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«Abbiamo costruito nuovi villaggi e abbiamo svuotato i paesi che c'erano. Abbiamo costruito villaggi fantasma e abbiamo reso fantasma i villaggi vivi. La "buona edilizia" può svilupparsi riqualificando i villaggi e i paesi esistenti perché vivano meglio tutto l'anno, perché i sardi ci possano lavorare e non semplicemente in funzione di quel breve periodo e di turisti che noi vorremmo invitare a conoscere la Sardegna più a fondo, fuori dall'enclave chiusa dei villaggi turistici».

Ho riportato per intero questo passo del discorso che Renato Soru, governatore della Sardegna, va facendo da tempo e che, in questa Italia del cemento, stupisce per chiarezza di visione, per antiveggenza, per risolutezza nel voler salvaguardare quanto di intatto c'è ancora nella sua isola, anche sulle coste più investite da massicce operazioni edilizie.

L’obiettivo strategico che sta perseguendo non a chiacchiere «bensì col più grande piano paesistico mai realizzato in Italia», come fa notare l'ingegner Edoardo Salzano, presidente del comitato scientifico per il piano medesimo (realizzato dagli uffici tecnici regionali).

Propongo un parallelo che parla da sé: se il Piano Paesistico Regionale, il PPR, verrà definitivamente approvato e attuato, si salveranno lungo i 1.731 km di coste sarde centinaia di km di dune profondissime che hanno tante funzioni oltre a quella estetica (salvano la macchia mediterranea dalle mareggiate e dalle tempeste di salmastro e di sabbia, operano un ripascimento naturale, ecc.) e che possono in futuro concorrere ad attrarre un turismo finalmente amante della natura. In Adriatico invece -dove dai primi decenni del '900 va avanti un modello turistico fondato sulla cementificazione e sull’asfaltatura della costa - dei 1.260 km di dune a uno o più cordoni esistenti un secolo fa, ne sopravvivono appena 123, cioè meno del 10 per cento. Così, alcune regioni non presentano più nemmeno 1 km di duna fra Trieste e Otranto. Un autentico massacro al quale è sfuggito e sfugge a fatica lo stesso delta del Po. Per la verità una folla di aspiranti-lottizzatori di Goro, nel delta ferrarese, avrebbe voluto una bella litoranea per poi poter ''riminizzare” anche lì. Li fermò la Regione, nata da poco. li fermò, anche fisicamente, nel 1972, Guido Fanti, presidente della medesima, salvando un gruppo di ambientalisti, fra i quali Giorgio Bassani e Antonio Cedema, da un minaccioso assedio. Altri tempi. Renato Soru ha il grande merito di aver riportato in onore l'idea-forza della pianificazione paesistica nel momento in cui tante altre regioni italiane (dei più diversi colori politici) o sbracavano cedendo ad una forsennata corsa edilizia che è tutta di puro mercato, oppure fabbricavano chiacchiere lasciando anch'esse costruire seconde e terze case a tutto spiano. Sapete a quanto è precipitato l'intervento pubblico nell'edilizia italiana? Dalle 35.000 abitazioni di un ventennio fa al migliaio o poco più del 2004, dall'8 all'1 per cento. Sapete a quanto è sprofondata, da noi, l'edilizia sociale sul complesso degli alloggi in affitto? Al 4 per cento, contro il 18 della Francia, il 21 di Regno Unito e Svezia e il 35 dei Paesi Bassi (siamo in coda all'Europa). Sapete di quanto è balzato in alto, per contro, l'indebitamento delle famiglie italiane per comprarsi una casa? Del 134 per cento in cinque anni. In testa ai permessi di costruzione ci sono la Lombardia, il Veneto, ampiamente devastato, e l'Emilia-Romagna, seminata di gru. Ma pure la Toscana e l'Umbria, fino a ieri "felix", hanno la febbre alta. Ancora nel 2003 erano stati rilasciati in Sardegna permessi di costruzione per 9.224 abitazioni in fabbricati residenziali. Poco meno che in Campania che però ha 5,7 milioni di abitanti contro il milione e 631 mila della Sardegna. Renato Soru e la sua maggioranza di centrosinistra sono partiti, in attesa del PPR, dal decreto salvacoste a difesa di una fascia di 2 km dietro le spiagge e che il governo di Silvio Berlusconi (il quale ha forti interessi immobiliari nell'isola, a Costa Turchese) impugnò nel gennaio 2005 con un atto considerato di vera e propria prevaricazione politica. Poi ha insediato il comitato scientifico coordinato da Salzano, il quale ha elaborato le linee-guida del PPR. Quindi gli uffici tecnici della Regione hanno lavorato a vapore, con entusiasmo, al piano stesso. Si possono ben immaginare le resistenze degli interessi grandi e piccoli incrostatisi negli scorsi decenni sul turismo sardo, seccamente stagionale, l'opposizione dei Comuni guidati dal centrodestra (ma non solo) ormai abituati ad incassare somme ingenti dalle nuove concessioni edilizie. Le osservazioni sono state quasi tremila, con parecchi mal di pancia nella stessa maggioranza, e però Soru ha portato a compimento nel settembre scorso l'approvazione dei piani in sede di Assemblea regionale. «La valorizzazione non ci interessa affatto», aveva volutamente rimarcato il governatore sardo nell'atto di insediare il Comitato scientifico. Al convegno del Fai ha riscosso consensi sostenendo che la Sardegna non ha bisogno di un tardivo «capitalismo karaoke». «Abbiamo semplicemente capito che i pezzi del nostro paesaggio costiero rimasti intatti andavano salvaguardati e trasmessi alle future generazioni». Un modo per ribadire, con assoluta chiarezza, che - come afferma anche Salzano - «conservare e gestire responsabilmente il paesaggio, prodotto del millenario lavoro dell'uomo su una natura difficile, significa conservare l'identità di chi lo abita. Un popolo senza paesaggio è un popolo senza identità né memoria». Di qui le linee-guida del piano: priorità alla preservazione delle risorse paesaggistiche, al loro ruolo strategico sul piano culturale, alla riqualificazione e al recupero dell' esistente, a forme di sviluppo fondate su di una nuova cultura dell1 ospitalità «sottratta alle ipoteche dello sfruttamento immobiliare ed agli effetti devastanti della proliferazione delle seconde case e dei villaggi turistici isolati». Il PPR rappresenta da una parte il catalogo aggiornato delle risorse del territorio e del paesaggio sardo e dall'altra il centro di promozione e di coordinamento di ogni azione volta alla tutela e ad uno sviluppo soste-nibile. Per questo Soru può affermare «la valorizzazione non ci interessa affatto»: nell'opera di tutela egli vede già ricompresa anche quella di valorizzazione e di qualificazione dell'esistente. Un concetto fondamentale, centrale, e invece oggi quanto mai disatteso. Anche dalla sinistra, spesso scioccamente sviluppista, che non vuoi fare i conti col dissennato consumo di suolo libero in corso in Italia. Nel programma dell'Unione c'era un accenno alla necessità di frenare e invertire questa rotta folle, ma, per ora, atri concreti non se ne sono visti. In tal senso gli studi preparatorii per il PPR sardo e gli elaborati del Piano medesimo possono ben costituire una base strategica di discorso per tutti. Anche per migliorare, speriamo presto e bene, il lacunoso Codice dei beni culturali e del paesaggio. Il PPR poggia sulla corretta impostazione del processo di co-pianificazione.

È chiaro che gli enti locali non possono essere i meri destinatari del piano. Devono contribuire attivamente. Ma, allorché insorgano contrasti in forza dei corposi interessi che il turismo ha mosso e muove, non vi può essere la paralisi, né ogni Comune può fare da sé (come è avvenuto nel caso ormai emblematico di Monticchiello, nel Senese). Ogni soggetto deve cioè assumersi le proprie responsabilità, secondo il modello gerarchico ribadito dalle sentenze della Corte costituzionale. L'articolo 9 della nostra Costituzione recita del resto con chiarezza «la Repubblica tutela il paesaggio». Fu proprio un politico sardo di grande spessore, il sardista, poi azionista e socialista, Emilio Lussu, a proporre la dizione «la Repubblica» in luogo di quella originaria «lo Stato», ricomprendendo in essa l'armonica cooperazione fra Stato, Regioni, Province e Comuni. In sede di articolo 117 si affidò peraltro allo Stato la tutela del patrimonio storico e artistico. Trattandosi di una Regione a statuto speciale, deve funzionare in modo ancor più positivo il binomio Stato-Regioni: al fine di «produrre» tutela attiva, non dissesto privato e assenza di piani pubblici, come invece è avvenuto in Sicilia. Secondo quanto dettano le stesse norme europee -si afferma nel documento di base per il PPR sardo - «principio di sussidiarietà vuoi dire che laddove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello territorialmente sovraordinato (UÈ nei confronti degli Stati nazionali, Stato nei confronti delle Regioni, queste nei confronti delle Province e così via), è a quest'ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell'azione».

Esemplarmente chiaro. Entro il 1° maggio 2008 le Regioni dovranno aver elaborato i nuovi piani paesistici secondo le prescrizioni del Codice. Teoria e pratica del PPR sardo possono essere di grande aiuto in un Paese spaesato e, a volte, proprio sbandato, senz'altra bussola che non siano, come ieri e peggio di ieri, la rendita fondiaria e la speculazione edilizia.

Si sta portando a termine la soluzione finale di quelle che erano le più splendide coste del Mediterraneo, grazie a un radicato analfabetismo urbanistico che va sostituendo spietatamente alla crosta terrestre la crosta della speculazione edilizia. Il quadro è impressionante. Negli strumenti per così dire urbanistici dei 64 comuni costieri della Sardegna è prevista la costruzione di ben settanta milioni di metri cubi di edilizia cosiddetta turistica (un terzo già costruita) con la prospettiva che i 1600 chilometri di litorali sardi verranno privatizzati, inquinati, cancellati e sommersi sotto un ininterrotto tavoliere di cemento, a esclusivo arbitrio delle società immobiliari, capace di ospitare (per i nove decimi in seconde case, già ne sono state costruite settantamila) oltre un milione e mezzo di persone, praticamente raddoppiando l’attuale popolazione dell’isola. L’ultimo colpo all’integrità delle coste sarde è stato inferto mercoledì scorso dal Consiglio comunale di Olbia, che a poche ore dal suo scioglimento in vista delle prossime elezioni amministrative, ha ceduto (con l'opposizione dei comunisti) all’arroganza del consorzio Costa Smeralda Aga Khan: approvando un piano che prevede in dieci anni la costruzione di seicentomila metri cubi di ville, alberghi, campi di golf, approdi turistici, eccetera. Il primo intervento sarà la costruzione di 157 mila metri cubi nella zona intatta di Razza di Juncu a pochi passi dal mare. Il che non potrebbe avvenire se si applicasse la legge sull’uso e la tutela del territorio che la Regione sarda ha tre mesi fa approvato, superando gli ostacoli insensatamente frapposti sul suo cammino dal governo. È una legge che giustamente pone un vincolo di inedificabilità graduata e temporanea su una fascia di 500 metri e di due chilometri dal mare, in attesa che vengano approvati i piani paesistici. Una legge che in questo caso è stata aggirata con una scappatoia predisposta fin dal 1983 da un protocollo fra Regione e consorzio, col quale la zona in questione è stata classificata come zona di espansione residenziale, mentre è completamente deserta e distante decine di chilometri dal centro abitato. Dunque appena fatta la legge è stata violata e volta in burletta. E quel mucchio di metri cubi viene ad aggiungersi a tutto quanto è già stato costruito a Olbia (che si badi è senza piano regolatore) occupando le aree costiere tramite singole licenze, di fatto lottizzazioni, quindi in buona parte illegali. MA SE l’Aga Khan attacca il fronte nord del comune di Olbia un altro potentato sferra un rovinoso attacco a Sud. È l'Edilnord di Silvio Berlusconi, che ha da gran tempo acquistato 500 ettari sui quali intende costruire villaggi marini e villaggi collinari, ville, residence, alberghi, porticciolo eccetera, per 570 mila metri cubi, per 5-6 mila persone, facendo tra l'altro sparire magnifiche zone umide che da sempre i naturalisti considerano biotopi intoccabili. Per aggirare la legge si troveranno altre scappatoie, si ricorrerà alla facoltà di deroga prevista dall'articolo 12 comma 3 della legge, che il sindaco può accordare previo nulla osta della giunta regionale. E si sa che in Italia, nel governo del territorio le deroghe diventano la regola. Per il momento tuttavia il progetto Berlusconi sembra segnare il passo, si vede che ha meno carte da giocare dell'Aga Khan: tornerà alla carica con la nuova amministrazione che uscirà dalle prossime elezioni. Ma intanto, scrive Roberto Badas responsabile regionale dell’istituto nazionale di urbanistica, si va formando un regime parallelo a quello della legge, che approfitta delle maglie lasciate aperte dalla legge stessa (così capita a Gonnesa nella Sardegna sud-occidentale, a Chia al sud, a Tortoli sulla costa orientale eccetera). In sostanza anziché l’urbanistica di iniziativa pubblica viene praticata, come nel resto d’Italia, l'urbanistica contrattata, tipica della deregulation che ci affligge da anni. E urbanistica contrattata (il caso più clamoroso di tutti è stato il progetto Fiat-Fondiaria di Firenze poi felicemente mandato a monte) significa rinuncia al controllo pubblico delle trasformazioni territoriali, significa assegnare il ruolo decisionale agli operatori privati, aumentare la discrezionalità degli amministratori e dei partiti a discapito dei consigli comunali, relegando il piano regolatore in posizione marginale e ininfluente. Con la conseguenza in Sardegna di dare il via ad uno sviluppo edilizio distorto e con effetti economici negativi: il prezzo di case e terreni che aumenta assai più del tasso di inflazione, un'edilizia turistica fatta quasi tutta di seconde case che offrono posti di lavoro dieci volte inferiori a quelli offerti dagli alberghi, dipendenza dall’esterno per i materiali da costruzione e per il fabbisogno alimentare, e via dicendo. Infine un fatto inquietante successo da poco: negli anni scorsi per iniziativa di un assessore coraggioso era stato istituito un servizio di vigilanza in materia edilizia, e si era riusciti a demolire 380 mila metri cubi tra case villette insediamenti precari abusivi eccetera, recuperando una settantina di chilometri di litorale. Ora la giunta di pentapartito, anziché premiarlo, ha allontanato da quel servizio il funzionario responsabile.

Si può ben dire che dalle elezioni regionali sarde di oggi dipende la sorte di quanto resta delle più splendide coste del Mediterraneo. Oltre ai 26 milioni di metri cubi già costruiti negli ultimi decenni, ce ne sono altri 50 previsti dagli strumenti urbanistici dei 68 Comuni costieri che - se non si interverrà con decisione - cementificheranno spietatamente i litorali, fino a formare una specie di città lineare lunga 1.560 chilometri. E' una prospettiva funesta: per sventarla, il Consiglio regionale sardo (maggioranza: Pci, sardisti, Psi, Pri, Psdi) aveva approvato il 5 aprile una legge urbanistica che prescriveva l'inedificabilità delle coste per due anni (per una profondità di 500 metri e in alcuni casi di 2 mila), in attesa dell' approvazione dei piani territoriali paesistici. Era una legge oltremodo ragionevole, che però il Consiglio dei ministri il 6 maggio ha pensato bene di bocciare con motivazioni assurde e rinviare al mittente, dando prova, come ha detto il presidente dell' Istituto nazionale di urbanistica, di proterva insipienza. Per parare il colpo, il 31 maggio la giunta regionale ha deliberato, in base alla legge Galasso, l' inedificabilità delle coste per 300 metri dalla battigia per sei mesi, in attesa di rielaborare la legge bocciata. È una soluzione interlocutoria (sono valide le opere già iniziate e, previa verifica, le concessioni che abbiano avuto il nullaosta della soprintendenza) che tuttavia blocca temporaneamente la cementificazione selvaggia. Vengono così rimesse in discussione le pretese abnormi di innumerevoli società immobiliari e quelle del consorzio Costa Smeralda e del progetto Costa Turchese di Berlusconi a Olbia, per milioni di metri cubi: e la Regione sarda impartisce una lezione al resto d' Italia, se appena consideriamo che oltre un terzo dei 7.500 chilometri di litorali italiani sono ormai da considerarsi perduti perché trasformati in sudici e congestionati agglomerati semi-urbani. E se mai avremo un nuovo governo bisognerà far di tutto perché esso prescriva per legge l’inedificabilità permanente anche mediante esproprio delle coste: come fanno da tempo la Francia per il litorale Languedoc-Roussillon e la Gran Bretagna che con l'operazione Nettuno ha espropriato centinaia di chilometri per tramandarli intatti alle generazioni future. La tutela dei valori paesistici e naturali è stata definita dalla Corte costituzionale un interesse primario, prioritario su ogni altro interesse, compresi quelli economici: ed è apprezzabile che il segretario di un grande partito, Achille Occhetto, abbia insistito su questo tema centrale della politica italiana fino a poco tempo fa considerato impopolare. Dunque lo sviluppo costiero della Sardegna dovrà in avvenire seguire criteri tutti diversi da quelli che finora l'hanno devastata. È urgente una drastica revisione degli sgangherati programmi edilizi dei Comuni, riportando in onore una politica di pianificazione che subordini severamente ogni eventuale sviluppo alla salvaguardia di territorio, paesaggio, natura, beni culturali: senza naturalmente dimenticare di intervenire contro quanto è stato costruito abusivamente (alcune centinaia di migliaia di metri cubi fuorilegge sono stati demoliti negli ultimi anni). La battaglia sarà dura: già una parte dei Comuni in una pubblica dichiarazione si sono rivoltati contro ogni norma intesa a contenere l'urbanizzazione indiscriminata. Tra tutti spicca il sindaco democristiano di Bosa, che smania perché le sue coste ancora intatte scompaiano sotto 250 mila metri cubi di cemento, in nome naturalmente dell' autonomia comunale. Un'autonomia rivendicata per fare il male anziché il bene della collettività.

Corriere della sera

Soru compra le coste sarde: a Berlusconi le chiedo gratis

di Alberto Pinna

CAGLIARI — A Tom Barrack, proprietario della Costa Smeralda, lo ha già chiesto, con garbo: «Saremmo felici di accettare in donazione i terreni fra Cala di Volpe e Portisco». Renato Soru sentirà anche Silvio Berlusconi; spera di convincerlo a regalare Costa Turchese alla Regione. Di argomenti ne ha soprattutto uno; sui 2600 ettari a Razza di Juncu in Costa Smeralda e sui 450 della famiglia Berlusconi a sud di Olbia, dopo l'approvazione del piano paesaggistico regionale, non si può più costruire nulla. «Con i terreni dei privati e con quelli regionali e comunali — spiega il governatore della Sardegna — vorremmo far nascere un grande parco costiero pubblico, disponibile per sempre ad usi civici».

La Sardegna ha 1800 chilometri di litorali, la Regione possiede più di 20 mila ettari, direttamente o attraverso società controllate, oltre all'isola dell'Asinara. I Comuni ne hanno più di 60 mila, il solo Baunei (costa est, cala Luna, Sisine, Mariolu, Goloritzè) 20 mila. Barrack e Berlusconi sono gli imprenditori più noti, ma Soru si appella a tutti i proprietari e li invita a cedere gratuitamente i terreni alla Conservatoria delle coste, istituita nel 2005 per acquisire i siti di maggior pregio naturalistico, sull'esempio di quanto in Gran Bretagna fa il National Trust e in Francia il Conservatoire du Littoral.

E se Barrack, Berlusconi e gli altri proprietari rispondessero no alla donazione? Soru ha una proposta: la Regione è pronta ad acquistare pagando 2 euro e 22 centesimi al metro quadro, cioè al prezzo previsto per i terreni agricoli. E per i siti di particolare pregio anche a far scattare l'esproprio motivato — e sarebbe un caso con nessuno o pochissimi precedenti — da pubblica utilità per tutela ambientale. C'è chi ha già fatto i conti: i Berlusconi incasserebbero quasi 10 milioni di euro, Barrack e i suoi soci più di 55 milioni. Briciole in rapporto a quanto a suo tempo hanno speso per acquisto dei terreni, progettazioni e, soprattutto, alle attese di ricavi e utili. Fra gli altri imprenditori a rischio "donazione", acquisto o esproprio ci sono anche operatori sardi: Sergio Zuncheddu (costa sud est), le famiglie Molinas (Porto Rotondo e Marinella), Tamponi (Golfo Aranci e isola di Molara) e gruppi internazionali come la Palau Golf spa che avrebbe dovuto realizzare su 300 ettari di fronte all'isola di Caprera un grande campo di golf, alberghi e residenze.

Il centrodestra innalza barricate: i terreni costieri sui quali non si può costruire saranno facile preda di speculatori internazionali; potranno acquistarli per pochi euro e, passata la "tempesta Soru", aspettare che si modifichi il piano paesaggistico. «Inaudito, si vuole fare della Regione un'agenzia immobiliare — protesta Pier Giorgio Massidda, coordinatore di Forza Italia — e si torna agli espropri proletari». Settimo Nizzi, sindaco di Olbia, medico e amico di Berlusconi rincara: «È pura follia. E poi, dia l'esempio: perché non regala la sua villa sul mare e i suoi terreni alla Conservatoria delle coste?».

Renato Soru non si scompone: «Se i terreni sono quelli di Scivu (Sardegna sud ovest,

ndr), li ho acquistati ben prima di entrare in politica e comunque sono pronto a donarli alla Conservatoria. Quanto alle risorse, i soldi verranno dalla tassa su seconde case, imbarcazioni e aerei. Sì, la cosiddetta e tanto contestata tassa sul lusso: incasseremo più di 200 milioni di euro l'anno; e ne bastano 300 per comprare tutte le coste scampate al cemento».

La Nuova Sardegna

Il custode dei gioielli costieri. Troppi nemici, la Conservatoria non è ancora decollata

di Piero Mannironi

CAGLIARI. La filosofia che la ispira è simile a quella del Conservatoire du littoral francese e del National Trust inglese. E cioé, in estrema sintesi, un intelligente equilibrio nella gestione delle coste tra tutela e sfruttamento dolce dell’ambiente. La Conservatoria del litorale della Sardegna è uscita dal limbo delle buone intenzioni e ha cominciato a muovere i primi, incerti, passi. Ma la sua gestazione è stata finora lunga e difficile, anche perché sono state molte le resistenze politiche, anche in senso alla maggioranza, che hanno rallentato il cammino verso un’agenzia pensata soprattutto sul modello francese.

Nata ufficialmente il 9 marzo 2005 con una delibera della giunta regionale, la Conservatoria ha come obiettivo la gestione dei “gioielli” delle coste sarde. Attualmente vive in una sorta di animazione sospesa, tra due delibere della giunta (una che la istituisce e l’altra che definisce la fase di studio e organizzazione) e una legge per farla camminare che non è ancora nata. Insomma, per ora è come una costola amministrativa della giunta regionale, senza un’anima giuridica autonoma.

E che la Conservatoria abbia molti nemici lo si è visto la scorsa primavera, durante la discussione sul maxicollegato alla legge finanziaria. L’agenzia è stata infatti prima anemizzata in Commissione come disponibilità di risorse, approdando così in Consiglio solo come un’entità che ha a disposizione appena 500 mila euro per «studi e ricerche sulla valorizzazione delle coste».

Non è difficile intuire che dietro scetticismi e ostacoli politici si muovano ambienti imprenditoriali e finanziari che temono un ulteriore indebolimento di progetti speculativi fondati sul mattone. Una volta diventata adulta e messa a regime, infatti, la Conservatoria delle coste non solo avrà il compito di gestire i siti costieri di maggiore pregio ambientale che entreranno nel patrimonio regionale, ma anche il potere di acquisire terreni e immobili considerati degni di tutela.

Eppure l’esperienza francese, alla quale la giunta Soru si è ispirata, ha dimostrato che il modello può funzionare. Non solo, ma che il modello può essere perfino condiviso e difeso dalla gente e dalle amministrazioni locali. L’esempio più clamoroso è quello della vicina Corsica, dove il Conservatoire du littoral controlla ormai direttamente il 20% delle coste e, al termine di un programma di interventi in corso, arriverà addirittura a gestire il 40% dei litorali dell’Isola di Bellezza. Alla radice di questo consenso diffuso dei comuni, c’è il coinvolgimento diretto nella gestione del patrimonio. Forniscono infatti personale, ma anche progetti di sviluppo turistico sostenibile.

Il Conservatoire du littoral francese è un istituto pubblico sotto la tutela del ministro dell’Ecologia. Creato nel 1975, ha il compito statutario di garantire la «protezione definitiva di spazi naturali e paesaggisticamente rilevanti sulle coste marittime e lacustri», sulle foci dei fiumi e sui rioni periferici delle aree metropolitane rivierasche.

Al primo gennaio, il Conservatoire du littoral assicurava in Francia la protezione di 70.100 ettari di terreno, divisi su trecento siti. Il tutto per uno sviluppo costiero di oltre 800 chilometri. Alla fine del 2005 il ministro dell’Ecologia francese ha concesso un aumento del budget annuale dell’istituto, passato così da 30 a 38 milioni di euro. Il 75% di queste risorse è destinata all’acquisizione di aree e alla loro sistemazione.

Colpisce l’eseguità del personale del Conservatoire du littoral, ma, di contro colpisce anche la sua spaventosa efficienza. In tutto, tra la sede centrale di Parigi e le delegazioni regionali, si arriva a malappena a un centinaio di funzionari. Ma questa piccola équipe è, come dicono i francesi, «particulièrement performante». Solo alcune cifre per capire meglio: ogni anno questo minuscolo gruppo riesce a portare nel patrimonio del Conservatoire dai 2mila ai 3mila ettari, riuscendo a negoziare e a sottoscrivere un atto di acquisizione al giorno. Esiste poi un sistema di monitoraggio continuo, che viene affidato a 150 “guardie del litorale”, assunte tra le comunità locali. Ci sono infine circa 300 impiegati che curano l’amministrazione e i contratti.

Il sistema di tutela ambientale del Conservatoire si integra perfettamente con la Loi littoral. Una legge che, negli ultimi anni, alcuni autorevoli esponenti della maggioranza di destra stanno cercando di modificare (senza riuscirci) per allargare le maglie dei divieti. I cardini di questa norma sono: il divieto assoluto e inderogabile di costruire, in una fascia di rispetto di cento metri dalla battigia e la continuità urbanistica. Che cos’è questa continuità? Semplicemente questo: è possibile costruire sulla costa solo in aree contigue ai centri abitati esistenti.

Mentre la Conservatoria in Sardegna stenta a compiere i primi passi, l’idea della giunta Soru è invece guardata con grande attenzione da organismi internazionali come l’Unep (il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite). Tanto che, insieme al piano paesistico, il modello della Conservatoria è stato inserito nel Blue Plan, il dossier del Map (Piano d’azione per il Mediterraneo) dell’Unep.

Per il maltese Paul Mifsud, coordinatore del dossier, la Sardegna sta insomma diventando un modello da imitare in tutta l’area mediterranea, considerata ad altissimo rischio ambientale. Se infatti il trend non sarà invertito, entro il 2025 oltre il 50% dell coste mediterranee sarà cementificato.

Non è facile spiegare a chi non c'è stato il senso di un luogo così vicino e così lontano, non solo geograficamente, dall'isola madre. L' accesso all' Asinara è stato negato per oltre un secolo, perciò il ricordo collettivo (e il racconto) è discontinuo; e nonostante le popolazioni locali la tengano da sempre nello sfondo hanno un'idea vaga della sua forma complessa. Doppia, come appariva ai topografi ottocenteschi che segnalavano, tra due alture, la pianura che collega i due mari: quello di fuori scostante e quello interno che consente facilmente l'approdo.

Qui si sono si sono incontrati pastori e pescatori, corallari venuti da lontano e soldati, guardiani di torri e di fari che hanno intrecciato le loro storie, nonostante l'isolamento e le battaglie cruente che si svolgevano senza preavviso nel mare attorno.

Storie interrotte, all'improvviso, quando l'isola, nel 1885, è stata acquisita al demanio per impiantarvi un carcere e una stazione sanitaria. Un atto che ha segnato in modo perentorio la sua vicenda, che ha deciso la sua fisionomia. Per conoscere l'Asinara - da una decina d'anni Parco nazionale - bisogna saperla la sua storia e tornarci, non solo d'estate perché ogni volta si scoprono aspetti inosservati. Il trionfo dell'euforbia a primavera, le capre che sbucano imponenti, le berte maggiori che volano oscillanti, il colore dei fondali che cambia all'improvviso.

Scenari unici e integri, nonostante la presenza di uomini che non l'hanno curata, per quanto i racconti di prigionieri e guardie rivelino un sentimento di attrazione per questo luogo.

Il Parco: con tante questioni aperte. Che a differenza di altri parchi è accessibile con difficoltà. Ed è interamente di proprietà pubblica. Moltissimi gli edifici, alcuni di pregevole fattura, che avrebbero bisogno di interventi. Poi gli animali da accudire e quelli in eccedenza. Le esigenze della tutela, che i pochi e bravi tecnici del Parco curano con passione.

Quindi i costi e le risorse inadeguate per i parchi (abbondanti per le grandi opere). L'insoddisfazione di chi vorrebbe di più. Gli incitamenti di chi vorrebbe metterla in produzione l'Asinara e l'idea - rieccola - di affidare le volumetrie ai privati che saprebbero come fare, ci mancherebbe. E che ovviamente dovrebbero fare i conti con il mercato. Il grande villaggio turistico - superesclusivo - quindi. Una risposta sbagliata. Perché si tratterebbe di un'altra rottura con la sua storia, il contrario dell'idea di parco, che è dentro un orizzonte temporale lungo, un investimento per le generazioni future a cui si devono subordinare le aspettative immediate della politica. La omologazione pure parziale ai riti della vacanza balneare, sarebbe un danno incalcolabile. Occorre conservarla con ostinazione questa differenza. Tanto più se si adocchiano le coste dirimpettaie di Stintino, cancellate dalla speculazione edilizia. O quelle più in là, sciaguratamente segnate dalla centrale a carbone, dalle fabbriche dimesse della ex Sir , dall'inquinamento.

Berlusconi e l’ombra lunga dell’abusivismo

di Sandro Roggio

Anni e anni vissuti nell'incredulità di un paese permeato dal berlusconismo. E chissà per quanto tempo resisterà l'onda lunga di un comportamento che è stato assunto, anche a sinistra, come esempio di modernità. Da anni assistiamo, con reazioni inadeguate, alla vicenda dei presunti abusi di Berlusconi nella sua proprietà in Sardegna, con il tira emolla della secretazione di tutto ciò che riguarda quell'area, i lavori svolti e in corso, permotivi di sicurezza che appaio risibili a qualsiasi persona di buon senso. Così nessuno ha potuto vedere le carte, custodite non si sa bene dove, per accertare se sia tutto in regola. Invece tutto è avvolto nella nebulosa dei si dice, cosa che dovrebbe preoccupare l'uomo di stato e scandalizzare l'opinione pubblica che, ci ricordano, spaccata ( anche tra quelli che reclamano legalità e quelli che pensano che si tratti di persecuzione).

L'ultimo atto di questa storia conferma lo stile dell'ex presidente. La realizzazione di un poggio artificiale che completa il quadro delle alterazioni (l'approdo blindato, l'anfiteatro, il finto nuraghe, il lago, i cactus) è quanto di più controindicato per un luogo immodificabile secondo la legge regionale. Un artificio che ha come obiettivo quello di consentire di vedere ilmare dall'alto (difficile per Berlusconi accettare che in prossimità delmare la sua vista sia talvolta preclusa). In altre epoche uomini potenti hanno realizzato artifici notevoli permeravigliare i sudditi. Ma erano altri tempi e la nozione di paesaggio - bene comune che non si può piegare ai capricci degli uomini ricchi, dovrebbe valere oggi soprattutto per i governanti.

Che la Regione voglia fare chiarezza è importante, e poco conta che i Forestali sardi siano per Berlusconi «ispettori della sinistra». Ma si diceva dell'onda del berlusconismo sprezzante delle regole. Che è arrivata a degradare il senso comune (in quanto a illeciti edilizi c'è una certa propensione). Così ad Alghero, porta del turismo a nord dell'isola, ecco una lottizzazione abusiva nei pressi di un parco naturale; a pochi metri dall'abitato, scoperta «per caso» da una pattuglia di vigili urbani. Tante case disposte su quote elevate per vedere ilmare, dicono con stupore le cronache.

Ma c'è già chi trova giustificazioni per questi reati che in altri paesi neppure si conoscono. Per questo, per provare a fermarla quell'onda che rischia di travolgere ogni cosa, bisogna valorizzare le notizie buone. Come la tassa sul lusso voluta da Soru. O come quella che riguarda la spiaggia di Is aruttas, un ambiente che il sindaco di Cabras, sempre in Sardegna, vuole preservare dall'impatto. Indicando le precauzioni: addirittura il tipo di scarpe ai 300 visitatori autorizzati giorno per giorno, per evitare di portare via poco a poco la sabbia quarzosa. Meglio scalzi, e con divieto di fumo, come si va nei luoghi di pregio e di tutti.

Regole - orrore per Berlusconi ! - che valgono per tutti, per figli di operai e figli di professionisti.

I lavori di Villa Certosa autorizzati dal sindaco

di Costantino Cossu,

Sei ulivi secolari importati dalla Spagna piantati sulla sommità di una collinetta a circondare una panchina dalla quale si domina tutto il Golfo di Marinella, uno dei luoghi più belli della Costa Smeralda. E’ l’ultimaimpresa di Silvio Berlusconi aVilla Certosa. L’ennesimo abuso edilizio?

No, secondo la polizia giudiziaria alla quale la procura della Repubblica di Tempioha affidato le indagini. Ieri sul tavolo del procuratore Valerio Ciccalò è arrivata una relazione dalla quale emergerebbe la conferma di quanto ha sostenuto fin dall’inizio l’avvocato del cavaliere, Niccolò Ghedini: gli ultimi lavori nella casa estiva di Berlusconi, a Porto Rotondo, sarebbero stati eseguiti dietro regolare autorizzazione.

Il corposo fascicolo contiene fotografie aeree, autorizzazioni, relazioni dei tecnici. Tra queste anche quella rilasciata dall’Ufficio tutela del paesaggio della Regione Sardegna il 12 luglio 2005, che parla di opere che s’inserisconoperfettamente nel contesto naturale, e quella rilasciata dall’ufficio tecnico del comune di Olbia il 18 gennaio di quest’anno, che autorizzava la sistemazione esterna con pavimento ingranito, e la realizzazione di una serra e una tettoia amovibile in legno. Per i tecnici incaricati dal magistrato il nuovo belvedere di Villa Certosa rientra nella sistemazione esterna della serra, e sarebbe un intervento di riqualificazione e recupero ambientale di un’area degradata. L’8 maggio i dirigenti del Servizio di vigilanza edilizia inviati dall’assessore regionale all’Urbanistica, alcuni ispettori del Corpo di vigilanza ambientale, i tecnici dell’ufficio antiabusi delcomunediOlbia, accompagnati da Ghedini, avevano fatto un sopralluogo all’interno della proprietà intestata dell’Idra Immobiliare, la società cui fanno capo tutte le case del Cavaliere. Ieri la consegna a Ciccalò delle conclusioni raggiunte.

Spetta ora al giudice decidere che fare. Le autorizzazioni sono dunque arrivate da due organi tecnici, uno del comune di Olbia, l’altro della Regione Sardegna. Nel primo caso la cosa non stupisce. Sindaco di Olbia è Settimio Nizzi, uno dei leader sardi di Forza Italia, intimo di Berlusconi (alle ultime elezioni comunali il Cavaliere è venuto a Olbia per fare i comizi insieme con Nizzi). E il comune di Olbianon ha mai vigilato davvero sugli innumerevoli abusi edilizi compiuti dall’ex presidente del Consiglio alla Certosa. Diverso è il discorso per l’autorizzazione rilasciata dall’Ufficio tutela del paesaggio della Regione il 12 luglio 2005. Gli assessori regionali all’Ambiente e all’Urbanistica ne sapevano niente?E ilpresidente Renato Soru ne era informato? La Regione ha mandato i propri ispettori a Villa Certosa, e ora si scopre che un’organo tecnico che dovrebbe essere controllato dalla giunta di centrosinistra aveva autorizzato tutto.

Berlusconi, comunque, continua a restare oggetto delle attenzioni dei magistrati di Tempio. Dopo circa due anni di indagini, quindici giorni fa la procura ha chiuso l’inchiesta sugli abusi edilizi alla Certosa. Nei prossimi giorni potrebbe arrivare il decreto di citazione a giudizio nei confronti dell’amministratore di Idra Immobiliare. Nel mirino della procura ci sono diversi lavori realizzati nella villa: l’anfiteatro, gli impianti sportivi, il giardino di ibiscus, alcune piscine e l’impianto di talassoterapia. Tutto costruito, secondo i magistrati, senza autorizzazioni. Per queste opere l’Idra Immobiliare ha presentato al comune di Olbia richiesta di condono, riconoscendo l’abuso.

Gli insediamenti per le vacanze che stanno in contesti naturali, una volta splendidi, sono più o meno fastidiosi a vedersi: dipende dai punti di vista. Il complesso del Bagaglino in terra sarda, Comune di Stintino per l'esattezza, si offre con un'immagine particolarmente insolente, ma contribuisce il punto di vista sfavorevole che lo espone tutto insieme alla vista. E c'è di peggio in altri lidi dove per circostanze favorevoli l'edificato appare con minore evidenza.

Ma in Sardegna non ci sono ecomostri segnalati dalle attente ricerche.

Chi si aspetta di incontrare l'ecomostro abusivo (come il Fuenti in Campania o i grattacieli di Punta Perotti in Puglia) non lo troverà facilmente in Sardegna, almeno con le sembianze ostentate di masse volumetriche emergenti concentrate in un punto. La notevole estensione del perimetro costiero ha favorito per lungo tempo la dissimulazione dell'impatto. Ma ci sono e in grande quantità tanti piccoli mostri nascosti, tutti o quasi realizzati nel rispetto della legge, che godono di una certa indulgenza.

Eppure se si guarda con attenzione si vede il danno grave di tante microlesioni diffuse nel paesaggio e scarsamente percepite. Sequele di piccoli graziosi edifici che sovrastano in lungo e in largo le originarie morfologie e cancellano le testimonianze preziose dell'antica frequentazione umana. Chi ha visto una trentina di anni fa i luoghi dove stanno oggi agglomerati marini noti, stenterà a ritrovare i riferimenti naturali rimasti per tanti anni nella memoria geografica: quei luoghi sono riconoscibili per qualche residuo indizio.

La distanza dal mare è sempre decisiva per la caratterizzazione del danno. I villaggi di più vecchia formazione si riconoscono perché confinano direttamente con la spiaggia o la scogliera (e nei depliant dei venditori questo requisito è stato sempre abilmente enfatizzato).

I complessi più recenti sono più arretrati, ma si proiettano come e quanto possono verso l'acqua. Otre le graziose casette, ci sono le estensioni delle verande e le piscine e i pontili e le barche e una miriade di attrezzi per la balneazione per cui la linea di battigia si confonde in un coacervo semantico che conserva ben poco di naturale. Quando i complessi edilizi si attestano sul fronte più avanzato verso il mare, costituiscono non solo un impedimento alla vista dell'acqua (del limite suggestivo tra terra e mare), ma impediscono l'accesso a spiagge o alla scogliere alle quali l'accesso dovrebbe essere garantito per legge.

Le sbarre si trovano spesso a impedire di arrivare a spiagge, talvolta per via di autorizzazioni comunali rilasciate per ragioni di ordine pubblico e sicurezza per villeggianti altolocati, più spesso si tratta di prevaricazioni che nonostante le proteste restano impunite e si ripresentano ogni estate aumentando di numero. Ma in Sardegna, tranquilli, non ci sono gli ecomostri.

Paradosso dei paradossi. L'energia pulita e rinnovabile dell'eolico, anziché generare una forza alternativa in grado di sostituire la pesante dipendenza dagli idrocarburi, scatena un'inedita emergenza ambientale. Accade negli ultimi anni in maniera imponente in Sardegna: su 368 proposte presentate in campo nazionale, per una potenza complessiva di 13.300 megawatt, tra il luglio 2001 e l'aprile 2003, ben 88 istanze, per un totale di 3.765 Mw e 2.814 aereogeneratori, sono pervenute nella sola isola sarda. La più alta concentrazione in Italia.

Questo stato di cose trova una giustificazione grazie all'accesso a cospicui fondi pubblici, soprattutto comunitari, ma anche all'obbligo, per i produttori, di ottenere almeno il 2% (i cosiddetti certificati verdi) da energie rinnovabili, secondo un decreto del 1999. Così va da sé che i produttori di energia da fonti rinnovabili, oltre a vendere energia al gestore della rete, vendono anche i cosiddetti certificati verdi ai produttori di energia elettrica da fonti convenzionali, schiacciati anch'essi, ma svantaggiati, dall'obbligo imposto dalla normativa. Un ulteriore profitto. Ed eccoli i soggetti imprenditoriali sbarcati in Sardegna per fare affari con il vento: fra i principali l'Erga, del gruppo Enel, la Fri.El. (operativa fra le sedi di Bolzano e Pordenone), la Gamesa (Spagna), la Sun Wind (Germania), la Sun Tec Italia, la Enerprog (Sassari) e la Ivpc 4 (Avellino). Le imprese opzionano in regime di esclusiva i terreni, li affittano per un periodo generalmente di 25 anni (canoni medi di 1.549 euro per megawatt prodotto), contrattano con i comuni i benefici economici (in media l'1,6 % del fatturato al netto di Iva, liquidabile soltanto ad impianto avviato) attraverso la stipula di contratti capestro che permettono a queste società di abbandonare l'impianto, qualora «perdesse i presupposti tecnici ed economici tali da consentire uno sfruttamento economico». Oggi una legge regionale, detta salvacoste, prevede però che i cantieri eolici siano bloccati, almeno dove l'ambiente non è stato ancora compromesso. Malgrado questo blocco nella provincia di Oristano tra i comuni di Siamanna, Villaurbana e Mogorella, sulle cime del Monte Grighine, da alcune settimane sono iniziati i lavori per la costruzione di un parco eolico da parte della società danese Greentech Energy System. L'impianto sarà costruito inoltre in un'area sulla quale, essendo stata interessata nel 1999 da un incendio, secondo la legge 353/2000, non può sorgere alcun edificio o struttura. Nonostante tutto, i lavori continuano, tanto che l'assessore all'Ambiente della regione Sardegna, Antonio Dessì ha presentato alla procura della Repubblica di Oristano una denuncia nei confronti della società danese. Intanto la società danese si difende affermando di aver superato le valutazioni d'impatto ambientale.

Ma a difendere questa sciagurata scelta ci pensa anche la politica locale. Il sindaco di Villaurbana, Antonello Garau, si infuria nei confronti del provvedimento di blocco. L'amministrazione comunale di Siamanna si dissocia dalla posizione presa dal proprio sindaco, Roberta Ida Muscas, che aveva chiesto all'avvio dei lavori il rispetto della legge vigente, e la costringe alle dimissioni. Il comune di Mogorella firma una petizione popolare (230 firme su 350 abitanti) e quattro consiglieri comunali chiedono al sindaco Mauro Piras la convocazione di un'assemblea civica per il ritiro della concessione data a suo tempo alla società danese. La settimana scorsa intanto, proprio a Siamanna, il presidente della regione Renato Soru, nel tentativo di riaprire il dialogo e trovare un accordo, ha presentato i Piani integrati di sviluppo per i quali la regione investirà circa 850 milioni di euro.

Ma il caso della centrale del Grighine non è isolato: sono tuttora in corso i lavori per la costruzione della centrale eolica della Fri.El. di Bolzano nelle campagne fra Nulvi e Tergu (Sassari), in un'area interessata da vincolo paesaggistico. E non si possono dimenticare i penosi esempi del passato: nell'impianto dell'Enel nella Nurra (Porto Torres) crollò, nel dicembre 2001, l'ultimo aereogeneratore presente, mentre la centrale Enel del Monte Arci è entrata finalmente in esercizio nel 2000, dopo anni di lavori, ed è già stata giudicata obsoleta.

Relazione del Comitato scientifico sulla prima fase di formazione del Piano

Il Comitato scientifico

1 - La progettazione del PPR ha comportato, per i componenti del Comitato scientifico, un coinvolgimento intellettuale ed anche emotivo che l’intero gruppo ha condiviso pienamente nelle intenzioni culturali e politiche, e che li ha particolarmente stimolati per l’assoluta novità dell’esperienza nella quale si troveranno anche contenuti che rivoluzionano il governo del paesaggio.

L’estensione dell’area disciplinata (è il più grande piano paesaggistico mai redatto in Italia), il carattere controcorrente della filosofia di fondo che sostiene il Piano rispetto alla tendenza prevalente (che è quella della corsa alla privatizzazione e alla dissipazione del territorio e delle sue risorse), la possibilità di verificare e applicare i nuovi orientamenti scientifici derivanti dalle direttive europee e le regole, a volta discutibili, del recente Codice dei beni culturali e del paesaggio, tutti questi fattori hanno reso il compito del Comitato scientifico intricato ma emozionante.

Così, incaricato di seguire la progettazione a partire dalla messa a punto delle “Linee guida”, il Comitato Scientifico non si è limitato all’espressione di pareri ma ha formulato una filosofia, una visione organizzata sulla quale, poi, si è sviluppato il piano. Negli ultimi mesi della progettazione (a partire dal luglio 2005) i membri del CS hanno costituito dei gruppi di lavoro misti con gli operatori tecnici dell’Ufficio del piano che, fin dall’estate del 2004, avevano avviato la progettazione, raccolto e ordinato il vastissimo materiale conoscitivo indispensabile, delineato i capisaldi del metodo.

Il paesaggio della Sardegna

2. L’oggetto del PPR, si può dire il suo protagonista, è il paesaggio della Sardegna. Un bene complesso e fragile. Complesso per la sua formazione: è il prodotto del millenario lavoro dell’uomo su una natura difficile, lungo la cui durata si sono costruiti insieme, fusi nella medesima forgia, la forma dei luoghi (il paesaggio appunto) e l’identità dei popoli. Difficile da organizzare in conoscenza sistematica per la cognizione che ognuno di noi ne possiede pur esistendone una percezione comune. Osservato e studiato nella convinzione che conservare il paesaggio significhi conservare l’identità di chi lo abita e che un popolo senza paesaggio è un popolo senza identità e memoria. Complesso e fragile proprio per la bellezza delle sue coste, preda delle più rapaci e violente distruzioni, e per le solitudini mistiche delle aree interne in abbandono.

Fragile ma consolatorio per la rassicurante certezza che ancora si prova nel riconoscere il territorio anche in una fotografia dell’isola trovata nella polvere, per la sensazione di infinito che l’isola provoca in chi guarda ciò che di intatto è stato conservato, per l’effetto dei venti dominanti che hanno piegato il paesaggio, rocce e alberi, in una forma unica che lo identifica e lo rende familiare.

Complesso nonostante l’unità sostanziale che secoli di storia hanno realizzato a partire dalle differenti forme, unificando il territorio della Sardegna che si è composto in una sintesi, articolata e armonica, delle sue molteplici identità locali. Complesso e fragile per i conflitti che sono nati negli ultimi decenni tra una civiltà fortemente radicata nella storia e nei luoghi e una deformata idea di modernità che è consistita nell’utilizzazione feroce delle risorse e nella trasformazione del territorio ispirata a modelli uguali e ripetuti in ogni parte del mondo.

L’assunto alla base del PPR è che questo paesaggio - nel suo intreccio tra natura e storia, tra luoghi e popoli – sia la principale risorsa della Sardegna. Una risorsa che fino a oggi è stata utilizzata come giacimento dal quale estrarre pezzi pregiati sradicandoli dal contesto, piuttosto che come patrimonio da amministrare con saggezza e lungimiranza per consentire di goderne i frutti alla generazione presente e a quelle future. Una risorsa che è certamente il prodotto del lavoro e della storia della popolazione che la vive, ma di cui essa è responsabile non solo nell’interesse proprio ma anche in quello dell’umanità intera. Una ricchezza che, nell’interesse della popolazione locale e dell’umanità, richiede un governo pubblico del territorio fondato sulla conoscenza e ispirato da saggezza e lungimiranza.

Il piano paesaggistico regionale

3. Il PPR è appunto lo strumento centrale di un simile governo pubblico del territorio. Esso si propone di tutelare il paesaggio, con la duplice finalità di conservarne gli elementi di qualità e di testimonianza mettendone in evidenza il valore sostanziale (valore d’uso, non valore di scambio), e di promuovere il suo miglioramento attraverso restauri, ricostruzioni, riorganizzazioni, ristrutturazioni anche profonde là dove appare degradato e compromesso. Il Piano è perciò la matrice di un’opera di respiro ampio e di lunga durata, nella quale conservazione e trasformazione si saldano in un unico progetto, essendo volta la prima a mantenere riconoscibili ed evidenti gli elementi significativi che connotano ogni singolo bene, e la seconda a proseguire l’azione di costruzione del paesaggio che il tempo ha compiuto in modo coerente con le regole non scritte che hanno presieduto alla sua formazione.

Il PPR è quindi, da una parte, il catalogo perennemente aggiornato - tramite il sistema informativo territoriale - delle risorse del territorio sardo e del suo paesaggio e delle regole necessarie per la sua tutela e, dall’altra parte, il centro di promozione e di coordinamento delle azioni che, a tutti i livelli, gli operatori pubblici pongono in essere per trasformare la tutela da insieme di regole a concreta gestione del territorio.

Particolare rilevanza devono assumere tra queste azioni quelle svolte dai soggetti seguenti:

- dagli enti locali nella definizione della pianificazione urbanistica dei territori di loro competenza amministrativa, anche attraverso le collaborazioni interistituzionali che il Piano propone;

- dalle articolazioni settoriali e funzionali dell’amministrazione regionale aventi come compito specifico la gestione degli interventi di promozione finanziaria, le politiche patrimoniali, la valutazione ambientale;

- dagli enti di rilevanza nazionale, regionale e locale cui è affidata la missione specifica di tutelare e gestire singole parti del patrimonio paesaggistico della regione (foreste, demani, aree protette ecc.).

Un lavoro che prosegue

4. La prima fase della formazione del PPR consiste nell’approvazione preliminare, da parte della Giunta regionale, in una serie di documenti i quali, pur essendo riferiti all’insieme del territorio regionale, disciplinano con particolare attenzione e compiutezza i beni e i paesaggi interessanti la fascia costiera, ossia l’insieme dei territori i quali (per la loro origine e conformazione, per le caratteristiche dei beni in essi presenti, per i processi storici che ne hanno caratterizzato l’attuale assetto) hanno un rapporto privilegiato con il mare.

Essa deve essere considerata la prima fase di un lavoro che si svilupperà nel futuro sotto un molteplice punto di vista:

- perchè è oggetto di una discussione sulle proposte formulate nella quale la società regionale, in particolare quella rappresentata dai soggetti indicati al punto precedente, si esprimerà proponendo integrazioni, correzioni, approfondimenti e specificazioni, dei quali terranno conto la Giunta e il Consiglio regionali al momento dell’approvazione del piano;

- perchè molte delle direttive e degli indirizzi espressi nei documenti di piano dovranno essere verificati, specificati, articolati, dettagliati nella pianificazione provinciale e comunale, nel quadro di quella “assidua ricognizione” dei valori paesaggistici e ambientali cui la Corte costituzionale si è più volte riferita;

- perchè infine anche per le parti del territorio regionale aventi minore attinenza con il mare di quelle particolarmente approfondite nella prima fase, si dovrà raggiungere lo stesso livello di approfondimento.

L’impianto normativo

5. L’impianto normativo del PPR è costruito in adeguamento alla legislazione sovraordinata, con particolare attenzione all’evoluzione legislativa che ha condotto dalla legge 431/1985 al Codice 42/2004, alla giurisprudenza costituzionale che si è susseguita in materia a partire dalle sentenze 55 e 56 del 1968, nonchè alla Convenzione europea del paesaggio, al Protocollo MAP per le zone costiere. Esso è accompagnato da un testo legislativo che propone alcune modifiche alla vigente legislazione regionale in materia.

Esso si basa nella sostanza sulla distinzione di due strati normativi:

- il primo strato normativo, è riferito sia ai singoli elementi territoriali per i quali è necessaria e possibile la tutela ex articoli 142 e 143 del DLeg 42/2004 (beni appartenenti a determinate categorie a cui è possibile ricondurre i singoli elementi con criteri oggettivi, in jure “vincoli ricognitivi”), sia alle componenti che, pur non essendo dei beni (anzi magari essendo dei “mali”) devono essere tenute sotto controllo per evitare danni al paesaggio o per favorirne la riqualificazione;

- il secondo strato normativo è riferito ad ambiti territoriali per la definizione dei quali i caratteri paesaggistici ed ecologici sono determinanti, e che saranno la sede per definire indirizzi, direttive e prescrizioni anche di tipo urbanistico, da rendere operativi mediante successivi momenti di pianificazione; in particolare per precisare, la definizione degli obiettivi di qualità paesistica, gli indirizzi di tutela e le indicazioni di carattere “relazionale” volte a preservare o ricreare gli specifici sistemi di relazioni tra le diverse componenti compresenti.

La fascia costiera

6. Tra gli elementi del primo tipo assume particolare rilevanza il bene costituito dalla fascia costiera nel suo insieme. Questa, pur essendo composta da elementi appartenenti a diverse specifiche categorie di beni (le dune, le falesie, gli stagni, i promontori ecc.) costituisce nel suo insieme una risorsa paesaggistica di rilevantissimo valore: non solo per il pregio (a volte eccezionale) delle sue singole parti, ma per la superiore, eccezionale qualità che la loro composizione determina.

É anche grazie al suo eccezionale valore, e alla scarsa capacità di governo delle risorse territoriali che dimostrata nei decenni trascorsi dai gruppi dirigenti, che questo incomparabile bene è oggetto di furiose dinamiche di distruzione. E’ qui che si è esercitata con maggior violenza nei decenni trascorsi, e minaccia di esercitarsi nei prossimi, la tendenza alla trasformazione di un patrimonio comune delle genti sarde in un ammasso di proprietà suddivise, trasformate senza nessun rispetto della cultura e della tradizione locali né dei segni impressi dalla storia nel territorio, svendute come fungibili e generiche merci ad utilizzatori di passaggio, sottratte infine all’uso comune e al godimento delle generazioni presenti e future (ad esclusione dei privilegiati possessori).

Massima qualità d’insieme e massimo rischio: due circostanze che giustificano la particolare attenzione che si è posta per delimitare, secondo criteri definiti dalla scienza e collaudati dalla pratica, il bene paesaggistico d’insieme di rilevanza regionale costituito dai “territori costieri”, e per disciplinarne le trasformazioni sotto il segno d’una regia regionale attenta sia alla protezione che alla promozione delle azioni suscettibili di orientarne le trasformazioni nel senso di un ulteriore miglioramento della qualità e della fruibilità.

Tre letture, tre assetti

7. Il paesaggio è certamente il risultato della composizione di più aspetti. E’ anzi proprio dalla sintesi tra elementi naturali e lasciti dell’azione (preistorica, storica e attuale) dell’uomo che nascono le sue qualità. E’ quindi solo a fini strumentali che, nella pratica pianificatoria, si fa riferimento a diversi “sistemi” (ambientale, storico-culturale, insediativo) la cui composizione determina l’assetto del territorio, e dei diversi “assetti” nei quali tali sistemi si concretano.

Anche la ricognizione effettuata come base delle scelte del PPR si è articolata secondo i tre assetti: ambientale, storico-culturale, insediativo. Tre letture del territorio, insomma, tre modi per giungere alla individuazione degli elementi che ne compongono l’identità. Tre settori di analisi finalizzati all’individuazione delle regole da porre perchè di ogni parte del territorio siano tutelati ed evidenziati i valori (e i disvalori), sotto il profilo di ciò che la natura (assetto ambientale), la sedimentazione della storia e della cultura (assetto storico-culturale), l’organizzazione territoriale costruita dall’uomo (assetto insediativo) hanno conferito al processo di costruzione del paesaggio.

Ciascuno dei tre piani di lettura ha consentito di individuare un numero discreto di “categorie di beni a confine certo”, per adoperare i termini della Corte costituzionale: cioè di tipologie di elementi del territorio, cui il disposto degli articoli 142 e 143 del Dleg 42/2004 consente di attribuire l’appellativo di “beni paesaggistici”. Dalla ricognizione e dall’individuazione delle caratteristiche dei beni nasce la definizione delle regole. Sicché è dalle tre letture sono nati i tre “capitoli” delle norme. Ciascuno di essi detta le attenzioni che si devono porre perchè, in relazione ai beni appartenenti a ciascuna categoria, le caratteristiche positive del paesaggio vengano conservate, o ricostituite dove degradate, o trasformate dove irrimediabilmente perdute.

Gli ambiti di paesaggio

8. Le tre letture di cui al punto precedente hanno consentito di individuare e regolare i beni appartenenti a ciascuna delle categorie individuate. Ma, nella concretezza del paesaggio, ogni elemento del territorio appartiene a un determinato contesto, e in quel contesto entra in una particolare relazione con beni (e, più generalmente, con elementi del territorio) appartenenti ad altre categorie.

Ecco perchè, all’analisi del territorio finalizzata all’individuazione delle specifiche categorie di beni da tutelare in ossequio alla legislazione nazionale di tutela, si è aggiunta un’analisi finalizzata invece a riconoscere le specificità paesaggistiche dei singoli contesti. Sulla base del lavoro svolto in occasione della pianificazione di livello provinciale si sono individuati 27 ambiti di paesaggio, per ciascuno dei quali si è condotta una specifica analisi di contesto.

Per ciascun ambito il PPR prescrive specifici indirizzi volti a orientare la pianificazione sottordinata (in particolare quella comunale e intercomunale) al raggiungimento di determinati obiettivi e alla promozione di determinate azioni, specificati in una serie di schede tecniche costituenti parte integrante delle norme.

Gli ambiti di paesaggio costituiscono in sostanza una importante cerniera tra la pianificazione paesaggistica e la pianificazione urbanistica: sono il testimone che la Regione affida agli enti locali perchè proseguano, affinino, completino l’opera di tutela e valorizzazione del paesaggio alla scala della loro competenza e della loro responsabilità. In tal senso la disciplina proposta per gli ambiti di paesaggio è la parte del PPR che più viene segnalata agli interlocutori locali nella discussione dei documenti di piano, perchè è su di essa che le verifiche, gli arricchimenti, le correzioni e integrazioni avranno maggiore utilità per il completamento del piano.

Il Comitato scientifico

Edoardo Salzano, Urbanista - IUAV - Coordinatore

Giulio Angioni, Antropologo

Ignazio Camarda, Botanico - Università di Sassari

Filippo Ciccone, Urbanista - Università della Calabria

Enrico Corti, Urbanista - Università di Cagliari

Roberto Gambino, Urbanista - Politecnico di Torino

Giovanni Maciocco, Urbanista - Università di Sassari

Antonello Sanna, Ingegnere - Università di Cagliari

Helmar Schenk, Zoologo

Giorgio Todde, Scrittore

Paolo Urbani, Giurista - Università La Sapienza

Raimondo Zucca Archeologo

Tutti gli elaborati ufficiali del PPR sono pubblicati sul sito della Regione

La sentenza 51/2006 della Corte costituzionale

Ecco il testo integrale della sentenza con la quale la Consulta ha respinto i ricotsi presentati contro il vincolo di salvaguardia sulla fascia costiera (2000 metri di profondità) della costa della Sardegna

SENTENZA N. 51, ANNO 2006

REPUBBLICA ITALIANA



IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE

[omissis]

ha pronunciato la seguente SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 3, 4, commi 1 e 2, 7 e 8, comma 3, della legge della Regione Sardegna 25 novembre 2004, n. 8 (Norme urgenti di provvisoria salvaguardia per la pianificazione paesaggistica e la tutela del territorio regionale), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 24 gennaio 2005, depositato in cancelleria il 2 febbraio 2005 ed iscritto al n. 15 del registro ricorsi 2005.

Visto l'atto di costituzione della Regione Sardegna nonché gli atti di intervento della Associazione italiana per il WORLD WIDE FUND FOR NATURE O.N.L.U.S., del FAI Fondo per l'Ambiente italiano e di Italia Nostra O.N.L.U.S.;

udito nell'udienza pubblica del 10 gennaio 2006 il Giudice relatore Ugo De Siervo;

uditi l'avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Graziano Campus e Vincenzo Cerulli Irelli per la Regione Sardegna.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato il 24 gennaio 2005 e depositato il successivo 2 febbraio, il Presidente del Consiglio di ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato gli articoli 3, 4, commi 1 e 2, 7 ed 8, comma 3, della legge della Regione Sardegna 25 novembre 2004 n. 8 (Norme urgenti di provvisoria salvaguardia per la pianificazione paesaggistica e la tutela del territorio regionale), per contrasto con gli articoli 3, 97 e 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, con gli artt. 3 e 4 della legge costituzionale 27 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), nonché «con la disciplina nazionale in tema di tutela del paesaggio» e con l'art. 12, comma 1, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità).

2. – Il ricorrente rileva che, con la legge in questione, la Regione Sardegna ha provveduto a dettare norme urgenti per la salvaguardia del paesaggio, in funzione dei tempi occorrenti per l'approvazione, secondo modalità stabilite nello stesso provvedimento legislativo, di piani paesaggistici regionali, destinati a sostituire i precedenti piani territoriali paesistici, tredici dei quali, sul complessivo numero di quattordici per l'intero territorio regionale, annullati dal Tribunale Amministrativo Regionale della Sardegna ovvero, in sede di ricorso straordinario, dal Capo dello Stato.

Nel ricorso si premette che la Regione Sardegna vanterebbe, ai sensi degli articoli 3 e 4 dello Statuto speciale di autonomia, competenze primarie in materia di urbanistica ed edilizia, mentre, in relazione alla tutela paesaggistica, sarebbe vincolata dalle disposizioni statali in materia, ed in particolare dagli artt. 131 e seguenti del codice dei beni culturali e del paesaggio approvato con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della L. 6 luglio 2002, n. 137).

Il ricorrente, inoltre, afferma che sarebbe profondamente mutata la originaria disciplina legislativa in tema di cosiddette “misure di salvaguardia”, poiché, «mentre per le aree assoggettate a vincolo ex lege l'articolo 1-quinquies della legge 31 agosto 1985» (recte: del decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312, recante Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1985, n. 431 recante Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 27 giugno 1985, n. 312, recante disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale. Integrazioni dell'art. 82 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977 n. 616), «vietava “ogni modificazione dell'assetto del territorio nonché ogni opera edilizia”, “fino all'adozione da parte delle Regioni dei piani di cui all'articolo 1-bis”», l'articolo 159 del d.lgs. n. 42 del 2004 prevederebbe invece «un particolare procedimento di autorizzazione in via transitoria “fino all'approvazione dei piani paesaggistici, ai sensi dell'articolo 156 ovvero ai sensi dell'articolo 143 e al conseguente adeguamento degli strumenti urbanistici ai sensi dell'articolo 145”».

Ancora, il ricorrente afferma che i contenuti dei piani territoriali paesaggistici (e le deroghe ivi previste secondo la legislazione regionale, di cui si lamenta la illegittimità costituzionale), riguarderebbero «la disciplina d'uso sia di beni paesaggistici individuati direttamente dalla “legge Galasso”, sia di vaste ed importanti aree, anche urbane e costiere, che erano state specificatamente individuate come “bellezze naturali”, da distinti, motivati e tuttora vigenti provvedimenti dell'amministrazione statale».

3. – In tale contesto, le norme contenute negli articoli 3, 4, commi 1 e 2 «e, per certi aspetti, nello stesso articolo 7» della legge regionale impugnata prevederebbero, ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, «autonome e non coordinate misure di salvaguardia, comportanti il divieto di realizzare nuove opere, soggette a concessione ed autorizzazione edilizia, nelle zone costiere, ed esclusioni e deroghe di tale divieto» che risulterebbero, «in relazione alla disciplina generale statale, illogiche e manifestamente irragionevoli e, conseguentemente, in contrasto con gli articoli 3, 97 della Costituzione e con la disciplina nazionale in tema di tutela del paesaggio». I criteri adottati nelle norme censurate, infatti, non troverebbero giustificazione in alcuna valutazione paesaggistica; il fatto che una serie di interventi di modifica del territorio fossero accidentalmente previsti in piani urbanistici comunali o programmi di fabbricazione, ovvero finanziati da particolari soggetti pubblici sarebbe, sul piano della tutela paesaggistica, circostanza del tutto irrilevante «e tale da non giustificare o sorreggere razionalmente alcun divieto e/o deroga». Del tutto priva di logica sarebbe inoltre la possibilità di dar corso ad interventi ed opere, allorché le stesse «siano previste in piani urbanistici comunali che risultino adeguati a quei piani territoriali paesaggistici già dichiarati illegittimi dalla giurisprudenza amministrativa per contrasto con l'interesse pubblico relativo alla tutela paesaggistica e ambientale».

Del pari, la previsione di un divieto generale di realizzazione di nuove opere edilizie esteso a tutta la fascia costiera compresa nei duemila metri dalla linea di battigia, indipendentemente dalla sussistenza in concreto di un vincolo paesaggistico, finirebbe, ad avviso del ricorrente, per paralizzare senza alcuna plausibile ragione, «per tutto l'arco temporale della approvazione dei piani regionali paesaggistici, una serie di iniziative ed attività che, ai sensi della legislazione nazionale e regionale, devono considerarsi lecite, se non di interesse generale».

Infine, l'utilizzazione della legge regionale nella concreta cura dell'interesse paesaggistico, in particolare nell'apposizione di divieti generali e relative deroghe, costituirebbe «cattivo uso della discrezionalità amministrativa (art. 97 Cost.)», realizzando una «sostanziale ed immotivata deroga al principio, stabilito nella legislazione statale, per il quale l'interesse paesaggistico deve essere (soprattutto dall'autorità regionale delegata) valutato nel concreto».

Quanto, poi, alla disposizione di cui all'art. 8, comma 3, della legge impugnata – la quale vieta, fino all'approvazione del piano paesistico regionale, la realizzazione di impianti di produzione di energia eolica nell'intero territorio della Regione, ammettendo peraltro la prosecuzione dei lavori di realizzazione degli impianti già autorizzati solo nel caso in cui lo stato dei lavori stessi abbia già comportato una irreversibile modificazione dei luoghi e sottoponendo a procedura di valutazione d'impatto ambientale gli impianti già autorizzati in assenza della medesima (sempre che i lavori non abbiano comportato una irreversibile modificazione dello stato dei luoghi) – essa eccederebbe «dalla competenza statutaria di cui agli articoli 3 e 4 dello Statuto d'autonomia, ponendosi in contrasto con l'art. 117, comma 2, lettera s), della Costituzione, che riserva allo Stato la competenza esclusiva in materia di tutela dell'ambiente e dei beni culturali».

Tale disposizione violerebbe, inoltre, l'art. 12, comma 1, del d.lgs. n. 387 del 2003, il quale prevede che le fonti energetiche rinnovabili «sono considerate di pubblica utilità con la conseguente dichiarazione di indifferibilità ed urgenza dei lavori necessari alla realizzazione degli impianti».

4. – Con atto depositato il 23 febbraio 2005 si è costituita in giudizio la Regione Sardegna, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o, comunque, infondato.

La Regione premette, in fatto, di aver esercitato la propria competenza legislativa esclusiva in materia di “edilizia ed urbanistica”, di cui all'art. 3, comma 1, lettera f), dello statuto speciale, nonché di “governo del territorio”, dettando una disciplina volta a fronteggiare una situazione particolarmente grave ed urgente attraverso la salvaguardia del territorio e dell'ambiente per un periodo di tempo circoscritto, ossia fino all'approvazione del piano paesaggistico regionale di cui all'art. 135 del codice dei beni culturali e del paesaggio, approvazione che – in base all'art. 1, comma 1, della legge impugnata – dovrebbe avvenire entro 12 mesi dalla entrata in vigore della medesima legge regionale.

La Regione ricostruisce in termini diversi rispetto al ricorrente il quadro delle competenze di cui si ritiene titolare: in base all'articolo 3, comma 1, lettera f), dello statuto speciale, alla Regione spetterebbe una competenza legislativa di tipo “esclusivo” o “primario” in materia di “edilizia ed urbanistica”, onde ad essa non dovrebbe applicarsi il limite dei principi fondamentali della materia; inoltre, anche sulla base dell'orientamento della Corte costituzionale (sentenze n. 362 e n. 303 del 2003), secondo la quale «le materie edilizia ed urbanistica rientrano in quella che il nuovo terzo comma dell'articolo 117 della Costituzione definisce “governo del territorio” ed assegna alla potestà legislativa “concorrente” delle Regioni a statuto ordinario», alla Regione Sardegna spetterebbe, per le parti eccedenti la propria competenza primaria, una competenza concorrente «in base al combinato disposto del terzo comma dell'articolo 117 della Costituzione e dell'articolo 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001».

Quanto alla competenza in ordine alla “tutela dell'ambiente”, la Regione richiama la giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenze n. 307 e n. 222 del 2003, n. 407 del 2002), secondo la quale anche le leggi regionali in materia di “governo del territorio” potrebbero legittimamente assumere fra i propri scopi le finalità di tutela ambientale. Ma soprattutto la difesa regionale afferma che l'«imbricazione» fra l'urbanistica (o più ampiamente il governo del territorio) e la tutela dell'ambiente, ed in particolare la tutela paesaggistica, costituirebbe – oltre che una costante di tutta l'esperienza storica del sistema legislativo italiano – una peculiare caratteristica della speciale autonomia della Regione Sardegna, come definita dallo statuto e dalle relative norme d'attuazione. Infatti, l'art. 6, comma 2, del d.P.R. 22 maggio 1975, n. 480 (Nuove norme d'attuazione dello statuto speciale della Regione autonoma della Sardegna), nel definire i confini delle competenze esclusive della Regione in materia di “edilizia ed urbanistica”, le attribuisce anche «la redazione e l'approvazione dei piani territoriali paesistici di cui all'articolo 5 della legge 29 giugno 1939, n. 1497 (e, implicitamente, il potere di emanare le relative misure di salvaguardia)».

Proprio sulla base di tale competenza, a seguito delle novità introdotte dalla cosiddetta “legge Galasso” cioè la legge 8 agosto 1985, n. 431, la Regione aveva provveduto ad approvare la legge regionale 22 dicembre 1989, n. 45 (Norme per l'uso e la tutela del territorio regionale), contenente la disciplina della pianificazione regionale e, in particolare, dei “piani territoriali paesistici” (artt. 10 e 11); legge i cui articoli 12 e 13 stabilivano norme di salvaguardia del tutto analoghe a quelle impugnate nel presente giudizio, destinate a valere fino alla approvazione dei piani territoriali paesistici e comunque per un periodo non superiore a trenta mesi.

Alla luce di questo quadro delle competenze e dello stesso art. 8 del codice dei beni culturali e del paesaggio (laddove si prevede che «nelle materie disciplinate dal presente codice restano ferme le potestà attribuite alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e Bolzano dagli statuti e dalle relative norme di attuazione»), la Regione Sardegna sottolinea l'erroneità dell'impostazione del ricorso del Presidente del Consiglio, secondo la quale la Regione non avrebbe competenze proprie (ma solo delegate) che possano riguardare la tutela dell'ambiente e del paesaggio.

5. – Quanto alle specifiche censure mosse dal ricorrente, la difesa regionale mette anzitutto in rilievo come il ricorso lamenti «al tempo stesso, curiosamente, sia un eccessivo rigore delle norme di salvaguardia, sia una “irragionevole” ampiezza delle deroghe».

Tali censure, secondo la Regione, sarebbero in parte inammissibili e, comunque, tutte infondate.

Inammissibile sarebbe il denunciato contrasto con «la disciplina nazionale in tema di tutela del paesaggio», poiché ove il ricorrente intenda sostenere una “incompetenza” della Regione ad intervenire in una materia di competenza legislativa esclusiva dello Stato, la censura «sarebbe inammissibile per la mancata indicazione del parametro costituzionale (norme dello statuto speciale, oppure art. 117, comma 2, lettera s, della Costituzione), oltre che per la insufficiente determinazione della censura stessa»; nell'ipotesi, invece, in cui il ricorrente voglia far valere una violazione di principi fondamentali contenuti nella «disciplina nazionale» evocata, la censura sarebbe egualmente inammissibile per la mancata definizione del parametro del giudizio.

In ogni caso, la censura sarebbe infondata, sia perché la Regione avrebbe in materia una competenza legislativa esclusiva e quindi non limitata dai principi fondamentali della materia stabiliti dalle leggi dello Stato, sia comunque perché non sarebbe ravvisabile alcun contrasto fra le disposizioni impugnate della legge regionale e quelle della «disciplina generale statale» contenuta nel codice del 2004.

La difesa regionale sostiene l'esistenza di un grave fraintendimento nelle premesse del ricorrente, laddove quest'ultimo pretenderebbe di avvalorare la tesi che mentre la disciplina regionale impugnata vieterebbe drasticamente l'edificazione nelle zone costiere, invece la corrispondente disciplina statale – individuata muovendo dal raffronto tra l'art. 1-quinquies del decreto-legge n. 312 del 1985 e l'attuale art. 159 del codice – prevederebbe «un particolare procedimento di autorizzazione in via transitoria». Secondo la Regione, il raffronto operato dal ricorrente tra le due indicate disposizioni statali sarebbe «del tutto fuori luogo»: infatti, l'inedificabilità fino all'approvazione dei piani paesistici di cui all'art. 1-quinquies non riguarderebbe affatto le aree sottoposte al vincolo ex lege (generico e presuntivo), oggi individuate nell'art. 142 del codice dei beni culturali ed in origine nell'art. 1 del d.m. 21 settembre 1984, bensì «le aree ed i beni individuati ai sensi dell'art. 2» del d.m. appena richiamato, «cioè le aree ed i beni specificamente individuati dal Ministero con i cosiddetti 'galassini'»; l'art. 159 del codice del 2004, invece, non avrebbe nulla a che fare con la disciplina appena citata, e meno che mai con misure di salvaguardia, in quanto riguarderebbe «solo le autorizzazioni paesistiche ordinarie da rilasciarsi nelle zone soggette al vincolo paesistico permanente».

Il ricorso, in definitiva, muoverebbe da una confusione fra i vincoli paesistici permanenti e quelli temporanei, con i relativi diversi regimi.

Da tutto ciò deriverebbe la mancanza di fondamento delle censure rivolte dal ricorrente avverso gli artt. 3, 4, commi 1 e 2, e 7 della legge regionale impugnata.

Quanto specificamente all'art. 3, che prevede le misure di salvaguardia, la censura non terrebbe in alcun conto la differenza sostanziale tra il vincolo permanente, basato sulla concreta valutazione paesaggistica che si effettua in sede di redazione del piano paesaggistico, ed il vincolo della misura di salvaguardia, che costituisce un limite provvisorio ma necessariamente generalizzato, poiché ha lo scopo di impedire che, nelle more delle «concrete» valutazioni paesaggistiche che verranno poi fatte dai piani, il territorio venga irrimediabilmente compromesso.

Quanto all'art. 4, le deroghe previste dal legislatore regionale non sarebbero irragionevoli. Infatti, esse riguarderebbero sia (comma 1) «attività (di ridotto impatto ambientale: interventi di manutenzione, ecc.) corrispondenti a quelle per cui l'articolo 149» del citato codice stabilisce deroghe all'obbligo di autorizzazione, sia (comma 2) situazioni in cui la Regione avrebbe ritenuto di non potere ignorare la preesistente disciplina urbanistica e di dovere tutelare l'affidamento dei cittadini e la parità di trattamento.

Anche in relazione all'art. 7, l'infondatezza della censura risulterebbe dalla peculiarità del caso e della relativa disciplina, che renderebbe pienamente giustificata la deroga concernente gli «interventi pubblici».

In conclusione, secondo la Regione Sardegna, sarebbero le stesse censure in questione a risultare del tutto irragionevoli, soprattutto in considerazione del carattere «provvisorio» e «transitorio» della disciplina in questione, efficace fino all'approvazione del piano paesaggistico e comunque per non più di diciotto mesi dalla sua entrata in vigore.

6. – Anche le censure proposte nel ricorso avverso l'art. 8, comma 3, della legge regionale impugnata, ad avviso della difesa regionale, sarebbero inammissibili e, comunque, infondate.

La prima censura, con la quale lo Stato contesta l'eccedenza dalla competenza spettante alla Regione in base agli artt. 3 e 4 dello statuto speciale ed il contrasto con l'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, sarebbe inammissibile «per difettosa formulazione del parametro del giudizio», in quanto nel ricorso mancherebbe ogni riferimento alla operatività della clausola contenuta nell'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).

La questione dovrebbe comunque ritenersi infondata. Anche quella dell'art. 8, comma 3, dovrebbe infatti considerarsi come «disciplina che la Regione ha emanato nell'esercizio della sua competenza legislativa esclusiva in materia di “edilizia ed urbanistica” (e di “governo del territorio”) ovviamente soprattutto con finalità di tutela dell'ambiente e del paesaggio». Considerato l'evidente impatto ambientale degli impianti eolici di produzione di energia, non dovrebbe potersi dubitare – ad avviso della resistente – della necessità di una misura di salvaguardia anche in relazione ad essi nelle more dell'approvazione del piano paesaggistico; ed anche in questo caso la ragionevolezza e la costituzionalità tanto del divieto di realizzare gli impianti, quanto delle relative deroghe sarebbero avvalorate dal carattere di provvisorietà e temporaneità.

La seconda censura, con la quale lo Stato lamenta la violazione dell'art. 12, comma 1, del d.lgs. n. 387 del 2003, sarebbe inammissibile per la mancata individuazione di un parametro costituzionale rispetto al quale la predetta disposizione fungerebbe da «norma interposta».

Anche tale censura sarebbe in ogni caso infondata, dal momento che la pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza degli impianti in questione non osterebbe in alcun modo alla possibilità di misure di salvaguardia per la tutela paesaggistica in relazione ad essi. In questo senso, del resto, varrebbe esplicitamente quanto disposto dallo stesso art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003 invocato dal ricorrente, laddove stabilisce che la costruzione degli impianti di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili è soggetta ad una «autorizzazione unica» di competenza della Regione «nel rispetto delle normative vigenti in materia di tutela dell'ambiente, di tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico» (comma 3). Rileva, inoltre, la difesa regionale che la medesima disposizione, al successivo comma 10, aggiunge che «in Conferenza unificata, su proposta del Ministro delle attività produttive, di concerto con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del Ministro per i beni e le attività culturali, si approvano le linee guida per lo svolgimento del procedimento di cui al comma 3. Tali linee guida sono volte, in particolare, ad assicurare un corretto inserimento degli impianti, con specifico riguardo agli impianti eolici, nel paesaggio. In attuazione di tali linee guida, le Regioni possono procedere alla indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti».

7. – Hanno depositato atto di intervento ad opponendum, in data 11 marzo 2005, l'Associazione italiana per il WORLD WIDE FUND FOR NATURE O.N.L.U.S., il FAI Fondo per l'Ambiente italiano e Italia Nostra O.N.L.U.S.

Gli intervenienti chiedono il rigetto del ricorso sostenendo che la Regione Sardegna, con la legge impugnata, si sarebbe limitata ad emanare disposizioni di salvaguardia che, lungi dall'invadere l'ambito statale, avrebbero come unico fine quello di regolamentare l'attività urbanistica ed edilizia (oggetto di competenza legislativa esclusiva della Regione) sino all'adozione degli strumenti tecnici ritenuti dallo Stato più idonei per regolamentare, nel rispetto delle competenze, il bene paesaggio anche in raccordo con le esigenze urbanistiche locali. Infatti, dall'analisi del contenuto delle disposizioni legislative oggetto di censura, risulterebbe di tutta evidenza che «esse tendono a dare una regolamentazione sotto il profilo urbanistico, individuando gli interventi edilizi cosiddetti compatibili con l'attuale stato regionale (e cioè in assenza di qualsivoglia programmazione paesistica)».

Del tutto infondato sarebbe inoltre l'asserito contrasto della normativa in questione con le disposizioni del codice del 2004. Il richiamo all'art. 159 del codice, infatti, sarebbe irrilevante, dal momento che tale disposizione non sancirebbe affatto un generale diritto ad edificare nelle aree di interesse naturale riconosciuto, limitandosi a disciplinare l'iter di richiesta ed emanazione delle autorizzazioni in carenza del piano paesaggistico regionale.

Né, d'altronde, la disciplina dettata in via temporanea e provvisoria dal legislatore regionale potrebbe in alcun modo ritenersi illogica o ingiustificata, giacché «consentire l'edificazione avrebbe certamente comportato il serio rischio di porre nel nulla previsioni successive del Piano che andassero ad incidere in zone profondamente trasformate a causa dell'edificazione avvenuta nelle more di approvazione del Piano medesimo» (sentenza della Corte costituzionale n. 379 del 1994). Del pari giustificata sarebbe la prescrizione che consente la realizzazione delle opere già previste dagli strumenti urbanistici attuativi se già avviate e con trasformazione irreversibile dello stato dei luoghi.

Quanto, infine, alla censura concernente l'art. 8, comma 3, della legge regionale impugnata, gli intervenienti osservano che gli impianti per la produzione di energia eolica sono specificamente contemplati dall'allegato B del d.P.R. 12 aprile 1996 (Atto di indirizzo e coordinamento per l'attuazione dell'art. 40, comma 1, della legge 22 febbraio 1994, n. 146, concernente disposizioni in materia di valutazione di impatto ambientale), rientrando pertanto a pieno titolo tra quelli per i quali la Regione Sardegna può richiedere, nell'ambito del governo del proprio territorio, la valutazione di impatto ambientale.

8. – In prossimità della data fissata per la pubblica udienza, la Regione Sardegna ha depositato una memoria nella quale riferisce che la Giunta regionale, con delibera n. 59/36 del 13 dicembre 2005, ha adottato il piano regionale paesistico e ha avviato l'istruttoria pubblica prevista dalla legge.

La difesa regionale ribadisce le tesi fondamentali espresse nell'atto di costituzione, secondo le quali la Regione Sardegna godrebbe, in materia di territorio e di paesaggio, di una autonomia legislativa «ben più ampia di quella riconosciuta alle regioni a statuto ordinario», dal momento che l'art. 3, lettera f), dello statuto speciale, prevede che in materia di edilizia e urbanistica la Regione ha potestà legislativa esclusiva, ovviamente nel rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e da obblighi internazionali. Inoltre, in base all'art. 6 delle norme di attuazione dello statuto (d.P.R. 22 maggio 1975, n. 480), le funzioni amministrative in materia di tutela del paesaggio sarebbero state trasferite alla Regione (e non già delegate, come nell'art. 82 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, recante Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382).

Su questa base, la legge regionale n. 45 del 1989, emanata in attuazione dell'art. 3, lettera f), dello statuto regionale, stabilisce che i piani territoriali paesistici siano l'unico strumento di pianificazione di livello regionale per l'uso e la tutela del territorio, di talché, nell'ordinamento regionale sardo non sussisterebbe alcuna contrapposizione tra governo del territorio e tutela del paesaggio. Inoltre, la possibilità di deroga della disciplina statale sulla tutela del paesaggio, ad opera delle Regioni a statuto speciale, sarebbe espressamente riconosciuta dall'art. 8 del codice dei beni culturali, il quale stabilisce che «nelle materie disciplinate dal presente codice restano ferme le potestà attribuite alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e Bolzano dagli statuti e dalle relative norme di attuazione».

Con specifico riguardo alle norme censurate, la difesa regionale afferma che esse costituirebbero solo misure temporanee di salvaguardia volte a «tutelare i beni indicati all'art. 3, 1° comma della legge (ossia le coste sarde) per il periodo indispensabile – non superiore comunque a diciotto mesi – all'approvazione dei piani paesistici». D'altra parte il meccanismo utilizzato dalla legge regionale sarebbe piuttosto comune ed utilizzato anche dal legislatore statale.

La previsione delle misure di salvaguardia (e delle deroghe, commisurate a specifiche situazioni di fatto o ad esigenze di sviluppo) sarebbe ragionevole sia in considerazione del particolare pregio delle aree considerate, sia in relazione alla situazione di incertezza che si sarebbe venuta a creare nel territorio sardo a seguito dell'annullamento di quasi tutti i piani paesistici regionali da parte del TAR.

Per quanto attiene alla censura concernente l'art. 8 della legge regionale impugnata, la Regione rileva innanzitutto di essere titolare di una competenza legislativa concorrente in materia di produzione di energia elettrica (ex art. 4, lettera e dello statuto), la quale si estenderebbe anche alla localizzazione degli impianti di produzione di energia eolica. Inoltre, richiama la sentenza n. 383 del 2005, nella quale questa Corte avrebbe riconosciuto che tutti gli impianti di energia elettrica, ivi compresi quelli eolici, producono un notevole impatto sull'ambiente e sul paesaggio e che alle Regioni deve essere lasciato un congruo margine di valutazione circa l'impatto ambientale che tutti gli impianti, anche quelli eolici, possono produrre ai fini della loro corretta localizzazione.

D'altra parte, la stessa legge 23 agosto 2004, n. 239 (Riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia), ed in particolare l'art. 1, comma 4, lettera i), imporrebbe alle Regioni di farsi carico dell'impatto che gli impianti di produzione di energia elettrica (anche eolici) producono sul territorio, sull'ambiente e sul paesaggio.

Considerato in diritto

1 – Il Presidente del Consiglio dei ministri, ha impugnato gli articoli 3, 4, commi 1 e 2, 7 ed 8, comma 3, della legge della Regione Sardegna 25 novembre 2004, n. 8 (Norme urgenti di provvisoria salvaguardia per la pianificazione paesaggistica e la tutela del territorio regionale), per contrasto con gli articoli 3, 97 e 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, con gli artt. 3 e 4 della legge costituzionale 27 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), nonché «con la disciplina nazionale in tema di tutela del paesaggio» e con l'art. 12, comma 1, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità).

Sostiene il ricorrente che la Regione Sardegna non sarebbe titolare di alcuna competenza in tema di tutela paesaggistica; inoltre le disposizioni di salvaguardia adottate, così come le deroghe previste, risulterebbero «in relazione alla disciplina generale statale, illogiche e manifestamente irragionevoli e, conseguentemente, in contrasto con gli artt. 3, 97 della Costituzione e con la disciplina nazionale in tema di tutela del paesaggio»; la norma di salvaguardia relativa alle centrali eoliche non solo sarebbe stata adottata da un soggetto non competente in materia di tutela dell'ambiente, ma violerebbe anche l'art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003.

2. – In via preliminare vanno dichiarati inammissibili gli interventi ad opponendum dell'Associazione italiana per il WORLD WIDE FUND FOR NATURE O.N.L.U.S., del FAI Fondo per l'Ambiente italiano e di Italia Nostra O.N.L.U.S., sulla base della costante giurisprudenza di questa Corte secondo la quale nei giudizi promossi in via principale nei confronti di leggi regionali o statali non possono intervenire soggetti diversi da quelli titolari delle attribuzioni legislative in contestazione (fra le più recenti, v. sentenze n. 469, n. 383 e n. 150 del 2005).

3. – Sempre in via preliminare, deve essere dichiarata l'inammissibilità delle censure rivolte nei confronti degli artt. 3, 4, commi 1 e 2, e 7 della legge regionale impugnata, per contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, sotto i profili della intrinseca illogicità e della manifesta irragionevolezza, nonché del «cattivo uso della discrezionalità amministrativa», a prescindere dalla violazione del riparto di competenze tra lo Stato e la Regione. Tali censure, infatti, risultano sommarie e meramente assertive, così contraddicendo l'esigenza, più volte sottolineata da questa Corte, che il ricorrente esponga specifiche argomentazioni a sostegno delle proprie doglianze (fra le molte, si vedano le sentenze di questa Corte n. 270 del 2005, n. 423, n. 286 e n. 73 del 2004,).

4. – In accoglimento della eccezione espressamente formulata dalla parte resistente e conformemente alla giurisprudenza di questa Corte (v. sentenze n. 482 del 1991 e n. 155 del 1985), deve altresì essere dichiarata inammissibile la censura rivolta nei confronti dell'art. 8, comma 3, della legge regionale impugnata, sotto il profilo del contrasto con l'art. 12, comma 1, del d.lgs. n. 387 del 2003. Il ricorrente, infatti, non individua un parametro costituzionale rispetto al quale la disposizione legislativa indicata dovrebbe fungere da norma interposta; né, dal momento che viene invocata una disciplina attuativa della direttiva 27 settembre 2001, n. 2001/77/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità), è possibile in alcun modo desumere dalla formulazione del ricorso, quale sia l'obbligo comunitario rispetto al quale la norma regionale impugnata dovrebbe – in ipotesi – ritenersi in contrasto, così violando l'art. 117, primo comma, della Costituzione.

5. – Prima di passare all'esame delle residue censure prospettate nel ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, tutte fondate sul presupposto della incompetenza della Regione ad emanare le norme impugnate o sulla violazione della disciplina statale in materia, occorre chiarire la natura e la portata delle attribuzioni spettanti alla Regione Sardegna in relazione agli oggetti disciplinati, rilevando peraltro fin da ora come il ricorrente non abbia in alcun modo dato conto né della presenza, in tema di tutela paesaggistica, di apposite norme di attuazione dello statuto speciale della Regione Sardegna, né della stessa esistenza di una risalente legislazione della medesima Regione in questo specifico ambito (legge della Regione Sardegna 22 dicembre 1989, n. 45, recante “Norme per l'uso e la tutela del territorio regionale”) e di cui le disposizioni impugnate nel presente giudizio rappresentano una parziale modificazione ed integrazione.

Le ripetute affermazioni contenute nel ricorso, secondo le quali le disposizioni impugnate sarebbero illegittime perché «eccedono dalla competenza statutaria di cui agli articoli 3 e 4 dello Statuto d'autonomia, ponendosi in contrasto con l'art. 117, comma 2, lettera s) della Costituzione, che riserva allo Stato la competenza esclusiva in materia di tutela dell'ambiente e dei beni culturali», anzitutto non prendono in considerazione che il Capo III del d.P.R. 22 maggio 1975, n. 480 (Nuove norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione autonoma della Sardegna), intitolato “Edilizia ed urbanistica”, concerne non solo le funzioni di tipo strettamente urbanistico, ma anche le funzioni relative ai beni culturali e ai beni ambientali; infatti, l'art. 6 dispone espressamente, al comma 1, che «sono trasferite alla Regione autonoma della Sardegna le attribuzioni già esercitate dagli organi centrali e periferici del Ministero della pubblica istruzione ai sensi della legge 6 agosto 1967, n. 765 ed attribuite al Ministero dei beni culturali ed ambientali con decreto-legge 14 dicembre 1974, n. 657, convertito in legge 29 gennaio 1975, n. 5, nonché da organi centrali e periferici di altri ministeri». Al tempo stesso, il comma 2 del medesimo art. 6 del d.P.R. n. 480 del 1975 prevede puntualmente che il trasferimento di cui al primo comma «riguarda altresì la redazione e l'approvazione dei piani territoriali paesistici, di cui all'art. 5 della legge 29 giugno 1939, n. 1497».

Tenendo presente che le norme di attuazione degli statuti speciali possiedono un sicuro ruolo interpretativo ed integrativo delle stesse espressioni statutarie che delimitano le sfere di competenza delle Regioni ad autonomia speciale e non possono essere modificate che mediante atti adottati con il procedimento appositamente previsto negli statuti, prevalendo in tal modo sugli atti legislativi ordinari (secondo quanto ha più volte affermato questa Corte: si vedano, fra le molte, le sentenze n. 341 del 2001, n. 213 e n. 137 del 1998), è evidente che la Regione Sardegna dispone, nell'esercizio delle proprie competenze statutarie in tema di edilizia ed urbanistica, anche del potere di intervenire in relazione ai profili di tutela paesistico-ambientale. Ciò sia sul piano amministrativo che sul piano legislativo (in forza del cosiddetto “principio del parallelismo” di cui all'art. 6 dello statuto speciale), fatto salvo, in questo secondo caso, il rispetto dei limiti espressamente individuati nell'art. 3 del medesimo statuto in riferimento alle materie affidate alla potestà legislativa primaria della Regione (l'armonia con la Costituzione e con i principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica e il rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica).

A tale ultimo riguardo, va osservato che il legislatore statale conserva quindi il potere di vincolare la potestà legislativa primaria della Regione speciale attraverso l'emanazione di leggi qualificabili come “riforme economico-sociali”: e ciò anche sulla base – per quanto qui viene in rilievo – del titolo di competenza legislativa nella materia “tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali”, di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, comprensiva tanto della tutela del paesaggio quanto della tutela dei beni ambientali o culturali; con la conseguenza che le norme fondamentali contenute negli atti legislativi statali emanati in tale materia potranno continuare ad imporsi al necessario rispetto del legislatore della Regione Sardegna che eserciti la propria competenza statutaria nella materia “edilizia ed urbanistica” (v. sentenza n. 536 del 2002). Invece, come questa Corte ha più volte affermato, il riparto delle competenze legislative individuato nell'art. 117 della Costituzione deve essere riferito ai soli rapporti tra lo Stato e le Regioni ad autonomia ordinaria, salva l'applicazione dell'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, peraltro possibile solo per le parti in cui le Regioni ad autonomia ordinaria disponessero, sulla base del nuovo Titolo V, di maggiori poteri rispetto alle Regioni ad autonomia speciale.

In questo quadro costituzionale di distribuzione delle competenze, il legislatore nazionale è intervenuto con il recente codice dei beni culturali e del paesaggio (approvato con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante “Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137”), il cui art. 8 è esplicito nel dichiarare che «restano ferme le potestà attribuite alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e Bolzano dagli statuti e dalle relative norme di attuazione». In quest'ultimo testo assume rilevante significato sistematico anche la norma contenuta nell'art. 135, laddove lo stesso legislatore statale, nell'individuare gli strumenti della pianificazione paesaggistica (rivolta non più soltanto ai beni paesaggistici o ambientali ma all'intero territorio), affida alle Regioni la scelta di approvare “piani paesaggistici” ovvero “piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici”, con ciò confermando l'alternativa tra piano paesistico e piano urbanistico-territoriale già introdotta con l'art. 1-bis del decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312 (Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale), così come convertito in legge ad opera della legge 8 agosto 1985, n. 431.

Quanto specificamente alla Regione Sardegna, va aggiunto, infine, che proprio sulla base dell'esplicito trasferimento di funzioni di cui alle norme di attuazione dello statuto speciale contenute nel d.P.R. n. 480 del 1975, la Regione – già con la citata legge n. 45 del 1989 – aveva appositamente previsto e disciplinato i piani territoriali paesistici nell'esercizio della propria potestà legislativa in tema di “edilizia ed urbanistica”. Questa legge, che all'art. 12 prevedeva anche apposite “norme di salvaguardia” ad efficacia temporanea in attesa della approvazione dei piani territoriali paesistici (analogamente a quanto attualmente previsto con le norme impugnate), viene solo in parte modificata dalla legge regionale n. 8 del 2004, oggetto del ricorso governativo, particolarmente per ciò che concerne il recepimento nella Regione Sardegna del modello di pianificazione paesaggistica fondato sul piano urbanistico-territoriale, appunto attualmente contemplato nel richiamato art. 135, comma 1, del codice dei beni culturali.

6. – Sulla base delle considerazioni appena svolte, anche le questioni concernenti l'asserita violazione del riparto delle competenze legislative e della disciplina statale in materia di tutela del paesaggio devono essere dichiarate inammissibili. Il ricorrente, infatti, muove dall'erroneo presupposto secondo il quale la Regione Sardegna risulterebbe priva di potestà legislativa in tema di tutela paesaggistica, omettendo conseguentemente di argomentare in base a quale titolo la legislazione dello Stato in materia dovrebbe imporsi come limite per il legislatore regionale e di individuare le specifiche norme legislative statali che dovrebbero considerarsi violate.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili gli interventi dell'Associazione italiana per il WORLD WIDE FUND FOR NATURE O.N.L.U.S., del FAI Fondo per l'Ambiente italiano e di Italia Nostra O.N.L.U.S.;

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 3, 4, commi 1 e 2, 7 ed 8, comma 3, dalla legge della Regione Sardegna 25 novembre 2004, n. 8 (Norme urgenti di provvisoria salvaguardia per la pianificazione paesaggistica e la tutela del territorio regionale), sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione agli articoli 3, 97 e 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, agli artt. 3 e 4 della legge costituzionale 27 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), nonché alla «disciplina nazionale in tema di tutela del paesaggio» e all'art. 12, comma 1, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità), con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 febbraio 2006.

F.to:

Annibale MARINI, Presidente

Ugo DE SIERVO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 febbraio 2006.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

ARZACHENA. Lo scenario è allarmante: ci sarebbe un disegno strategico per affossare il turismo in Gallura e per fermare iniziative e progetti per la Costa Smeralda favorendo, invece, la realizzare di grandi investimenti sul versante opposto dell’isola, nelle vecchie miniere della costa di Arbus. L’accusa, pesante come un macigno, giunge da Mauro Pili, consigliere regionale di Forza Italia e sostenitore della linea dura contro la politica urbanistica del governatore Renato Soru e della sua maggioranza di centrosinistra. Pili si spinge oltre: denuncia l’ombra di un interesse personale dietro il piano di affossamento della Costa Smeralda e annuncia l’imminente arrivo da Milano di documenti che proverebbero la compravendita e la proprietà delle ex aree minerarie; documenti che saranno poi illustrati pubblicamente in Consiglio regionale.

Mauro Pili non ha scelto a caso la tribuna per la sua requisitoria: Arzachena, insieme a Olbia, è infatti l’epicento della rivolta dei sindaci del centrodestra contro la legge salvacoste. E sempre da Arzachena proprio nei giorni scorsi è partita la proposta di inserire Porto Cervo nell’area urbana evitando le meglie strette della legge regionale che, di fatto, paralizzano i grandiosi progetti messi in cantiere da Tom Barrack, padrone della Costa Smeralda. Così, ieri mattina, un normale congresso cittadino di Forza Italia (uno dei tanti che si celebrano in questi giorni) si è improvvisamente trasformato in rampa di lancio per i siluri lanciati contro la giunta regionale e il governatore Renato Soru. Un rapido tam-tam telefonico e il commissario provinciale Tonino Pizzadili ha annunciato l’arrivo di Mauro Pili e del coordinatore regionale Pier Giorgio Massidda, poi i sindaci Pasquale Ragnedda e Settimo Nizzi più un nugolo di assessori e dirigenti di partito di mezza Gallura. Niente contraddittorio, solo sorrisi tra amici, uno scenario ideale per l’ex sindaco di Iglesias che non si è lasciato sfuggire l’occasione per affondare un colpo durissimo all’avversario politico.

Nel tratteggiare i contorni della presunta manovra per affossare la Costa Smeralda Mauro Pili cita episodi, date e circostanze riservandosi l’illustrazione di ulteriori dettagli non appena saranno disponibili le carte milanesi. «Quando ero presidente della giunta regionale - racconta l’esponente di Forza Italia - Renato Soru era impegnato in una delle cordate che volevano acquistare la Costa Smeralda. Volle incontrarmi per lamentare il fatto che la Sfirs non dava la copertura per l’operazione».

Alla fine la corsa all’acquisto della Costa Smeralda andò come tutti sanno, cioè con la vittoria della Colony dell’imprenditore americano di origine libanese Tom Barrack, e adesso per Mauro Pili è tempo di rispolverare la storiella della volpe e dell’uva. «Soru non è riuscito a comprare la Costa e oggi dice che non è “matura”. Da qui il suo desiderio maniacale di distruggerla, la sua missione di bloccare tutte le iniziativa e i progetti che possono accrescerne il valore, soprattutto quelli che riguardano l’allungamento della stagione turistica». «Dal punto di vista dell’accoglienza - continua Pili - la Sardegna poteva diventare un punto di riferimento per tutto il Mediterraneo, invece oggi ogni progetto si ferma irrimediabilmente davanti alla legge regionale salvacoste. Altra storia in Tunisia e Marocco dove tutti gli operatori si stanno attrezzando con centri benessere e altre strutture per coprire 12 mesi all’anno di attività».

In realtà, sostiene Mauro Pili, non tutto è fermo e congelato. «È stata astutamente inserita nella legge regionale la disciplina delle ristrutturazioni, che il centrosinistra ha dovuto inghiottire in silenzio, ed è questa la chiave che spalanca le porte al disegno del governatore». Il consigliere di Forza Italia indica una data (dicembre 2003) e una località (Milano): sono gli estremi di certe carte (atti notarili) che proverebbero operazioni di compravendita riguardanti immobili ex minerari nel comune di Arbus, nel Guspinese. La libera interpretazione di Pili si può sintetizzare così: «La legge salvacoste blocca tutto in Costa Smeralda ma, attraverso il grimaldello delle ristrutturazioni, renderà possibile realizzare investimenti turistici nella costa opposta a quella gallurese». «Quando arriveranno le carte da Milano - conclude - conosceremo finalmente i nomi dei protagonisti di questa operazione e ne discuteremo direttamente in consiglio regionale».

Più che mai linea dura, dunque, contro la politica urbanistica e turistica della Regione (Pili ha parlato apertamente di sfida e, addirittura, di «resistenza autonomista»). «Ma la nostra non è una semplice opposizione di parte o di partito, destra contro sinistra - precisa ancora Pili - piuttosto è una questione che riguarda i progetti di sviluppo per la Sardegna. I nostri puntano sull’ambiente e sull’uomo che ne è il naturale protagonista. Per questo diciamo ai talebani che vogliono chiudere l’ambiente in una campana di vetro».

LE ACCUSE D'UN TRIBUNO CHE ORA NON HA PROVE

Il solito Pili. Si fionda in una sala amica, dov’è più facile dismettere l’abito blu d’ordinanza per indossare i panni del tribuno che bacchetta e moralizza, senza uno straccio di contraddittorio. Per l’ex presidente della Regione, che conosce bene i meccanismi per conquistare un titolone sui giornali, l’opposizione si fa attaccando frontalmente chi nel passato si è messo di traverso (Mario Floris), o chi l’ha battuto in campagna elettorale (Renato Soru). Altri scelgono la strada della battaglia politica sui programmi non condivisi, sulle promesse non mantenute, sugli impegni disattesi. Lui no. Lui punta il suo bazooka contro qualcuno, non contro qualcosa.

Mauro Pili è libero di fare quel che gli pare. E’ anche libero di infischiarsene altamente di ciò che pensano numerosi esponenti della Cdl di questo personalissimo modo d’intendere la politica, quando non si è al governo. Un modo che si fonda su un iperindividualismo sfrenato che esclude il resto del mondo, anche il popolo della minoranza.

Per essere più credibile ed efficace, però, bisogna che Pili corredi le sue denunce con prove provate, e non si limiti a promettere atti ufficiali che poi non arrivano. Che Renato Soru volesse comprare la Costa Smeralda, è un fatto vero: la Nuova, a suo tempo, l’ha scritto. Che Renato Soru oggi detesti il modello di turismo della Costa Smeralda, è un altro fatto assodato. Altra cosa però è affermare che Renato Soru sia il capo di un’organizzazione che complotta contro la Costa Smeralda per favorire, per poco nobili interessi personali, altre zone della Sardegna. Se fosse vero, sarebbe un fatto non grave, ma gravissimo e la stampa avrebbe il dovere, oltrechè il diritto, di sottolinearlo fino alle estreme conseguenze, con servizi e titoloni. Bisogna dimostrarlo, però. Con atti incontrovertibili, che Pili dovrebbe affrettarsi a esibire, come ha promesso ad Arzachena.

C’è un precedente, che fa riflettere. Mesi fa, Mauro Pili e alcuni esponenti del centrodestra hanno consegnato alla stampa un copioso e sontuoso dossier, corredato da fotocolor, filmati, schede e cd, in cui si denunciavano torbidi interessi del Presidente, sempre a proposito di fasce costiere da punire o valorizzare. E’ finita così: Pili non ha ancora fornito le prove dello scandalo. E Renato Soru ha incaricato l’avvocato Cocco di Sanluri, un suo amico, di querelare i partecipanti a quella conferenza stampa.

Quando Renato Soru ha annunciato il suo programma i più avvezzi ai linguaggi della politica hanno capito che la sua indignazione per il malgoverno dei territori costieri era autentica. E che faceva sul serio quando diceva di volere mettere un freno all’ aggressione a quei paesaggi. Con questo punto in evidenza il centrosinistra, sempre molto esitante al riguardo, ha vinto le elezioni.

Quelli più preoccupati hanno provato a consolarsi pensando che sarebbe andata a finire come sempre – tra un rinvio e una lite – facendo conto sul malcontento che nel frattempo si attizzava, sindaci di destra in prima linea, qualcuno di sinistra nelle retrovie.

Ma le cose vanno avanti e l’idea si rafforza. Alle ultime elezioni provinciali il centrosinistra vince ancora e anche in Gallura che non è, come ci volevano fare credere, tutta agli ordini dei palazzinari.

Oggi mentre il lavoro procede, forse troppo lentamente, uno sguardo retrospettivo dà la sensazione che le cose sono cambiate, seppure in ritardo, perché la politica non è mai puntuale su queste questioni. Le vicende degli ultimi 50 anni, che occorre tenere nello sfondo, spiegano che – pure con qualche eccezione – la classe dirigente locale, con il suo codazzo di sapienti, è responsabile almeno di omertà verso un processo che non ha fatto bene alla Sardegna. Al luccichio dei troppi villaggi turistici fa da controcanto lo spopolamento progressivo dei paesi dell’interno. Il più cupo degli squilibri, con prevedibili effetti a catena nel territorio e nel corpo sociale.

Gli esordi

In Sardegna, ancora nei primi decenni del Novecento, le strade che portano al mare sono quelle di sempre, poche e difficilmente percorribili. Non ci sono stati in realtà motivi che nel tempo abbiano convinto i sardi a spostarsi verso i litorali; anzi, com’è noto, sono state molte le ragioni che hanno nel corso dei secoli allontanato le popolazioni dalle linee di costa. Con relativi pregiudizi.

Poi, quando il mare non rappresenta più un pericolo ha prevalso un sentimento di indifferenza nei confronti di spiagge e scogliere. Dove per tanto tempo non succede nulla, e quasi nessuno pensa che un giorno quei luoghi selvaggi e disagiati possano essere trasformati secondo le regole mercato.

Sarà, Maurice Le Lannou, che visita la Sardegna negli anni Trenta, a constatare come le straordinarie risorse della isola non siano state sfruttate, nonostante gli esempi della Corsica e della Sicilia.

E prevede che i paesaggi della Sardegna resteranno ancora per molto preservati “dalle grandi costruzioni alberghiere, e le sue strade sconosciute alle lunghe file di pullman zeppi di gente“.

Dei pericoli, a cui accenna lo studioso, nessuno all’epoca coglie appieno il senso. Il turismo è un’eventualità considerata con distacco. I sardi che raccontano l’isola, per spiegarla ai turisti appena evocati, trascurano di informare sugli ambienti costieri, molti dei quali sono sconosciuti ai più.

Ma il turismo arriva a un certo punto nella povera Sardegna.

E coglie alla sprovvista la classe dirigente locale, che aperti gli occhi su questa prospettiva, si prodigherà per agevolarla acriticamente. La Sardegna deve muovere i suoi passi nella competizione per lo sviluppo del Mezzogiorno. Il sottosviluppo è la condizione sempre richiamata nei discorsi (e presupposto di utili patti, non sempre nell’interesse pubblico, da contrarre per combattere disoccupazione e miseria).

Intanto nei libri patrocinati dalla Regione foto e descrizioni dell’isola celano la precarietà degli abitati e le gravi carenze infrastrutturali, omettono i dati sull'emigrazione, offrono versioni pittoresche del banditismo che connota tragicamente la Sardegna dell'in­terno.

Costa Smeralda

A metà degli anni Sessanta sulla scia dell’impresa del principe Karim in Gallura, l’azione di promozione del paesaggio sardo s’intensifica ed è il mare in primo piano.

Le parti più pregiate del territorio sardo, sono ormai diventate materia prima, pronte per entrare nel circuito delle cose da vendere. E tutto si ascrive all’arrivo del principe benefattore.

Non si fa molto per fare crescere le iniziative a conduzione familiare, lo sviluppo locale diciamo oggi. Si preferisce fare conto sulla grande intrapresa turistica, per poli di sviluppo, (il gruppo di Rovelli – la Sir – sta già provvedendo alle prime assunzioni a Porto Torres).

Anita Ekberg si bagnava nella fontana di Trevi, e non nelle acque di Porto Cervo, quando “Costa Smeralda” comincia a prendere forma. Ma si annotava già nei rotocalchi la presenza di esponenti delle casate nobiliari, di attrici, atto­ri e nuovi ricchi.

Ai quali piacciono le case rustiche e leziose volute dal principe: un florilegio di linee curve, in pianta e nei prospetti, abbondanza di archi finti, a pieno centro e ribassati, l’intonaco grossolano che avvolge mollemente i muri con l’effetto dello zucchero filato.

Il clamore provocato da quel flusso di presenze impiega poco ad arrivare alle orecchie di specula­tori, palazzinari, faccendieri che comprendono di poter contare a lungo sulla reclame. Per contro è debolissima nell’isola la volontà di governare il territorio, come se la politica avesse deciso di stare a guardare compiaciuta la ressa attorno alla merce. Assicurando che ce n’è per tutti. Chiunque venga in Sardegna per fare affari, cioè case, ha buon gioco: i timbri per sancire la legittimità di progetti si ottengono in fretta.

Nei primi anni Settanta “Costa Smeralda” progetta la sua crescita (370.000 vani), mettendo in secondo piano l’attività ricettività alberghiera. E nessuno rileva questa circostanza diffusa; più in generale prende corpo corpo l’equazione secondo cui il flusso turistico è proporzionale alle case edificate, e mai viene evidenziata adeguatamente la grande, sostanziale differenza, tra costruttori e operatori turistici.

Inizia l’era delle ipotesi megalomani dei comuni. La previsione totale, pari a settanta milioni di metri cubi che si vorrebbero realizzare un po’ dappertutto, è una misura che comincia a scuotere qualche coscienza. I segni lasciati dalle attività edilizie di quegli anni in molti litorali sono vistosi. Si legge il procedere rapido (e negligente) di chi approfitta di una congiuntura favorevole (che si teme transitoria). “Fare in fretta” per costituire i presupposti di future urbanizzazioni, sembra la parola d’ordine. Come in un ‘altra epoca secondo i versi di Melchiorre Murenu che scrive nel primo Ottocento: Tàncas serràdas a muru/ fattas a s’afferr’affera/si su chelu fid in terra,/l’haiant serradu puru. ( Terre recintate con muri/ arraffando/ se il cielo fosse in terra/ lo avrebbero recintato).

Riforme e controriforme

La partita si fa stringente negli anni Ottanta. “Costa Smeralda” tratta separatamente con Comune e Regione, mentre si avvia il dibattito per l’approvazione della legge urbanistica regionale e dei piani paesistici secondo le disposizioni della legge Galasso. Un iter che si conclude nel 1993 con molte ambiguità: le norme fissano principi di tutela strutturali ma si mettono i presupposti per fare salvi i casi che contano. Tiene “Costa Smeralda” che ha condizionato fortemente il processo di formazione della legge regionale (che ridimensionerà le pretese . da sei a due milioni e mezzo di mc. !) insieme al progetto di “Costa Turchese” della famiglia Berlusconi, sempre in Gallura.

La finalità delle imprese è quella di sfondare le regole attraverso la concertazione con le parti pubbliche a cui si propone di pagare un magro pedaggio. La richieste, molte in deroga alle previsioni del piano, si dovrebbero accordare in forza di un famigerato codicillo della legge regionale. Un procedimento azzardato, tutto fondato sull’eccezione: impossibile da realizzare, per fortuna.

Ciò che risulta con chiarezza di questa fase è la linea di alcuni soggetti istituzionali, che confina con la subordinazione agli interessi privati.

L’obiettivo trasversale è la rivincita nei confronti di una stagione di riforme mal tollerate, e “Costa Smeralda” è la punta avanzata dell’offensiva. Si fa conto sull’imprenditore con maggiori credenziali per sondare la tenuta dell’impianto di salvaguardia – in primis il vincolo della fascia dei 300 metri dal mare – con il proposito di scardinarlo. Effetto domino assicurato.

La partita si trascina negli ultimi dieci anni con ricorrenti incursioni. Ma la strumentazione, pure con tanti difetti, è più resistente di quanto non appaia. E saranno i gravi difetti – denunciati da un’ associazione ambientalista – a convincere i giudici della necessità di invalidare i piani paesistici. Un atto che produce un vuoto clamorosamente dilazionato. Trascorrono quasi due legislature –maggioranza di centrosinistra prima, poi di centrodestra – senza che si avvii il processo per ripristinare la legalità. Un vantaggio di cui si giovano in molti com’ è ovvio che sia.

Qui interviene l’indignazione di Soru che inaugura un capitolo che ci fa sperare. Nonostante il clima sia assai favorevole agli immobiliaristi veri e falsi, gli unici che sembrano godere di buona salute, oltre che dei favori del Parlamento.

Qui una sintesi del pensiero di Renato Soru

CAGLIARI. La legge salvacoste è salva. Con una velocità imprevista, infatti, ieri la Corte Costituzionale ha apposto il sigillo di legittimità su uno dei caposaldi del programma di governo della giunta guidata da Renato Soru. La Consulta ha respinto il ricorso con cui il governo aveva impugnato le norme sulla tutela del territorio costiero, ma anche dell’entroterra, visto che la legge regionale conteneva anche un no secco all’eolico selvaggio, secondo una linea più volte ribadita dalla maggioranza di centrosinistra. Maggioranza che oggi, quando la notizia sarà diventata di dominio pubblico, avrà mille e una ragione per brindare al riconoscimento del diritto della Regione a tutelare in maniera rigorosa il proprio territorio, troppe volte devastato da una programmazione edificatoria a dir poco discutibile. Avranno modo di festeggiare anche tutti coloro - non solo le associazioni ambientaliste - che si sono battuti contro la proliferazione indiscriminata, e senza regole certe, degli impianti di energia eolica.

La decisione della Consulta è di ieri sera e dunque non si conoscono i motivi che hanno indotto i giudici costituzionali a dare ragione all’esecutivo regionale e torto al governo Berlusconi che ormai si è preso l’abitudine di ricorrere contro le leggi più significative varate dal consiglio regionale sardo. Le argomentazioni del governo - che contestava all’amministrazione regionale il potere di disciplinare la materia, urbanistica e in particolare di opporsi alla realizzazione di impianti di energia eolica - non hanno colto nel segno, e questo lo capiremo meglio nel momento in cui saranno rese note le motivazioni del verdetto emesso sulla base della relazione del giudice istruttore Ugo De Siervo.

Non c’è dubbio che questa sentenza è una vittoria di Renato Soru e dell’intera maggioranza che lo sostiene. Allo stesso tempo, rappresenta uno schiaffo alle convinzioni dei partiti d’opposizione che, in più di un’occasione, si erano detti certi che la legge salvacoste sarebbe stata ignominiosamente cassata dalla Consulta. Hanno anche visto giusto, il Wwf e il presidente nazionale di Italia Nostra, Carlo Ripa di Meana, i quali, in un’assemblea organizzata l’altro ieri a Cagliari, avevano gioito nel prendere atto che «per la prima volta, in un procedimento nel quale si esamina un ricorso del governo nazionale contro una Regione, sono stati ammessi alla discussione anche degli enti privati».

Questa apertura era stata interpretata dalle associazioni ambientaliste come un segnale positivo che poteva autorizzare anche la speranza del rigetto del ricorso governativo, presentato a suo tempo in seguito all’asfissiante pressing di numerose amministrazioni comunali di centrodestra che giudicavano inique e contrarie allo sviluppo del turismo in Sardegna quelle norme di tutela.

MARACALAGONIS. ‹‹Finalmente, una notizia positiva per la legalità e speriamo di non dover attendere ancora a lungo per vedere una fetta di demanio marittimo restituito alla collettività››. Con queste parole l’associazione ambientalista Gruppo di intervento giuridico, ha salutato l’ordinanza di sgombero emessa qualche giorno fa dall’assessorato regionale agli Enti locali. Il provvedimento riguarda diverse ville ad una decina di metri dalla battigia, nella spiaggia di Cannesisa a Torre delle stelle. A questo punto è sempre più probabile l’arrivo delle ruspe della Regione per abbattere i muri fuorilegge. La decisione della Regione prende spunto dalle precedenti ingiunzioni, notificate tra il 23 marzo e il due aprile di quest’anno, con cui il Servizio centrale demanio e patrimonio aveva già imposto lo sgombero di diverse aree occupate abusivamente. Secondo i tempi previsti, i proprietari avrebbero quindi dovuto liberare gli spazi entro i primi di maggio, ma nessuno dei nove abusivi ha rispettato l’ordinanza giunta dagli uffici di viale Trieste. Da qui la contromossa della Regione, che "sta ponendo in essere tutti gli atti conseguenti ai suddetti provvedimenti amministrativi - si legge in una nota dell’associazione - per attivare la procedura di sgombero coattivo". A giorni, gli ufficiali giudiziari incaricati dalla Regione potrebbero bussare alle porte degli abusivi e apporre i sigilli, scortati dagli agenti delle forze dell’ordine. Una volta esaurita questa fase, bisognerà decidere sul futuro degli immobili sequestrati, ma è molto probabile che nei prossimi mesi, insieme ai turisti, sulla spiaggia di Cannesisa facciano la loro comparsa anche le ruspe. Un’ipotesi avvallata anche dall’entità degli abusi riscontrati: negli ultimi anni, migliaia di metri quadrati di aree demaniali sono state occupate da recinzioni in muratura, giardini privati e costruzioni. In barba alle più elementari disposizioni di legge, che parlano chiaro: la zona interessata rientra nella fascia dei trecento metri dalla battigia, e di conseguenza è tutelata dal vincolo paesaggistico ed è soggetta alla conservazione integrale. Il provvedimento di sgombero coattivo è solo l’ultimo capitolo di una vicenda cominciata nel maggio del 2003, quando il Gruppo di intervento giuridico e gli Amici della terra presentarono un primo esposto alla procura della Repubblica e informarono degli abusi edilizi anche gli uffici comunali di via Nazionale e la Capitaneria di porto. Dopo qualche settimana, il primo sopralluogo, coordinato dai funzionari dell’Agenzia del demanio, non fece altro che confermare la denuncia presentata dalle due associazioni.

Una bella notizia per gli amici di Eddyburg. La Sardegna completa il progetto di piano paesistico e avvia la fase della concertazione con gli enti locali. Non so se si possa dire che è un’eccezione che conferma la regola di un brutto andazzo: perché di buone notizie non ce ne sono poi tante per chi attraverso queste pagine osserva le scelte della politica sui temi del governo del territorio.

Per la Sardegna, a lungo senza piano paesistico e in balia delle pulsioni del centrodestra fino all’anno scorso, è l’indizio che una brutta fase è già alle spalle e che domani è un altro giorno, come direbbe Rossella O’Hara. Il presidente Soru ( accompagnato dai due assessori competenti) ha presentato ieri il lavoro svolto- che materializza il pensiero espresso tante volte - ringraziando tutti quelli che hanno consentito di arrivare a questo punto: soprattutto l’ufficio di piano costituito da dipendenti regionali e stagisti giovanissimi e il comitato scientifico che ha seguito con attenzione tutto il processo.

E’ davvero un’altra storia ( lo sa ben chi ha visto la prima puntata, conclusa nel ’93, quando i piani li portò a termine un ufficio che si occupava di miniere con l’aiuto consulenti anonimi). Una processo che ha alla base il metodo delle informazioni davvero condivise. Il lavoro è già in rete nel sito della Regione, e nessuno detiene in via esclusiva documenti riservati da fotocopiare per favore agli amici. Non serve più di tanto - riflettiamo - neppure la mediazione degli organi di informazione. Tutti possono già in questa fase accedere agevolmente agli atti senza fare domanda a nessuno. E formarsi un’opinione.

Il linguaggio del piano è facile: emerge subito l’opera di spiazzamento per chi volesse leggere i documenti con la cultura di un’altra stagione politica quando prevaleva il rito delle distribuzione bilanciata/patteggiata dei volumi. Quando i piani - specie quelli comunali- erano le trascrizioni più o meno fedeli delle volontà delle imprese di fare, qui o lì, in genere nei luoghi più belli e accessibili ciò che chiedeva il mercato.

Quando alcuni principi buoni - ce n’erano anche nell’ultima legge e nei vecchi strumenti - venivano travolti per i contenuti nelle stesse norme della legge che dovevano fare eccezione per alcuni importanti imprenditori dell’ edilizia ( attenzione: imprenditori edili che realizzano case da vendere, non operatori turistici che investono in attrezzature ricettive, magari di qualità!)

L’idea è proprio un’altra e l’insieme delle regole contraddice ogni discrezionalità: tutti uguali di fronte alla necessità di entrare nella globalizzazione del mercato turistico “con la schiena dritta”, ha detto ieri l’assessore all’urbanistica Gian Valerio Sanna.

Il paesaggio- valore costituzionale- è al centro di ogni riflessione e le trasformazioni eventuali presumibilmente poche. I luoghi che non hanno subito modifiche, per fortuna sono tanti, saranno conservati (tranquilli, non servono le foto ricordo, per documentare lo stato com’era - ha detto Soru -; il piano vuole dare la certezza di ritrovarla intatta quella spiaggia, quella scogliera). Sono previsti progetti estesi di riordino urbanistico (perché ci sono molte brutte sparse cose da rimediare) e l’idea di fondo è quella di valorizzare e potenziare gli insediamenti esistenti - quelli veri abitati tutto l’anno - che sono in grado di dare ospitalità molto meglio dei villaggi-vacanze.

Il progetto è accompagnato dal disegno di nuova legge urbanistica indispensabile per dare coerenza al procedimento tecnico-amministrativo, per rispondere alla riforma del Titolo V della Costituzione e al necessario metodo della copianificazione. Quindi è utile una lettura comparata dei due provvedimenti per capire le intenzioni.

Si apre ora la fase complicata della discussione che, sembra di capire, sarà molto pubblica: sono previste una ventina di istruttorie in tutto il territorio regionale che Soru stesso -si dice- presiederà, immaginiamo con grande pazienza. Non sarà infatti un percorso facile perché c’è da attendersi- già ce ne sono- reazioni molteplici a previsioni che faranno cadere, mi pare, ipotesi di intervento molto contrastate.

Solo le reazioni nei prossimi giorni, il bagaglio delle osservazioni, luogo per luogo, potrà dirci il grado di consenso che si realizzerà attorno al progetto da parte dei sardi e di tutti quelli che dovunque stiano - ad esempio in Val di Susa - sono interessati al programma di tutela della Sardegna. Per questo non dovrà essere un confronto limitato ai soli comuni costieri. Per questo le correzioni, integrazioni ecc. a cui il progetto è aperto - è normale che ne servano - dovranno essere introdotte nell’interesse collettivo

CAGLIARI. Tutela assoluta delle zone costiere che si sono salvate dal cemento, riqualificazione delle aree degredate, riconversione dei villaggi di seconde case in alberghi, recupero del ruolo dei centri urbani e misure drastiche contro l’aumento delle abitazioni in campagna. Sono i principali contenuti del Piano paesaggistico regionale approvato ieri dalla giunta Soru: ora, prima dell’adozione definitiva, scatta la fase istruttoria, della durata complessiva di tre mesi, con la consultazione dei Comuni. Primo si anche alla riforma della legge urbanistica. La giunta ha approvato «in via preliminare» anche la nuova normativa generale sul «governo del territorio». Dopo la fase di consultazione, il provvedimento andrà al Consiglio regionale per il varo definitivo. Mentre il Piano paesaggistico, conclusa la fase istruttoria con i Comuni, andrà al Consiglio solo per un parere della commissione Urbanistica e sarà poi adottato dalla stessa giunta. Ieri in giunta i relatori del Piano sono stati gli assessori all’Urbanistica Gian Valerio Sanna (principale protagonista) e al Paesaggio Elisabetta Pilia.

Per ora si parte con la fascia costiera. Come si può vedere nella cartina allegata (che indica i 27 ambiti costieri in cui è stata divisa l’isola), il Piano paesaggistico, rispettando il criterio di procedere per «aree omogenee», non riguarda tutta la Sardegna: la parte delle zone interne sarà elaborata dallo stesso gruppo di lavoro. Alcune norme generali introdotto nel Piano «costiero », tuttavia, entreranno in vigore in tutta l’isola: ad esempio la disciplina sulle zone agricole.

I quattro livelli di vincoli di salvaguardia. All’interno dei 27 ambiti territoriali in cui è stata divisa la fascia costiera, sono stati introdotti i vincoli: il livello 4 di «integrità, unicità e irripetibilità» (tutela integrale) ed eventuali recupero di insediamenti nel rispetto storico-culturale; il livello 3 di «forte identità ambientale e insediativa »; il livello 2 di «modesta identità ambientale» e in «assenza di profili di pregio »; il livello 1 di «identità compromesse o del tutto cancellate ». Gli obiettivi sono quelli della «conservazione» nelle aree di pregio, di «trasformazione » e «recupero» nelle altre, secondo diverse gradualità. Prima applicazione del decreto Urbani. E oltre. Il Piano paesaggistico disciplina la tutela dei beni ambientali e degli altri beni pubblici secondo le direttive del decreto legislativo del 22 gennaio 2004 (coste, dune, aree rocciose, grotte, monumenti naturali, zone umide, fiumi, alberi monumentali, aree gravate da usi civici). La giunta ha inoltre ricompreso le aree sottoposte dalla Regione a vincolo idrogeologico e quelle dei parchi nazionali e regionali.

Tutela assoluta nella fascia costiera. Il Piano esclude la possibilità di realizzare interventi nelle aree non edificate ad esclusione di pochi interventi pubblici privi di impatto ambientale. E sono vietate nuove strade extraurbane con più di due corsie, insediamenti industriali o della grande distribuzione commerciale, campeggi, campi da golf e aree attrezzate per camper.

Disciplina transitoria solo per aree urbane. Sino all’adeguamento dei Piani comunali alle previsioni del Piano paesaggistico, nei territori costieri è consentita l’attività edilizia nelle zone omogenee A e B dei centri abitati e delle frazioni indicate come tali nelle cartografie, nelle zone C immediatamente contigue alle zone B di completamento e intercluse tra le stesse zone B e altri piani attuativi in tutto o in parte realizzati. Nelle zone C, D, F e G possono essere realizzati gli interventi previsti nel Puc e con convenzione efficace alla data del 10 agosto 2004 (decreto salvacoste) purché alla stessa data le opere di urbanizzazione siano state legittimamente avviate, si sia determinato un mutamento irreversibile dello stato dei luoghi e per le zone F (turistiche) siano stati rispettati i parametri restrittivi dello stesso decreto.

Escluse le vecchie concessioni. Nel testo originario andato all’esame della giunta era previsto che per i piani attuativi vigenti alla data di entrata in vigore del Piano paesaggistico, ci fosse questa normativa: nel caso di concessioni «già rilasciate» i lavori devono terminare entro tre anni (con decadenza delle volumetrie non realizzate); le volumetrie possono essere spostate in altre aree (con premio di cubatura) per tutelare meglio l’ambiente. Ma queste possibilità sono state escluse e quindi stralciate. Contro queste previsioni si era subito schierato lo stesso presidente Soru, che aveva visto il rischio di recuperare vecchie lottizzazioni che erano state bocciate dal decreto e poi dalla legge salvacoste. Alcuni assessori avevano però denunciato un altro rischio, sottolineato dal parere dei giuristi: il rischio di ricorsi presso il Tar nell’ipotesi che non siano tutelati i «diritti acquisiti» dei titolari delle concessioni.

I piani attuativi a regia regionale. Gli interventi ammissibili saranno co-pianificati da Regione, Provincia e Comune verso «obiettivi di qualità paesaggistica basati su valenze storico-culturali e ambientali ». Dove è possibile intervenire, si possono prevedere «trasformazioni finalizzate alla realizzazioni di residenze, servizi e ricettività solo se contigui ai centri abitati, risanamento e riqualificazione urbanistica e architettonica degli insediamenti turistici esistenti, riuso a scopi turistici di edifici, nuovi insediamenti alberghieri solo se di qualità elevata in aree «già antropizzate», infrastrutture per migliorare la fruibilità dei litorali.

Norme rigide nelle zone agricole. Sino all’adeguamento dei Puc al Piano paesaggistico, i Comuni non potranno rilasciare nuove concessioni residenziali né aprire nuove strade. Per le future concessioni, le prescrizioni sono rigide: il lotto minimo per le residenze è di 10 ettari (per colture intensive) o di 20 ettari (per colture estensive). Per il rilascio, dovranno essere seguite procedure di verifica dell’equilibrio tra residenze e contesto ambientale e del piano aziendale di conduzione del fondo. L’obiettivo - indicato proprio da Soru - è far sì che le residenze in campagna servano a chi in campagna produce. Norme di particolare tutela sono state elaborate anche per tutelare gli stazzi, le diverse architetture rurali, i muretti a secco, gli alberi monumentali (ne sono stati indicati cento), gli uliveti con almeno trent’anni di vita, eccetera. E non potranno essere asfaltate né ricoperte di cemento le vecchie e le nuove strade di penetrazione agraria.

Rilanciare il ruolo dei centri abitati. Sia per le città sia per i paesi si prevede un recupero delle periferie, dal punto di vista architettonico e da quello sociale. In sostanza, per migliorare la qualità della vita non dovrà essere necessario - questa è la filosofia - «emigrare » nelle zone agricole vicino alle zone urbane.

Le direttive per gli insediamenti turistici. Nell’adeguare i Puc, i Comuni dovranno non solo riqualificare gli aspetti urbanistici e architettonici, ma anche prevedere nuova potenzialità turistica mettendo in relazione i centri urbani, i paesi, gli insediamenti sparsi e i grandi complessi minerari. Bisognerà «riprogettare lo spazio pubblico», favorire la trasformazione delle «seconde case » in «alberghi diffusi» con aumento di volumetria (20%) per i servizi. Premio di cubatura per un massimo del 100% per favorire il trasferimento dalle zone costiere più pregiate verso centri residenziali preesistenti.

Campeggi e camper lontano dal mare. Non solo le aree attrezzate per i camper, ma anche i campeggi - secondo il Piano paesaggistico - devono essere «preferibilmente ubicati al di fuori dei territori costieri». I Comuni dovranno «individuare localizzazioni alternative per il loro trasferimento». Insediamenti produttivi e commerciali. Norme rigidissime (anche per i cartelli pubblicitari) nelle zone pregiate. Per gli insediamenti produttivi bisognerà puntare al loro trasferimento nelle aree attrezzate e prevedere nei centri urbani e nelle periferie degradate l’insediamento di attività artigianali compatibili con l’attività residenziali e con le tipologie preesistenti.

I casi particolari di La Maddalena e Carloforte. L’istruttoria pubblica si svolgerà nei 27 ambiti costieri. Una riunione specifica sarà riservata alle isole minori e in particolare alle situazioni dell’arcipelago maddalenino e di San Pietro. Per le quali, tuttavia, non sono previste nel Piano normative preferenziali.

È in corso la redazione del Piano paesaggistico regionale (PPR) della Sardegna. Al piano è affidato, tra l’altro, la definizione di una disciplina delle aree costiere, tutelate provvisoriamente con una legge di salvaguardia che impedisce le trasformazioni per una fascia di 2mila metri di profondità. Tra le strutture che collaborano alla redazione del piano è stato costituito un Comitato scientifico. Ecco (dai miei frettolosi appunti) alcune delle parole che il Presidente della Regione autonoma ha pronunciato nell’introdurre i lavori del Comitato. il 27 aprile 2005.

Abbiamo deciso di redigere il piano all’interno delle nostre strutture, utilizzando tutte le risorse umane e organizzative di cui la Regione dispone, anziché affidarci a studi professionali esterni. Abbiamo costituito il comitato scientifico, con tutte le competenze che ci sono apparse necessarie (e che siamo pronti a integrare, se lo si riterrà opportuno), sia per avere il supporto scientifico necessario, sia perché ci aiuti a crescere.

Che cosa vorremmo ottenere con il PPR? Innanzitutto vorremmo difendere la natura, il territorio e le sue risorse, la Sardegna; la “valorizzazione” non ci interessa affatto. Vorremmo partire dalle coste, perché sono le più a rischio. Vorremmo che le coste della Sardegna esistessero ancora fra 100 anni. Vorremmo che ci fossero pezzi del territorio vergine che ci sopravvivano. Vorremmo che fosse mantenuta la diversità, perché è un valore. Vorremmo che tutto quello che è proprio della nostra Isola, tutto quello che costituisce la sua identità sia conservato. Non siamo interessati a standard europei. Siamo interessati invece alla conservazione di tutti i segni, anche quelli deboli, che testimoniano la nostra storia e la nostra natura: i muretti a secco, i terrazzamenti, gli alberi, i percorsi - tutto quello che rappresenta il nostro paesaggio. Così come siamo interessati a esaltare la flora e la fauna della nostra Isola. Siamo interessati a un turismo che sappia utilizzare un paesaggio di questo tipo: non siamo interessati al turismo come elemento del mercato mondiale.

Perché vogliamo questo? Intanto perché pensiamo che va fatto, ma anche perchè pensiamo che sia giusto dal punto di vista economico. La Sardegna non vuole competere con quel turismo che è uguale in ogni parte del mondo (in Indonesia come nelle Maldive, nei Carabi come nelle Isole del Pacifico), ma vede la sua particolare specifica natura come una risorsa unica al mondo perché diversa da tutte la altre.

Dopo gli interventi dei membri della Giunta regionale e di quelli del Comitato scientifico Renato Soru è intervenuto di nuovo a proposito del documento “Linee guida per il Piano paesaggistico regionale invitando i membri del comitato a esprimere pareri ed emendamenti e affermando tra l’altro:

Bisogna che siano chiari i principi che sono alla base delle Linee guida. Il primo principio è: non tocchiamo nulla di ciò che è venuto bene. Poi ripuliamo e correggiamo quello che non va bene. Rendiamoci conto degli effetti degli interventi sbagliati: abbiamo costruito nuovi villaggi e abbiamo svuotato i paesi che c’erano: abbiamo costruito villaggi fantasmi, e abbiamo resi fantasmi i villaggi vivi. Dobbiamo sapere che facciamo un investimento per il futuro. Dovremo calcolare gli effetti economici della conservazione e della ripulitura. Oggi si costruisce importando da fuori componenti ed elementi, il moltiplicatore dell’attività edilizia si è drasticamente abbassato. Lo aumenteremo di nuovo se sapremo riutilizzare le tecniche tradizionali, i materiali tradizionali, i saperi tradizionali per conservare e ripulire. Dobbiamo essere capaci di far comprendere che tipo di Sardegna abbiamo in mente.

Si veda anche: Il Presidente Soru parla ai sindaci della costa

Nello stagno di Campana svernano i fenicotteri rosa. E' un'area protetta dalle normative europee (fa parte di un «sito d'interesse comunitario», come si dice nel linguaggio della burocrazia di Bruxelles). Il comune di Domus de Maria ha ottenuto dall'Unione europea un finanziamento di 250.000 euro per tutelarlo, circondandolo di una palizzata di legno. Ora, a ridosso dello stagno, c'è un parcheggio, pieno, a luglio, delle auto di turisti che arrivano da mezza Europa. E' uno dei tanti scempi resi possibili dal piano urbanistico comunale (Puc) approvato all'unanimità a Domus de Maria, senza distinzione di maggioranza e opposizione, il 26 febbraio di quest'anno. In pochi mesi, una colata di cemento si è riversata sulla costa che va dalla laguna di Chia a Capo Spartivento, quarantacinque chilometri ad ovest di Cagliari. Una zona di straordinario pregio paesaggistico e naturalistico è stata devastata da villaggi turistici che si sono divorati intere colline e hanno distrutto ettari di macchia mediterranea, ginepri secolari fatti a pezzi dalle ruspe.

Disastro ambientale

Tutto nel silenzio più assoluto. Almeno sino a quando, lo scorso maggio, non è intervenuto il Wwf, che ha denunciato il saccheggio e che, per bocca dei suoi dirigenti regionali, non esita ora a parlare di disastro ambientale. Nel tentativo di bloccare lo scempio, l'associazione ambientalistica ha presentato un ricorso al Tar, per chiedere l'annullamento del piano urbanistico di Domus de Maria. Intanto, però, le ruspe hanno fatto buona parte del loro lavoro, e riportare Chia e la sua laguna allo stato originario forse non sarà più possibile.

Vedere da vicino che cosa è stato fatto è sconcertante. Il parcheggio delle auto che sorge accanto allo stagno dei fenicotteri è la deturpazione più evidente. Ma basta addentrarsi appena all'interno per capire che la parola disastro non è stata usata a sproposito dal Wwf. Sulla collina che declina verso la laguna sorge l'edificio di un club nautico che doveva essere costruito nella zona del porto. Porto mai realizzato per la sollevazione generale di ambientalisti e opinione pubblica: si dovevano spianare le dune e dragare il fondale dello stagno. A tanto non ci sono arrivati. Dal Puc il porto lo hanno tolto. Il club nautico è rimasto, anche se sulla costruzione la Guardia forestale ha sollevato dubbi di legittimità sulle proroghe della concessione rilasciata dal comune. Per non parlare della differenza tra ciò che era previsto nel progetto autorizzato dall'ufficio paesistico della Regione Sardegna e ciò che è stato costruito. Una relazione della Guardia forestale è stata consegnata alla procura di Cagliari lo scorso dicembre, quando del club nautico esistevano solo le fondamenta. La procura non si è mossa e ora l'edificio è arrivato al tetto. Poco oltre, in un posto che si chiama Tanca Sisca, lo scempio è totale. La collina è stata ricoperta da file e file di villette a schiera, un enorme villaggio turistico con tanto di piscine e di centri commerciali. All'ingresso del cantiere c'è scritto che i lavori sono cominciati il 15 febbraio 2005. In pochi mesi è venuta su una seconda cittadina, a poche decine di metri dal mare. Un sistema delicatissimo, come quello delle dune e della laguna, minacciato nei suoi equilibri, con il rischio di danni irreparabili.

Com'è potuto accadere tutto ciò in una regione in cui lo scorso 11 agosto la giunta guidata da Renato Soru ha approvato, tra i suoi primi atti, una legge che impedisce di costruire qualsiasi cosa, anche una semplice capanna di frasche, dentro una fascia di due chilometri dal mare?

Al comune di Domus de Maria dicono che loro sono in regola perché la legge salvacoste voluta da Soru esclude le opere edilizie già avviate al momento dell'entrata in vigore del provvedimento. Il Wwf replica che le cose, nel caso di Chia, non stanno per niente così. E cita il testo della legge salvacoste: «Restano fuori dalle disposizioni della presente normativa le opere che alla data del 10 agosto 2004 siano già legittimamente avviate, ovvero sia stato realizzato il reticolo stradale e si sia determinato un mutamento consistente ed irreversibile dello stato dei luoghi». «Nel caso specifico _ dicono al Wwf _ le opere edilizie non erano state neppure avviate alla data del 10 agosto 2004. E come se non bastasse, risulta dalla relazione allegata al piano urbanistico di Domus de Maria che buona parte delle convenzioni di lottizzazione cui si riferiscono le costruzioni in questione sono abbondantemente scadute». Il sindaco di Domus de Maria replica che le lottizzazioni erano già previste dal precedente piano urbanistico, bocciato solamente in parte, per irregolarità di legge, dal Comitato regionale di controllo, e quindi di fatto valido una volta che il consiglio lo ha riapprovato tenendo conto delle modifiche richieste. E' uno stratagemma, questo, cui altri amministratori stanno ricorrendo. Nei giorni scorsi è partito il consueto monitoraggio aereo della Guardia di finanza lungo le coste della Sardegna. Dall'elicottero si riesce a vedere che cosa sta accadendo nei territori dei diversi comuni. I casi come quelli di Chia sono molti. «In Gallura _ ha rivelato nei giorni scorsi il delegato regionale del Wwf, Luca Pinna _ sta succedendo di tutto. Ci sono cantieri aperti anche nelle isolette di fronte alla Costa Smeralda. Stiamo chiedendo gli atti a i comuni per capire sulla base di quali supporti legislativi sono state erogate le concessioni. Se sarà necessario, ricorreremo alla magistratura».

Il via libera di Legambiente

Intanto, però, Fulco Pratesi, con una lettera a Soru, chiede un intervento immediato della Regione Sardegna. Finora, però, dal governatore e dall'assessore all'Ambiente, Tonino Dessì, nessuna risposta. Il Wwf, inoltre, polemizza con Legambiente: «Il presidente regionale di Legambiente, Vincenzo Tiana _ spiega Pinna _ prima non ha firmato il ricorsa al Tar e poi ha siglato un accordo con Domus de Maria per un progetto di protezione dei cordoni dunali e dei ginepri, senza tenere conto di quanto sta accadendo». Tiana replica: «Il ricorso al Tar è inutile, perché il Puc, prima di essere adottato, deve passare alla Regione, che può e deve intervenire. Per noi le volumetrie sono eccessive. Perciò abbiamo chiesto alla Regione di ridurle e di spostarle lontano dal mare». «Il fatto è - controbatte il Wwf _ che nelle lottizzazioni dove i cantieri erano aperti il danno è già enorme e solo il ricorso al Tar ha potuto bloccarlo».

SRoggio Sardegna: Preoccupazioni per Las Vegas

C’è preoccupazione in Sardegna, e credo in tutto il Mezzogiorno, per la proposta di concedere per una novantina d’anni le spiagge (che significa venderle). La finanza acrobatica e spericolata del ministro Tremonti che ha impoverito quasi tutti gli italiani, alligna; e rischia di colpire in modo irreversibile i beni più preziosi del Paese.

La proposta , formalizzata in Parlamento e ribattezzata legge Las Vegas, punta proprio a questi paesaggi di cui è o dovrebbe essere garantito senza ambiguità l’uso pubblico. E che se fossero venduti sarebbero inevitabilmente destinati alla trasformazione secondo le prevedibili attese degli acquirenti. Casinò e accessori sul mare per cominciare (sob!) e il seguito è facile immaginarlo: tutto facilitato da accordi di programma, solita mossa per battere le resistenze locali.

Eppure non sorprende l’idea di liquidare il patrimonio ambientale del Sud per consentirne il rilancio. Al governo del Sud e delle isole non gli importa granché ( la Sardegna poi – un milione e mezzo di abitanti – non rappresenta molto sul piano elettorale )

L’attenzione ai problemi delle aree disagiate del Mezzogiorno, ancora bellissime in grandi parti, è nominale: ognuno si arrangi come può è la risposta. Ecco il principio alla base del federalismo sopraffattore di Bossi e Tremonti. Per il Sud non c’è un euro e casomai i finanziamenti serviranno per alimentare la costosa illusione del ponte sullo stretto di Messina.

L’idea della maggioranza berlusconiana è tanto più grave dopo l’esito delle elezioni regionali e i programmi dei nuovi governi locali niente affatto in linea con questa idea. A ben guardare neppure fantasiosa, come si vorrebbe far credere, del tutto contraria al senso comune, come si capisce dalle reazioni di esponenti di spicco del centrodestra. Colpisce soprattutto la sua carica diseducativa, contrastante con la necessità di fare crescere la consapevolezza sulla tutela dei beni comuni.

Berlusconi sa bene che alcune regioni – tra queste la Sardegna – hanno deciso di difendere senza equivoci il paesaggio costiero e anzitutto le aree che confinano con il mare. E per questo la trovata appare – in Sardegna e credo dappertutto – gravemente inopportuna sul piano politico e molto sconveniente sul piano economico.

Ma c’è di più. Le politiche di governo del territorio, secondo la maggioranza che sostiene il presidente della Regione Autonoma della Sardegna Soru (e anche secondo il presidente della Puglia Vendola), non solo sono orientate a impedire che le grandi ricchezze ambientali come sono le parti più prossime al mare vengono alienate e trasformate. Il progetto del governo regionale sardo è quello di accrescere il patrimonio pubblico proprio per metterlo al sicuro, sottrarlo al mercato contingente, come si fa con le cose belle e rare che potranno servire alle generazioni future (eccolo un esempio di solidarietà ecologica-generazionale che da senso all’idea vaga e poca praticata della sostenibilità ambientale. Ecco l’unico modo di pensare ai prossimi flussi turistici che, basta leggere qualche sondaggio, di casinò o cose simili in riva al mare non ne vogliono vedere!).

E ancora: ecco il rischio di fare del federalismo una dissennata esaltazione del liberismo che rompe vincoli e punta a frantumare i pochi scudi di cui il Mezzogiorno dispone; e che induce a buttare tutto, opere d’arte e paesaggi, nel grande bazar della competizione globale. Partendo con grandi proclami sull’autonomia del sud e mirando nei fatti ad una progressiva riduzione di quell’autonomia. Ma al sud hanno capito e anche nella splendida Gallura dove la tentazione di vendere le coste è stata forte, non sono tutti avventori billionaire e hanno votato contro il centrodestra in tutte le elezioni recenti.

In un’aula - antica e conservata - della facoltà di ingegneria un gruppetto riflessivo di studenti si è domandato se esiste un una filosofia delle costruzioni.

Esiste, dicevano, la filosofia del diritto, c’è una filosofia della scienza ed esiste, certo, anche una filosofia del costruire: ma non viene insegnata. Eppure un’azione così importante e complessa come progettare e costruire deve essere sostenuta da una filosofia e da un’etica. Sennò si vive in un aldilà, opaco, senza memoria e senza passato.

Finita la discussione che ha lasciato quasi tutti con idee più numerose ma più confuse, ho attraversato la città, Cagliari, per tornare a casa e sono passato dall’ordine del ragionamento al disordine della realtà.

Un’infinità di esempi dolorosi mi si presentavano lungo strada. Filosofia ed etica da queste parti hanno fatto un capitombolo… Guardavo i quartieri e riflettevo che non c’è stata né un’etica e neppure una filosofia che hanno sostenuto la crescita di Cagliari, orribilmente ingrandita dal dopoguerra ad oggi, priva, appunto, di una dottrina del costruire. Cresciuta con la violenza della necessità, perché servivano tetti sotto i quali rifugiare la gente che si inurbava dai paesi dell’isola. Perciò, nonostante la bellezza della posizione naturale, Cagliari è diventata una città brutta cresciuta nel disordine, come un tumore. La necessità, solo la brutale necessità per sessant’anni, ha guidato la nascita di quartieri nuovi e soffocanti. Era necessario costruire case e basta. Non c’era il tempo di fare filosofia.

Questa è la città oggi.

E il resto dell’isola?

Nelle campagne, nelle coste e sui monti non c’era la folla che premeva per avere un tetto, casomai era il contrario e la gente fuggiva dai paesi. Però c’era altro che spingeva verso la distruzione, qualcosa di forte quanto la necessità.

Oggi, si sa, l’isola è un inferno affaristico e come ogni inferno ha i suoi diavoli. E per colpa dei diavoli l’isola ha perso la memoria ed è diventata roba di dozzina, roba volgare. Tutto è mutato in peggio, tutto avvilito, il paesaggio, i colori. E siamo solo un milione e mezza in un enorme spazio.

Costruire, qualcuno ha scritto, significa collaborare con la terra.

Collaborare con la terra...

Ma quale collaborazione con la terra e con le acque c’è stata da queste parti? Qua abbiamo fatto e costruito contro la terra e contro le acque, contro natura. E la brutalità continua.

Dal cielo le cose, alle volte, si vedono con più chiarezza.

In una bella giornata trasparente, volando sopra le due grandi isole, anche il viaggiatore più distratto nota che la Corsica, vista dall’oblò, è quasi illesa, intatta mentre la nostra isola è dappertutto imbrattata, sfregiata da cemento, porti, agglomerati insensati sull’acqua e sui monti. Nelle giornate più terse si riconoscono anche i particolari più raccapriccianti. Altro che filosofia.

E il fascino del passato è divenuto solo una carta falsa, buona per bari e biscazzieri che raccontano un’isola che non esiste da un pezzo.

I nostri paesi.

I nostri paesi erano perfettamente in natura e “collaboravano” con la terra. Lentamente, da sé, sono riusciti nell’intento, dolorosamente contraddittorio, di svuotarsi degli abitanti e di moltiplicare le case. Paesi fantasma. Case brutte, estranee al paesaggio, estranee a chi le abita e crede di avere una casa solo perché ha eretto muri, case mai finite, ciascuna secondo un gusto che ha rotto con la tradizione e fa il verso ai modelli peggiori: costruite contro il paesaggio e contro il territorio. Tutto in uno sconsiderato caos alcolico, ovunque, in ogni luogo.

Avremmo dovuto non costruire ma ricostruire, considerare il passato modificandolo, inseguire il senso del costruire sotto le pietre e sotto i mattoni vecchi. Avremmo dovuto semplicemente imitare noi stessi e cambiare poco, oppure pochissimo. Avremmo dovuto tenere i piedi saldi sul passato e conservare, conservare. La filosofia l’avremmo trovata nelle nostre pietre se avessimo guardato in terra. Iniziare da quello che c’era.

Invece abbiamo creato un paesaggio nuovo e desolato, falsificato la nostra geografia umana. E anche per questo siamo un popolo melanconico e tragico: ci siamo sradicati da soli, ma soprattutto abbiamo perso definitivamente la memoria e non ricordiamo più chi siamo.

E pensare che una filosofia del costruire esisteva nell’isola, una filosofia povera, ma una filosofia. I paesi erano in equilibrio con la terra, erano costruiti con i materiali della terra su cui sorgevano e perciò assomigliavano alla terra, ne riproducevano i colori e perfino l’odore.

Il granito dove il granito era a portata di mano, il mattone di fango dove c’era la paglia e l’argilla, il tufo bianco, pietre splendenti, la trachite bruna, tegole e canne, muri di selce: materia riconoscibile e non estranea. Nulla… tutto scomparso.

Non era un grande sapere ma era un modo di costruire “naturale”, la nostra rappresentazione del mondo intorno. Noi l’avremmo dovuto ricomporre. E, invece, la trasmissione delle memorie si è sgretolata.

Che cosa abbia fatto a pezzi tutto questo non è chiaro.

Ignoranza e povertà, forse, hanno cancellato quello che avevamo il dovere di conservare. Una forma di succube inferiorità davanti a tutto ciò che arrivava dal mondo esterno. La non comprensione del patrimonio povero ma insostituibile. La pressione troppo forte del mondo “civilizzato”.

Quel gruppo di studenti d’ingegneria continuerà a riflettere e comprenderà, speriamo, la responsabilità di chi deve costruire in Natura, l’importanza del “non fare” e capirà che per non fare occorre forza e conoscenza di cosa ci portiamo dentro.

Non fare è un comandamento. E quando si agisce bisogna che l’azione, preceduta da un’idea, sia minima, oppure – ma questo è un compito riservato al genio – grande ma in collaborazione con la terra la quale è inanimata, certo, ma possiede una logica che, se la si offende, genera disastri. Sennò saremo noi i responsabili della creazione di un regno dei morti in terra.



Ecco i libri di Giorgio Todde

L'immagine è tratta da: yves.barnoux.free.fr/ sarde/litterature.htm

3.Il consumo in Sardegna: tra gioco d’azzardo e sperimentazione di regole

Ho solo delineato i percorsi, ma sui risultati rinvio al materiale che troverete nella cartella, e soprattutto al volume di prossima pubblicazione.

Da questa ricerca che cosa possiamo ricavare in termini generali? Ovvero come interpretare il fatto che in Sardegna dilatazione del consumo e turismo vanno di pari passo e che la trasformazione della distribuzione ed i cambiamenti del sistema turistico sono strettamente legati a un bisogno che va oltre il semplice accesso al bene-merce-territorio, bisogno peraltro che attraversa l’Italia e l’Europa (per limitarci al nostro continente). Infatti, la domanda di consumo (nel quale colloco anche il tempo/spazio del turismo) cresce nella misura in cui cresce il piacere, la curiosità, il semplice stare in questi luoghi. Uno stare mai da soli, almeno fisicamente, perché per rispondere alle domande del piacere e della curiosità deve essere condiviso socialmente. Ciò non significa che il consumo sia per così dire democratico, anzi ‘costruisce’ barriere invalicabili e rispetta rigidamente le differenze sociali e le singole capacità economiche di accesso. Uno stare che non è mai un vuoto (vacuo) ma che deve essere pieno di attività continuamente rinnovate e il più possibile spettacolari. C’è qualcosa di nuovo in questo? Se pensiamo all’arte no. Andy Warhol ha certamente anticipato questo fenomeno dilagante del consumo (per intenderci, i barattoli di minestre Campbells assunti a espressione artistica), ma se pensiamo alla vita sociale certamente sì. Non c’è uno spazio/tempo (endiadi) per il consumo, ma tutti gli spazi/tempo del singolo individuo e dei gruppi di riferimento (quindi della città e del territorio tout court) sono beni da consumare.

Tutto il resto (gli altri aspetti della vita sociale) si deve ricavare delle nicchie, nicchie consentite purché stiano sempre dentro la sfera del consumo, tranne qualche eccezione naturalmente: come ad esempio ciò che attiene alle azioni di volontariato o, nella vita individuale, alla sfera emotivo-sentimentale. Inoltre, l’opera di consumo riesce nella misura in cui le politiche di attrazione sono efficaci. Politiche nelle quali i protagonisti sono il mondo imprenditoriale, i consumatori, ai quali si sono aggiunti più recentemente le amministrazioni locali, le quali, a loro volta, hanno mutuato le regole del mercato e le hanno applicate alla politica. Gli strumenti delle deroghe e l’assenza di pianificazione sono, per l’appunto, la faccia pubblica della provvisorietà e dell’instabilità tipiche del consumo.

Che cosa accade in questi spazi/tempo del consumo? Dal vasto orizzonte di comportamenti da noi rilevato sono emersi due elementi:

1) il consumo ha bisogno di essere supportato da forti segni simbolici e comunicativi; 2) il consumo ha già ipotecato una bella fetta di futuro.

1) Primo elemento. I segni simbolici e comunicativi inducono e alimentano le domande (che ormai vanno oltre il consumo del tempo libero dal lavoro e la vacanza) di svago e di cultura - intesa però anch’essa come svago. Ecco che comprendiamo perché la presentazione di un libro può disporre di un numeroso pubblico, attratto più dalla presenza del suo autore (naturalmente se famoso) che dal contenuto dell’opera. Avvenimento questo che può collocarsi indifferentemente in un centro commerciale o in un luogo turistico (purché noto e alla moda). Lo stesso dicasi per i concerti e le mostre, allestite lungo i percorsi del consumo e che si possono tranquillamente confondere con le insegne pubblicitarie, non solo se il consumatore è disattento ma anche perché le modalità comunicative sono le stesse.

Specularmene, nei luoghi tradizionali della cultura si (in)segue il modello del centro commerciale. Naturalmente per avere successo sono necessarie alcune pre-condizioni: a) l’unicità del bene esposto ‘da consumare almeno visivamente’, sia essa di natura storica, culturale o ambientale; b) la capacità comunicativa (dal tradizionale depliant al sito Internet); c) e, non da ultimo, la firma/griffe che garantisce il successo: si pensi a Marco Golin che da Treviso è passato a Brescia e a Torino, trasferendo insieme alla sua persona risorse finanziarie, capacità attrattive oltre che i contratti per l’esposizione delle opere (con tutti gli effetti negativi per l’intera città di Treviso che su questa griffe aveva organizzato e costruito grandi aspettative).

Badate bene, quest’ultima pre-condizione sta ‘condizionando’ tutto il resto. Se una spiaggia non decolla, ecco che si chiama la griffe, l’ultima in ordine di tempo è quella di Massimiliano Fuksas per una parte di costa del sud-Sardegna. Se poi si vuole fare un viale nella città catalana, che cosa si fa? Si chiama naturalmente Busquetz, con la speranza di replicare il successo di Barcellona nella città-cugina.

La griffe, anch’essa, risponde ai criteri e alle regole del consumo, deve essere spettacolare e, possibilmente, rinviare un’immagine di successo magicamente garantito. Altrimenti non si capirebbe perché mai un’amministrazione (magari neanche troppo ricca) investa ingenti finanziamenti per ‘catturare’ la firma di un architetto o di un artista, purché noti, di cui non sono in discussione le qualità, ma semmai le capacità taumaturgiche di far decollare un’area depressa, una città in crisi, e così via.

2) Secondo elemento. Nel prossimo futuro, almeno se non intervengono fatti imprevisti, questi luoghi assumeranno sempre di più la veste complessa - sociale ed architettonica - della città. Si pensi semplicemente al fatto che intere generazioni considerano i centri del consumo la città tout court, dove si fanno le feste dei compleanni, ci sono i baby parking, la piazza del passeggio e certamente anche dell’innamoramento, e così via. Insomma il fatto che soprattutto i più giovani, proprio quelli che hanno maturato scarsa esperienza di altri tipi di città, considerino questi centri del consumo dei luoghi urbani, passandoci buona parte della loro vita, impone seri interrogativi sul futuro loro e delle città storicamente date.

D’altronde queste nuove forme urbane stanno adattando le loro architetture, oltre i nomi, alle città storiche (ad es. Serravalle Scrivia che dista da Alessandria circa 44 Km). Certo in Sardegna siamo fermi ancora al modello architettonico introverso di Gruen (grandi scatole cubiche), ma la domanda di qualità architettonica di questi centri sta crescendo anche nella nostra isola. Analogo ragionamento può essere applicato ad alcuni luoghi di fruizione turistica: pieni sociali, sul principio della città (senza però l’ingombro della differenziazione sociale) per alcuni mesi all’anno; vuoti sociali nei restanti mesi. Pieni sociali che soffrono di schizofrenia: massima protezione della privacy (luoghi blindati per eccellenza), massima esposizione pubblica e oggetto del desiderio per quanti vedono in questi luoghi (e i suoi abitanti) un modello da imitare.

Ha un fondamento questo percorso riflessivo? Se sì, siamo in ritardo nel porci degli interrogativi, quali “Che cosa significa città oggi?”; “ Quali sono le differenze tra l’individuo consumatore e il cittadino?”, “Come si possono innescare processi democratici, partecipativi e di controllo in queste forme urbane create dal e per il consumo?”. E ancora, “In questo nuova forma urbana ci possono essere coesione sociale e modalità redistributive di ricchezza?”. Certamente per coesione sociale e redistribuzione non possiamo intendere la raccolta di viveri per le famiglie povere che ogni centro commerciale che ‘si rispetti’ colloca vicino alle porte scorrevoli, e neppure i balli o le feste di beneficenza organizzate in estate dai Vip.

Ovverosia, la città che si sta prospettando è ancora il luogo (nel senso aristotelico) dove il genere umano (libero anche dal consumo) esprime nel contempo la capacità di governare e di essere governati? Come si può capire non mi sto riferendo a ciò che attiene ai diritti dei consumatori e alle forme associative sorte ad hoc. Bensì mi riferisco al fatto che la sfera dei diritti e dei doveri, le sedi di rappresentanza istituzionali, insomma la città come polis, hanno fondato l’idea stessa di cittadinanza, dove il mercato è sì un luogo fondante della città, ma di per sé non sufficiente per fare di un insediamento una città (come ci ha ben detto Max Weber). Ma oggi è il mercato a fare la città, tanto è vero che la città storica insegue anch’essa, per sopravvivere o per competere, il modello degli shopping center e dei luoghi del turismo più rappresentativi.

Insomma, quali sono gli spazi della democrazia in una città proiettata prevalentemente sul mercato e sul consumo? Credo che a questo interrogativo non si possa più sfuggire.

La ricerca si colloca in Sardegna e quindi non posso eludere la domanda “Il governo regionale si sta attrezzando per rispondere alle ‘tentazioni’ del consumo?” (dei luoghi, dei beni, della cultura).

Se pensiamo ai tre interventi del governo sardo riguardanti il decreto salva-coste, l’istituzione del Conservatore delle coste della Sardegna e il blocco dei grandi insediamenti commerciali, sembrerebbe che ci sia uno sforzo di sperimentazione in tal senso e il tentativo di uscire da una lunga fase di ‘gioco d’azzardo’.

Non voglio entrare nel merito di questi decreti (non è questa la sede), anche se dichiaro di condividerne la filosofia tutelante di fondo. Ma ciò non mi esime dal porre alcune domande (domande che mi sarebbe piaciuto fare in questa sede all’assessore regionale all’urbanistica, anche se devo dire che l’assenza delle istituzioni non è dipesa da noi).

Ossia, rispetto a questi decreti, a partire dal decreto salva-coste, quale impianto giuridico ed economico in materia urbanistica si vuole costruire? Per quale scenario di sviluppo? Con quali attori sociali?

Non bastano i vincoli. Sono necessarie proposte concrete e differenziate per i diversi territori da realizzare in tempi rapidi. Ed ancor di più è necessario costruire il consenso. La regione non è un’azienda da gestire e la democrazia non è un ingombro. È un processo faticoso ma necessario, non ultimo perché senza il consenso ogni intervento, persino quello più illuminante, sarebbe privo di efficacia: basti pensare alla pluri-decennale vicenda dei parchi mai nati, nonostante precise norme istitutive. Il territorio va governato con la politica, in assenza di questa sono gli interessi forti a decretarne il mutamento. Non vorrei apparire ingenua. So bene che in materia di territorio gli interessi ci sono sempre, e non mi scandalizza il fatto che i portatori di questi interessi facciano di tutto per difenderli. Il punto è, la prevalenza di alcuni interessi – ad esempio quelli che hanno comportato la proliferazione degli insediamenti turistici e la diffusione del fenomeno delle seconde e terze case - ha portato benefici alla Sardegna e non solo ai singoli e pochi protagonisti? Non mi colloco tra quanti ritengono di dover demonizzare il turismo. È un settore molto importante della nostra economia, ma il livello di maturità raggiunto dal turismo (nonostante i troppi spontaneismi che continuano ad esserci) ci consente di valutare criticamente ciò che fin qui si è realizzato. Anche la pausa (così deve essere intesa) dei decreti può servire per riflettere insieme senza posizioni preconcette.

Ad esempio, il polo di Olbia costituisce una punta avanzata dal punto di vista demografico - si sostiene anche sotto il profilo economico -, ma vi domando “Il modello di turismo esistente in quest’area – considerato una punta di eccellenza per i tipi di insediamento e perché catalizza l’attenzione internazionale -, siamo sicuri che vada bene?

Sotto il profilo del paesaggio, abbiamo insediamenti turistici (seppur d’élite) che vivono pochi mesi all’anno e che però come consumo del territorio gravano tutto l’anno. Non a caso si sta chiedendo da più parti che vengano considerati (e perciò trasformati in) ‘aree urbane’ a tutti gli effetti.

Sotto il profilo sociale, disoccupazione diffusa, occupazione precaria e poco qualificata sono i risultati di questo modello.

Sotto il profilo urbanistico, frammentazione e dispersione caratterizzano la città di Olbia, senza però neppure l’ordine storicamente sedimentato della città di lunga durata.

A tutto ciò va aggiunto il fatto che questo modello di turismo è stato pedissequamente imitato in altre parti della Sardegna, con meno risorse finanziarie, con meno qualità e probabilmente con maggiore frenesia di ottenere rapidamente dei benefici dalla trasformazione del territorio costiero in insediamenti turistici.

Insomma il turismo che si è affermato, ha sì messo in vetrina la Sardegna, ma non l’ha fatta uscire dalla marginalità.

Altro elemento, il turismo, come qualunque bene di consumo, è sottoposto alla provvisorietà della moda e dell’effimero, è sufficiente un cambiamento dei gusti – senza scomodare uno tsunami – perché un intero sistema crolli. Da questo punto di vista, quegli scrittori che ‘demonizzano’ il turismo (non farei distinzioni tra mare e terra) hanno molte ragioni ad indicare altre vie. Purché queste non siano rivolte all’indietro. Non siano per l’appunto nostalgiche.

Per concludere, a partire dai risultati della ricerca sui consumi faccio le seguenti considerazioni:

a) la Sardegna non può sottrarsi ai processi globali che hanno fatto diventare il consumo la dimensione per eccellenza, ma la sua condizione di insularità consente di poter governare questo processo con regole di contenimento: ad esempio limitando l’estensione della grande distribuzione (ingiustificata sul piano dei numeri demografici) e individuando le soluzioni (anche finanziarie) per far uscire dalla crisi la piccola impresa commerciale. Questa a sua volta deve modificare il suo ‘atteggiamento individualistico’.

b) Il turismo è diventato un settore troppo importante per tenerlo in una condizione di deregulation. Con la costruzione di regole chiare e condivise, nonché di controlli, possiamo indurre cambiamenti culturali nei comportamenti dei turisti, orientandoli verso tipi di consumo sostenibile e responsabile. Ma ciò significa che anche gli operatori turistici, chi detta le regole del governo e le categorie produttive devono maturare scelte che vadano in questa direzione. Il che si traduce in dialogo tra le parti e costruzione di un disegno complessivo dello sviluppo della Sardegna, utilizzando anzitutto gli strumenti della ricerca, disegno che non può comprendere solo il turismo. Mi riferisco ancora alle categorie produttive dell’artigianato, agricoltura e pastorizia e, non da ultimo, dei comparti industriali che in Sardegna ancora ci sono. Ricordo che nella pratica sociale la pianificazione per parti separate e funzionali è stata superata da tempo, ma questo superamento concettuale non ha ancora coinvolto l’economia e la politica.

c) La spettacolarizzazione delle città e del territorio è un fenomeno che in Sardegna ha avuto successo in poche porzioni di territorio (penso alle iniziative poste in essere dalla città di Cagliari e di Alghero, o alla Costa Smeralda). Questo processo consente di attrarre visitatori/consumatori e flussi finanziari. Ogni piccolo comune sta cercando di entrare nell’orbita di questo successo, moltiplicando le iniziative in tal senso, anche se non possono che essere piccole e deboli (penso alla proliferazione delle sagre di qualunque tipo). In questo modo si concentra l’attenzione, per usare un linguaggio figurato, sull’involucro e si trascura il contenuto. Si costruisce la scena e ci si dimentica degli attori sociali e della loro vita quotidiana, a partire dalle condizioni di lavoro, sempre più precarie e senza regole. Credo che questo processo vada quantomeno invertito. C’è uno stato di sofferenza sociale troppo spesso rimosso o rinchiuso nelle scarse e inefficaci politiche degli assessorati ai servizi sociali - dalla disoccupazione alla crisi abitativa, fino alla povertà estrema -.

Se la Sardegna vuole conservare la condizione di ‘vetrina’ che almeno tutti gli oggetti siano luccicanti, e non solo quelli esposti in prima fila.

TEMPIO.Gianni Letta, sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio, ha informato ieri con una lettera, il Parlamento della applicazione del segreto di Stato su tutti i lavori compiuti alla Certosa di Porto Rotondo. La comunicazione era già stata trasmessa con plico riservato alla magistratura gallurese. Il procuratore della Repubblica Valerio Cicalò, che coordina le indagini sui presunti abusi edilizi di Punta Volpe, aveva dato un termine più che congruo alla Presidenza del Consiglio dei ministri. La scadenza era stata fissata per il 12 gennaio, termine entro il quale dalla presidenza del Consiglio dovevano comunicare, ufficialmente, l’applicazione del segreto di Stato sui lavori compiuti nei 50 ettari della Certosa.

La comunicazione fa scattare ora la seconda fase giudiziaria. Quella del ricorso alla corte Costituzionale per il conflitto di attribuzione dei poteri, un atto che era stato già annunciato dalla procura della Repubblica gallurese. «Saranno gli avvocati dello Stato a decidere quando inoltrare il ricorso» dicono alla Procura di Tempio i cui magistrati, nei mesi scorsi, avevano inutilmente cercato di compiere due soppralluoghi alla Certosa.

«Il 5 novembre il procuratore della Repubblica di Tempio ha chiesto la conferma del segreto di Stato sull’area di Punta Volpe - dice la lettera di Gianni Letta -. Delicati profili di opportunità, legati alla circostanza che la questione attiene a provvedimenti concernenti misure per la protezione e sicurezza del Presidente del Consiglio dei ministri, hanno indotto lo stesso ad affidare allo scrivente ogni valutazione sulla ricorrenza del segreto di Stato. Confermo il segreto di Stato posto nel corso del procedimento penale n. 2550/04 in relazione a due decreti di “ispezione dei luoghi”.La conferma è motivata dalla inaccessibilità dell’area in esame come previsto dal decreto del ministro dell’interno n. 1004/110-1158 del 6 maggio 2004. Con tale decreto, che si colloca nella fase attuativa della pianificazione nazionale antiterrorismo predisposta dal ministro stesso, è stata individuata l’area in oggetto quale sede alternativa di massima sicurezza».

Il governo ribadisce dunque il segreto di Stato sui lavori alla Certosa, la tenuta di Silvio Berlusconi in Sardegna. La lettera è stata letta nell’aula di Montecitorio dopo la mezzanotte di ieri dal presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini. E le reazioni politiche non si sono fatte attendere. «Che significa individuare la villa sul mare del dottor Berlusconi come “sede alternativa di massima sicurezza per l’incolumità del presidente del Consiglio” - dice Massimo Brutti, vicepresidente dei Ds a Palazzo Madama -, forse, in caso di necessità o di pericolo attuale e concreto, sarebbe questo il luogo destinato ad ospitare il presidente e il suo staff, per proteggere la sua vita e la continuità dell’azione di governo? Se è così, la soluzione è tragicamente inadeguata. Il rischio dovrebbe essere gravissimo, atto a superare le difese normalmente apprestate per palazzo Chigi e per ogni altra sede istituzionale. Ma quale sicurezza può essere garantita se l’ubicazione del rifugio segreto, previsto, per l’esecutivo è in realtà nota a tutti? Villa Certosa è in una zona destinata alle vacanze, nella quale si suppone che la copertura radar e la protezione militare non sia ai massimi livelli. Nonostante la solennità dei proclami, mancano ragioni istituzionali credibili per questo provvedimento, che ha l’effetto concreto di nascondere lavori di interesse privato, realizzati in contrasto con le leggi vigenti. Su questi lavori è lo stesso proprietario della villa che oppone all’autorità giudiziaria il segreto di Stato. Un bell’esempio di rispetto delle regole e dei beni pubblici». Più sarcastico e pesante il giudizio di Ermete Realacci, della Margherita, il quale sostiene che «neanche a fine anno ci viene risparmiato il ridicolo.

Evidentemente il grave pericolo terroristico rappresentato dai magistrati sardi ha reso indispensabile l’imposizione del segreto sui lavori disinvoltamente eseguiti a Villa Certosa». Per il presidente dei Verdi Pecoraro Scanio si tratta «non di un segreto, ma siamo di fronte all’abusivismo di Stato. Berlusconi ricorre al segreto di stato per nascondere il suo abusivismo privato. E’ scandaloso ed è un pessimo esempio per i cittadini». Il segreto di Stato per i lavori a Villa Certosa - dall’approdo a mare con tunnel al laghetto artificiale fino all’anfiteatro - verrà valutato anche dal Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza. Lo dice il presidente Enzo Bianco.

La descrizione illusrtata della Villa del Cactus

Villa Certosa è come un blob, che cresce alimentandosi della violazione delle più elementari norme del diritto. Fino a ieri si pensava che solo dentro i confini della dimora berlusconiana di Punta Lada, a Porto Rotondo, valesse il segreto di stato che impedisce ai magistrati della procura della Repubblica di Tempio di oltrepassare i cancelli per verificare il rispetto dei vincoli paesagggistici e delle leggi sull'abusivismo edilizio. Da ieri si sa che tutte le proprietà del premier, in Sardegna e fuori dall'isola, sono obiettivi a rischio di attacco terroristico e sono soggette a segreto di stato. Così è scritto nei due decreti, siglati dal ministro dell'Interno Beppe Pisanu il 6 maggio 2004, ora consegnati al Copaco, l'organismo che dovrà pronunciarsi sulla fondatezza del segreto di stato opposto dalla presidenza del consiglio alla procura di Tempio. In Sardegna Berlusconi non possiede solo la Certosa. C'è anche Villa Stephanie, una grande casa con piscina e parco a poche centinaia di metri dalla dimora principale. E' una dépendance che viene utilizzata solo ad agosto per ospitare le guardie del corpo e gli addetti alla sicurezza dei capi di stato e dei leader che il presidente del consiglio convoca per i summit nella sua residenza estiva. Poco distante c'è la sontuosa villa (seicento metri quadrati di piscina) di Matilde Berlusconi, la sorella di Silvio. E sempre a Punta Lada sorgono il Monastero, la dimora che Paolo Berlusconi ha acquistato qualche anno fa, e Villa Veronica, destinata, invece, alla mamma del Cavaliere.

Ma oltre le case, Berlusconi ha in Sardegna anche molti terreni. E' da almeno quattro anni che la società immobiliare Idra, cassaforte nella quale sono custodite tutte le proprietà del presidente del consiglio (comprese quelle di Arcore e di Macherio), acquista a Punta Lada appezzamenti che confinano con Villa Certosa. Una vera e propria strategia di espansione fondiaria, con un esborso complessivo, ad oggi, di 23,9 milioni di euro. Una zona di rispetto intorno a Villa Certosa la cui esistenza viene giustificata, dai manager di Idra, con esigenze di tutela della privacy di Berlusconi. Alla privacy si sono aggiunti i motivi di sicurezza di cui parlano i decreti del Viminale. Decreti sui quali c'è stato di recente un braccio di ferro tra maggioranza ed opposizione nel Copaco. Per i membri della Casa delle libertà, i documenti già in possesso del Comitato erano sufficienti a giudicare fondato il segreto di stato. L'opposizione aveva invece chiesto di conoscere anche i decreti del ministero dell'interno.

Il presidente del Copaco, Enzo Bianco, si era rivolto al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con delega ai servizi segreti, Gianni Letta, per chiedere la visione dei documenti firmati da Pisanu. In un primo momento, il 5 febbraio, Letta aveva risposto a Bianco con un no secco: «La richiesta è irrituale irricevibile». Poi però un'altra lettera di Letta a Bianco, dopo che i due si era sentiti, aveva annunciato l'accoglimento della richiesta. Il primo dei due decreti contiene l'approvazione del «Piano nazionale per la gestione di eventi di natura terroristica»; all'interno di questo documento c'è anche il «Piano di sicurezza per Villa Certosa», che resta però secretato. L'altro decreto fa riferimento al terzo capitolo del «Piano nazionale» e indica che tutte le residenze private del presidente del Consiglio e le loro pertinenze, nonché quelle dei familiari e dei suoi collaboratori, sono sottoposte a misure di sicurezza. Per tutte è imposta la massima segretezza ed è disposta la totale interdizione all'accesso, salvo autorizzazione del premier. Si sottolinea poi l'urgenza di individuare una «sede alternativa di massima sicurezza per l'incolumità del presidente del consiglio e per la continuità dell'azione di governo» e, su proposta di Pisanu, viene indicata Villa Certosa. Sia la sede di massima sicurezza (Villa Certosa), sia le residenze private del premier e dei suoi familiari, dice il decreto, sono soggette alla legge 801 del 1977. E' la legge che disciplina, tra l'altro, il segreto di stato. Ciò significa che, così com'è stato fatto per la Certosa, anche per le altre residenze del premier e per quelle dei suoi familiari può essere opposto il segreto di stato ad un'eventuale richiesta di ispezione da parte di una procura della Repubblica.

Tra le reazioni, quella del presidente dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio: «Siamo oltre oltre ogni limite di decenza. Si ricorre al segreto di stato per dare una parvenza di legalità ai lavori abusivi eseguiti in una residenza privata. Un atteggiamento che tradisce l'arroganza del premier, ormai abituato a considerare l'Italia una sua proprietà privata».

Un conflitto istituzionale su Villa Certosa era già aperto. E' quello tra la procura di Tempio Pausania, che indaga su eventuali abusi edilizi e reati ambientali nella residenza estiva di Berlusconi, e la presidenza del consiglio dei ministri, che per impedire un'ispezione del corpo forestale delegato dal pm ha opposto formalmente il segreto di stato. Dovrà occuparsene la corte costituzionale davanti alla quale, con ricorso depositato il 15 gennaio, la procura di Tempio ha sollevato per l'appunto un conflitto d'attribuzione tra poteri dello stato. Ma ora il segreto raddoppia: il comitato di controllo sui servizi segreti (Copaco), secondo le destre al governo, non può neanche conoscere i decreti firmati il 6 maggio dal ministro dell'interno Giuseppe Pisanu che giustificherebbero l'opposizione del segreto, confermata il 23 dicembre ai magistrati da una notarella di Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega per i servizi segreti. E' un fatto senza precedenti. Dal `77, anno della legge 801 che riformò i servizi, il segreto di stato è stato opposto soltanto dieci volte e sempre su questioni di rilievo, dalle vicende dell'Eni ai traffici con il Medio Oriente e alle stragi. E il comitato, che comunque non potrebbe togliere il segreto ma solo riferire al parlamento che lo ritiene illegittimo (purché deliberi a maggioranza assoluta, almeno cinque su otto), non ha mai censurato i governi.

Nella documentazione fornita al Copaco, che ieri ha discusso di Villa Certosa, i decreti non ci sono. Gli esponenti dell'opposizione, perciò, l'hanno fatto notare, proponendo una formale richiesta a Palazzo Chigi. I quattro che rappresentano il Polo, però, si erano presentati agguerritissimi: no e poi no, nessuna richiesta di documenti, hanno risposto Pierfrancesco Gamba di An e Pasquale Giuliano di Forza Italia. Insieme a Fabrizio Cicchitto, vicecordinatore di FI, non sembrano riconoscono alcun ruolo al comitato. Ancora ieri sera sostenevano di non capire la polemica: «Il segreto di stato è fondato, altri documenti non aggiungerebbero nulla - ribadivano Cicchitto e soci -Villa Certosa è una dimora abituale del premier e va protetta dal terrorismo. Nessuna procura può far saltare il piano di sicurezza, noi non siamo comandati dalle procure». Massimo Brutti, Ds, non è d'accordo: «Si crea un precedente pericoloso in termini di limitazione dei poteri del comitato, in futuro potrà accadere anche su questioni più delicate. Intendiamo comunque verificare se, come dichiarato dal sottosegretario Letta, la residenza usata per le vacanze dal premier possa essere validamente sede alternativa di governo, idonea a garantirne la continuità nei momenti di pericolo». Gigi Malabarba, capogruppo di Rifondazione in senato e membro del Copaco, aggiunge: «Si vuole garantire in ogni occasione l'impunità del premier, in questo caso attraverso una sorta di extraterritorialità per la sede di vacanze».

Il comitato è paritetico, quattro posti alla maggioranza e quattro all'opposizione, compreso il presidente Enzo Bianco della Margherita, ex ministro dell'interno dell'Ulivo, che in genere si sbilancia poco ma stavolta vuole andare fino in fondo. I documenti li chiederà da solo, ha annunciato: vedremo se Berlusconi e Letta li negheranno di nuovo. In 27 anni il Copaco non si era mai diviso a metà, al massimo c'era stata una spaccatura tre contro cinque nell'85 sul segreto opposto dal Sismi e da Bettino Craxi sull'intrigo tra servizi, P2 e terroristi neri che stava bloccando le indagini sulla strage del treno Italicus (1974): il governo la spuntò anche quella volta, solo dieci anni dopo si potè accedere ai documenti, ma Craxi dovette andare di persona a dare spiegazioni al comitato. Qui, invece, pur trattandosi di lavori in corso in una villa privata, ai parlamentari non arrivano neanche gli atti del governo, peraltro classificati al livello «segreto» (neppure «segretissimo» come tanti altri atti che arrivano al Copaco) e già mostrati, purché non facessero copie, ai pm sardi. La residenza berlusconiana, del resto, compare anche in decine di foto pubblicate in un libro in commercio, Ville esclusive & Resorts (Archideos Milano) dedicato all'opera dell'architetto Gianni Gaimondi, quindi è persino bizzarro che il decreto di Pisanu abbia bloccato i fotografi del corpo forestale «allo scopo di preservare la conoscibilità dei luoghi».

Il ricorso dei magistrati alla corte, sottoscritto dai professori Alessandro Pace e Pietro Ciarlo, solleva anche quest'ultima obiezione. E soprattutto osserva che il segreto di stato può essere opposto a testimonianze e sequestri di atti ma non alle ispezioni, che non può riguardare luoghi realizzando così una sorta di extraterritorialità e di impunità penale in loco, che Villa Certosa non è una sede istituzionale ma un'area privata concessa in affitto al premier e chela legge 801 del `77 tutela le istituzioni costituzionali e non le persone fisiche.

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