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Un assurdo, unanime coro di giubilo degli Amministratori Regionali, Provinciali e Comunali di maggioranza e opposizione ha salutato, il 24 maggio, l’avvio dei lavori per la realizzazione delle complanari sul tratto urbano dell'autostrada A24 (Roma-L'Aquila-Teramo). L'intervento, che sarà realizzato in stretta collaborazione con gli Enti locali, secondo quanto previsto dal Protocollo sottoscritto tra il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, l'Anas, la Società Strada dei Parchi, la Regione Lazio, la Provincia di Roma ed il Comune di Roma, della lunghezza complessiva di 14 km circa, ricade nella Regione Lazio interamente nell'ambito del Comune di Roma: internamente al Grande Raccordo Anulare, tra la Barriera di Roma Est e Via Palmiro Togliatti, ed esternamente fino alla barriera di Lunghezza.

L’importo dell’opera è quantificato in complessivi 255 milioni di euro, cofinanziati dai sottoscrittori del Protocollo stesso (il Comune di Roma parteciperà con 35 milioni) ed i lavori, che dureranno per 1120 giorni, prevedono la realizzazione di due nuove carreggiate parallele e complanari alla sede autostradale esistente per separare il flusso del traffico locale (p.e. quello da Ponte di Nona) da quello di lunga percorrenza proveniente soprattutto dall’Abruzzo.

Nella mente di chi esalta quest’opera essa è destinata a portare grandissimi benefici al territorio, fluidificando il traffico e riducendo i tempi di percorrenza. In realtà si tratta dell’ennesimo mare di cemento (tra le opere principali sono previsti p.e. i viadotti La Rustica, Aniene I, Aniene II, Cerroncino, Benzone, Montegiardino, Dell'Osa e Lunghezzina, nonché otto cavalcavia, cinque sottovia ed opere minori) destinato a stravolgere il prezioso sistema ambientale del quadrante est, costituito tra l’altro dal Parco della Cervelletta, dal Casale Bocca di Leone, dal Parco della valle dell’Aniene. Gli stessi abitanti di Colli Aniene dovranno assistere al drastico ridimensionamento del parco che i cittadini hanno curato e realizzato negli ultimi 20 anni a ridosso della bretella con la A24, proprio per avere una barriera di verde a protezione del rumore e delle polveri sottili che la trafficata arteria stradale produce giornalmente.

Centinaia di pulmann potranno così accedere più facilmente verso il centro della città, nuove migliaia di auto confluiranno quotidianamente su viale Palmiro Togliatti già gravato da una enorme mole di traffico in virtù anche della scellerata scelta della trascorsa Giunta comunale Veltroni di utilizzare come corsia preferenziale dei bus una delle tre corsie del Viale, anziché il disponibile square centrale. Aumenteranno la congestione da traffico e i tempi di percorrenza, i livelli di inquinamento atmosferico, acustico e ambientale, in una vasta area urbana fortemente antropizzata. Un futuro disastro voluto da Amministratori Regionali, Provinciali e Comunali incapaci di pensare, di progettare, di realizzare un sistema di mobilità non incentrato sull’automobile.

È lecito chiedersi: cosa si sarebbe potuto fare in alternativa e con le stesse risorse per migliorare la qualità della vita delle migliaia di pendolari che accedono a Roma dalla A24 ?

Sarebbe stata possibile una mobilità del trasporto pubblico su ferro alternativa a quella su gomma?

Sarebbe costato tanto trasformare la FM2 e l’antiquata Roma-Pescara, quest'ultima tutta o in parte, in ferrovie suburbane r interregionali moderne e tecnologicamente avanzate?

Quante decrepite stazioni di questa ferrovia e della FM2 si sarebbero potute attrezzare con parcheggi adeguati, rendendole accoglienti e sicure?

Si sarebbe potuto declassare il tratto autostradale della A24 fino alla barriera Roma Est, trasformarlo a 3 corsie per senso di marcia e utilizzarne una come corsia preferenziale per il trasporto pubblico?

Perché la Giunta Alemanno non ha mai voluto applicare la Delibera d’Iniziativa Popolare firmata da 11.000 romani e approvata all’unanimità nel 2006 dal Consiglio Comunale, per progettare e realizzare la tramvia/metropolitana di superficie Saxa Rubra – Laurentina, che collegherebbe tangenzialmente ben 6 municipi da Roma Sud a Roma Nord?

Tutto questo non accade per caso, solo per colpa di Amministratori incapaci e miopi.

Anche in questa vicenda, come in tante altre che hanno segnato il presente ed il futuro della nostra città, le Giunte che hanno governato e governano Roma ed il Lazio hanno sempre voluto dialogare solo tra loro e con gli imprenditori del cemento, non hanno mai attivato processi di partecipazione democratica, non hanno mai informato i cittadini, i loro Comitati, le Associazioni ambientaliste, non hanno mai voluto ascoltare le loro richieste e proposte.

Soltanto “sfortunato” il sindaco di Roma Gianni Alemanno? Proprio mentre tenta di lanciare alcune idee di “grandeur” sulla Roma del 2020, finisce nei titoli per le ripetute tragedie degli stupri, dei bimbi rom bruciati in campi abusivi, per altre storie tipiche di una città degradata. O invece sommario, sbrigativo, senza idee? Possibile che il Comune non abbia potuto fare nulla per i disperati dell’ex ambasciata somala ridotta, nella centrale via dei Villini, a lager? E che la sua sola risposta sia, oggi, “li espelliamo tutti”?

Roma, in realtà, è sempre meno amministrata. Prendiamo il caro-taxi avallato con convinzione dal Campidoglio e poi bloccato dal Tar. Né il sindaco Alemanno né i taxisti vogliono affrontare il nodo vero: cioè la riduzione del flusso dei veicoli privati nelle zone centrali e semicentrali (siamo a 1 auto per romano adulto). E’ la sola misura che può rendere più veloci bus e tram e assicurare ai taxi un carico di lavoro oggi insidiato. Aver ritardato alle 23 la ZTL è stato un vantaggio? Sì per i “bottegari” della “movida”, entusiasti sostenitori di Alemanno. No per gli altri: commercianti, residenti, turisti. E per gli stessi taxisti che in tutte le grandi città europee lavorano molto a partire dalle 20-21 (anche per i severi test anti-alcol e altro dei guidatori). Come non capirlo?

Alemanno aveva vinto le elezioni sulla sicurezza. O meglio, sull’insicurezza. Si pensava che avrebbe assunto misure serie, pianificate. Invece ha fatto sgomberare il grande campo del Casilino 900 senza predisporre campi alternativi attrezzati. Risultato? Almeno venti campi “spontanei” senza servizi né sicurezza di sorta. Stesso discorso per la vita notturna di Roma. Si pensava che Comune e Stato avrebbero organizzato meglio la vigilanza nei punti notoriamente più pericolosi. Niente di tutto ciò. Lo Stato perché Tremonti gli ha tolto soldi, uomini, auto funzionanti. Il Comune perché, ridotto alla stessa impotenza, ha preferito straparlare di incrementi fantastici del turismo di massa, di Formula 1 all’Eur (bufala, fin da subito), di Parco tematico della Romanità su 300 ettari di Agro, di altre costose scemenze. Senza far nulla di concreto e avendo una sola idea: niente piani né vincoli, la città è una merce da sfruttare.

E’ risaputo ormai che il livello di sicurezza di un centro urbano dipende anzitutto dal persistere in essa dei residenti e dal controllo sociale da loro operato. Il centro storico di Roma, il più grande e conservato del mondo, contava nel dopoguerra circa 450.000 abitanti. Oggi sono 80-90.000, con rioni nei quali, di sera, le finestre illuminate di una abitazione si contano sulla dita di una mano. Da metropoli a necropoli. Processo reso ineluttabile dal mercato? Allora non scandalizziamoci se una ragazza può venire stuprata nei pressi di piazza di Spagna. Qualcuno osa ancora parlare del recupero a fini residenziali dei centri storici? Eppure il problema dilaga: ci sono città antiche che nell’ultimo decennio si sono svuotate, come la bellissima Viterbo, crollata da 20.000 a meno di 8.000 residenti. Soltanto Genova, che mi risulti, ha realizzato (sindaco Beppe Pericu, assessore Bruno Gabrielli) una politica pluriennale di recupero e restauro fermando, almeno, l’emorragia di abitanti. Si svuotano dunque quartieri dove sono presenti tutti i servizi, primari e secondari, e si assecondano fantastici piani di espansione nelle campagne consumando altro suolo agricolo e altro verde, impegnando soldi pubblici a pioggia, non risolvendo comunque la questione del caro-casa (il “social housing” da noi è a livelli infimi), rendendo ingestibile la città. L’edilizia sembra la sola ricetta italiana, a Milano come a Roma. Lo ha riconfermato lo stesso Tremonti ai pomposi Stati Generali per Roma 2020. C’è qualcosa di più stupidamente vecchio della cura immobiliaristica? Possibile che Roma abbia dimenticato di essere una città che produce, che fa ricerca, che sta nella tecnologia avanzata (e dovrebbe starci ancor di più)? Altro che cemento e asfalto. Ora, per trasformare ancor più Roma antica in un bazar (senza il fascino dell’esotismo), sono in arrivo 237 bancarelle in piazze come San Giovanni, il Velabro, Santa Maria Maggiore, la Pilotta, ecc. Dentro questa fiumana ci sono i prodotti bio, ma c’è pure la peggiore paccottiglia. Per cui Roma antica sarà sempre più mangiatoia continua di surgelati precucinati e bancarella non meno continua. E il superministro Tremonti se la prende coi vincoli architettonici e paesaggistici, con l’urbanistica. Siamo i soli in Europa a straparlare così. In coda a tutti.

Capitale selvaggia, nazione infetta

di Paolo Berdini

L'aspetto più preoccupante degli stati generali della città del sindaco Alemanno è venuto dal ministro Tremonti che ha replicato un tema preferito negli ultimi tempi. I vincoli paesaggistici e urbanistici bloccano la modernità ed è venuto il momento - anche cambiando l'articolo 39 della Costituzione - di togliere ogni ostacolo all'edificazione selvaggia. Del resto il governo non è stato con le mani in mano, perché attraverso i piani casa ha cancellato definitivamente quasiai visione d'insieme delle città. Ognuno può ampliare qualsiasi manufatto e tanto basta. Siamo l'unico paese sviluppato ad aver abbandonato l'urbanistica: gli altri mantengono regole certe e valide per tutti. La città viene da noi invece cancellata in nome di un cieco egoismo proprietario.

Ma c'è anche un aspetto di irresistibile comicità nelle parole del ministro. Egli infatti parlava ad una elegante platea che per buona parte frequenta la struttura di massaggi fisioterapeutici che va sotto il nome di “Salaria sport village” del premiato gruppo Anemone-Balducci-Bertolaso. Platea che sa dunque bene che i vincoli continuano ad esistere soltanto nella mente del ministro perché sono stati cancellati da anni: ormai si può fare ciò che si vuole, anche centinaia di migliaia di metri cubi di cemento sul greto del Tevere dove pure - sulla carta - esistevano i tanti odiati vincoli.

Gli Stati generali di questa capitale senza guida servivano dunque per mettere mano alle Olimpiadi senza regole. Non servivano per ragionare sul futuro della città, sulle sue numerose criticità, sulle sfide dei prossimi anni in cui dovremo obbligatoriamente attrezzare la città con un sistema di trasporto pubblico degno di questo nome. L'unico modo per poter attrarre occasioni di investimento e di occupazione è infatti quello di recuperare il ritardo che ci separa dalle città europee che funzionano proprio perché sono governate. Il neoliberismo urbanistico di Tremonti e Alemanno è diventato ormai un fattore di inarrestabile declino.L'immagine della lontananza dalla città vera era ben visibile nell'assenza di qualsiasi intervento che non fosse appannaggio del gruppo dirigente romano e nazionale. La società civile non si è potuta esprimere. Non ha potuto illustrare le sue richieste per avere quartieri vivibili e servizi pubblici degni di questo nome.

Così si è parlato solo dei grandi affari. Delle Olimpiadi, in primo luogo, in cui tutto il gotha nazionale è piazzato nei numerosi comitati esecutivi e d'onore. Della ricetta di nuovo inutile cemento a Tor Bella Monaca che avrebbe bisogno soltanto di attenzioni sociali. Della volontà di realizzare due ulteriori piste aeroportuali a Fiumicino, l'unico al mondo con cinque piste. Non sappiamo gestire l'esistente e continuiamo nella folle politica della quantità. E mentre gli altri praticano la ricerca della qualità, Roma continua a espandersi senza fine e senza idee. Povera capitale.

La Roma in crisi sfida Alemanno

di Ylenia Sina

«Roma bene comune». Uova, farina e coriandoli ieri mattina contro il sindaco, Tremonti e Berlusconi che chiudono gli Stati generali della città all'Eur. Corteo in un quartiere militarizzato. Il Forum dei movimenti per l'acqua pubblica riesce a ottenere la sospensione della privatizzazione nella capitale fino al referendum Precari, senzacasa, lavoratori delle municipalizzate in piazza contro la svendita della città e i tagli

Maschere e coriandoli contro «la fiction degli Stati Generali di Roma». Mentre, dentro a un Palazzo dei Congressi trasformato in "zona rossa", Alemanno si apprestava a regalare la città a industriali e costruttori, ieri mattina centinaia di persone hanno manifestato per le strade dell'Eur dietro allo striscione "Roma Bene Comune". «Noi siamo qui per rappresentare la vera Roma» denuncia Giulia Bucalossi dei movimenti per il diritto all'abitare «quella che non ha trovato spazio nella vetrina degli Stati Generali, quella della precarietà e dell'emergenza abitativa, dei tagli al welfare e ai servizi sociali». Per questo ieri, ad assediare il palazzo dove era in corso la presentazione del Comitato Olimpico 2020, «ennesimo grande evento che fa pregustare affari per tutti come già successo per i Mondiali di nuoto del 2009 e come sta accadendo per l'Expo 2015» denunciano dalla Roma Bene Comune, era presente un ampio schieramento della "Roma della crisi". Dai movimenti per il diritto all'abitare, ai lavoratori (rappresentati dai sindacati di base Usb e Cobas) delle aziende municipalizzate nel mirino della privatizzazione (Atac, Acea e Ama), dalle insegnanti dei nidi comunali che hanno distribuito alla piazza l'appello per lo sciopero generale indetto dai sindacati di base per l'11 marzo, fino ad arrivare ai precari. Dai cittadini di Tor Bella Monaca contro il Masterplan, ai rom del Comitato Ex Casilino 900 e del Metropoliz fino ad arrivare al Forum dei Movimenti per l'acqua pubblica. Con loro anche la Federazione della sinistra.

L'appuntamento per tutti è alle 9,30 ma dal luogo del concentramento, la fermata di Eur Palasport, il corteo parte solo verso le 11. Sullo sfondo le Ex Torri delle Finanze in demolizione per lasciare spazio al mega progetto residenziale di lusso di Renzo Piano e al cantiere della Nuvola di Fuksas che diventerà il nuovo Palazzo dei Congressi della Capitale, «simboli per eccellenza della Roma della rendita e delle grandi opere». Il corteo, autorizzato solo per un tragitto di cinquecento metri, sfila per un quartiere militarizzato. Bastano pochi minuti e i manifestanti, nascosti dietro a maschere con il volto di Alemanno e di Berlusconi, si trovano la strada bloccata. «Oggi siamo qui perché la città vera merita ascolto» urlano dal microfono gli organizzatori «e anche perché vogliamo dare un degno benvenuto al Presidente Berlusconi». Di fronte alle forze dell'ordine volano uova, farina e coriandoli. Una signora maghrebina che si attacca al blindato urlando «casa, casa» ricorda le rivolte che stanno incendiando l'altra sponda del Mediterraneo.

Ed è proprio alla forza delle rivoluzioni che stanno contagiando i paesi nordafricani che i presenti al corteo hanno fatto riferimento più volte. «Anche noi dobbiamo rivendicare e conquistare la nostra Piazza Tahrir» afferma Paolo di Vetta dei Blocchi Precari Metropolitani «e anche la mobilitazione di oggi è importante per un percorso che, partendo dal 14 dicembre, ci deve portare a costruire una vera opposizione a questo governo e a questa amministrazione». Dopo più di un'ora di blocco i blindati ricevono l'ordine di spostarsi per permettere ai manifestanti di proseguire il corteo fino a Piazza Asia, chiusa in un cerchio dalle forze dell'ordine. Poche centinaia di metri che però avvicinano l'assedio della Roma Bene Comune al "Palazzo dei Privati".

È ormai l'una di pomeriggio, dentro il Palazzo dei Congressi il Presidente del Consiglio Berlusconi sta benedicendo il Comitato Olimpico 2020 in presenza del ministro dell'Economia Tremonti e della Presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, quando ai manifestanti arriva la notizia che nel pomeriggio il sindaco Alemanno riceverà una delegazione. «Un incontro che ha aperto un tavolo sulla crisi che sta affrontando questa città» spiegano i manifestanti a margine dell'incontro «mentre nei prossimi giorni verranno fissati una serie di tavoli con i singoli assessori. Ma intanto una prima "vittoria" c'è già: il Forum per l'acqua pubblica ha ottenuto da Alemanno il blocco nella capitale dell'applicazione della legge Ronchi (quella che prevede la vendita ai privati) fino al referendum. Dalla gestione delle aziende municipalizzate ai rom, dall'acqua pubblica, alla svendita delle caserme. Terminati gli Stati generali, è questa la Roma che dovrà affrontare Alemanno.

E pensare che ce l'aveva messa tutta per far disputare il gran premio di Formula 1 all'Eur. Il sindaco Alemanno con i suoi collaboratori avevano addirittura commissionato attraverso l'Ente Eur un sondaggio utile a dimostrare che gli abitanti erano favorevoli alla manifestazione. Le domande erano di rara scientificità, tipo: «L'intervento permetterà di riqualificare l'area delle Tre Fontane e di renderla sicura, visto che oggi è abbandonata. Lei è favorevole?». Oppure: «Il Gran premio porterà moltissimi posti di lavoro. Lei è favorevole alla F1 in questa prospettiva occupazionale?»

Ora che Bernie Ecclestone ha notificato che in Italia si disputa già la gara di Monza e che è impossibile organizzare due gran premi nella stessa nazione, come la mettiamo? Il conto del sondaggio e di tutta la mole dei progetti che sono stati fin qui redatti lo paghiamo noi attraverso il bilancio dell'Ente Eur e del comune oppure lo giriamo a Maurizio Flammini? Sembra secondario, ma è il tema centrale della vita pubblica italiana in questo difficile momento. Le amministrazioni locali e le municipalizzate gravano comunque sui bilanci pubblici, anche se vengono gestite come impenetrabili feudi da un sistema politico impazzito. Pochi giorni fa, durante lo scandalo di Parentopoli. su queste colonne è stato Marco Bersani a porre la questione in termini efficaci: è ora di finirla con l'uso privatistico di aziende che lavorano solo per sottrarre beni pubblici ai cittadini.

Ce l'aveva messa tutta, il sindaco, perché se fosse andata in porto, la vicenda Formula 1 avrebbe perfezionato una macchina perfetta di svendita delle città. Amministratori comunali affermavano che tutta la macchina economica del Gran premio si reggeva sulla speculazione edilizia. Il privato imprenditore non metteva una lira - una storia sempre uguale - doveva soltanto avere in regalo terreni pubblici su cui costruire edifici privati da vendere successivamente. Insomma, il sindaco voleva privare l'Eur e Roma di terreni pubblici, privatizzarli e riempirli di cemento. Dopo il "modello Roma" di Veltroni basato sulla deroga urbanistica, dopo il sistema della cricca delle piscine dei mondiali di nuoto del 2009, Roma continua ad essere il luogo di sperimentazione dei peggiori mostri. Ora, per fortuna questa macchina si è inceppata. Ma continuerà nei tanti esempi di questi anni, ad iniziare dal «recupero di Tor Bella Monaca», non a caso reso pubblico dal sindaco a Cortina InConTra sponsorizzata dall'Acea, cioè con i nostri soldi.

Questa bruciante sconfitta servirà solo se l'opposizione compirà fino in fondo una esplicita critica al modello accettato in questi anni. La Formula 1 è solo la punta dell'iceberg di un sistema insostenibile che ha unificato tutte le amministrazioni pubbliche, di qualsiasi colore. E di fronte al fallimento è chiaro che da questa spirale che rischia di far sparire al città pubblica si esce soltanto con un nuovo modello di economia, ad iniziare dalla vita delle nostre città. Basta con il cemento e vogliamo decidere sui nostri soldi sono gli obiettivi iniziali.

Siamo alle comiche finali, come direbbe il suo ex capo, Gianfranco Fini. L´ultima trovata di Gianni Alemanno, sindaco per caso della capitale, sarebbe quella di chiamare come vice Guido Bertolaso, il Capitan Terremoto appena pensionato dalla Protezione civile.

Un colpo di teatro che dovrebbe risollevare l´immagine dell´amministrazione capitolina, in caduta libera. Il sondaggio annuale del Sole 24 Ore indica Alemanno fra i sindaci meno amati d´Italia, soltanto un´incollatura davanti ai casi disperati del palermitano Cammarata e della napoletana Russo Iervolino.

Con tutte le perplessità che evoca la figura di Bertolaso, si tratterebbe in ogni caso di un passo avanti. Indietro, del resto, era difficile compierne. Da tre anni i romani assistono al bizzarro esperimento di una grande capitale dell´umanità governata da una curva di ultras della politica. Un pugno di ex camerati del Fronte della Gioventù romano, più parenti e amici, proiettati da un destino crudele (e dall´imbecillità degli avversari politici) verso una missione impossibile. Governare una città che ha la popolazione e il bilancio di un piccolo stato europeo, e la storia di molti messi insieme. Per qualche tempo i romani, anche chi non l´aveva votato, ha sperato che Alemanno e i suoi potessero farcela. Così come si tifa allo stadio per una squadra di terza categoria giunta in finale. Ma ora il fallimento è conclamato e perfino ammesso.

Gianni Alemanno è stato per tre anni il sindaco marziano di Roma, senza un rapporto vero con la città. Distante, impaziente, forse persino deluso da una vittoria insperata che gli ha negato una più comoda poltrona di ministro, alle prese con problemi troppo più grandi di lui. Circondato per giunta da una compagnia di fedelissimi, pronti a sfoderare il pugnale per difenderlo, magari in cambio di un posto per il cognato o la prozia, ma del tutto inadeguati a compiti di governo. Ha svolto il compito di malavoglia, eccitato soltanto dalla possibilità di fare ogni tanto annunci d´ispirazione marinettiana, come la demolizione di Tor Bella Monaca, l´abbattimento delle opere di Meyer o il gran premio di Formula Uno all´Eur. E dire che s´era guadagnato il voto con la critica alla "politica spettacolo di Veltroni". Prima della cultura, dei festival, dei concertoni e concertini, diceva Alemanno, bisogna pensare alle buche nelle strade, alla criminalità, all´economica cittadina. La cultura infatti è quasi azzerata, ma non così le buche e i buchi in bilancio. I romani, tolleranti ma non fessi, se ne sono accorti e gli indici di popolarità sono crollati. Al disastro finale ha pensato la rapinosa compagnia dei collaboratori, con una serie di scandali all´insegna del "tengo famiglia".

Ora il marziano sindaco pensa di rimontare affiancandosi un marziano vice, ancora più bravo a fare annunci mirabolanti in televisione. Si tratta comunque, già dal nome, dell´ammissione di uno stato d´emergenza. Se fallisce anche la mossa Bertolaso, si può provare col mago Silvan e Harry Potter. Oppure dimettersi e fare posto a uno del mestiere. Tanto una poltrona da ministro ad Alemanno non gliela toglie nessuno. E al governo l´incompetenza non è un problema.

L’urbanista Italo Insolera è stato fra i protagonisti di quel movimento di intellettuali e di politici che portò al primo esperimento, trent’anni fa, dell’isola pedonale intorno al Colosseo. «La scelta del sindaco Luigi Petroselli fu presa dopo l’allarme lanciato dalla Soprintendenza sui danni che i gas delle macchine arrecavano al Colosseo e all’Arco di Costantino. Ma per noi – oltre a me, Leonardo Benevolo, Adriano La Regina, Antonio Cederna e altri ancora – quella chiusura era il primo passo in vista di una chiusura totale di tutta l’area archeologica romana. Avevamo in mente una soluzione urbanistica, non solo a salvaguardia del patrimonio storico-artistico».

Dunque un’isola pedonale risponde a esigenze più ampie?

«Certamente. Il primo progetto per realizzare un’area archeologica dall’inizio dell’Appia antica fino a Piazza Venezia risale al 1887. Non c’erano ancora le macchine, ma s’immaginava comunque di consegnare ai romani un grande spazio per passeggiare. Il Fascismo decise invece che da lì sarebbe partito il grande stradone che portava al mare, l’attuale via Cristoforo Colombo. Ma quando riprendemmo il progetto di pedonalizzazione la nostra idea era di impedire alle macchine di raggiungere piazza Venezia e di realizzare un profondo cuneo di verde e di storia antica».

Quel progetto si arenò?

«Sì. Rimase solo la pedonalizzazione intorno al Colosseo, ma la rimozione della via dei Fori Imperiali fu cancellata. Si è realizzato meno di un decimo di quel che si immaginava nel 1887».

Ma quanto serve, in generale, un’isola pedonale?

«Produce molti effetti sulla vita delle persone. Basta dare uno sguardo alle piazze sottratte alle macchine: sono piene di gente, sono spazi di convivenza. Il punto è che ce ne sono molto pochi perché non c’è sufficiente attenzione alla dimensione pubblica della città. Laddove questa è elevata gli effetti sono vistosi. Ogni quartiere dovrebbe avere le sue piccole isole pedonali, ma purtroppo non è fra le priorità di molte amministrazioni italiane».

Nella sua esperienza di urbanista ci sono anche isole pedonali?

«Sì, numerose. Ma una delle più significative è quella che abbiamo realizzato a Lucca: un’isola pedonale a tempo, nelle strade che i bambini percorrevano quando andavano o uscivano da scuola».

In Europa non ci sono solo isole, ma interi quartieri pedonali.

«Da noi molto meno. Un quartiere romano che potrebbe fare a meno delle macchine è la Garbatella. E poi aree interamente pedonali si possono progettare nei nuovi quartieri, evitando che lo spazio pubblico sia ridotto a centro commerciale».

1. E' senz'altro vero che la vigente normativa non pone limiti temporali alle previsioni di edificazione privata, ma questo non vuol dire che l'edificabilità prevista non possa essere modificata da un successivo intervento di pianificazione urbanistica.

La giurisprudenza amministrativa è infatti unanime e costante nell'affermare che "il comune, in sede di adozione di una variante al piano regolatore generale, ha la facoltà ampiamente discrezionale di modificare le precedenti previsioni urbanistiche senza obbligo di motivazione specifica ed analitica per le singole zone innovate, salva peraltro la necessità di una congrua indicazione delle diverse esigenze che si sono dovute conciliare e la coerenza delle soluzioni predisposte con i criteri tecnico-urbanistici stabiliti per la formazione del piano regolatore" (così Cons. Stato, sez. IV, 03-07-2000, n. 3646). Si precisa tuttavia che "è comunque necessario che l’amministrazione dia conto delle ragioni che la inducono a modificare la destinazione di un’area nella quale lo strumento generale prevedeva l’edificazione" (Cons. Stato, sez. IV, 13-05-1998, n. 814).

Sul punto è interessante sottolineare che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, "neppure la preesistenza di un piano di lottizzazione approvato e già convenzionato costituisce - per se sola - un ostacolo alla modifica delle previsioni urbanistiche vigenti su una determinata area, proprio perché il prg non rappresenta uno strumento immodificabile di pianificazione del territorio, sul quale i privati possano fondare sine die, le proprie aspettative, ma è suscettibile di revisione ogni qual volta sopravvenute esigenze di pubblico interesse, obiettivamente esistenti ed adeguatamente motivate, facciano ritenere superata la disciplina da esso dettata" (T.a.r. Lombardia, sez. Brescia, 12-01-2001, n. 2) .

In sostanza, mi sembra che nessun ostacolo giuridico (ma vi possono certamente essere ragioni di carattere politico o comunque di opportunità) escluda che un comune, in sede di variazione degli strumenti urbanistici vigenti ovvero in sede di nuova redazione del piano regolatore, disciplini il regime di trasformazione degli immobili in modo difforme dal precedente atto di pianificazione, ad esempio prevedendo per alcune aree la destinazione a zona agricola.

Resta inteso che tanto maggiore sarà l'affidamento ingenerato nel proprietario, tanto più analitica ed esauriente dovrà essere la motivazione posta alla base del nuovo atto di pianificazione.

2. Effettuata questa premessa mi preme formulare un ulteriore considerazione.

La nuova destinazione di un'area non deve coincidere necessariamente con l'imposizione di un regime di inedificabilità assoluta (ossia un vincolo di carattere sostanzialmente espropriativo ovvero preordinato all'espropriazione) né di un vincolo di carattere morfologico (caratterizzato cioè dalla particolare natura del bene).

Per quanto attiene alla prima ipotesi, è noto che la Corte costituzionale, con la sentenza 179/99, ha stabilito che si pone un problema di indennizzo per quei vincoli che 1) siano preordinati all'espropriazione, ovvero abbiano carattere sostanzialmente espropriativo, nel senso di comportare come effetto pratico uno svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà stessa, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati, comportanti inedificabilità assoluta, qualora non siano stati discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore dello Stato o delle Regioni; 2) superino la durata che dal legislatore sia stata determinata come limite, non irragionevole e non arbitrario, alla sopportabilità del vincolo urbanistico da parte del singolo soggetto titolare del bene determinato colpito dal vincolo, ove non intervenga l'espropriazione, ovvero non si inizi la procedura attuativa (preordinata all'esproprio) attraverso l'approvazione di piani particolareggiati o di esecuzione, aventi a loro volta termini massimi di attuazione fissati dalla legge.

Orbene, non vi è dubbio che, tra la previsione di una nuova destinazione su un'area, comportante la drastica riduzione degli indici di edificabilità (ad esempio destinazione agricola) e l'imposizione sulla stessa di un regime di inedificabilità assoluta (con tutte le conseguenze con riguardo all'obbligo indennitario, in caso di reiterazione), si collocano una serie di soluzioni pianificatorie intermedie, comunque compatibili con l'attuale disciplina della materia, non rappresentando cioè lo svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà.

Ricordo peraltro che la stessa sentenza costituzionale 55/68 ha riconosciuto che non ogni disciplina restrittiva dell'attività edificatoria comporta un obbligo di indennizzo: "rappresenta un punto fermo il concetto che non possono farsi rientrare nelle fattispecie espropriative le limitazioni del genere di quelle ammesse senza indennizzo dall'art. 42, secondo comma, della Costituzione, e, quindi, tra l'altro, quelle che fissano gli indici di fabbricabilità delle singole proprietà immobiliari, anche quando tali indici possono assumere valori particolarmente bassi (come nel caso di edilizia urbana estensiva e persino rada, del tipo di costruzioni circondate da ampi e predominanti spazi verdi). Pur essendo imposte nei confronti di singoli beni, tali limitazioni sono da considerare, infatti, operate sulla base di quel carattere tradizionale e connaturale delle aree urbane, basato su quelle esigenze di ordine ed euritmia nell'edilizia …".

Ed infatti è stato autorevolmente stabilito che "la destinazione a zona agricola contenuta in un piano regolatore generale non concretizza un vincolo a contenuto espropriativo, bensì conformativo del diritto di proprietà; ne consegue che la relativa prescrizione non è indennizzabile, né è soggetta al limite temporale d’efficacia di cui all’art. 2 l. 19 novembre 1968 n. 1187" (C. Stato, sez. IV, 06-03-1998, n. 382); "anche se i vincoli compressivi della proprietà immobiliare soggetti a decadenza quinquennale ai sensi della l. 19 novembre 1968 n. 1187 non sono solo quelli preordinati all’espropriazione ma anche quelli che comportano l’inedificabilità assoluta, o comunque che privano il diritto di proprietà del suo sostanziale valore economico, deve peraltro ritenersi che fra tali vincoli non rientri la destinazione a verde agricolo, atteso che quest’ultima non si configura come una limitazione tale da rendere inutilizzabile l’immobile in relazione alla destinazione inerente alla sua natura, restando al proprietario la possibilità di trarne un utile mediante la coltivazione e, inoltre una possibilità, sia pure contenuta entro parametri prestabiliti, di limitata edificazione" (C. Stato, sez. V, 07-08-1996, n. 881); ancora "è legittima la previsione di un’edificazione estremamente rada e la conservazione di ampi intervalli di verde finalizzata al più conveniente equilibrio delle condizioni di vivibilità della popolazione, in quanto la destinazione agricola può servire per orientare gli insediamenti urbani e produttivi in determinate direzioni, ovvero per salvaguardare precisi equilibri di assetto territoriale" (T.a.r. Lazio, sez. I, 19-07-1999, n. 1652).

In sostanza, l'amministrazione comunale, fermo restando l'obbligo di motivazione, può rivedere le destinazioni urbanistiche vigenti senza dover necessariamente addivenire all'espropriazione delle aree il cui regime intende innovare ovvero integrare una delle fattispecie che, sulla base della citata sentenza costituzionale, impongono un obbligo indennitario.

Quanto ai vincoli cosiddetti morfologici, concordo in pieno con le affermazione del prof. Campos Venuti, essendo indiscutibilmente vero che il regime giuridico preordinato alla tutela di tale tipologia di beni prevale sulle prescrizioni urbanistiche con esso eventualmente incompatibili.

Resto a disposizione per ogni chiarimento e approfondimento che ritenessi necessario e porgo i più cordiali saluti

Vincenzo Cerulli Irelli

Il nuovo piano regolatore? Nato moribondo dopo 15 anni di gestazione e approvato dal consiglio comunale nel febbraio 2008, solo due mesi prima dell’avvento dell’era Alemanno, reso instabile dalle lotte intestine alle maggioranze di centrosinistra che l’avevano elaborato – le due giunte di Rutelli e le due Veltroni (1993-2008) – ha ormai l’encefalogramma piatto. Alcuni suoi organi – l’impianto normativo e il sistema perequativo – sono già stati espiantati, il resto probabilmente verrà sepolto in un cassetto. Sono altri gli sviluppi che interessano il futuro di Roma, che galleggia fra le visioni elettorali di Alemanno – il piccone risanatore nelle periferie pubbliche del Corviale o di Tor Bella Monaca, la voglia di grattacieli – e molto più concrete occasioni di business, come il progetto della Formula 1 all’Eur, la candidatura per le Olimpiadi del 2020, il ridisegno del waterfront di Ostia.

Nel presente, il problema più serio è la questione abitativa, a Roma vero e proprio nodo urbano. La capitale conosce fenomeni d’altri tempi: continua a macinare residenze (in media 10 mila all’anno) accumulando forti quote di sfitto e invenduto, mentre 2 mila famiglie vivono in abitazioni occupate. Il centro storico e la città consolidata, del primo Novecento, perdono abitanti (300 mila negli ultimi dieci anni), mentre ingrassano i comuni di prima, seconda e terza cintura, ben oltre il Raccordo anulare, al punto che c’è chi parla ormai di periferia regionale. Sul suo territorio sterminato – 129 mila ettari, dieci volte l’estensione di Milano – insistono 114 quartieri di edilizia pubblica dove vivono 600 mila abitanti, nati anche per sanare la prevalente periferia abusiva. Ovunque i servizi sono carenti. Nello sprawl urbano favorito dalla presenza dell’Agro, grande riserva di aree, oltre che di archeologia e natura, anche il traffico rappresenta “una patologia urbanistica”, come spiega Walter Tocci, vicesindaco e assessore alla Mobilità nelle giunte Rutelli (1993-2001). Nel bel libro “Avanti c’è posto” (Donzelli editore) Tocci scrive: “Se analizziamo, ad esempio, le strade bloccate regolarmente tutte le mattine, come la Cassia o la Prenestina, constatiamo flussi di traffico non impossibili, poco sopra le 1.000 auto/ora, alla portata di autobus capienti e frequenti. Se in quelle condizioni si arriva alla saturazione significa che non è un problema di quantità, ma di cattiva disposizione degli elementi nello spazio”. Inevitabile in una città dove – ricorda sempre Tocci – l’abusivismo è stato “il vettore della grande espansione novecentesca, […] il catalizzatore dei processi, la forza propulsiva che va oltre le prime borgate pubbliche, oltre i confini del piano del 1931 e di quelli del 1962, che travolge […] il tentativo di contenimento della cosiddetta ricucitura degli anni Ottanta, fino a contaminare l’ultimo piano del Duemila”.

Ma a chi importa davvero sistemare questo blob edilizio a bassissima densità? La classe imprenditoriale, costruttori compresi, cura legittimamente i propri interessi, ad ampio spettro per pochi grandi (come Francesco Gaetano Caltagirone, affaccendato in partecipazioni bancarie, giornali, muncipalizzate), di medio o piccolo cabotaggio per quasi tutti gli altri. E l’amministrazione pubblica, tendenzialmente, si adegua. “In Italia, e anche a Roma, ha sempre inseguito gli interessi privati. Meglio: li ha sempre assecondati, ricevendone una risposta funzionale alla propria sopravvivenza. Questi sono i rapporti di forza in campo”. Parole condivisibili e un po’ sorprendenti, visto che a pronunciarle è l’attuale assessore comunale all’Urbanistica Marco Corsini, un tecnico che conosce bene i meccanismi della politica: “Nelle grandi città le scelte urbanistiche fondamentali sono compiute dal sindaco, con cui si relazionano i grandi poteri. L’assessore è solo un attuatore, a Roma come a Venezia”, dove Corsini è stato assessore ai Lavori pubblici della giunta Costa. Sarà per questo che Alemanno è sommerso da visioni così irraggiungibili? Fra i suoi sogni pare esserci anche l’eredità politica di Silvio Berlusconi. In fondo, ci hanno provato anche Francesco Rutelli (2001) e Walter Veltroni (2008) a sfruttare il Campidoglio per tentare l’assalto a Palazzo Chigi, interrompendo con le rispettive legislature processi molto importanti: per esempio l’approvazione del prg, che come ricorda Domenico Cecchini, assessore all’Urbanistica di Rutelli, poteva essere varato comodamente entro la scadenza naturale del mandato, nel 2003. Perché se è vero che l’urbanistica è politica, nella capitale della politica italiana questo è vero due volte: una iattura, per la città e anche per i candidati premier (sempre perdenti). Alemanno ci pensi: la maledizione della Lupa incombe.

Ma c’è un’altra partita politica molto importante in corso, quella per Roma Capitale. Dopo l’approvazione del primo decreto legislativo la città ha ufficialmente acquisito un nuovo status giuridico. Ma sarà il prossimo dlgs, se mai vedrà la luce, a portare in dote la ciccia, ovvero le nuove competenze di scala metropolitana: sacrosante, date le dimensioni territoriali in gioco. In palio c’è probabilmente troppo, compresa la funzione urbanistica (che la Costituzione affida alle Regioni) e la valorizzazione paesistica e dei beni culturali. Se l’operazione andasse in porto cambierebbe il peso di Provincia e Regione, che rischiano di trasformarsi, rispettivamente, in un ente di testimonianza e “in un buco con un po’ di territorio intorno”, come afferma efficacemente l’urbanista Vezio De Lucia. Dire che i presidenti Zingaretti e Polverini siano contrari all’ipotesi è un eufemismo. Volano coltelli anche a mezzo stampa e viene sollevata l’ipotesi (non infondata) di incostituzionalità della norma. E qui torniamo alla domanda iniziale: chi ha cuore davvero le magagne di Roma? A chi interessa la gestione efficiente del suo malconcio territorio? La sensazione è che la speculazione edilizia non sia la peggiore delle malattie. La speculazione politica è pure peggio.

Adagio con il piano

La struttura del prg è costruita su tre elementi cardine. Anzitutto la cosiddetta cura del ferro, basata su un accordo di programma fra Comune, Provincia, Regione e Fs, che prevede “la la prosecuzione delle attuali linee metropolitane A e B – ricorda il presidente dell’Inu Federico Oliva, uno dei superconsulenti del piano – l’introduzione di due nuove linee, C e D, e tre passanti ferroviari di superficie che utilizzino la rete esistente di Rfi. Il tutto articolato sulla cintura ferroviaria, che a Roma è poco più ampia delle mura aureliane e ancora incompleta nella parte nord”. Gli enti coinvolti si sono impegnati a finanziare un’operazione da 12 miliardi di euro, in grado di servire la metà dei cittadini. Seconda gamba del piano, il nuovo sistema del verde: la rete ecologica, formata da parchi, aree naturali e territori agricoli, “copre il 68 per cento del territorio romano”, spiega Domenico Cecchini, che diede impulso alla prima fase del prg. Terza gamba: il policentrismo. Accantonata l’idea di Luigi Piccinato, che nel piano del 1962-65, per decongestionare il centro storico, aveva disegnato lo Sdo, sistema direzionale dell’area orientale ove decentrare i ministeri, si privilegiò una nuova visione: “Si prese atto che il territorio di Roma è metropolizzato – sostiene Oliva – caratterizzato da insediamenti da 100-150 mila abitanti, vere e proprie città, e si pensò di addensare sui nodi del ferro tutte le nuove previsioni, creando nove centralità: alcune nuove, altre già esistenti, come Tor Vergata. Qui dovrebbero essere realizzate non residenze, molto presenti nel contesto territoriale, ma funzioni urbane di qualità e attività produttive”. Per centrare l’obiettivo si utilizza lo strumento della perequazione/compensazione: vengono riconosciuti i diritti edificatori maturati nel precedente prg, ma i proprietari sono chiamati a esercitarli nelle nuove polarità o comunque a tiro di ferro. A questi si aggiunge “una limitata previsione di nuova edificazione, pari a circa 400 mila stanze”.

La scelta di riconoscere i diritti edificatori del piano del 1962 scatena l’opposizione interna al centrosinistra, che non fa che riverberare in chiave politica (l’asse Rifondazione-Verdi contro il resto del centrosinistra) la spaccatura tecnica maturata all’inizio degli anni Novanta all’interno dell’Istituto nazionale di urbanistica fra il gruppo di Federico Oliva e Giuseppe Campos Venuti (altro padre del piano di Roma) e il gruppo Polis (Edoardo Salzano, Vezio De Lucia, Paolo Berdini, fra gli altri). Il piano viene accusato di determinare una nuova colata di cemento in città, “pari a 64 milioni di metri cubi”, quantifica Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio. Vezio De Lucia accusa il prg “di essere privo di qualunque elaborazione sul dimensionamento, poiché a fronte di un incremento volumetrico complessivo pari a circa il dieci per cento dell’esistente – tutto sommato ragionevole – corrisponde un aumento del 35 per cento della superficie occupata”. E ricorda che Italia Nostra, di cui è consigliere nazionale, incaricò l’avvocato amministrativista Vincenzo Cerulli Irelli (“Un ex democristiano, non un sovversivo”) di presentare un parere pro veritate in cui venne chiarito “un principio che noi urbanisti di vecchia scuola conoscevamo già molto bene: l’edificabilità è data dal piano e il piano la toglie, i diritti edificatori non esistono”. Paolo Avarello, già presidente dell’Inu e docente di Urbanistica a Roma 3, sottolinea che “il prg, che voleva essere uno strumento innovativo, ha ereditato in effetti il passato”. Compreso il problema dei rentier “che hanno già pagato le tasse sulla proprietà di terreni edificabili: tornare indietro sarebbe molto difficile, oggi, così come espropriare”. Se non si riconoscono le previsioni edificatorie pregresse, ragiona Avarello, c’è il rischio fondato di paralisi da contenzioso.

In ogni caso, alla perequazione si affida il compito di realizzare il nuovo. Cui bisogna aggiungere il cosiddetto contributo straordinario connesso al rilascio del permesso di costruire: “Le norme tecniche del prg – sottolinea Cecchini – prevedono che il plusvalore derivante dalle decisioni urbanistiche debba tornare alla città attraverso una contribuzione straordinaria pari al 66 per cento”. La norma era stata affossata dal Tar del Lazio, ma è stata ripescata il primo settembre scorso da un pronunciamento del Consiglio di Stato. La decisione è stata salutata con grande favore dall’assessore Corsini: il Comune, del resto, aveva difeso in sede giudiziaria il prg. “Adesso vedremo se l’amministrazione Alemanno avrà la forza di esigere il contributo straordinario”, chiosa uno scettico Cecchini.

Ma che cosa vuol fare l’amministrazione capitolina del prg? Una fonte interna che ci chiede l’anonimato conferma che sul tema centralità non si sta muovendo foglia. Corsini ammette che si sta ragionando su un loro “ripensamento funzionale”. Si consideri poi che il primo atto urbanistico della giunta Alemanno, maturato subito dopo l’insediamento, è stato un bando per il reperimento di nuove aree ove realizzare 30 mila alloggi di edilizia residenziale, snobbata dal prg, almeno secondo il Campidoglio. Sono pervenute 300 proposte, “ma vi daremo seguito – afferma Corsini – solo dopo aver esperito altri strumenti, dalla densificazione al recupero di superfici pubbliche all’interno degli sviluppi urbanistici, dall’acquisto e vendita di immobili ai cambi di destinazione d’uso. Perché non vogliamo consumare altro territorio. Quel che manca sarà oggetto di una variante al prg, che verrà presentata forse entro il 2011”.

Le politiche di Alemanno sull’housing sono contestate da Cecchini e da Daniel Modigliani, alla guida dell’Ufficio di piano al momento dell’approvazione del prg, che sottolineano come “trasformare aree agricole in edificabili serve solo alla speculazione fondiaria, non a dare case a chi è effettivamente in condizioni disagiate”. Perché il problema “non sono le aree, ma i finanziamenti pubblici necessari a costruire le case sovvenzionate e a ridurre i prezzi delle convenzionate”. In ogni caso, secondo Cecchini e Modigliani, basta dare corso ai 35 piani di zona già approvati e ad altre disposizioni del piano per realizzare nei prossimi cinque anni “non meno di 10 mila alloggi in aree già previste come edificabili dal prg”. Senza consumare altro Agro o attentare ulteriormente a parchi intorno a Roma, fra cui quello dell’Appia Antica, che nei sogni del giornalista e scrittore Antonio Cederna e dell’ex soprintendente ai Beni archeologici Adriano La Regina avrebbe dovuto essere valorizzato e unito al cuore della città eterna. Un progetto bellissimo e cancellato, con via dei Fori imperiali oggi ridotta ad arteria di scorrimento viario verso l’ingorgo mefitico di piazza Venezia. Ma questo è un altro discorso.

Tornando all’housing sociale, va tenuto presente che trattasi di tema sensibile. È stato uno degli slogan forti della campagna elettorale di Alemanno: da qui tanta fretta nell’approcciarlo. Del resto, dal mondo dei costruttori – con la benedizione preelettorale di Francesco Gaetano Caltagirone, le cui rare parole pesano come pietre – e dal popolo delle periferie sono venuti molti voti per il sindaco. Il resto è poesia, o quasi. L’analisi di Corsini non lascia adito a dubbi: “Condividiamo il sistema di regole del prg, non gli aspetti operativi. La realtà corre ben più velocemente delle previsioni del piano, che è privo di una visione strategica. Inoltre sono maturate altre riflessioni, che ci hanno portato a investire sul waterfront di Ostia, sulla candidatura alle Olimpiadi del 2020, sul riutilizzo delle aree che erediteremo con il federalismo demaniale, sulla realizzazione dei nuovi stadi per Roma e Lazio, sulla pista di F1 da realizzare all’Eur. E così il prg è entrato fisiologicamente in crisi il giorno dopo l’approvazione”. Anche la cura del ferro sarà annacquata: “Nessuno ha intenzione di fermare questo processo, data la sua tempistica per ere geologiche”, continua Corsini. Ma nel frattempo, per cautelarsi, la giunta ha presentato un nuovo piano della mobilità. Sostenibile, va da sé.

Consigli per gli acquisti

Archiviato il prg, si pensa ad altro. Secondo Paolo Berdini, docente di Urbanistica all’Università Tor Vergata, “l’amministrazione comunale, attraverso l’uso dell’emergenza legata ai grandi eventi, sta cercando di definire il nuovo volto della città, depotenziando un piano che non condivide. E per centrare l’obiettivo sta orientandosi su altri progetti”. Per esempio i nuovi stadi per le squadre di calcio capitoline, veri e propri pezzi di città. Quello della Lazio, per esempio, è un complesso polifunzionale di “seicento ettari, fuori dal Raccordo anulare, al 90 per cento del costruttore Gianni Mezzaroma”, suocero del proponente Claudio Lotito, in una zona – lungo la strada Tiberina, al confine con il Comune di Fiano – che per “l’80 per cento fa parte dell’agro romano vincolato” (da “La colata” di Garibaldi Massari Preve Salvaggiulo Sansa, editrice Chiarelettere). Anche la location individuata per il villaggio olimpico a Tor di Quinto, in un’area piena di vincoli, lascia perplessi. Passare da un piano anche criticabile (e criticato) a una visione così puntiforme può sembrare espressione di una visuale un po’ limitata, magari provinciale, almeno per una grande città. Ma va considerato “che questa non è Milano – spiega Antonello Sotgia, dello studio di architettura Marchini Sotgia – qui i grandi sogni che si rincorrono sono soprattutto grandi slogan”. Qui nel dna ci sono borgatari e palazzinari “e Alemanno ha compreso che la città con cui dover fare i conti è questa, è fatta di allontanamenti forzati delle comunità rom e di progetti/eventi capaci di apparecchiare e rendere possibili i soliti esercizi di rendita”. E ora, con Roma Capitale “e i poteri assoluti che con questa legge vorrebbe assumere”, il gioco potrebbe cambiare. “Veltroni era costretto a rivolgersi al migliore offerente – continua Sotgia – prefigurando un piano regolatore delle offerte in cui leggere le normative tecniche come consigli per acquisti. Alemanno oggi, quando parla di abbattere case e palazzi, spostare persone, ricostruire edifici secondo precisi modelli estensivi, non parla da urbanista e neppure solo da sindaco, ma da nuovo ingegnere istituzionale”.

Nell’attesa dei nuovi poteri, “seduce le periferie giocando sul loro male di vivere. E deve dare una risposta ai piccoli costruttori, che l’hanno sempre appoggiato”. E che sono prodighi di suggerimenti su come intervenire nello sprawl. La relazione che il presidente dell’Acer Eugenio Batelli ha presentato nel corso dell’ultima assemblea dell’associazione dei costruttori romani, alla fine di settembre, batte molto sul tema. Per esempio, negli “insediamenti nati spontaneamente”, da Montespaccato a Vermicino, da Infernetto a Centocelle, è consigliata la sostituzione edilizia, “ma gli incentivi attualmente previsti dal piano casa regionale non garantiscono il necessario riequilibrio economico”. Batelli chiede dunque un premio di almeno il 60 per cento della cubatura, andando oltre le pur generose previsioni del piano Polverini, che sta ritoccando la legge varata dalla giunta Marrazzo ma si ferma, nello specifico, al 50 per cento. I costruttori sanno che tocca a loro colmare la “mancanza di risorse” che ha impedito di mettere mano al problema periferie, anche perché in cassa il Campidoglio ha soprattutto un mare di debiti: “Il Comune di Roma deve sostenere fino al 2043 il piano di rientro dal dissesto finanziario”, sottolinea Batelli. Sicché prova a dettare qualche condizione: “Negli interventi di edilizia agevolata del secondo piano peep (edilizia economico-popolare, ndr) a Castelverde, Torraccia/Casalmonastero e Muratella” si richiede di densificare i piani “nelle aree extra standard non utilizzate”. Discorso analogo sia per i piani di recupero urbano meglio noti come articoli 11, per i quali Batelli propone “di riconsiderare le destinazioni d’uso non residenziali ormai superate, reperendo così contributi straordinari necessari per il completamento delle opere pubbliche”, sia per i print (piani di recupero integrato), per i quali sollecita “premi di cubatura adeguati all’onerosità degli interventi”.

Nuove aree e nuovi incentivi per nuove case. Quanto al ridisegno dei grandi complessi pubblici di stampo collettivista – come li ha definiti Alemanno – Batelli non si azzarda: sa che l’impresa è titanica. “La riqualificazione delle periferie non deve certo cominciare dai quartieri di edilizia residenziale pubblica – afferma l’ambientalista Lorenzo Parlati – dove i problemi sono di carattere sociale, non urbanistico. Meglio puntare sugli insediamenti abusivi”. Lì c’è trippa per gatti: “Un terzo di Roma è sorto così. Oltretutto si tratta di edilizia privata, in cui un intervento privato di riqualificazione, favorito naturalmente da un piano comunale in grado di mantenere l’interesse pubblico dell’operazione, potrebbe avere senso e dare risultati importanti”. Aggiunge il presidente dell’Ordine degli architetti di Roma, Amedeo Schiattarella: “Sono d’accordo con il principio di fondo: l’amministrazione deve poter demolire e riabilitare intere parti di città. Il caso del quartiere Giustiniano Imperatore – parzialmente ricostruito dopo gravi problemi di dissesto, ndr – dimostra che l’operazione è complessa, ma si può fare. Coinvolgendo anche i privati, naturalmente. Che però, nella fattispecie, devono essere portatori anche di valori generali. Ci vuole un progetto serio, insomma, che può essere garantito soltanto dallo strumento concorsuale”. Schiattarella chiede quindi l’avvio di una stagione di concorsi, meglio se di progettazione, perché quelli di idee “spesso restano nel cassetto”. E riferiti non solo al ridisegno delle periferie, ma a tutti i futuri sviluppi della capitale. A cominciare dalla riconversione delle aree ex demaniali. Ben consapevole che il passo, finora, è stato diverso, con rari monumenti contemporanei – dal Maxxi di Zaha Hadid alla teca dell’Ara Pacis di Richard Meier, che ora forse perderà il suo muretto – nel deserto dell’architettura. Sullo sfondo, il mare di sprawl, di cui Roma è capitale. La Lupa non ha ancora perso il vizio e finché c’è Agro, c’è speranza.

box 1 - Densificare, non consumare

Dal 2002 al 2008 la popolazione di Roma è cresciuta del 7 per cento e supera i 2,7 milioni di abitanti, ma nello stesso periodo i residenti della Provincia, esclusi quelli della capitale, sono aumentati del 17 per cento, mentre nella cintura romana l’incremento ha raggiunto il 23 per cento. Elementi che evidenziano “come la crescita di Roma ormai avvenga essenzialmente fuori dai confini comunali”, soprattutto lungo la direttrice nord, grazie alla presenza del collegamento ferroviario Fiumicino-Orte. “Roma cresce a Orte” è infatti il titolo della prima di una serie di ricerche sviluppate in questi ultimi anni dalla facoltà di Architettura dell’Università Roma tre, coordinate dal docente di Progettazione urbanistica Giovanni Caudo. Un lavoro che fornisce una ricca documentazione di dati e che consente di comprendere le dimensioni della questione abitativa romana, “che intreccia dinamiche di complessità urbana”, afferma Caudo. I numeri sono impietosi: a Roma gli sfratti sono numerosissimi (uno ogni 220 famiglie nel periodo gennaio-dicembre 2008) ed è tornata di moda la pratica delle occupazioni, che dal 2002 al 2008 hanno fornito una risposta abitativa a 2.500 famiglie, mentre nello stesso periodo i numeri di alloggi di edilizia economico-popolare assegnati dal Comune di Roma sono stati circa 1.700. La risposta alla domanda abitativa resta dunque molto debole. La città si sviluppa nelle periferie anche oltre il Gra, a cavallo del quale un milione circa di romani ogni mattina si muove per raggiungere il centro della città. Un inferno. Al quale però si può rimediare. Anche perché è possibile intervenire con una densificazione edilizia mirata, anziché continuare nella pratica dello sprawl. La capitale si è sviluppata a bassa densità: ogni abitante dispone di 230 metri quadrati di aree urbanizzate, un valore sei volte superiore a quello di Parigi. Per invertire la tendenza, il gruppo di ricercatori di Roma tre ha svolto un ragionamento sulle aree che insistono sull’attuale sistema di ferrovie e metropolitane, ovvero sui nodi di scambio, compresi quelli in corso di trasformazione. “E abbiamo scoperto – afferma Caudo – che nelle zone centrali già oggi vi sono ettari di superficie sottoutilizzata, destinati magari a ospitare solo parcheggi a raso”, come a Tordivalle. Le strategie elaborate indirizzano in questi ambiti (11 in tutto) la localizzazione di residenze, servizi, funzioni direzionali e amministrative: gli interventi di densificazione consentirebbero di realizzare 7.800 alloggi e una superficie utile non residenziale pari a 286 mila metri quadrati. Un altro ambito d’intervento potrebbe essere il completamento del piano di edilizia economico-popolare di Roma, il più grande d’Italia, che in 40 anni ha prodotto 114 piani di zona con una dotazione di standard ancora insufficiente (-18% rispetto alle previsioni, 423 ettari in tutto). “Si tratta di una quota importante del territorio comunale – afferma Caudo –composta da centinaia di aree, di scarto e di interstizi, che ricadono nel perimetro dei singoli piani di zona, molti dei quali all’interno del Gra, già raggiunti dalle infrastrutture e dalle opere di urbanizzazione. Una dote che l’amministrazione comunale potrebbe considerare per la formulazione di un nuovo progetto per la città”. Anziché consumare nuovo suolo.

box 2 - cittadinanza attiva

Capire “che la città non esiste più, che è esplosa, ha perso il suo tessuto di relazioni sociali”. Ma anche comprendere “quale altri spazi si vanno creando, quali nuove realtà genera l’impatto urbano su paesaggi storici, agricoli, in contesti marginali, in villaggi che non conoscevano la metropoli”. Lorenzo Romito è un progettista dell’associazione Stalker, realtà che da sempre coniuga architettura e sociale, in passato molto impegnata in lavori nei campi rom e al Corviale. Racconta un percorso molto interessante, che da uno spunto conoscitivo legato alle mille periferie di Roma sta sviluppando un percorso di aggregazione e cittadinanza attiva. “Il nostro primo tentativo è stata l’esplorazione di Campagna romana. Abbiamo formato otto gruppi, nei quali erano sempre presenti un urbanista, un fotografo e uno scrittore, e abbiamo percorso a piedi le principali direzioni regionali: cinque giorni di marcia per intercettare i processi che produce quella che ho definito l’Oltrecittà. Parlare di città oggi significa fare riferimento a una dinamica di relazioni centro-periferia che mi pare superata. Mi sembra che stia emergendo qualcosa di nuovo e cercare di capirlo può forse significare la possibilità di indirizzare lo sviluppo. Se si riesce a visualizzare questa trasformazione e se gli abitanti riescono a coglierla, forse da loro stessi possono venire spunti, pratiche, idee per rovesciare le dinamiche attuali”. Chi ha detto che la periferia è solo marginale, ragiona Romito. E lo dimostra con una seconda esperienza, Primavera romana (2009): ancora una lunga camminata, stavolta attorno al Raccordo anulare, accompagnata dall’esplorazione di tutte le realtà presenti, “dai campi rom agli orti urbani, dai comitati di quartiere che lottano contro la speculazione edilizia alle occupazioni”. L’esplorazione ha dato origine a una mappatura e la cartografia è stata messa online, a disposizione di tutti. Primavera romana è stata replicata quest’anno successivo: la ricerca questa volta si è concentrata in quelle che vengono definite le sette città fuori porta, ovvero “nelle periferie consolidate – Prenestino-Casilina, Ostiense, Trionfale, il Salario, il Nomentano, il Tiburtino – che ormai, con la musealizzazione del centro, sono l’unico residuo di città esistente, dove ci sono dialogo, confronto, conflitto sociale”. Qui è forte il tema del riuso delle grandi strutture pubbliche abbandonate, “dal mattatoio agli ospedali – continua Romito – spazi centrali attorno ai quali si sono formate le sette città e che sarebbero il luogo da cui ripartire per ridisegnare questi ambiti, sottraendoli alla speculazione futura o all’oblio. Reinventarsi un’articolazione dei luoghi, riferendosi alle comunità esistenti e alle problematiche comuni, è un modo per visualizzare un disegno amministrativo della città”. Un tema forte, tenuto ancora sottotraccia perché il punto per Romito “non è esprimere idee e visioni, ma condividere la consapevolezza dei problemi, assecondando un passo più lento, che però produce maggiore coinvolgimento e partecipazione attiva”. Da qui nasce, il mese scorso, l’ultima iniziativa, l’autoconvocazione degli Stati generali della cittadinanza, che nasce “per mettere assieme comitati e movimenti, aggregando esperienze importanti ma spesso autoreferenziali, condividendo pratiche, facendo comprendere l’interdipendenza dei problemi”. Una sorta di rete che, se riuscirà a formarsi, è destinata a diventare un soggetto politico attivo, sulla scia delle esperienze maturate in altre città (a Venezia per esempio, vedi Costruire n. 326). “Roma nasce in un luogo di passaggio lungo il Tevere – afferma Romito – come aggregazione di villaggi che stringono un patto di cittadinanza per trasformare un’area conflittuale in uno spazio condiviso. Se la città non ritroverà questa sua marginalità strutturale e continuerà a vivere di rendita, propagandando l’idea imperiale e un po’ fascista di centro, è destinata a perdere forza e identità”.

A proposito dei ”Diritti edificatori" vedi il parere pro veritate di Vincenzo Cerulli Irelli e il documento "Forse che il diritto impone di compensare i vincoli sul territorio?" di Edoardo Salzano.

Nel suo ultimo editoriale del 5 novembre 2010, Salzano affronta la questione del lavoro e del suo rapporto critico con l’attuale sistema economico, rilanciando il dibattito sollevato da Guido Viale sulle pagine del manifesto all’indomani dell’accordo separato alla Fiat di Pomigliano. Salzano conclude il suo editoriale rilanciando la proposta di un nuovo Piano del Lavoro affidando al sindacato e in particolare alla Cgil il compito e la responsabilità di costruire e guidare una strategia alternativa all’attuale modello di sviluppo. Si tratta di una sollecitazione impegnativa e condivisibile anche perchè non sono presenti all’orizzonte altri soggetti politici e sociali in grado di assumere si di sé il peso di una simile impresa. Senza sottacere per questo le difficoltà per un sindacato di lavoratori come la Cgil di conciliare la necessità di difendere il lavoro con la critica a modelli produttivi “insostenibili”, per mancanza di alternative immediate.

Uno dei terreni su cui esercitare la critica al vecchio modello di sviluppo e sperimentare una progettualità alternativa di una economia sostenibile è senza dubbio quello delle città e dello sviluppo locale. La Cgil di Roma e del Lazio si è posto da qualche anno il problema di un possibile futuro della città di Roma alternativo al suo modello tradizionale di sviluppo fondato sul blocco edilizio e sul turismo, che hanno innescato l’espansione urbana senza limiti della città, per sostenere e guidare un processo di cambiamento in grado di affrontare le grandi contraddizioni e le grandi sfide che i processi globali scaricano sulle città, sui territori e sulle comunità locali e che mettono a rischio la convivenza civile, la solidarietà sociale ed umana, la convivenza pacifica fra popoli, fedi ed etnie diverse. Si tratta di uno sforzo di elaborazione rintracciabile nel libro “Roma tra passato e futuro” di recente pubblicazione con l’Ediesse.

Roma è come sospesa tra un passato che non muore e una speranza di futuro che tarda a diventare realtà. La città è di fronte ad un bivio: interrompere e mettere fine ad un modello di sviluppo urbano estensivo che ha saccheggiato e impoverito le sue risorse ambientali, culturali, ed ecologiche prendendo con decisione la via della sostenibilità urbana, produttiva, ambientale, dell’innovazione energetica che spezzi il perverso rapporto instauratosi tra la rendita fondiaria, immobiliare e la finanza, oppure persistere nella logica del consumo di suolo, dell’edilizia speculativa, del turismo di massa mordi e fuggi concentrato nel centro storico, che desertifica le periferie, impoverisce la città mentre arricchisce una minoranza di speculatori ed affaristi.

A conclusione di un lungo ciclo di governo della città sotto il segno del Modello Roma che ha rivelato tutta la sua fragilità strategica e che non ha mutato il segno della qualità dello sviluppo della città, pur con alcune novità dal punto di vista della cura della sua immagine internazionale, non sono cambiati gli attori e i poteri che ne influenzano le scelte decisive. La nuova giunta di centro-destra si appoggia ancora al vecchio blocco di interessi ( edilizia, cemento e turismo), pur con alcuni tentativi di darsi un’immagine di “novità” che fa riferimento ai valori della ecologia urbana e alla cultura della sostenibilità, avvalendosi a tal fine della collaborazione di Jeremy Rifkin. Essa si esprime, soprattutto, attraverso una politica degli annunci che allude ad una “ Grande Trasformazione”: ne troviamo tracce nei lavori della Commissione Marzano, nel convegno con le Archistar, negli annunci reiterati del Piano Strategico per la Città, insieme a quelli della convocazione degli Stati Generali dell’Economia e degli Stati Generali della Città, ecc. Ma i suoi atti concreti e le sue attenzioni reali vanno in tutt’altra direzione: vedi i proclamati progetti sulla Formula 1 all’Eur; i Parchi Tematici; il bando per la realizzazione di alloggi nei Casali dell’Agro romano; il Water Front sul lungomare di Ostia; il consenso alla proposta di un secondo Grande Raccordo Anulare avanzata dall’Unione Industriali di Roma; l’idea di costruire grattacieli nelle periferie, poi ritirata e smentita; l’annuncio choc della demolizione di un intero quartiere di edilizia pubblica nella periferia, come Tor Bella Monaca, per affidarne la ricostruzione ai privati in una zona limitrofa, a “costo zero” per le casse comunali, in cambio di cubature; l’idea di affidare ancora ai privati sia i programmi di hausing sociale mentre ci sarebbe bisogno di costruire case popolari, e sia i projet financing per la costruzione delle metropolitane: tutto in cambio di suolo pubblico da valorizzare in una logica privatistica e speculativa. Che fine hanno fatto i propositi tanto sbandierati in campagna elettorale di mettere fine alla espansione edilizia della città, anche in polemica col Piano Regolatore appena approvato dalla Giunta Veltroni, per difendere l’Agro romano ed edificare una città sostenibile?

La direzione presa va da tutt’altra parte: verso un nuovo patto tra rendita e profitto, verso una grande privatizzazione delle risorse e dei beni pubblici e verso una città più insostenibile, come attesta anche la scelta di chiudere l’esperienza della Città dell’altra Economia nell’ex Mattatoio di Testaccio. La stessa idea della “Grande Roma”- fatta propria dal sindaco in contrasto con la prospettiva della costruzione dell’ area metropolitana in attuazione delle norme su Roma Capitale prevista dalla legge n.42 sul federalismo fiscale – rivela una concezione romanocentrica e non policentrica dello sviluppo urbano ed economico della regione. In questa visione a Roma, ma sarebbe più corretto dire al centro storico della città, rimarrebbe la funzione-guida progettuale, con le funzioni pregiate della direzionalità pubblica e privata e delle attività legata al turismo, mentre l’hinterland provinciale e regionale verrebbe ridotto alla funzione di una immensa periferia regionale, di una grande area di servizio per la Capitale, luogo dove si scaricano le sue contraddizioni non risolte: rom, campi nomadi, immigrati, discariche (anche illegali), inceneritori, logistica ( porti, interporti, magazzini, depositi, ecc.), le case a costi più bassi per i ceti più poveri della città e il conseguente traffico caotico.

La bozza di decreto sui poteri di Roma Capitale tradisce questa visione quando prevede una forte centralizzazione nel governo capitolino dei poteri in materia di urbanistica e di ambiente, spogliando la Regione e la Provincia delle loro prerogative, col risultato di provocare la rivolta delle altre province del Lazio. Si ripropone in sostanza la logica della polarizzazione sociale e territoriale della ricchezza e del benessere, con una regione “spezzata in due”, che in questi anni ha provocato l‘affermarsi delle disuguaglianze sociali che oggi vengono esaltate dalla crisi che colpisce, in particolare, le aree più periferiche della città e della regione, i ceti sociali urbani più deboli - i giovani, le donne, i disoccupati, i precari - e il mondo del lavoro.

Alla competitività esasperata e distruttiva tra territori, al dumping sociale e fiscale come regolatori dei rapporti tra stati, regioni e città, pensiamo vada contrapposta la cultura e la logica della cooperazione allo sviluppo tra città, tra regioni, tra stati, tra grandi meso-regioni, nella quale Roma e la Regione Lazio possono svolgere un ruolo di animatori e promotori di una nuova cooperazione euro-mediterranea.

Dalla crisi in atto si esce con nuova concezione e idea dello sviluppo e con un rinnovamento della democrazia e della partecipazione pubblica. E’ possibile un altro sviluppo per Roma e per la Regione, centrato sul policentrismo, sull’economia sostenibile socialmente orientata, sulle energie rinnovabili e sull’economia verde, sulla valorizzazione della città come bene pubblico, sul riconoscimento del capitale sociale e culturale di cui la città è ricca, sulla promozione e difesa dei beni comuni essenziali con guida pubblica delle imprese e dei servizi pubblici strategici ( salute, energia, acqua, ciclo dei rifiuti, mobilità, ecc.), sulla responsabilità sociale dell’impresa, sulla democrazia economica e sulla partecipazione dei lavoratori alle scelte e agli indirizzi sulla qualità dello sviluppo e su quella dei beni e servizi pubblici.

La Cgil vuole aiutare il processo di riappropriazione di un nuovo spazio pubblico oggi devastato da interessi privati e da una cultura egoista e consumistica che hanno saccheggiato la città, infranto regole e controlli di legalità, impoverito i ceti popolari e i lavoratori, accresciuta la mala pianta del razzismo popolare, mentre ha arricchito speculatori, affaristi senza scrupoli, proprietari di suolo, costruttori, immobiliaristi, albergatori, nonché l’economia criminale che alligna nella città e nel territorio regionale.

Antonio Castronovi è responsabile del Progetto politiche urbane della Cgil di Roma e del Lazio

Periferie, il piano d'oro di Alemanno

di Eleonora Martini

Tra le proteste dei movimenti di lotta per la casa, il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha presentato ieri il «masterplan sulla riqualificazione urbanistica di Tor Bella Monaca». E, contrariamente a quanto preannunciato e propagandato, lo ha fatto nella cornice più rassicurante dell'auditorium dell'università Tor Vergata, non certo nel cuore del quartiere tra i più degradati dell'estrema periferia est della capitale. Il piano, affidato «a titolo gratuito» all'architetto lussemburghese Leon Krier, prevede la «demolizione programmata» del quartiere, in particolare le cosiddette "torri", il peggio dell'edilizia popolare anni '80, preceduta dalla costruzione «nelle aree libere esterne» al quartiere «di nuovi alloggi pubblici, la cui altezza non supererà i quattro piani, destinati ai residenti». Al posto degli edifici demoliti, secondo il masterplan, saranno realizzate aree verdi, strade, piazze, servizi, «allo scopo di far riscoprire il valore dello spazio pubblico». Bello no? E allora vediamo i numeri: rispetto ai 629 mila metri quadri di Superficie utile lorda (Sul) attualmente costruiti su 77,7 ettari di territorio, con una volumetria complessiva di oltre 2 milioni di metri cubi, tra «cinque anni» la superficie lorda utilizzata sarà quasi il doppio (1.100.000 mq), l'area edificata salirà fino a 96,7 ettari, e la volumetria arriverà addirittura a 3.520.000 metri cubi. Altro che villette: cemento quasi raddoppiato. Al posto degli attuali 28 mila abitanti su 78 ettari circa (300 abitanti a ettaro), il piano prevede un incremento della popolazione fino a 44 mila abitanti. Che su 100 ettari circa fa 440 abitanti a ettaro. Altro che «tipologia abitativa meno densa»: qualcosa che assomiglia più alla speculazione edilizia anni '60 di viale Marconi, per esempio. Il tutto a costo zero per l'amministrazione, malgrado per «l'intera operazione» si spenderanno 1.045 miliardi di euro. Ma, spiega Alemanno tra le grida dei cittadini che protestano, sarà tutto pagato dai privati.

Riqualificazione? No: debiti pagati col cemento

di Paolo Berdini

Era apparso subito misterioso il motivo per cui il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, avesse deciso di realizzare case a bassa densità al posto del quartiere di Tor Bella Monaca, proprio ora che i comuni non hanno un soldo per fare alcunché. Ci sarà tempo per valutare nel merito il "piano direttore" presentato ieri alla città. Ma fin d'ora è possibile rendere chiari quali siano le motivazioni della estemporanea proposta.

Le motivazioni stanno nella deliberazione n. 3 del 5 ottobre 2009 presa dallo stesso sindaco Alemanno nella veste di Commissario straordinario di governo per il piano di rientro del comune di Roma. Come si ricorderà, nel primo periodo di vita della giunta di centrodestra ci fu una forte polemica riguardo l'ammontare del buco economico lasciato dall'amministrazione precedente: per questo il governo Berlusconi affidò poteri speciali al sindaco proprio per definire tempi e modalità di rientro.

La deliberazione in questione è un riconoscimento di debito nei confronti degli eredi Vaselli, famiglia di grandi proprietari terrieri. A seguito di espropri mai perfezionati proprio per la realizzazione di Tor Bella Monaca il comune fu chiamato in causa dai Vaselli e perse la prima causa civile. L'amministrazione presentò appello, ma avviò contemporaneamente procedure riservate per la chiusura bonaria del debito. Così nel 2007 - amministrazione Veltroni - furono stanziati quasi 76 milioni di euro per chiudere le controversie con i Vaselli ed una parte di essi furono pagati. Mancavano altri creditori e così il sindaco-commissario deliberava di pagare i restanti 55 milioni di euro: per capire di quale folle buco stiamo parlando, in un solo anno sono stati riconosciuti ai Vaselli 1.343.000 euro di interessi per ritardato pagamento!

Ecco perché durante la scorsa estate il sindaco ha avuto l'idea di "recuperare" Tor Bella Monaca. Se si demoliscono anche parzialmente le attuali abitazioni, occorrerà trovare terreni liberi per costruire quelle nuove. E, guarda caso, le aree libere intorno a Tor Bella Monaca sono di proprietà degli eredi Vaselli. Costruisco nuove case sui terreni dei creditori del comune e tutto finisce in gloria.

Una considerazioni finale. Da conteggi attendibili e rigorosi sembra che il debito contratto dal comune di Roma con la rapace proprietà dei suoli è stimato nell'ordine di 1,5 - 2 miliardi di euro. Se applichiamo il metodo Tor Bella Monaca, e cioè riconoscere cubature in cambio della cancellazione del debito, dovremmo costruire in ogni centimetro della città. Una follia.

Ma come mai, chiediamo, negli ininterrotti 15 anni di amministrazione di centrosinistra nessuno ha mai lanciato l'allarme su questa situazione inedita nel panorama europeo? Non se ne è accorta nemmeno l'Anci che con il presidente Leonardo Domenici non ha mai posto la questione con la dovuta forza, forse perché nella veste di sindaco di Firenze era troppo impegnato nelle trattative della peggiore urbanistica contrattata. Nessuno ha dunque fiatato e i comuni italiani sono stati lasciati in preda ai proprietari dei terreni. Non ci sono più leggi e i comuni che vogliono fare qualsiasi opera pubblica sono costretti a regalare milioni di metri cubi di cemento. E' così anche nell'ultimo caso della Formula 1 da svolgersi all'Eur. Il tanto mitizzato privato non ci mette un soldo: è il comune che paga l'operazione vendendo aree pubbliche che ospiteranno una nuova colata di cemento. Sono anni che il manifesto lo denuncia con forza ma il palazzo fa finta di nulla, impegnato a discutere d'altro. Come il finto recupero di Tor Bella Monaca.Finto perché i documenti consegnati ieri dicono che ai privati verranno "regalati" 1.500.000 metri cubi di cemento e che la densità abitativa passerà dagli attuali 300 abitanti ettaro a 440: una mostruosa speculazione edilizia. Come alla Magliana o viale Marconi. Altro che villette!

PostillaLa storia è agghiacciante. Eccola in sintesi nei suoi lineamenti generali. Nel 1977 una legge presentata dal ministro Bucalossi e tarpata dal Parlamento in un suo punto essenziale (il regime dei suoli), definì le nuove norme per gli espropri. La Corte costituzionale invalidò le nuove norme. Il Parlamento non corse mai ai ripari: l’attenzione ai problemi della città scomparve. Si dimenticò l’insegnamento che veniva dalle esperienze condotte da un paio di secoli negli stati liberali e in quelli delle socialdemocrazie europei, e perfino da quello fascista: la necessità di combattere gli incrementi della rendita per garantire città orfdinate e funnzionanti. I comuni furono lasciati allo sbando: perfino le associazioni che li rappresentavano, come l’ANCI, o come li sostenevano su questi problemi, come l’INU, abbandonarono le battaglie del passato. Non parliamo dei partiti: anche per quelli di “sinistra” la rendita divenne qualcosa che alimentava lo “sviluppo”, la pianificazione urbanistica un insieme di lacci e lacciuoli, l’esproprio una bestemmia.

Adesso se ne paga il prezzo. Assaliti dalla grande proprietà fondiari i comuni stanno perdendo le cause intentate dai privati sulla base delle sentenze costituzionali. Come fanno per resistere? Alemanno dà il segnale: bisogna cedere e anzi raddoppire il prezzo. E’ la strada giusta?

Caserme e periferie, vince il cemento

Paolo Boccacci, Giovanna Vitale

È finita con l’occupazione della Sala del Carroccio da parte dei movimenti per il diritto all’abitare la maratona notturna in consiglio comunale che ieri, intorno alle due, ha varato con i soli voti del Pdl la delibera di vendita e valorizzazione di 15 caserme dismesse. L’opposizione ha deciso alla fine per il no «principalmente per due motivi», spiega il capogruppo del Pd Umberto Marroni: «Perché questa operazione è viziata sul nascere dall’unico obiettivo di fare cassa, quindi è a rischio speculazione, e per l’inspiegabile bocciatura, da parte di una maggioranza confusa, dell’emendamento relativo al contributo straordinario da affiancare agli oneri concessori a carico dei privati che acquisiranno e trasformeranno gli edifici militari».

E poi nella serata ieri un altro colpo di scena in tema urbanistico. L’assessore Corsini annuncia di aver dato mandato agli uffici, con una memoria di giunta, di aumentare, fino a raddoppiarle, le cubature previste nelle otto Centralità ancora da pianificare, tra cui La Storta, Romanina, Acilia Madonnetta, Ponte Mammolo e Torre Spaccata. «Bisogna dare l’opportunità di costruire di più ai privati - afferma Corsini - perché possano finanziare le infrastrutture primarie, come strade e collegamenti con le metropolitane. Per questo si tratterà di densificare quanto possibile quelle aree». E si tratterà di milioni di metri cubi in più nella periferia romana.

Tornando invece al voto sulle caserme, sono stati accolti tutta una serie di correttivi che hanno sterilizzato gli effetti più negativi del testo originario: intanto sarà destinata a servizi pubblici una quota fissa del 20% della superficie complessiva (prima poteva oscillare tra il 10 e il 20); di questo 20%, su proposta del consigliere di Action Andrea Alzetta, il 25% andrà all’edilizia popolare; i piani di assetto, quelli cioè deputati a stabilire nel dettaglio cosa verrà realizzato al posto o dentro ciascun immobile (case di lusso, alberghi, negozi, strutture ricettive, ricreative, parcheggi), dovranno essere approvati uno per uno dall’aula Giulio Cesare, che così potrà valutare l´impatto dei singoli interventi. Da arginare anche grazie al meccanismo della compensazione, in principio non contemplato, ovvero la possibilità di rilocalizzare altrove le volumetrie da realizzare a seguito della verifica della sostenibilità urbanistica sul territorio.

Modifiche non da poco, almeno a giudicare dall’ubicazione dei fortini in disuso, per lo più disseminati in quartieri centrali o strategici, già appesantiti dal traffico. Basta dare una scorsa all’elenco, dove tra gli altri compaiono il Deposito materiali elettrici all’inizio di via Flaminia e lo Stabilimento trasmissioni in viale Angelico, la Direzione Magazzini Commissariato in via del Porto Fluviale (Ostiense) e la Caserma Medici in via Sforza, per non parlare della Nazario Sauro di via Lepanto e della Reale Equipaggi di via Sant’Andrea delle Fratte.

L’entità della manovra è tutta contenuta nelle cifre della delibera che vale come variante urbanistica al Prg e consente la vendita ai privati con relativo cambio di destinazione d’uso: operazione utile al Campidoglio per ottenere i 600 milioni pattuiti col governo per pagare la rata del piano di rientro. I 15 edifici militari, che confluiranno in un fondo immobiliare della Difesa, coprono una superficie totale di 82 ettari per oltre un milione e mezzo di metri cubi, pari a 500mila metri quadrati. Di questi, almeno il 30% andrà in residenziale; un altro 30 ad esercizi commerciali, turistico-ricettivi e varie attività private; l’ultimo 30 riguarda invece la cosiddetta parte variabile, il 20% della quale destinata a servizi comunali (asili nido, biblioteche, parchi, sportelli municipali) oltre che all´edilizia sociale. Quota, quest’ultima, che secondo i calcoli di Alzetta permetterà di ricavare circa 600 case popolari.

A ogni modo, al netto dei miglioramenti, per le opposizioni l’operazione resta «uno scandalo: espropria la città dei suoi beni e favorisce i soliti noti, abbandonando interi quartieri nell’invivibilità» tuona il coordinatore dell’Fds, Fabio Nobile. «Ieri il Campidoglio è stato trasformato in un’agenzia immobiliare solo per consentire al ministro Tremonti di fare cassa» attacca il consigliere pd Massimiliano Valeriani. «La capitale paga le bugie della destra» sbotta Alzetta: «Invece di utilizzare questo patrimonio per i cittadini Alemanno usa Roma come una banca». Una bufera per placare la quale è intervenuto il sindaco in persona: «Non saranno fatte colate di cemento, le caserme dismesse verranno utilizzate anche per funzioni abitative», garantisce Alemanno dopo aver esultato per il «grande risultato: un atto necessario non solo dal punto di vista economico ma anche urbanistico».

Destinazioni assurde

Intervista di Paolo Boccacci a Italo Insolera

«Quelle caserme da trasformare in case che sono nel cuore del centro, come in via delle Fratte, mi sembrano tutte con destinazioni assurde. Potrebbero avere al massimo funzioni di modeste dimensioni legate all´artigianato. In ambienti edilizi storici mi pare molto difficile poter cambiare radicalmente quelle che sono delle funzioni ormai consolidate».

Italo Insolera, il massimo studioso dell’Urbanistica romana, illumina un punto debole nella delibera approvata nella notte in Consiglio.

In Centro vieterebbe anche le destinazioni commerciali?

«Se per commerciale intendiamo dei piccoli negozi per l’artigianato, probabilmente questo rientra nell´organizzazione storica degli spazi nell´area centrale della città, se invece pensiamo ai supermercati o alle grandi griffe allora il contributo alla trasformazione sbagliata del centro può essere davvero deleterio».

Altre caserme da trasformare in abitazioni, negozi, case popolari e servizi pubblici sono nei quartieri storici, come ad esempio Prati. Che fare qui?

«Per questa parte di Roma ci sono delle funzioni, per esempio scolastiche, che vanno benissimo. Va bene ciò che eleva il livello sociale e culturale del quartiere».

E le case?

«Mah, queste sono zone per cui vigono il piano regolatore generale e i piani particolareggiati. Se le caserme cessano di avere funzioni militari va benissimo, figuriamoci, ma quelle che le devono sostituire dovrebbero essere culturali. Ci terrei a sottolineare l´esempio dell´università Roma Tre che è andata distribuendo i suoi spazi in vari edifici del quartiere Ostiense ed è diventata una struttura essenziale che impreziosisce la zona».

Un esempio per tutta la città?

«Se la nuova destinazione delle caserme può servire a questo in tutta Roma ben venga, ma che sia principalmente culturale».

Invece nella delibera si parla tra l´altro di un impiego per il 30% commerciale, per un altro 30% a residenze private, per un 15% servizi pubblici e un 5% case popolari.

«Queste percentuali non hanno senso, soprattutto perché quello che conta è la rivalutazione culturale di una città come Roma, dove leggiamo tutti i giorni che le università e le scuole non hanno spazi sufficienti. Questa è la grande prima necessità».

Nelle caserme ad Est, Tiburtina e Casilina?

«In quella zona dai primi studi del piano regolatore del 1950 si ripete continuamente che le iniziative devono servire a bonificare le vecchie borgate. Anche lì si faccia un piano sociale ed economico di tutta l´area e alle esigenze che verranno fuori sarà possibile venire incontro grazie alle caserme dismesse».

E a Boccea e al Trullo?

«Qui sono validi i discorsi sull´incremento delle destinazioni residenziali pubbliche e private, perché sono zone di espansione più vaste e si può fare un piano».

L’operazione caserme con la vendita ai privati serve al Campidoglio per fare cassa.

«Questo è un procedimento perverso, perché si dovrebbe volere che la maggior parte di queste iniziative restino al Comune e siano gestite dal Comune stesso».

Roma, mega progetto intorno al circuito dell´Eur: grattacieli al posto delle aree verdi - Italia Nostra: i terreni ceduti ai privati in cambio delle infrastrutture del Gran Premio

ROMA - Il cemento ha il colore di una fotografia di quello che sarà. Due alti palazzi gemelli da una parte e dall´altra all´altra del verde delle Tre Fontane, davanti ai bianchi marmi dell´Eur, dove adesso si stagliano il rosso dei campi da tennis e delle piste di atletica e il verde di quelli da basket. Ognuno sarà un piccolo grattacielo, ben quindici piani fuori terra che si allungano in altri sette piani accanto, a forma di una L, e tutti e due ospiteranno appartamenti di lusso, uffici e negozi, messi in vendita per lanciare e realizzare il Gran Premio di Roma e far sfrecciare nell´estate del 2013 i bolidi della Formula Uno nel quartiere.

Il progetto è stato presentato all´inizio di agosto in grandi cartelle rosse e bianche nelle stanze che contano del Campidoglio e adesso aspetta il via libera della conferenza dei servizi, convocata per il 9 novembre, e poi del consiglio comunale. I due palazzi del comprensorio si chiamano con nomi poetici, Porta dei Pini e Porta delle Tre Fontane. Ma sono 80 mila metri cubi che si abbatterebbero su uno degli angoli storici destinati a verde attrezzato del quartiere, quelli dove dagli anni Sessanta intere generazioni di ragazzi, con le loro magliette bianche e le scarpette da ginnastica, hanno cominciato a correre sulle piste, a giocare a tennis e a pallacanestro.

Così scendono in campo le associazioni dei cittadini del quartiere (Comitato Salute Ambiente Eur, Coordinamento Comitati e Cittadini per la Difesa dell´Eur, Coordinamento No Alla Formula Uno e La Vita degli Altri Onlus) e Italia Nostra, con un dossier dal titolo "Le mani sull´Eur" e un appello al sindaco Alemanno, ma anche ai ministri dei Beni Culturali, Sandro Bondi , e dell´Ambiente, Stefania Prestigiacomo, e al premier Silvio Berlusconi. «Ribadiamo» scrivono «la nostra estrema preoccupazione riguardo un progetto che sembra aver preso forma parallelamente alla concezione di Roma Capitale, dimostrando finalità e modi privatistici, troppo lontani dall´interesse pubblico. Un´impresa che si è avvalsa, finora, di modalità di comunicazione a nostro avviso poco chiare, basate sui più agili metodi dell´imprenditoria privata, quando l´oggetto in discussione sono un quartiere storico, gioiello del Razionalismo, e il benessere di migliaia di cittadini»

I nuovi edifici, che si aggiungerebbero ai 150 mila metri cubi da costruire nell´ex Velodromo, spazzeranno via all´inizio tutte le strutture sportive delle Tre Fontane che sarebbero rase al suolo per far posto ai cantieri e poi ricostruite nello spazio rimanente.

Frutto dell´operazione sarebbero quei cento milioni che servono a Roma Formula Futuro capitanata dal presidente degli industriali della Federlazio Maurizio Flammini, ex pilota e patron della macchina organizzativa del Gran Premio romano, per approntare le opere necessarie a far sfrecciare i bolidi per le strade dell´Eur.

Un progetto per il quale la contropartita per la città consisterebbe nel nuovo ponte su via delle Tre Fontane, nella ristrutturazione di via delle Tre Fontane, trasformata in un boulevard, e la recinzione dei parchi dell´Eur, da quello degli Eucalipti a quello del Ninfeo all´altro del Turismo.

E la variante al piano regolatore, con relativo accordo di programma, che dovrebbe dar vita al comprensorio, sarebbe ricavata mettendo a disposizione di privati una parte di suolo pubblico destinata originariamente a verde e a servizi di livello locale come "paesaggio naturale di continuità" che collega la valle del Tevere al parco di Tormarancia. Insomma Ente Eur e Comune regalerebbero i terreni alla società costruttrice in cambio di altre opere necessarie per il Gran Premio. «Un´operazione ridicola» attacca il consigliere del Pd Athos De Luca, uno degli storici difensori del verde della Capitale «se si pensa che gli edifici dovrebbero ospitare alla fine solo 720 abitanti e trecento addetti degli uffici».

Altro discorso l´allargamento del ponte delle Tre Fontane per far passare sotto il circuito, un´opera da 26 milioni di euro. E quale sarà l´impatto con almeno centomila spettatori? Basteranno i parcheggi in un´area di tre-cinque chilometri intorno al circuito? Infine è di pochi giorni fa l´ennesima bagarre sul fronte del contestatissimo Gran Premio all´Eur. «Non c´è alcun contratto con Roma», rivela Bernie Ecclestone dal circuito coreano di Yeongam. E il sindaco Gianni Alemanno precisa: «La disponibilità di Ecclestone è certa, la proposta deve passare in Consiglio». Ma davanti ora c´è il grande scoglio della colata di cemento sull´Eur.

Intervista

Della Seta: blitz dei palazzinari

sembra un remake degli anni ´50

ROMA - «La cosa più pericolosa è che chi vuole organizzare il Gran Premio a Roma se lo paga con aree regalate che, per effetto della variante, diventerebbero d´oro. Questo è il vero business».

Roberto Della Seta, ex presidente di Legambiente e senatore Pd, attacca il progetto della F1.

Che cosa succederà all´Eur?

«È un quartiere con un equilibrio e una funzionalità complessiva e non c´è alcun bisogno di piazzarci in mezzo questa specie di astronave di cemento. Deve intervenire il ministro Bondi. Tra l´altro il meccanismo è la prova più evidente che il Gp di F1 a Roma di per sé non è un affare».

Il sindaco Alemanno parla di un indotto di un miliardo.

«Ma l´investitore, che fa il suo mestiere, è il primo a dire che queste cubature servono a compensare una parte delle spese».

E il Comune?

«Il fatto grave è che il Comune si faccia promotore di un uso privatistico delle sue funzioni pubbliche. Da questo punto di vista sembra di essere tornati agli anni ‘50 e ‘60 quando la politica urbanistica della Capitale la facevano i palazzinari».

Gli abitanti protestano anche per il rumore.

«Non esistono esempi di città storicamente complesse come Roma che ospitino una gara del genere. E, per quanto riguarda il rumore, vicino al circuito c´è l´ospedale Sant´Eugenio, i cui pazienti in agosto non vanno in vacanza».

Poco più di dieci anni fa, nel 1998, Risorse per Roma - braccio operativo del comune di Roma potenziato nel periodo in cui era sindaco Francesco Rutelli al fine di perseguire ogni spregiudicata avventura immobiliare - fu reso pubblico un documento sul futuro del Mattatoio che aveva al primo posto la «valorizzazione immobiliare» tanto cara ai giorni nostri a Tremonti e Berlusconi.

Si ipotizzò di vendere quello straordinario compendio urbanistico per fare cassa. La Camera del lavoro della Cgil del centro storico aveva per segretario Antonio Castronovi e fu grazie alla mobilitazione del sindacato che fu in primo luogo scongiurata la vendita e poi, intorno al presidio della terza Università di Roma, riprese vigore una visione pubblica dello sviluppo dell'area che portò anche alla apertura della Città dell'Altra Economia, e cioè alla preziosa esperienza di sperimentazione di un nuovo modello di sviluppo economico e urbano.

Oggi questa esperienza è a rischio di cancellazione da parte del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, insofferente che potesse perdurare una voce fuori dal coro. Forse dietro questo accanimento ci sono le stesse pressioni speculative di dieci anni fa, rese ancor più fameliche dall'aprirsi della stagione della grande svendita del patrimonio immobiliare pubblico. Ma l'atto scellerato del sindaco di non rinnovare il contratto al consorzio che gestisce l'area non sarebbe potuto avvenire se ci fosse stata intorno all'esperienza di Testaccio una rete forte e convinta di esperienze urbane.

Ha dunque profondamente ragione Giulio Marcon (il manifesto del 2 ottobre) a riportare la ricerca delle cause di questa ancora evitabile sconfitta all'interno della nostra cultura e tentare così di superare timidezze e reticenze che non hanno permesso all'esperienza dell'Altra Economia di mettere radici ancora più profonde e collocarsi irreversibilmente nel panorama economico e sociale della città. Alla base delle debolezze c'è sicuramente una esasperata frammentazione delle esperienze e la loro scarsa attitudine a divenire rete. Marcon ci sollecita però di andare oltre a queste motivazioni soggettive e tentare di costruire una politica comune sui temi dello sviluppo economico e urbano senza la quale assisteremo a sconfitta dopo sconfitta.

Ritorno sul tema delle città. Quando nel 1998 fu sconfitta la logica speculativa della valorizzazione dei beni pubblici in favore di un uso sociale degli spazi pubblici, non si continuò coerentemente su quella strada maestra. Dubbi e incertezze conquistarono la sinistra tradizionale, ma coinvolsero i gruppi dirigenti della sinistra senza aggettivi allora al governo regionale e comunale. Da lì a pochi anni fu approvato il piano regolatore di Walter Veltroni che prevedeva 70 milioni di metri cubi di cemento (il più grande sacco urbanistico della capitale!) per una città che non cresce più demograficamente. Era evidente la contraddizione: si tentava di avviare l'esperienza del Mattatoio nel quadro di una acritica accettazione del liberismo urbanistico. Ci si illudeva dunque di stabilire pratiche alternative accettando in toto una cultura che non ci appartiene.

Ma di questo strabismo non si riuscì a parlare. Pur di garantirci preziosi spazi istituzionali abbiamo anche evitato di dare spazio a chi dissentiva. È solo tagliando il nodo di questi ritardi culturali nel campo del governo delle città e delle tematiche più generali relative al modello economico della decrescita che esperienze come la città dell'Altra Economia di Testaccio non solo non saranno più messe a rischio, ma si riprodurranno anche in altri luoghi di Roma e in molte altre città. Se continuiamo in un estenuante gioco di difesa, rischiamo davvero di non essere attori credibili in questo momento in cui si sta decidendo il futuro delle città e del paese.

La nuova proposta choc di Gianni Alemanno è arrivata dalle Dolomiti. E cioè dallo stesso palco della manifestazione Cortina Incontra, dove appena una settimana fa aveva lanciato l’idea, poi contestata anche da una parte del centrodestra, di tassare i cortei che attraversano la Capitale. Stavolta il sindaco ha cambiato argomento: «Vogliamo demolire Tor Bella Monaca», ha detto. Un annuncio che non mancherà di scatenare polemiche. E che per adesso ha scatenato sorpresa e stupore, ma anche ironia: «Ma come? Appena eletto ha detto che voleva spostare la teca di Meier dell’Ara Pacis a Tor Bella Monaca? Adesso vuole buttare giù il quartiere? Non ha le idee molto chiare», hanno scherzato dal centrosinistra.

Il progetto Alemanno vorrebbe trovare dei terreni vicino a Tor Bella Monaca per costruire nuove abitazioni Nella foto a sinistra, Teodoro Buontempo, assessore regionale alla Casa Come riferisce l’agenzia di stampa Omniroma, il sindaco stava partecipando al dibattito «Estetica della città», quando il moderatore gli ha chiesto su quale parte di Roma si potrebbe intervenire con un drastico intervento di riqualificazione. E Alemanno, dopo averci pensato qualche secondo, ha risposto: «Sicuramente Tor Bella Monaca va demolita, rasa al suolo, non tanto Corviale, che è un altro discorso. A Tor Bella Monaca ci sono case costruite con un sistema di prefabbricazione in cui piove dentro», ha detto. E poi: «Se abbiamo terreni e aree per costruire affianco un nuovo quartiere a Tor Bella Monaca per permettere alle persone che lì abitano di spostarsi, sarebbe una scelta popolare. Chi vive dentro quelle case non vive bene e vorrebbe spostarsi».

Alemanno prima dell’annuncio choc ha affermato che «oggi con le ultime sentenze della Corte Costituzionale espropriare costa troppo. Siamo passati dall'assoluta massificazione degli anni passati a meccanismi oggi troppo restrittivi: è necessaria una nuova legge urbanistica complessiva che consenta di costruire dove c'è bisogno e non solo dove c'è interesse di privato e di società immobiliari, se no continueremo ad avere città che si espandono in zona agricola. È necessario invece demolire e ricostruire ampie aree della città, recuperando anche terreno urbano». E ancora: «A Roma ci sono molte aree delle 167 che sono autentiche cisti urbane, penso al Tiburtino 3 e altre zone». Come appunto Tor Bella Monaca.

L’idea di Alemanno, che per adesso non sembra supportata da progetti concreti di intervento, rischia di aprire un nuovo fronte di polemica interno al centrodestra. Teodoro Buontempo, grintoso assessore regionale alla Casa nella giunta guidata da Renata Polverini, appena insediato ha illustrato come uno degli obiettivi programmatici l’abbattimento del «serpentone» di Corviale e la ricostruzione di nuovo unità residenziali per gli abitanti della zona. Un progetto chiaramente in contrasto con l’idea appena annunciata dal sindaco, che ha invece escluso proprio l’abbattimento di Corviale.

Nota: si veda per un confronto la quasi contemporanea idea di "bonifica delle periferie" dell'assessore milanese Gianni Verga

Dopo due anni di governo della città è venuto il momento di tentare un primo bilancio sull'urbanistica romana ispirata dal sindaco Alemanno. Siamo infatti ormai di fronte ad un quadro abbastanza chiaro che consente una lettura attendibile almeno sotto due ordini di considerazioni: l'orizzonte culturale con cui si affrontano le trasformazioni urbane e i soggetti a cui sono state affidate le chiavi della città.

Riguardo al primo punto non c'è dubbio che la nuova amministrazione abbia estremizzato oltre misura la cultura dei grandi eventi che sembra ormai l'unica possibilità di governo delle città italiane. Cancellata l'urbanistica, e cioè la modalità con cui un'intera comunità tenta di delineare un futuro possibile, le prospettive urbane sono affidate alla prospettiva dei grandi eventi.

Tutte le energie della città sono dunque concentrate sul progetto Millennium, e cioè per la preparazione alla candidatura ai giochi Olimpici del 2020. I giochi invernali di Torino, l'expo di Milano, solo per fare due esempi, sono ormai le uniche ricette che un sistema politico in profonda crisi è capace di pensare.

Di fronte a malesseri urbani sempre più acuti e generalizzati - dopo venti anni di dominio neoliberista non c'è infatti nessuno che possa affermare che le condizioni di vita delle nostra città siano migliorate - la soluzione è quella di fornire dosi industriali di ossigeno al malato. Senza riflettere che gli effetti sono letali. A Torino il fiume di denaro pubblico utilizzato non ha prodotto alcun risultato e anche il bilancio economico è fortemente negativo. Il Sole 24 ore del 7 aprile ci racconta poi che per i giochi Olimpici del 2004 Atene ha speso 11 miliardi per opere faraoniche oggi inutilizzate e destinate anche «a parziale demolizione», mentre gli introiti hanno coperto solo il 20% delle spese.

Ma il fatto grave è che nel caso romano l'orizzonte del grande evento non si limita alla candidatura olimpica. È divenuta prassi quotidiana. Invece di interrogarsi fino in fondo sui modi per uscire dalla crisi economica in cui versa la città, alleviata soltanto dalla presenza ancora estesa della pubblica amministrazione o del settore delle comunicazioni, si sceglie il modesto diversivo della Formula 1 automobilistica all'Eur. Nessuna città al mondo può vivere dell'effimero, tanto meno Roma, eppure si veicola una proposta inutile soltanto per ingraziarsi alcuni gruppi mediatico-finanziari e la lobby degli albergatori.

Si strizza l'occhio al turismo effimero anche con la proposta di un ridicolo parco a tema sulla «Roma imperiale». Le altre grandi città del mondo fanno a gara per rendere sempre più accoglienti i maggiori elementi di richiamo storico e culturale. Da noi si assiste impassibili al crollo della Domus Aurea e si pensa di richiamare turisti con una cittadella di cartapesta. Ma anche qui non è soltanto insipienza di qualche assessore (che pure c'è): è l'adempimento al patto scellerato con i padroni della aree ancora libere. L'eterna spinta all'espansione urbana e alla speculazione edilizia.

E anche la realizzazione di infrastrutture considerate «normali» negli altri paesi, diventa veicolo di straordinarietà. Il progetto della linea «D» (Talenti-Eur) fu affidata da Veltroni al potente gruppo Condotte. Oggi si vorrebbe cancellare l'opera: il risarcimento per la società affidataria ammonterebbe a oltre 400 milioni. Niente male per i cantori del «non ci sono i soldi». Il prolungamento della linea «B» (Rebibbia-Casal Monastero) è stato incardinato sulla cessione di una serie di aree pubbliche: i privati attuatori finanzieranno la metropolitana costruendo su quelle stesse aree. È il modello della «cattura del valore» di quella vergognosa vicenda della Quadrilatero Umbria-Marche. A Parigi in tre anni hanno realizzato una nuova linea tranviaria con progetto, soldi e regia pubbliche. Da noi per realizzare tre chilometri di metro si svende il territorio e si alimenta la speculazione immobiliare.

Ma a chi volete che importino queste considerazioni oggettive? Viviamo nell'era del dominio mediatico e i principali quotidiani romani (Messaggero e Tempo) sono in mano a proprietari di vasti terreni da valorizzare e società che vivono anche di appalti pubblici. E questo gruppo di comando non fa sconti: avendo contribuito generosamente all'elezione di Alemanno, oggi presenta il conto. Questa tragica subalternità dei poteri pubblici verso i potentati economici svela il suo volto non solo nei casi appena narrati, ma anche nella vicenda Acea, dove Francesco Gaetano Caltagirone sta imponendo i suoi disegni anche a costo di privatizzare un'azienda costruita in decenni di giganteschi investimenti pubblici e di competenze tecniche. Così, mentre ci continuano a dire che non ci sono soldi per soddisfare l'immenso arretrato di infrastrutture e di servizi delle città, dietro al proscenio si apparecchia un lauto pranzo fatto di immensi finanziamenti pubblici che andranno nelle mani di pochi.

Ecco perché le amministrazioni pubbliche sono obbligate a percorrere la strada dei grandi eventi: le possibilità del governo quotidiano sono state ridotte al lumicino e le risorse vengono erogate a patto che la regia dell'operazione sia «fuori scena», facilmente indirizzabile verso esiti -e quadranti urbani- che interessano i soliti noti. Ripeto, questa strada rovinosa non è stata inventata da Alemannno. Non c'è soltanto il precedente rutelliano della fallita candidatura alle olimpiadi del 2004, ma identico problema si pone per tutte le città italiane. Si ottengono finanziamenti soltanto se la regia sta in mano ai Bertolasi di turno o delle tante società di scopo create in questi anni per togliere trasparenza all'azione delle pubbliche amministrazioni. È la crisi della democrazia reale. E infatti il recente incontro con le grandi star dell'architettura si è svolto senza che ci fosse la minima possibilità per la società civile di esprimersi. È una società rigidamente divisa quella che si afferma: pochi controllano ogni centro decisionale. Gli altri hanno solo il diritto di abitare in squallide periferie.

Ma proprio qui si rintraccia il punto debole dell'azione di Alemanno che non tarderà a produrre i suoi effetti. Due anni fa sono state come noto le periferie a tributare il successo del centro destra. Dopo due anni, proprio grazie al trionfo della cultura dell'evento straordinario da affidare agli eterni padroni della città eterna, nelle periferie si respira un'aria sempre più preoccupante.

Si è compreso che non solo nulla è cambiato ma che il destino di ulteriore marginalizzazione è scritto nei rapporti di sudditanza economica che nessuno osa più mettere in dubbio. Un solo esempio. A Casal Monastero estrema periferia a nord della città la precedente amministrazione aveva pensato bene di portare la qualità urbana che manca attraverso il trasferimento degli autodemolitori ubicati nell'area di Cinecittà! Quell'insensato progetto è stato confermato e verrà attuato nelle prossime settimane. Così dopo aver condannato la precedente, le periferie volteranno inevitabilmente le spalle anche a questa amministrazione.

I nuovi barbari dilagano a Roma e nel Lazio. La povera Città Eterna non è mai stata così offesa, svilita a merce da vendere nel modo più cafone. È passata una linea di svendita dell’immagine stessa senza più freni. Se l’assessore alla Cultura, Croppi, e il sottosegretario ai Beni culturali Giro oppongono una qualche resistenza alle proposte più indecenti, è lo stesso premier, cantante discotecaro, ad autorizzare il caffè-discoteca nella Valle delle Accademie e dei Musei. E sono interessi potenti ad imporre a Villa Borghese lo sfregio del maxischermo per i Mondiali con atti vandalici diffusi. Come negare allora a Renato Zero la gloria di 6 concerti 6 nella stessa martoriata Villa? Andate al Circo Massimo, zona archeologica di pregio assoluto, e lo vedrete ridotto a luna-park. Salite sul Gianicolo e anche lì vi accoglierà un caffè-discoteca.

E pensare che l’eccellente lavoro svolto dalla Soprintendenza archeologica statale ha regalato al Museo dell’ex Collegio Massimo, diretto dalla brava Rita Paris, la sezione-gioiello degli affreschi della Villa romana della Farnesina. Da sindrome di Stendhal. Un’altra Italia avrebbe montato una “promozione” planetaria ad hoc (chissà se l’ex McDonald’s Resca ne ha saputo qualcosa).

Ora poi c’è il “nuovo” Piano Casa, rivisto a fondo dalla Giunta Polverini, col quale, per la prima volta dopo decenni, si consentiranno, nei centri storici, ampliamenti, demolizioni e ricostruzioni. Mentre l’emendamento Azzolini alla manovra tremontiana travolge ogni norma e consente di costruire ovunque. Italia rovinata dagli Italiani. Stavolta per sempre.

La neo-presidente del FAI, Ilaria Borletti Buitoni, protesta duramente, e dove la confina il “Corriere”? Pagina interna, due colonne, in basso. Alègher!

Che cosa fare per salvare la campagna romana dalle colate di cemento, dall’assedio delle periferie (che l’etichetta ipocrita di «centralità» non salva dallo squallore e dal degrado)?

Il Sindaco Alemanno ha una sua ricetta: per «fermare la crescita a macchia d’olio» occorre «rompere i tabù», abolire l’antico vincolo per cui nulla nel territorio comunale può superare l’altezza della cupola di San Pietro.

«Densificare la periferia», costruendo grattacieli «come l’Eurosky dell´Eur, che sarà l’edificio residenziale più alto d’Italia». Anzi, «demolire le periferie e ricostruirle», «densificando»: una Roma di grattacieli «accanto al centro storico più importante al mondo».

Diagnosi giusta, ricetta sbagliata. L’orrido urban sprawl che assedia non solo Roma, ma tutte le nostre città, va contrastato mediante nuove politiche dell’abitare, con una gestione del paesaggio conforme alla tradizione (e alla Costituzione), abbattendo e riqualificando. Rivoluzione che non si compie in una notte, ma presupporrebbe il diffondersi di una cultura urbanistica e architettonica meno sgangherata di quella che sta divorando un Bel Paese sempre meno meritevole di tal nome.

Richiederebbe il rispetto delle regole, a cominciare da un Codice dei Beni Culturali che è quanto di più bipartisan si possa immaginare (portando le firme dei ministri Urbani, Buttiglione, Rutelli), ma che tutti s’industriano a dilazionare, modificare, aggirare con deroghe, o francamente a ignorare.

Esigerebbe legioni di architetti meglio attrezzati, di assessori meno proni al volere d’ogni palazzinaro, di cittadini capaci d’indignarsi. Nell’orizzonte italiano (e non solo di Roma) io non vedo l’alba di questa nuova consapevolezza, né il tentativo di crearla, agendo (per esempio) nelle scuole, facendo di questi temi uno dei centri della discussione politica, coinvolgendo nella discussione i cittadini, le associazioni per la tutela e per l’ambiente.

Vi fu un tempo, specialmente in Italia, in cui la costruzione della città implicava, per scelta civile ma anche per tensione etica e politica, un atto consapevole di auto-limitazione. Il principio era uno e uno solo: il bene comune, con l’intesa (che non ebbe mai bisogno di argomenti, perché non aveva avversari che osassero fiatare) che esso doveva coincidere con la bellezza e l’ornamento della città. Il Costituto di Siena del 1309 dice espressamente che «intra li studii et solicitudini è quali procurare si debiano per coloro, che hanno ad intendere al governamento de la città, è quello massimamente che s’intenda a la bellezza della città», perchè la città --continua—dev’essere «onorevolmente dotata et guernita», tanto «per cagione di diletto et allegrezza» ai forestieri quanto «per onore, prosperità et accrescimento de la città et de’ cittadini di Siena».

Gli Statuti comunali (ma anche quelli delle città regie, per esempio di Sicilia) prescrissero per secoli gli stessi principi in tutta quella che oggi si chiama Italia, e con buona pace della Lega si chiamava così anche allora: bellezza, decoro, ornamento, dignità, onore pubblico sono le parole martellate dalle Alpi alla Sicilia, alla Sardegna. Per secoli.

Al privato che rivendicava i propri diritti di proprietà, sempre si rispose che ogni interesse del singolo dev’esser sovrastato dal pubblico bene, e si ricorse alla nozione giuridica di publica utilitas fondandola sopra la tradizione del diritto romano. A Roma Gregorio XIII, nella costituzione apostolica Quae publice utilia et decora (1574), proclamò sin dalle prime righe l’assoluta priorità del bene e del decoro pubblico sulle cupiditates e sui commoda [interessi, profitti] dei privati, e sottopose a rigoroso controllo l’attività edilizia di tutti i privati (anche gli ecclesiastici, anche i cardinali).

Non vi fu, allora, un Berlusconi che al grido di «padroni in casa propria!» accusasse quel Pontefice di cripto-comunismo. Ma l’urban sprawl che ci affligge, e che giustamente Alemanno denuncia e vuole arrestare, è figlio del tramonto del pubblico bene, e del trionfo degli interessi del singolo.

Le periferie-centralità che si sono insediate fra gli acquedotti dell’antica Roma, fra le tombe e le ville dei Cesari, da questo nacquero: dietro ogni orrore c’è un cedimento (per non dir complicità) delle amministrazioni capitoline, una genuflessione davanti ai vantati diritti del privato, un’offesa a due millenni di priorità del bene pubblico sulla cupiditas privata.

Di quelle scelte Alemanno non ha colpa: ma i suoi grattacieli, che pretendono di essere l’opposto dell’urban sprawl, sono più probabilmente il rilancio e la legittimazione di una crescita periurbana tanto più disordinata quanto più «densificata».

In molte città d’Italia si scelse per secoli il monumento-simbolo che servisse da esaltazione dello skyline: a Siena fu la Torre del Mangia, a Modena la Ghirlandina, a Roma la cupola di San Pietro. Misure convenzionali, certo, ma altamente simboliche di un’etica del self-restraint, di un’idea della città unitaria, compatta, dotata di memoria, di un’anima. Capace di pensare se stessa. Quello che Alemanno chiama «tabù» fu in verità proprio il contrario: una scelta meditata, misurata, consapevole, ricca non solo di storia o di memoria, ma di quella che potrebbe chiamarsi la modellazione del futuro. L’idea era semplice: conservare lo spirito della forma urbis imperniandola su moduli-base di crescita. Costringere l’architetto (anche il più grande) entro regole di rispetto della memoria storica, così come il poeta (anche il più grande) deve comporre i suoi versi secondo misure prestabilite. Creare per i nostri figli un’armonia che somigli a quella che abbiamo ricevuto dai nostri padri.

Vedremo a che cosa somiglieranno i grattacieli proposti da Alemanno, e in che cosa sapranno distinguersi dalle architetture in genere scellerate che infestano quello che fu l’agro romano. Vedremo se essi tracceranno una nuova forma urbana, o saranno una corona di spine che assedia, o crocifigge, il centro storico «più importante al mondo». Vedremo se sapranno rimediare a quella indeterminata e incessante espansione delle periferie ai danni dell’ambiente naturale e storico, sempre più marcatamente dissolto nella confusione di una disordinata megalopoli; o se, al contrario, ne aggraveranno i problemi proprio col «densificarla». Lo vedranno, prima di tutto, i romani, se –come Alemanno promette - saranno chiamati a una consultazione popolare. Ma con quali informazioni? Con quale cultura urbanistica e architettonica? Con quale senso del bene comune?

Grattacieli in periferia, che superino in altezza persino la cupola di San Pietro e siano perciò in grado di riqualificare e ridisegnare porzioni di città lontane dal centro storico, troppo spesso trascurate. Parla della Roma del futuro il sindaco Gianni Alemanno, a Milano in occasione dell´apertura dell´Eire, l´Expo Italia Real Estate: «La città storica - sottolinea - deve mantenere l´antico vincolo di non superare il Cupolone, ma nella periferia dobbiamo poter costruire in altezza, perché è necessario trasformare le periferie, demolirle e ricostruirle». A volerne fare una questione teorica, si può dire che si mira a infrangere il tabù per realizzare il totem, abbandonare la morbida orizzontalità del paesaggio (i sette colli) per cedere alla più topica delle sfide umane, dalla torre di Babele allo skyline di Hong Kong, il migliore del mondo. È la tendenza, insomma, a toccare il cielo con un dito, ora anche nella città del papa.

E date le polemiche intorno agli interventi di architettura dell´ultimo decennio, dall´Ara Pacis di Richard Meier all´Auditorium di Renzo Piano al più recente Maxxi di Zaha Hadid, Alemanno (ri)annuncia di voler consultare i romani con un referendum che ponga un quesito come "volete voi palazzi più alti della cupola di San Pietro?". Intanto la Città Eterna il "tabù" sta provando ad infrangerlo da un po´, e qualcosa sta nascendo. «La tua casa, nel punto più alto da cui guardare il mondo» è lo slogan con cui si presenta Eurosky, progettato dall´architetto Franco Purini «ispirata alle torri medievali che troneggiano al centro della città», in lavorazione. Mentre l´architetto spagnolo Santiago Calatrava ha di recente (in occasione di un summit di urbanistica organizzato dal Campidoglio in aprile) fatto il suo ultimo sopralluogo alla Città dello Sport che sta sorgendo a Tor Vergata: non è una torre degna di Chicago, lo skyline più griffato del pianeta, ma i suoi 90 metri li raggiunge. Cresce in altezza, e fino a 80 metri, anche la cosiddetta Lama di Fuksas, l´albergo annesso al centro congressi, noto come Nuvola anch´esso in costruzione nella zona dell´Eur piacentiniano e mussoliniano.

La crescita verticale della città trova in netto disaccordo l´urbanista che forse, fra tanti, ha più ragionato e scritto su Roma e sul suo sviluppo architettonico, Italo Insolera. Che ragiona così: «In tutto il mondo i grattacieli sono nati per accogliere servizi. A Roma dovrebbero servire come abitazioni. Mi sembra una scelta infelice. Difendo al contrario un modello di palazzine più contenute, come è la Garbatella. Al tempo stesso credo che luoghi come Corviale, il palazzone di periferia costruito negli anni Settanta e ribattezzato "il chilometro", andrebbero conservati, e fatti funzionare meglio dal punto di vista sociale. Perché bisogna ragionare sempre sui contesti: alle città non servono le "archistar" che arrivano e piantano astronavi firmate in mezzo al nulla». Francesco Garofalo, curatore del padiglione italiano alla Biennale di Venezia e della Festa dell´Architettura che apre oggi a Roma con la lectio magistralis di Alvaro Siza, sottolinea: «La questione dei grattacieli mi sembra astratta. Credo che serva una buona committenza. Se ci accapigliamo su certi simboli, è finita e, d´altra parte, dire a priori che le torri sono sbagliate è pura petizione ideologica».

Stando ai fatti, il piano regolatore della città di Roma, varato dalla giunta Veltroni, definisce limiti e proporzioni della crescita delle cosiddette "centralità metropolitane" (leggi: periferie). Ma non si spinge fino a chiarire se ciò debba verificarsi, per esempio, in dieci palazzine da tre piani o in una da trenta. Carta bianca, dunque, a contrastare quella consuetudine a non superare in direzione del cielo la "santità del Cupolone" (e nemmeno la "maestà del Colosseo") sancita all´epoca dei Patti Lateranensi. Una sfida che nessuno ha finora osato intraprendere.

Acquedotti e vestigia, pianure a verde, olivi, pini, casali, molti abbandonati, intorno a Roma si stendono campagne morbide e antiche che, nell’ 800, facevano sognare paradisi in terra (ignorando la povertà) a stuoli di pittori del nord. Per la sua commistione di antico e natura l’Agro romano che dal mare ai monti avvolge la capitale è un territorio che uno Stato sano preserverebbe come uno scrigno: sia per attirare gli stranieri innamorati dei paesaggi italiani ancora integri, sia per foraggiare con verdure, frutta, carni e formaggi il buon appetito degli abitanti della capitale. È invece un territorio che ha sofferto molte invasioni di cemento e altre ancora, e potenzialmente non meno devastanti, ne deve temere adesso. Non a caso qualche domenica mattina fa nel quartiere del Casilino hanno sfilato cittadini con un’idea chiara in testa: «Vogliamo il parco, no alla cementificazione selvaggia». Protestavano affinché gli oltre 140 ettari di agro romano del comprensorio non vengano sventrati da edifici, palazzoni, strade, affinché il verde e l’archeologia si salvino. Questa urgenza la «manifesta» con chiarezza un libro che l’esito del voto laziale rende ancora più utile: è Il riscatto dell’agro. L’agricoltura a difesa del paesaggio (172 pagine con foto, Minerva). L’ha curato per il precedente assessorato all’agricoltura della Regione uno dei nostri editorialisti, Vittorio Emiliani, e attraverso saggi di più autori su più discipline e foto racconta quel territorio, il suo sogno di bellezza, le ferite, gli sventramenti, i pericoli che corre.

L’ACCELERATORE SULL’EDILIZIA

Roma, ricorda Emiliani, era il più vasto comune agricolo d’Italia, oggi non più. Dal 2000 al 2007, registra il curatore, la città ha premuto sull’acceleratore «della nuova edilizia, fra l’altro tutta di mercato». Per più ragioni. Tra le principali: i Comuni italiani sempre più in affanno possono usare quanto ricavano dagli oneri di urbanizzazione per ogni tipo di spesa quando con la legge Bucalossi del 1977 erano obbligati a reinvestirli e a non alterare il suolo; per di più, la mazzata, senza più l’Ici sulla prima casa le amministrazioni hanno un bisogno estremo di raccattare soldi e far costruire è il sistema in teoria più diretto. Esiste, è vero, l’emergenza- casa. La vivono per primi sulla pelle i giovani precari, gli anziani, gli immigrati, le famiglie con redditi modesti. Si costruisce per loro dunque? Emiliani snocciola un dato che chiarisce come sia un pretesto: gli alloggi sfitti, vuoti o usati precariamente sono ben 245mila, e non solo nel centro.

Un dato. Nel suo saggio Francesco Erbani, giornalista, registra come nella provincia romana dal 1990 al 200 le aziende agricole siano scese da 72 mila a 60 mila e gli ettari coltivati da248 mila a 193 mila ettari (meno 22%). Ritiene che la lobby edilizia condizioni il Campidoglio chiunque sia il sindaco. Alla giunta Veltroni imputa il milione e 300 mila metri cubi costruiti nell’area di Caltagirone a Tor Pagnotta.

Segnala allarmato il progetto di un’autostrada fra Roma e Latina «che intaccherebbe gravemente la riserva naturale di 6 mila ettari di Decima Malafede». E ricorda che la giunta comunale di Alemanno vuole trasformare i casali abbandonati in abitazioni, con, annesse, «isole ecologiche per il deposito temporaneo di rifiuti ingombranti, di fatto ancora discariche, legali, ma discariche ». «Ci sono ben 200 casali abbandonati – osserva l’ex assessore all’agricoltura Daniela Valentini – Alemanno ha avviato una battaglia per recintarli e costruire. Altro invece andrebbe fatto e lo avevamo proposto per recuperarli senza devastazioni: invece di villette a schiera ristrutturiamoli e trasformiamoli in servizi di qualità per la metropoli, dagli asili a centri di accoglienza per malati. Avevamo stanziato due milioni di euro per i privati affinché li ristrutturino creando servizi partendo dall’agricoltura: era una risposta avanzata, così l’agro romano rimane intatto e diventa vivo. L’idea di Alemanno è invece spregiudicata e devastante, dice di costruire perché mancano le case». Con la sintonia politica con la Regione, la strada per costruire è spianata.

Da sempre, e oggi più che in passato, la città è stata, ed è, il luogo dei conflitti, dove si esercitano concretamente i diritti e i doveri, si misurano le differenze, si osservano le condizioni di miseria insieme all'ostentazione delle ricchezze, il luogo della politica, delle convivenze, più o meno pacifiche, il luogo, in ultima analisi, dove si svolge la vita reale e quotidiana delle persone, come si dice, in carne ed ossa, dove si partecipa alla vita collettiva e tuttavia si consumano solitudini.

Quella di Roma è una storia particolare. Una città che vive in simbiosi con le sue periferie (senza periferie non ci sarebbe Roma); una città che ne ospita un'altra (il Vaticano); una città soffocata da un passato glorioso tanto che essa somiglia - è stato detto - alla sua autopsia; una città che non è mai stata moderna, che anzi ha resistito con tenacia a qualsiasi tentativo di modernizzazione (perfino la metropolitana a Roma fa fatica a realizzarsi). La città dell'incanto e del disincanto; città astuta e sorniona; città che assorbe nel suo grande ventre (della storia) qualsiasi innovazione piegandola ai suoi ritmi lenti e sonnacchiosi, dove il vissuto è sempre più ricco del pensato, e del progettato.

A James Joyce, dice Ferrarotti, questa città faceva venire in mente un tale che sbarca il lunario, dietro compenso, esibendo il cadavere della nonna. A differenza di altre città, la "romanità" è una caratteristica incerta. Il dialetto romanesco, a parte certe folkloristiche rappresentazioni, è sparito da tempo; l'accento si rileva con difficoltà: borza anziché borsa, le doppie ridotte a una consonante forse per pigrizia o per risparmiare parole.

Senza indugiare a sentimentalismi o romanticismi, si potrebbe anche dire che Roma è una città mistero. Mistero poiché sono stati in molti, da Goethe, a Simmel fino a Pasolini, a tentare di afferrarne l'anima, a descriverne l'immensa complessità e poliedricità. Descrizioni attente, dettagliate, curiose, che tuttavia quasi mai, se non a tratti, se non per una parziale sintesi, riescono ad essere esaustive. Questa città appare inafferrabile, indicibile: non appena tenti di descriverne un aspetto, appare subito la sua faccia opposta: generosa ma anche cinica, bellissima e tragica, seducente e traditrice, puttana, è stato detto, come si addice a chi si concede facilmente ma, subito dopo la seduzione, per abbandonare il sedotto al proprio destino.

Non è, non lo è mai stata, una città veramente moderna. Una città industriale, per esempio, come Milano o Torino. E neppure mai è diventata, nonostante la sua gloria, una delle città mondiali, come Parigi, Londra, New York. Pare quasi che la sua immensa fama le abbia riservato un destino a parte, una condanna alla solitudine dei suoi antichi fasti, una grande nobile decaduta che non si mescola con le altre, stizzosa e fiera ma anche miserabile e cialtrona.

E tuttavia, nel quindicennio di amministrazioni di sinistra questa sua poliedrica narrazione è stata semplificata riducendola a quella di una città in attesa di modernizzazione. Roma sempre in "ritardo" rispetto alle altre grandi metropoli mondiali.

Una lettura condivisibile solo se si resta alla superficie del problema. In realtà, semplificante, mutilante, manipolante. L'ambiguità di aver dato come implicito un valore assolutamente positivo e progressivo al concetto di modernizzazione. Esso, infatti, è definito in un quadro dominato, cito Cassano, «da un ottimismo storico che vede lo sviluppo come un gioco libero ed aperto, nel quale tutti possono entrare con la speranza di partecipare ai suoi benefici, ma anche di scalare le posizioni e risalire le gerarchie». Nel caso romano c'era un secondo motivo di ambiguità. Il cosiddetto sviluppo conseguente alla modernizzazione riguardava sostanzialmente il centro storico (eventi, notti bianche, festival, ecc.) nella falsa convinzione e presunzione che esso fosse cuore e motore della città. Ma a chi spettava colmare questo cosiddetto "ritardo" e in quale modo?

Qui è nata quella sorprendente invenzione veltroniana chiamata "Modello Roma" che in poco tempo non solo è stata propagandata come una politica locale destinata a riscuotere un grande successo, ma che, successivamente, si è tentato di esportare a livello nazionale come esempio di una alleanza virtuosa tra amministrazioni pubbliche e privati in grado di superare i tradizionali e nefasti impedimenti del passato. Questa invenzione magica, lo sappiamo, è stata letteralmente battuta alle elezioni amministrative del 2008 con la sconfitta della candidatura di Rutelli, successore designato personalmente dal Grande Inventore Veltroni.

Ora quella politica, la modernizzazione, viene impugnata dal sindaco Alemanno quasi senza soluzioni di continuità, come a dimostrare che essa non è né di destra né di sinistra, ma una sorta di necessità storica che ci consente di tenere il passo con chi è più avanti di noi. È singolare che gli ideologi della politica comunale di Veltroni accusino il nuovo sindaco di avergli rubato le idee, anziché chiedersi come mai una politica urbana di sinistra sia stata accolta così favorevolmente da una amministrazione di destra. È così che per decidere il destino di questa città vengono chiamate le più celebri archistar del mondo (Piano, Fuksas, Calatrava, ecc.), come se la città, questa città poi, fosse un insieme di architetture sparse e poi nient'altro. La spettacolarizzazione è figlia diretta della modernizzazione: basta un giro di manovella, un pifferaio magico e la realtà si trasforma: anziché miserie e povertà ecco i grattacieli, la nuvola, lo stadio del nuoto: tutti saremo più felici e meno poveri.

E le periferie? Se mi si consente un'analogia direi che è come nelle ferrovie: l'importante è che Freccia Rossa possa arrivare da Roma a Milano prima dell'aereo, poi la moltitudine dei treni pendolari può anche attendere. Un vero progetto moderno dovrebbe gettare le basi per una città dell'accoglienza. Del profugo, dell'esule, del barbone, del discriminato, del diseredato, dell'immigrato, del diverso. Una città delle differenze.

Diceva Brecht: beato quel popolo che non ha bisogno di eroi e... aggiungo io, nemmeno di archistar.

C'era una volta l'urbanistica. Quella scienza inesatta perché politica che disegnava le città sulla base delle esigenze economiche e sociali di chi le abitava, cercando di armonizzare il progetto architettonico con il contesto ambientale. Quel faticosissimo esercizio prima intellettuale e poi materiale attraverso cui i governi territoriali dialogando o confliggendo con i cittadini hanno trasformato le città, a volte con successo più spesso malamente, assumendosene tuttavia la responsabilità culturale e politica nel confronto con i propri cittadini.

La nobile funzione pubblica di regolare lo sviluppo urbano piegandolo all'urgenza dei bisogni collettivi sembra definitivamente estinta. Forse era inevitabile, troppo generosa negli intenti, ingenua come sono ingenui i buoni sentimenti che rifuggono dall'acidità di un reale contraddittorio e indomabile; ma anche debilitata dal suo eccesso di illuminismo, di quella volontà di ordinare ciò che di per sé è disordinato: un po' come mettere le mutande al mondo.

Sia come sia, pietà l'è morta.

I funerali si sono celebrati a Roma, giovedì e venerdì scorso, guarda caso tra le navate di un tempio dell'architettura contemporanea, l'Auditorium di Renzo Piano. E' stata una cerimonia fastosa, in cui il verbo architettonico ha raggiunto il popolo dei muratori, e una manciata di chierichetti-amministratori a scodinzolare e gongolare. Si doveva ragionare intorno al futuro della capitale, che è la città più grande e complessa e maltrattata d'Italia, e ciascuno ha tratteggiato il proprio. Bello, brutto, così così, non importa. Si trattava solo di sventolare suggestioni e proiettare visioni.

E' stata una narrazione molto coinvolgente, contrappuntata da torri da erigere e muretti da abbattere, sviluppi abitativi verticali e sistemi fognari orizzontali, nuvole sognanti e lampioni lampanti, abbattimenti ricostruzioni riconversioni, piazze piazzette fontanelle, alziamo qua, prendiamo lì, l'austerità ottocentesca, la marmellata novecentesca, la periferia chissenefrega. Ecco il futuro di Roma. Pezzi e pezzetti, strapuntini sparsi, un po' di monumentalità architettonica. Uno slancio creativo decontestualizzato e indifferenziato, stagliato su una modestissima panoramica dell'esistente che oltretutto fa anche un po' schifo.

Qualcuno in città aveva sospettato che la conferenza urbanistica (urbanistica?) di Alemanno sarebbe stata una vetrina infiocchettata, uno specchio delle vanità politiche della destra che si sente ormai padrona. L'avevano pure dichiarato comitati, movimenti, associazioni, sindacati, Municipi ed esclusi vari, qua e là, senza tuttavia ricevere riscontri significativi: c'era il timore di apparire ostili alla contemporaneità più o meno progressista, di prendersela con Calatrava, Fuksas, Piano, Meier e tutti gli altri (ma siamo matti?). Be' è stata perfino peggio. Ma non per ciò che si è proposto, che si è ipotizzato, per le nuove idee che pure sono affiorate. Ma per la semplice ragione che è andata perduta un'occasione di progettare organicamente la città, di comporre un minimo di quadro urbanistico che delinei ciò che bisogna fare di Roma. Insomma, una conferenza urbanistica senza urbanistica.

Che il sindaco Alemanno non abbia minimamente idea di come andare avanti, di come gestire la città e di come prefigurarla, è cosa nota a tutti, perfino a lui. Ed è per questo che l'incontro fieristico che si è svolto all'Auditorium l'aiuta in questa sua strutturale inconcludenza. Nessun intento pianificatorio, un po' di progetti disaggregati ed episodici e l'imminente trasferimento dei beni demaniali di cui far mercimonio. Quanto al piano regolatore approvato due anni fa, basta continuare a far finta di niente, magari implementarlo di cubature se il mercato lo ritiene necessario, accoglierne qualcosa di conveniente, e per il resto è carta straccia.

Ormai nessuno più a Roma si arrocca intorno a quel piano, che sappiamo non essere indenne da numerose e pesanti incongruenze, esito di un compromesso politico tra urbanistica negoziata e urbanistica partecipata. Ma è tuttavia un tentativo di coordinare lo sviluppo futuro della città sulla base di un ragionamento e di un senso: condivisibile o meno, si configura come una pianificazione organica. Prevede che la città cresca intorno a uno schema policentrico, conferma la vincolistica sul sistema dei parchi e sull'Agro romano, prefigura un consistente intervento risanatore sui tessuti urbani intermedi, e così via.

Ma è proprio questa «pretesa» di determinare il dove e il cosa che la destra romana (la destra tutta) vuole definitivamente superare e liquidare. Intanto, facendo capire che Roma è nata e cresciuta così, con un esteso centro storico congestionato da funzioni urbanistiche pesanti, e così deve restare; con la conseguenza che tutto il resto fino all'estrema periferia continuerà a essere un gigantesco contenitore di case d'abitazione sovraccaricato di traffico e sottodimensionato di servizi. L'idea insomma di alleggerire la città storica, e finalmente riconsegnarla al suo ruolo di bene culturale «naturale», per trasferire più in là le grandi attività e i poli funzionali, e così dare slancio urbanistico alle periferie, viene di colpo affondata. Eppure, senza voler ricorrere ad argomentazioni disciplinari, chiunque, anche in Campidoglio, sarebbe in grado di elaborare questa semplice equazione a saldo zero.

E' che la cultura del sindaco e dei suoi è un po' limitata. Preferiscono che tutto resti com'è, perché intervenire è difficile e perché in fondo è meglio non scombinare troppo, vivacchiando alla giornata e passando la nottata. Per il resto, godiamoci quanto altri hanno realizzato, completiamo quel ch'è già in corso, magari ritocchiamo e così facciamo finta di avere qualche idea, e poi domani è un altro giorno.

Si pensava che il peggio fosse l'urbanistica contrattata con il mercato. Ma nessuno pensava che saremmo arrivati all'urbanistica del chissà chi lo sa.

Perché il comune di Roma ha riunito archistar come Piano, Richard Meier, Calatrava e Fuksas (incluso Krier, escluso malgrado le sue proteste quel Salingaros che vuole costruire settant'anni dopo l'arco di Libera come porta dell'Eur...), all'Auditorium per parlare del futuro di Roma? In un presente predisposto al servilismo nei confronti del potere, abbiamo così perso l'abitudine al progetto da confondere i ruoli. Il futuro delle città non si può certo delegare al firmamento degli architetti. Questi possono dare forma a un'idea di città, che però nasce da scelte che sono di esclusiva pertinenza dei cittadini attraverso le forme della democrazia. Sempre che non si voglia confondere il Sindaco col Papa Re, chiamando a raccolta gli architetti del Principe. La debolezza di un'idea del futuro della città, com'è quella che si sta faticosamente assemblando dal Campidoglio tra Formula 1 all'Eur, Velodromi fatti saltare con la dinamite e una serie d'interventi ciascuno chiuso nel proprio recinto (questo hanno in comune Nuvola, Maxxi, Città dello Sport, Ara Pacis...) si riflette nell'architettura. L'architetto è come una spugna, assorbe quello che lo circonda: per questo la chiesa romana di Meier è superiore alla Teca dell'Ara Pacis, conosciuta dai tassisti come Museo Valentino, nella cui forma insicura l'esperto può ritrovare i tentennamenti capitolini. Non aiutano i dieci quesiti, a metà tra il burocratese e i cartigli dei Baci Perugina, proposti agli illustri invitati. Ecco svelato l'arcano! La riunione serviva da scenografia per annunciare che Richard Meier acconsente alla richiesta di modifiche alla teca dell'Ara Pacis, cancellando il muretto che si sovrappone alla visione delle facciate di San Rocco e San Girolamo.

Si può capire Alemanno, che le elezioni regionali hanno avvisato di una crisi nel rapporto con quell'elettorato che - un po' per caso un po' per protesta - lo ha spedito in Campidoglio... Appena eletto aveva dichiarato che avrebbe demolito l'Ara Pacis, ed adesso ha qualcosa per il piccone ... Si capisce meno il masochista Meier, che ha definito «stupenda» l'idea... Paolo Berdini ha messo in evidenza la ragione urbanistica - al di là delle dichiarazioni sul rapporto da recuperare tra Largo Augusto ed il Tevere, che certo non passa per poche decine di metri pedonalizzati - dei lavori annunciati. L'abbattimento del muretto distrae dalla realizzazione di un parcheggio sotterraneo, che dovrebbe sostituire quello abortito del Pincio, in una posizione inopportuna se non si vuole rinunciare per sempre a un Lungotevere dolce, passeggiata restituita ai pedoni e percorsa al più da un tram, assolutamente diverso dall'attuale arteria di scorrimento veloce. Questa stupenda demolizione rappresenta anche, se non un'offesa architettonica a Roma, qualcosa forse di peggio, un borbonico facite ammuina.

L'Ara Pacis di Meier in sé è poca cosa - e dunque non ha molto da perdere da un'alterazione (anche se questo non giustifica il cinico realismo che Meier ha dimostrato in quest'occasione). Non c'è però soltanto l'Ara Pacis in questo luogo: c'è il Mausoleo d'Augusto, costruito in relazione precisa con il Pantheon, e che ha generato (come sembrano dimostrare le più recenti ricostruzioni archeologiche della sua forma), il Mausoleo di Adriano. Una sorta di triangolo ideale: Castel Sant'Angelo, Pantheon, Augusteo, di grande importanza per comprendere il senso della città. Largo Augusto Imperatore fin dalla sua realizzazione si è rivelato uno dei luoghi più deboli della Roma del Novecento fascista, dove è tanto forte il sentimento della perdita di ciò che è stato demolito (il vecchio Auditorium della Corea, dove ha diretto Gustav Mahler all'inizio del '900), quanto metafisicamente pesante il nuovo. Qualcuno ricorderà Dov'è la libertà di Roberto Rossellini. Totò interpreta la parte di un barbiere di via dei Pontefici, condannato all'ergastolo per aver tagliato la gola all'amante della moglie, scarcerato per buona condotta dopo quasi trent'anni, e che non ritrova più la città in cui era cresciuto in questa gelida esibizione di travertino e colonne. Per restituire senso al luogo, bisogna lavorare sulle relazioni, sul gioco delle sovrapposizioni temporali, con leggerezza, altro che paranoia dei dettagli! E c'è una questione di principio, la difesa del diritto d'autore dell'architetto, cioè della sua libertà d'immaginazione, minacciata dall'arroganza di una politica debole che vuole sembrare forte. Alemanno ha già imposto a Renzo Piano la formula vetro e travertino per il mezzo grattacielo annunziato all'Eur. Non andrebbe incoraggiato a indossare improprie vesti neroniane. Ne può guadagnare il mediocre teatrino della politica, non certo il futuro della città. Rischio il conflitto d'interessi, facendo parte del gruppo Cellini che ha vinto il concorso per il nuovo assetto di Largo Augusto. Per ridare carattere a questo luogo, oggi sospeso tra capolinea degli autobus ed interventi irrisolti, sarebbe molto più importante dare inizio al cantiere per la sua realizzazione, che non segare muretti.

Iniziati i lavori del summit sull'architettura e l'urbanistica della capitale all'Auditorium con molti grandi esperti nazionali e internazionali.

''Il workshop è il primo passo verso l'attuazione e la revisione del nuovo Piano Regolatore Generale di Roma''. A dirlo il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, aprendo i lavori del summit sull'architettura e l'urbanistica che vede presenti all'Auditorium Parco della Musica molti grandi architetti nazionali e internazionali. All'esterno protesta dei presidenti del V e X municipio, rispettivamente Ivano Caradonna e Sandro Medici.

''Rispetto al Prg approvato dalle precedenti amministrazioni il nostro atteggiamento è duplice: da un lato difendiamo la definizione dei diritti ottenuta dopo una decennale trattativa tra i principali soggetti economici e imprenditoriali della città, ma soprattutto difendiamo l'intento redistributivo che esiste nel piano che può generare un risultato economico per la collettività di almeno 5 miliardi di euro. Questo valore redistributivo oggi è attaccato da sentenze del Tar che rimettono in discussione la quota di edificabilità riservata al comune e il contributo straordinario''. Alemanno parlando ancora di Meier, il giorno dopo il via libera della modifica del museo dell'Ara Pacis, ha infine detto che "con l'architetto americano potranno essere possibili nuove collaborazioni. Io vedo benissimo le opere di Meier nelle periferie perché hanno uno stile moderno in grado di dare valore artistico a zone periferiche".

A margine dei lavori l'architetto Massimiliano Fuksas ha parlato anche della sua famosa ' Nuvola': ''Sta bene ed è in ottima salute - ha detto Fuksas - La stiamo costruendo e tutto sarà concluso entro circa 2 anni da oggi, ad inizio 2012''. L'architetto ha spiegato che ''la teca è quasi finita, ora stiamo per partire con la struttura sospesa, la nuvola in senso stretto". Sulla lama, ovvero il mini grattacielo hotel, Fuksas ha aggiunto: ''Forse sorgerà anche prima del Centro congressi, le cose non stanno andando male''.

"Questa è una messa in scena. Dopo due anni di immobilismo, mentre la città peggiora sensibilmente nella sua funzionalità strutturale e si deteriora nelle condizioni sociali, non saranno queste due giornate di discussioni sull'urbanistica a rianimare un'amministrazione inconcludente", si concretizza in queste righe il senso della protesta messa in scena questa mattina all'entrata dall'Auditorium dai presidenti del V e X Municipio, Ivano Caradonna e Sandro Medici. I due presidenti hanno deciso di distribuire alcuni volantini per protestare per il loro mancato coinvolgimento. Non è mancato qualche attimo di tensione quando Medici e Caradonna, proprio mentre volantinavano, sono stati identificati dalle forze dell'ordine ed invitati ad allontanarsi. Dopo una discussione accesa, però, i due sono rimasti al loro posto concludendo la distribuzione della loro lettera aperta al sindaco.

"Non abbiamo atteggiamenti pregiudiziali nei confronti dei progetti della precedente amministrazione. Il problema più grosso non erano le idee ma il fatto che fossero progetti non finanziati". Lo ha detto stamani il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, stamani a margine del workshop internazionale sull'urbanistica in corso all'Auditorium. "Abbiamo fatto un grande sforzo di riprogrammazione per opere come la città dello sport di Tor Vergata e la Nuvola di Fuksas", ha aggiunto il primo cittadino che, sull'opera disegnata da Calatrava, ha precisato: "la città dello sport è un intervento molto pesante dal punto di vista economico, per cui mancano 400 milioni di euro all'appello. I lavori sono però iniziati e la completeremo rendendola funzionale al progetto olimpico". Quanto al Campidoglio 2, ovvero la ex Manifattura Tabacchi in zona Ostiense dove saranno spostati alcuni dipartimenti del Comune, Alemanno ha annunciato che "sarà indetta una nuova gara sia per la progettazione che per la realizzazione, senza costi diretti per l'amministrazione". Il sindaco ha infine parlato della Città della musica, "di cui stiamo verificando la possibilità di realizzazione accanto al progetto 'Fonopoli' di Renato Zero".

"Fonopoli potrebbe essere spostata in un'altra zona - ha aggiunto l'assessore all'Urbanistica Marco Corsini - Sarà, comunque, collocata dentro una centralità ed in una delle funzioni urbane, come quella ricreativo-musicale-culturale". "La decisione - ha precisato Corsini - non è ancora presa. Abbiamo iniziato un grande processo di riflessione globale e strategica all'interno della quale tutte queste questioni troveranno una definizione".

In relazione all'imminente trasferimento degli edifici militari dismessi dallo Stato al Comune di Roma, Alemanno ha spiegato che "nelle caserme di Prati, a via delle Milizia, possiamo pensare di creare una realtà direzionale vicina al centro storico, possiamo pensare di utilizzarle per creare una nuova Cittadella giudiziaria o farne un luogo dedicato agli artigiani, una sorta di Cittadella dell'artigianato". Ma in generale, secondo il sindaco, le caserme andrebbero demolite: "E' inutile tenere queste realtà definite su funzioni che non ci sono più - ha detto - Sono per la demolizione e per progetti che si muovono ex novo: ci dovremmo confrontare con la soprintendenza ma credo che bisogna lasciare spazio a interventi nuovi senza autocostringersi a una sorta di archeologia industriale che nel caso delle caserme non si può applicare".

Il sindaco ha ripercorso il tentativo, tra gli anni '60 e '70, di portare alcuni ministeri in periferia, tentativo fallito perchè molti ministri non accettavano di essere lontani dal centro storico. "Bisogna dare più spazio a uffici e ministeri che esistono e che sono addensati caoticamente nel centro storico: non si può pensare di prenderli e portarli in periferia ma si possono decentrare nella città storica", ha detto Alemanno, spiegando che il concetto di 'città storica' è riferito a tutta l'area che circonda il centro storico in senso stretto, comprendendo quartieri come Appio, Nomentano, Garbatella, Eur.

L'assenso di Richard Meier all'idea di abbattere il muro che delimita l'Ara Pacis è il peggior auspicio - purtroppo per il sindaco Alemanno - del consulto con le archistar sul futuro di Roma (Roma 2010-2020: nuovi modelli di trasformazione urbana, oggi e domani, Sala Petrassi, Auditorium). Dice il candido progettista che abbattere il muro è «un'idea superba». Ha lavorato per dieci anni al progetto. È l'autore del muro e oggi afferma che abbatterlo è un'idea stupenda. Se questi sono i medici chiamati al capezzale del malato, non c'è da stare allegri.

Chissà dov'era il grande architetto mentre la migliore cultura urbanistica discuteva con passione e competenza della necessità di guardare oltre al banale intervento di demolizione e ricostruzione della teca di Morpurgo che ricopriva l'Ara Pacis. Evidentemente, troppo preso dalla propria maestria, non si è accorto che Leonardo Benevolo, soltanto per fare il nome di maggior autorevolezza, era intervenuto decine di volte criticando alla radice l'intervento limitato al solo rifacimento di un edificio. Piazza Augusto imperatore aveva infatti subito durante il fascismo una serie così violenta di sventramenti che rimettere mano soltanto a un pezzo del mosaico sarebbe stato un errore imperdonabile che avrebbe generato un ulteriore peggioramento della qualità dei luoghi. E così è stato.

Sostiene ancora il grande architetto: «Non sapevo che il traffico del lungotevere potesse essere canalizzato sotto e che l'area si potesse pedonalizzare». Meier confessa dunque di ignorare che esistono proposte di radicale trasformazione dei lungotevere così da restituirli alla città. Sono anni che il grande urbanista Italo Insolera propone, inascoltato, che il lungotevere di sinistra venga pedonalizzato e destinato a esclusivo uso di una tramvia che dalla Piramide (nodo metro B e lido di Ostia) collegherebbe con il Flaminio (nodo metro A e ferrovia Roma nord), restituendo in questo semplice modo - a tutti i romani - una straordinaria passeggiata. Non sapeva e oggi benedice un'operazione costosa e inutile che causerà l'abbattimento degli storici platani e sarà ripagata con la creazione di un numero imprecisato di parcheggi privati. E, visto che siamo in tema, sarebbe il caso di avvertirlo che lì sotto ci sono i resti del porto di Ripetta. Forse a Las Vegas ci si può passare sopra, da noi ancora no, per fortuna.

È ancora felicissimo Meier perché l'abbattimento del muro «consentirà di vedere la chiesa di San Rocco». Davvero? Quando a dirlo era la migliore cultura storica non ascoltava evidentemente, perché è stato lui a costruire una orribile terrazza che sfregia per sempre la delicata facciata di quella chiesa. Altro che muro, è la terrazza che offende San Rocco.

Non è con la somma di tanti progetti o edifici griffati che si realizzano le città. I grandi architetti privilegiano le loro opere e il trionfo di cui godono in ogni parte d'Italia deriva proprio dalla volontà degli amministratori di ogni appartenenza politica di parlare d'altro, di nascondere dietro a nomi roboanti un vuoto di idee preoccupante. Meglio il colpo mediatico e tenere rigorosamente fuori della porta i numerosi comitati che, in questi anni, hanno dimostrato una visione complessiva della città. Il convegno all'Auditorium è infatti blindato alla partecipazione: uno strano modo di consultare la città imbavagliandola. È questo il limite culturale che preoccupa.

Con la notizia dell'abbattimento del muro, dunque, il sindaco Alemanno ha decretato il fallimento della medesima kermesse mediatica che ha organizzato. Ha reso evidente che non di architetti bravi ha bisogno Roma, ma di urbanisti. Le patologie della città sono di natura urbanistica, derivano da una eredità di feroci speculazioni e dal fallimento del «pianificar facendo» dei quindici anni del centrosinistra conclusosi con il peggiore piano urbanistico della storia della città, il piano del sacco di Roma.

La complessa vicenda dell'Ara Pacis dimostra che senza un'idea complessiva del futuro di Roma con i tanti progetti estemporanei che vanno dalla Formula 1 all'Eur alle isole artificiali davanti a Ostia, dal parco divertimenti della «Roma imperiale» alla candidatura alle Olimpiadi del 2020, non si va lontano: si va contro a un muro, anche se firmato da archistar. Le città sono un delicato equilibrio di luoghi pubblici e beni comuni che vanno trasformati con cautela e rigore ascoltando i suoi abitanti. E Roma ha invece bisogno di una sola opera, quella di essere ripensata sulla base delle reali esigenze delle desolate periferie.

E se qualcuno dei blasonati ospiti al simposio citato obietterà che «non ci sono i soldi» per risanare le periferie, qualcuno provi a sussurragli all'orecchio - nella lingua d'origine, naturalmente - che il sistema Protezione civile ha sperperato trecento milioni di euro soltanto per le inutili opere della Maddalena e a Roma ha erogato prestiti a tassi agevolati con il credito sportivo (che dunque paghiamo noi) a impianti sportivi privati prescelti solo perché specializzati in massaggi corporei a largo spettro. Non è vero che non ci sono i soldi per le nostre dolenti città. È vero, casomai, che spariscono prima.

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