del codice?

La simultaneità tra il boicottaggio nei confronti della approvanda Costituzione europea e lo smantellamento di quella italiana lo farebbe supporre. Andrea Manzella su Repubblica e Giovanni Sartori sul Corriere della Sera hanno spiegato venerdì scorso le ragioni per le quali lo spezzatino della riforma costituzionale voluta dal Capo e votata compattamente dalla sua maggioranza parlamentare è indigeribile. Sarà inevitabile fonte di contrasti istituzionali, di paralisi operativa, di interpretazioni difformi poiché è privo di qualunque disegno coerente. In realtà si tratta di un mantello d'Arlecchino in cui ciascuno dei quattro partiti che compongono il Polo delle Libertà ha appiccicato una pezza del proprio colore senza minimamente curarsi dell'armonia d'insieme. Da un tessuto così inguardabile e sbrindellato emergono tuttavia alcuni picchi che, come ha scritto Sartori, sono grandi soltanto nell'errore o meglio - come mi permetto di dire io - nell'orrore costituzionale, conforme soltanto alla ossessiva volontà del Capo di giganteggiare su tutti e tutto, a cominciare dai suoi propri alleati.

Questi picchi sono:

1. La figura del "premier" titolare di tutti i poteri sostanziali, eletto direttamente perché collegato all'elezione dei deputati nei singoli collegi, con il che le elezioni diventano plebiscito e il Parlamento perde ogni ultimo brandello di autonomia rispetto al Capo del potere esecutivo.

2. Il suo potere di sciogliere le Camere, sottratto ad ogni mediazione del presidente della Repubblica.

3. La riduzione di quest'ultimo ad una figura puramente decorativa che deve limitarsi ad esercitare solo alcuni marginalissimi poteri espressamente attribuitigli e con l'esclusione di ogni altro non menzionato e cioè: il diritto di grazia, la nomina dei senatori a vita che non possono in ogni caso essere più di tre, la designazione del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, la nomina di quattro membri su quindici della Corte costituzionale. La firma del presidente della Repubblica su tutti gli atti di governo è "dovuta" e non consente rifiuti né rinvii.

Permane la dizione che il titolare del Quirinale è il garante della Costituzione, ma non disponendo più d'alcuno strumento per far valere questa sua qualifica, essa diventa sovranamente derisoria.

4. Il Parlamento, se votasse la sfiducia al Capo dell'esecutivo, risulterebbe automaticamente sciolto. Quanto al suo scioglimento eventualmente anticipato, esso è nelle mani del "premier" salvo che la maggioranza parlamentare ed essa soltanto non sia in grado di indicare entro dieci giorni un nuovo premier tratto dalle sue stesse file.

In queste condizioni e se questo testo resisterà agli ulteriori passaggi parlamentari e al referendum confermativo, sarà difficile negare che non si sia in presenza di un regime il quale dispone di tutti i mezzi per perpetuare se stesso, ivi compreso il monopolio dei mezzi di comunicazione di massa.

Voglio dire che se passeranno queste norme senza sostanziali mutamenti e non a caso precedute di poche ore dall'approvazione della legge Gasparri, noi avremo un regime blindato, perpetuabile con il solo metodo della cooptazione al posto di quello dell'alternanza democratica. Perché quest'ultima possa comunque verificarsi sarà necessario un tale e così vasto e profondo mutamento delle coscienze individuali da potersi equiparare a quelli che avvengono come preludio ad una rivoluzione: eventi rari quanto traumatici.

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Il solo antidoto, il solo anticorpo può in queste condizioni provenire da un'Europa democratica e unitaria. Siamo purtroppo ancora molto lontani da quell'unità, ma il solo sospetto che prima o poi ci si possa arrivare e che comunque anche così come la nuova Costituzione la prevede l'Europa possa rendere più difficile l'instaurarsi di un regime autoritario in uno dei paesi membri dell'Unione, spinge il nostro governo al tentativo di boicottare il rilancio europeo affidandosi comunque alla protezione dell'amico americano.

L'articolo di Andrea Manzella che ho già ricordato iniziava citando la solenne seduta della nostra Assemblea costituente del 1947 durante la quale Benedetto Croce invocò con alte parole il "Veni Creator Spiritus, mentes tuorum visita".

Dal canto suo il vicepresidente del Senato, Domenico Fisichella, di Alleanza Nazionale, in una durissima dichiarazione di voto ha accusato l'attuale maggioranza, e il suo stesso partito che si accingeva compattamente a votare un testo che scempia la Costituzione repubblicana, di essere "eversiva" e incurante degli interessi della nazione e dei valori della democrazia.

Sono passate appena poche settimane da quando il ministro Tremonti invocava un non meglio definito "spirito repubblicano" chiedendo all'opposizione il consenso per far passare la riforma delle pensioni; da quando l'Udc di Follini-Casini sosteneva di voler fermare la deriva berlusconiana; da quando Fini, ancora con la cuffia ebraica in testa in segno di espiazione, si proponeva come il moderatore del tandem Bossi-Tremonti e della muscolarità berlusconiana. È bastato il richiamo all'ordine del Capo per segare alla radice queste velleità o per rivelare l'essenza di queste furbate.

Tutto ciò mi porta a ritenere che non avesse poi molta ragione Indro Montanelli quando preconizzava che cinque anni di governo di Berlusconi ci avrebbero liberato una volta per tutte da quell'incubo. Ne siamo sicuri? Personalmente me lo auguro ma vedo con timore i prossimi due anni e in particolare gli ultimi mesi di questa legislatura perché in questo governo esistono personaggi capaci di tutto pur di non restituire al popolo ciò che il popolo gli ha incautamente affidato.

Nel luglio scorso, guardando all’Italia e alle elezioni della primavera prossima per il rinnovo del Parlamento Europeo, ho invitato i riformatori italiani a unirsi in una singola lista.

Era una proposta aperta, rivolta alle forze politiche, ai movimenti, alle donne e agli uomini che si riconoscono nei valori dell’Europa unita, della libertà, della giustizia, della solidarietà, del rispetto per l’ambiente.

In pochi mesi l’idea ha preso piede. I riformatori italiani stanno trovando in questo progetto una risposta alla loro domanda di unità.

Nei prossimi giorni si riuniranno per discuterlo le assemblee dei partiti che per primi hanno raccolto l’invito.

E’ la prima tappa di quello che deve essere un cammino di dibattito e di confronto con le forze politiche e con la società civile.

Un dibattito che punta a raccogliere un consenso vasto e unitario, e che per questo impone di tenere la porta aperta a tutti sino all’ultimo momento utile per le elezioni europee, e anche dopo.

Un dibattito che, per condurci a risultati solidi e concreti, ci obbliga a definire i contenuti e le scelte che corrispondono al progetto di una lista unitaria.

“Europa: il sogno, le scelte” è il mio contributo a questo confronto.

Sono riflessioni che corrispondono all’ispirazione che fu all’origine dell’Ulivo. Esse sono il frutto di un lavoro appassionante: prima alla guida del governo italiano per portare il nostro paese nell’euro, poi alla guida della Commissione Europea per riunificate l’Europa e dotarla di una costituzione all’altezza dei tempi.

Ho scelto di guardare in avanti, con spirito di apertura e innovazione, alle sfide che ci attendono e alle opportunità che ci si offrono, come Europa e come Italia.

Non è ancora un programma. Questo lo dovremo elaborare tutti insieme, forze politiche e cittadini. Di qui parte una grande scommessa sul futuro. Uniti possiamo vincerla.

C aro Augias, insegno latino e greco presso il liceo «V. Gioberti» di Torino, impegnato come commissario nell'Esame di Stato. La prova di greco nei Licei Classici è stata giudicata facile e breve. Il giudizio mi sembra parziale. La maggioranza degli allievi non era in condizione di tradurre il brano rendendosi conto del suo vero significato. Quelle poche righe fanno parte di un affascinante mito che Platone attribuisce al sofista Protagora: il fuoco e le arti che Prometeo aveva rubato agli dei e donato agli uomini non bastavano per vivere in una comunità e per difendersi dalle fiere. Così Zeus, tramite Ermes, decise di donare agli uomini Rispetto e Giustizia, fondamenti del vivere civile, perché solo così le città avrebbero potuto esistere. Insomma, l'accento è sul fatto che è di tutti la capacità politica di vivere in una città (quindi di amministrarla), basata sul rispetto reciproco e sul senso di giustizia. Ci troviamo di fronte ad un mito di chiaro sapore democratico, che non esprime il pensiero di Platone, bensì quello del sofista Protagora. Per rendersi conto di tutto ciò sarebbe stato necessario sapere che il brano era tratto dal «Protagora»; che nelle righe che precedevano si parlava di Prometeo; nelle successive si insisteva sul fatto che Rispetto e Giustizia erano stati distribuiti a tutti. Molti i motivi d'interesse; peccato che le scelte ministeriali abbiano puntato su una traduzione solo meccanica, anziché agevolare la comprensione del significato profondo del brano.

Prof Enrico Varesio

Bussoleno (To) varesioe@libero.it

Non so se in una prova d'esame si poteva proporre un tale allargamento del tema. A me pare che l'osservazione del prof Varesio proponga piuttosto un fondamentale argomento di discussione: a che servono gli studi classici? Latino e greco devono solo insegnare a tradurre, il più delle volte penosamente, alcuni brani antichi? Se fosse tutto qui tanto varrebbe leggere i testi confrontandoli subito con la traduzione italiana, resterebbe la musica dell'originale, la costruzione della frase, meglio di niente. Ma quando si inserirono latino e greco negli studi si voleva che attraverso la lettura diretta dei testi si arrivasse a conoscere quelle straordinarie civiltà. Al liceo dovetti studiare e tradurre 'Antigone' di Sofocle. Il benemerito prof di greco ridusse al minimo (gliene sono ancora grato) il lavoro sulla traduzione allargando invece molto il discorso sui rapporti tra individuo e potere che il testo propone arrivando da Sofocle fino ad Alfieri e Brecht che s'erano applicati allo stesso tema, illustrando la famosa frase di Tucidide che delinea il principio di ogni democrazia: «La Nostra Costituzione si chiama democrazia perché il potere non è nelle mani di una minoranza ma della cerchia più ampia di cittadini«. Se lo stesso tema dovesse essere riproposto oggi, lo estenderei addirittura fino al preambolo del progetto costituzionale europeo là dove dice: «Consapevoli che l'Europa è un continente portatore di civiltà; che i suoi abitanti giunti in ondate successive fin dagli albori dell'umanità vi hanno sviluppato i valori che sono alla base dell'umanesimo: uguaglianza degli esseri umani, libertà, rispetto della ragione». Questo significa affrontare le 'radici' della nostra civiltà, a volerlo fare

Dissimulazione onesta, ipocrisia, menzogna, falsificazione... Questi sono panni che la politica ha sempre vestito, e i realisti da sempre dicono che non può dismetterli. E la verità? Scriveva Hegel che «la verità non è moneta in corso che è possibile riscuotere in quanto tale». Ma si può ammettere che la regola democratica non contempli l´obbligo di dire il vero?

La democrazia non è soltanto governo "del popolo", ma anche governo "in pubblico". Per questo la democrazia deve essere il regime della verità, nel senso della piena possibilità della conoscenza dei fatti da parte di tutti. Perché solo così i cittadini sono messi in condizione di controllare e giudicare i loro rappresentanti, e di partecipare al governo della cosa pubblica. Perché qui si colloca una delle sostanziali differenze tra la democrazia e gli altri regimi politici, quelli totalitari in particolare, dove l´oscurità avvolge l´intera vita politica e sono i governi a definire quale sia la verità. Nascono in questo modo le verità "ufficiali", che sono lo strumento per distorcere o occultare le rappresentazioni reali di quel che accade. Per questo i regimi totalitari non amano le scienze sociali, non conoscono la stampa libera, arrivano persino a ritenere pericoloso uno strumento di conoscenza come l´elenco telefonico.

Ma può la democrazia essere identificata con l´assoluta trasparenza, con l´obbligo di dire la verità in ogni caso e ad ogni costo? Kant poneva il divieto di mentire dei governanti come un imperativo. Ma anche i regimi democratici conoscono casi in cui il segreto è ammissibile, anzi può essere considerato necessario e doveroso.

Qual è, allora, il tasso di segretezza, e di insincerità, che un sistema democratico può sopportare senza mutare la propria natura?

Segretezza e menzogna non sono la stessa cosa. Segreto, dicono i dizionari, è il «fatto, realtà, notizia che non si vuole o non si deve rivelare a nessuno». Menzogna è «affermazione contraria a ciò che è o si crede corrispondente a verità, pronunciata con l´intenzione di ingannare». Così le cose sembrerebbero chiare: il segreto è non dire, che è cosa assai diversa dall´ingannare. Ma quando gli arcana imperii, i segreti che avvolgono l´azione del sovrano o anche dei governanti democratici, coprono troppe materie o questioni essenziali per la vita pubblica, la distinzione tra il non sapere e l´essere ingannati può diventare sottilissima. Non sapendo, i cittadini non sono in grado di controllare le scelte dei governanti, brancolano nel buio. La conoscenza diventa appannaggio di un gruppo ristretto, e la forma di governo può trasformarsi da democratica in oligarchica.

Due situazioni, diverse e per certi versi estreme, aiutano ad individuare i limiti possibili del segreto in una società democratica. Nella legge del 1977 sul segreto di Stato, che lo ammette a difesa della libertà degli organi costituzionali e per ragioni di difesa e politica estera, tuttavia si dice che «in nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato i fatti eversivi dell´ordine costituzionale». Le norme sulla privacy consentono ad ogni cittadino di rivolgersi al Garante per chiedergli di accertare se i servizi segreti abbia raccolto illegittimamente informazioni sul suo conto, e al Garante non può essere opposto il segreto di Stato. Vi è dunque un punto oltre il quale l´ordine dello Stato e quello intimo delle persone esigono garanzie che nessuna pretesa di segretezza pubblica può mettere in discussione.

L´obbligo di verità da parte delle istituzioni diviene diritto d´informazione sul versante dei cittadini. Nell´articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell´uomo dell´Onu si afferma che «ogni individuo ha diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee con ogni mezzo e senza riguarda a frontiere». Questo diritto individuale alla ricerca della verità attraverso le informazioni chiarisce bene quale sia il significato della verità nelle società democratiche, che si presenta come il risultato di un processo aperto di conoscenza, che lo allontana radicalmente da quella produzione di verità ufficiali tipica dell´assolutismo politico, che vuole proprio escludere la discussione, il confronto, l´espressione di opinioni divergenti, le posizioni minoritarie.

La pienezza della conoscenza per tutti fonda la verità "democratica". «Conoscere per deliberare» ? diceva Luigi Einaudi. Ed è certo pessima per l´interesse generale una deliberazione fondata su informazioni ingannevoli o false. Si deve aggiungere che la conoscenza è necessaria anche per progettare e controllare, dunque per consentire la partecipazione dei cittadini all´intero processo democratico.

Questo diritto alla verità attraverso le informazioni non può essere affidato soltanto all´iniziativa ed alle forze individuali. Esige "istituzioni della verità". I parlamenti non sono stati concepiti solo come strumenti per l´approvazione delle leggi, ma come luoghi di confronto e di controllo, dove far emergere la realtà delle situazioni. Il sistema dell´informazione e della comunicazione adempie ad una funzione essenziale di fornire ai cittadini conoscenze altrimenti inaccessibili. Il diritto di cercare, ottenere e diffondere informazioni è divenuto una possibilità concreta per un numero sempre crescente di persone grazie ad Internet. La verità in democrazia, quindi, esige forza dei parlamenti, libertà dei sistemi informativi da condizionamenti economici e da censure, assenza di controlli generalizzati agli utenti di Internet.

La democrazia si presenta così come un regime di verità "molteplici", non di verità "rivelate". E di verità rese accessibili a tutti. Non dimentichiamo che, inquisendo Galileo, il cardinal Bellarmino gli rimproverava non tanto di aver scoperto verità scientifiche, ma di averle comunicate a tutti scrivendo in italiano, e non in quel latino che le avrebbe rese accessibili a pochi e quindi politicamente e socialmente meno esplosive.

In democrazia, la verità è figlia della trasparenza. Un grande giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, Louis Brandeis, ha scritto che «la luce del sole è il miglior disinfettante». Di conseguenza, ogni impresa di lotta alla corruzione, ogni azione volta a rendere possibile il controllo di legalità delle azioni individuali e collettive, esige come condizione preliminare la creazione di un ambiente all´interno del quale non esistano barriere protettive al riparo delle quali la possibilità della segretezza generi la frode.

Ma fino a che punto l´irrinunciabile trasparenza sul versante pubblico può trasformarsi per qualsiasi cittadino in un obbligo assoluto di verità, nel dovere di denudarsi in pubblico? Qui le risposte sono diverse a seconda dei ruoli sociali, e siamo di fronte a nuovi intrecci, come quelli tra verità e fiducia. Le menzogne sulla vita sessuale di John Profumo e Gary Hart sono state considerate segno di inaffidabilità politica ed hanno portato all´esclusione dall´attività politica. Un sottofondo puritano ha fatto concludere che mentire su alcune abitudini private sia indice di propensione a mentire anche nella sfera pubblica. Ma la vicenda, pur pesantissima, di Bill Clinton ed il fastidio destato dai tentativi di attaccare John Kerry per le sue relazioni private fanno pensare che anche in quei paesi si sia alla ricerca di nuovi equilibri tra riservatezza e trasparenza.

Né "la salvezza della Repubblica" può produrre l´obbligo della verità ad ogni costo e con ogni mezzo. L´imputato ha diritto di mentire per difendersi, la tortura e le schedature di massa confliggono con la logica della democrazia anche se usate per cercare la verità. Vi è una violenza della verità che la democrazia ha sempre cercato di addomesticare, per evitare che travolga le stesse libertà democratiche fondamentali.

Non bisogna avere paura di dire l'avevamo detto. Il movimento contro la guerra in Iraq è stato, in Italia, il più possente e insieme il più diversificato. Ma tutte le motivazioni che l'hanno fatto grande convergevano su alcune, fondamentali assunzioni: si trattava di una guerra senza alcuna legittimazione; preventiva e quindi doppiamente illegale; sbagliata perché pensata sull'ipotesi che fosse possibile esportare con la forza valori e democrazia; inutile perché non avrebbe risolto alcun problema, a cominciare dalla lotta contro il terrorismo; pericolosa perché avrebbe aggravato quelli esistenti, in particolare moltiplicando i focolai di terrorismo. Tutto ciò che era stato previsto si è, purtroppo, verificato. Ed è tanto più triste constatarlo dopo che molti nostri soldati sono caduti in combattimento. Poiché ciò dice che quei morti potevano essere risparmiati.

Adesso coloro che sono responsabili diretti di quelle nostre morti cercano canagliescamente di nascondere le loro responsabilità sotto una coltre di retorica patriottica. Occorre invece riflettere con il massimo di sangue freddo.

Riflettere significa aiutare la gente a non cadere nelle molteplici trappole che molti media spargono a piene mani. La più insidiosa delle quali è la tesi secondo cui tutto ciò che sta accadendo in Iraq, in queste ore, sia terrorismo fondamentalista islamico importato dall'esterno, farina del sacco di Bin Laden.

A parte il fatto che sostenere questa tesi equivale a riconoscere che gli Usa hanno commesso un errore irreparabile, moltiplicando il pericolo terrorista, occorre dire a gran voce che essa è comunque falsa. Ridurre tutto a terrorismo fondamentalista significa fasciarsi occhi e orecchie e illudersi che esso possa essere domato con un incremento di forza militare.

In realtà è evidente la presenza - accanto, insieme, intrecciata con il terrorismo - di una potente, diffusa resistenza popolare contro le truppe d'occupazione. Questo significa che un aumento della repressione sarà, per un tempo imprevedibile, accompagnato da un incremento della reazione, cioè da altro sangue, altro terrorismo, altre morti, irachene e straniere. Sbagliare la valutazione significa sacrificare inutilmente altre vite.

Ritirarsi è dunque obbligatorio, anche perché il vuoto pauroso creato dalla dissennata guerra statunitense non sarà certo colmato dalla presenza italiana. Perfino il Giappone - che aveva promesso truppe - è tornato sulla sua decisione. La Corea del sud riduce il contingente. L'India rifiuta, la Turchia rifiuta. Russia, Germania e Francia restano fuori. Tutti vili?

In realtà tutti più o meno consapevoli che bisogna cambiare rotta, subito, senza porre tempo in mezzo. Questo barlume di resipiscenza sta emergendo perfino a Washington. Forse per ragioni elettorali, ma potremmo presto trovarci di fronte a una abbandono anticipato del campo da parte perfino degli Stati uniti. Anticipato significa ancor prima che una qualsiasi soluzione di autogoverno iracheno sia stata messa in piedi.

S'impone una iniziativa politica che sia, in primo luogo, un messaggio positivo al popolo iracheno stremato dalla dittatura, dall'embargo e dalla guerra, le cui coordinate sono visibili fin d'ora e che dovrebbero essere subito sperimentate: consegna alle Nazioni unite della responsabilità politica; ritiro annunciato da subito e gradualmente eseguito di tutte le truppe di occupazione; loro sostituzione graduale con le truppe di paesi che non hanno preso parte all'aggressione militare anglo-americana; progressivo inserimento di forze militari e di polizia dei paesi arabi e musulmani.

Difficile? Difficilissimo. Se qualcuno ha soluzioni politiche più facili le esponga.

Il movimento contro la guerra faccia sentire la sua voce. L'emozione e il dolore, insieme alla campagna mediatica, insieme alle incertezze di un'opposizione senza bussola, hanno modificato in senso negativo - inutile nasconderselo - il panorama dell'opinione pubblica italiana. I sondaggi, pur da prendere con le pinze, indicano un paese spaccato in due, dilaniato tra l'ipotesi del ritiro e quella del proseguimento, senza destino e prospettiva, di una presenza italiana in Iraq. Il governo - cieco come prima - dichiara di voler procedere peggio di prima.

Prima che la guerra cominciasse, poi a guerra iniziata, abbiamo riempito il paese di bandiere di pace. Molte sono rimaste - e giustamente - appese a dimostrare che fu giusto metterle, perché la guerra non era affatto finita. Chi le ha lasciate aveva ragione. Le lasci, anche se i loro colori si sono stemperati. Chi le ha ritirate le riesponga. Chi non le aveva ancora messe le tiri fuori. E' un messaggio visivo potente, razionale, solidale, democratico. Moltiplichiamolo, nell'interesse della ragione e della pace.

Cosa c’entra il delitto Matteotti con la realtà politica dei nostri giorni? Veramente poco, se non fosse che qualche settimana fa, il 10 giugno, si è celebrato l’ottantesimo anniversario dell’assassinio del parlamentare socialista per mano dei sicari fascisti. Così come, figuriamoci, non c’è né potrebbe esserci relazione alcuna tra il nascente regime di allora e l’Italia nella quale tutti noi possiamo, fortunatamente, vivere e prosperare. A nessuno, poi, salterebbe in mente di accostare la figura del presidente del Consiglio, e non ancora dittatore, del 1924 con il presidente del Consiglio del 2004. E chi si sognerebbe di tracciare paragoni tra le progressive, drammatiche restrizioni a cui la liberta di stampa e di parola venivano sottoposte in quegli anni e le questioni dell’informazione e della concentrazione di potere mediatico con cui abbiamo a che fare?. Questa premessa è a beneficio di quanti a sentire parlare di regime di oggi sono pronti a insorgere scandalizzati per un possibile accostamento con il regime di ieri; paragone che massimamente considerano ingiusto, sbagliato, offensivo oltre che storicamente indecente. Se, dunque, nelle righe che seguono citeremo ampi brani di un libro che molto c’è piaciuto e che tratta degli eventi di ottant’anni or sono, cercheremo di farlo evitando che al lettore possano subdolamente essere suggeriti collegamenti impropri e congiunzioni innaturali (lasciando naturalmente al lettore medesimo il sacrosanto diritto di collegare e congiungere quanto più gli garba).

Ciò precisato, il titolo del libro, fresco di stampa, è: «Matteotti e Mussolini» (editore Mursia, pagine 492). Ne è autore Claudio Fracassi che, nelle prime pagine, ci spiega come, pur in un clima di crescente violenza squadristica e con un parte consistente dei poteri forti (industriali, agrari, alta burocrazia) che si andavano accodando al nascente regime, e tuttavia, in quel 1924, né la società né lo Stato erano fascistizzati: «Non pochi tra i magistrati erano gelosi dell’indipendenza solennemente garantita loro dalle leggi. La libertà di sciopero era difesa dai sindacati, così come la libertà di stampa dai giornalisti». A proposito di giornali, tuttavia, non mancavano gli apologeti del presidente del Consiglio che un cronista più incantato degli altri descriveva di abitudini frugali, di carattere chiuso ma portato al romanticismo: «È per esempio, assai amante dei fiori, e, tra questi, preferisce la rosa: spesso è veduto con questo fiore tra le labbra, mentre cavalca, e ne aspira anche spesso la viva fragranza mentre siede al tavolo di lavoro».

Nelle relazioni internazionali e con i potenti emergeva il carattere contraddittorio del personaggio che, stando alla testimonianza di un futuro ambasciatore a Londra «quando parlava alla folla era un leone, e nei dialoghi a quattr’occhi, soprattutto con stranieri, diventava una pecora», poiché, «egli aveva soprattutto sviluppatissimo il dono di sapersi adeguare al sentimento dei suoi ospiti, precedendoli, anzi, nel giudizio».

Secondo un grande oppositore, Piero Gobetti, «la lotta politica in regime mussoliniano non è facile: non è facile resistergli perché egli non resta fermo a nessuna coerenza, a nessuna posizione, a nessuna distinzione precisa, ma è pronto sempre a tutti i trasformismi». Quanto alla grande stampa, essa vede progressivamente ridotta la sua libertà anche perché si lascia intimidire come dimostra la lettera che, nel giugno ’23 l’editore del «Corriere della Sera», Mario Crespi, manda al direttore Albertini: «...pare a noi che il “Corriere”, ben lungi dall’accodarsi agli adoratori del nuovo idolo, potrebbe, ripigliando l’antica sua tradizione di giudice pacato ed obiettivo, prestare al fascismo quella serena attesa che ormai gli è offerta dagli uomini più rappresentativi d’ogni colore politico affine al nostro, senza infliggergli continui colpi di spillo...».

Quanto al’opposizione, pur consistente nel numero dei parlamentari eletti e radicata nel paese, in essa le rivalità prevalgono sulla comune contrapposizione al fascismo. Commenta il leader dei socialisti Turati in una lettera: «I comunisti fanno da sé, quindi anche i massimalisti, e i popolari sono sempre oscillanti ed equivoci...». Scrive Fracassi che lo stesso Turati assisteva desolato non solo alle manifestazioni di trasformismo politico, ma anche ai comportamenti quotidiani di quei suoi colleghi di partito che, nei rapporti con gli esponenti della maggioranza, sembravano muoversi come se quello fascista al potere fosse un normale movimento democratico e parlamentare: «Troppi nostri sono stanchi di stare di continuo con i pugni tesi e non domandano di meglio che un po’ di détente (distensione ndr.)...Quando vedo Gonzales a braccetto con Terzaghi o sento Modigliani scherzare coi i vari Ciano e Finzi e Corbino, mi sento venir male. Non abbiamo forse che un’arma: dare sempre la sensazione del nostro irreducibile disprezzo, e mi pare che, se questa ci è tolta di mano, siano finiti». Alla fiera ma scoraggiata impotenza di Turati, spiega Fracassi, Giacomo Matteotti opponeva la convinzione che la battaglia per la democrazia potesse ancora essere condotta e vinta, a tre condizioni: che l’opposizione fosse unita, che non ci fossero cedimenti nei confronti del governo, che il regime nascente in Italia - in quanto alla lunga contagioso e pericoloso per l’intera Europa - fosse combattuto non solo a Roma ma in ambito continentale.

Con il discorso parlamentare di venerdì 30 maggio 1924, culminato nell’accusa di brogli elettorali sbattuta sulla faccia di un Mussolini stravolto, Matteotti firma la sua condanna a morte. Turati non nasconde che quel drammatico intervento, se aveva entusiasmato e trascinato molti dei suoi, aveva anche suscitato critiche tra coloro che, a sinistra, aspiravano a una qualche normalizzazione dei rapporti col fascismo al governo: «Non mancano fra noi i cacadubbi che trovano che si è fatto male, che il discorso di Matteotti era inopportuno...». Il presidente del Consiglio coglie il disorientamento nel fronte avversario e con il discorso del 7 giugno tende all’opposizione un ramoscello d’ulivo avvelenato: «L’opposizione ci deve essere!... L’opposizione è necessaria; non solo, ma vado più in là e dico: può essere educativa e formativa. Ma allora ci si domanda: perché siete così irrequieti, così insofferenti? Non è l’opposizione che ci irrita. È il modo dell’opposizione». Mussolini propone agli avversari, per adeguarsi al nuovo clima, di seguire i suoi consigli: «Qualche volta l’opposizione è opposizione piena di rancori che si mette in un angolo... Poi accade talvolta che l’opposizione si dà delle arie cattedratiche che ci indispongono: pare che là ci siano dei pozzi di sapienza, delle arche di dottrina, uomini che recano lo scibile ambulante! Altro vizio dell’opposizione: è sempre in attesa dello sfascio».

Nel frattempo il parlamento viene esautorato, come osserva Turati: «I bilanci non si discutono più se non in quei capitoli che importino variazioni al bilancio precedente! Gli emendamenti di qualche importanza non si posono votare, ossia è inutile neppure presentarli e sostenerli se non sono previamente accettati dal governo! Insomma, è la sostituzione effettiva del governo al parlamento».

Dopo l’assassinio di Matteotti, il ritrovamento del suo corpo alla Quartarella e la pubblica denuncia del ruolo e delle responsabilità avute nell’omicidio dal governo fascista e dal suo capo, il regime nascente conosce i suoi giorni peggiori. Mussolini è alle corde. L’opposizione si prepara alla spallata finale. Scrive Gobetti: «Alla Camera le minoranze non dovranno porre questioni di competenza tecnica,ma provocare battaglie pregiudiziali, differenziarsi in modo così reciso e violento da costringere gli avversari alle reazioni più sincere. Nessuna illusione costruttiva: nessun pensiero di tregua e di normalizzazione».I giornali di regime reagiscono scompostamente e se la prendono con i commentatori esteri che al delitto Matteotti danno, ovviamente, enorme rilievo. Commenta il filogovernativo “Messaggero” : «Ancora una volta... con infinita voluttà la stampa di vari paesi ha colto il pretesto per assalirci e per tentare di gettare il discredito sull’intera Nazione... Si distingue, in tale campagna antitaliana, la stampa francese». Il presidente del Consiglio viene chiamato direttamente in causa dal “Corriere della sera”: «Di fronte a certe imputazioni si ha il dovere di mettersi a disposizione della giustizia rinunciando alle prerogative e all’immunità che il potere accorda di fatto...». Sull’orlo del baratro, Mussolini fa appello all’Italia che chiede ordine, e ricorda i suoi meriti di normalizzatore: «Bastava il minimo presteto perchè i ferrovieri sospendessero la marcia dei treni... C’è stato uno sciopero dei maestri. Immaginate se si può pensare a qualcosa di più paradossale di uno sciopero di maestri... Siccome c’era un sindacalismo di magistrati siamo stati a un solo pelo dall’avere lo sciopero della giustizia...». Ai suoi, Mussolini così illustra la strategia del contrattacco: «La battaglia è difficile e delicata. Bisogna cloroformizzare le opposizioni e anche il popolo italiano. Lo stato d’animo del popolo italiano è questo: fate tutto, ma fatecelo sapere dopo. Non pensateci tutti i giorni dicendo che volete fare i plotoni di esecuzione. Questo ci scoccia. Una mattina quando ci svegliamo diteci di aver fatto questo e saremo contenti, ma non uno stillicidio continuo».

Malgrado il sacrificio di Giacomo Matteotti, il fascismo, come sappiamo, riuscirà purtroppo a cloroformizzare l’Italia. Persa l’occasione storica di rovesciare il regime, l’opposizione verrà definitivamente sconfita, dispersa, perseguitata. Come racconta Fracassi al termine del ’24 si aprì la fase delle «leggi eccezionali». Il 14 gennaio 1925 la Camera approvò in una sola seduta oltre duemila decreti-legge presentati dal governo. I deputati dell’opposizione furono dichiarati formalmente «decaduti» dal parlamento nel novembre del 1926. Prima che fossero espulsi dal parlamento, agli esponenti dell’Aventino Mussolini aveva posto, intervenendo alla Camera dai banchi del governo, la seguente condizione: «Chiunque dell’Aventino voglia ritornare, semplicemente tollerato, in quest’aula, deve solennemente e pubblicamente riconoscere il fatto compiuto della rivoluzione fascita, per cui un’opposizione preconcetta è politicamente inutile, storicamente assurda...».

Quale ragione ci spinge a parlare di Matteotti e Mussolini, ottanta anni più tardi, in un sabato di estate inoltrata? Nient’altro che una semplice associazione di idee.

Tanto per cominciare: la coppia Ratzinger-Wojtyla batte tutti i nostri leader nonché i nostri intellettuali di sinistra, moderata e radicale, dieci a zero. La Chiesa prende atto del «problema» del rapporto fra i sessi, lo colloca giustamente su un livello ontologico in quanto tale anche politico, si preoccupa del portato umano e sociale della rivoluzione femminista, si informa sulle sue diverse tendenze e se ne lascia interpellare; mentre a sinistra del problema tuttora non si prende atto, del femminismo si parla come dell'ultimo, fastidioso residuo ideologico novecentesco, delle sue tendenze interne si ignora tutto e tutto si confonde in un rituale ritornello su diritti e opportunità che annacqua nel nulla la politica, figurarsi l'ontologia. Non vedrei perciò nella «Lettera ai vescovi sulla collaborazione dell'uomo e della donna» una mera versione aggiornata dell'ossessione del pontificato di Wojtyla per la donna e per il controllo della sessualità femminile (che pure resta); c'è in essa, a me pare, un ascolto del divenire storico, del mutamento innescato dalla rivoluzione femminile, che va riconosciuto e incassato. Ferme restando le critiche all'esito - largamente prescrittivo - che le gerarchie vaticane imprimono al discorso. C'è, dicevo, la collocazione del problema al giusto livello dell'antropologia politica e non della contabilità dei diritti e dei poteri. C'è la declinazione della differenza sessuale come differenza relazionale, costitutiva dello statuto dell'umano. C'è l'indicazione di una soluzione appunto relazionale, non separatista e solipsista né rivendicativa e vendicativa, del conflitto uomo-donna. C'è l'individuazione della sessualità come dimensione «non solo fisica ma psicologica e spirituale», rilevante ai fini del pensiero e del linguaggio, dell'essere umano. E c'è la visione della differenza femminile come vocazione relazionale della donna (quella «capacità dell'altro» citata dal documento in cui mi sembrano riconoscibili echi dell'ultima riflessione di Luisa Muraro), non necessariamente incardinata sul destino biologico materno e matura per improntare di sé la vita sociale.

Ciò detto, non è tutto oro quello che luccica. Perché dall'insieme del testo (sui cui passaggi teologici, vetero e neotestamentari, spero che altre interverranno con maggior cognizione di causa) risulta altrettanto evidente la volontà di riportare ciascuna di queste acquisizioni nei binari della morale cattolica, e di imbrigliare la libertà femminile, che della scoperta femminista della differenza è figlia, nel destino sessuale e matrimoniale tradizionale, ancorché rivalorizzato sul piano sociale. La differenza relazionale fra uomo e donna, antidoto alla deriva del solipsismo maschile (deriva risalente a Adamo, se Dio non gli avesse messo a fianco Eva), ricade tutta sulle spalle di lei, mentre esenta lui da qualsivoglia responsabilità: il documento non fa parola della differenza maschile e non la convoca ad alcuna prova di quella «reciprocità» che pure predica. La relazionalità inscritta nella differenza femminile, d'altra parte, viene finalizzata al ruolo «sponsale», privato o sociale che sia, della donna, e una volta disarcionata dal destino biologico della Madre trova un altro esempio solo nella Vergine. E il giusto no al femminismo rivendicativo e belligerante della «guerra fra i sessi» (primo fronte avverso fra le tendenze interne al femminismo) finisce con l'eludere il nodo del potere sessuale fallocratico: fu il peccato, non il dominio della sessualità maschile, a rompere l'equilibrio fra Adamo ed Eva, ed è l'uscita dal peccato, non la lotta al fallocentrismo, a poterlo ristabilire.

Nel documento risulta rivelatore come una cartina al tornasole, infatti, l'individuazione della «gender theory» come secondo fronte avverso all'interno del femminismo. Qui il documento - per quanti motivi di diffidenza possa avere contro certe derive postmoderne di smaterializzazione della sessualità - cade, per almeno due ragioni. Una è teorica, perché non è con le teorie del gender (molte delle quali in verità coincidono con la «prima tendenza» del femminismo rivendicativo) che Ratzinger combatte, bensì con la teoria del gender trouble di Judith Butler (evocata ma non esplicitamente citata), ovvero con la teoria che contesta l'identità compatta del genere femminile per aprire - non diversamente da quanto fa il femminismo italiano della differenza sessuale - alla soggettività femminile tutto il campo possibile delle scelte sessuali, sociali, politiche, discorsive, di pensiero. Per aprire insomma alla differenza femminile la possibilità di dirsi in prima persona, senza che nessuno, né l'ordine fallocratico né la Chiesa, ne decidano una definizione oggettiva. Su questo Ratzinger e Wojtyla non ci stanno: ne vedono solo l'esito sessuale «perverso» - le famiglie «irregolari» gay e lesbiche - che la Chiesa non può tollerare, né in Nordamerica né qui. Per quanto sia accettata, è pur sempre oggettivata e imbrigliata nello «sposalizio» tradizionale che la differenza fra i sessi deve restare.

«L'emendamento italiano secondo cui le violenze o minacce devono essere reiterate perché si possa parlare di tortura è il massimo dell’abiezione». Non ha dubbi Giorgio Agamben nel puntare il dito su quella che appare una barbarie senza precedenti, nemmeno nella Germania nazista. Le immagini dei prigionieri iracheni seviziati, resi oggetto di ogni sorta di violenze e degradazioni sessuali, stanno facendo il giro del mondo. Torture note ai vertici del potere americano e inglese. Forse addirittura autorizzate. Ma non legalizzate. Agamben, docente di Estetica allo Iuav di Venezia, curatore delle opere di Walter Benjamin in Italia, filosofo che nei suoi lavori più recenti ha riflettuto sui temi della violenza del potere sulle persone, sposta volutamente lo sguardo sulla situazione italiana. Perché, insiste, in questo caso ci troviamo di fronte non a una situazione di fatto, ma alla possibilità che la tortura entri a pieno titolo nella legislazione dello Stato. Modalità, peraltro, alla quale il nostro Paese non è estraneo: la Procura di Genova ha firmato ieri la richiesta di 47 rinvii a giudizio per i soprusi avvenuti nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova, appellandosi alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La china verso «una società che non è più neanche umana», per usare una definizione di Agamben, sembra già iniziata.

Professore, lo scorso 22 aprile la Camera ha approvato un emendamento della Lega alla legge sull’introduzione del reato di tortura nel codice penale in base al quale le violenze o le minacce devono essere «reiterate» altrimenti non è tortura. Si tratta dell’ennesima manifestazione dello «stato di eccezione», ossia quella sospensione dell’ordine giuridico che dovrebbe essere una misura provvisoria e straordinaria, ma che - come lei ha teorizzato in uno dei suoi lavori («Lo stato di eccezione», Bollati Boringhieri) - sta oggi diventando sotto i nostri occhi un paradigma normale di governo?

«Non si tratta, per essere precisi, di stato di eccezione, perché questo implica una sospensione della legge di fronte a circostanze eccezionali. Qui, piuttosto, si rende stabilmente e legalmente praticabile la tortura. Siamo di fronte, cioè, a qualcosa di ancora più atroce del semplice fatto della tortura, perché in questione è, appunto, la sua legalizzazione, il suo inserimento nell’ordinamento giuridico dello Stato. Ciò non è avvenuto nemmeno nella Germania nazista, in cui nessuna legge ha mai autorizzato la tortura. Con questo emendamento, l’Italia diventa un paese barbaro, uno stato i cui funzionari sono legalmente abilitati a praticare la tortura, non importa se reiterata o meno. Una sola tortura è sufficiente a segnare per sempre la vita di chi la commette e di chi la subisce, così come una sola tortura può provocare la morte».

A gennaio, in seguito all’introduzione di nuovi dispositivi di controllo, imposti dal governo americano ai cittadini stranieri che si recano in Usa, con l’obbligo di lasciare le proprie impronte digitali e di essere schedati, lei ha annullato il corso che doveva tenere presso la New York University. Come ha reagito, allora, all’emendamento che di fatto vuole legalizzare in Italia la tortura?

«Mi sono dimesso dal mio incarico all’Università di New York per le ragioni che ha detto. Ma qui in Italia io sono professore in una università dello stato. Come potrei continuare a insegnare - e a vivere - in un paese in cui fosse legittima la tortura? Ma questo vale per tutti. Mi chiedo come potrebbe il Capo dello stato accettare di essere il presidente di una repubblica aguzzina? Con la legittimità della tortura, verrebbe meno non un articolo della costituzione, ma il principio stesso su cui la costituzione si fonda».

Dopo il G8 di Genova la tortura sembra essere nel nostro Paese una realtà. Quale società rende possibile una pratica come questa?

«Io credo che siamo al di là o al di qua di un’analisi propriamente politica. Mi chiedo, a volte, se siamo ancora fra esseri umani. Una società che oggi legittima la tortura non è una società umana. Che uomini sono coloro che hanno proposto e votato questo emendamento? È possibile che non si rendano conto che un paese in cui venisse oggi legalmente praticata la tortura sarebbe un paese in cui ogni convivenza umana sarebbe resa durevolmente impossibile? Come si può vivere in un paese i cui cittadini possono incontrare per strada i loro legali torturatori o i torturatori delle loro mogli e delle loro madri, dei propri figli e fratelli? Io penso che i giornali dovrebbero pubblicare i nomi e le fotografie dei deputati che hanno votato a favore dell’emendamento con la semplice scritta: vogliono la tortura».

La legittima difesa secondo Castelli, la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini sulle droghe, il progetto Burani-Procaccini di riforma della 180, ora la tortura reiterata: c’è un filo rosso che unisce tutte queste «eccezioni»?

«Più che cercare un collegamento di ordine politico fra queste leggi, vorrei piuttosto invitare a riflettere su un processo che caratterizza profondamente le società in cui viviamo. Qui una decadenza inarrestabile delle coscienze democratiche e un progressivo imbarbarimento delle forme di vita va di pari passo a un’ipertrofia legislativa senza precedenti e a un processo di crescente giuridificazione di ogni ambito della vita individuale e sociale. Tutto, anche l’atto più anodino e privato (fumare, domani anche camminare o orinare) o ciò che è gia evidentemente reato (la tortura), deve diventare una fattispecie giuridica particolare. Mi sembra significativo da questo punto di vista che l’emendamento che legalizza la tortura sia contenuto proprio in una legge che introduce il reato di tortura nel codice penale. La tortura, in quanto violenza su un altro essere umano, era già reato: il fatto che si sia sentito il bisogno di farne una fattispecie particolare mostra in realtà che si stava smarrendo la coscienza della sua punibilità, che l’imbarbarimento della società era giunto al punto che la tortura come istituto giuridico diventava, dopo secoli, nuovamente possibile. Di qui a renderla legale, il passo è stato breve».

Se poi spostiamo lo sguardo a livello mondiale, ci troviamo oggi di fronte alle torture dei soldati americani e inglesi ai danni dei prigionieri iracheni. Torture che, almeno stando alle informazioni a disposizione, sono gratuite, non hanno neanche lo scopo di estorcere informazioni, di fiaccare la volontà dei detenuti. Sembra trattarsi non di una pratica coercitiva purtroppo diffusissima, ma di una manifestazione di estrema violenza. Quale spiegazione possiamo dare a questo fenomeno?

«Si è parlato molto e a ragione della tortura in Iraq. Ma non mi risulta che il governo americano - che pure, insieme a quello israeliano, pratica oggi senz’alcun dubbio la più massiccia e sistematica politica del terrore - e neanche quello inglese abbiano giustificato le torture in Iraq. Persino le canaglie che in tempi recenti avevano provato negli Stati Uniti a legittimare la tortura oggi tacciono. Le ripeto che l’emendamento italiano rappresenta il massimo dell’abiezione concepibile. E di questo non mi sembra che si parli abbastanza».

Ci sono teorie filosofiche, politiche, sociologiche che hanno giustificato o giustificano la tortura?

«La tortura, come ogni istituto giuridico e come ogni prassi umana, va iscritta nel contesto culturale in cui si produce. È del tutto evidente che quella di oggi non può essere messa in connessione con la tortura praticata, ad esempio, nei tribunali dell’Inquisizione, dove essa si fondava su presupposti teologici che oggi non avrebbero senso. Chi volesse servirsi di questi precedenti per giustificare o anche soltanto per rendere pensabile la tortura come istituto giuridico oggi - poiché di questo si tratta - sarebbe, oltre che un irresponsabile, un ignorante».

Per usare ancora alcune sue categorie (esposte soprattutto in «Homo sacer», Einaudi, 1995, «Quel che resta di Auschwitz», Bollati Boringhieri, 1998, «Aperto. L’uomo e l’animale», Bollati Boringhieri, 2002) si può dire che ormai rischiamo di diventare un po’ tutti una «nuda vita», biologica di fronte al potere sovrano?

«Perché “rischiamo”? Nell’orizzonte del biopotere moderno, lo siamo da un pezzo. Piuttosto occorre ripensare da capo la relazione privilegiata fra violenza e diritto che definisce l’ordine statuale. E, insieme, pensare le condizioni che renderebbero possibile una forma di vita in cui non sia mai possibile separare, come avviene nella tortura, qualcosa come una nuda vita. Ma questa è un’altra questione».

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