Sviluppo: quale e quanto. È il titolo di questo incontro. Incomincio dal «quanto». Perché la quantità, e la sua continua dilatazione, è indubbiamente la categoria che meglio caratterizza la società moderna, in tutte le sue principali espressioni. Cito alla rinfusa cose diversissime. Popolazione, agglomerati urbani, macchine di ogni tipo, reti stradali, trasporti, mezzi di comunicazione, burocrazie, traffici, carta stampata, spettacolo, pubblicità, scolarizzazione, turismo, velocità, informazione, ricerca: tutto ciò e molto altro nel secolo scorso ha conosciuto aumenti spettacolari.
In questo processo occorre però tener presente un rapporto che illumina e definisce la particolare qualità del fenomeno quantitativo. Nella seconda metà del Novecento la popolazione mondiale è raddoppiata, e continua a crescere. Nello stesso periodo il prodotto dell'economia mondiale si è moltiplicato per sette, e anch'esso continua a crescere. Ma, mentre l'aumento demografico desta preoccupazioni e sollecita (seppure in modo disorganico e da più parti contrastato) politiche destinate a contenerlo, la crescita produttiva si è imposta in modo sempre più netto come l'asse portante della politica economica e sociale del mondo, da tutti auspicata come irrinunciabile, con dogmatica sicurezza e ossessiva insistenza indicata come strumento risolutivo di ogni problema.
Ma siamo certi che lo sia davvero? Che questo continuo moltiplicarsi e ingigantirsi di fatti quantitativi, tutti d'altronde carichi di un'altissima, a volte rivoluzionaria, valenza qualitativa, sia la migliore garanzia per il nostro benessere e per il futuro del mondo? E le sinistre, e con esse il sindacato, come si collocano di fronte a questo interrogativo? O, meglio, se lo pongono?
Facciamo l'esempio dei problema occupazione. Ne avete già parlato a lungo, dicendo cose molto interessanti. Ma forse non è inutile aggiungere qualche altra considerazione. Tradizionalmente il rapporto tra quantità di produzione e quantità di occupazione è stato di regola proporzionale e biunivoco. Oggi di questo rapporto s'è persa ogni certezza. Il più drammatico crollo occupazionale si è registrato mentre il Pil continuava a salire. Né in seguito la crescita produttiva, forzata al di là di ogni reale bisogno e utilità sociale, ha sanato la situazione. Un parziale recupero, lo sapete bene, si è determinato solo a prezzo di precarizzazione selvaggia e sempre più esoso sfruttamento del lavoro. E il fenomeno riguarda tutto il mondo. L'International labour office parla di un miliardo di disoccupati e sottoccupati, un terzo della forza lavoro del pianeta.
Ciò nonostante di fronte a questa drammatica situazione la parola d'ordine, delle sinistre come delle destre, continua ad essere «crescita». Con una evidente sottovalutazione della rivoluzione informatica, della sua capacità di sostituire in misura sempre maggiore non solo il lavoro manuale ma anche quello mentale. E con una sostanziale rinuncia a utilizzare il progresso tecnico a favore dei lavoratori: paradossalmente infatti, quando sarebbe possibile ridurre fortemente la necessità di lavoro umano, la quantità di lavoro erogato va aumentando dovunque: sia complessivamente sia singolarmente. E questo in definitiva porta alla mancanza di una vera politica occupazionale, anche da parte delle sinistre, costringe a un'azione meramente difensiva di fronte alle «leggi» del capitalismo neoliberistico: secondo le quali il lavoro cessa di essere un diritto, perde il suo valore di cittadinanza e di appartenenza sociale (come l'attacco sistematico al welfare dimostra), scade a una variabile soggetta a tutte le incertezze, di durata, di mansione, di orario, di salario, in conformità alle «compatibilità» aziendali.
Ma un altro aspetto del grande mutamento, nei mondo economico mi pare non venga adeguatamente considerato. Oggi tutte le politiche poste in essere dall'imprenditoria mondiale al fine di ingrossare fatturati, migliorare efficienza produttività competitività, aumentare il Pil, cioè a dire in nome degli stessi obiettivi di continuo da tutti invocati, anche dalle sinistre e dai sindacati, di fatto si traducono in strumenti di ulteriore sfruttamento del lavoro: dalla flessibilizzazione nelle sue mille forme, alle ristrutturazioni aziendali operate mediante pesanti tagli di personale, al boom della finanziarizzazione, al fenomeno sempre più vasto della delocalizzazione, che di volta in volta mette sul lastrico centinaia di migliaia di lavoratori. In proposito, a evidenziare la logica che presiede alle politiche economiche neoliberiste, mi pare serva ricordare che le borse americane premiano, con vistosi rialzi delle loro azioni, le imprese che «snelliscono (organico».
Davvero in questa situazione è difficile capire perché si continui a insistere sulle vecchie politiche produttivistiche, a inseguire le destre nella rincorsa della competitività ad ogni costo, della modernizzazione non importa quale, della crescita produttiva indiscriminata, adeguandosi a un'economia sempre più separata dalla realtà sociale e dai suoi bisogni; al cui interno nemmeno il più moderato riformismo riesce ormai a trovare qualche spazio.
Per un lungo periodo la crescita produttiva nella forma dell'accumulazione capitalistica parve in qualche misura favorire il progresso sociale, anzi oggettivamente lo favorì. Fu allora che i movimenti operai, pur senza mettere in discussione il sistema dato, seppero conseguire importanti vittorie, sfruttando la parzialissima e ambigua, ma fondamentale, convergenza di interessi tra impresa e lavoro: quando - sia pure tra mostruosi squilibri, abusi e iniquità - la tendenza espansionistica del capitale incontrava l'esigenza di maggior reddito delle popolazioni industrializzate, a garantire insieme allargamento dei mercati e crescente benessere.
Questo tipo di rapporto il neoliberismo non lo consente più. È la sua stessa ratio a vietarlo, il suo impianto non solo strutturale ma concettuale. L'iniquità è organica alla competitività senza freni che domina il mercato globalizzato, e detta le regole di un'economia unicamente e forsennatamente impegnata alla produzione di quantitativi sempre crescenti di merci, in tempi sempre più stretti, a costi sempre più bassi: il tutto inevitabilmente a scapito del lavoro. Quali merci si producano d'altronde non importa, né per quale utilità, né con quali conseguenze. Ciò che conta è solo la smisurata dilatazione di un consumo che ben poco ha ormai a che vedere col benessere delle masse, e di fatto non ha altro fine che se stesso.
È vero, oggi tra le sinistre si va ormai diffondendo la consapevolezza che la crescita degli ultimi decenni sul piano sociale non ha pagato, che anzi il neoliberismo ha fortemente aumentato le distanze tra ricchi e poveri, non solo a livello internazionale ma all'interno stesso dei paesi più affluenti. E sempre più insistenti si fanno i dubbi sulla possibilità di conciliare obiettivi con tutta evidenza confliggenti, come competitività e welfare, crescita e solidarietà, modernizzazione e occupazione; sempre più premono interrogativi su come poter difendere le idee di giustizia, costitutive dell'esistenza stessa delle sinistre, all'interno del sistema attuale. E si torna a citare - ma ormai come una vecchia e stanca giaculatoria - la necessità di un nuovo modello di sviluppo, che però nessuno finora ha neppure tentato vagamente di abbozzare.
E questo è il più grave peccato delle sinistre, le quali hanno del tutto mancato una seria analisi critica di una società ormai identificata con una straripante produzione di merci, e impegnata nella riduzione a merce di ogni rapporto e ogni dimensione dell'esistenza; di fatto identificando lo sviluppo sociale con una crescita meramente quantitativa, in tal modo avallando come progresso quella perversione del consumo che è il consumismo, e ignorandone l'azione corruttrice, che diffonde il prevalere incontrastato di valori materiali e acquisitivi, a seminare individualismo aggressività e spregiudicatezza.
Su questa via le sinistre, o quanto meno una loro parte non trascurabile, hanno finito per adagiarsi su una deriva coincidente con la favola raccontata dalle destre: secondo cui la continua e crescente produzione di ricchezza toccherà prima o poi dimensioni tali da raggiungere tutti, fino a eliminare fame e miseria. Non eliminando le disuguaglianze, no. Perché, dice la favola, sono proprio le disuguaglianze a sostenere la competitività, a migliorare produzione e consumo, e così a creare ancora e ancora ricchezza, di cui a tutti, o quasi tutti, toccherà una piccola fetta.
O magari perché no una fetta grossa. Non è questa la magia del capitalismo? Non si son fatte così le fortune più vistose? Non mi soffermo sulla palese inaccettabilità per le sinistre di una politica che prevede e teorizza, come normale strumento di strategia economica, la disuguaglianza sociale, fino all'esclusione di individui, gruppi, interi paesi. Vorrei piuttosto esaminare la questione da un altro lato, e domandare: quale futuro, o meglio quanto futuro, può avere un progetto fondato sulla produzione illimitata di ricchezza?
La produzione, di qualsiasi tipo, è consumo di natura: minerale, vegetale, animale. Ma la natura terrestre, cioè il nostro pianeta, è una quantità data e non estensibile a piacere, e in quanto tale non è in grado di alimentare indefinitamente un'economia in continua crescita, fornendole le quantità di natura a ciò necessaria. E nemmeno è in grado di metabolizzare e neutralizzare indefinitamente gli scarti che ne derivano, i rifiuti (solidi, liquidi, gassosi). Parrebbe un'ovvietà, anzi è un'ovvietà, che però nessuno, o pochissimi, soprattutto tra economisti e politici, di destra o di sinistra, sembrano considerare tale.
Il problema ambiente oggi nessuno più lo ignora. È sotto gli occhi di tutti lo squilibrio degli ecosistemi, che sconvolge il clima tra uragani, alluvioni, frane, desertificazioni; che va devastando il mondo e le nostre vite tra malattie da smog, intossicazioni, innumerevoli nuove patologie ignote alla medicina tradizionale, insicurezza di ciò che mangiamo beviamo respiriamo; che produce milioni di senza-casa, di profughi, di morti. A lungo però tutto questo le sinistre lo hanno ignorato.
E ancora oggi (sebbene nessuno più ormai si sottragga al dovere di una citazione, in osservanza del «politically correct») la materia non sembra degna di attenzione nel momento delle scelte politiche decisive. Come se la crisi ècologica nulla avesse da spartire con economia, produzione, lavoro, i grandi temi della Politica con la maiuscola. Come se non fosse invece la conseguenza diretta e inevitabile di un modello economico che si regge sulla crescita illimitata e pertanto, inevitabilmente, sulla rapina della natura, sulla continua rottura del limite. Come se tutto ciò, tra l'altro, non costituisse un rischio per la stessa economia: alcune scarsità, acqua e petrolio in primis, già allarmano infatti la macchina produttiva mondiale, e né il mercato né le tecnologie più avanzate sembrano avere soluzioni in mano.
Forse trovate che io stia spaziando tra problemi che non riguardano il sindacato. Non direttamente almeno. Ed è vero che la funzione specifica del sindacato appartiene a un ambito più circoscritto, in sostanza identificabile con la tutela del lavoro e dei lavoratori; mentre tocca ad altri istituti la elaborazione delle politiche del paese e del loro confronto in ambito internazionale. Ma in una società come l'attuale, definita e radicalmente mutata dalla complessa fenomenologia della globalizzazione, io credo che anche decisioni settoriali, non possano essere assunte senza aver presente il quadro degli immani problemi che scuotono il mondo.
Se la globalizzazione ha aperto nuovi spazi alla valorizzazione dei capitali, fornendo all'industria planetaria manodopera a costi irrisori, e creando nel Sud del mondo condizioni di sfruttamento da protocapitalismo. Se condizioni analoghe spesso si producono anche nei nostri paesi tra le masse sempre più numerose dei migranti, tra l'altro fatalmente trascinando al ribasso i salari di tutti. Se i consumi in Occidente sono saliti al punto che un quinto della popolazione del pianeta si appropria di due terzi delle risorse. Se nonostante la continua crescita produttiva nel Sud del mondo ancora si muore di fame, mentre in Occidente si muore di obesità da iperalimentazione. E se, di fronte a un'economia che in complesso continua a deludere, impantanata in una crisi infinita, a un dato momento soltanto la guerra si pone come unico strumento capace di far quadrare i conti del sistema.
Se questa è la verità dei mondo, il mondo del lavoro non la può rimuovere, nel momento in cui si confronta con i suoi problemi e ne cerca soluzione. E non solo perché in qualche misura questa verità è presente anche tra noi, in un Occidente dove disoccupazione e precarizzazione, attacco allo stato sociale, aumento dei poveri e impoverimento dei ceti medi, vengono imposti come condizione alla crescita economica, data come infallibile strumento di futura prosperità per tutti. Ma perché proprio nel confronto tra il grande mondo e la nostra realtà, mi pare si evidenzi in modo ineludibile l'insostenibilità non solo ecologica ma sociale e politica dell'attuale paradigma economico, dunque la necessità di un diverso modo di produzione scambio e consumo. E in questo i sindacati possano dare un contributo tutt'altro che secondario.
Oggi non è più tempo di sovversioni politiche traumatiche, di rivoluzioni armate e sanguinose. Di tutto ciò abbiamo avuto abbastanza. E d'altronde oggi non si tratta di espugnare il Palazzo d'inverno. Si tratta di rimettere in causa un sistema-mondo che con il suo dogma iperproduttivistico e iperconsumistico, e con l'imposizione del mercato come regolatore indiscusso non solo dei meccanismi economici ma della società intera, ha capillarmente penetrato e inquinato cultura, costume, coscienze, fino a determinare comportamenti, desideri, progetti di vita. E delegittimarlo è possibile solo mediante una rivoluzione dolce ma radicale, consapevole e decisa, da attuarsi per gradi ma con costante tenacia, con un'azione molteplice, presente anche nel quotidiano minore, fermamente orientata a contrastare i valori oggi dominanti. Un'azione che muova dal netto rifiuto di una politica come quella praticata finora dalle sinistre, non solo italiane, sostanzialmente incapace di una linea diversa da quella delle destre.
Un tipo di politica che a volte si ritrova anche nell'azione del sindacato. La lotta per la salvaguardia del posto di lavoro, e quindi la difesa della fabbrica, è la strada da sempre seguita come la più naturale, che ancora oggi scatta ad ogni crisi come un riflesso immediato. Ma oggi si impongono interrogativi di cui ieri non c'era motivo. Per fare un solo esempio. Fabbriche gravemente inquinanti, ad alto rischio per i lavoratori e l'ambiente: è il caso di salvarle ad ogni costo? Una riconversione, con riprofessionalizzazione del personale - come d'altronde sovente si fa - non dovrebbe essere sempre presa in considerazione come la soluzione da preferire?
Ma anche altre domande di volta in volta bisognerebbe porsi: se e quanto serva ciò che si produce; se risponda a bisogni reali o non si tratti di oggetti destinati al consumismo più futile che poi la pubblicità s'incaricherà di dimostrare indispensabili; se non esistano altre necessità insoddisfatte, dunque con diritto di priorità; e quali siano le ricadute dei prodotti in questione, sul piano ecologico, sanitario, culturale, sociale, umano.
Una molteplicità di scelte, anche minori e minime, operate a questo modo, costituirebbe parte non piccola di una rivoluzione non traumatica ma Incisiva, in quanto netta, continua e sistematica negazione dei criteri che guidano l'economia capitalistica, basati unicamente sulla valutazione di quantità e profitto conseguibili, e ignari di ogni altra esigenza. Per questa via, in una realtà come la nostra, straripante di merci ma gravemente carente sul piano dei servizi pubblici e sociali, sarebbe forse possibile progressivamente spostare il baricentro dell'economia dalla produzione di beni materiali alla produzione di beni sociali.
Le conseguenze, anche se inizialmente limitate, sarebbero però tutt'altro che trascurabili, anche nell'immediato. Sul piano occupazionale innanzitutto: perché mentre nell'industria la tecnica sempre più largamente va sostituendo le persone, nessuna attività sociale può prescindere dalla presenza umana. E ai fini degli equilibri ecologici: perché la produzione sociale, a differenza di quella industriale, non inquina. Ma soprattutto per l'avvio di un diverso modo di progettare, pensare, vivere il lavoro, e quindi la produzione e il consumo.
Vi sembrano sogni, pii desideri? E però da qualche tempo stanno accadendo cose insolite. Da più parti, da gruppi di giovani, circoli di intellettuali, nuove riviste, convegni, spezzoni del movimento altermondialista, giungono segnali di rifiuto dell'orgia consumistica, di dubbi sulla bontà indiscussa della crescita illimitata. Alcuni addirittura a gran voce chiedono «decrescita». E, fatto davvero non trascurabile, di recente la Cina, di fronte al sempre più drammatico deterioramento ambientale del paese, e all'aumento costante della distanza tra ricchi e poveri, ha deciso di contenere di un terzo il tasso di aumento del proprio Pil. Infine tra i segnali di questo tipo non posso tralasciare il nostro incontro: che i sindacati si interroghino su materie come quelle dibattute oggi non mi pare davvero di scarso significato.
Dino Greco si diceva convinto di una evidente crisi del capitale. Ne sono convinta anch'io. Sono gli stessi meccanismi dell'accumulazione che spesso ormai sembrano girare a vuoto, inceppati tra crisi e scandali a ripetizione. Forse a riprova che crescita illimitata non esiste, né in natura né nella storia. Forse anche a ricordarci che dopotutto il capitalismo è un fenomeno storico, e come tutti i fenomeni storici ha avuto una nascita e avrà prima o poi una fine. È una verità che le sinistre una volta tenevano presente, a supporto del loro stesso esistere e agire. Una verità forse da recuperare.
L’immagine qui accanto mi è arrivata con lo spam quotidiano il giorno stesso che un’amica mi aveva segnalato l’articolo
Vladimir Ilic Lenin è morto il 21 gennaio 1924, ottanta anni fa, e ci chiediamo se l'imbarazzato silenzio che circonda il suo nome non significhi che è morto due volte, che è morta anche la sua eredità. Effettivamente la sua insensibilità nei confronti delle libertà personali è estranea alla nostra sensibilità liberale e tollerante. Chi oggi non si sente rabbrividire al ricordo delle parole con cui Lenin liquidò la critica che i menscevichi e i socialisti rivoluzionari facevano del potere bolscevico nel 1922? «In verità, le prediche che fanno i menscevichi e i socialisti rivoluzionari rivelano la loro vera natura: "la rivoluzione si è spinta troppo oltre(...)". Ma allora noi replichiamo: permetteteci di mettervi di fronte a un plotone di esecuzione per aver detto queste parole. O vi astenete dall'esprimere le vostre opinioni oppure, se insistete ad esprimerle pubblicamente nelle circostanze attuali, in un momento in cui la nostra posizione è di gran lunga più difficile di quando le guardie bianche ci attaccavano apertamente, non potete biasimare altri che voi stessi se noi vi trattiamo alla stessa stregua degli elementi peggiori e più perniciosi delle guardie bianche». Questo atteggiamento sprezzante nei confronti del concetto liberale della libertà spiega la cattiva reputazione di cui Lenin gode fra i liberali. La loro tesi si basa soprattutto sul rifiuto della classica contrapposizione marxista-leninista tra libertà «formale» e libertà «reale»: come non si stancano di ribadire anche i liberali di sinistra del calibro di Claude Lefort, la libertà è intrinsecamente «formale», per cui la «libertà reale» equivale all'assenza di libertà. Lenin è ricordato soprattutto per la sua famosa risposta: «Libertà - sì, ma per chi? Per fare cosa?». Per lui, nel caso appena citato dei menscevichi, la loro «libertà» di criticare il governo bolscevico equivaleva in effetti alla «libertà» di minare alle basi il governo dei lavoratori e dei contadini, a favore della controrivoluzione ...
Oggi come oggi, dopo la terrificante esperienza del socialismo reale, non è forse più che evidente in che cosa consiste l'errore di questo ragionamento? In primo luogo, esso riduce una costellazione storica a una situazione chiusa, in cui le conseguenze «oggettive» degli atti di una persona sono completamente determinate («indipendentemente dalle vostre intenzioni, quello che voi adesso state facendo serve oggettivamente a ....»). In secondo luogo, il suo «oggettivismo» apparente ne copre l'opposto soggettivismo: sono io a decidere il significato oggettivo delle tue azioni, dato che sono io a definire il contesto di una situazione: ad esempio, se io considero il mio potere l'espressione immediata del potere della classe operaia, chiunque si oppone a me è «oggettivamente» un nemico della classe operaia.
Ma è proprio questa la conclusione del discorso? In che modo funziona di fatto la libertà nelle democrazie liberali? Per quanto la presidenza di Bill Clinton rappresenti alla perfezione la terza via della (ex) sinistra odierna subalterna al ricatto ideologico della destra, il suo programma di riforme dell'assistenza sanitaria costituirebbe comunque, nelle condizioni di oggi, un atto fondato sul rifiuto dell'ideologia imperante del taglio della spesa pubblica: in un certo senso, Clinton avrebbe «fatto l'impossibile». Non c'è da stupirsi, quindi, che tale programma sia fallito: il suo fallimento - forse l'unico evento significativo, ancorché negativo, della presidenza di Bill Clinton - conferma una volta di più la forza materiale del concetto ideologico di «libera scelta». Sebbene la grande maggioranza della cosiddetta «gente comune» non fosse adeguatamente informata in merito al programma di riforma, la lobby medica (due volte più forte dell'infame lobby degli armamenti!) riuscì a inculcare nell'opinione pubblica l'idea fondamentale che, con l'assistenza medica universale, si sarebbe in qualche modo minacciata la libera scelta in questioni attinenti alla medicina.
A questo punto tocchiamo il centro nervoso dell'ideologia liberale: la libertà di scelta, questione di cruciale importanza nelle nostre «società del rischio» - come le definisce Ulrich Beck - in cui l'ideologia dominante tenta di «venderci» quella stessa insicurezza che è provocata dallo smantellamento dello stato sociale, spacciandola per l'opportunità di nuove libertà. Dovete cambiare lavoro ogni anno, facendo affidamento su contratti a breve termine invece che su un lavoro stabile a lungo termine? Perché non vedere in questo la liberazione dai vincoli di un lavoro fisso, la chance di reinventare continuamente la propria vita, di prendere consapevolezza di sé e di realizzare i potenziali latenti della propria personalità? Non potete più fare affidamento sui sistemi pensionistici e mutualistici tradizionali, per cui dovete scegliere una copertura integrativa e pagare di tasca vostra? Perché non percepire in questo un'ulteriore possibilità di scelta: una vita migliore adesso, o una maggiore sicurezza a lungo termine? E se vivete con angoscia un frangente del genere, l'ideologo post-moderno o della «seconda modernità» vi accuserà immediatamente di essere incapace di assumere la libertà completa, di «rifuggire dalla libertà», in un'immatura adesione alle vecchie forme di stabilità. Meglio ancora, se questo si iscrive nell' ideologia del soggetto inteso come individualità psicologica, gravida di capacità e tendenze naturali, ciascuno interpreterà automaticamente tutti questi mutamenti come risultati della propria personalità, e non come conseguenza del fatto di essere sballottato come un fuscello dalle forze del mercato.
Fenomeni come questi rendono più che mai necessario oggi riaffermare la contrapposizione fra libertà «formale» e libertà «reale», in un senso nuovo e più preciso. Consideriamo la situazione dei paesi dell'Est europeo intorno al 1990, quando il socialismo reale stava crollando. All'improvviso, la gente si è trovata catapultata in una situazione di «libertà di scelta politica»senza che le venisse posta la domanda fondamentale: quale tipo di nuovo ordine desiderava realmente? Prima le si disse che stava entrando nella terra promessa della libertà politica; subito dopo, la si informò del fatto che questa libertà comportava privatizzazioni selvagge, lo smantellamento della sicurezza sociale, ecc. ecc.. La gente ha ancora libertà di scelta, se vuole, può tirarsi indietro; ma no, i nostri eroici concittadini dell'Est europeo non volevano deludere i loro maestri occidentali, e quindi hanno perseverato stoicamente nella scelta che non avevano mai compiuto, convincendosi che era loro dovere comportarsi da soggetti maturi, consapevoli che la libertà ha il suo prezzo ...
A questo punto si dovrebbe rischiare di reintrodurre la contrapposizione leninista tra libertà «formale» e libertà «reale»: il nocciolo di verità nella caustica replica di Lenin ai suoi critici menscevichi è che la scelta veramente libera è una scelta in cui io non mi limito a scegliere tra due o più alternative all'interno di un insieme prestabilito di coordinate, ma scelgo invece di modificare quell'insieme stesso di coordinate. L'intoppo nella «transizione» dal socialismo reale al capitalismo è stato che la gente non ha mai avuto la possibilità di scegliere l'ad quem di tale transizione: all'improvviso si è vista catapultata (alla lettera) in una situazione nuova, in cui si trovava di fronte ad un nuovo insieme di scelte prestabilite (puro liberalismo, nazionalismo conservatore ....).
È questo il senso delle ossessive tirate di Lenin contro la libertà «formale», in questo consiste il loro «nocciolo razionale» che vale la pena di salvare ancora oggi. Quando Lenin sottolinea che la democrazia «pura» non esiste, che noi dovremmo sempre chiederci a chi giova la libertà specifica presa in considerazione, qual è il suo ruolo nella lotta di classe, Lenin mira per l'appunto a salvaguardare la possibilità di una vera scelta radicale. In questo consiste, in ultima analisi, la distinzione tra libertà «formale» e libertà «reale»: la libertà «formale» è la libertà di scelta all'interno delle coordinate dei rapporti di potere esistenti, mentre la libertà «reale» designa un intervento che mina alle basi queste stesse coordinate. In sintesi, Lenin non intende limitare la libertà di scelta, bensì conservare la scelta fondamentale. Quando si domanda quale sia il ruolo di una libertà all'interno della lotta di classe, quello che ci chiede è per l'appunto questo: questa libertà contribuisce alla scelta rivoluzionaria fondamentale, oppure la limita?
Lo spettacolo televisivo più popolare degli ultimi anni in Francia, con indici di ascolto altissimi, che hanno addirittura doppiato il successo dei reality shows tipo Il Grande Fratello, è stato C'est mon choix su France 3. Si tratta di un talk show che ospita ogni volta una persona che ha effettuato una scelta particolare, determinante per tutta la sua vita: uno che ha deciso di non indossare mai biancheria intima, un altro che cerca continuamente di trovare un partner sessuale più adeguato per il padre e la madre, e così via. I comportamenti stravaganti sono ammessi, addirittura incoraggiati, ma con l'esclusione esplicita delle scelte che possono disturbare il pubblico : ad esempio, una persona che scelga di essere e agire da razzista è esclusa a priori. Non si può immaginare un esempio più calzante di quello che la «libertà di scelta» rappresenta realmente nelle nostre società liberali. Possiamo continuare ad effettuare le nostre piccole scelte, a «reinventare noi stessi» compiutamente, a patto che queste scelte non incidano veramente sull'equilibrio sociale e ideologico generale. Per fare una cosa davvero di sinistra, C'est mon choix avrebbe dovuto concentrarsi per l'appunto sulle scelte «spiazzanti»: invitare come ospiti persone che fossero razzisti impegnati, cioè persone la cui scelta incide veramente, fa la differenza. È anche questo il motivo per cui, oggi come oggi, la «democrazia» è sempre più un falso problema, un concetto talmente screditato dal suo uso prevalente che, forse, si dovrebbe correre il rischio di abbandonarlo al nemico. Dove, come, da chi sono effettuate le decisioni chiave riguardanti i problemi sociali globali? Avvengono nello spazio pubblico, con la partecipazione impegnata della maggioranza? In caso di risposta affermativa, è di secondaria importanza vivere in uno stato a partito unico, o altro. In caso di risposta negativa, è di secondaria importanza che si viva in un sistema di democrazia parlamentare e di libertà delle scelte individuali.
Quanto alla disintegrazione del socialismo di stato venti anni fa, è doveroso non dimenticare che, approssimativamente nello stesso periodo, è stato inferto un colpo durissimo anche all'ideologia dello stato sociale delle socialdemocrazie occidentali, che ha cessato anch'essa di operare come immaginario coesivo delle passioni collettive. L'idea che «l'epoca dello stato sociale è tramontata» è ormai largamente acquisita e condivisa. L'elemento comune a queste due ideologie sconfitte è il concetto che l'umanità, in quanto soggetto collettivo, ha la capacità di limitare in qualche modo lo sviluppo storico-sociale anonimo ed impersonale, di guidarlo nella direzione desiderata. Attualmente, tale concetto viene sbrigativamente accantonato come «ideologico» e/o «totalitario»: di nuovo, si percepisce il processo sociale come dominato da un Fato anonimo, che trascende il controllo sociale. L'ascesa del capitalismo globale si presenta a noi nelle vesti del Fato, contro cui non è possibile combattere: o ci adattiamo, oppure la storia ci lascia indietro, ci travolge. L'unica cosa che si può fare è rendere il capitalismo globale quanto più umano possibile, combattere per un «capitalismo globale dal volto umano» (questo è, o piuttosto era, in ultima analisi, la terza via)
La nostra scelta politica fondamentale - essere socialdemocratico o cristiano-democratico in Germania, democratico e repubblicano negli Stati uniti, ecc. - non può non ricordarci l'imbarazzo della scelta quando chiediamo un dolcificante artificiale in un bar: l'alternativa onnipresente fra bustine rosa e bustine blu, fra sweet'n'low e dietor, e la ridicola pervicacia con cui ognuno sceglie fra le due evitando quella rosa perché contiene sostanze cancerogene o viceversa, servono semplicemente a evidenziare l'insignificanza totale dell'alternativa. E lo stesso discorso si ripete per la Coca e la Pepsi. Ancora, è un fatto ben noto che il pulsante «chiudi porte» degli ascensori è quasi sempre un placebo assolutamente inefficace, piazzato lì soltanto per dare ai singoli individui l'impressione di partecipare, di contribuire in qualche modo alla velocità del viaggio in ascensore; ma quando premiamo quel pulsante, la porta si chiude esattamente alla stessa velocità di quando ci limitiamo a premere il pulsante del piano. Questo caso estremo di falsa partecipazione è una metafora efficace della partecipazione degli individui nel processo politico della nostra società «postmoderna» ...
È questo il motivo per cui, attualmente, tendiamo a evitare Lenin: non perché egli fosse un «nemico della libertà», ma piuttosto perché ci ricorda i limiti ineluttabili (imprescindibili) delle nostre libertà; non perché non ci offra una scelta, ma piuttosto perché ci ricorda il fatto che la nostra «società delle scelte» preclude qualsiasi vera scelta.
(traduzione di Rita Imbellone)
la traduzione in italiano è qui
Par leur accumulation et par leur caractère unilatéral, les commémorations du soixantième anniversaire du Débarquement sont en train d'installer, dans la conscience collective des jeunes générations, une vision mythique, mais largement inexacte, concernant le rôle des Etats-Unis dans la victoire sur l'Allemagne nazie.
L'image véhiculée par les innombrables reportages, interviews d'anciens combattants américains, films et documentaires sur le 6 juin, est celle d'un tournant décisif de la guerre. Or, tous les historiens vous le diront : le Reich n'a pas été vaincu sur les plages de Normandie mais bien dans les plaines de Russie.
Rappelons les faits et, surtout, les chiffres.
Quand les Américains et les Britanniques débarquent sur le continent, ils se trouvent face à 56 divisions allemandes, disséminées en France, en Belgique et aux Pays Bas. Au même moment, les soviétiques affrontent 193 divisions, sur un front qui s'étend de la Baltique aux Balkans.
La veille du 6 juin, un tiers des soldats survivants de la Wehrmacht ont déjà enduré une blessure au combat. 11% ont été blessés deux fois ou plus. Ces éclopés constituent, aux côtés des contingents de gamins et de soldats très âgés, l'essentiel des troupes cantonnées dans les bunkers du mur de l'Atlantique. Les troupes fraîches, équipées des meilleurs blindés, de l'artillerie lourde et des restes de la Luftwaffe, se battent en Ukraine et en Biélorussie. Au plus fort de l'offensive en France et au Benelux, les Américains aligneront 94 divisions, les Britanniques 31, les Français 14. Pendant ce temps, ce sont 491 divisions soviétiques qui sont engagées à l'Est.
Mais surtout, au moment du débarquement allié en Normandie, l'Allemagne est déjà virtuellement vaincue. Sur 3,25 millions de soldats allemands tués ou disparus durant la guerre, 2 millions sont tombés entre juin 1941 (invasion de l'URSS) et le débarquement de juin 1944. Moins de 100.000 étaient tombés avant juin 41. Et sur les 1,2 millions de pertes allemandes après le 6 juin 44, les deux tiers se font encore sur le front de l'Est. La seule bataille de Stalingrad a éliminé (destruction ou capture) deux fois plus de divisions allemandes que l'ensemble des opérations menées à l'Ouest entre le débarquement et la capitulation.
Au total, 85% des pertes militaires allemandes de la deuxième guerre mondiale sont dues à l'Armée Rouge (il en va différemment des pertes civiles allemandes : celles-ci sont, d'abord, le fait des exterminations opérées par les nazis eux-mêmes et, ensuite, le résultat des bombardements massifs de cibles civiles par la RAF et l'USAF).
Le prix payé par les différentes nations est à l'avenant. Dans cette guerre, les Etats Unis ont perdu 400.000 soldats, marins et aviateurs et quelques 6.000 civils (essentiellement des hommes de la marine marchande). Les Soviétiques quant à eux ont subi, selon les sources, 9 à 12 millions de pertes militaires et entre 17 et 20 millions de pertes civiles. On a calculé que 80% des hommes russes nés en 1923 n'ont pas survécu à la Deuxième Guerre Mondiale. De même, les pertes chinoises dans la lutte contre le Japon -- qui se chiffrent en millions -- sont infiniment plus élevées -- et infiniment moins connues -- que les pertes américaines.
Ces macabres statistiques n'enlèvent bien évidemment rien au mérite individuel de chacun des soldats américains qui se sont battus sur les plages de Omaha Beach, sur les ponts de Hollande ou dans les forêts des Ardennes. Chaque GI de la Deuxième guerre mondiale mérite autant notre estime et notre admiration que chaque soldat russe, britannique, français, belge, yougoslave ou chinois. Par contre, s'agissant non plus des individus mais des nations, la contribution des Etats Unis à la victoire sur le nazisme est largement inférieure à celle que voudrait faire croire la mythologie du Jour J. Ce mythe, inculqué aux générations précédentes par la formidable machine de propagande que constituait l'industrie cinématographique américaine, se trouve revitalisée aujourd'hui, avec la complicité des gouvernements et des médias européens. Au moment ou l'US-Army s'embourbe dans le Vietnam irakien, on aura du mal à nous faire croire que ce serait le fait du hasard...
Alors, bien que désormais les cours d'histoire de nos élèves se réduisent à l'acquisition de « compétences transversales », il serait peut-être bon, pour une fois, de leur faire « bêtement » mémoriser ces quelques savoirs élémentaires concernant la deuxième guerre mondiale :
- C'est devant Moscou, durant l'hiver 41-42, que l'armée hitlérienne a
été arrêtée pour la première fois.
- C'est à Stalingrad, durant l'hiver 42-43, qu'elle a subi sa plus lourde défaite historique.
- C'est à Koursk, en juillet 43, que le noyau dur de sa puissance de feu -- les divisions de Panzers -- a été définitivement brisé (500.000 tués et 1000 chars détruits en dix jours de combat !).
- Pendant deux années, Staline a appelé les anglo-américains à ouvrir un deuxième front. En vain.
- Lorsqu'enfin l'Allemagne est vaincue, que les soviétiques foncent vers l'Oder, que la Résistance -- souvent communiste -- engage des révoltes insurrectionnelles un peu partout en Europe, la bannière étoilée débarque soudain en Normandie...
Eddytoriale 46 del 1° giugno 2004
Pubblico e privato sono due parole che si possono dire in molti modi. Un tempo le separava una linea chiara, sì che le virtù pubbliche, a quel tempo tutte maschili, risplendevano a spese dei vizi privati, occultandoli o omettendoli; molti uomini pubblici apparentemente tutti d'un pezzo vivevano in realtà, e gradirebbero tuttora vivere, di quella scissione. Poi delle virtù pubbliche si sono impadronite anche le donne, per giunta rifiutandosi di considerare vizi le passioni private, nonché di occultarle o di ometterle. La linea chiara si è spezzata e privato e pubblico, o come meglio disse il femminismo personale e politico, da allora sono entrati in circolo: o si potenziano o si urtano, o si sostengono o si sgambettano; dipende da chi muove la partita. Accade alla corte reale d'Inghilterra con Lady D. come alla Casa bianca col sexgate come al comune di Cosenza; e quasi sempre a muovere è una donna. Muove la regina anche a Cosenza, dove il sindaco Eva Catizone - 39 anni, separata dal marito, vicina no global e pacifisti, eletta nel 2002, sulla base della designazione di Giacomo Mancini, da una coalizione di centrosinistra oggi scossa da non pochi problemi - un bel giorno decide di rendere pubblica la sua scelta privata di mettere al mondo un figlio da sola, o come si dice da single, senza riconosciuta paternità e dandogli il proprio cognome. Lo fa con un'intervista al Quotidiano della Calabria - «con una donna, Lucia Serino, perché mi fidavo di più» -, cui seguono altre interviste in tv e la prima pagina della Gazzetta del Sud, e seguiranno servizi nazionali e copertine di settimanali. Complice agosto, la storia fa notizia, perché è la protagonista stessa a politicizzarla. Da donna, si sente in sintonia con i tempi: dice che vuole questo figlio anche se il padre non lo riconosce, che gli farà lei da madre e da padre, che anche la Consulta ha messo in questione il patronimico, che la legge sulla procreazione assistita va abolita perché non aiuta ma ostacola il desiderio di maternità. Da sindaco, si sente in sintonia con la sua città e vuole che la sua città si metta in sintonia con lei: «La mia vita privata è necessariamente anche pubblica, fra un sindaco e la sua città c'è un rapporto carnale, io sono sicura di interpretarne lo spirito, ci sono gesti di libertà che servono a trasformare le infrastrutture mentali più di centinaia di strade o di ponti». Ci sono gesti di libertà che servono anche a stroncare le insidie sempre in agguato del gossip politico, che non si era risparmiato di associare i recenti eventi politici dell'amministrazione cosentina - rottura del patto federativo fra il il Pse di Giacomo Mancini jr e i Ds, ingresso in giunta di Ds e Margherita che prima la appoggiavano dall'esterno -, al legame tra il sindaco e il segretario regionale dei Ds Nicola Adamo. Legame non segreto ma non ufficiale. Fino a ieri.
Ieri infatti la notizia raddoppia, perché a sorpresa il padre del bambino si manifesta, a sua volta tramite un'intervista, questa volta alla Gazzetta: «Penso di essere io», dice Nicola Adamo sotto un titolo a sette colonne sulla «delicatissima vicenda». Stessa tecnica mediatica, stesso intrigo di pubblico e privato, ma il linguaggio cambia e il senso si capovolge: il tormento al posto dell'entusiasmo, la confessione al posto dell'annuncio, i sensi di colpa al posto della gioia, l'errore al posto del desiderio. Il dirigente ds avrebbe preferito che la vicenda «si risolvesse in una dimensione privata», ma vista la mossa di lei non c'era più scampo: «la mia coscienza non poteva più reggere, i miei genitori mi hanno inculcato il principio dell'onestà, quando si sbaglia meglio ammettere le proprie colpe, non fuggo e non mi nascondo, non voglio che il nome del nascituro resti ignoto, non potevo avallare un nuovo gioco di società, il toto-partner del sindaco». No, quel figlio non era previsto e lui non desiderava una nuova paternità, ma «la scelta finale non poteva che essere di Eva». Seguono le scuse agli amici, la richiesta di perdono a moglie e figli, l'evocazione dell'esempio di Emanuele Macaluso che nel suo ultimo libro racconta di essere stato in carcere per adulterio: «Vecchi tempi che insegnano a essere coerenti e ad addossarsi il peso degli errori». C'è la sintonia di un sindaco con la città, e c'è la sintonia di un dirigente col super io delle istituzioni, dalla famiglia al partito.
Eva Catizone si chiude in un rigido no-comment: bisogna tutelare l'oggetto d'amore anche, forse soprattutto, quando rischia di essere compromesso. Anche quando prima evapora dalla scena erotica, poi ricompare sulla scena mediatica. La città intanto ha reagito al meglio: fiori e auguri al sindaco in quantità. Il bambino si chiamerà Filippo come il nonno, padre adorato di Eva che faceva il ginecologo dalla parte delle donne ma «non ha mai fatto un'interruzione di gravidanza».Con la sua nascita sua madre ne festeggerà altre due, quella del più grande planetario del Mediterraneo e quella del percorso museale sui maestri del Novecento, da Consagra a Warhol a Botero, realizzato grazie alla donazione del mecenate newyorchese Carlo Bilotti alla sua città natale.
È rimasto quasi senza voce il professor Giovanni Sartori, girando fra trasmissioni tv, partecipando ai dibattiti, rispondendo alle telefonate dei tanti fan. Più Berlusconi procede nella sua marcia fracassona, più questo arguto politologo di sicura ispirazione liberale, accademico dei Lincei in Italia e professore emerito alla Columbia University negli Stati Uniti, che ora manda il libreria il suo ultimo saggio, 'Mala tempora' ( box a pag. 59), diventa un'icona di quella sinistra a cui non ha mai appartenuto, se non addirittura un simbolo di resistenza girotondina.
Professor Sartori, Berlusconi ha aperto la sua personale campagna elettorale accusando i politici di essere ladri e irrompendo in un club di tifosi come la 'Domenica sportiva'. Che cosa possiamo aspettarci nei prossimi mesi?
"Se vogliamo capire quel che sta succedendo dobbiamo sapere che tutto quel che fa Berlusconi ha una sua razionalità. Lui è il tipico esempio di uomo politico eterodiretto dai sondaggi, che prima di aprire bocca aspetta di conoscere come batte il cuore italico. Non ci sono strappi o improvvisazioni, né quando parla di politici che rubano, né tanto meno quando si butta su un tema trasversale come il calcio. Sapendo benissimo che il 70 per cento degli italiani si occupa solo di sport, Berlusconi gioca una carta demagogica sicura".
Però c'è un'insofferenza crescente nella gente, ci sono intere categorie in rivolta e non solo per ragioni economiche.
"Una metà di questo paese che non ne può proprio più, ed è il popolo di sinistra, sempre più irato e ferito. E poi c'è l'altra metà, quelli che avevano votato per il Polo. È gente disincantata, perplessa, ormai convinta che le promesse non sono state mantenute. Per ora è un popolo che si astiene, che non pensa ancora di passare dall'altra parte. Questo spiega perché Berlusconi si è buttato alla ricerca spasmodica del loro consenso".
Non sembra che tutto il popolo di destra accetti volentieri questo disprezzo crescente di ogni regola.
"È vero. In questo senso ha fatto benissimo Lucia Annunziata a intervenire subito alla 'Domenica sportiva'. Senza le sue parole in diretta l'intervento di Berlusconi sarebbe stato solo un discorso più lungo del normale. Così invece ha creato il caso, ha fatto risaltare una scorrettezza clamorosa".
È un'esagerazione da estremisti dire che in Italia c'è un regime?
"Non credo mi si possa classificare come un sovversivo, eppure lo sostengo anch'io. Ma regime non vuol dire dittatura. Questa è un'invenzione dei media, che pure avevano parlato per tanto tempo di regime democristiano. In un regime c'è una forte personalizzazione del potere, come nel gollismo. C'è un leader che conta più dei meccanismi della democrazia".
Quali meccanismi sono più indeboliti nel caso italiano?
"È la garanzia della pluralità dell'informazione a essere fortemente amputata. Quando l'informazione è praticamente in mano a un monopolio, il cittadino sa solo quel che gli vuol far sapere il potere. In questo senso anche le elezioni, che una dittatura non consentirebbe e a cui invece Berlusconi si sottomette, sono meno libere di quel che sembrano, data l'altissima manipolazione delle opinioni dei votanti".
Perché secondo lei una parte dell'opposizione continua a ripetere che non bisogna alzare i toni della polemica? "All'Ulivo non conviene replicare al Cavaliere", ha detto nei giorni scorsi Giuliano Amato.
"Dissento decisamente. Se vedo qualcuno che ammazza un uomo mi metto a gridare 'assassino, assassino'. Invece Giuliano Amato, che ama i toni bassi, dice: 'C'è qualcuno che ha dato una martellata in testa a un altro'. È assurdo non chiamare le cose con il loro nome. È il tatticismo di una classe politica senz'altro competente, ma che è così coinvolta nei giochi di potere da pensare di poter ottenere qualcosa da ogni situazione".
Lei ha mai provato a dare qualche buon consiglio al centro-sinistra?
"Quando erano al governo avevo cercato in tutti i modi di convincerli che bisognava regolare il conflitto d'interessi. 'Se non fate adesso una legge siete fritti per sempre, non avete neanche idea del volume di fuoco mediatico che vi cadrà addosso', dicevo. 'Ma come si fa, così si antagonizza troppo Berlusconi, sembrerebbe una legge ad personam', mi rispondevano. Come se tutte le leggi non si facessero ogni volta in funzione di circostanze precise, anche se poi valgono per tutti. E lì le circostanze erano gravissime, si sapeva dai sondaggi che il padrone di Mediaset stava per vincere. Il brillante risultato è che le elezioni le hanno perse lo stesso, e Berlusconi ha conquistato quasi il 100 per cento dell'informazione di massa".
Come giudica l'operazione della lista unica alle prossime elezioni? Crede che aiuterà l'opposizione ad andare avanti?
"Ho pensato fin dal primo momento che creava più problemi di quanti ne risolvesse. In elezioni proporzionali come sono le europee non c'è bisogno di liste uniche, che fra l'altro in Italia non hanno mai avuto risultati brillanti. Spero che la regola questa volta venga smentita. Ma intanto, a dimostrazione di quanto la mossa fosse incauta, si è verificato il paradosso che alle elezioni Prodi non si presenterà, ma Berlusconi sì. Ha preso a pretesto la situazione per candidarsi per davvero, e si è garantito quell'effetto di traino che non è detto che Prodi riuscirà a esercitare".
Intanto il listone si è trovato alle prese con la grana dei soldati italiani a Nassiriya.
"Ormai è il tema della pace la grossa mina vagante della sinistra. Negli ultimi anni si è saldato un pacifismo che si potrebbe definire cattocomunista, che è destinato a creare problemi continui, a disunire le coalizioni. Penso che mostrarsi divisi e conflittuali, come è appena successo, sia disastroso. Dà un vantaggio colossale a Berlusconi perché la gente, a torto o a ragione, di liti non ne può proprio più".
Il popolo di sinistra però si è dimostrato nella grande maggioranza contrario alla guerra.
"Lo sono stato anch'io. Ma adesso il no alla missione in Iraq sarebbe irresponsabile. Se gli Stati Uniti fossero costretti ad andarsene, può saltare in aria tutto il Medio Oriente. L'astensione era l'unico modo per tenere insieme il centro-sinistra".
Le divisioni hanno riguardato soprattutto i Ds. Cosa ne pensa della leadership di Fassino?
"Non è che Fassino sia un indeciso. È che non può fare più di tanto, con un partito che stranamente è ancora controllato da D'Alema, con la conflittualità della Margherita, con questi cespugli micidiali. È un miracolo che riesca a tenere in piedi la baracca".
Che effetto le fa sentirsi indicare oggi dalla destra come una specie di sovversivo, come un guru di tutte le opposizioni?
"Non sono di sinistra, ma le circostanze mi hanno portato certamente a sinistra. Credo che nell'Italia di oggi sia quasi un dovere, soprattutto per uno studioso della politica, opporsi ad un sistema che sta distruggendo lo Stato costituzionale, che scivola verso la democrazia totalitaria. E poi c'è una cosa che non posso sopportare".
Quale, professor Sartori?
"Che Berlusconi pretenda di insegnare a me che cos'è la democrazia. Questo, me lo lasci dire, è veramente troppo".
Un libro di 'storia vissuta', dove gli avvenimenti sono raccontati quando ancora si stanno svolgendo, e nessuno sa come andranno a finire. È la definizione che Giovanni Sartori dà del suo ultimo libro, 'Mala tempora', uscito da pochi giorni da Laterza e già arrivato alla seconda edizione dopo aver bruciato 14 mila copie. Eppure 'Mala tempora', titolo che allude al pessimo periodo che sta vivendo l'Italia, è un volumone di più di 500 pagine, che per di più raccoglie articoli già apparsi sui giornali, ma scelti e riordinati in modo da dare una lettura piuttosto intrigante degli ultimi 10 anni. Definito da Claudio Magris un manuale di resistenza, il libro di Sartori smonta giorno dopo giorno i meccanismi del Palazzo, racconta l'occupazione del sistema Italia da parte del Polo e le condizioni che rendono possibile una seconda vittoria di Berlusconi, a cominciare da quel Mattarellum, indicato come la fonte di molti mali. Ma è soprattutto nel racconto puntuale e senza sconti dei numerosi errori della sinistra al governo, dalla Bicamerale al ribaltone a un federalismo troppo frettoloso, che 'Mala tempora' si accredita come un utile vademecum per un'opposizione che vuol tornare a vincere.
FINO AL 10 marzo tutti i sondaggi davano il partito di Aznar certo vincitore delle elezioni politiche e probabile detentore della maggioranza assoluta. Il giorno dopo, quel fatale 11 marzo, dopo le primissime notizie della strage sui treni e prima ancora che cominciasse lo sconcio balletto dell’attribuzione del massacro, la reazione automatica dei poteri dentro e fuori dalla Spagna - ma presumibilmente anche d’una parte degli elettori - fu quella di stringersi attorno al governo, al suo leader e al delfino da lui designato.
È sempre avvenuto così ed è una delle turpi ragioni che spinge i poteri mal certi a cercare nei conflitti esterni ed interni e financo nelle guerre lo strumento per recuperare un consenso in via di disfacimento.
Ma nei successivi tre giorni quelle previsioni sono diventate sempre più incerte fino al tracollo elettorale del 14 marzo. In tre giorni il Pp è crollato al 37 per cento dei voti; in tre giorni una super-maggioranza sbriciolata e travolta; in tre giorni capovolta la geografia politica della Spagna con ripercussioni non dappoco su quelle dell’Italia, della Gran Bretagna e perfino degli Usa e delle sorti del duello tra Bush e Kerry. Tutto ciò perché il governo Aznar ha usato la menzogna e la reticenza nell’indicare gli autori del massacro dei treni. È possibile spiegare in questo modo la sorprendente vittoria del socialismo spagnolo?
Dico francamente che questa lettura non mi convince affatto. Questa lettura, tra l’altro, riconoscerebbe ai macellai di Al Qaeda il potere di intervenire nella politica con effetti mirati e decisivi e presupporrebbe nel popolo spagnolo una dose di viltà che è smentita da un storia secolare: è un popolo fiero, orgoglioso, tenace nelle sue convinzioni. No, non mi convince affatto una giravolta così improvvisa nell’arco di poche ore e dinanzi ad un lutto collettivo di quella tragica intensità. La menzogna del governo ha certamente provocato indignazione, ha certamente scatenato rabbia e disprezzo, ma le ragioni della vittoria di Zapatero sono più profonde.
Qualche giornale ha titolato: «Non ha vinto Zapatero, ma ha perso Aznar». No, non è andata così.
Ha vinto Zapatero, ha vinto l’onda lunga di un’opinione pubblica che giusto un anno fa invase le piazze e le strade di Spagna per dimostrare contro la guerra americana in Iraq, contro una decisione unilaterale che umiliava l’Onu e la legalità internazionale, contro il proprio governo che si affiancava alla superpotenza senza alcun rispetto della volontà chiaramente espressa dal 90% del popolo spagnolo. Il popolo è dunque sovrano soltanto quando il potere decide che lo sia? Quest’onda lunga nella pubblica opinione ha aspettato un anno. Ha assistito al fallimento manifesto dell’impresa irachena. Ha visto il terrorismo, che doveva essere sconfitto o almeno indebolito da quell’impresa, uscirne moltiplicato come un’idra dalle molte teste ruggenti e sanguinose. Infine ha raccolto con dignità dolorosa e silenziosa i suoi morti e tre giorni dopo ha votato. Il risultato l’abbiamo visto: il popolo spagnolo ha riassunto nelle sue mani la sovranità, ha tolto la delega a chi aveva tradito la delega e l’ha affidata a chi aveva fin dall’inizio condiviso le scelte del popolo.
Questo è accaduto nella giornata del 14 marzo e chi ancora non l’ha capito avrà presto altre occasioni per rendersene conto.
* * *
In realtà non fu solo il popolo spagnolo a schierarsi contro l’avventura americana in Iraq, basata su una tesi priva di fondamento e preparata prima ancora dell’attentato alle torri di Manhattan. Non fu solo il popolo spagnolo, anche se in Spagna la percentuale della protesta fu quella massima; ma tutti i popoli europei si schierarono in quella decisiva occasione: in Italia, in Gran Bretagna, in Germania, in Olanda, in Belgio, in Svezia, in Norvegia. E lo fecero quale che fosse la posizione dei propri governi, lo fecero indipendentemente dai propri governi.
Mi permisi di scrivere in quei giorni che forse, proprio su quel delicatissimo terreno e in quella delicatissima circostanza, era nato il popolo dell’Europa. Sono stato criticato per averlo scritto e accusato di enfasi pericolosa, di corta vista, di mente debole e demagogica come tutti i pacifisti.
Ebbene io non sono pacifista, il nostro giornale non è pacifista nel senso della pace comunque e a ogni prezzo, anche se ti ammazzano il fratello, anche se ti aggrediscono, anche se calpestano i tuoi diritti e i tuoi più radicati valori. Io non sono per porgere l’altra guancia dopo il primo schiaffo. Non a caso, noi prendemmo posizione per la fermezza contro le Br ai tempi del rapimento Moro, convinti come eravamo e come siamo che il terrorismo si combatte con la fermezza e non con la trattativa.
Che cosa significa scegliere la fermezza? Temo che si sia fatta molta confusione e dette molte, troppe parole vaghe su questo punto capitale.
Perciò conviene parlar chiaro mentre l’ombra del terrorismo globale si stende ormai nel cielo dell’Europa democratica.
* * *
È fin troppo evidente che il terrorismo non si combatte con i carri armati, con gli elicotteri, con i bombardamenti, con le divisioni di fanteria di cavalleria di marines. Ed è sommamente vero fino al punto d’essere ormai diventato un luogo comune che si combatte invece con l’"intelligence", con il controspionaggio, con le misure di sicurezza preventiva nei modi in cui è possibile adottarle.
Ma si tratta comunque di strumenti parziali e non risolutivi; improponibili comunque in ambienti nei quali il terrorista sia allevato, istruito, predisposto e coperto da un diffuso consenso e da una diffusa omertà. Se i pesci grandi e piccoli del terrorismo nuotano in un’acqua nutritiva e abbondante saranno imprendibili, comunque si riprodurranno, allargheranno il loro raggio d’azione, si diffonderanno come una cancrena fino ad inquinare e uccidere l’intero organismo sociale.
Perciò esiste una sola valida ricetta per combattere il terrorismo: prosciugare l’acqua che lo circonda lasciandolo a secco e lì, una volta a secco, estirpare il fenomeno alle radici.
Così fu distrutta la prima e la seconda generazione terrorista nell’Italia degli anni di piombo. Quando ancora oggi si parla, a proposito del terrorismo brigatista, di album di famiglia per mettere allo scoperto le derivazioni leniniste di quel fenomeno (peraltro discutibili sul piano ideologico-culturale) si crede di mettere in imbarazzo i figli e i nipoti della politica di Berlinguer. Si dimentica che la vittoria sulle Br fu dovuta soprattutto, ma vorrei dire quasi interamente, alla fermezza con la quale il Pci di allora e il sindacato di allora prosciugarono l’acqua nelle fabbriche e nella classe operaia intorno al pesce brigatista.
Non credo che vi sia altro modo. Esso presuppone che sul terrorismo non ci siano né perdoni né silenzi. Tanto più si è per la pace - pacifisti o non pacifisti - tanto più si deve essere contro il terrorismo poiché esso è l’esatto contrario della pace: infatti semina guerra, morte, terrore, servitù al terrore, fanatismo, duplicità.
* * *
In che modo si prosciuga l’acqua in cui prospera il terrorismo? Con il dialogo, con la comprensione dei bisogni materiali morali psicologici di quei popoli, etnie, nazioni nei quali il terrorismo cerca di metter radici perché vi ravvisa un humus fertile dove le sue radici velenose potranno più facilmente attecchire.
La lotta al terrorismo si fa dialogando con quei popoli, con quelle nazioni, con quelle etnie e non bombardandoli e massacrandoli. Ecco perché i popoli d’Europa dimostrarono grande saggezza un anno fa opponendosi alla guerra americana e alla cosiddetta pax americana che non è mai diventata pace. Si opposero perché avevano capito che la guerra americana avrebbe infiammato e stimolato il terrorismo, avrebbe reso purulento un tessuto che conosceva arretratezze dittatura tribalismo ma non conosceva il terrorismo e anzi gli si opponeva.
Diciamo la verità: la guerra irachena di Bush, di Blair e dei loro alleati-satelliti è stata il più grande e manifesto errore che si potesse compiere dopo l’attentato di Manhattan. Ha giovato solo alla popolarità d’un presidente male eletto e rafforzato da un lutto nazionale e mondiale.
Quel presidente aveva bisogno della sua guerra e l’ha avuta. Ne ha tratto giovamento politico. Probabilmente effimero, probabilmente quel giovamento è arrivato al capolinea. Ma nel frattempo non ha prodotto che nuovi guai, nuovi lutti, nuovo e rafforzato terrorismo.
I pacifisti debbono dire alto e forte no al terrorismo se vogliono essere credibili. Sicché non esiste contraddizione alcuna a marciare sotto le bandiere della pace e dell’antiterrorismo poiché si tratta della stessa bandiera e anche questo deve essere ben chiaro.
* * *
Zapatero non ritirerà subito i soldati spagnoli dall’Iraq; una cosa è mandarli - ha detto - un’altra ritirarli. Ma subito prima e subito dopo la vittoria elettorale Zapatero ha ribadito l’impegno: se il 30 giugno l’Onu non avrà assunto la piena e totale responsabilità, anche militare, del dopoguerra iracheno, i soldati spagnoli saranno ritirati.
Anche l’Ulivo e i Ds in particolare hanno preso lo stesso impegno. Sicché restano incomprensibili gli insulti che gli sono stati rivolti da alcuni arruffapopoli che hanno promesso schiaffi umanitari e hanno definito quei dirigenti politici come delinquenti. Chi parla in questo modo manifesta solo faziosità e vaniloquio.
Per il resto: non si vince il terrorismo soltanto marciando ma se proprio si vuol marciare, marci ciascuno con le proprie insegne senza promiscuità che generano solo confusione e cattiva coscienza. I socialisti spagnoli hanno ben dimostrato di essere per la pace e contro il terrorismo ed hanno cacciato dal governo Aznar. Basta essere chiari come loro sono stati per realizzare lo stesso obiettivo.
Secondo me per arrivare all’Europa unita e dotata d’una sola voce e d’un appropriato peso politico bisogna cambiare alcuni governi. Uno di essi è cambiato il 14 marzo. Mi sembra un ottimo inizio.
In una lettera del 1872 indirizzata al paleontologo scozzese Hugh Falconer, Charles Darwin scriveva che «la sua teoria dell´evoluzione sarebbe stata rifiutata in blocco dai creazionisti che l´avrebbero considerata pura spazzatura, robaccia (rubbish)». Centocinquant´anni dopo, la profezia, almeno qui da noi, si è avverata, e la teoria darwiniana dell´evoluzione, che oggi neppure il magistero ecclesiastico contesta, ha rischiato di essere eliminata dai testi scolastici che, alla spiegazione scientifica dell´evoluzione, avrebbero dovuto preferire la narrazione mitico-simbolica della creazione.
Di questo si è discusso ampiamente in questi giorni sui nostri giornali, per cui non vale qui la pena di ritornare, se non per rimarcare l´enorme fatica che fa la scienza a prendere piede nella nostra cultura, per una sorta di malinteso "umanismo" che, sotto la falsa apparenza di nobilitare l´uomo, nasconde almeno due truci intenzioni che qui vorremmo evidenziare.
La teoria creazionista, concependo l´uomo a immagine di Dio, gli conferisce il privilegio del dominio incontrastato sull´intera natura. Leggiamo infatti nel primo libro della Bibbia: «Poi Iddio disse: facciamo l´uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza; domini sopra i pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sopra la sua superficie» (Genesi 1,26).
Per la mentalità greca antica questa concezione sarebbe stata considerata la più alta espressione di Hybris, di tracotanza, di inaudito oltrepassamento del limite. E questo perché, per il greco antico, la natura «che nessun uomo e nessun Dio fece» (Eraclito) rappresentava quello sfondo immutabile le cui leggi, regolate dal vincolo della necessità (ananke), costituivano il punto di riferimento da cui trarre indicazioni per il governo della città e per la buona conduzione di sé. Qui Platone è stato chiarissimo: «Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto col cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice condizione dell´universa armonia. Non per te infatti questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica» (Leggi 903 c).
All´opposto della mentalità greca, la tradizione giudaico-cristiana concepisce la natura non come lo sfondo immutabile su cui l´uomo deve regolarsi, ma come il prodotto della "volontà" di Dio che l´ha creata a disposizione della "volontà" dell´uomo, a cui è concesso l´incontrastato dominio.
Questa concezione del "dominio", che non è greca ma giudaico-cristiana, se un tempo era compatibile con le dimensioni della terra e la scarsa densità della popolazione umana, oggi, a rapporto invertito, non è più praticabile. E sulla base della tradizione giudaico-cristiana, che ha sempre concepito la morale come una regolatrice dei rapporti fra gli uomini, non disponiamo di una morale che si faccia carico degli enti di natura, come la salvaguardia dell´aria, dell´acqua, della vegetazione, del clima, del mondo animale, con particolare riferimento alle specie in via di estinzione non per selezione naturale, ma ad opera dell´uomo.
E allora a me viene il dubbio che la teoria evoluzionista darwiniana, che, al pari del pensiero greco, colloca l´uomo nella grande catena dell´essere senza accordargli alcun privilegio rispetto alle altre specie viventi, sia messa a tacere a favore della teoria creazionista non tanto per salvaguardare la dignità dell´uomo fin dalla sua origine divina, quanto per garantirsi, in nome di Dio, il dominio incontrastato sulla terra come vuole l´insensibilità del profitto, del denaro e del mercato oggi globalizzato.
A fianco di questa prima malcelata intenzione, che vuole legittimarsi su base religiosa, ce n´è una seconda, ancora più truce, che utilizza impropriamente la teoria evoluzionista di Darwin per giustificare gli stessi risultati a cui è approdata, probabilmente suo malgrado, la teoria creazionista.
Volendo riassumere in una formula la teoria di Darwin potremmo dire: «L´ambiente propone e la selezione dispone». Ciò significa che l´ambiente (che comprende tanto l´ambiente fisico quanto gli altri viventi) agisce sull´organismo che, per conseguire il successo riproduttivo, si adatta a cambiamenti evolutivi o, in caso di insuccesso, si estingue. Per Darwin c´è dunque un´unica causa dell´evoluzione, il cui meccanismo, per dirla in modo un po´ truculento, è quello del carnefice o del boia che rimuove gli individui inadatti una volta emersi quelli adatti, seguendo processi che pazientemente si possono identificare.
Questa teoria, che Darwin aveva limitato all´ambito biologico, è stata impropriamente estesa all´ambito sociale e, sotto la denominazione di "darwinismo", si è fatta passare per "legge naturale", per cui anche nella società il pesce grosso può mangiare il pesce piccolo.
Equiparare l´evoluzione sociale all´evoluzione naturale significa riconoscere libertà illimitata a chi è più forte, accettazione indiscussa della disuguaglianza, nessun intervento dello Stato per aiutare i più svantaggiati, con tutto ciò che ne consegue praticamente in ordine all´assistenza agli anziani, lo sfruttamento delle donne e dei minori, le cure mediche a chi non dispone di risorse, l´istruzione a chi non può permetterselo, fino alla malattia, la fame e la morte per chi non ha denaro. E´ evidente che qui a garantire la «sopravvivenza del più adatto» non sono più le risorse biologiche come prevede la teoria di Darwin, ma le risorse economiche, ossia la ricchezza e la potenza che la ricchezza garantisce.
Il capitalismo non controllato, il mercato non regolato, la mancata distribuzione della ricchezza attraverso la tassazione che garantisce lo stato sociale sono le espressioni più evidenti della teoria biologica darwiniana impropriamente applicata alla società. Marx (che proprio a Darwin intendeva dedicare Il Capitale) propose di correggere il darwinismo sociale con il progetto comunista che, naufragato nella sua versione integrale in Russia e in Cina, ha consentito in Europa la creazione di uno stato sociale che oggi vediamo sottoposto a una continua limatura nei paesi capitalisti, e del tutto assente nel resto del mondo.
A questo punto risulta a tutti evidente che gli esiti finali della teoria creazionista, che prevede il dominio incontrastato dell´uomo sulla terra, e l´impropria applicazione alla società della teoria evoluzionista di Darwin vanno perfettamente d´accordo, perché l´astuzia della ragione, coniugata alla malafede, fa sotterraneamente camminare in perfetta armonia gli esiti pratici di teorie che in superficie vengono presentate come opposte e inconciliabili.
L´assenza di cultura, di pensiero e di riflessione critica del nostro tempo, mescolata all´egoismo individuale completano il quadro desolante di un´umanità che all´uso della terra ha sostituito l´usura, e al rispetto dell´uomo il diritto della forza. La storia a questo punto ribolle, come sempre accade quando il suo artefice, l´uomo, regola la sua vita sul registro animale.
Dirò cose forse sgradevoli e se qualcuno dovesse personalmente dolersene me ne scuso fin d´ora. D´altra parte la retorica di pronto uso, l´esagerazione piagnona, la demagogia impudente, l´acquiescenza complice dei mass media nei confronti degli aspetti più deplorevoli del nostro carattere nazionale hanno raggiunto negli ultimi tempi una intensità di proporzioni tali da indurre chi, come il sottoscritto, ne prova disagio, ad un modesto richiamo alla realtà delle cose, più che alla loro rappresentazione.
Prendiamo la scelta di apporre la qualifica di «eroe» a tante povere e rimpiante vittime di incidenti, di malori o anche di azioni belliche o terroristiche. Ora, se le parole hanno un senso, la definizione di eroe andrebbe applicata con sorvegliato spirito di limitazione a «chi sa lottare con eccezionale coraggio e generosità fino al cosciente sacrificio di sé, per una ragione o un ideale ritenuti validi e giusti». Così recita lo Zanichelli che, non a caso, ricorda come l´eroe rappresentasse nelle mitologie antiche un essere intermedio fra gli dei e gli uomini che interviene nel mondo con imprese eccezionali. Ma anche nella storia politico-militare moderna gli eroi, anche il modesto fante in missione volontaria che salta in aria tagliando i reticolati sul Carso, innalzato ad esempio nei testi scolastici della mia adolescenza, erano personaggi eponimi che simboleggiavano le virtù patrie, cui pedagogicamente ispirarsi. Ora, invece, la definizione si allarga fino a perdere senso o, peggio, viene utilizzata per facilitare operazioni di copertura strumentale così che, ad esempio, il perché e il come quella vittima ha perso la vita non sia oggetto di accertamenti critici o chiamate di correo.
Per contro, assunta nell´empireo degli eroi, la sua morte acquista un sigillo di sublimazione che la rende «indiscutibile», oggetto solo di omaggio, venerazione e, al massimo, rimpianto.
Prendiamo, ad esempio, la morte di Pantani. Un campione di grandissimi successi e di rovinoso declino, imputabile in grande misura all´uso prolungato di droghe eccitanti assunte per vincere le gare e che, alla fine, ne hanno fiaccato il corpo oltre allo spirito. Orbene che senso ha avuto l´inondazione mass-mediatica che ha riempito pagine e pagine di ogni giornale e ore di trasmissione tv? Quale "eroe" si è celebrato in questo caso con sì ridondante espressione di lutto e rimembranza? Non andava, piuttosto, con più misurata cronaca, indicato soprattutto come quella fine esemplificasse il decadere dello sport, di tutte le discipline, dove i soldi, gli alti ingaggi, i premi miliardari e le molte speculazioni alle spalle e sulla pelle degli atleti hanno trasformato stadi, piste e altri luoghi di certame sportivo in bacini di corruzione e decadenza?
Un caso tutto diverso è la caduta dei tre cardio chirurghi in volo per Cagliari con un cuore da trapiantare. Il cordoglio è sincero, ma anch´esso è venato da una qualche retorica di troppo, compresa quella nobilitata dalle lodevoli intenzioni del presidente Ciampi e dalla medaglia d´oro che Sirchia propone di conferire a questi «eroi di oggi». Crediamo che non fossero, non si sentissero, non volessero essere chiamati eroi ma riconosciuti in tempo quali persone impegnate fino in fondo nel servizio pubblico, come tantissimi loro colleghi. Meglio ricordare che quel chirurgo, subentrato da nove anni al professore diventato deputato, attendeva da allora invano la nomina a primario e che ogni qualvolta si trovava un cuore da impiantare doveva darsi personalmente da fare per organizzare in un battibaleno il trasporto. Vogliamo gratificare le migliaia di medici presenti in corsia oltre ogni orario di lavoro, gli infermieri che accudiscono i malati depositati nei corridoi per il taglio dei letti, i ricercatori che studiano senza mezzi, distribuendo loro tanti bei certificati di «eroi del giorno d´oggi»?
E, infine, il più controverso degli «eroismi», quello dei Caduti di Nassiriya. Si dirà che il mestiere delle armi comporta potenzialmente il rischio della vita. È vero ma in questo caso l´impegno per il quale erano stati ingaggiati era formalmente una missione umanitaria e non bellica.
Eppure si sono trovati in piena guerriglia e con il terrorismo scatenato, non certamente predisposti ad azioni di combattimento. Non per questo erano stati mandati o avevano scelto di partire. Sono martiri ma non eroi. Eppure, in nome della sacralità dell´eroismo non si dovrebbe parlare del sacrificio loro imposto, delle responsabilità del profilo mendace della missione, del permanere di un quadro d´assieme incerto e pericoloso. Un caso tipico di retorica governativa multiuso
Caro direttore, il presidente Ciampi ha sollevato con forza il problema della scarsa presenza femminile nella rappresentanza politica. Il caso italiano è, in effetti, scandaloso. Purtroppo, nell’imminenza di una scadenza elettorale, bisogna registrare un avvio di discussione tra le forze politiche con deformazioni caricaturali delle proposte in campo per aumentare la rappresentanza di genere.
E’ stata dunque opportuna la pubblicazione su questo giornale dell’articolo di Dahrendorf "Le quote e le ingiustizie", nel quale il grande studioso ricolloca la discussione sulle "quote" nei suoi più ampi termini filosofici e sociali.
I pari diritti, dice Dahrendorf, non bastano a garantire la partecipazione di tutti i cittadini ai beni sociali più ambiti - l’istruzione è l’esempio che gli sta particolarmente a cuore - ed in generale per garantirne la partecipazione alla vita pubblica. Una barriera invisibile separa dall’accesso alla cittadinanza attiva interi gruppi di cittadini diseguali o diversi: la storia del XX secolo è stata anche storia del tentativo di «dare sostanza sociale al concetto astratto di parità di diritti». E proprio la difficoltà di questo compito ha dato origine, in primo luogo negli Stati Uniti, a quella che Dahrendorf definisce la coraggiosa innovazione politica dell’affirmative action (di cui le quote sono un aspetto): una politica che agisce contro la discriminazione e che, con il fine dell’eguaglianza di fatto, deroga all’egual trattamento formale degli individui, favorendo gruppi di svantaggiati o di diversi. Fin qui dunque Dahrendorf loda questa esperienza, inscritta nella vicenda della cittadinanza liberal-democratica. Poi però esprime delle riserve sulle quali vale la pena di soffermarsi, proprio perché propongono in forma alta gli stessi interrogativi che confusamente si aggirano nel dibattito italiano attuale.
Non si rischia, con azioni mirate a promuovere chi appartiene a certi gruppi, di creare nuove ingiustizie? O di promuovere chi è meno capace? Insomma, si interroga Dahrendorf, «può la parità coesistere con l’eccellenza?». Dahrendorf rievoca un famoso caso giudiziario americano, lo studente bianco che non fu ammesso ad una prestigiosa facoltà di medicina a numero chiuso, pur avendo titoli più alti di suoi concorrenti afroamericani che potevano usufruire di una quota. Dahrendorf non ricorda però il dibattito che ne è seguito, un dibattito in cui intervennero non solo politici, ma anche grandi filosofi come Rawls e Dworkin. La Corte Suprema vi pose fine con una sentenza mediatoria: le quote sono legittime, purché non siano rigide, ma semplici orientamenti quantitativi verso i quali tendere. E’ dunque giusto derogare dai trattamenti uguali per creare un’uguaglianza futura: non si crea con ciò ingiustizia, non si impoverisce la qualità della vita sociale e ne può risultare un beneficio d’insieme per tutti. In un recente studio di grande impegno l’ex rettore dell’Università di Harvard, Bok, ha ricostruito con altri studiosi i percorsi e gli ottimi esiti professionali degli studenti che avevano avuto accesso alle Università più prestigiose degli Stati Uniti in virtù delle quote: la parità non è andata contro la qualità. Ma è anche stato rilevato che, se lo stimolo della promozione viene meno, quegli stessi studenti smettono di provare: è accaduto in California, quando 5 anni fa sono state abolite le quote di accesso ed è rapidamente caduta la presenza dei candidati afroamericani e delle donne, gli stessi che avevano avuto successo in precedenza, nel regime protetto.
Questo ci porta a considerare un altro dubbio di Dahrendorf, quello che lui chiama la clausola di temporaneità, la "sunset clause", secondo cui l’azione positiva dovrebbe essere un rimedio temporaneo. Lo studio di Bok ed altri suggerisce che la "sunset clause" non va applicata, se la società continua a riprodurre condizioni di svantaggio: l’affirmative action, l’azione positiva come diciamo in Europa e in Italia, dura finché ce n’è bisogno, di fronte al riprodursi delle diseguaglianze e in mancanza di altri rimedi. Ma cosa accade dell’affirmative action e della sua durata di fronte alle differenze? La domanda ci porta a considerare un altro dei dubbi di Dahrendorf.
Il superamento degli svantaggi è altra cosa dalla cancellazione delle diversità: le differenze possono essere ineliminabili anche perché volute e valorizzate; ciò vale per il genere, le etnie, le religioni. Ha ragione Dahrendorf a non auspicarsi una società meccanicamente omogenea. Ma dimentica che nell’affirmative action vi è anche un messaggio di rispetto della differenza, certo più difficile da realizzare che non quello del superamento della diseguaglianza. E’ più difficile perché porta ad interrogarsi su quali differenze vadano rispettate, e fino a che punto. Ci sono differenze che possono entrare in conflitto con i principi di cittadinanza universale in modo assai più grave delle quote, quando ad esempio alcune minoranze chiedono rispetto per una cultura che lede i diritti degli individui ? si pensi all’infibulazione - in un modo che la società ospite trova intollerabile.
Ma torniamo al punto di partenza. Si tratta di diseguaglianza o di differenza quando si discute di rafforzare la rappresentanza delle donne in politica? Dahrendorf "rabbrividisce" al pensiero di un Parlamento i cui membri siano scelti in base al criterio di appartenenza ad un gruppo, e la preoccupazione è condivisibile. Ma ritengo che Dahrendorf semplifichi troppo un problema complesso quando suggerisce che volere più donne in politica si giustifica solo con la teoria della "democrazia a specchio", mirror democracy, secondo cui ogni gruppo sociale dovrebbe aver titolo ai suoi "naturali" rappresentanti: una teoria che risale alla democrazia corporativa, ed è impropria per una democrazia liberale. Ma è anche improprio per una democrazia liberale che interi gruppi sociali si allontanino dalla partecipazione politica: una massiccia sotto-rappresentanza rappresentativa indica un deficit di democrazia. Come trovare modi per far sì che diseguaglianze e differenze non si traducano in esclusione? Certo, le elezioni sono un punto d’arrivo e bisognerebbe intervenire prima, nel momento in cui si formano le carriere politiche, i gusti per la partecipazione politica. E se non ci si riesce? Quali lezioni trarre dalle esperienze di altre democrazie, in cui spesso le quote sono state efficaci? Sarà meglio studiare e discutere di un problema che si riconosce complesso, piuttosto che liquidarlo con giudizi troppo facili.
(L’autrice è docente di Sociologia del lavoro. Nel 2001 ha pubblicato per Feltrinelli "Donne in quota")
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Ralf Dahrendorf, Quando le “quote” provocano ingiustizia
Credo che una sensazione molto diffusa fra gli italiani premoderni, quelli della lotta di classe, dei diritti civili, del miracolo economico, che era poi il mettere assieme il pranzo con la cena, della morale comune che era poi il comune pudore, la comune decenza, sia di galleggiare nell'aria come gli astronauti senza più peso di gravità. Senza più capire in che mondo viviamo, indefinibile, ingiudicabile, inafferrabile, ma certamente mediocre, certamente osceno, riempito dal vuoto della televisione, delle immagini, del virtuale e della prostituzione universale.
La cosa più difficile da sopportare è l'oscenità diffusa senza limiti. Esempio: la televisione pornografica trasmette due servizi: uno è sulla moglie di un famoso cantante che pur di far carriera nello spettacolo posa seminuda per uno dei soliti servizi da calendari, da casalinga porcacciona; il secondo di una, come chiamarla?, meteorologa di Retequattro che per affermarsi tra le fanciulle con la fritola al vento, posa anche lei per le fotografie del tipo sesso a sonda. Sesso che non solo si infila fra tette e glutei ma che penetra in una libido anatomica, in tutti i fori corporali, se permettete il linguaggio, non le fotografie di un sedere ma di un buco del sedere, di un retto, di un colon. E il mondo degli addetti ai lavori, fotografi, sceneggiatori, registi, coreografi, pubblicitari, direttori di reti è perfettamente d'accordo su questo modernismo da pervertiti: "Ma via che c'è di male? Cosa è questo moralismo da parrocconi? Sono fotografie normali".
Domina lo spettacolo l'ambiguità da suburra di Renato Zero. Un po' di frociaggine con contorno di coda alla vaccinara e di pappardelle, la Roma trasteverina, la Roma del Testaccio in cui l'Italia del Risorgimento si illuse di creare una capitale.
La televisione come strumento principe del potere berlusconiano non è nulla al confronto della televisione plebea che affonda le sue radici nei vizi antichi di un'Italia minore del tira a campare, unta, mezzana che celebra le fanciulle in fiore che fanno carriera vendendosi ai direttori e agli onorevoli. Ma che brave! Non sanno cantare, recitare, ballare ma sono già dive del reality show che sarebbe la negazione del realismo sostituito da zuccherose favole per analfabeti.
Non è piacevole, anzi è decisamente sgradevole e spesso soffocante, vivere in un paese che non ha più il coraggio di essere se stesso, partigiano ma schierato e fedele, un paese che preferisce nascondersi nel trasformismo dei fascisti che fanno i democratici e di democratici che si comportano come fascisti. La sola cosa certa è che in questo paese hanno pochissima fortuna, pochissima popolarità gli eroi civili come l'avvocato Ambrosoli e gli altri che sono morti combattendo la mafia e il malaffare. Un paese pronto a recuperare il peggio, il falso patriottismo, la falsa beneficenza, con il rimpianto del colonialismo.
L'ideologia vincente che guida il governo è un furbesco carpe diem. La 'missione' in Iraq di cui parla il nostro presidente è un opportunistico stare dalla parte del più ricco e del più forte che non è neppure un buon calcolo, perché nel pantano iracheno ci sta pure lui e non sa come tirarsene fuori. Di cosa capiterà agli iracheni e quale sarà il futuro prossimo dei soldati di occupazione americani e nostri, ai governi importa assai meno che le prossime elezioni.
Francamente non è piacevole galleggiare senza peso in questo tempo senza saggezza e senza morale.
Qualcosa si sta guastando nel motore nelle democrazie, anche nelle migliori. Non si tratta di raffreddori passeggeri, ma di malanni cronici che riguardano le strutture portanti: diffuso discredito dei politici, insoddisfazione verso i governi, scarsa partecipazione degli elettori alle elezioni e alle discussioni, invasività dei poteri economici, declino delle idee egualitarie, scarsa capacità del sistema politico di rappresentare settori sociali non tradizionali. Nello spirito del tempo ritorna qualche cosa che ricorda l´era pre-democratica, quando idee dirompenti con il marchio dell´uguaglianza, come il diritto di voto per tutti, dovevano ancora affacciarsi. La lista delle doléances è molto pesante.
Cominciamo da una moda: l´abbandono dell´egualitarismo come anticaglia. Il fatto che ci siano stati eccessi di segno opposto nel sindacalismo europeo degli anni Sessanta e Settanta non giustifica che lo Zeitgeist sposi l´idea che tutto quel che ha odore di uguaglianza sia da buttare. Ci voleva Paul Krugman, dalle colonne del New York Times e nel libro che raccoglie i suoi articoli (The Great Unravelling) per far presente che una società e una economia in cui una pattuglia di tredicimila famiglie raduni lo stesso reddito di venti milioni di famiglie povere è meno stabile e moderata di quella rooseveltiana con una forte classe media e manager meno inclini a falsificare i bilanci per giustificare i loro prelievi devastanti.
Proseguiamo con uno stile: il trasimachismo dei neoconservatori al governo a Washington. Trasimaco è rimasto famoso per il detto breve ma molto denso: giusto è quel che conviene al più forte. Fine del detto. Se la cosa funziona, va. Se ce la fai, è andata. Santificata dalla legge. Spiega Shadia Drury, politologa canadese, una specialista di neocons, autrice di Leo Strauss and the American Right, che per gli ideologi alla Wolfowitz la naturale condizione umana non è quella della libertà ma della subordinazione e che celebrare il diritto naturale significa rendere omaggio non alla parità ma alla dominazione.
Approfondiamo con una teoria: la bugia come dovere dell´élite. Ha spiegato Christopher Hitchens in un articolo di feroce critica alla Casa Bianca su Slate.com (Machiavelli in Mesopotamia): per gli straussiani verità e libertà non si addicono alle rozze masse, premesse e obiettivi di una scelta politica (come la guerra in Iraq) non possono essere pubblicamente confessati, l´arcano è indispensabile, niente perle ai porci, l´élite ha il dovere di proteggersi. E poi chi ha le posizioni di comando sulla base di una selezione "naturale" dei "migliori" tende a percepirsi perennemente come vittima di una persecuzione in agguato, deve proteggersi.
E veniamo alla sintesi di Colin Crouch, in Postdemocrazia (Laterza, pagg. 154, euro 14), un pamphlet destinato a provocare un check-up dei nostri sistemi politici e che vuole mettere uno stop agli assalti alla cultura da cui la democrazia è venuta fuori. Crouch è un sociologo inglese che ha studiato l´Europa e vede nel disprezzo per l´eguaglianza un segno dei tempi da prendere sul serio perché è un termometro del declino della democrazia. La parola stessa, postdemocrazia, contraddice l´idea corrente che le sorti della formula politica di maggior successo nel mondo siano magnifiche e progressive. È vero che continua a crescere il numero dei paesi nei quali si svolgono elezioni ragionevolmente libere, ma nei luoghi del pianeta dove la democrazia dovrebbe sfolgorare nella sua splendida maturità (Europa occidentale, Stati Uniti, Giappone) il suo tracciato storico assomiglia di meno a una linea ascendente e di più a una parabola la cui linea tocca due volte la stessa altezza, una volta in salire e una seconda volta in scendere. Ora si sta scendendo.
Che cos´è la postdemocrazia in cui stiamo per calarci? È un regime perforato e teleguidato da poteri esterni alla rappresentanza politica, da plotoni di specialisti delle transazioni al vertice che tendono a diventare inamovibili, mentre il dibattito elettorale diventa uno spettacolo saldamente controllato da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione. Questa scarsa circolazione e competizione delle élites più che il modello realistico schumpeteriano ricorda epoche pre-democratiche.
La storia del New Labour è descritta da Crouch come una tipica manifestazione di postdemocrazia imminente. Con la base operaia costretta a un ruolo difensivo, il partito di Blair ha dovuto distaccarsene cercando di affermarsi "nel vuoto", diventando una forza fresca e vincente con il riavvicinarsi all´economia. Il grande, esemplare enigma dei laburisti era quello di trovare una base sociale sostitutiva. Le contraddizioni della postdemocrazia sono dannatamente difficili da domare. Accade così che le sinistre che si spingono meno in là di Blair – come i Ds italiani, i socialdemocratici belgi, francesi e tedeschi – non lo fanno perché abbiano trovato il modo di rappresentare gli interessi della nuova popolazione dei lavoratori subordinati postindustriali (il terzo inferiore della popolazione attiva, il mercato dei "flessibili"), ma perché continuano a dover fare più compromessi con i vecchi sindacati e gli altri rappresentanti della società industriale. Queste sfuggenti e scivolose contraddizioni spiegano perché, nel deficit di rappresentanza, prenda piede in vari settori sociali l´unica identità disponibile: quella nazionale di fronte alle minoranze etniche in arrivo con l´immigrazione. Fenomeni alla Fortuyn, Haider, Le Pen, Bossi rispondono più che a spinte autenticamente razziste al bisogno di avere politici rivolti ai bisogni della gente al di fuori del quadro delle élites consolidate.
Che cosa diventeranno i partiti nel XXI secolo? Se nel partito di massa del XX il gruppo dirigente era un piccolo cerchietto intorno al quale c´erano i circoli più larghi dei funzionari, dei militanti, degli elettori fedeli, nel partito postdemocratico al centro ci sarà una ellissi, risultante dall´abbraccio permanente tra i dirigenti, i consulenti professionali, i lobbisti. Il cerchio si stira in direzione del denaro, scavalcando i ranghi intermedi del partito. Ma d´altro canto il contributo degli esperti di opinione è indispensabile perché, nelle nuove condizioni, molto più utile dell´entusiasmo dilettantesco dei militanti, che nel partito di massa era funzionale alla costruzione del consenso.
Se dunque la democrazia non è più un destino garantito come la freccia del tempo che non torna mai indietro, se corriamo il rischio di confermare le teorie dei cicli con i loro corsi e ricorsi, che cosa possiamo tentare per contenere le tendenze postdemocratiche? Crouch prende a prestito vari suggerimenti in circolazione che spingono in tre direzioni: la prima, politiche che taglino le unghie alle élites economiche più aggressive e invadenti; la seconda, politiche che riformino la prassi politica stessa; la terza, iniziative rivolte direttamente ai cittadini. In sostanza si tratta di mantenere i benefici della dinamica del capitalismo senza consegnargli tutte le chiavi della politica. Va escogitato un compromesso, geniale come fu quello escogitato da Keynes e Beveridge, e questa volta bisogna scendere a patti non più con il capitalismo industriale ma con quello finanziario globalizzato. Servono dunque nuove regole per prevenire o contenere i flussi di denaro tra partiti, gruppi di consulenti e lobbies. Sul finanziamento legale dei partiti, Crouch appoggia la proposta di Philippe Schmitter: una somma fissa sul reddito di ciascun cittadino viene assegnata al partito politico scelto ogni anno dal cittadino stesso (il che vale anche per finanziare associazioni e gruppi di interesse). Un´altra proposta si ispira alla cultura "deliberativa", vale a dire alle teorie che valorizzano la discussione pubblica tra i cittadini: istituzione di un´assemblea, da mettere in carica per un mese, di persone estratte a sorte per esaminare un piccolo numero di disegni di legge loro sottoposti da una minoranza (un terzo) del Parlamento. L´assemblea avrebbe il diritto di approvare o respingere la legge.
Ma la premessa di ogni azione di contenimento della postdemocrazia è che si rimettano sobriamente in valore le idee egualitarie e liberali che portarono a inventare il diritto di voto per tutti e che si concordi un minimo denominatore di decenza per cui se un governo inganna i cittadini con bugie questa non è una raffinatezza ma una mascalzonata. E così via ridisegnando meglio i confini tra realismo e utopia.
Siamo entrati nel XXI secolo sentendoci intorno un mondo profondamente cambiato; un mondo nel quale buona parte dei nostri punti di riferimento si sono spostati e il futuro che ci aspetta è incerto e non è affatto detto che per noi europei sia migliore.
Certo, la scienza sta aprendo speranze prima impensabili per il miglioramento della vita, ma varca limiti sino a ieri invalicabili nella lotta alla malattia e alla fame e ci pone dilemmi etici che mai avremmo pensato di dover risolvere. Gravano poi su di noi l’insicurezza e gli incubi che nascono da un terrorismo che stentiamo a capire, ma che avvertiamo come un portato di quella globalizzazione, che negli ultimi decenni ha abbattuto confini a cui eravamo abituati da secoli. E poi le ansie legate ai cambiamenti climatici, al deterioramento dell’ambiente, alla sicurezza dei cibi che mangiamo. E infine le incertezze che vengono da un’economia che smuove imprese,capitali e persone da una parte all’altra del mondo, che genera in tal modo opportunità sinora sconosciute, ma elimina anche vecchie sicurezze di lavoro, di reddito, di identità stessa delle nostre città, dove oggi ci troviamo a vivere con persone tanto diverse, ed espongono così a cambiamenti e tensioni da cui si rischia molto spesso di uscire più da perdenti che da vincitori.
Sono rischi, tensioni e paure, che risalgono a cause che sentiamo lontane da noi, matasse di cui non possiamo afferrare il bandolo. Ma non è così. Nulla di ciò che speriamo, ma anche nulla di ciò che temiamo, accade per cause estranee a1le nostre ‘scelte ‘e alle nostre azioni. La scienza, l’economia, il modo in cui le nostre società sono organizzate e in larga misura lo stesso clima sono ciò che noi li facciamo essere, anche quando hanno dimensioni planetarie e globali. Se vogliamo cambiare in meglio, occorre solo che ci portiamo all’altezza ditali dimensioni. Le trasformazioni del mondo entrano infatti nelle nostre case, ma non è certo da lì che le possiamo orientare. E’ l’Europa che ci permette di farlo.
Grazie alla lungimiranza della generazione che ci ha preceduto, noi europei abbiamo la fortuna di averla l’Europa. Nel corso del XX secolo essa ci ha dato la pace fra noi, un mercato comune, una moneta unica. Ora sta a noi adeguarla alle nuove sfide e renderla più forte davanti ad esse, e tuttavia anche più vicina ai suoi cittadini, più trasparente. E’ un’Europa con la quale entrare fiduciosi nel futuro quella di cui abbiamo bisogno e per realizzarla è necessario che tutti sappiano compiere delle scelte: le istituzioni europee, i nostri Governi, ma anche noi cittadini.
Occorrono scelte perché nel mondo vinca la pace, e questo vuol dire battersi affinché le guerre finiscano, non semplicemente tirarsene fuori; per rilanciare una crescita che dia lavoro e non distrugga l’ambiente, i dire saper rinunciare a molte comode posizioni di rendita; per avere servizi migliori, e questo vuole anche dire imparare a guardare al di là dei propri cancelli e dei propri steccati. Diritti e responsabilità. Condividere le politiche della Lista Prodi significa contribuire a realizzarle, perché per un’Europa al servizio di tutti serve l’impegno di ognuno.
La Lista Prodi ha ascoltato tutti e ciascuno, ha chiesto il contributo degli esperti e della gente comune, ha mobilitato associazioni di cittadini e parti sociali. E nel farlo ha percepito quanta attenzione ci sia in esse all’interesse collettivo, quanto esse siano capaci di elaborare proposte lungimiranti, quanto lavoro comune la politica possa intraprendere con loro. Perciò oggi siamo sicuri di avere un buon progetto complessivo e proposte concrete efficaci.
Il programma che presentiamo in queste pagine - con una prima parte dedicata al disegno generale e una seconda alle proposte specifiche per ciascuna figura sociale e per singoli temi - si articola intorno a un preciso filo conduttore: più libertà e più iniziativa, ma anche più governo o, meglio, migliore governo per promuovere e valorizzare le capacità di tutti e di ciascuno. Perché l’Europa, dalle imprese alla ricerca, dall’agricoltura alla finanza, dal welfare ai sistemi formativi soffre per un uso sbagliato e distorto delle sue risorse e per un eccesso di cattiva regolamentazione, molto spesso nazionale, e a volte anche europea: vincoli imposti non per stupidaggine, ma per difendere questo o quell’interesse. La ripresa della crescita e una politica sociale giusta e promotrice essa stessa di crescita cominciano da qui: dal buon governo, dalla capacità di scrivere regole intelligenti, nell’interesse di tutti, non per favorire pochi.
Non ci sono, ricette miracolose. Quando. le. Ferrari perdevano il Gran Premio i meccanici di Maranello non hanno pensato neppure per un minuto che fosse possibile tornare a vincere solo usando una benzina più potente: hanno smontato il motore e poi lo hanno rimontato pezzo per pezzo, sostituendo quelli che non funzionavano. Così sono tornati a vincere. Questo è l’impegno della Lista Prodi: dare all’Europa, e all’Italia, un buon governo.
“Costruire l’Economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. Era il marzo del 2000 quando il Consiglio europeo di Lisbona si poneva questo obiettivo. Sono passati quattro anni. Ma come una palla da tennis sgonfia che ad ogni lancio rimbalza sempre meno, così l’Europa, ogni anno, vede arretrare la sua competitività e la sua capacità di creare crescita e posti di lavoro. Con l’Italia del Governo di Silvio Berlusconi che si distingue in termini negativi in quasi tutti gli indicatori.
Servono palle nuove. Serve una classe dirigente che sappia esercitare la sua 1eadei serve un disegno complessivo per creare sviluppo e sicurezza, servono progetti concreti per centrare l’obiettivo.
Questa è la sfida della Lista Prodi. L’Europa non può più aspettare: deve tornare a crescere e deve rafforzare la sua posizione nel mercato globale. Deve liberarsi dalla trappola in cui è finita, stretta tra la grande capacità innovativa dell’economia americana e i successi asiatici spinti dall’imitazione e dai bassi salari. Solo con più crescita e più qualità nella crescita potremo affrontare i problemi di una società che invecchia e trasformare, rafforzandolo, lo Stato sociale: per tornare a creare sviluppo nella sicurezza di tutti.
Più governo meno dirigismo. Tagliare le tasse non basta. Il centro-destra in questi anni ha teorizzato un assoluto liberiamo sia sociale sia economico, lasciando gli italiani soli davanti a uno dei peggiori cicli economici del dopoguerra. Un liberismo a parole, che in realtà non ha neppure realizzato l’uguaglianza delle opportunità: ha semplicemente privilegiato i più forti e gli interessi corporativi, dalle leggi ad hoc per le squadre di calcio alle liberalizzazioni bloccate, in primis quelle dei servizi pubblici locali
L’Europa ha bisogno di più mercato, di più concorrenza, ma questo richiede una forte capacità di governo. Il che non vuol dire statalismo o dirigismo, ma regole - in primis per abbattere rendite e monopoli - e politiche pubbliche capaci di incidere sui fattori decisivi della crescita, senza le quali neppure una riduzione delle tasse può generare una crescita solida e duratura. I tagli fiscali sono positivi solo se davvero aumentano la capacità di acquisto dei cittadini e non generano, invece, una riduzione dei servizi a loro disposizione o un aumento nel costo degli stessi servizi e delle tasse degli enti locali. Ma non basterebbero comunque da soli in un’Europa dove il costo di troppi servizi risente ancora della mancanza di concorrenza, dove la ricerca e l’innovazione sono insufficienti a renderci competitivi, dove per molti, a partire dalle donne, sono di altra natura gli ostacoli che impediscono di lavorare.
Un nuovo “Patto di stabilità” per mettere i denti al processo di Lisbona. Per tornare a crescere vanno innanzi tutto messi i denti al processo di Lisbona, che si occupa appunto di questi problemi. La nostra proposta è collegare tali politiche al Patto di stabilità, estendendo anche ad esse il sistema di vincoli e sanzioni che oggi protegge l’equilibrio dei bilanci europei.
Il Patto va rafforzato ponendolo maggiormente al servizio della crescita. L’obiettivo del bilancio in surplus o vicino al pareggio va mantenuto, ma bisogna fare sì che, nella valutazione dei saldi, da un lato una attenzione speciale sia riservata alle voci di spesa che contribuiscono direttamente alla crescita, come gli investimenti in formazione superiore, ricerca, innovazione, infrastrutture; dall’altro siano penalizzate le entrate che sono frutto di misure una tantum, come i condoni, che indeboliscono nel medio periodo la sostenibilità dei bilanci. Insomma: meno incentivi ad abbellire artificialmente i conti, e più incentivi a fare le riforme e a investire nel capitale umano.
In questo contesto, i paesi della zona euro potranno procedere con maggiore coordinamento degli altri, definendo criteri comuni per i rispettivi bilanci in modo da potenziare gli effetti positivi delle loro azioni e da prevenire invece divergenze di politiche nazionali, dalle quali tutti sarebbero danneggiati proprio in ragione della moneta che condividono.
Nuove regole per l’Europa della ricerca. Quando un’economia diventa ricca, come è oggi l’Europa, tre soli fattori possono consentirle di continuare a crescere: miglior capitale umano, e cioè più istruzione, e poi ricerca e innovazione. L’investimento in istruzione, ricerca e innovazione è oggi il motore fondamentale della crescita. L’Irlanda, che a tale investimento ha prioritariamente destinato le stesse risorse dei fondi strutturali europei, è il paese che è cresciuto di più In molti altri Paesi d’Europa, invece, davanti alle difficoltà dei conti pubblici, è proprio questo il primo capitolo di spesa ad essere penalizzato. Ma sarebbe un’illusione ritenere che sia solo una questione di soldi. Possiamo spendere quanto vogliamo, ma se prima non abbatteremo le barriere, nazionali e corporative, dietro le quali, in nome delle ricerca, si difendono interessi particolari , non andremo lontano.
La priorità è trattenere in Europa i migliori e anche attrarre i migliori dal resto del mondo. Ma per riuscirci, nell’università come nella ricerca bisogna saper fare delle scelte. Creiamo lo spazio europeo dell’università e della ricerca, in modo da spingere le Università a uscire dal loro localismo e da consentire alla comunità scientifica di convergere sui migliori centri di ricerca europei, senza interferenze burocratiche.
Le università devono tornare ad essere, come avveniva alle loro origini medioevali, una rete del sapere senza barriere tra Stati. Va resa possibile la mobilità dei professori al di là dei confini nazionali, e soprattutto va introdotta un po’ di sana concorrenza fra le università, eliminando le barriere e le nicchie oggi esistenti. In Europa non esistono centri di eccellenza come Boston o Stanford negli Stati Uniti: non solo perché mancano le risorse, ma prima ancora perché quelle poche di cui disponiamo si disperdono in mille rivoli per l’incapacità di scegliere e dire qualche no. Vanno creati centri di eccellenza, avendo il coraggio di concentrare le risorse su pochi istituti di alta qualità. Vanno create cattedre di ricerca europee da assegnare sulla base di una selezione che non guardi alla nazionalità, ma garantisca che vengano scelti i migliori; va fissato un sistema comune di riferimento per la valutazione dei professori e dei risultati della ricerca, basato non su strumenti burocratici, ma semplicemente sulla qualità delle pubblicazioni scientifiche internazionali prodotte; i finanziamenti devono essere assegnati in funzione della capacità degli atenei di attrarre studenti da luoghi anche lontani.
La ricerca europea, però, non andrà lontano senza una profonda revisione del bilancio dell’Unione, che oggi destina alla ricerca solamente un decimo delle risorse destinate all’agricoltura. Vanno, poi, incentivati gli investimenti privati attraverso una legislazione che favorisca la cooperazione tra Università e imprese, attraverso crediti di imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo, attraverso una nuova disciplina comune della proprietà intellettuale, attraverso incentivi a brevettare - ad esempio prevedendo il rimborso del costo delle pratiche necessarie per ottenere un brevetto in funzione dei risultati poi ottenuti - che alimenti i processi di spin-off, attraverso una più favorevole disciplina per il venture capital, attraverso la completa deducibilità fiscale di tutti i contributi privati a titolo gratuito alla ricerca e all’istruzione.
Oggi molti giovani promettenti debbono abbandonare gli studi, mentre il costo vero dell’istruzione non è addebitato neppure a chi potrebbe pagarlo. Per questo è imprescindibile un’altra priorità: la promozione e la valorizzazione dei talenti, indipendentemente dalla loro provenienza sociale. La Lista Prodi ne fa uno dei suoi obiettivi principali. Ne parleremo anche più avanti, ma da subito va sottolineata la nostra determinazione a far pagare chi può e al tempo stesso allargare il sistema delle borse di studio, utilizzando anche il prestito di laurea, da rimborsare solo dopo il conseguimento di un reddito da lavoro non inferiore a un dato ammontare. Un programma da estendere anche a studenti scelti all’inizio dell’ultimo anno della scuola media superiore, perché è lì che spesso si decide il futuro dei talenti.
Sostenere le imprese d’avanguardia, non proteggere i monopoli locali. Ci sono ambiti nei quali la ricerca europea è all’avanguardia e ha alimentato imprese d’avanguardia. Su questi settori dobbiamo puntare con forza per una crescita che sia insieme innovativa e ispirata alla tutela dell’ambiente per l’oggi e il domani. Perché la protezione dell’ambiente non solo può essere in armonia con la crescita economica, ma è anche strumento di promozione di nuove tecnologie. Ed è con tali tecnologie, prima ancora che con i vincoli, che potremo assicurarci la qualità dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo, di un habitat dal quale non scompaiano né le foreste né le biodiversità; per non parlare dei nuovi e tanti lavori di cui abbiamo bisogno.
Vogliamo Stati che incentivino gli imprenditori coraggiosi a rischiare, non Stati che consentono l’accumularsi di rendite e quindi offrono agli imprenditori l’incentivo perverso a catturare quelle rendite anziché a competere sui mercati globali.
Servono investimenti nelle biotecnologie e nelle scienze della vita, nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nelle fonti d’energia rinnovabili, nell’industria aero-spaziale, nelle grandi reti europee. Qui gli Stati hanno un ruolo importante da svolgere: non attraverso la proprietà delle imprese, che devono stare sul mercato, ma attraverso una regolamentazione intelligente e investimenti pubblici nelle tecnologie. D’altronde tra principali successi economici dell’Europa unita ci sono proprio due imprese — due “campioni europei” - il Consorzio Airbus nell’aeronautica e la STMicroelectronics nei semiconduttori, nate in virtù di una cooperazione transnazionale e cresciute lungo quel delicato crinale che è il rapporto fra la ricerca e l’industria.
E servono investimenti nell’innovazione applicata ai processi produttivi, organizzativi e amministrativi di industrie più tradizionali. Un aspetto, quest’ultimo, particolarmente importante per l’Italia. Perché c’è una specificità del nostro settore industriale, che è quella dei prodotti di alta qualità che può trarre grandi vantaggi dall’innovazione applicata ai processi.
Una buona politica deve saper “accompagnare” le imprese sui mercati del mondo con una efficiente rete di servizi, incéntivandole a “fare squadra”; deve proteggere i marchi del Made in Italy dalla concorrenza sleale; deve offrire una burocrazia amica che dia risposte in tempi certi; deve favorire il merito e la qualità anche attraverso norme che facilitino la contendibilità delle imprese a livello europeo; deve utilizzare ogni margine possibile per incentivi fiscali mirati a favorire la crescita delle aziende.
Non più una giustizia poco civile. Una giustizia civile efficiente è una formidabile infrastruttura per lo sviluppo. La sua celerità e la sua affidabilità, non solo garantiscono meglio i diritti di tutti i cittadini, ma incidono sulle scelte di lungo periodo delle aziende.
In questo senso la Lista Prodi sostiene una rapida approvazione della Costituzione europea che introduce il principio del mutuo riconoscimento tra gli Stati membri delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziarie e della loro esecuzione; e prevede la promozione della compatibilità delle norme di procedura civile applicabili negli Stati membri.
Il nostro Paese ha il record di durata dei processi: oltre 9 anni e mezzo per tutti e tre i gradi di giudizio, circa il 70% in più della media UE. Questo danneggia fortemente la possibilità dell’Italia di tenere il passo delle economie degli altri Paesi Ue.
Occorre perciò istituire tribunali specializzati in materia commerciale e occorre intervenire sulle inutili farraginosità delle procedure, sulla eccessiva ampiezza delle impugnazioni e sulla dimensione e distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari. Ma anche liberalizzare la professione di avvocato nell’Unione, permettendo ad avvocati provenienti da nazionalità diverse di lavorare insieme uniformando le professionalità. Per l’Italia non potrà che essere un vantaggio. La liberalizzazione, infatti, accompagnata dalla determinazione forfettaria dell’onorario - non legata quindi al numero delle prestazioni fornite in ciascun processo - induce a non abusare delle garanzie processuali e costituisce un forte incentivo per l’avvocato a chiudere rapidamente la controversia con una transazione.
Una finanza a supporto della crescita. Le imprese europee hanno bisogno di un sistema finanziario che assicuri al più ampio insieme di soggetti un accesso immediato al credito.
La vicenda Parmalat, e ancor prima la Cirio e i bond argentini, hanno gravemente danneggiato un gran numero di risparmiatori e pericolosamente scosso la fiducia in tutto il sistema creditizio e produttivo italiano. La Lista Prodi è dalla parte dei risparmiatori: qualunque ipotesi di riforma deve partire dalla necessità di difendere il risparmio dei cittadini. Anche perché solo partendo da qui, sarà possibile ricostruire la fiducia necessaria intorno a tutto il sistema del credito.
In questo senso c’è una riforma complessiva del sistema dei controlli italiani da portare a termine in tempi rapidi, ma il caso Parmalat ha anche evidenziato come davanti a questi problemi l’Italia da sola non basta più, serve più Europa.
Molte transazioni economico-finanziarie oggi avvengono su scala continentale o mondiale. E’ necessario, dunque, dotarsi di strumenti di controllo almeno di livello continentale. Le resistenze nazionali sono ancora forti, ma sempre più miopi: bisogna creare in tempi brevi una “centrale dei rischi” europea, per poi far nascere una vera e propria Commissione di Vigilanza europea.
Ma senza una maggiore concorrenza fra le banche europee, che superi la segmentazione nazionale dei mercati, difficilmente si centrerà l’obiettivo di avere un sistema del credito che finanzi progetti e idee vere, e non scatole vuote. Vogliamo che imprese e consumatori possano servirsi di banche efficienti, indipendentemente da quale sia la loro nazionalità, non che siano costretti a pagare i costi di banche inefficienti solo perché battono bandiera nazionale. Alle banche italiane dobbiamo chiedere di mettersi alla testa di aggregazioni europee, non di difendersene o di subirle. E le istituzioni devono avere l’intelligenza di saper accompagnare tali processi.
Il parlamento europeo non è ancora riuscito ad approvare una legge sulle acquisizioni societarie. Troppi interessi costituiti, travestiti da sentimenti patriottici, hanno ostacolato ogni iniziativa in questo senso. La Destra italiana e’ corresponsabile di questo fallimento. Una priorità per il nuovo parlamento europeo e’ quella di approvare una legge che non discrimini contro le acquisizioni estere e metta tutte le imprese europee sullo stesso piano.
Le liberalizzazioni da completare: un’arma per fermare l’inflazione. Al di là delle banche c’è tutto il ciclo delle liberalizzazioni da completare. Dal settore delle utilities , alle professioni, all’energia, vi sono beni e servizi fondamentali per i cittadini e le imprese che continuano ad essere gravati da rendite di posizione. Non si può più restare in mezzo al guado. Solo una compiuta liberalizzazione potrà andare incontro alle esigenze de consumatori e degli utenti, garantendo loro beni e servizi migliori e più economici, ed eliminando uno svantaggio di costi che oggi è tra le zavorre che più frenano la competitività delle nostre aziende.
L’Italia continua ad esser il grande paese europeo con l’inflazione più elevata. Il governo Berlusconi non è stato capace di completare le liberalizzazioni e quindi dice che è colpa dell’euro. Lo Stato ha una sola arma per combattere l’inflazione: la concorrenza. Inizi ad usarla e vedrà quanto rapidamente scenderanno i prezzi.
Esistono ancora troppe differenti barriere all’entrata nei diversi paesi europei. In Francia ci vogliono 16 permessi diversi, che richiedono almeno 66 giorni, per iniziare una qualsiasi attività economica. In Inghilterra i permessi sono solo 7 e i giorni 11.
Queste restrizioni rappresentano una forma di protezione delle imprese esistenti ed un ostacolo alla forma one di nuove imprese. E’ compito del parlamento europeo uniformare queste misure, cercando di ridurre i costi all’entrata.
Ambiente e agricoltura. La qualità ambientale è la condizione imprescindibile del progresso economico. La Lista Prodi la considera come parte integrante di una modernizzazione strutturale dell’economia e come una dimensione trasversale di ogni politica settoriale. La politica nei confronti dell’ambiente può essere un fattore determinante per la ripresa della crescita economica. Ciò richiede di ribaltare in la visione tradizionale che considerava l’ambiente come un freno allo sviluppo economico.
Le politiche agricole, innanzi tutto, vanno viste in questo contesto. La Lista Prodi promuove una maggiore competitività del settore agricolo europeo attraverso la qualità, la sicurezza alimentare dei consumatori e la sostenibilità ambientale e territoriale delle attività rurali, non con l’accettazione incontrollata e acritica di tecnologie produttive, di cui non sia comprovata la compatibilità con tale sicurezza e con tale sostenibilità.
Ma anche qui si devono compiere delle scelte. L’iperprotezione di cui godono alcune produzioni agricole europee è francamente inconciliabile con il giusto obiettivo di una globalizzazione più democratica. Anziché difendere produzioni anacronistiche di commodities, gli agricoltori devono avere il coraggio di puntare sulla capacità di aggiungere valore alle produzioni esaltando la qualità storica dei propri prodotti e le potenzialità, anche turistiche, dei territori. Uno strumento essenziale per la modernizzazione, in primo luogo della catena alimentare, sono le grandi cooperative agricole, che rafforzano i produttori e difendono gli stessi consumatori dalle speculazioni che si annidano nell’intermediazione. Gli agricoltori sanno che lungo la strada della modernizzazione l’Europa guidata da noi non li lascerà soli.
Il rilancio dell’agricoltura può avere un ruolo cruciale nella difesa del territorio e dell’ambiente. Ma non basterà l’agricoltura a contrastare il degrado degli equilibri naturali e soprattutto le profonde alterazioni climatiche indotte dalle emissioni di gas serra. La Lista Prodi rilancerà in questo senso il ruolo dell’Europa nella promozione e nel coordinamento di politiche sostenibili di consumo energetico e di protezione del territorio.
Politiche che passano per l’attuazione degli accordi di Kyoto, ma anche per una nuova sfida: l’uso generalizzato dell’energia prodotta dall’idrogeno e dalle altre fonti non inquinanti. L’Europa deve dare a se stessa, ed estenderlo al mondo, l’obiettivo di un progressivo abbattimento dell’uso dei combustibili fossili per generare energia Per questo dovrà dedicare grandi risorse allo sviluppo di programmi di ricerca per lo sviluppo di fonti energetiche di tipo rinnovabile, con la speranza che un giorno essa possa davvero trasformarsi in un’economia libera dai fossili.
Il Mezzogiorno è Europa. La crescita dell’intera Unione Europea, nei prossimi decenni dipenderà in gran parte dalla capacità delle sue regioni più deboli di camminare con le proprie gambe.
Non servono trasferimenti improduttivi, ma investimenti nei fattori di competitività: ricerca e innovazione, infrastrutture fisiche e immateriali, capitale umano. E’ una strada che l’Ullivo e la stessa Europa hanno già intrapreso con successo: ora bisogna soprattutto vigilare che le risorse per le politiche di coesione vengano adeguatamente finanziate anche dopo 1’ allargamento, semplificare ulteriormente le procedure, accrescere la sussidiarietà, rafforzare la diffusione delle buone pratiche.
Dopo i tanti errori del passato, il Mezzogiorno d’Italia ha davanti a sé la possibilità concreta di un futuro diverso. Nella globalizzazione, infatti, l’atout di un patrimonio storico, culturale e ambientale come quello del nostro Sud può trasformarsi in un grande vantaggio competitivo. Se sapremo valorizzarlo con un’organizzazione efficiente, il Mezzogiorno potrà davvero diventare un ineguagliabile fornitore di servizi tradizionali e avanzati all’intera Europa, con straordinarie possibilità di crescita.
C’è poi un’ulteriore occasione. E’ quella determinata dai mutati scenari geopolitici che possono fare del Sud un ponte dell’Europa nel Mediterraneo. E’ interesse del Continente intero valorizzare il Mezzogiorno come avamposto per intercettare commerci, possibilità imprenditoriali, nuovi mercati che nel Mediterraneo possono aprirsi. E sarà senz’altro utile, in questo senso, l’istituzione della Banca euromediterranea, come strumento di finanziamento di infrastrutture e di promozione delle imprese in questa direzione.
Il patrimonio storico dell’Europa, le sue città, la sua cultura: straordinarie leve di crescita civile. Nell’economia “globale” i paesi ce la fanno solo se sanno trovare una propria specializzazione, aree nelle quali eccellere e distinguersi dagli altri. Abbiamo già parlato di innovazione e capitale umano, ma vi è un’altra area nella quale l’Europa ha un forte vantaggio comparato: la sua storia, la sua cultura, le sue città.
La valorizzazione del patrimonio storico e culturale dell’intera Europa può essere uno straordinario volano per la crescita di tutto il Continente. Le città, i territori, i paesaggi, i monumenti, le tradizioni, i borghi antichi sono valori primari della nostra riconoscibilità, della nostra memoria e della nostra cultura, ma sono anche un’infrastruttura d’importanza decisiva per la qualità ed il futuro del nostro sviluppo.
L’Unione deve riconoscere che questo capitale diffuso, ma spesso soffocato o degradato, è una grande risorsa per rilanciare un modello europeo capace di coniugare realmente innovazione economica e coesione sociale. In questo senso i fondi europei dovranno essere impegnati sempre meno in interventi settoriali e sempre più in progetti integrati urbani e territoriali. Anche così le risorse per le politiche di coesione territoriale potranno sviluppare il massimo delle potenzialità locali.
Molte delle città europee - Barcellona, tra tutte - hanno intrapreso questo cammino mostrando formule attraverso cui far lavorare insieme finanziamenti comunitari, politica ed imprenditoria locale. I successi sono stati evidenti e li vogliamo replicare potenziando le azioni a favore dello sviluppo urbano.
Ma, su tutto, va promosso un programma straordinario per ristrutturare e restituire ai propri abitanti i centri storici degradati delle città di alto valore storico-culturale (con quelle del nostro Mezzogiorno in primo piano). Perché è lì, da Palermo a Lisbona, che c’è la nostra storia e la nostra identità. Ed è da lì che l’Europa deve ripartire per trovare un nuovo senso al suo stare nel mondo.
Per valorizzare al meglio questa risorsa, e in considerazione della specificità italiana, la Lista Prodi si farà anche promotrice dell’istituzione di un”Agenzia europea per la conservazione e il restauro” con sede nel nostro Paese. Un istituto che avrà come missione, appunto, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale e artistico degli Stati membri nel proprio contesto ambientale e naturale, attraverso il finanziamento di centri di studio di eccellenza, la catalogazione dei beni, il controllo qualificato sulle aggressioni ambientali e la valorizzazione del turismo.
Dobbiamo difendere le tante specificità culturali locali, ma dobbiamo anche essere capaci di metterci insieme per creare quella massa d’urto necessaria per imporre il nostro patrimonio e la nostra produzione culturale in giro per il mondo. Dall’invadenza dell’industria culturale americana ci si difende anche così, non erigendo inutili barriere.
Le città, luoghi di convivenza. Le città non sono soltanto una parte del nostro patrimonio storico e culturale. Sono anche i luoghi dove si rende concreta la globalizzazione facendo vivere le une accanto alle altre persone di etnie e di culture diverse. Sono i luoghi dove crescono la maggior parte dei nostri bambini, dove gli adulti lavorano e sono alla disperata ricerca di più distesi tempi di vita, sono i luoghi dove molti dei nostri anziani passano i loro ultimi anni in un crescente bisogno di servizi che funzionano.
Città sicure, città nelle quali sia possibile spostarsi con facilità, trovare case a basso costo e di buona qualità, avere spazi verdi dove i bambini possano giocare e strade sicure perché possano andare a piedi a scuola; servizi sanitari e assistenziali per chiunque né abbia bisogno e, in primo luogo, per gli anziani: tutto questo non è e non può essere un sogno, deve essere un impegno comune delle città europee, a garanzia irrinunciabile della civile convivenza tra diversi e del modello sociale di cui i ‘Europa vuole essere espressione e paladina nel mondo.
Più pluralismo e migliore servizio pubblico nei mezzi di comunicazione. Della nostra cultura e della nostra democrazia, infine, fanno parte anche i mezzi di comunicazione di massa e, in particolare, le televisioni. In questo settore, purtroppo, l’Italia non dà un buon esempio all’Europa.
La Lista Prodi intende perciò chiedere al nuovo Parlamento europeo un forte impegno perché il futuro dei media sia più democratico e più ricco. Promuoverà, dunque, politiche tese a rafforzare il pluralismo informativo, ad allargare il mercato dei media e a qualificare il ruolo del servizio pubblico, che va riportato agli standard che ne sono la ragion d’essere e che legittimano lo speciale finanziamento che esso riceve dai cittadini. Ma si farà anche promotrice di una disciplina europea del conflitto di interessi contenente una chiara separazione tra proprietà o gestione di imprese radiotelevisive e l’esercizio di rilevanti funzioni istituzionali.
Un’Europa in cui si lavori di più, perché si può lavorare di più. Troppe donne oggi sono prigioniere di una doppia vita che le costringe a rinunciare o alla maternità o al lavoro, troppe donne e troppi uomini restano fuori dal mondo del lavoro perché non hanno professionalità adeguate o semplicemente non trovano l’occasione giusta, troppi bambini e troppi giovani sono condannati sin dalla prima infanzia a un destino di esclusione.
Il risultato è che in Europa troppo pochi lavorano. Il 60 per cento delle persone tra i 15 e i 64 anni, contro il 70 per cento negli Stati Uniti e obiettivo che i capi di Governo dell’Unione si sono dati per il 2010. E qui l’Italia ha il primato del tasso di occupazione più basso d’Europa, il 55 per cento. E’ questo il primo vincolo alla nostra crescita, sono queste le priorità che in campo sociale una buona politica oggi deve affrontare e risolvere.
L’orgoglio di una società diversa da quella americana. Purché funzioni. Siamo orgogliosi di essere europei per le istituzioni di sicurezza sociale che l’Europa si è data e molti, anche negli Stati Uniti ci invidiano. Tuttavia le sfide dei nuovi tempi, l’allungamento della vita media, l’accesso delle donne al mondo del lavoro, la diffusione di percorsi più liberi ma anche più individuali e flessibili, sino alla precarietà, la difficoltà a creare nuovi posti di lavoro hanno reso quelle istituzioni inadeguate a rispondere ai nuovi bisogni.
Perciò, pur nella consapevolezza che non esiste e non potrà esistere un unico modello di Welfare europeo, il riformismo non può sottrarsi alla sfida di riformare le istituzioni sociali, nella certezza che tale sfida e quella altrettanto prioritaria per il lavoro si intrecciano oggi a doppio filo. In un tempo nel quale la stessa crescita dipende largamente dalla valorizzazione del nostro capitale umano, riformare il welfare significa renderlo non un peso, ma un fattore propulsivo della stessa crescita attraverso la valorizzazione di ogni giovane, di ogni donna, di ogni adulto. Vanno rimossi gli ostacoli che oggi cancellano progetti di vita e ciascuno va messo in condizione di formarsi, di aggiornarsi e di lavorare. E vanno difesi coloro che non possono difendersi da soli.
Il Welfare inclusivo. Paradossalmente, lo stato sociale europeo, da strumento di inclusione sociale, sta diventando sempre più una ragione di esclusione di chi sta fuori, anche nell’ambito dei confini europei. Per evitarlo ecco le nostre proposte, cominciando dalla rete di protezione minii loro che sono i veri esclusi di oggi.
• Tolleranza zero nei confronti della povertà minorile e delle disuguaglianze che già nell’età pre-scolare predispongono all’esclusione i bambini poveri. Bisogna contrastare il peso dell’eredità familiare e sociale in modo da rendere indipendenti le potenzialità di successo nella vita dai privilegi sociali ed ereditari. Per questo l’Unione dovrà aderire alla Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo, secondo la quale bambine e bambini, ovunque siano e da qualunque parte del mondo vengano, devono essere trattati tutti allo stesso modo e avere tutti gli stessi diritti. Per questo una rete di servizi educativi e di assistenza familiare per i bambini da O a 3 anni è un obiettivo prioritario, non solo per conciliare il lavoro della madre e del padre con la cura dei figli, ma prima di tutto per favorire la piena formazione degli stessi figli, così come avevamo cominciato a fare in Italia con la legge del 1996 che riguardava la promozione dei diritti dei bambini. La Carta di Barcellona ci chiede di accogliere negli asili nido almeno il 33% delle bambine e dei bambini. E’ un obiettivo minimo che l’Europa dovrà realizzare.
• Coordinamento tra le reti di protezione sociale di ultima istanza fra i paesi europei, facendo sì che gradualmente il diritto a un reddito minimo, conformato sia pure da ciascun paese in ragione delle proprie specificità (e quindi come reddito minimo garantito da alcuni, come reddito di inserimento da altri) diventi comunque una delle istituzioni cardine di cittadinanza europea. Sono, infatti, proprio queste le componenti dello stato sociale che rischiano per prime di venire ridimensionate dalla concorrenza al ribasso tra gli Stati al fine di attrarre capitali. Coordinarle al livello europeo serve non solo a proteggerle dalle pressioni competitive ma anche ad evitare che i flussi di immigrazione si concentrino sui Paesi che hanno le misure di protezione più generose.
In Europa ci sono 18 milioni di immigrati regolari che hanno fatto dei nostri paesi il loro progetto di vita. Sono donne, sono bambini, sono famiglie. Loro per primi sono tra le risorse umane che dobbiamo imparare a valorizzare, soprattutto oggi, alla vigilia dell’allargamento. Ci aiutano a crescere di più perché vanno dove il mercato del lavoro ne ha più bisogno, compensando la scarsa mobilità di noi europei. Le restrizioni ai flussi migratori non servono a impedire l’immigrazione. Possono solo renderla più graduale. Barriere anacronistiche come quelle contemplate dal Governo italiano (30.000 ingressi nel 2004 quando le imprese nei chiedono 4 volte tanti) ci impediscono di crescere e finiscono per alimentare l’immigrazione clandestina. Gli immigrati arrivano comunque, anche senza permesso di lavoro, e finiscono per lavorare in nero, il che significa che possono solo ricevere e non contribuire allo stato sociale. La clandestinità fa arrivare i meno qualificati e poi, con l’immancabile sanatoria, ci troviamo con persone che hanno una più alta probabilità di dovere in futuro ricorrere alle prestazioni dello stato sociale. Serve una politica europea dell’immigrazione e serve che sia l’Europa a stabilire le garanzie minime dei diritti degli immigrati, dalla cittadinanza di residenza ai limiti di quella vera e propria reclusione che è la detenzione nei centri di permanenza temporanea. Dovrà uscirne un patto che insieme ai diritti preveda precisi doveri, in nome della condivisione di regole e valori, che sono alla base della nostra convivenza in Europa.
Il Welfare al di sopra della rete di protezione minima. Al di sopra della rete di protezione minima l’asse del Welfare europeo dovrà essere la riduzione delle diseguaglianze attraverso le politiche attive del lavoro e la formazione permanente, grazie alla progressiva convergenza di tutti i nostri Stati verso esistenti all’interno dell’Unione.
C’è molto da imparare dai paesi più piccoli dell’Unione, che riescono a ridurre di più le disuguaglianze in proporzione a ciò che spendono in politiche sociali. Questo significa che molte politiche sociali possono essere meglio gestite su piccola scala e, quindi, per i grandi paesi, a livello locale. Importante è avere politiche attive, che spingano i beneficiari a cercare un lavoro, pena la riduzione del sostegno loro offerto, mentre ha funzionato con successo nel Regno Unito e in Svezia legare la concessione di sostegni al reddito al fatto di avere un lavoro. I sussidi o i crediti di imposta condizionati al lavoro facilitano anche il reinserimento nella vita attiva di quel 30 per cento di donne che in Italia non rientrano nel mercato del lavoro dopo la maternità. Mentre è essenziale è che i contratti di lavoro per gli adolescenti fino a 18 anni abbiano un contenuto prevalentemente formativo.
Altri paesi dell’Unione hanno fatto importanti passi in avanti nella formazione permanente che consente di aggiornare le proprie competenze oltre gli anni degli studi scolastici: formazione per i giovani che interrompono gli studi per un lavoro spesso non qualificato e che rischiano così di condannarsi alla serie B per il resto della vita, per i lavoratori adulti che prima ancora dei cinquant’anni rischiano l’espulsione perché hanno conoscenze obsolete, per le e donne che interrompono la vita lavorativa per crescere i figli o per altre ragioni di cura familiare.
La trasparenza su chi paga e chi riceve, infine, è condizione necessaria per migliorare il welfare. Proponiamo di introdurre una contabilità generazionale delle spese sociali che renda chiaro a tutti come la spesa sociale viene ripartita per età.
Il Welfare che libera tempo. I genitori hanno la necessità e il diritto di non sacrificare il lavoro per la famiglia. E i bambini hanno bisogno del tempo dei genitori. I paesi del Nord Europa si distinguono per il loro più alto tasso di occupazione femminile e per il più alto tasso di natalità rispetto all’Italia ed altri Paesi dell’Europa del Sud. Ci sono pratiche che da loro dobbiamo imparare e di esse fanno parte interventi mirati per aiutare donne e uomini a conciliare lavoro e cura di sé e della famiglia, vita professionale e vita privata, attraverso reti di servizi, dagli asili al pieno tempo scolastico, e reti di cooperazione sociale e collettiva, che liberano le persone “producendo tempo”.
Il Welfare che incoraggia la mobilità. Oggi in Europa muoversi, cercare lavoro in un paese diverso è difficile e spesso non è la lingua l’ostacolo maggiore. Ma della mobilità abbiamo bisogno non solo per ragioni economiche (abbiamo fortissimi divari nei livelli di produttività, dunque possiamo diventare molto più ricchi con una diversa distribuzione territoriale della forza lavoro), ma anche politiche. I cittadini che hanno vissuto in più di un paese dell’Unione sono quelli maggiormente favorevoli all’integrazione politica in Europa.
Il Welfare per chi ha diritto all’assistenza. Nessuno sarà lasciato solo. Uno Stato sociale che sia davvero universale ed inclusivo non esaurisce i suoi compiti nell’aiutare le persone ad aiutarsi. C’è infatti chi - o perché troppo anziano, o perché troppo isolato, o perché semplicemente malato o gravato da handicap permanenti — non saprà che farsene della formazione permanente, degli incentivi a trovare lavoro, dei servizi che “liberano” il tempo. E’ questa una condizione che col passare degli anni colpisce soprattutto le donne, che vivono più a lungo, rimangono sole con redditi spesso bassi, sono esposte alla violenza. Il fondamentale diritto ad una vita serena e dignitosa va assicurato anche a loro.
Il potenziamento dei servizi sanitari e l’assistenza domiciliare e non degli anziani sono diventate, anche in considerazione dell’evoluzione demografica dei prossimi anni, vere e proprie emergenze sociali. E davanti ad esse le istituzioni pubbliche di tutta Europa devono abituarsi, o riabituarsi, a considerare i destinatari dei servizi non soltanto come consumatori, ma come cittadini che fanno valere diritti essenziali di cittadinanza. A questo fine, reti integrate fra pubblico e privato, basate ovunque possibile sul perno ‘essenziale dell’impegno volontario del terzo settore, dovranno offrire insieme più risorse, più energie, più libertà di scelta per gli stessi cittadini.
Europa potenza civile. In un’epoca dominata da rischi globali e dalla minaccia del terrorismo internazionale, gli europei chiedono anzitutto all’Europa più sicurezza e più protezione. E sappiamo che per averle occorre attorno a loro un mondo di pace e di maggiore giustizia.
Sanno che l’Europa è stata in grado di offrirla la pace e lo ha fatto attraverso l’integrazione politica ed economica, che è l’eredità principale dell’ultimo mezzo secolo di storia europea. Attraverso l’Europa, gli Stati nazionali hanno rinunciato alla guerra e posto le basi di uno sviluppo economico e democratico che ha gradualmente coinvolto l’intero Continente. L’allargamento ai paesi dell’Europa centro-orientale, infatti, è il compimento di questo processo.
Tutto questo, però, non è più sufficiente. Gli europei sanno anche — e gli attentati a Madrid lo hanno drammaticamente ricordato — che la loro pace non reggerà se non riuscirà a fare progressi anche altrove. L’Europa non è già più un’isola di stabilità; e lo sarà sempre meno se il mondo attorno ai suoi nuovi confini continuerà a precipitare nei conflitti e nella arretratezza. In un mondo globale, l’insicurezza esterna diventa la nostra stessa insicurezza, la fine della pace interna.
L’Europa deve quindi imparare ad occuparsi del mondo per riuscire ad occuparsi di sé: dovrà diventare una potenza civile con una influenza globale e non solo regionale.
I valori condivisi dell’Unione rappresentano la nostra identità collettiva: la democrazia come metodo di buon governo, la sicurezza attraverso l’integrazione, sono tratti fondanti dell’esperienza comunitaria. Un’esperienza che i paesi europei non devono dimenticare, dividendosi nuovamente di fronte alle sfide globali; ma devono invece valorizzare, trasferendola in un’azione internazionale comune.
Europa-potenza civile non significa una politica estera priva di strumenti militari. Significa una potenza che sceglie di integrare interessi e valori; e che subordina l’uso della forza all’esterno, necessario in casi estremi, ad obiettivi politici democratici, alla difesa dei diritti umani e a regole multilaterali. Proteggere i diritti umani e rafforzare il diritto internazionale sono in realtà l’unica speranza per dare a un mondo che appare fuori controllo, e dominato da rischi globali, speranze di sviluppo, di giustizia, di stabilità. Costruire un multilateralismo efficace è per l’Europa potenza civile un obiettivo strategico da raggiungere e insieme una condizione per esistere sul piano internazionale.
Se parlerà con una voce sola, anche se non sempre unica, l’Europa potrà incidere: lo dimostra il peso europeo nella Organizzazione mondiale del Commercio. Se parlerà con voci nazionali in contrasto, l’Europa non peserà affatto.
Per contare di più sarà importante, anche, poter contare su industrie della difesa maggiormente integrate. Investire nella creazione di un’industria della difesa europea non significa essere guerrafondai: significa piuttosto dare all’Europa l’opportunità di giocare un ruolo indipendente nella soluzione dei conflitti mondiali, senza restare alla mercé degli Stati Uniti.
Contro il terrorismo. Il terrorismo internazionale, nel tragico nesso che unisce l’11 settembre americano all’ 11 marzo europeo, costituisce per i popoli di entrambi i lati dell’Atlantico un terribile nemico comune da contrastare con uguale determinazione e convinzione. Questo non significa che i paesi europei, a cominciare dall’Italia, debbano per ciò stesso appoggiare le scelte internazionali compiute dall’amministrazione Bush. Compito dell’Europa, e di una nuova politica estera italiana, è anzi di puntare a costruire una strategia multilaterale più efficace di lotta al terrorismo.
L’Europa potenza civile deve attuare concretamente una strategia unitaria contro il terrorismo. Deve evitare rimozioni, ma deve anche evitare l’illusione che il terrorismo internazionale possa essere sconfitto solo con la forza militare. E deve riuscire a chiarire in che modo combinerà maggiore sicurezza e continua difesa delle libertà democratiche. Se le società democratiche sono bersagli privilegiati del terrorismo internazionale, è solo mantenendo le nostre caratteristiche di società democratiche che possiamo sconfiggerlo.
La lotta al terrorismo è la priorità: ma richiede, proprio per potere avere successo, che le tensioni politiche e sociali esistenti sul piano internazionale vengano affrontate e non trascurate. E’ la priorità che sottolinea l’importanza delle altre priorità: la lotta alla povertà, alle malattie, all’emarginazione, all’esclusione dalla formazione e dalle risorse.
L’Europa deve credere in una battaglia globale e a lungo termine per l’uscita di milioni di persone da condizioni di miseria. E deve trovare, per poterla vincere, nuovi e più efficaci strumenti di azione: deve coinvolgere il settore privato negli aiuti allo sviluppo (per esempio, con meccanismi simili all’8 per mille); deve azzerare il debito degli Stati più poveri, deve liberalizzare i mercati e abolire un protezionismo agricolo che d’altra parte impedisce una riforma indispensabile del bilancio ‘dell’Unione, deve essere in prima linea per l’affermazione dei diritti democratici là dove essi sono negati, per i diritti delle donne (una chiave essenziale per la modernizzazione delle società islamiche), per i diritti dei bambini e degli adolescenti e contro il loro sfruttamento nel lavoro, contro la prostituzione minorile, la tratta, l’abuso, la violenza, il loro uso nelle guerre.
Nei rapporti transatlantici, vanno discusse le condizioni perché possa esistere una “comunità d’azione” transatlantica rinnovata, non puramente rivolta al passato ma in grado di identificare le priorità comuni di oggi. Storicamente, la politica americana ha avuto successo quando è stata internazionalizzata, coinvolgendo anche l’Europa: questo significa che un ruolo globale più solido dell’Europa offre un’alternativa multilaterale agli Usa che fondamentalmente riflette gli interessi sia degli americani sia degli europei.
Ciò vale anche per il futuro del Medio Oriente e del Mediterraneo, e cioè della vasta area che costituisce - assieme ai Balcani e all’Asia centrale - una priorità geopolitica decisiva dell’Europa allargata. L’allargamento, che già è andato oltre i loro confini, è destinato ad includere gli stessi Balcani, mentre nei confronti di altri paesi vicini l’Europa dovrà creare l’anello degli amici, attraverso speciali rapporti di partnership privilegiata. Verso il mondo arabo essa dovrà impegnarsi per rispondere alle tre ragioni principali che secondo i rapporti delle Nazioni Unite sono alla base del suo mancato sviluppo: assenza di libertà, esclusione delle donne dalla vita civile e scarso accesso alla conoscenza. Un ampio settore del mondo arabo è tuttavia in movimento, alla ricerca di spazi di libertà e di crescita. Questo fermento va incanalato, favorendo la creazione di una rete tra associazioni dei paesi dell’area, e incentivando così la nascita di sindacati e partiti politici, in quei paesi dove le uniche forme assembleari avvengono nelle moschee. E’ vitale, per il destino del mondo arabo e per l’integrazione di milioni di persone nelle società europee, che l’Islam moderato prevalga sul fondamentalismo.
E’ altrettanto vitale, per il futuro di quest’area, che i conflitti ancora aperti vengano risolti in modo pacifico ed equo: l’Europa ha un interesse comune alla soluzione del conflitto Israelo-palestinese, sulla base di due Stati reciprocamente sicuri; alla stabilizzazione di un Iraq democratico e governato dai propri cittadini; alla graduale evoluzione di un Iran che rinunci a dotarsi di armi nucleari.
La democrazia non deve essere imposta dall’alto, ma deve essere un processo che veda protagonisti gli arabi stessi. Non c’è nessuna vera incompatibilità tra Islam e democrazia, e l’avvicinamento della Turchia all’Unione potrà dimostrarlo. Il conflitto, piuttosto, è tra regimi autoritari e stato di diritto.
In nome di un multilateralismo efficace, l’Europa deve contribuire ad una riforma complessiva dell’ONU — composizione del Consiglio di sicurezza, criteri di intervento, strumenti a disposizione — che permetta di fondare sulla forza del diritto internazionale azioni collettive a difesa della sicurezza e dei diritti umani. La responsabilità di proteggere i popoli, che è parte. integrante degli obiettivi della Carta delle Nazioni Unite, deve prevalere sulle barriere degli Stati nazionali. In un sistema di sicurezza collettiva adattato alle sfide del dopoguerra fredda, le Nazioni Unite, l’UE e la NATO si rafforzeranno a vicenda.
Una leadership politica europea. La prima condizione perché l’Europa riesca a compiere questo salto di qualità — da area regionale a potenza civile globale — è la convergenza e coerenza delle posizioni nazionali: un “ministro degli esteri” europeo, come disegnato dal Trattato costituzionale, costituisce un elemento-chiave in tal senso. La Costituzione europea permette quindi dei passi avanti importanti, ma che andranno consolidati attraverso dei passi ulteriori: creazione di un servizio diplomatico europeo, integrazione crescente delle forze militari, armonizzazione delle posizioni nelle Nazioni Unite, fino a un seggio europeo nel Consiglio di Sicurezza.
La seconda condizione di una Europa attore globale è la chiarezza dei valori e dei principi internazionali su cui orientare la posizione dell’Unione: giustizia, pace e democrazia non possono più rimanere confinati alle politiche nazionali. L’Unione europea non può quindi abdicare alla responsabilità di difendere questi valori, quando vengano violati diritti umani fondamentali, anche attraverso l’uso della forza sotto mandato delle Nazioni Unite: ma la forza sarà sempre, per l’Unione, una risorsa ultima.
La natura complessa dei processi di globalizzazione richiede, infatti, forme di intervento ad ampio spettro e con strumenti diversi ma integrati. Non si fronteggiano i grandi dilemmi legati all’evoluzione demografica e ai flussi migratori, al degrado ambientale, ai grandi divari di reddito e condizioni di vita, alle grandi reti criminali e al terrorismo con istituzioni parcellizzate e prive di bussole e di obiettivi davvero prioritari e comuni.
L’Europa, da questo punto di vista, ha almeno tre vantaggi comparati, che deve sfruttare al meglio: dispone di strumenti di azione e di influenza ad ampio raggio (dalla diplomazia al peso economico, dai legami culturali alla forte presenza nelle principali sedi internazionali); è forte di una sorta di “legittimità intrinseca” derivante dalla sua natura di organizzazione multinazionale democratica con una forte componente sopranazionale; e infine è parte integrante di una più ampia comunità di Stati e di popoli, che ha un enorme potenziale di influenza su scala mondiale.
Abbiamo di fronte a noi un mondo gravido di rischi, vecchi e nuovi; ma anche di opportunità. L’Europa è una tipo di potenza “adatta” per contribuire a trasformare i rischi in opportunità: per aiutare a governare, in modo equo e democratico, i processi di globalizzazione. Ma bisogna che l’Unione europea voglia farlo e che sia in grado di farlo, come del resto chiedono i cittadini europei.
La premessa indispensabile è una nuova leadership politica europea, che sia conscia di due verità molto semplici: nessuno degli Stati nazionali, preso singolarmente, è più in grado di esercitare una vera influenza all’esterno e quindi a proteggere i suoi cittadini all’interno; non ci sarà vera sicurezza europea senza sicurezza e giustizia globali.
Rimettiamoci al lavoro per la Costituzione europea. E’ questa la nostra carta di identità: quella che ci permette di indicare a tutto il mondo i valori in cui crediamo.
Con la Costituzione noi offriamo a noi stessi la possibilità di organizzare con decisioni condivise la nostra sicurezza e il nostro sviluppo. Ma è anche la maniera di dire al mondo intero che è possibile vivere concretamente, in un grande spazio di mezzo miliardo di persone, la democrazia, la sicurezza, lo Stato di diritto: garantendo con la nostra Carta fondamentale diritti e principi che valgono non solo per i nostri cittadini ma per ogni persona umana che si trovi nel nostro territorio.
L’Unione europea propone così un ordinamento politico che supera le divisioni fra gli Stati nazionali. Esso è un modello, già imitato, per una democrazia internazionale basata su regioni multistatali. Dimostra che non vi è una deriva incontrollabile alla globalizzazione, ma che la globalizzazione si può governare con politiche adeguate alle sue dimensioni. E soprattutto con un’azione politica costante dell’Unione che abbia al suo centro, come dice la Carta dei diritti approvata a Nizza, la persona. La Carta dei diritti costituisce una vera e propria carta di identità dell’Unione, perché disegna un modello sociale europeo diverso da altri propri dell’Occidente democratico -basti pensare al valore attribuito ai diritti sociali e al divieto assoluto della pena di morte- e permette una civile convivenza fra persone di diversa nazionalità, cultura, lingua e religione, assicurando a ciascuno il rispetto della sua identità della sua dignità, della sua libertà, della sua diversità. La lai delle istituzioni e di tutti i poteri pubblici è lo strumento per garantire equamente i diritti di ciascuno. E su tale garanzia è fondato lo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia comune dell’Unione.
Il progetto costituzionale elaborato dalla Convenzione non è fino in fondo quello che avremmo voluto e che avrebbe voluto la stessa Commissione Prodi. Eppure l’approvazione del progetto da parte della Convenzione rimane il segno di un nuovo inizio della comune impresa europea, da cui non si può più tornare indietro. Tutti sanno che le attuali istituzioni, pensate per una comunità di Stati molto più ristretta di quella che prospetta con l’allargamento, non sarebbero in grado di fronteggiare le sfide che attendono l’Europa fuori e dentro i suoi confini. D’altra parte, la prospettiva di club ristretti di Stati che decidono per tutti - cosa diversa dalle speciali “cooperazioni”, previste e in qualche caso auspicate dal progetto della Convenzione - ha il fiato corto, riflette un’epoca che è alle nostre spalle. Solo l’approvazione della Costituzione può evitare la paralisi decisionale dell’Unione.
Nessuno, alla Convenzione, ha pensato a un “Superstato” europeo. Al contrario, l’obiettivo che la Convenzione si è dato è stato quello di disegnare istituzioni concentrate su funzioni chiaramente delineate, in modo che la loro forza non contrasti con quella delle istituzioni nazionali, ma sia una risorsa comune a disposizione di tutti.
La grande, storica avventura dell’allargamento a 25 Stati, guidata dalla Commissione europea di Romano Prodi, si è rivelata ogni giorno di più una necessità più che una opportunità. Ma l’allargamento significa anche che l’Unione deve poter contare su istituzioni forti ma non rigide. Istituzioni che devono consentire la flessibilità necessaria per tenere insieme tutti. gli Stati membri intorno a comuni obiettivi, ma rispettandone i diversi ritmi di integrazione.
Il governo delle “differenziazioni” fa parte di questo nuovo ordinamento della Grande Europa, reso coerente e “uguale” dal grande quadro istituzionale unico: un solo Parlamento, un solo Consiglio, una sola Corte dì giustizia, soprattutto una sola, indipendente Commissione europea.
Rimettiamoci al lavoro per riportare l’Italia in Europa. E l’Unione europea in Italia.
IL LIBRO di Will Hutton ( Europa versus America. Perché la nostra economia è più efficiente e la nostra società più equa) costituisce un mosaico quasi perfetto della maggior parte, e certo per noi la più importante, delle tessere che compongono lo stato del mondo attuale. Ignora e non è succube dello "spirito dei tempi", togliendo così ogni banalità alle sue argomentazioni; stabilisce con vigore intellettuale e stilistico alcuni principi di riferimento, basati su vasta cultura e conoscenza approfondita della storia politica e delle idee dell’Occidente. Ogni prefazione o presentazione che non fosse un semplice invito alla lettura, potrebbe dunque rivelarsi superflua. Ma è difficile sottrarsi alla tentazione di indicare alcune osservazioni, risvegliate a latere della lettura, che riguardano la situazione soprattutto culturale italiana ed europea, oltre a qualche possibile minore divergenza di valutazioni critiche. Tutto ciò in ordine sparso o senza pretese organiche che risulterebbero in ogni caso inadeguate. Ed è perciò quel che farò.
Le tesi di Hutton sono un macigno che cade nella palude delle provinciali e stantie elucubrazioni di molti nostri autoproclamati riformisti di sinistra e di destra. Il riformismo nostrano è, infatti, spesso appiattito sull’esaltazione di un acritico e malinteso trapianto di istituti e ideologie proprie del nuovo capitalismo finanziario nordamericano, che nel "dio mercato", nella deregolamentazione, nell’unica regola posta dall’economia privata, nella privatizzazione del diritto, in cui tutto si affida alla volontà delle parti, hanno prosperato prima e sono naufragati poi con il fallimento della dittatura dei mercati finanziari. Mercati senza regole, senza freni e che obbediscono solamente alla volontà e agli interessi di individui sempre più spregiudicati. E tutto avviene in un gioco capace solo di creare squilibri difficilmente correggibili e irrimediabili ingiustizie sia a livello di economia mondializzata, sia nelle vicende di politica internazionale. La presunta razionalità assoluta dei mercati, già storicamente contestata da Fernand Braudel, sta alla base di queste nuove tendenze e costituisce peraltro l’armamentario intellettuale delle tesi più conservatrici e retrive oggi in voga negli Stati Uniti.
Anticipiamo parte della prefazione che ha scritto per il volume di Will Hutton Europa versus America. Perché la nostra economia è più efficiente e la nostra società più equa (Fazi, pagg. 400, euro 21,50 con un saggio di Massimo Panarari) il libreria da domani
Quelle, per intenderci, che hanno portato al fallimento di Enron, Arthur Andersen, WorldCom e via dicendo, e, mentre scrivo, al ben più grave fallimento del vertice di Cancun.
Singolare destino quello del nostro finto riformismo che trova radici culturali solo nel superficiale conservatorismo d’oltreoceano, contro il quale l’autore dispiega una sfilata di critiche severe con una sequela di argomenti che mettono a nudo la società americana.
La seconda lezione che Will Hutton ci impartisce riguarda l’impostazione europea dei problemi ed è una lezione che viene da un cittadino del Regno Unito, paese che conta il maggior numero di euroscettici.
La mondializzazione dell’economia, e più genericamente i fenomeni, non solo economici, che si qualificano nella globalizzazione, comportano un superamento dello Stato-nazione. A una cultura esclusivamente americana, Will Hutton contrappone un bagaglio di alternative, che affondano radici profonde nella civiltà europea. Queste radici si sono sviluppate nell’humus del Cristianesimo, formalizzato o meno nella nuova Costituzione europea, in principi di solidarietà che trovano la loro filosofia di base nelle spinte del socialismo democratico. Radici, infine, che uniscono tutti gli Stati membri dell’Unione Europea e che si contrappongono al selvaggio individualismo americano, del quale questo libro ci offre una descrizione precisa e a volte spietata sia nei confronti della vita interna della società americana (e perché non ricordare anche che oltre cinque milioni di americani sono rinchiusi nelle carceri?), sia della politica estera del governo USA. Entrambe sono accomunate da utilitaristiche quanto grossolane - ancorché oggi vincenti - credenze neoconservatrici, le quali sono riuscite a sommergere almeno parzialmente la pur nobile tradizione di tutela delle libertà individuali e dell’associazionismo che Alexis de Tocqueville aveva individuato come la più solida piattaforma della democrazia americana.
La contrapposizione fra la cultura europea e quella conservatrice e dominante d’America risulta impietosa. La ricostruzione attenta dell’influente pensiero politico di Robert Nozick svela le profonde ingiustizie sociali, conseguenziali a un’ideologia che considera qualsivoglia intervento pubblico di giustizia redistributiva nei confronti delle classi meno abbienti come una minaccia allo Stato di libertà che ogni individuo deve considerare come l’unica suprema virtù da tutelare, per evitare derive totalitarie.
La tesi keynesiana che gli uomini pratici, che pretendono di essere liberi da qualsivoglia influenza intellettuale, sono in genere schiavi di qualche defunto economista è ancora corretta. E lo è anche perché lo stesso Keynes considera sul medesimo piano le idee degli economisti e quelle dei filosofi politici.
Cade qui un riferimento alla suprema ipocrisia, decantata da Bernard de Mandeville nella sua opera La favola delle api del 1728, quella cioè che consiste nel fingere di fare la felicità dei bisognosi rifiutando loro ogni assistenza. Ma certamente la «mano invisibile» di Adam Smith o il laissez-faire dei fisiocrati che presuppongono un’armonia e un ordine naturale degli interessi privati accompagnano questa visione dell’ideologia conservatrice americana, che sta permeando non solo la storia contemporanea del capitalismo, ma gli stessi meandri di una globalizzazione condotta secondo profonde sproporzioni fra paesi poveri e paesi ricchi, come Joseph Stiglitz ha dimostrato una volta per tutte.
Certamente non sono solo gli europei, aggiunge poi Will Hutton, ad avere il monopolio dell’idea di eguaglianza e di giustizia sociale. Anzi, contro il conservatorismo degenerativo del capitalismo finanziario che permea la vita materiale e intellettuale americana, si erge l’elaborazione filosofica di un nuovo contrattualismo sociale da parte di John Rawls, il quale nella sua Teoria della giustizia del 1971, vede la stipula di quel contratto sociale nella originaria posizione di chi è condizionato da un «velo di ignoranza» e non conosce nulla né della sua vita passata né delle chance future, ma desidera vivere in una società nella quale le libertà di tutti siano rispettate e il principio di uguaglianza imponga che sia favorito il più debole. Questa teoria è decisamente influenzata dalla più autentica tradizione europea e si contrappone decisamente alla vincente filosofia minimalista, estranea a qualsiasi principio di welfare state teso a garantire libertà e uguaglianza.
Il conservatorismo ha avuto il suo centro di irradiazione nelle grandi corporation che non solo hanno portato l’intero sistema economico a una morbosa dipendenza da Wall Street, ma hanno ridotto la cultura totalizzante della società americana alle valutazioni di Borsa e ai sofisticati meccanismi del capitalismo finanziario.
Le ideologie che si sprigionano dalla formuletta della ricerca del «valore per gli azionisti» (shareholders’ value), assurta a unico obiettivo della corporation, hanno portato alla grande rinuncia a ogni principio che non sia quello del profitto, sia nella vita economica che in quella politica. Manca qui, forse, il rilievo che le vicende delle corporation, pur così attentamente esaminate, hanno subìto il distruttivo paradosso di essere spinte prima a uno sviluppo inarrestabile per poi essere travolte dalla stessa matrice, cioè il conflitto di interessi generalizzato che ha colpito, senza che se ne sia trovato un rimedio efficace, i gangli vitali della civiltà materiale americana.
La dittatura dei mercati finanziari, infiacchiti dal virus del conflitto di interessi, ha distrutto buona parte degli altri poteri dello Stato e sta minacciando ogni principio della tradizionale grande democrazia americana, privandola di quell’equilibrio che un sistema di controlli e contrappesi (checks and balances) garantiva in modo esemplare. Le regole dei commerci internazionali sono ormai elaborate dalle grandi corporation multinazionali. Il governo americano e gli altri governi coinvolti nel processo di globalizzazione, all’insegna del libero mercato, seguono, e dove possono favoriscono, il nuovo centro di potere sovranazionale, svincolato da qualsiasi limite o condizionamento politico.
Non è un caso che anche i più acuti intellettuali americani inizino a paventare e a denunciare la perdita o l’offuscamento degli stessi diritti di libertà, che possono velocemente portare a una zoppa democrazia illiberale. Citerò solo, rinviando ad esso, il libro di Fareed Zakaria, The Future of Freedom, del 2003. Inoltre, basterà ricordare la mancanza di ogni diritto alla difesa e al giusto processo ai presunti terroristi rinchiusi nella base americana di Guantanamo.
Insomma, la strategia intellettuale del neoconservatorismo americano che ha avuto in Robert Nozick l’estremo e più accreditato profeta, sembra ingoiare se stessa in una sorta di irreversibile cupio dissolvi. Non mancano neppure nel libro gli accenni ai tentativi da parte degli Stati Uniti di riportare indietro la situazione, come se queste marce a ritroso fossero possibili in una stagione storica di movimenti tellurici mai sperimentati prima con tale accelerazione. E qui potremmo citare da ultimo il tentativo di rimettere in pista una legislazione che aveva avuto in altre epoche - e il riferimento d’obbligo è alla crisi del 1929 col New Deal roosveltiano - un indiscusso successo. Ma il Sarbanes-Oxley Act del 2002 frettolosamente approntato dal Senato americano subito dopo lo scoppio dei grandi scandali finanziari sopra citati, si è subito rivelato un’arma spuntata e inefficace per combattere il virus del conflitto di interessi che insidia, ancora oggi indisturbato, la dittatura dei mercati finanziari. La possibilità del passo indietro è inesorabilmente impedita dall’espansione dei processi di globalizzazione che hanno mostrato finora una caratteristica univoca, quella cioè di essere null’altro che un’appendice del capitalismo finanziario americano e della sua politica.
Da un lato il processo di globalizzazione, dettato dalla dittatura dei mercati finanziari, e dall’altro l’abbandono, all’interno di singoli Stati membri dell’Unione, delle loro radici culturali e storiche, hanno condotto spesso anche in Europa a una sorta di scimmiottamento delle regole e dell’ideologia del conservatorismo americano. L’autore parla del micidiale abbraccio dell’orso che stringe la Gran Bretagna, sempre più contigua alle direttive d’oltreoceano. Ma la situazione italiana sembra ancora peggiore.
E veniamo dunque al trapianto in Europa delle mode americane.
Inizio subito con qualcuno dei miti che costituiscono il cascame dell’ideologia del «dio mercato» senza regole. Primo fra questi quello che va sotto il nome di corporate governance. Più di quaranta codici di corporate governance sono stati elaborati nei paesi dell’Unione Europea e ognuno di essi, come ho cercato di dimostrare altrove, ha rivelato inefficacia e inconsistenza. D’altra parte negli Stati Uniti le cosiddette regole di corporate governance hanno dimostrato la loro assoluta inutilità di fronte alle crisi finanziarie di Enron e di quelle che l’hanno seguita: inutilità quasi pari a quella dei codici etici.
Ma vi è una ragione di più per rifiutare il trapianto Europa delle mode americane di corporate governance. Basta infatti rendersi conto che l’esigenza di avere una disciplina societaria, ancorata, più che a norme, a regole di autoregolamentazione, è dovuta alla situazione del tutto particolare presente negli Stati Uniti. Va infatti considerato che il diritto societario americano è di appannaggio dei singoli Stati, mentre il diritto dei mercati finanziari è federale. Siccome le leggi statali lasciano la massima libertà agli statuti societari nel disciplinare ad libitum i rapporti fra gli organi sociali (assemblee dei soci, amministratori, manager), il raccapricciante risultato è stato che ogni società quotata aveva una disciplina diversa, a seconda dello Stato in cui era incorporata e degli articoli del proprio statuto creati in totale libertà. Dopo l’ubriacatura delle scalate societarie degli anni Ottanta, si rese necessario cercare un minimo di uniformità per le società quotate che facevano appello al pubblico risparmio, alla ricerca di una sorta di correttivo alla deriva nei mercati finanziari della deregolamentazione selvaggia. Ed ecco che nacquero le regole di corporate governance, le quali, per la maggior parte, quando non si limitano ad affermazioni generiche, sono già contenute nelle legislazioni societarie europee. Il trapianto in Europa non solo è inutile, ma anche dannoso, perché mina il rigore normativo tradizionale al diritto europeo e favorisce l’affievolimento delle norme giuridiche ad esclusivo vantaggio dell’autoregolamentazione contrattuale degli interessi privati all’insegna del neoconservatorismo liberista. Non è però un caso che la recente riforma del diritto societario italiano sia stata impostata sulla piena libertà e autonomia statutaria, con un impianto che si rivela intempestivamente ispirato all’ideologia neoconservatrice americana, nel momento in cui, fra l’altro, viene abbandonata negli Stati Uniti col Sarbanes-Oxley Act del 2002 e, soprattutto, dal diritto comunitario europeo. [...]
In conclusione, quella di Will Hutton è una ricerca che affonda i suoi artigli nelle più riposte radici della cultura europea. Più riposte perché vive soprattutto in quei settori che l’opinione pubblica anche colta tende a trascurare. Ed è ancora un inno all’Europa, per il quale dobbiamo essere grati all’autore, che ci ha consegnato una testimonianza di giustificato ottimismo sul nostro destino.
L’Assemblea Costituente è stata guidata da grandi giuristi che, oltre a essere giuristi di chiara fama, avevano una dote fondamentale, più importante, a mio avviso, dell’essere giuristi famosi: quella di non avere mai piegato la schiena di fronte alla dittatura. Costoro hanno scelto e per così dire, fatto nascere, una democrazia parlamentare.
La forza del Parlamento invece, se passasse questa riforma verrebbe fortemente menomata. La formula per l’elezione del capo dello Stato era, all’inizio, semplice, tipica di una democrazia parlamentare a tutti gli effetti.
Mentre questa assemblea che si andrebbe costituendo poco alla volta renderà difficile l'elezione del capo dello Stato, e ho la sensazione - non voglio fare il profeta, perché non è il mio mestiere - che trovare un denominatore comune tra i parlamentari, il che non è facile neppure in situazioni ottimali, possa diventare pressoché impossibile.
Secondo quanto è previsto dalla Costituzione, attualmente, è il Parlamento che dà la fiducia al Governo ed è il medesimo Parlamento che lo licenzia, invece secondo questa proposta di riforma, il premier non ha bisogno di chiedere la fiducia, perché essendo stato eletto e designato, presenta il programma, la squadra di governo e il gioco è fatto.
In questa ipotesi di riforma, si aggiunge che se però il premier dovesse chiedere la fiducia, dovrebbe chiederla non su un singolo tema, ma su tutto e nell'eventualità in cui non dovesse ottenerla, allora dovrebbe intervenire il capo dello Stato e sciogliere le Camere. Ma, come voi capite, in questo modo il capo dello Stato diventa una figura di nessun rilievo, metaforicamente si potrebbe dire che “il capo dello Stato, si trova nella condizione di un uomo messo in canottiera”, perché nel momento stesso in cui il premier risulti sfiduciato, non c'è nessuna altra soluzione se non lo scioglimento delle camere, di conseguenza il decreto di scioglimento potrebbe firmarlo chiunque, anche un commesso della presidenza del Consiglio, o chiunque altro, a tal punto il ruolo del capo dello Stato risulta inficiato!
Ma non si creda che io sia così critico per il fatto che ora è in carica un premier che certamente non riscuote la mia fiducia, in realtà il problema è più complesso e con una tale riforma non mi sentirei sicuro per la nostra democrazia neppure per il futuro, chiunque fosse il premier! Come è possibile pensare che il capo dell'esecutivo possa sciogliere il Parlamento? Questo è un atto di guerra! Si badi, nella proposta di legge, non si afferma che a sciogliere le Camere è il Primo Ministro, anzi su questo specifico punto si raggiunge un fariseismo incredibile, perché si afferma che il presidente del Consiglio, anzi il Primo Ministro, chiede lo scioglimento “sotto sua esclusiva responsabilità” e il capo dello Stato deve limitarsi a ratificare una decisione già presa da altri. Anche a una analisi sommaria appare chiaro che l'istituto del capo dello Stato, come garante della vita parlamentare, appare del tutto svuotata di significato. Mi è capitato di sentire dei commenti subito dopo che era stata presentata questa proposta, da parte di alcune persone che sembravano voler sfuggire al caldo, ma pare che non siano sfuggiti e dicevano esattamente così: «Con questa proposta di legge viene fortemente rafforzata la funzione di garante del capo dello Stato»! Giorni fa, parlando ai magistrati ricordavo l'esperienza all'Assemblea Costituente: «Eravamo 555 all'Assemblea Costituente, certo si è fatto un lavoro incredibile di mediazione» mentre ora si propongono soluzioni che stravolgono totalmente la Costituzione, si arriva persino a presentare proposte che risultano tragicomiche. Infatti si dice che il Senato per votare deve avere la maggioranza, ma si deve, nel computo, tener conto dei soli membri eletti, come a dire che i senatori a vita scelti dal capo dello Stato non hanno sufficienti facoltà intellettuali per votare! È come se il capo dello Stato, pensando di nominare qualcuno Senatore a vita, lo chiamasse e gli dicesse: «Guardi, io vorrei nominarla senatore a vita, lei è un pittore famoso, lei è un commediografo, lei è un poeta, lei è uno scrittore, e per questi suoi meriti intellettuali può intervenire su grandi temi, può essere una voce veramente importante nel momento in cui c'è bisogno di fare grandi scelte, ma sappia che quando poi si vota, lei non conta, è come se non ci fosse!». Mi chiedo, se la situazione è effettivamente questa, come si può dire che in questo modo si rafforza la posizione del capo dello Stato?
Mi è capitato, in un incontro con tre o quattro amici, sere fa, non per scelta mia, c'era qualche altra persona che manovrava il televisore, di sentire l'intervista del vertice responsabile di Forza Italia che non ha esattamente il dono di un eloquio garbato. Ha descritto l'Italia dicendo che mai era riuscita a contare nella politica internazionale e adesso invece ha un peso incredibile! Di fronte ad affermazioni di questo genere non c'è bisogno di nessun commento!
Riguardo ai girotondi, il mio pensiero potrà apparire un po' semplicistico, eppure a mio parere ritengo estremamente positivo il fatto che la gente si interessi, che intervenga nel dibattito politico, perché le democrazie vivono in proporzione di quanta fiducia e partecipazione raccolgono, se si occupano di politica persone di altissimo valore, ma numericamente poche, allora la democrazia è estremamente debole.
In generale, mi pare importante che si riesca a raccogliere le firme di persone nuove, per così dire conquistate alla causa e che hanno manifestato fino ad ora idee diverse, ma se sono valide e coraggiose ben venga il loro contributo, ben vengano anche coloro che appaiono dubbiosi e tormentati, che non sono pochi, ne ho trovati tanti anche nella mia città, perché ci sono persone che sono pentite, però occorre fare attenzione, perché spesso da parte di costoro si sente dire, «basta, mai più, mi hanno portato via il voto, non pensavo che si sarebbe arrivati a tanto, non li voterò mai più!», poi questo stato di grazia e di meditazione si esaurisce e queste stesse persone dicono: «ma questa sinistra, tutti in guerra uno contro l'altro!». Con questo sistema della rissa continua non si potrà migliorare la situazione.
Infatti di fronte ad una male occorre chiedersi come evitare che aumenti e cercare di estirparlo, lottando uniti. Questo è il punto.
Nel momento in cui esplode una malattia, i bravi medici cercano in primis delle soluzioni per prevenirla e per bloccarla, poi cercano la cura più idonea. In politica non è molto diverso. Sarà forse una proposta semplicistica, ma la lunghissima esperienza, sono al cinquantottesimo anno di vita politica, mi suggerisce questo: è sufficiente avere una sola idea forte ed essere disposti a viverla e ad attuarla. Questo è davvero importante, questo significa collaborare, questo significa essere uniti.
Non mi sembra neppure opportuno optare per formule troppo vincolanti, perché poi realizzarle è difficile e diventa faticoso dimostrare che si è comunque uniti, anche se su qualche punto si è in disaccordo.
Evitiamo quindi di apparire deboli sotto questo profilo e che certe divisioni naturali siano strumentalizzate e si possa essere accusati di essere sempre divisi, tenendo anche conto che è infinita la forza di chi ha in mano tutti i mezzi di comunicazione e quindi è facile far dire ai media: «ecco, guardate sono già tutti divisi»…
Vorrei sperare - e ho finito e vi ringrazio - che di fronte a questa riforma ci siano coloro che, pur appartenendo ad orizzonti politici diversi, provenendo dall'esperienza democristiana, socialista, laica, religiosa, abbiano il coraggio, la forza e la nettezza di essere conseguenti, perché temo molto, proprio a causa della mia lunghissima esperienza, quella che è una delle vocazioni più invincibili, cioè la vocazione ad essere servo. Mi viene sempre il terrore che questa vocazione finisca per prevalere e che tutte le impostazioni teoriche si svuotino di significato e, grazie a due o tre avverbi, sia possibile passare dall'altra parte e allinearsi con il più forte. (…) Cerchiamo di essere ragionevolmente ottimisti, perché presentarsi col tono della sconfitta è sbagliato, ma occorre avere un'idea chiara: e affermarla con coraggio: non siamo, con l'aiuto di Dio, assolutamente disponibili a cedere in nessun modo.
Questo intervento sulla riforma dello Stato è pubblicato dal n. 99 di “Critica liberale”, il mensile della sinistra liberale diretto da Enzo Marzo (
info@criticaliberale.it)
QUALCUNO del centrodestra, forse Bondi con quella sua faccia da omino di burro che portava Pinocchio e Lucignolo nel paese dei balocchi, ha apostrofato l´opposizione pochi giorni fa dicendo: «Dovete smetterla di considerarci inadatti a guidare il paese e di pensare che voi e soltanto voi abbiate questo compito affidatovi dal destino». Io non so se nelle file dell´opposizione ci sia veramente chi ritiene che la sua parte abbia ricevuto quell´investitura quasi per diritto divino. Non credo, ma se c´è e se la pensa in questo modo sbaglia di grosso. Ma che questa destra italiana, pur sostenuta da un cospicuo consenso elettorale, sia strutturalmente inadatta a guidare la politica d´un grande e complesso paese europeo, lo credo anch´io. E non perché difettino nella maggioranza parlamentare persone degne per moralità, buoni studi e vivace intelligenza, ma per una ragione più profonda: questa maggioranza non ha alle sue spalle una struttura sociale portatrice di valori, di costumanze e di interessi che costituiscono il terreno fertile nel quale la rappresentanza politica può mettere a dimora le sue radici. Manca una classe che, sia pure partendo da una propria visione del bene comune, esprima una cultura adeguata a interpretare l´interesse generale e a rappresentarlo politicamente.
Questa lacuna spiega il fallimento della politica berlusconiana e il progressivo sfaldarsi della maggioranza parlamentare dopo appena due anni e mezzo dalla vittoria elettorale del 2001; spiega l´occasionalità delle scelte compiute, la loro frequente reversibilità, l´ossessione scompaginante dell´eventuale perdita del potere poiché il potere si è dimostrato l´unico collante capace di tenere insieme una coalizione elettorale senza radici.
La destra di Fini, i cattolici moderati di Follini, la stessa Lega, vantano almeno una loro sia pure parziale rappresentatività sociale; ma Forza Italia no, le cosiddette partite Iva non esprimono valori comuni e tanto meno comuni interessi. E non è affatto casuale che le crepe dell´attuale maggioranza si siano rivelate proprio in quelle terre del Nordest dove la piccola imprenditoria e le ditte artigiane hanno la maggiore densità sul territorio.
Manca insomma una borghesia degna del nome, che abbia non solo la capacità di condurre i propri affari ma anche quella di farsi carico degli interessi del paese e di esprimere un´egemonia culturale senza la quale la rappresentanza politica galleggia nel vuoto, soggetta a tutti i venti delle cangianti emozionalità e alla pressione di tutte le lobby e di tutte le corporazioni.
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Per la verità la lacuna borghese non può essere imputata alla coalizione berlusconiana poiché è un fenomeno di arretratezza che ha accompagnato la storia d´Italia per quasi i tre quarti del suo percorso. Soltanto la destra storica, quella dei Minghetti, e dei Sella, dei Ricasoli, dei Lambruschini, degli Spaventa, poté governare e costruire lo Stato unitario traendo la sua investitura da quella borghesia fondiaria che possedeva, a metà dell´Ottocento, i tre quarti della ricchezza nazionale.
Quella borghesia, dislocata soprattutto nel Centronord del paese, investì gran parte dei suoi profitti agricoli nell´ammodernamento delle sue aziende e nella commercializzazione dei suoi prodotti, impegnò il nascente Stato unitario da lei medesima guidato ad una politica di grandi infrastrutture nei settori delle acque e dei trasporti ferrati, promosse l´esproprio delle terre e dei benefici ecclesiastici avendo di mira l´estensione d´una borghesia agricola anche nelle zone del latifondo meridionale e sopportò infine senza fiatare il peso dell´imposta fondiaria che proprio in quegli anni fece affluire nelle casse dell´erario più del 50 per cento del gettito tributario totale.
Dopo di allora ci fu soltanto un´altra fioritura borghese che coincise con il quindicennio liberale di Zanardelli e di Giolitti e fu all´origine dell´industria italiana.
Il resto nella nostra storia unitaria è silenzio. La borghesia degradò da classe dirigente a potere assistito, delegando l´esercizio della politica e autoconfinandosi nella difesa dei propri interessi di categoria tutelati dai dazi, dalle commesse pubbliche, dai pubblici appalti trasformati in benefici, dall´accesso al credito bancario e dalle facilitazioni fiscali.
La lacuna borghese è stata dunque, salvo brevi intervalli, una costante della vita italiana. L´ultimo tentativo di soffiare sulle sue ceneri e risvegliarne un´ormai spenta vitalità fu effettuato da Ugo La Malfa che i residui dell´Italia borghese ignorarono o addirittura sospettarono di para-comunismo. Di lui si accorsero solo quando fu morto, ma allora evidentemente era troppo tardi anche perché la sua lezione non ha avuto successori.
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Senza una borghesia vitale, creativa, portatrice di cultura e d´un progetto politico realmente riformatore, una destra democratica ed europea non può nascere e infatti non è nata. Basta osservare il mediocre collateralismo della Confindustria di D´Amato e di Fossa per misurare il danno storico di quella lacuna.
Si dirà che la Democrazia cristiana, nel quarantennio durante il quale ha guidato lo Stato, ha esercitato il suo potere politico in rappresentanza della borghesia; ma non è vero, non è così. La Dc ha fortemente contribuito ad alimentare la piccola borghesia degli impieghi pubblici e para-pubblici, ha scambiato favori con la grande industria del Nord, ha tenuto a balia il capitalismo di Stato (verso il quale è forse lecito qualche rimpianto vedendo oggi all´opera i suoi successori privati), ha dato mano ai palazzinari e ha prosperato all´ombra dell´Italia parrocchiale.
Nelle condizioni date, la Dc è stata probabilmente il meglio del possibile, realizzando l´anomalia d´un partito di centro politicamente chiuso a destra e progressivamente aperto verso sinistra. Quando l´impalcatura è crollata si è avuta conferma che la sua classe dirigente era molto più avanzata della sua base la quale – come del resto la base del socialismo craxista – è quasi interamente rifluita sulla scia berlusconiana.
Si è parlato molto nei giorni scorsi di Giulio Andreotti in occasione della sua assoluzione dai reati che gli erano stati attribuiti, ma con una speciale attenzione alla sua opera di uomo politico e di uomo di Stato. A me è venuta in mente un´immagine che usai molti anni fa per definire la sua funzione nel panorama politico nazionale. Forse era un´immagine un po´ troppo colorita ma non voleva essere insultante, soltanto didascalica. Andreotti, dicevo allora e continuo a pensare adesso, ricorda i mitili o cozze che dir si vogliano, che prosperano nutrendosi con acque reflue e rendendole depurate dai bacilli che le inquinano. Funzione che in un certo senso fu svolta dall´intero partito, anche se alcuni di quei bacilli passarono in circolo con tutti i loro effetti inquinanti.
Oggi la barriera dei mitili non c´è più e il depuratore naturale delle acque reflue è venuto a mancare. Purtroppo si vede.
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Una borghesia seria e consapevole dell´ufficio che è tenuta a svolgere per poter esistere, non avrebbe tollerato che il governo del paese fosse nelle mani del solo vero monopolista esistente in Europa. Murdoch è più forte di lui in termini di fatturato ma non detiene monopolio in nessuno dei paesi nei quali opera.
Una borghesia seria e consapevole non avrebbe tollerato che il bilancio dello Stato fosse gestito da un commercialista funambolo che riesce a salvare l´erario dalla bancarotta vendendo in anticipo i ricavi dei cespiti tributari, liquidando il patrimonio pubblico, trasferendo furbescamente le spese dell´ultimo trimestre dell´esercizio al primo trimestre dell´esercizio successivo e aiutandosi con i riporti staccati (alias swap) stipulati col sistema bancario. Il tutto per mantenere aperta l´ipotesi d´uno sgravio fiscale in favore dei contribuenti più agiati, ancora di là da venire.
Una borghesia seria e consapevole non avrebbe sopportato un premier che si è autotrasformato in un cane da riporto al servizio di Bush e di Putin, mettendosi per sua scelta alla berlina di tutta Europa, sia di sinistra che di destra.
Ma una borghesia consapevole e seria non c´è, non c´è più, ammesso che vi sia mai stata.
Per questo una destra decente, moderata, europea, non esiste e tarderà molto a venire. Quella che poteva essere la sua rappresentanza politica è un carro di Tespi dove gli attori recitano senza copione. Improvvisano. Berciano.
Fanno le smorfie. Raccontano barzellette. Ma, lo ripeto, la colpa non è loro.
La sinistra, che pure non brilla, fu educata dalla classe operaia e dal Terzo Stato: un´educazione di cui per fortuna restano ancora le tracce.
I SONDAGGISTI più seri avvertono che in tutto il mondo democratico e in Italia in particolare le elezioni vengono decise non già da passaggi di voti da uno schieramento all'altro, bensì dai flussi tra astensionismo e partecipazione. Così è avvenuto (tanto per citare casi recenti) nelle ultime elezioni politiche in Germania quando Schröder si aggiudicò la vittoria sul filo di lana per la scelta del pacifismo e del non intervento nella guerra in Iraq e così è avvenuto due settimane fa in Spagna, dove la vittoria di Zapatero è stata assicurata dal rientro in gioco del 7 per cento di astenuti, in gran parte di orientamento socialista e pacifista.
Decisioni di questo genere sono prese di solito nelle ultime settimane o addirittura negli ultimi giorni che precedono il voto e possono essere quindi influenzate da avvenimenti dell'ultim'ora; tuttavia quella che comunemente si chiama "onda lunga" e cioè la tendenza di fondo in quella fase della società, gioca un ruolo rilevante, costituisce una predisposizione favorevole ad uno schieramento e contraria a quello avverso.
Da questo punto di vista il caso Zapatero è esemplare. Le bugie di Aznar sugli attentati dell'11 marzo furono la motivazione immediata che spinse centinaia di migliaia di elettori dall'astensione al voto per i socialisti mentre altrettanti elettori di Aznar decidevano di restarsene a casa; ma l'onda lunga del pacifismo delineatosi un anno prima in occasione della guerra irachena di Bush aveva predisposto il corpo elettorale in favore di quella scelta che fu poi realmente presa il 13 marzo.
Dimenticare questa verità di esperienza significa puntare soltanto sull'improvvisazione. In realtà significa sottovalutare la saggezza degli elettori, un errore grave per chi, partecipando, punta ovviamente alla vittoria della propria parte.
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Per una serie di ragioni che sono state ampiamente illustrate nei giorni scorsi e che quindi è ora inutile ripetere, Zapatero rappresenta in questa fase il braccio di leva decisivo per realizzare al tempo stesso tre risultati della massima importanza.
1. Porre gli Stati Uniti nella condizione di dover accettare e addirittura di promuovere una nuova risoluzione dell'Onu sull'Iraq che attribuisca alle Nazioni Unite un ruolo primario nella costruzione del nuovo Stato iracheno e nella gestione della sicurezza e dello sviluppo economico di quel paese.
2. Recuperare l'unità europea, frantumata dalla guerra irachena e di conseguenza avviare un confronto positivo tra Europa e Usa per la soluzione della crisi.
3. Render possibile a breve o meglio ancora a brevissima scadenza l'approvazione della Costituzione europea, bloccata tre mesi fa dalla Spagna di Aznar con la palese connivenza di Blair e di Berlusconi e l'altrettanto palese incoraggiamento della Casa Bianca.
Il peso che il nuovo governo socialista spagnolo sta già esercitando prima ancora di insediarsi al palazzo della Moncloa non dipende ovviamente dalle qualità del "cerbiatto" Zapatero (così lo chiamano amichevolmente i suoi amici e fan) che sono certamente notevoli ma non necessariamente eccelse, né dal peso della Spagna nel contesto dell'Unione europea, rilevante ma non determinante.
Con Aznar l'America di Bush era riuscita a dividere l'Europa, a paralizzarne le istituzioni e a promuovere la "coalizione dei volenterosi" accorsi per sostenere la guerra di Bush a dispetto delle violazioni della legalità internazionale e delle molte menzogne che l'avevano motivata. La sconfitta di Aznar sconvolge questo equilibrio e ne crea un altro per il semplice fatto di essere avvenuta. Quando due piatti della bilancia si equivalgono è sufficiente spostare un peso anche piccolo dall'uno all'altro per determinare il mutamento di tutte le condizioni preesistenti, ed è esattamente quanto è avvenuto a Madrid.
Del resto Colin Powell che ha fatto l'anticamera di quarantacinque minuti prima d'essere ricevuto da Zapatero impegnato nel suo studio a colloquio con Chirac, ha addirittura offerto al premier spagnolo di sottoporgli preventivamente il testo della risoluzione sull'Iraq che gli Usa si apprestano a presentare al Consiglio di sicurezza dell'Onu, nella speranza che sulla base di quel documento la Spagna non ritiri il suo corpo di spedizione.
Quanto all'Europa, il premier irlandese, presidente di turno dell'Unione, ha ottenuto un voto unanime dal vertice europeo sulla volontà dei Venticinque di arrivare all'approvazione della Costituzione entro il prossimo 30 giugno.
Il solo a borbottare il suo disagio è rimasto Berlusconi insieme al suo fedele scudiero degli Esteri, ma non pare che gli altri ventiquattro - Blair compreso - se ne diano gran pena.
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Approvare rapidamente la Costituzione europea è della massima importanza e non perché si tratti di un testo mirabile, tutt'altro, ma per due ragioni essenziali: è una Costituzione "aperta", esplicitamente dichiarata perfettibile; consente, nel quadro di regole valide per tutta l'Unione, di sperimentare collaborazioni rafforzate da parte di gruppi promotori in materie di comune interesse, anch'essi aperti a chi successivamente vorrà e potrà aderirvi, sull'esempio di quanto è avvenuto per la moneta comune senza che nel frattempo gli altri membri dell'Unione restino a galleggiare senza regola alcuna cui riferirsi.
Si profila dunque non più un'Europa paralizzata come è avvenuto nel 2003 e fino ad oggi, e neppure un'Europa a due velocità cristallizzate in una avanguardia e in una retroguardia esiziali; bensì un'Unione a varie velocità e con vari gruppi intrecciati che possono formarsi sulla base di interessi più avvertiti da alcuni e meno da altri, ma comunque vincolati tutti insieme dalle regole costituzionali e dai comuni valori resi espliciti nella Carta fondamentale.
Questo è dunque il pregio dell'operazione e questo il motivo per il quale la sua realizzazione è necessaria e urgente. In un'Europa spaccata tra filoamericani e antiamericani tutto ciò sarebbe stato impossibile; ma in un'Unione che recuperi la propria unità e il colloquio con gli Usa in condizioni di pari dignità, tutto ciò diventa fattibile, a cominciare dalla lotta contro il terrorismo e dal ripristino della legalità internazionale in Iraq e in tutto il Medio Oriente, road map israeliana-palestinese compresa.
È auspicabile che anche il governo italiano comprenda queste ragioni e partecipi con slancio alla ripresa europea come il presidente Ciampi va da mesi auspicando e insistendo. Ormai la divaricazione tra il Quirinale e Palazzo Chigi sul tema europeo è arrivata al suo culmine e l'incomunicabilità tra i due presidenti ha raggiunto un'intensità quale mai prima d'ora si era vista nei cinquant'anni di storia repubblicana.
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Forse è proprio per questo che, mentre l'Europa sembra finalmente unita nell'obiettivo di darsi la sua Costituzione, il governo italiano cerca di frenarne i tempi e, dal canto suo, sta cercando di smantellare pezzo per pezzo la nostra Costituzione. Siamo dunque nelle mani d'un governo anticostituzionale sia in Europa che in Italia? Un governo strutturalmente refrattario a valori comuni e a regole generali proprio perché è nato nello spirito di chi privilegia la propria legge sulle norme comuni, il proprio interesse su quello della collettività e la giustizia propria su quella del codice?
La simultaneità tra il boicottaggio nei confronti della approvanda Costituzione europea e lo smantellamento di quella italiana lo farebbe supporre. Andrea Manzella su Repubblica e Giovanni Sartori sul Corriere della Sera hanno spiegato venerdì scorso le ragioni per le quali lo spezzatino della riforma costituzionale voluta dal Capo e votata compattamente dalla sua maggioranza parlamentare è indigeribile. Sarà inevitabile fonte di contrasti istituzionali, di paralisi operativa, di interpretazioni difformi poiché è privo di qualunque disegno coerente. In realtà si tratta di un mantello d'Arlecchino in cui ciascuno dei quattro partiti che compongono il Polo delle Libertà ha appiccicato una pezza del proprio colore senza minimamente curarsi dell'armonia d'insieme. Da un tessuto così inguardabile e sbrindellato emergono tuttavia alcuni picchi che, come ha scritto Sartori, sono grandi soltanto nell'errore o meglio - come mi permetto di dire io - nell'orrore costituzionale, conforme soltanto alla ossessiva volontà del Capo di giganteggiare su tutti e tutto, a cominciare dai suoi propri alleati.
Questi picchi sono:
1. La figura del "premier" titolare di tutti i poteri sostanziali, eletto direttamente perché collegato all'elezione dei deputati nei singoli collegi, con il che le elezioni diventano plebiscito e il Parlamento perde ogni ultimo brandello di autonomia rispetto al Capo del potere esecutivo.
2. Il suo potere di sciogliere le Camere, sottratto ad ogni mediazione del presidente della Repubblica.
3. La riduzione di quest'ultimo ad una figura puramente decorativa che deve limitarsi ad esercitare solo alcuni marginalissimi poteri espressamente attribuitigli e con l'esclusione di ogni altro non menzionato e cioè: il diritto di grazia, la nomina dei senatori a vita che non possono in ogni caso essere più di tre, la designazione del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, la nomina di quattro membri su quindici della Corte costituzionale. La firma del presidente della Repubblica su tutti gli atti di governo è "dovuta" e non consente rifiuti né rinvii.
Permane la dizione che il titolare del Quirinale è il garante della Costituzione, ma non disponendo più d'alcuno strumento per far valere questa sua qualifica, essa diventa sovranamente derisoria.
4. Il Parlamento, se votasse la sfiducia al Capo dell'esecutivo, risulterebbe automaticamente sciolto. Quanto al suo scioglimento eventualmente anticipato, esso è nelle mani del "premier" salvo che la maggioranza parlamentare ed essa soltanto non sia in grado di indicare entro dieci giorni un nuovo premier tratto dalle sue stesse file.
In queste condizioni e se questo testo resisterà agli ulteriori passaggi parlamentari e al referendum confermativo, sarà difficile negare che non si sia in presenza di un regime il quale dispone di tutti i mezzi per perpetuare se stesso, ivi compreso il monopolio dei mezzi di comunicazione di massa.
Voglio dire che se passeranno queste norme senza sostanziali mutamenti e non a caso precedute di poche ore dall'approvazione della legge Gasparri, noi avremo un regime blindato, perpetuabile con il solo metodo della cooptazione al posto di quello dell'alternanza democratica. Perché quest'ultima possa comunque verificarsi sarà necessario un tale e così vasto e profondo mutamento delle coscienze individuali da potersi equiparare a quelli che avvengono come preludio ad una rivoluzione: eventi rari quanto traumatici.
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Il solo antidoto, il solo anticorpo può in queste condizioni provenire da un'Europa democratica e unitaria. Siamo purtroppo ancora molto lontani da quell'unità, ma il solo sospetto che prima o poi ci si possa arrivare e che comunque anche così come la nuova Costituzione la prevede l'Europa possa rendere più difficile l'instaurarsi di un regime autoritario in uno dei paesi membri dell'Unione, spinge il nostro governo al tentativo di boicottare il rilancio europeo affidandosi comunque alla protezione dell'amico americano.
L'articolo di Andrea Manzella che ho già ricordato iniziava citando la solenne seduta della nostra Assemblea costituente del 1947 durante la quale Benedetto Croce invocò con alte parole il "Veni Creator Spiritus, mentes tuorum visita".
Dal canto suo il vicepresidente del Senato, Domenico Fisichella, di Alleanza Nazionale, in una durissima dichiarazione di voto ha accusato l'attuale maggioranza, e il suo stesso partito che si accingeva compattamente a votare un testo che scempia la Costituzione repubblicana, di essere "eversiva" e incurante degli interessi della nazione e dei valori della democrazia.
Sono passate appena poche settimane da quando il ministro Tremonti invocava un non meglio definito "spirito repubblicano" chiedendo all'opposizione il consenso per far passare la riforma delle pensioni; da quando l'Udc di Follini-Casini sosteneva di voler fermare la deriva berlusconiana; da quando Fini, ancora con la cuffia ebraica in testa in segno di espiazione, si proponeva come il moderatore del tandem Bossi-Tremonti e della muscolarità berlusconiana. È bastato il richiamo all'ordine del Capo per segare alla radice queste velleità o per rivelare l'essenza di queste furbate.
Tutto ciò mi porta a ritenere che non avesse poi molta ragione Indro Montanelli quando preconizzava che cinque anni di governo di Berlusconi ci avrebbero liberato una volta per tutte da quell'incubo. Ne siamo sicuri? Personalmente me lo auguro ma vedo con timore i prossimi due anni e in particolare gli ultimi mesi di questa legislatura perché in questo governo esistono personaggi capaci di tutto pur di non restituire al popolo ciò che il popolo gli ha incautamente affidato.
Nel luglio scorso, guardando all’Italia e alle elezioni della primavera prossima per il rinnovo del Parlamento Europeo, ho invitato i riformatori italiani a unirsi in una singola lista.
Era una proposta aperta, rivolta alle forze politiche, ai movimenti, alle donne e agli uomini che si riconoscono nei valori dell’Europa unita, della libertà, della giustizia, della solidarietà, del rispetto per l’ambiente.
In pochi mesi l’idea ha preso piede. I riformatori italiani stanno trovando in questo progetto una risposta alla loro domanda di unità.
Nei prossimi giorni si riuniranno per discuterlo le assemblee dei partiti che per primi hanno raccolto l’invito.
E’ la prima tappa di quello che deve essere un cammino di dibattito e di confronto con le forze politiche e con la società civile.
Un dibattito che punta a raccogliere un consenso vasto e unitario, e che per questo impone di tenere la porta aperta a tutti sino all’ultimo momento utile per le elezioni europee, e anche dopo.
Un dibattito che, per condurci a risultati solidi e concreti, ci obbliga a definire i contenuti e le scelte che corrispondono al progetto di una lista unitaria.
“Europa: il sogno, le scelte” è il mio contributo a questo confronto.
Sono riflessioni che corrispondono all’ispirazione che fu all’origine dell’Ulivo. Esse sono il frutto di un lavoro appassionante: prima alla guida del governo italiano per portare il nostro paese nell’euro, poi alla guida della Commissione Europea per riunificate l’Europa e dotarla di una costituzione all’altezza dei tempi.
Ho scelto di guardare in avanti, con spirito di apertura e innovazione, alle sfide che ci attendono e alle opportunità che ci si offrono, come Europa e come Italia.
Non è ancora un programma. Questo lo dovremo elaborare tutti insieme, forze politiche e cittadini. Di qui parte una grande scommessa sul futuro. Uniti possiamo vincerla.
C aro Augias, insegno latino e greco presso il liceo «V. Gioberti» di Torino, impegnato come commissario nell'Esame di Stato. La prova di greco nei Licei Classici è stata giudicata facile e breve. Il giudizio mi sembra parziale. La maggioranza degli allievi non era in condizione di tradurre il brano rendendosi conto del suo vero significato. Quelle poche righe fanno parte di un affascinante mito che Platone attribuisce al sofista Protagora: il fuoco e le arti che Prometeo aveva rubato agli dei e donato agli uomini non bastavano per vivere in una comunità e per difendersi dalle fiere. Così Zeus, tramite Ermes, decise di donare agli uomini Rispetto e Giustizia, fondamenti del vivere civile, perché solo così le città avrebbero potuto esistere. Insomma, l'accento è sul fatto che è di tutti la capacità politica di vivere in una città (quindi di amministrarla), basata sul rispetto reciproco e sul senso di giustizia. Ci troviamo di fronte ad un mito di chiaro sapore democratico, che non esprime il pensiero di Platone, bensì quello del sofista Protagora. Per rendersi conto di tutto ciò sarebbe stato necessario sapere che il brano era tratto dal «Protagora»; che nelle righe che precedevano si parlava di Prometeo; nelle successive si insisteva sul fatto che Rispetto e Giustizia erano stati distribuiti a tutti. Molti i motivi d'interesse; peccato che le scelte ministeriali abbiano puntato su una traduzione solo meccanica, anziché agevolare la comprensione del significato profondo del brano.
Prof Enrico Varesio
Bussoleno (To) varesioe@libero.it
Non so se in una prova d'esame si poteva proporre un tale allargamento del tema. A me pare che l'osservazione del prof Varesio proponga piuttosto un fondamentale argomento di discussione: a che servono gli studi classici? Latino e greco devono solo insegnare a tradurre, il più delle volte penosamente, alcuni brani antichi? Se fosse tutto qui tanto varrebbe leggere i testi confrontandoli subito con la traduzione italiana, resterebbe la musica dell'originale, la costruzione della frase, meglio di niente. Ma quando si inserirono latino e greco negli studi si voleva che attraverso la lettura diretta dei testi si arrivasse a conoscere quelle straordinarie civiltà. Al liceo dovetti studiare e tradurre 'Antigone' di Sofocle. Il benemerito prof di greco ridusse al minimo (gliene sono ancora grato) il lavoro sulla traduzione allargando invece molto il discorso sui rapporti tra individuo e potere che il testo propone arrivando da Sofocle fino ad Alfieri e Brecht che s'erano applicati allo stesso tema, illustrando la famosa frase di Tucidide che delinea il principio di ogni democrazia: «La Nostra Costituzione si chiama democrazia perché il potere non è nelle mani di una minoranza ma della cerchia più ampia di cittadini«. Se lo stesso tema dovesse essere riproposto oggi, lo estenderei addirittura fino al preambolo del progetto costituzionale europeo là dove dice: «Consapevoli che l'Europa è un continente portatore di civiltà; che i suoi abitanti giunti in ondate successive fin dagli albori dell'umanità vi hanno sviluppato i valori che sono alla base dell'umanesimo: uguaglianza degli esseri umani, libertà, rispetto della ragione». Questo significa affrontare le 'radici' della nostra civiltà, a volerlo fare
Dissimulazione onesta, ipocrisia, menzogna, falsificazione... Questi sono panni che la politica ha sempre vestito, e i realisti da sempre dicono che non può dismetterli. E la verità? Scriveva Hegel che «la verità non è moneta in corso che è possibile riscuotere in quanto tale». Ma si può ammettere che la regola democratica non contempli l´obbligo di dire il vero?
La democrazia non è soltanto governo "del popolo", ma anche governo "in pubblico". Per questo la democrazia deve essere il regime della verità, nel senso della piena possibilità della conoscenza dei fatti da parte di tutti. Perché solo così i cittadini sono messi in condizione di controllare e giudicare i loro rappresentanti, e di partecipare al governo della cosa pubblica. Perché qui si colloca una delle sostanziali differenze tra la democrazia e gli altri regimi politici, quelli totalitari in particolare, dove l´oscurità avvolge l´intera vita politica e sono i governi a definire quale sia la verità. Nascono in questo modo le verità "ufficiali", che sono lo strumento per distorcere o occultare le rappresentazioni reali di quel che accade. Per questo i regimi totalitari non amano le scienze sociali, non conoscono la stampa libera, arrivano persino a ritenere pericoloso uno strumento di conoscenza come l´elenco telefonico.
Ma può la democrazia essere identificata con l´assoluta trasparenza, con l´obbligo di dire la verità in ogni caso e ad ogni costo? Kant poneva il divieto di mentire dei governanti come un imperativo. Ma anche i regimi democratici conoscono casi in cui il segreto è ammissibile, anzi può essere considerato necessario e doveroso.
Qual è, allora, il tasso di segretezza, e di insincerità, che un sistema democratico può sopportare senza mutare la propria natura?
Segretezza e menzogna non sono la stessa cosa. Segreto, dicono i dizionari, è il «fatto, realtà, notizia che non si vuole o non si deve rivelare a nessuno». Menzogna è «affermazione contraria a ciò che è o si crede corrispondente a verità, pronunciata con l´intenzione di ingannare». Così le cose sembrerebbero chiare: il segreto è non dire, che è cosa assai diversa dall´ingannare. Ma quando gli arcana imperii, i segreti che avvolgono l´azione del sovrano o anche dei governanti democratici, coprono troppe materie o questioni essenziali per la vita pubblica, la distinzione tra il non sapere e l´essere ingannati può diventare sottilissima. Non sapendo, i cittadini non sono in grado di controllare le scelte dei governanti, brancolano nel buio. La conoscenza diventa appannaggio di un gruppo ristretto, e la forma di governo può trasformarsi da democratica in oligarchica.
Due situazioni, diverse e per certi versi estreme, aiutano ad individuare i limiti possibili del segreto in una società democratica. Nella legge del 1977 sul segreto di Stato, che lo ammette a difesa della libertà degli organi costituzionali e per ragioni di difesa e politica estera, tuttavia si dice che «in nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato i fatti eversivi dell´ordine costituzionale». Le norme sulla privacy consentono ad ogni cittadino di rivolgersi al Garante per chiedergli di accertare se i servizi segreti abbia raccolto illegittimamente informazioni sul suo conto, e al Garante non può essere opposto il segreto di Stato. Vi è dunque un punto oltre il quale l´ordine dello Stato e quello intimo delle persone esigono garanzie che nessuna pretesa di segretezza pubblica può mettere in discussione.
L´obbligo di verità da parte delle istituzioni diviene diritto d´informazione sul versante dei cittadini. Nell´articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell´uomo dell´Onu si afferma che «ogni individuo ha diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee con ogni mezzo e senza riguarda a frontiere». Questo diritto individuale alla ricerca della verità attraverso le informazioni chiarisce bene quale sia il significato della verità nelle società democratiche, che si presenta come il risultato di un processo aperto di conoscenza, che lo allontana radicalmente da quella produzione di verità ufficiali tipica dell´assolutismo politico, che vuole proprio escludere la discussione, il confronto, l´espressione di opinioni divergenti, le posizioni minoritarie.
La pienezza della conoscenza per tutti fonda la verità "democratica". «Conoscere per deliberare» ? diceva Luigi Einaudi. Ed è certo pessima per l´interesse generale una deliberazione fondata su informazioni ingannevoli o false. Si deve aggiungere che la conoscenza è necessaria anche per progettare e controllare, dunque per consentire la partecipazione dei cittadini all´intero processo democratico.
Questo diritto alla verità attraverso le informazioni non può essere affidato soltanto all´iniziativa ed alle forze individuali. Esige "istituzioni della verità". I parlamenti non sono stati concepiti solo come strumenti per l´approvazione delle leggi, ma come luoghi di confronto e di controllo, dove far emergere la realtà delle situazioni. Il sistema dell´informazione e della comunicazione adempie ad una funzione essenziale di fornire ai cittadini conoscenze altrimenti inaccessibili. Il diritto di cercare, ottenere e diffondere informazioni è divenuto una possibilità concreta per un numero sempre crescente di persone grazie ad Internet. La verità in democrazia, quindi, esige forza dei parlamenti, libertà dei sistemi informativi da condizionamenti economici e da censure, assenza di controlli generalizzati agli utenti di Internet.
La democrazia si presenta così come un regime di verità "molteplici", non di verità "rivelate". E di verità rese accessibili a tutti. Non dimentichiamo che, inquisendo Galileo, il cardinal Bellarmino gli rimproverava non tanto di aver scoperto verità scientifiche, ma di averle comunicate a tutti scrivendo in italiano, e non in quel latino che le avrebbe rese accessibili a pochi e quindi politicamente e socialmente meno esplosive.
In democrazia, la verità è figlia della trasparenza. Un grande giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, Louis Brandeis, ha scritto che «la luce del sole è il miglior disinfettante». Di conseguenza, ogni impresa di lotta alla corruzione, ogni azione volta a rendere possibile il controllo di legalità delle azioni individuali e collettive, esige come condizione preliminare la creazione di un ambiente all´interno del quale non esistano barriere protettive al riparo delle quali la possibilità della segretezza generi la frode.
Ma fino a che punto l´irrinunciabile trasparenza sul versante pubblico può trasformarsi per qualsiasi cittadino in un obbligo assoluto di verità, nel dovere di denudarsi in pubblico? Qui le risposte sono diverse a seconda dei ruoli sociali, e siamo di fronte a nuovi intrecci, come quelli tra verità e fiducia. Le menzogne sulla vita sessuale di John Profumo e Gary Hart sono state considerate segno di inaffidabilità politica ed hanno portato all´esclusione dall´attività politica. Un sottofondo puritano ha fatto concludere che mentire su alcune abitudini private sia indice di propensione a mentire anche nella sfera pubblica. Ma la vicenda, pur pesantissima, di Bill Clinton ed il fastidio destato dai tentativi di attaccare John Kerry per le sue relazioni private fanno pensare che anche in quei paesi si sia alla ricerca di nuovi equilibri tra riservatezza e trasparenza.
Né "la salvezza della Repubblica" può produrre l´obbligo della verità ad ogni costo e con ogni mezzo. L´imputato ha diritto di mentire per difendersi, la tortura e le schedature di massa confliggono con la logica della democrazia anche se usate per cercare la verità. Vi è una violenza della verità che la democrazia ha sempre cercato di addomesticare, per evitare che travolga le stesse libertà democratiche fondamentali.
Non bisogna avere paura di dire l'avevamo detto. Il movimento contro la guerra in Iraq è stato, in Italia, il più possente e insieme il più diversificato. Ma tutte le motivazioni che l'hanno fatto grande convergevano su alcune, fondamentali assunzioni: si trattava di una guerra senza alcuna legittimazione; preventiva e quindi doppiamente illegale; sbagliata perché pensata sull'ipotesi che fosse possibile esportare con la forza valori e democrazia; inutile perché non avrebbe risolto alcun problema, a cominciare dalla lotta contro il terrorismo; pericolosa perché avrebbe aggravato quelli esistenti, in particolare moltiplicando i focolai di terrorismo. Tutto ciò che era stato previsto si è, purtroppo, verificato. Ed è tanto più triste constatarlo dopo che molti nostri soldati sono caduti in combattimento. Poiché ciò dice che quei morti potevano essere risparmiati.
Adesso coloro che sono responsabili diretti di quelle nostre morti cercano canagliescamente di nascondere le loro responsabilità sotto una coltre di retorica patriottica. Occorre invece riflettere con il massimo di sangue freddo.
Riflettere significa aiutare la gente a non cadere nelle molteplici trappole che molti media spargono a piene mani. La più insidiosa delle quali è la tesi secondo cui tutto ciò che sta accadendo in Iraq, in queste ore, sia terrorismo fondamentalista islamico importato dall'esterno, farina del sacco di Bin Laden.
A parte il fatto che sostenere questa tesi equivale a riconoscere che gli Usa hanno commesso un errore irreparabile, moltiplicando il pericolo terrorista, occorre dire a gran voce che essa è comunque falsa. Ridurre tutto a terrorismo fondamentalista significa fasciarsi occhi e orecchie e illudersi che esso possa essere domato con un incremento di forza militare.
In realtà è evidente la presenza - accanto, insieme, intrecciata con il terrorismo - di una potente, diffusa resistenza popolare contro le truppe d'occupazione. Questo significa che un aumento della repressione sarà, per un tempo imprevedibile, accompagnato da un incremento della reazione, cioè da altro sangue, altro terrorismo, altre morti, irachene e straniere. Sbagliare la valutazione significa sacrificare inutilmente altre vite.
Ritirarsi è dunque obbligatorio, anche perché il vuoto pauroso creato dalla dissennata guerra statunitense non sarà certo colmato dalla presenza italiana. Perfino il Giappone - che aveva promesso truppe - è tornato sulla sua decisione. La Corea del sud riduce il contingente. L'India rifiuta, la Turchia rifiuta. Russia, Germania e Francia restano fuori. Tutti vili?
In realtà tutti più o meno consapevoli che bisogna cambiare rotta, subito, senza porre tempo in mezzo. Questo barlume di resipiscenza sta emergendo perfino a Washington. Forse per ragioni elettorali, ma potremmo presto trovarci di fronte a una abbandono anticipato del campo da parte perfino degli Stati uniti. Anticipato significa ancor prima che una qualsiasi soluzione di autogoverno iracheno sia stata messa in piedi.
S'impone una iniziativa politica che sia, in primo luogo, un messaggio positivo al popolo iracheno stremato dalla dittatura, dall'embargo e dalla guerra, le cui coordinate sono visibili fin d'ora e che dovrebbero essere subito sperimentate: consegna alle Nazioni unite della responsabilità politica; ritiro annunciato da subito e gradualmente eseguito di tutte le truppe di occupazione; loro sostituzione graduale con le truppe di paesi che non hanno preso parte all'aggressione militare anglo-americana; progressivo inserimento di forze militari e di polizia dei paesi arabi e musulmani.
Difficile? Difficilissimo. Se qualcuno ha soluzioni politiche più facili le esponga.
Il movimento contro la guerra faccia sentire la sua voce. L'emozione e il dolore, insieme alla campagna mediatica, insieme alle incertezze di un'opposizione senza bussola, hanno modificato in senso negativo - inutile nasconderselo - il panorama dell'opinione pubblica italiana. I sondaggi, pur da prendere con le pinze, indicano un paese spaccato in due, dilaniato tra l'ipotesi del ritiro e quella del proseguimento, senza destino e prospettiva, di una presenza italiana in Iraq. Il governo - cieco come prima - dichiara di voler procedere peggio di prima.
Prima che la guerra cominciasse, poi a guerra iniziata, abbiamo riempito il paese di bandiere di pace. Molte sono rimaste - e giustamente - appese a dimostrare che fu giusto metterle, perché la guerra non era affatto finita. Chi le ha lasciate aveva ragione. Le lasci, anche se i loro colori si sono stemperati. Chi le ha ritirate le riesponga. Chi non le aveva ancora messe le tiri fuori. E' un messaggio visivo potente, razionale, solidale, democratico. Moltiplichiamolo, nell'interesse della ragione e della pace.
Se c’è, in che consiste lo “spirito europeo” ? La Costituzione europea appena approvata lo rispecchia? Si possono dare subito le risposte.
Lo “spirito europeo” è lo “spirito critico” . E nessuna Costituzione, inevitabile frutto di compromessi, può rispecchiare lo “spirito critico” . Al senso di quest’ultima espressione, tuttavia, non si accede facilmente.
Lo spirito critico è lo spirito dell’Europa perché, comparso a un certo punto della storia dell’uomo, in Grecia, si è allargato sino a dominare tutti gli eventi del continente europeo, e nonostante tutto tende oggi a estendersi sull’intero pianeta. Nessun altro “spirito” è stato in grado di far questo.
Per millenni gli uomini vivono nel mito, cioè accettando le consuetudini culturali della società in cui vivono o, prima ancora, facendosi guidare dai loro impulsi. Poi, cinque secoli prima di Cristo, nell’antico popolo greco viene alla luce la volontà di dubitare di ogni consuetudine e di ogni impulso, e di respingere tutto ciò che si lascia respingere.
A questa volontà i Greci hanno dato il nome di “filosofia” . “Filosofia” è sinonimo di “spirito critico” . O ne è la radice. Respingendo i “sepolcri imbiancati” ed esaltando la “retta intenzione” Gesù è un grande sostenitore dello spirito critico — anche se sarà tradito da molti che si porranno al suo seguito. Il cristianesimo autentico è la religione filosofica per eccellenza, si è detto. Ed è giusto, per quel tanto che il cristianesimo è critica dei sepolcri. Alla base della libertà, della democrazia, del rispetto della dignità dell’uomo, che la Costituzione europea dichiara di promuovere, c’è quello spirito, cioè la lotta contro le antichissime e le più recenti tirannidi che esigono la cieca accettazione dei loro comandi.
L’atteggiamento critico si estende sin dove gli è possibile. Non si ferma sin quando gli è possibile detronizzare tiranni e abbattere idoli. Si ferma cioè solo dinanzi all’innegabile — e l’innegabile autentico è la verità. “Filo- sofia” significa, alla lettera, “cura per ciò che è luminoso ( saphés )” ; e la verità è per essenza ciò che si mantiene nella luce.
Tutte le forme della cultura e della civiltà europea tengono al loro centro questa volontà di verità. Che non può essere regolata da leggi esterne — e in questo senso è “anarchica” — , ma solo dalla legge che prescrive di respingere tutto ciò che può esser respinto — e in questo senso è sommamente non anarchica. È palese l’anima comune della verità, della scienza moderna e della crescente razionalizzazione dell’agire in Europa. E anche dell’arte europea — la quale conduce sì nel sogno, ma perché ha costantemente dinanzi i connotati della veglia, cioè della verità del mondo, da cui vuol prendere provvisorio o definitivo congedo. Il rapporto alla verità divide gli uomini perché di fronte a essa ogni individuo deve essere solo e perdere in qualche modo di vista quel che fanno gli altri. Non guardava in questa direzione Gesù, quando diceva di esser venuto a portare la spada? Nessuna meraviglia se, a differenza di quanto accade negli Stati Uniti, gli Stati europei, come le antiche città greche, e ripetendo la diaspora degli individui rispetto alla verità, siano così differenti, divergenti, in lotta e liberi gli uni dagli altri. Una libertà, questa, che non ha nulla a che vedere con le degenerazioni dello spirito critico, come la libertà che è licenza delle masse europee e occidentali, o come l’inerzia culturale che trasforma in un dogma lo stesso spirito critico. Del quale il cristianesimo, nel suo sviluppo storico, è stato un grande nemico.
Si comprende quindi che cosa stia al fondo delle riserve di chi avrebbe dovuto inserire nella Costituzione europea il riconoscimento delle nostre “radici cristiane” . È breve il tragitto che ( indipendentemente dalle intenzioni) conduce da questo riconoscimento a quello della sopravvivenza di tali radici e dunque al riconoscimento che l’Europa è uno Stato cristiano — con l’inevitabile conseguenza che una condotta di vita non cristiana sarebbe una violazione della Costituzione europea. È un’affermazione dello spirito critico che l’Europa non abbia i suoi “Patti Lateranensi” .
Fuori discussione, dunque, l’importanza della Costituzione europea. Ma è ancora un passo formale. Più decisivo è come l’Europa possa disporre, sul piano della politica estera, di una “capacità operativa ricorrendo a mezzi civili e militari” ( art. 40 della Costituzione).
L’Europa non può allontanarsi dagli Stati Uniti, ma può esserne un interlocutore credibile e dunque un valido alleato solo se è militarmente forte. Penso alla forza che, in un mondo sempre più pericoloso, non può essere improvvisata, e che però esiste già, ed è l’armamento nucleare russo. Europa e Russia stanno già da tempo riavvicinandosi.
Come potrebbe essere diversamente? Se si prospetta l’aggregazione della Turchia all’Europa, come ignorare, oltre al resto, che lo “spirito critico” ha condotto in Russia al tramonto del comunismo? Detto questo, il passo più decisivo incomincia a questo punto: gettar luce nell’abisso inesplorato da cui lo “spirito critico” è emerso.
Norberto Bobbio ovvero il significato di essere laico. È difficile frenare l’emozione per la morte di un uomo che, protagonista storico della vita intellettuale e morale di un Paese e voce fra le più grandi della cultura europea di mezzo secolo, è anche una persona cui ci legano affetti, ricordi, momenti di vita vissuta, il debito per la chiarezza con cui ci ha aiutati a trovare e a percorrere con più sicurezza la nostra strada. Norberto Bobbio ci lascia a un’età veneranda, in cui la morte rientra nella grande legge delle cose contro la quale è querulo protestare, ma ci lascia in un momento in cui il nostro Paese e il clima culturale in genere avrebbero bisogno della sua chiarezza, ancor più che in passato.
Bobbio è un grande laico, non nel senso stupido e scorretto in cui viene correntemente usata questa parola, quasi significasse l’opposto di credente o religioso. Bobbio ha insegnato che laicità non è un credo filosofico specifico, ma la capacità di distinguere le sfere delle diverse competenze, ciò che spetta alla Chiesa da ciò che spetta allo Stato, ciò che appartiene alla morale da ciò che deve essere regolato dal diritto, ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è oggetto di fede, a prescindere dall’adesione o meno a tale fede.
Pochissimi come Bobbio hanno testimoniato la laicità quale attitudine critica ad articolare le proprie idee, religiose o irreligiose, secondo principi logici non condizionati da alcuna fede; la cultura - anche quella cattolica - è sempre laica, così come la dimostrazione di un teorema anche se fatta da un santo della Chiesa obbedisce alle leggi della matematica e non ai paragrafi di un catechismo. Bobbio incarna questa laicità intesa quale dubbio rivolto pure alle proprie certezze, capacità di aderire a un’idea senza restarne succubi, libertà dalla smania di idolatrare come di dissacrare, moralità umanistica che si oppone sia al fazioso moralismo inacidito sia alla pacchiana disinvoltura etica; laicità che distingue il pensiero e l’autentico sentimento - sempre rigoroso - dal fanatismo ideologico e dalle viscerale reazioni emotive, ancor più funeste del dogmatismo.
Tutto questo Norberto Bobbio l’ha vissuto, testimoniato e difeso sui fronti più diversi: con i suoi memorabili studi filosofici e giuridici, che fanno di lui un raro maestro, un vero classico, di cui altri parleranno a fondo con la dovuta competenza; col suo insegnamento universitario in quella nostra grande Torino che è stata capitale di una possibile Italia più civile; con la sua milizia etico-politica e la sua presenza generosa e creativa nella vita culturale. Si potrebbero citare molti esempi di questo suo servizio. Vorrei ricordarne due, apparentemente minori rispetto a tante battaglie di cinquant’anni e più di storia italiana. Uno è la sua testimonianza appassionata e lucida - da vero laico, in un clima di intollerante faziosità abortista - della realtà della vita nascente e dei conseguenti diritti del nascituro.
Un altro è la ferma, malinconica e impopolare chiarezza con la quale - in un momento in cui il caso di una bambina adottata o affiliata irregolarmente e contesa da famiglie diverse aveva scatenato una psicosi collettiva di sentimentalismo insofferente della legge - aveva rivendicato, contro la marea vincente dell’enfasi strappalacrime, la necessità di rispettare la legge, con tutti i prosaici e talora gretti limiti che ciò spesso comporta. Ma andrebbero ricordate tante altre battaglie, ad esempio la difesa della scuola pubblica contro gli indecenti favori a quelle private.
La sua lucidità concettuale, scolpita nel profilo grifagno, si nutriva di un cuore sensibile e generoso, tanto capace di affetto, di amicizia e di ironia. Proprio per questo egli ha difeso i «valori freddi» della democrazia - l’esercizio del voto, le formali garanzie giuridiche, l’osservanza delle leggi e delle regole, i principi logici - sapendo che sono essi a permettere agli uomini, a ogni individuo in carne ed ossa, di coltivare personalmente, liberamente i propri valori e sentimenti «caldi», l’amicizia, gli affetti, l’amore, le passioni e le predilezioni d’ogni genere. Questi valori caldi sembrano e sono più concreti del suffragio universale, della divisione dei poteri o degli articoli di un codice, ma devono all’osservanza di quei principi la possibilità di essere completamente coltivati e vissuti.
Oggi c’è più che mai bisogno di personalità come Norberto Bobbio, in una temperie culturale assai poco laica, in cui si confondono e pasticciano politica, morale, diritto e pappa del cuore e trionfa una sgrammaticatura linguistica, concettuale ed etica, che mette spesso il soggetto all’accusativo e il complemento oggetto al nominativo, scambiando così i ruoli tra le vittime ed i colpevoli; in cui non ci si scandalizza di chi scambia il governo della cosa pubblica col perseguimento dell’interesse privato, regredendo ad una barbarie premoderna e cancellando secoli di civiltà liberale, che aveva lavorato controlli e garanzie per impedire abusi di potere.
Non è laico fare una guerra - giusta o sbagliata, opportuna o inopportuna - senza dichiararla né trasformarla in una specie di guerra morale o religiosa, scandalizzandosi d’incontrare, in questo intervento armato, resistenze che in un ottica di guerra è legittimo cercare di stroncare ma di cui in un’ottica di guerra è curioso stupirsi. Non è laico confondere le colpe morali o i delitti degli avversari con le loro responsabilità politiche, che sono altra cosa, né con quelle penali e civili, che sono ancora un’altra cosa. Mai come oggi è necessaria la parola di un maestro come Bobbio, maestro nell’individuare i rapporti e le distinzioni fra diritto e morale, e fra morale e politica, la cui confusione - che porta così spesso ad aberranti ingiustizie - sembra essere sempre più coltivata.
Quando Ceausescu, il satrapo romeno, cadde, poteva essere comprensibile che qualcuno ritenesse necessaria, in quel momento, la sua eliminazione, ma assumendosi allora la responsabilità di questa terribile sospensione del diritto, anziché stimolare una tragicomica legalità come il processo farsa in cui il suo avvocato difensore chiede per lui la pena di morte. Uomini come Norberto Bobbio aiutano a resistere a questo crescente analfabetismo concettuale e morale, che somma litri a chili e ragiona o meglio induce a ragionare con le viscere anziché con la testa.
Bobbio non ha combattuto il fascismo con le armi in pugno, come un Valiani, non era un eroe, ma non si è mai atteggiato a tale e la sua lezione morale di chiarezza non è per questo minore. Ha avuto, com’è inevitabile e fisiologico, delle critiche, quando l’egemone cultura antifascista - di cui egli era uno dei più alti rappresentanti e che ha avuto la sua grandezza ma anche certi limiti - è entrata in crisi dinanzi a una realtà italiana radicalmente cambiata. Che nel clima spesso becero-giulivo di questi nostri anni ricevesse anche dei cachinni era prevedibile. Non sarebbe da laici darvi troppa importanza.
Cari amici, i problemi che ponete sono molti e vorrei focalizzarmi su uno soltanto. Voi dite che molti intellettuali nel nostro paese sembrano conquistati da un fatalismo a valenza ottimistica, quasi che il vaticinio di Montanelli (lasciate che l’Italia assaggi Berlusconi per qualche anno e poi se ne accorgerà) suoni come invito all’evasione anziché stimolo a più lucida passione civile. A prima vista non direi. Anche se in ogni tempo è esistita la divisione tra coloro che si arroccano nella loro torre d’avorio e coloro che s’impegnano, non passa giorno che non assista a severe e appassionate denunce su quanto ci accade d’intorno, e mi pare che sui pericoli che corre la nostra democrazia si sia creato il fronte di una minoranza vocale abbastanza vigile.
Però sono vere due cose. Una, che se vado in edicola e compero tutti i giornali esistenti, mi accorgo che il fronte critico si esercita solo su alcuni giornali schierati all’opposizione, e in parte anche su una stampa che, per quanto si voglia «indipendente», non può tacere su alcuni eventi scandalosi; però ci sono lettori che comperano invece gli altri giornali, e che rimangono del tutto impermeabili a queste critiche. Pertanto il rischio è che l’antiberlusconismo sia diventato materia da club, praticato da coloro che sono già d’accordo, così che le denunce (che ci sono) lasciano intoccati proprio quei nostri connazionali ai quali chiederemmo un esame di coscienza sul voto che hanno dato qualche anno fa. E allora si comprende, anche se non si giustifica, la reazione di coloro che, pur stando all’opposizione, ci invitano a smetterla col gioco al massacro nei confronti del primo ministro, che rischia di diventare materia di civile e divertita conversazione per membri dello stesso circolo ricreativo i quali, trovandosi tutti d’accordo nelle loro deprecazioni virtuose, si convincono di avere salvato almeno l’anima.
Da cui una prima riflessione, su cui ritornerò alla fine: il fronte critico nei confronti del nuovo regime raggiunge soltanto l’udienza che di queste critiche non ha bisogno.
Veniamo ora ai casi del nostro sfortunato paese. Ogni giorno si sentono reazioni energiche (e per fortuna anche da parte dell’opinione pubblica di altri paesi europei, forse più che da noi) al colpo di Stato strisciante che Berlusconi sta cercando di realizzare.
Ci siamo accorti tutti che era male impostata la discussione se Berlusconi stesse instaurando un regime, sino a che la parola «regime» ci evocava automaticamente il regime fascista, e allora era se non altro onesto ammettere che Berlusconi non stava mandando i dissidenti a Ventotene, non stava mettendo i ragazzi in camicia nera, non ricostruiva la camera dei fasci e delle corporazioni e così via.
Infatti non era ancor chiaro che, regime essendo in genere una forma di governo (così come ci sono regimi democratici, regimi monarchici e così via), Berlusconi sta instaurando giorno per giorno una forma di governo autoritario, fondato sull’identificazione del partito, del paese e dello Stato con una serie di interessi aziendali. Lo fa senza procedere con operazioni di polizia, arresto di deputati, o abolizione violenta della libertà di stampa, ma mettendo in opera una occupazione graduata dei media più importanti, e creando con mezzi adeguati forme di consenso fondate sull’appello populistico.
Di fronte a questa operazione si è affermato, nell’ordine, che: (i) Berlusconi è entrato in politica al solo fine di bloccare o deviare i processi che potevano condurlo in carcere; (ii) come ha detto un giornalista francese, Berlusconi sta instaurando un «pedegisme» (pdg essendo in Francia il président directeur général, il boss, il manager, il capo assoluto di una azienda); (iii) Berlusconi realizza il progetto avvalendosi di un’affermazione elettorale indiscutibile, e quindi sottraendo agli oppositori l’arma del tirannicidio, in quanto debbono opporsi rispettando il volere della maggioranza, e quello che possono fare è solo convincere parte di questa maggioranza a riconoscere e accettare le considerazioni del cui elenco la presente è parte; (iv) Berlusconi, sulla base di questa affermazione elettorale, procede facendo approvare leggi concepite nel suo personale interesse e non secondo quello del paese (e questo è il pedegisme); (v) Berlusconi, per le ragioni sopra esposte, non si muove come uno statista e neppure come un politico tradizionale, ma secondo altre tecniche – e proprio per questo è più pericoloso di un caudillo dei tempi andati, perché queste tecniche si presentano come apparentemente adeguate ai principî di un regime democratico; (vi) come sintesi di queste ovvie e documentate osservazioni, Berlusconi ha superato la fase del conflitto d’interessi per realizzare ogni giorno di più l’assoluta convergenza d’interessi, e cioè facendo accettare al paese l’idea che i suoi personali interessi coincidano con quelli della comunità nazionale.
Questo è certamente un regime, una forma e una concezione di governo, e si sta realizzando in modo così efficace che le preoccupazioni della stampa europea non sono dovute a pietà ed amore per l’Italia ma semplicemente al timore che l’Italia, come in un altro infausto passato, sia il laboratorio di esperimenti che potrebbero estendersi all’Europa intera.
Tutte queste osservazioni (e persuasioni) sono vere, condivise e condivisibili, e io non direi che sinora si sia manifestato soltanto disinteresse, ignavia, accettazione dell’inevitabile, con tutte le tentazioni di negoziazione e inciucio che ne conseguono.
Il problema è che l’opposizione a Berlusconi, anche all’estero, procede alla luce di una settima persuasione, che secondo me è sbagliata. Si ritiene infatti che, non essendo uno statista, ma un boss aziendale solamente inteso a mantenere gli equilibri precari del proprio schieramento, Berlusconi non si accorga che il lunedì dice una cosa e il martedì il suo contrario, che non avendo esperienza politica e diplomatica sia incline alla gaffe, parli quando non deve parlare, si lasci sfuggire affermazioni che è costretto il giorno dopo a rimangiarsi, confonda a tal punto il proprio utile particolare con quello pubblico da permettersi con ministri stranieri battute di pessimo gusto sulla propria consorte – e via dicendo. In questo senso la figura di Berlusconi si presta alla satira, i suoi avversari si consolano talora pensando che abbia perduto il senso delle proporzioni, e confidano pertanto che senza rendersene conto corra verso la propria rovina (ipotesi Montanelli).
Credo che invece occorra partire dal principio che, in quanto uomo politico di nuovissima natura, diciamo pure post-moderno, Berlusconi sta mettendo in atto, proprio coi suoi gesti più incomprensibili, una strategia complessa, avveduta e sottile, che testimonia del pieno controllo dei suoi nervi e della sua alta intelligenza operativa (e se non di una sua intelligenza teorica, di un suo prodigioso istinto di venditore).
Colpisce infatti in Berlusconi (e purtroppo diverte) l’eccesso di tecnica del venditore. Non è necessario evocare il fantasma di Vanna Marchi – che di queste tecniche costituiva la caricatura, sia pure efficace per un pubblico sottosviluppato. Vediamo la tecnica di un venditore di automobili. Egli inizierà dicendovi che la macchina che propone è praticamente un bolide, che basta toccare l’acceleratore per andare subito sui duecento orari, che è concepita per una guida sportiva. Ma non appena si renderà conto che avete cinque bambini e una suocera invalida, senza transizione di sorta, passerà a dimostrarvi come quella macchina sia l’ideale per una guida sicura, capace di tenere con calma la crociera, fatta per la famiglia. Quindi di colpo vi dirà che se la prendete vi dà i tappetini gratis. Il venditore non si preoccupa che voi sentiate l’insieme del suo discorso come coerente, gli interessa che, tra quanto dice, di colpo vi possa interessare un tema, sa che reagirete alla sola sollecitazione che vi può toccare e che, una volta che vi sarete fissati su quella, avrete dimenticato le altre. Quindi il venditore usa tutti gli argomenti, a catena e a mitraglia, incurante delle contraddizioni in cui può incorrere. Deve fare in modo di parlare molto, con insistenza, per impedire che facciate obiezioni.
Molti ricorderanno quel tal Mendella che appariva in televisione (non una volta, come fanno gli spot delle grandi aziende, ma per ore e ore, su un canale dedicato) per convincere pensionati e famiglie di medio e basso reddito ad affidargli i loro capitali, assicurando rendimenti del cento per cento. Che, dopo aver rovinato alcune migliaia di persone, Mendella sia stato preso mentre fuggiva con la cassa, è un altro discorso: aveva tirato troppo la corda e troppo in fretta. Ma tipico di Mendella, se ricordate, era presentarsi alle dieci di sera dicendo che lui non aveva interessi personali in quella raccolta di risparmi altrui, perché era semplicemente il portavoce di una azienda ben più ampia e robusta; ma alle undici affermava energicamente che in quelle operazioni, di cui si diceva l’unico garante, aveva investito tutto il suo capitale, e quindi il suo interesse coincideva con quello dei suoi clienti. Chi ha inviato i soldi non si è mai accorto della contraddizione, perché ha scelto evidentemente di focalizzare l’elemento che gli infondeva maggior fiducia. La forza di Mendella non stava negli argomenti che usava, ma nell’usarne molti a mitraglia.
La tecnica di vendita di Berlusconi è evidentemente di tal genere (vi aumento le pensioni e vi diminuisco le tasse) ma infinitamente più complessa. Egli deve vendere consenso, ma non parla a tu per tu coi propri clienti, come Mendella. Deve fare i conti con l’opposizione, con l’opinione pubblica anche straniera e con i media (che non sono ancora tutti suoi), e ha scoperto il modo di volgere le critiche di questi soggetti a proprio favore.
Pertanto deve fare promesse che, buone cattive o neutre che appaiano ai suoi sostenitori, si presentino agli occhi dei critici come una provocazione. E deve produrre una provocazione al giorno, tanto meglio se inconcepibile e inaccettabile. Questo gli consente di occupare le prime pagine e le notizie di apertura dei media e di essere sempre al centro dell’attenzione. In secondo luogo la provocazione deve essere tale che le opposizioni non possano non raccoglierla, e siano obbligate a reagire con energia. Riuscire a produrre ogni giorno una reazione sdegnata delle opposizioni (e persino di media che non appartengono all’opposizione ma non possono lasciar passare sotto silenzio proposte che configurano stravolgimenti costituzionali) permette a Berlusconi di mostrare al proprio elettorato che egli è vittima di una persecuzione («Vedete, qualsiasi cosa dica, mi attaccano»).
Il vittimismo, che sembra contrastare col trionfalismo che caratterizza le promesse berlusconiane, è tecnica fondamentale. Ci sono stati esempi anche simpatici di vittimismo sistematico, come quello di Pannella che è riuscito per decenni ad occupare le prime posizioni nei media proclamando che tacevano sistematicamente sulla sue iniziative. Ma il vittimismo è anche tipico di ogni populismo. Mussolini ha provocato con l’attacco all’Etiopia le sanzioni, e poi ha giocato propagandisticamente sul complotto internazionale contro il nostro paese. Affermava la superiorità della razza italiana e cercava di suscitare un nuovo orgoglio nazionale, ma lo faceva lamentando che gli altri paesi disprezzassero l’Italia. Hitler è partito alla conquista dell’Europa sostenendo che erano gli altri a sottrarre lo spazio vitale al popolo tedesco. Che è poi la tattica del lupo nei confronti dell’agnello. Ogni prevaricazione deve essere giustificata dalla denuncia di una ingiustizia nei tuoi confronti. In definitiva il vittimismo è una delle tante forme con cui un regime sostiene la coesione del proprio fronte interno sullo sciovinismo: per esaltarci occorre mostrare che ci sono altri che ci odiano e vogliono tarparci le ali. Ogni esaltazione nazionalistica e populistica presuppone la coltivazione di uno stato di continua frustrazione.
Non solo, il poter lamentare ogni giorno il complotto altrui permette di apparire sui media ogni giorno a denunciare l’avversario. Anche questa è tecnica antichissima, nota anche ai bambini: tu dai uno spintone al tuo compagno del banco davanti, lui ti tira una pallina di carta e tu ti lamenti col maestro.
Un altro elemento di questa strategia è che, per creare provocazioni a catena, non devi parlare solo tu, bensì lasciare mano libera ai più dissennati tra i tuoi collaboratori. Non serve passargli ordini, se li hai scelti bene partiranno per conto proprio, se non altro per emulare il Capo, e più dissennate saranno le provocazioni meglio sarà.
Non importa se la provocazione va al di là del credibile. Se tu affermi, poniamo, che vuoi abolire l’articolo della Costituzione che difende il paesaggio (d’altra parte che altro sono le proposte di elevare la velocità ai centocinquanta orari, o i progetti tecnologici e faraonici in spregio alle esigenze ecologiche?), l’avversario non può non reagire, altrimenti perderebbe persino la propria identità e la propria funzione di oppositore come garante. La tecnica consiste nel lanciare la provocazione, smentirla il giorno dopo («Mi avete frainteso») e lanciarne immediatamente un’altra, in modo che su quella si appunti e la nuova reazione dell’opposizione e il rinnovato interesse dell’opinione pubblica, e tutti dimentichino che la provocazione precedente era stata semplicemente flatus vocis.
L’inaccettabilità della provocazione consente inoltre di raggiungere altri due fini essenziali. Il primo è che, in fin dei conti, per alta che la provocazione sia stata, costituisce pur sempre un ballon d’essai. Se l’opinione pubblica non ha reagito con sufficiente energia, questo significa che persino la più oltraggiosa delle strade potrebbe essere, con la calma dovuta, percorribile. Questo è il motivo per cui l’opposizione è costretta a reagire, anche se sa che si tratta di pura e semplice provocazione, perché se tacesse aprirebbe la strada ad altri tentativi. L’opposizione fa dunque quello che non può non fare per contrastare il colpo di Stato strisciante, ma così facendo lo corrobora, perché ne segue la logica.
Il secondo fine che si realizza è quello che definirei l’effetto bomba. Ho sempre sostenuto che se fossi uomo di potere impegolato in molti e oscuri traffici, e se venissi a sapere che entro due giorni scoppierà sui giornali una rivelazione che porterebbe alla luce le mie malefatte, io avrei una sola soluzione: metterei o farei mettere una bomba alla stazione, in una banca, o in piazza all’uscita dalla messa. Con ciò sarei sicuro che per almeno quindici giorni le prime pagine dei giornali e l’apertura dei telegiornali saranno occupate dall’attentato, e la notizia che mi preoccupa, seppure apparisse, sarebbe confinata nelle pagine interne e passerebbe inosservata – o comunque toccherebbe solo di striscio un’opinione pubblica preoccupata da ben altri problemi.
Un caso tipico di effetto bomba è stata la sparata sul kapò seguita dalla sparata di rinforzo del leghista Stefani contro i turisti tedeschi beoni e schiamazzatori. Gaffe incomprensibile, dato che suscitava un incidente internazionale e proprio all’inizio del semestre italiano? Niente affatto. Non solo (ma questo è stato effetto collaterale) perché sollecitava lo sciovinismo latente di gran parte dell’opinione pubblica, ma perché in quegli stessi giorni si discuteva in parlamento la legge Gasparri, con la quale Mediaset affossava definitivamente la Rai e moltiplicava i dividendi. Ma io (e chissà quanti altri come me) me ne sono reso conto solo ascoltando, mentre guidavo in autostrada, Radio Radicale in diretta dal parlamento. I giornali dedicavano pagine e pagine a Berlusconi gaffeur, al fatto se i turisti tedeschi sarebbero scesi ugualmente in Italia, al problema lancinante se Berlusconi con Schröder si fosse davvero scusato oppure no. L’effetto bomba ha funzionato alla perfezione.
Potremmo rileggerci tutte le prime pagine dei quotidiani degli ultimi due anni per poter calcolare quanti effetti bomba sono stati prodotti. Di fronte ad affermazioni sesquipedali, come quella che i magistrati sono soggetti da cura psichiatrica, la domanda da porsi è quale altra iniziativa questa bomba stia facendo passare in secondo piano.
In questo senso Berlusconi pedegista controlla e dirige le reazioni dei suoi oppositori, le confonde, può usarle per mostrare che quelli vogliono la sua rovina, che ogni appello all’opinione pubblica è una canagliata ad hominem.
Per finire, la strategia delle mosse eccessive produce sconcerto negli stessi media che dovrebbero criticarle. Si consideri la faccenda Telekom-Serbia. A uno storico del futuro sarà chiaro che, in questa ridda di insinuazioni ed accuse, sono in gioco sei diversi problemi. Vale a dire: (i) se l’affare Telekom-Serbia è stato un cattivo affare; (ii) se era politicamente e moralmente lecito fare transazioni con Milosevic´, in un’epoca pre-Kosovo, quando il dittatore serbo non era ancora stato messo al bando dalle nazioni democratiche; (iii) se in questo affare sono stati impiegati denari pubblici; (iv) se il governo era tenuto a sapere che cosa stesse accadendo; (v) se il governo l’ha saputo e ha dato il suo consenso. Tutti questi punti sono di carattere squisitamente politico ed economico e potrebbero essere discussi sulla base dei fatti (quando, come, quanto). Il sesto punto è invece se qualcuno abbia preso tangenti per consentire un affare illecito e dannoso per l’Italia. Questo punto sarebbe di rilievo penale ma potrà essere discusso solo sulla base di prove ancora a venire. Ebbene, scegliete un italiano a caso e chiedetegli se ha chiare queste distinzioni e se sa di che cosa si stia parlando quando si protesta contro i veleni o si sollecita un’inchiesta. Solo pochi articoli di fondo hanno messo in chiaro l’esistenza non di uno ma di sei problemi, per il resto i media sono stati trascinati in una ridda convulsa di esternazioni quotidiane, le une che riguardavano i punti (i)-(v) e le altre che riguardavano il punto (vi), ma senza che il lettore o il telespettatore abbiano avuto il tempo di capire sia che le questioni erano sei sia di quale si stesse parlando. Per stare dietro alla ridda di esternazioni, che confondono abilmente i sei punti, anche i media sono costretti a confonderli – il che è poi quello a cui l’operazione mira.
Se questa è la strategia, sino a ora si è dimostrata vincente. Se l’analisi della strategia è giusta, Berlusconi ha ancora un grande vantaggio sui suoi avversari.
Come ci si oppone a questa strategia? Il modo ci sarebbe, ma assomiglia al suggerimento di McLuhan, che per bloccare i terroristi (che vivevano sull’eco propagandistico delle loro iniziative e sul malessere che diffondevano), proponeva il black out della stampa. La conseguenza era che forse non si sarebbe diventati megafono dei terroristi, ma si entrava in un regime di censura – che è poi quello che i terroristi speravano di provocare.
È facile dire: concentri le tue reazioni solo sui casi veramente importanti (leggi sulle rogatorie o sul falso in bilancio, Cirami, Gasparri e via dicendo) ma se Berlusconi lascia capire che vuole diventare presidente della Repubblica metti la notizia in un trafiletto di sesta pagina, per obbligo d’informazione, senza stare al suo gioco. Ma chi accetterebbe questo patto? Non la stampa specificamente di opposizione, che si troverebbe immediatamente a destra della stampa «indipendente». Non la stampa indipendente, per la semplice ragione che il patto presupporrebbe un suo schieramento esplicito. Inoltre questa decisione sarebbe inaccettabile per qualsiasi tipo di medium, il quale verrebbe meno al suo dovere/interesse, quello di approfittare del minimo incidente per produrre e vendere notizie, e notizie piccanti e appetibili. Se Berlusconi insulta un parlamentare europeo non puoi relegare la notizia tra i fatti di cronaca o gli stelloncini di costume, perché perderesti le migliaia di copie che ti fa guadagnare il battage sul gustoso avvenimento, con pagine e pagine di opinioni divergenti, interpretazioni, pettegolezzi, ipotesi, reazioni salaci.
Naturalmente potrebbe darsi che questa strategia non abbia il respiro di una strategia: che sia una tattica utile per vincere alcune battaglie ma non per vincere una guerra. Anzi, potrebbe essere una tattica buona per sfiancare l’esercito avversario ma non per vincere una battaglia campale.
In secondo luogo potrebbe accadere che questa tattica inebrii, abitui, dia un senso di impunità: a un certo punto Berlusconi potrebbe diventarne vittima egli stesso, ripetere compulsivamente le sue mosse, senza rendersi conto che agli occhi di moltissimi è diventato la caricatura di se stesso.
Ma tutte queste sono ipotesi, e potrebbero essere dannose in quanto rassicuranti. Non rimane dunque che prendere una decisone, sia pure sulla base della semplice ipotesi che sia buona e sia realizzabile: visto che, sino a che il gioco ce l’ha in mano Berlusconi, l’opposizione deve seguirne le regole, l’opposizione deve prendere l’iniziativa adottando – ma in positivo – le stesse regole berlusconiane.
Questo non comporta che l’opposizione dovrebbe finire di «demonizzare» Berlusconi. Si è visto che se non reagisce alle sue provocazioni in un certo senso le avalla, e in ogni caso manca al proprio dovere istituzionale. Ma questa funzione di reazione critica alle provocazioni dovrebbe essere assegnata a un’ala dello schieramento, impegnata a pieno tempo. E dovrebbe manifestarsi su canali alternativi. Se è vero, come è vero, che i media ancora liberi dal controllo berlusconiano raggiungono solo i già convinti, e la maggior parte dell’opinione pubblica è esposta a media asserviti, non rimane che scavalcare i media. A modo proprio i girotondi sono stati un elemento di questa nuova strategia, ma se uno o due girotondi fanno rumore, mille ingenerano assuefazione. Se debbo dire che il telegiornale ha celato una notizia non posso dirlo attraverso il telegiornale. Debbo tornare a tattiche di volantinaggio, distribuzione di videocassette, teatro di strada, tam tam su Internet, comunicazione su schermi mobili posti in diversi angoli della città, e a quante altre invenzioni la nuova fantasia virtuale può suggerire. Visto che non si può parlare all’elettorato disinformato attraverso i media tradizionali, se ne inventano dei nuovi.
Contemporaneamente, a livello dell’azione più tradizionale dei partiti, delle interviste, della partecipazione a programmi televisivi (ma sorprendendo l’avversario con l’esternazione inattesa) l’opposizione deve fare partire le proprie provocazioni.
Cosa intendo per provocazioni di opposizione? La capacità di concepire dei piani di governo, su problemi su cui l’opinione pubblica sia sensibile, e di lanciare idee su futuri assetti del paese tali da obbligare i media a occuparsene almeno con lo stesso rilievo che danno alle provocazioni di Berlusconi.
In spirito di puro machiavellismo (stiamo parlando di politica) ritengo che, salva la dignità, il progetto provocatorio potrebbe andare al di là delle proprie effettive possibilità di realizzazione. Tanto per fare un esempio da laboratorio, la pubblicizzazione di un piano che prevedesse, poniamo, una legge che la sinistra al governo vorrebbe fare subito approvare, che proibisse a un solo soggetto di avere più di una stazione televisiva (e o un giornale o una stazione), scoppierebbe come una bomba. Berlusconi sarebbe obbligato a reagire, questa volta in difesa e non in attacco, e facendolo darebbe voce ai suoi avversari. Sarebbe lui a dichiarare l’esistenza di un conflitto (o di una convergenza) d’interessi, e non potrebbe attribuirne il mito alla volontà perversa dei suoi avversari. Né potrebbe accusare di comunismo una legge antimonopolio che mira ad allargare gli accessi alla proprietà privata dei media.
Ma non è necessario spingersi a ipotesi fantascientifiche. Un piano per il controllo del rincaro dei prezzi dovuto all’euro, toccherebbe da vicino anche coloro che non si sentono coinvolti dal conflitto d’interessi.
Insomma, si tratterebbe di lanciare di continuo, e in positivo, proposte che lascino intravedere all’opinione pubblica un altro modo di governare, e che mettessero la maggioranza alle corde, nel senso che sia obbligata a dire se ci sta o non ci sta – e in tal senso essa sarebbe costretta a discutere e difendere i propri progetti e a giustificare le proprie inadempienze – non potendo arroccarsi sull’accusa generica a una opposizione rissosa. Se tu dici alla gente che il governo ha sbagliato a fare questo o quello, la gente potrebbe non sapere se hai ragione o torto. Se invece dici alla gente che tu vorresti fare questo o quello, l’idea potrebbe colpire l’immaginazione e gli interessi di molti, suscitando la domanda sul perché la maggioranza non lo fa.
Solo che, per elaborare strategie del genere, l’opposizione dovrebbe essere unita, perché non si elaborano progetti accettabili e dotati di fascino se ci si impegna dodici ore al giorno in lotte intestine. E qui si entra in un altro universo, e l’ostacolo insormontabile pare essere la tradizione ormai più che secolare per cui le sinistre di tutto il mondo si sono sempre esercitate nella distruzione delle proprie eresie interne, anteponendo le esigenze di questa lotta tra fratelli alla battaglia frontale contro l’avversario.
Eppure, solo superando questo scoglio si può pensare a un soggetto politico capace di occupare l’attenzione dei media con progetti provocatori, e di battere Berlusconi usando, almeno in parte, le sue stesse armi. Se non si entra in questa logica, che può anche non piacere, ma è la logica dell’universo mediatico in cui viviamo, non rimane che fare dimostrazioni contro la tassa sul macinato.
Pubblichiamo il Questionario scritto da Paolo Flores D’Arcais e sottoposto a Umberto Eco come linea-guida della sua analisi
Dinnanzi al regime berlusconiano, non è venuto il momento, per l’intellettuale che ha il privilegio di ‘ farsi ascoltare’, di impegnarsi in prima persona?
Non è necessario ‘allargare’ l’Ulivo, oltre i partiti, alla società civile, per dare nuovo slancio ai movimenti e autenticità all’opposizione?
Premessa
Le righe che seguono non vanno prese come un vero e proprio questionario. Piuttosto, come una traccia, che indica gli argomenti che presumibilmente stanno a cuore a molti lettori, e che ciascuno, nel rispondere, può utilizzare a suo modo, concentrandosi nel proprio intervento su alcuni punti o anche su uno solo dei temi, o aggiungendone altri eccetera. Con la più totale libertà.
1. Una sorta di schizofrenia etico-politica sembra conquistare il paese anche nella sua maggioranza di cittadini criticamente consapevoli: una mitridatizzazione, forse. Sempre più numerose sono le persone, anche di vocazione moderatissima, che riconoscono una dichiarata finalità di regime nell’azione berlusconiana di malgoverno (da ultimo Rivera, ex golden boy calcistico, oggi cautissimo politico della Margherita). Ma alla consapevolezza analitica non corrisponde adeguata «ragion pratica», l’imperativo cioè di un coinvolgimento anche personale nell’azione democratica di contrasto, ora che troppi e reiterati fatti, concordemente univoci, certificano l’avvenuto superamento della soglia che dichiara «la repubblica in pericolo».
Siamo al punto che la più autorevole testata della destra economica internazionale, bibbia ebdomadaria dell’establishment capitalistico e compassata cheerleader giornalistica della signora Thatcher e di Bush padre e figlio (e dello spirito santo del liberismo senza remore), l’Economist insomma, insiste pervicacemente in una vera e propria «crociata» per sensibilizzare l’Occidente conservator-finanziario a non sottovalutare la tabe anti-liberaldemocratica rappresentata dal berlusconismo, e annesso rischio di contagio populista in Europa a danno delle libere (ma soprattutto liberiste) istituzioni: tanto comunitarie che dei singoli Stati.
Ma gli intellettuali democratici nel nostro paese sembrano conquistati da un fatalismo a valenza ottimistica, quasi che il vaticinio di Montanelli («Per decidere di liberarsene l’Italia deve assaggiarlo fino in fondo») suoni invito al divertissement e all’evasione anziché stimolo a più lucida passione civile.
E allora, se il cumularsi delle gesta e delle minacce governative contro la convivenza liberaldemocratica ha ormai esondato (come in effetti) il livello di guardia, non è giunto il momento della decisione per un impegno civile – e dunque politico, di «movimento» – esplicito personale e diretto, al di là di quello indiretto erogato con la capacità e le realizzazioni professionali, da parte di chiunque (una percentuale assai modesta) abbia modo di praticare davvero il diritto all’espressione della libera opinione, goda cioè, in virtù di autorevolezza o notorietà pubbliche, del privilegio massmediatico di «essere ascoltato»?
2. Prodi ha lanciato la proposta di una lista unica dell’Ulivo per le prossime europee. Il fondatore della Repubblica, Eugenio Scalfari, ha commentato che «l’operazione ha un senso se allarga l’Ulivo alla società civile oltre che ai partiti». Analogo il significato, sebbene non la formulazione letterale, dell’appassionata difesa della proposta Prodi svolta da Furio Colombo sul quotidiano di cui è direttore, l’Unità. Senza tale allargamento alla società civile, in effetti, la proposta di Prodi suonerebbe incongrua perché – come immediatamente notato anche da Massimo D’Alema – «con una legge che fa eleggere un deputato con lo 0,7 per cento, avremmo interesse a presentarci con dieci liste, non con una». Fare alle europee – dove si vota con un proporzionale quasi perfetto – il pieno dei voti dei cittadini che oggi si oppongono a Berlusconi – e che ormai nel paese rappresentano una cospicua maggioranza – è dunque possibile solo in due modi: o differenziando al massimo l’offerta attraverso la presentazione di numerose liste, che coprano tutte le sfumature dei punti di vista dell’opposizione, quale si è espressa sia in parlamento che nelle manifestazioni di massa della Cgil, dei girotondi e dei no global, oppure accogliendo la proposta unitaria di Prodi, ma con un rigore tale da renderla attraente e vincente anche in regime di proporzionale.
In che modo, dunque, va realizzato l’allargamento dell’Ulivo «alla società civile oltre che ai partiti»? Come evitare che tale allargamento si riduca al mero inserimento di qualche personalità non direttamente espressione degli apparati, a replica – in formato ridotto, oltretutto – delle esperienze (niente affatto diprezzabili per l’epoca) degli «indipendenti di sinistra»? Chi dovrebbe avanzare le candidature della società civile? Come andrebbe utilizzato lo strumento Internet, che nella scelta del candidato democratico alla Casa Bianca si sta dimostrando un fattore entusiasmante ed efficacissimo di innovazione e partecipazione (e che tale si era già dimostrato nella realizzazione della manifestazione di piazza San Giovanni a Roma il 14 settembre 2002)? E si deve tentare, in questo allargamento dell’Ulivo alla società civile e oltre i partiti, di coinvolgere anche i partiti di opposizione che dell’Ulivo non fanno parte (lista Di Pietro e Rifondazione)?
3. La Costituzione europea è molto deludente, e forse più che deludente. Radica il diritto di veto di ciascun governo in tutti gli ambiti decisionali significativi, consegnando così le istituzioni comunitarie a una potenziale paralisi permanente, e allontanando ogni prospettiva di sovranità dei cittadini europei – attraverso rappresentanti eletti e non attraverso i governi – su di esse. Fa di un liberismo irrazionale, sempre meno temperato e corretto da politiche di welfare, l’unico «nord» di un percorso che non prevede la nascita dell’Europa come autentico soggetto politico, delimitato nei suoi confini agli ambiti geopolitici dove siano già sufficientemente sviluppate le precondizioni culturali e sociali di una democrazia liberale autentica, epperciò forte di istituzioni democratiche tali da rendere effettiva la sovranità dei cittadini e di fare dell’Europa un partner a pari titolo – per dignità, compattezza, influenza – degli Stati Uniti d’America.
Come impedire che questa cattiva Costituzione, benché votata come provvisoria, non finisca per condizionare e bloccare ogni conato di Stato federale democratico europeo, favorendo invece una deriva che nell’allargamento indiscriminato delle istituzioni comunitarie a paesi non ancora sufficientemente democratici (ai loro governi, del resto) veicoli solo una nuova subalternità di questa non Europa agli Stati Uniti?
Perché fino qui l’opinione pubblica e il mondo intellettuale non si sono dimostrati sensibili al peso che il futuro dell’Europa avrà nel futuro di ogni paese e quindi di ogni cittadino? Cosa è possibile fare, fin da ora e nel futuro più prossimo, per rendere i cittadini europei (e quelli italiani intanto) consapevoli della posta in gioco e partecipi delle decisioni, attraverso azioni collettive capaci di spostare i rapporti di forza?
4. Un quotidiano di destra – il Riformista – ha parlato con tono tanto enfatico quanto soddisfatto di «fine del biennio rosso», intendendo con l’iperbole il venir meno della stagione dei movimenti, e il ritorno prepotente e definitivo del «primato dei partiti» (questo e non altro, del resto, è stato il senso che i politici di professione hanno sempre conferito al vessillo più volte inalberato del «primato della politica»). Ma è davvero realistico pensare che i movimenti – intesi nel duplice e intrecciato sistema, giornalisticamente definito come girotondi e no global – abbiano concluso la loro parabola? O non è più ragionevole ipotizzare che essi seguano, strutturalmente e per loro natura, un andamento carsico che vedrà alternarsi momenti di grande mobilitazione popolare a periodi di attività locale scarsamente visibile e quasi sotterranea, a pause di approfondimento culturale e magari di «compromessi» politici, a incertezze e andirivieni di frammentazione in mille rivoli e a ritorni di massa inaspettati e inediti, benché dichiarati ormai impossibili dal coro unanime del pensiero unico d’ordinanza?
E nel caso la stagione dei movimenti fosse davvero conclusa, non si tratterebbe di una sciagura anche per l’opposizione partitico-parlamentare, visto che senza il tanto osteggiato (dai finti riformisti) «biennio rosso» (la cui novità, semmai, è stata di non essere affatto «rosso», benché radicalmente intransigente sui valori di eguaglianza e libertà, e capace di un antagonismo democratico niente affatto ideologico, tanto possibile – e anzi irrinunciabile – quanto dimenticato dalle opposizioni ufficiali) i partiti del centro-sinistra sarebbero ancora invischiati nell’immobilismo delle loro paure, nella morta gora di una ricorrente vocazione all’inciucio, nella palude delle pulsioni alla divisione permanente e autoreferenziale? Senza il vituperato «biennio», oltretutto, la pratica della non opposizione non si sarebbe forse tradotta in una non crescita di consensi elettorali, mentre è proprio nella vitalità dei movimenti – che hanno indotto riflessi di iniziativa oppositoria anche negli zombie partitici – la chiave per capire l’inversione del trend elettorale a svantaggio di Berlusconi?
Cosa è oggi possibile fare, allora, per dare nuovo slancio ai movimenti? E cosa possono fare gli intellettuali per promuovere una più intensa stagione di consapevolezza civica e di azione democratica? Cosa è auspicabile che intervenga nel rapporto tra girotondi e no global, al di là degli intrecci già operanti (che vedono centinaia di migliaia di cittadini partecipare a entrambi i tipi di iniziativa, e numerosi circoli e associazioni locali militare in entrambe le costellazioni)? Quali sono i temi su cui si dovrebbe concentrare l’attenzione e la mobilitazione? Quali strumenti di comunicazione è possibile inventare per contrastare il monopolio dis-informativo e massmediatico berlusconiano? È possibile, auspicabile – e in che modo incentivabile – una convergenza su singoli temi tra i «centomovimenti» e associazioni intellettuali di impegno e peso democratico del tipo Libertà e giustizia? Su quali temi? Con quali modalità? E fra tutte queste espressioni della società civile e i partiti? E con quali modalità, perché non si finisca – come già troppe volte in passato – nell’uso strumentale (anzi in un vero e proprio «usa e getta») della società civile da parte degli apparati di partito?
Non c’è infine il rischio che, qualora nulla di quanto (ottimisticamente?) immaginato, sebbene in forma interrogativa, più sopra, venga traghettato dai desideri alla realtà, Berlusconi possa recuperare l’attuale crescente deficit di consensi? Resta infatti più che mai operante il paradosso per cui al venir meno dei consensi per il governo video-peronista non corrisponde un allargarsi della fiducia nei confronti dell’opposizione, almeno nella sua attuale configurazione partitica. E fino a che questo maledetto cerchio magico, che i dirigenti dell’opposizione fin troppo spesso alimentano con la loro mediocrità, insipienza e presunzione, non verrà spezzato, un ritorno di fiamma del berlusconismo, anche solo come rassegnazione, resterà sempre minacciosamente in agguato.
5. Mettiamo i piedi nel piatto. La maggior parte dei dirigenti del centro-sinistra manifesta nei fatti (e spesso anche nella idealizzazione verbale) la convinzione che si possano sottrarre consensi a Berlusconi solo non parlando dei crimini di Berlusconi, si possano guadagnare voti solo fingendo che Berlusconi e il suo governo non siano un oltraggio permanente a tutti i principî della democrazia liberale, ma un mero episodio di malgoverno conservatore. Con ciò, tuttavia, non solo si apprestano (nel caso la dismisura degli eccessi e delle aggressioni berlusconiane al minimo sentire democratico procurasse alle opposizioni una vittoria elettorale) a ripercorrere l’intero cursus dis-honorum dei passati inciuci, e relative sciagure per il paese (sempre meno reversibili), ma rendono anche altamente probabile il recupero berlusconiano, che si nutre della mancanza di un’alternativa radicalmente credibile, di una differenza radicalmente percepibile e solo perciò appetibile e affidabile.
In questa sudditanza alla prepotenza e dunque alla il-logica berlusconiana è la ragione della critica severa che dai movimenti e da singole personalità intellettuali è venuta ai dirigenti delle opposizioni parlamentari, critica di cui questi ultimi non comprendono, con la severità, l’essenziale generosità.
A forza di non trattare Berlusconi per quello che è (e che non ha mai nascosto di voler essere), infatti, siamo arrivati a questo: che nella sua guerra permanente contro Benjamin Constant, Tocqueville e addirittura Montesquieu (cioè contro il lato liberal-conservatore, moderato e garantista, dell’orizzonte democratico) la maggioranza berlusconiana ha sempre più decisamente praticato i sentieri dell’eversione istituzionale, ed è ormai probabilmente oltre il semplice corteggiamento del reato di «associazione a delinquere a fini eversivi per sovvertire le istituzioni repubblicane», secondo la formula del portavoce di Forza Italia. Ma le forze (?) di opposizione, non avendo avuto fin qui il buon senso di denunciare neppure sotto il profilo politico l’oltraggio permanente alla democrazia liberale operato dalle violenze massmediatiche e dalle scorrerie legislative della maggioranza, e avendo deciso di non denunciare il vulnus rappresentato da Berlusconi neppure dopo una sentenza che ha certificato al di là di ogni ragionevole dubbio il salasso di legalità e il mercimonio di sentenze organizzato sistematicamente negli anni dall’azienda e dai più stretti compari del Cavaliere, hanno lasciato agli eversori di regime l’agio di raddoppiare l’arroganza con la tracotanza, e di far seguire all’aggressione il cachinno di una commissione parlamentare d’inchiesta contro l’eversione... dei giudici imparziali! Il mondo alla rovescia.
Cosa si deve chiedere alle opposizioni perché pongano fine a questa deriva di masochismo che cresce nutrendosi del fallace alibi della «conquista del Centro»? Come è possibile esercitare la pressione sufficiente perché gli apparati dirigenti dei partiti ritrovino la lucidità elementare di una politica di opposizione adeguata all’oggetto cui devono opporsi?
6. È stato detto infinite volte, anche in piazze gremite da milioni di cittadini, che il paese democratico non avrebbe più dovuto tollerare, in un futuro di normalità che veda il centro-sinistra sostituire Berlusconi al governo, le sciagurate omissioni perpetrate nel primo quinquennio ulivista, 1996-2001: sul conflitto di interessi, sul monopolio televisivo berlusconiano, sulle leggi anticorruzioni e sull’intensificazione della lotta antimafia, sul rafforzamento dell’autonomia dei magistrati, e via rimpiangendo. Come è possibile garantirsi effettivamente che un secondo quinquennio «più che ulivista» non si impantani nel piccolo cabotaggio del quieto vivere (che cova poi, quasi ineluttabilmente, qualche exploit di indecenza bipartisan)? Come non precipitare, per la buonissima causa di sconfiggere comunque Berlusconi, nelle sventure sempre meno rimediabili di una nuova delega in bianco?
Due libri tornano a interrogare il mito della figlia di Edipo per leggere in termini radicali la crisi della politica: «Antigone e la philìa. Le passioni fra etica e politica» di Francesca Brezzi e «La rivendicazione di Antigone. La parentela fra la vita e la morte» di Judith Butler. Antigone come figura della relazione, di un possibile intreccio fra etica e politica, di un individuo non più scisso fra ragione e passione. Antigone come figura della crisi dell'ordine patriarcale nella parentela come nella polis, e di un desiderio post-edipico che apre a una nuova antropologia del presente
«Ad alcune tragedie si torna, ma altre, come Antigone, sembrano tornare. Non per essere scavate e rivelare nuovi sensi, ma come allusive, rivissute. Quanto l'Antigone ricorrente nei nostri anni ci parla dell'Antigone sofoclea, e quanto invece di noi?». Così Rossana Rossanda quindici anni fa, introducendo la sua rilettura della tragedia di Sofocle (traduzione di Luisa Biondetti, Feltrinelli , 1987), pensata per un ciclo di seminari del Centro culturale Virginia Woolf di Roma sull'onda di due spinte: la stagione di conflittualità radicale che in tutta Europa aveva scosso lo stato negli anni 70, e la fioritura, nello stesso decennio, dell'interrogazione femminista sull'eroina greca. Solo nove anni prima Kluge e Schloendorff avevano filmato, in Germania d'autunno, i funerali che il sindaco di Stoccarda aveva concesso ai detenuti del gruppo terrorista Baader-Meinhof uccisi nel carcere di Stammheim, funerali che altre città avevano rifiutato replicando a distanza di 2400 anni il divieto di Creonte sulla sepoltura di Polinice. E solo dodici anni prima Luce Irigaray aveva riletto Antigone in uno dei libri inaugurali del femminismo della differenza, Speculum, facendone una figura dell'esclusione femminile dal linguaggio e dalla polis e del ritrovamento della genealogia materna. L'una e l'altra spinta autorizzavano a ripensare il mito portandosi oltre il sedimento, pure molto spesso, di alcuni secoli di precedenti e autorevolissime interpretazioni. E oggi? Antigone non smette di tornare, come ha dimostrato di recente un convegno ad essa dedicato tenutosi nelle università di Cagliari e di Roma Tre. Ma perché, e da dove continuiamo, o riprendiamo, a interrogare il mito della figlia di Edipo murata viva dal tiranno di Tebe Creonte per aver dato sepoltura al fratello Polinice, morto in battaglia, reo di avere cercato di spodestare il tiranno e perciò condannato a non ricevere l'onore delle esequie? Lo scenario si è spostato. Non si tratta più di leggere attraverso Antigone il conflitto fra uno stato autoritario da una parte e i tentativi di sovvertirlo dall'altra, e nemmeno quello fra uno stato patriarcale e l'esclusione femminile dall'altra. Entrambe queste dicotomie si sono complicate. La maschera autoritaria, anzi ormai dichiaratamente guerrafondaia e poliziesca, della macchina statale, se per un verso dà luogo a forme micidiali di controllo biopolitico sul corpo individuale e sociale, per l'altro verso non riesce a nascondere le rughe profonde che solcano il volto del Leviatano, la sua crisi di legalità, legittimità e consenso, la sua incapacità di garantire il funzionamento dei cardini basilari del contratto sociale moderno. Il fronte della sovversione e della resistenza si è a sua volta ri-formato su scala sovranazionale, come nel caso del movimento no-global, o de-formato, come nel caso del terrorismo suicida. Quanto ai dispositivi di esclusione dalla polis, si sono fatti più feroci nei confronti degli «stranieri», migranti legali e illegali che forzano i confini materiali degli stati e quelli giuridici della cittadinanza, ma si sono viceversa capovolti in dispositivi di inclusione forzata verso le donne di casa nostra, dividendo le stesse strategie politiche femminili nei confronti dello stato: a più di trent'anni dalla rivoluzione femminista nulla ci autorizza a disegnare un conflitto lineare fra le donne e la polis, di fronte a un panorama complesso abitato dall'estraneità ma anche dall'assimilazione femminile, dalle Antigoni che tuttora sfidano lo Stato ma anche dalle torturatrici arruolate - a correzione della celebre lettura hegeliana del testo di Sofocle - al fianco dei fratelli nella militarizzazione dello Stato.
Reinterroghiamo Antigone, insomma, a partire da stati tanto più tentati da strette autoritarie quanto più diventano obsolescenti, da campi di detenzione come quello di Guantanamo che al corpo del nemico non negano la sepoltura bensì lo statuto dell'umano, da migrazioni che fanno saltare i confini della cittadinanza, da un femminismo diviso che in parte è diventato di stato e in parte rilancia viceversa la sua sfida originaria allo stato. Ma a maggior ragione torniamo a interrogarla, perché tutto questo panorama ci parla di una crisi radicale della politica, che dunque alle radici della politica ci riporta: su quel bordo fra antropologia della comunità e organizzazione della polis su cui la tragedia di Sofocle si colloca e si snoda.
E' da questo spirito di radicale interrogazione sulla crisi della politica che prendono le mosse due recenti letture dell'Antigone, l'una della filosofa italiana Francesca Brezzi ( Antigone e la philìa. Le passioni fra etica e politica,Franco Angeli), l'altra della filosofa californiana Judith Butler ( La rivendicazione di Antigone. La parentela fra la vita e la morte, Bollati; di Butler avremo presto occasione di tornare a parlare, perché Meltemi sta per mandare in stampa Vite precarie, un testo che raccoglie le sue analisi politiche successive all'11 settembre, mentre Sansoni ha da poco pubblicato il suo testo più classico, Gender Trouble, col titolo - opinabile - Scambi di genere). Entrambe dichiaratamente collocate nel solco delle interpretazioni femministe della tragedia, la leggono tuttavia diversamente, pur condividendo in partenza l'intenzione di superarne le tradizionali interpretazioni in chiave dicotomica o essenzialista: quelle che oppongono troppo semplicisticamente la polis al ghenos, il diritto al sangue, la sovranità alla trasgressione, l'uomo alla donna.
Per Francesca Brezzi - il cui libro ha fra l'altro il pregio di ripassare in rassegna tutte le principali letture della tragedia, da Hegel a Goethe, Heidegger, Brecht, Lacan, da Maria Zambrano a Marguerite Yourcenar, Luce Irigaray, Rossanda, Martha Nussbaum, Adriana Cavarero - si può trovare nell'Antigone una chiave per reinventare la politica facendola incontrare con l'etica, per uscire dai paradossi odierni di democrazie incerte fra l'universalismo e il comunitarismo, per disegnare i lineamenti di una nuova cittadinanza. Figura non di un ghenos prepolitico, bensì dell'irruzione sotto il segno della philìa nella polis in guerra sotto il criterio dell'amico-nemico, Antigone apre a una politica della relazione, in cui etica e politica non si scontrano ma si intrecciano. Figura non della separazione fra diritto e morale e fra pubblico e privato, bensì della sua denuncia, Antigone apre a un «divenire cittadini» non più diviso fra ragione di stato e passione personale. Figura non dell'esclusione femminile dalla sfera pubblica, bensì del tentativo femminile di proclamare il diritto d'esistenza nella sfera pubblica di leggi altre da quelle della sovranità, Antigone apre a un ripensamento dell'individuo sessuato, incarnato, fonte sorgiva di diritto e di un «universalismo contestuale», contro la concezione moderna dell'universalismo astratto incardinata sull'individuo neutro. Donna, combattuta ma non scissa fra due leggi e due lingue antinomiche, quella della polis e quella del sangue, Antigone diventa la figura dell'antropologia sessuata di una nuova politica possibile, non più fallogocentrica e non più imprigionata nelle sue tradizionali antinomie, ragione o passione, testa o corpo, diritto positivo o morale, amico o nemico. E la philia, espunta dallo statuto moderno della politica ma non assente nello scenario greco delle sue origini, torna in soccorso della politica morente nelle nostre democrazie di inizio millennio.
Non basta però la Donna a Judith Butler per riedificare la politica; perché notoriamente, per la filosofa californiana, anche «la Donna» è una costruzione del discorso fallogocentrico con cui l'ordine politico è imparentato; e perché prima di essere riedificata, la politica occidentale abbisogna ancora di essere decostruita, disossata, smontata nelle sue strutture primarie e nelle sue segrete complicità con le strutture dell'ordine simbolico. Perciò Butler, grande maestra nel corpo-a-corpo del pensiero femminista con la tradizione filosofica, si muove con agilità corsara fra la lettura della tragedia di Hegel e quella di Lacan; ma non per contrapporre la psicoanalisi alla politica, il dramma del desiderio singolare al dramma della comunità, bensì per reinsediare la questione del desiderio nel cuore della polis. E rilegge a sua volta Antigone con l'intenzione di mettere a tema i rapporti che intercorrono fra l'ordine simbolico e l'ordine sociale, fra l'ordine della parentela e l'ordine della polis, fra l'ordine fallocentrico della sessualità incentrato sul tabù dell'incesto e l'ordine della legge e della normatività.
Non è dunque «la donna», Antigone riletta da Butler, perché essa, come dimostra la contaminazione del suo linguaggio con quello di Creonte, non incarna l'identità di genere bensì la sua dislocazione nella recita dei ruoli sessuali; né incarna le ragioni della parentela contro la ragion di stato. Figlia dell'amore incestuoso fra Edipo e Giocasta, e a sua volta soggetto di due amori incestuosi, verso Edipo e verso Polinice, rappresenta piuttosto la crisi della parentela, il punto in cui il tabù dell'incesto vacilla; e contemporaneamente la crisi dell'ordine politico, che all'ordine simbolico fondato sul tabù dell'incesto è legato da nessi strutturali. E il problema di Antigone non è di entrare in quell'ordine, bensì di rivelarne i divieti costitutivi e i limiti invalicabili, che la lasciano sospesa, né dentro né fuori la polis, né morta viva, destinata a un'esistenza senza luogo, senza rappresentanza e senza rappresentazione possibile.
La rivendicazione di Antigone si intitola il libro di Butler, e non è difficile scorgere quale sia la rivendicazione di Judith che emerge dalla sua rilettura del mito. Contro il femminismo di stato, che dallo stato chiede protezione, legittimazione e riconoscimento, Butler rilancia la sfida antiistituzionale originaria del femminismo. Contro la ragion di stato, rilancia le ragioni di coloro che ne sono esclusi o dannati. Contro la teoria e la vulgata lacaniana dell'ordine simbolico come ordine astorico e immutabile, ripropone il problema - cruciale nel femminismo italiano - del rapporto fra ordine simbolico e ordine sociale. Contro la teoria strutturalista della parentela incardinata sull'Edipo, ma anche contro i movimenti identitari femministi e gay che spesso finiscono con l'uniformarvisi al di là di ostentate trasgressioni, rilancia la sfida di parentele eterodosse e mobili, e di una sessualità non anti-edipica ma post-edipica, in cui il desiderio non sia vincolato alla norma sociale e simbolica dominante.
Siamo sulla West Coast americana, dove la radicalità politica fa tutt'uno con la radicalità sociale, e Butler si sente autorizzata a lanciare la sua sfida dalle nuove configurazioni sociali che la parentela assume nelle famiglie allargate, nelle madri single, nelle coppie gay, nelle famiglie smembrate dei migranti; e dalla «malinconia» che avvolge, nella sfera pubblica, queste figure di «irregolari», insieme ad altre - detenuti, clandestini e quant'altri - ancor più tragicamente marchiate dalla normatività biopolitica e a sospese a loro volta in una condizione fra l'umano e il non umano. Ma noi possiamo rilanciare ancora altrimenti e diversamente la sua sfida, inoltrandoci ulteriormente sul terreno della crisi della politica. Scrive Butler che Antigone non segnala la questione del deficit della rappresentanza, bensì «la possibilità politica che si apre quando si palesano i limiti della rappresentanza e della rappresentazione». E' un tema noto alla critica della politica portata avanti dal femminismo italiano e dalle sue pratiche; critica e pratiche, per restare al gioco, a loro volta tenute dall'ordine del discorso dominante in una condizione sospesa, né politica né impolitica, destinate - come Antigone- a restare senza rappresentanza e senza rappresentazione dentro lo statuto tradizionale, convenzionale, normativo della politica. Condizione qualche volta malinconica, ma tutt'altro che infelice. Viviamo nell'epoca in cui, scrive Butler, «la politica è entrata nella catacresi»: non ha più nome proprio, è uscita dai suoi confini, è - in tutti i sensi - «fuori di sé». Il desiderio di politica che muove la politica oltre i suoi confini deputati, il desiderio femminile di politica che ha già spostato e modificato quei confini, è un desiderio tombale, come quello di Antigone secondo Lacan, o è piuttosto generativo di una nuova nascita della politica? Perciò interroghiamo ancora quel mito. Con e contro Lacan: Antigone, encore.
Si veda anche Antigone e l'alba del diritto, di Gustavo Zagrebelsky