San Lorenzo non abita più qui
di Eleonora Martini
La notizia, riportata sulle cronache romane dei quotidiani qualche giorno fa, e rimbalzata sui siti di movimento, ha avuto l'effetto di uno schiaffo che risveglia da un sonno narcotico. «San Lorenzo, aggressione razzista di un centro sociale contro i rifugiati». Ma come? San Lorenzo, il quartiere rosso per eccellenza della capitale. E perdipiù i brutti ceffi in questione - due o tre, armati, secondo quanto riportato dalle cronache, di coltellacci -, che avrebbero insultato i rifugiati del Darfur al grido di «negro di merda torna a vendere banane nel tuo paese», sarebbero frequentatori del «32» di Via dei Volsci. Un centro sociale che in Italia e non solo è sinonimo di estrema sinistra: dall'Autonomia operaia in poi, in quelle stanze - chiuse negli anni '80 e riaperte nell'attuale veste solo negli anni '90 - sono passate almeno due o tre generazioni di militanti comunisti. Da lì e da Radio Onda Rossa, a cento metri sulla stessa via, il germe della militanza si è diffuso negli anni a raggera. Sono figli di quella storia molti dei centri sociali romani e tante esperienze movimentiste degli ultimi decenni. «Il centro storico del movimento, un centro sociale diffuso», come lo definisce Nunzio D'Erme, ex consigliere comunale e tra i portavoce del «32». E allora, come è possibile un attacco razzista in piena via dei Volsci?
L'evento di per sé non è degno di particolare nota: sono volati insulti razzisti e nient'altro, ma soprattutto i rifugiati sudanesi si sono trovati solo nel posto sbagliato al momento sbagliato. La bega privata, tra i protagonisti della lite, non ha alcun interesse di cronaca e si è risolta con l'incontro tra gli avvocati di parte. Rimane un solo dato di fatto: gli attuali frequentatori del «32» e di via dei Volsci - ma il ragionamento si potrebbe estendere a molti se non a tutti i centri sociali, almeno quelli romani - si nutrono del buon cibo prodotto dalle cucine dell'osteria ma molto raramente della sua cultura fondativa. Il razzismo, anche solo quello delle parole, è un'onta che loro stessi, i «compagni del 32», non vogliono rimuovere. Si interrogano come forse non avevano mai fatto prima - e gliene va dato atto -, indicono riunioni, costringono alle scuse chi ha offeso, incontrano i rifugiati vittime del brutale episodio invitandoli, domani, a un'iniziativa nei locali del centro sociale e sabato ad una trasmissione dai microfoni di Radio Onda Rossa.
Basta? «No - scrivono in un comunicato diffuso on line - Perché l'intervento sul tessuto sociale più disagiato, con le problematiche anche gravi annesse, rappresenta una delle ragioni stesse dell'esistenza del centro sociale, fuori dalle logiche assistenziali e di carità, che negli anni ha prodotto centinaia di iniziative di denuncia e di lotta per i diritti di tutti, ma anche di solidarietà concreta». Non solo immigrati, rom o rifugiati. Vent'anni fa, dopo l'uccisione di Auro Bruni, attivista del centro sociale Corto Circuito, morto in un rogo appiccato da estremisti di destra, i militanti romani fecero una scelta ben precisa: lavorare soprattutto nel proprio territorio; nel caso di San Lorenzo in un quartiere proletario che allora non era ancora il divertificio smodato e a tratti ributtante che è oggi.
La «gentrification» era solo agli inizi, la camorra non aveva ancora interessi locali, la legge Fini-Giovanardi sulle droghe non esisteva, mentre oggi è tra quelle vie che si possono misurare gli effetti nefasti di un mercato senza scrupoli e uno spaccio senza separazioni tra sostanze leggere e droghe pesanti. Solo più tardi la legge Bossi-Fini relegherà all'ultimo gradino della scala sociale profughi e immigrati, senza via di fuga. La sfida allora era soprattutto quella di sottrarre i giovani borgatari alle organizzazioni neofasciste, alle curve ideologizzate dall'estrema destra, allo spaccio, alle palestre «nere». «Non a caso decidemmo di ripartire dai corpi - racconta Rino Fabiano, consigliere comunale di Action nel III Municipio - aprimmo una palestra popolare nel quartiere che fu la prima di una serie di iniziative di questo tipo e che oggi raccoglie giovani di qualunque provenienza etnica e culturale, perfino giovani fascistelli».
«Ci assumiamo la responsabilità che ci compete», ammettono nel comunicato dopo l'aggressione razzista. Ma prima di tirare le somme e di verificare fallimenti e errori, vale la pena approfondire il contesto. All'angolo tra Via dei Volsci e via degli Equi, fino a qualche anno fa c'era una sede della tifoseria romanista dove campeggiava una grande croce celtica. Ma i militanti del «32» riuscirono a intessere rapporti personali con gli ultrà di destra, neutralizzandone di fatto l'aggressività. Oggi San Lorenzo, inglobato nel centro storico capitolino, è però uno strano quartiere, che soffre di un degrado culturale forse peggiore di quello precedente alla gentrificazione. Qui, a differenza di Harlem o di Berlino, non c'è stata alcuna integrazione tra i tanti benestanti - artisti, professionisti, universitari - che vi sono trasferiti e i poveri locali, che pure resistono in alcune enclave. Le narcomafie, con la loro manovalanza locale immigrata e italiana, la fanno ormai da padrone. La spartizione delle piazze garantisce la pax mafiosa. Difficile, se non impossibile, oggi, tenere fede a quella regola ferrea che voleva spacciatori e droghe pesanti fuori dal «32» e da via dei Volsci. «Non l'abbiamo mica inventata noi Scampia, dove una dose di eroina o di cocaina costa pochi euro di più di una di marjuana - dice Nunzio D'Erme - E Scampia ora è arrivata fino qui».
Dunque, «l'idea che il lavoro politico sul territorio produca luoghi immuni alla violenza, al razzismo o al sessismo è una favola che non ci possiamo raccontare», fa notare Rino Fabiano. «Quello che è successo qui l'altro giorno accade purtroppo con frequenza nei condomini di case occupate. Stiamo parlando di persone che hanno conosciuto i riformatori giovanili o la galera, la violenza in famiglia o l'eroina». Ma a volte succede anche nelle palestre o nelle iniziative politiche, dovunque si intercetti il disagio delle periferie, ovunque si tenti di introdurre elementi di novità culturale in contesti proletari e marginali. Può succedere perfino in una partita di calcetto amatoriale tra squadre di diverse etnie, raccontano Fabiano e Nunzio D'Erme, seduti a ora di pranzo ad un tavolo del centro sociale insieme ad alcuni dei militanti del «32», prima di correre al lavoro. D'altronde, loro stessi sono «figli della strada». Rivendicano però con orgoglio, malgrado tutto - «malgrado il mercato, la spoliazione dei diritti e della cultura popolare» - le tante lotte di cui sono stati protagonisti e che senza il loro «controllo del territorio» non avrebbero potuto vedere la luce: dall'asilo nido ai campi estivi fino all'ultima occupazione, quella del Cinema Palazzo, sottratto a interessi speculativi che lo avrebbero voluto trasformare in un casinò. «Non solo antirazzismo di maniera».
Però, se il bicchiere è mezzo pieno, è pur sempre mezzo vuoto: «Se guardiamo ai militanti più giovani, è indubbio comunque un certo fallimento su cui dobbiamo interrogarci», riconoscono. «Oggi - continua Rino - la proposta culturale dei centri sociali è fruibile in qualsiasi locale, non c'è differenza tra chi frequenta un pub qui o al Pigneto e chi frequenta un centro sociale. Il fallimento è non aver cresciuto una nuova generazione politica; bisogna invece ristabilire il primato dell'impegno politico, rigenerare principi e idee, avvicinare le persone che sono alla ricerca di una vita migliore e più giusta». A cominciare dalle droghe, da quella legge Fini-Giovanardi di cui avevano previsto gli effetti ma a cui non hanno saputo far fronte. «Dobbiamo ricominciare a parlare di sostanze, di uso e abuso, senza scadere nel lassismo e nella ideologizzazione della cultura antiproibizionista che a volte degenera in esaltazione», conferma Nunzio.
«L'autogestione non è la panacea di tutti i mali - continua l'ex consigliere comunale - porta con sé i limiti e le contraddizioni dell'intera società». Senza dubbio, il loro lavoro «soffre di solitudine». Politica e culturale. Ma prendere atto del fallimento è già ricominciare. «È successo a tutti i movimenti di avanguardia, anche alle Black Panther, di accorgersi che a lavorare nella merda, la merda ti può fagocitare», commenta un giovane scrittore emergente molto vicino al «32» che non cerca protagonismi. Da discutere, però hanno ragione quando dicono che la storia del «32» non è molto differente da quella di altre esperienze della sinistra. «Se veniamo sconfitti noi, venite travolti tutti».
Paul Connett a San Lorenzo
«Nella città che cambia sempre più velocemente, dove gli effetti del malgoverno cittadino si sommano alle ordinarie dinamiche sociali di sfruttamento e alienazione, cambiano altrettanto velocemente le reti di relazione e il tessuto sociale delle comunità e dei singoli quartieri. In Via dei Volsci troppe attività hanno chiuso e quelle rimaste, a fronte di quotidiane difficoltà economiche e inutili vessazioni amministrative, conservano elementi di qualità nella proposta e di correttezza non formale nei rapporti di lavoro che ci spingono verso la loro tutela e salvaguardia». Per questo lo Spazio sociale Ondarossa Trentadue ha indetto una giornata di discussione. Mentre, per discutere un piano rifiuti adeguato alla città, l'appuntamento è per sabato 29 settembre presso la scuola Saffi di via dei Sabelli. Interverranno, tra gli altri, il presidente del municipio Roma 3, Dario Marcucci, e Paul Connett, docente della St. Lawrence University di New York.
Nel quartiere della fabbrica dei sogni
di Ylenia Sina
Fermare i licenziamenti, la speculazione ai danni del territorio e i tagli ai servizi sociali. Con queste idee ieri pomeriggio almeno mille e cinquecento persone hanno manifestato per le strade del Decimo Municipio di Roma. Dai lavoratori alle prese con delocalizzazioni, cassa integrazione e licenziamenti alle cooperative sociali, dai precari della scuola alle insegnanti dei nidi fino ad arrivare alle realtà sociali del territorio sostenute dall'amministrazione municipale rappresentata da Sandro Medici, il presidente che ha camminato a fianco dei manifestanti con la fascia da minisindaco.
Sono queste le diverse espressioni che hanno animato la giornata di "sciopero cittadino del X Municipio", con le adesioni di sindacati (Cgil, Camera del lavoro Roma Sud, Fiom, Unione sindacale di base e Cobas a cui si aggiungono le Rsu delle aziende locali) e una parte del mondo politico attivo nei circoli del territorio (Pd, Ecodem, Sel e Fds). «La scommessa è quella di declinare le questioni lavorative come elementi inseriti all'interno di un territorio che da un lato viene coinvolto e travolto da quanto accade al suo tessuto produttivo e dall'altro è sempre più indebolito dai tagli alla spesa sociale e dalla speculazione» spiega Cristiana Cortesi, consigliere municipale di Roma in Action.
La giornata di «sciopero territoriale» inizia la mattina con un'azione davanti alla Deutsche Bank, chiusa simbolicamente «contro il potere delle banche nel definire i destini dei nostri territori». Anche se l'appuntamento del pomeriggio è alle 17.30, due ore prima i manifestanti già iniziano a radunarsi in Piazza di Cinecittà, davanti alla sede del X Municipio, a ridosso di via Tuscolana. Ci sono le insegnanti dei nidi che denunciano «continui tagli che peggiorano condizioni di lavoro e il servizio alle famiglie». La Rete Roma Social pride e gli operatori delle cooperative sociali, alcune delle quali, fin dalla mattina hanno protestato «con uno sciopero bianco: abbiamo lavorato per un quarto d'ora in più» racconta un'operatrice che si occupa di assistenza agli anziani. Ci sono i precari della scuola che mercoledì sera hanno «occupato simbolicamente» la sede del municipio «non per opporci a questa amministrazione ma per chiedere di esprimere una posizione di netta contrarietà rispetto al concorso indetto dal ministro Profumo».
Quando i lavoratori di Cinecittà Studios, che proprio in questi giorni toccano da vicino l'avvio del piano industriale di «spacchettamento e delocalizzazione in diverse società» del presidente Luigi Abete, si uniscono ai manifestanti con un corteo nutrito e rumoroso, vengono accolti da un caloroso applauso. Per loro, dopo oltre tre mesi di occupazione e sciopero, proprio oggi «ci sarà un incontro tra la proprietà e i sindacati, motivo per cui abbiamo sospeso lo sciopero». Ci sono loro, i lavoratori degli studi cinematografici , quelli del call center di Almaviva al «nostro primo giorno di cassa integrazione avviata per 632 lavoratori perché l'azienda si sposta in Calabria» come spiega Andrea. Il corteo cammina su via Tuscolana (una delle principali arterie stradali della città). Il traffico si blocca, ma al passaggio dei manifestanti i balconi dei palazzoni da otto piani che chiudono ai lati la via, si riempiono di gente che ascolta e applaude alle parole che escono dalgli altorpalanti. E così accade per il resto del tragitto che continua all'interno del quartiere, fino alla conclusione in quella via Lamaro «che su un lato ha il muro della Fabbrica dei sogni romana e sull'altro la sede del call center di Almaviva». E proprio qui, quando ormai si è fatto buio, la manifestazione termina e inizia un'assemblea pubblica.
Più ancora degli stupri che devastano Roma e che tutti insieme, a partire dall'irresponsabile numero uno Gianni Alemanno, per pietas dovremmo sottrarre alle speculazioni politiche, è il crollo del muro del Pincio, segno di incuria ordinaria e di vandalismo amministrativo, ad anticipare il previsto, inesorabile conto alla rovescia per il sindaco di Roma.
Il crollo del Pincio è infatti il muro della modernità, non le rovine e le vestigia delle mura aureliane che continuano a sgretolarsi, sasso su sasso, dopo il disastro del 2007, ma i mattoni dell’architetto Valadier, pietre lavorate e disegno, i confini belli normali e solidi della città viva, il simbolo dell’eleganza e del garbo dei romani, la scena della bella époque italiana, dei primi baci, delle fughe adolescenziali, delle poesie di Pascarella e degli struggimenti di D’annunzio: «L’autunno moriva dolcemente».
Ebbene, il sindaco Alemanno e il sovrintendente Broccoli dicono che «la colpa del crollo del Pincio è della neve, della pioggia e del caldo secco», e nessuno ormai ride di loro perché nella città più scettica e più sgamata del mondo anche la comicità si è esaurita, e non funziona più l’antico sberleffo che sembrava eterno: «Facce ride’».
Sino a un mese fa proprio in quel tratto del paesaggio segnato dal nomos di Valadier era aperto un grande cantiere di restauro per il decoro della fontana e di alcuni dei busti che arredano come un Pantheon civile il bellissimo giardino. Vi si aggiravano, ben pagati, geometri e geologi, ingegneri, urbanisti, architetti, muratori e ovviamente i soliti professori responsabili della Sovrintendenza. Come mai nessuno si è accorto che quel muro stava per cedere? Eppure tutti mettevano i piedi su una pietra, che secondo il sindaco e il suo fidato Broccoli, era malata di meteoropatia più che di meteorologia.
Dare la colpa al tempo è il più facile dei luoghi comuni. E tutti sappiamo che Alemanno è diventato bersaglio di frizzi e lazzi di ogni genere perché ha imprecato e inveito contro la pioggia, la neve, il caldo. Una volta ha definito gli acquazzoni «un terremoto », poi si è battuto contro la neve andando in giro con una pala per domandare altro danaro al governo. Insomma Alemanno ha fatto del cattivo tempo il capro espiatorio di ogni cosa, dalla morte degli alberi ai crolli dei monumenti, alle buche nella strada… Il sindaco denunzia, sia in estate sia inverno, un’indomabile emergenza clima, una leopardiana natura matrigna. Ma a Roma, per rispondere alle emergenze, ci sono commissari per tutto, in qualche caso da oltre 15 anni. È commissariata la Sanità: il commissario è il presidente della Regione. È commissariata la mobilità: il commissario è il sindaco sin dal 1999, con rinnovi annuali. È commissariata la gestione dei rifiuti: prima fu affidata al presidente della regione, poi a vari politici, quindi ai prefetti e ora al prefetto Sottile. È commissariato il bilancio del comune: per la gestione dei debiti accumulati fino al 2008 il commissario, che prima era il sindaco, oggi è un dirigente del ministero del tesoro. Bisogna dunque commissariare anche la meteorologia con compartimenti specifici, uno per la pioggia e uno per la grandine, un assessore al vento e uno alla nebbia, e un sovrintendente per il cielo coperto e le nuvole a pecorelle.
E però il crollo del Pincio non contiene solo lo spauracchio del cattivo tempo ma, come una matrioska, nasconde e rivela anche il disastro del bilancio, che è filosofia politica prima ancora che cattiva amministrazione. Alemanno applica infatti la logica e la matematica delle professionalità speciali, delle squadre speciali, delle attenzioni sempre più speciali ad ogni evento, sia pioggia sia crollo. E si tratti di accumulo dei rifiuti o di risse nel centro storico, di aumento della criminalità e persino di stupri, Alemanno chiede finanziamenti sempre più speciali. E Roma, come il sud dei piagnistei, diventa l’ospizio di tutti gli eccessi, cresce la criminalità e la capitale si fa mafiosa. Alemanno chiede soldi del governo anche contro l’abuso di quella cartellonistica che è nelle mani di una cosca che controlla e vende gli spazi illegali alla pubblicità, tappezza clandestinamente di orrori le vie consolari e l’intera città come nessuna altra metropoli civile. E la cartellonistica invade, anche legalmente, il centro storico, al punto che in via Veneto non c’è palo della luce e orologio pubblico che non abbiano il suo piccolo obbrobrio pubblicitario. Il Comune, che guadagna sugli spazi legali, combatte solo a parole l’illegalità dei cartellonari, vere e proprie famiglie, piccole aziende potentissime, di cui io evito qui di fare i nomi.
Dunque Alemanno coglie anche l’occasione del crollo del Pincio per chiedere una proroga al patto di stabilità, vale a dire altro danaro. Come dicevamo prima, applica a Roma la scienza dell’emergenza che è tipica del Meridione. Invece di mettere a frutto le proprie capacità e i propri mezzi, come avviene per esempio nell’Emilia terremotata, Alemanno come i Cuffaro e come i Lombardo, sceglie la strada del pianto, del circo dell’emergenza che assale come le mosche l’animale ferito e pretende risorse, e non perché vuole rubare ma perché questa è politica, è macchina elettorale.
Ma il Comune, che non ha soldi per la manutenzione del Pincio, ne ha tanti per organizzare, nientemeno, una festa celebrativa della battaglia di ponte Milvio e dell’imperatore Costantino contrapposto al pagano Massenzio: la croce in cielo, in hoc signo vinces, contro l’aquila di Roma. Alla festa, che costerebbe un’ira di dio, Alemanno vorrebbe la presenza del Papa: preferisce la manutenzione elettorale alla manutenzione dei muri e delle strade di Roma.
E però il bilancio 2012 del Comune che, grazie ad un rinvio, sarà presentato addirittura ad ottobre, è già in deficit da buco nero, nonostante le mille deroghe e i mille rivoli finanziari per Roma capitale ottenuti in un profluvio di nuovi simboli, di inaugurazioni, di tagli di nastri e di chiamate in scena dei semi-vip. L’ultima “vittoria di civiltà” di questa spuma sociale è il trasferimento da Cortina nella capitale degli incontri mondani da cinepanettone intellettuale dei coniugi Cisnetto, sacerdoti e guru del generone romano e specialissimi consiglieri politici del sindaco.
Ma il crollo del Pincio rimanda anche al decoro complessivo che Alemanno dice non potere garantire senza altri soldi: «Scriverò al ministro Ornaghi per chiedere di intervenire sul governo perché si possa avere una deroga per gli interventi più urgenti». E mette le mani avanti: «Senza lavori continuativi c’è il rischio di altri crolli». Ogni giorno, per la verità, le cronache raccontano di crepe e di ferite, e nel giugno scorso addirittura alcuni frammenti di cornicione si staccarono dalla Fontana di Trevi. Anche allora il sindaco disse: «La colpa è della neve». E anche allora si rivolse al ministero: «Abbiamo pochi soldi e poco personale».
Ma al ministero, quando sentono la parola “personale”, mi fanno notare riservatamente che «non c’è nella storia dei comuni italiani un esempio di scandalo nepotista così grande come quello dell’azienda dei trasporti di Roma, l’Atac» dove sono state assunte sorelle, figli, nuore, segretarie, mogli, nipoti e fidanzate di assessori, di senatori e di deputati del Pdl, di sindacalisti della stessa Atac e di dirigenti di un’azienda che ha ora 120 milioni di debiti ed è molto vicina alla bancarotta
Ecco dunque che dal crollo del Pincio si arriva anche all’Atac, vale a dire all’emergenza trasporti, alla viabilità e al traffico che spinge Roma sempre più a Sud, sempre più simile a Palermo e a Napoli. Secondo i dati forniti dall’associazione “Roma si muove” «il 67 per cento dei romani si sposta con mezzi privati, auto e moto, e solo il 27 per cento con i trasporti pubblici che, per appena un terzo, sono su ferro (treno, metrò, tram)». Le conseguenze sono che la Roma di Alemanno ha il primato negativo per morti e feriti sulla strada e per emissioni di anidride carbonica. L’associazione “Roma si muove”, lanciata dall’ex assessore alla Cultura Umberto Croppi, dal segretario radicale Staderini e dal segretario dei verdi Bonelli sta raccogliendo le firme per nove referendum propositivi, uno strumento previsto ma mai attuato dal Comune. Dai trasporti all’uso delle spiagge, dal testamento biologico alle famiglie di fatto, dalla lotta all’abusivismo edilizio alla spazzatura (“zero rifiuti” è lo slogan) questi referendum, se mai si facessero, libererebbero Roma da Alemanno perché esprimono finalmente una politica, condivisibile o meno, nel senso della polis, della città come luogo veramente abitato, luogo della convivenza.
E vedremo se i referendum arriveranno a liberare Roma prima che l’emergenza rifiuti la faccia affogare insieme al suo sindaco. I dirigenti dell’Ama sostengono che, senza la nuova discarica, basterebbe un blocco di 48 ore e le 4000 tonnellate di rifiuti che i romani producono ogni giorno sommergerebbero la città. Non è dunque catastrofismo immaginare un autunno di tanfi e fetori che costringerebbero la gente ad indossare anche a Roma, persino a Roma, la mascherina per strada e a fare slalom tra dossi e cunette in fermentazione.
Un muro che crolla non è mai soltanto calcinaccio e polvere. Ogni muro, infatti, con quella fisica ha sempre una dimensione simbolica e dunque, quando crolla, crolla due volte. Lo sgretolamento del muro del Pincio sgretola anche Alemanno e scopre una Roma a rischio Sudamerica, piccola capitale con tutti vizi della megalopoli, dalle favelas alla violenza quotidiana, alle mafie ai debiti quarantennali con le banche per costosissime metropolitane che non si faranno mai: la linea D è stata definitivamente cancellata, la C rischia di fermarsi a San Giovanni, la B1 degrada la B… Ecco perché quel muro che crolla ci avverte che probabilmente non basta più discaricare Alemanno. Persino Ciarrapico, che comprò la Casina Valadier, ne aveva un rispetto così grande che voleva a tutti i costi portarci gli uomini migliori, come Carlo Caracciolo per esempio: «Ce devi veni’, per far vedere alla gente che qui non ce vengono soltanto i burini come me».
Ha fatto rumore ieri la notizia del rischio del fallimento della regione Sicilia a causa di un debito consolidato di 17 miliardi. L'isola ho poco più di 5 milioni di abitanti: ogni siciliano - neonati compresi - ha un debito di 3.400 euro ciascuno.
Roma, per esplicita ammissione del sindaco Alemanno, ha 11 miliardi di debito consolidato. A questa cifra spaventosa va aggiunto il debito di alcune municipalizzate (Atac e Ama in primis dove sono stati assunti senza concorso un numero imprecisato di amici e camerati della prima ora) e quello dovuto agli espropri per opere pubbliche non perfezionati: si arriva a 15 miliardi. La popolazione di Roma è di circa 2 milioni e 600 mila abitanti: ogni romano - neonati compresi- ha un debito di 5.800 euro ciascuno. Se la regione Sicilia rischia di fallire, la capitale non ha neppure il beneficio del dubbio: è alla bancarotta.
Il debito della regione Sicilia è frutto della irresponsabile politica clientelare di rigonfiamento degli organici nelle istituzioni pubbliche e della spesa per opere spesso inutili e controllate dalle organizzazioni criminali. La cura per il rientro dal debito è chiara, anche se non immediata: dimagrire l'elefantiaca pubblica amministrazione. Il presidente Lombardo, formalmente dimissionario, aveva invece continuato ancora in questi ultimi giorni ad assunzioni a spese della collettività.
Il debito della capitale è solo in parte riconducibile al rigonfiamento della pubblica amministrazione, che pure esiste, come dicevamo. La causa principale del debito romano sta piuttosto nel dissennato modello di crescita che ha causato una espansione urbana incontrollata: periferie che generano altre periferie sempre più lontane e costringono l'amministrazione comunale ad indebitarsi per portare servizi, trasporti, strade e per la quotidiana gestione.
La cura per il rientro del debito è dunque chiara anche in questo caso: bloccare qualsiasi ulteriore espansione urbana e razionalizzare la città esistente. Il sindaco Alemanno sta invece cercando in questi giorni di far approvare dal Consiglio comunale una ulteriore gigantesca crescita urbana: nuovi quartieri residenziali per un totale di 66 mila alloggi; venti milioni di metri cubi di cemento che cancelleranno per sempre oltre 2 mila ettari di territorio agricolo.
Nuove aree agricole, dunque, in deroga alle già irresponsabili dimensioni delle espansioni previste dal piano regolatore approvato dalla precedente giunta Veltroni (prevedeva 400 mila nuovi abitanti in una città che non cresce più da venti anni). Il pretesto è quello dell'emergenza abitativa: mancano le case per le famiglie più povere e la generosa rendita fondiaria risolverà il problema dei senza tetto a patto di regalargli una plusvalenza di centinaia di milioni di euro. Poi, inevitabilmente, il comune che ha già il debito di 15 miliardi dovrà accollarsi le spese per i servizi. E' evidente che l'approvazione del pacchetto urbanistico di Alemanno sarebbe il colpo finale per una città in grave crisi.
Il presidente del Consiglio ha intimato al governatore Lombardo di dimettersi poiché sta attuando politiche che aggravano ulteriormente il debito siciliano: perché non usa lo stesso metro con il sindaco di Roma così da impedirgli di portare alla definitiva bancarotta la capitale?
In attesa di una convincente risposta resta da formulare una proposta. Alemanno è costretto a portare fino in fondo la scellerata proposta: tra pochi mesi inizia la campagna elettorale amministrativa e dopo l'evidente fallimento della sua amministrazione non può permettersi di scontentare i suoi migliori alleati, i costruttori e gli immobiliaristi romani. L'opposizione -fatta eccezione per Alzetta e Azuni- non batte un colpo, prigioniera della mancata riflessione critica sull'approvazione del piano regolatore 2008 che ha provocato il nuovo sacco edilizio. Non resta allora che venga sottoscritto da chiunque si candiderà alle prossime elezioni un solenne impegno: revocare la delibera che verrà approvata nei prossimi giorni. La città ha bisogno di segnali di discontinuità: non si può continuare a fondare il futuro di Roma sull'espansione urbana mentre ci sono almeno 100 mila alloggi nuovi invenduti che da soli risolverebbero la questione.
L’avvilente sesto posto di Roma nella classifica dei luoghi in grado di sfruttare al meglio la risorsa costituita dai beni culturali la dice lunga sull'indifferenza che circonda il nostro incredibile e ricchissimo patrimonio artistico, architettonico e archeologico. Abbiamo i monumenti più importanti del pianeta e li gestiamo come un fastidioso intralcio alla circolazione automobilistica. Prova ne sia quel gigantesco spartitraffico chiamato Colosseo che assiste ogni ora, come ha dimostrato una recente indagine di Legambiente, al passaggio di oltre duemila veicoli senza che il rumore scenda mai al di sotto della soglia limite di 70 decibel. In quale altro Paese del mondo sarebbe accettabile una tale assurdità? Crediamo nessuno. Altrove l'Anfiteatro Flavio e i Fori Imperiali, compresa magari piazza Venezia, sarebbero parte di una splendida ed enorme area pedonale a destinazione turistica. Invece qui, sembriamo più angosciati dal destino di qualche finto centurione che si aggira tra le rovine per accalappiare turisti sprovveduti impugnando una spada di legno, che interessati a tutelare e far rendere al meglio gli inestimabili tesori che ci sono toccati immeritatamente in eredità. Il circuito Colosseo-Palatino-Fori Imperiali (stiamo parlando di una zona archeologica che non ha confronti nel mondo intero) genera ogni anno introiti lordi per circa 35 milioni di euro: per capirci, non basterebbero venti anni di quegli incassi per tappare il buco delle perdite accumulate fino al 2010 nel bilancio dell'Atac. I soli servizi aggiuntivi (bookshop, ristorante, bar, parcheggio...) del Metropolitan Museum di New York garantiscono un fatturato doppio. Mentre l'incasso annuale del Louvre parigino supera quella cifra di tre volte e mezzo. Umiliante. Studi internazionali dimostrano che il riconoscimento dato dall'Unesco come patrimonio dell'umanità accresce mediamente del 30 per cento la redditività economica di un sito. Ma non in Italia, Paese che tuttavia ha più luoghi storici e paesaggistici tutelati dall'Onu di qualunque altra nazione. Meno che mai, poi, da queste parti. La dimostrazione è a pochi chilometri da Tivoli. Nel dicembre 1999, l'area archeologica di Villa Adriana, dove si possono ammirare i resti della meravigliosa reggia dell'imperatore Adriano, ha ottenuto anch'essa l'agognato bollino dell'Unesco. Ebbene, da allora, il numero dei visitatori paganti è crollato, riducendosi di oltre 1140 per cento: i biglietti sono scesi da oltre 1843 mila a meno di no mila. Un ventesimo rispetto ai turisti che, ogni anno, vanno alle rovine di Efeso in Turchia. Nel frattempo, lo stanziamento pubblico per la conservazione di Villa Adriana è ai minimi termini. Il bello è che qualcuno ancora si stupisce perché un prefetto, nominato commissario, insieme a qualche politico stravagante, avevano progettato di mettere a 800 metri dal sito archeologico una enorme discarica destinata ad accogliere i rifiuti della città di Roma. Capito in che mani siamo?
Su Roma una nuova pioggia di case: la campagna nelle mire dei palazzinari
Due mila ettari di terreno lasceranno il posto a 66 mila case. Merito degli "ambiti di riserva", aree selezionate dal Comune per circa 200 mila abitanti. Tanti quanti quelli di Salerno o Brescia. Legambiente denuncia che nella Capitale già esistono più di 250 mila appartamenti vuoti. Alemanno promette che questi alloggi, fuori dal Piano Regolatore del 2008, saranno in parte destinati all'edilizia popolare. Ma è necessario costruire ancora?
Il titolo è burocraticamente innocuo: "Ambiti di riserva a trasformabilità vincolata". Il senso è un altro. Su Roma possono abbattersi 66 mila nuovi alloggi, cioè 23 milioni di metri cubi di appartamenti che si piazzeranno su 2 mila 400 ettari di campagna romana. Le lottizzazioni sono sparse per ogni dove nelle "erme contrade", come Giacomo Leopardi chiamava nella Ginestra la cintura agricola intorno alla città - e "erme" vuol dire solitarie.
Una campagna dove, nonostante tante aggressioni, si fa ancora molta agricoltura, dove fitta è la trama archeologica e altissimi i valori paesaggistici. Se in ogni appartamento andranno a vivere dalle due alle tre persone, ecco profilarsi, dentro il territorio comunale, una città dai 130 ai 200 mila abitanti. Grande quanto Salerno o quanto Brescia. Che viola persino il Parco dell'Appia Antica, ai bordi del quale potrebbe sorgere un bel quartiere con 3 mila abitanti. L'allarme è alto. Sono mobilitate le associazioni ambientaliste, i comitati di cittadini preparano barricate. Nei giorni scorsi si è svolto un sit-in davanti al Campidoglio. È intervenuto anche l'Istituto nazionale di urbanistica (Inu). E due deputati di Pd, Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, hanno presentato un'interrogazione parlamentare.
Ma, prima di tutto: c'è bisogno d'altro cemento a Roma? Il Piano regolatore, approvato appena quattro anni fa dalla giunta di Walter Veltroni, prevede edificazioni per 70 milioni di metri cubi, un diluvio di calcestruzzo che sta inondando di gru, di villette e di palazzi la capitale in tutte le direzioni - la terribile "macchia d'olio" descritta cinquant'anni fa da Antonio Cederna -, ma che non trova giustificazioni nella crescita demografica: l'ultimo censimento inchioda la popolazione residente a 2 milioni 600 mila abitanti, appena 50 mila in più rispetto al 2001. I 66 mila nuovi alloggi sono proprio nuovi, cioè sono oltre quelli del Piano, molti dei quali appena costruiti giacciono lì, invenduti, a fare la muffa e a impensierire le banche che con i costruttori si sono esposte enormemente e ora vedono in pericolo i capitali anticipati, prefigurando scenari da bolla immobiliare spagnola. Si attendono i dati dell'ultimo censimento, ma nel 2001 risultavano 193 mila appartamenti inutilizzati che, secondo molti, è una cifra molto sottostimata. Legambiente calcola almeno 250 mila appartamenti vuoti a Roma.
Uno dei requisiti fissati dal Comune è proprio che i nuovi alloggi vengano costruiti in suoli che il Piano riserva come agricoli. Molto esplicita la relazione del Dipartimento urbanistica del Comune di Roma: "Le aree selezionate andranno ad aggiungersi agli Ambiti di Riserva a trasformabilità vincolata già individuati dal Prg vigente". Insomma è come se il Piano, abbondantemente sovradimensionato e sottoutilizzato, fosse già carta straccia. Inoltre, fa notare l'Inu, non vengono attuati 35 Piani di Zona già approvati per realizzare case popolari, cioè case di proprietà pubblica.
Per Gianni Alemanno e per il suo assessore all'urbanistica, Marco Corsini, arriva in porto una promessa fatta ai romani subito dopo l'insediamento in Campidoglio nel 2008 per fronteggiare l'emergenza abitativa, molto alta nonostante le troppe case che si costruiscono ma che restano inaccessibili ai ceti più deboli. I 66 mila appartamenti servono, dice il sindaco, perché destinati in parte ad housing sociale. Che vuol dire case ad affitti agevolati, realizzate da privati i quali ottengono in cambio licenze per costruire altre case da vendere a mercato libero. Sei euro al metro quadrato, assicurano al Comune, l'importo di un affitto agevolato, 420 euro per una casa di 70 metri quadrati, due stanze, doppio bagno, cucina e soggiorno. Ma su questa materia non esistono norme di legge, tutto dipenderà dalle convenzioni fra Comune e costruttori.
Appena eletto, Alemanno lanciò un bando per dare casa, diceva, a chi casa non se la poteva permettere - giovani coppie, single, studenti fuori sede, famiglie a basso reddito. Ma neanche poteva accedere alle liste per vedersi assegnato un alloggio popolare, che a Roma come in tutta Italia si costruiscono sempre meno. Sono arrivate 334 proposte. Una commissione le ha valutate e ne sono state selezionate 160 (che potrebbero forse scendere a 135: ma sono pur sempre 20 milioni di metri cubi). Il Comune sostiene che si tratta solo di una ricognizione. Mancano passaggi fondamentali, primo fra tutti l'approvazione di una variante urbanistica in Consiglio comunale, che ha tempi molto più lunghi di quelli che mancano alla fine della legislatura (primavera 2013). Ma non sfugge alle associazioni ambientaliste e ai comitati quanto la pubblicazione della lista sul sito del Comune generi aspettative sfruttabili elettoralmente, faccia sentire i proprietari selezionati in possesso di diritti e soprattutto inneschi meccanismi di valorizzazione fondiaria (un terreno edificabile vale enormemente di più rispetto a uno agricolo). Circolano depliant di cooperative edilizie, se ne parla sui social network.
Da Nord a Sud, da Est a Ovest, la mappa degli "ambiti di riserva" che compare in rete è un florilegio di puntini neri sparpagliati dovunque, quasi un fiotto di coriandoli lanciati per aria e piovuti al suolo, senza nessuna logica di pianificazione. Senza nessun supporto del trasporto pubblico. Basti pensare che una delle prescrizioni imposte dal bando del Comune è che il terreno sul quale costruire sia a non più di 2 chilometri e mezzo da una fermata dell'autobus. Che comunque deve essere raggiunta in macchina.
I tagli dei terreni sono vari. Si va dai 2 ettari e poco più a Tor Vergata, dove si possono realizzare 82 appartamenti ai 90 ettari complessivi della società agricola Cornacchiola, dove di appartamenti se ne possono fare 2.500. Questo terreno, diviso in due parti, è il più grande degli insediamenti previsti in tutta Roma, ma non è solo questo il primato di cui può fregiarsi. Questi 90 ettari si stendono proprio al confine con il Parco dell'Appia Antica, zona con vincoli di ogni genere, archeologici e paesaggistici e che, nonostante tutte le norme impongono debba restare integra, potrebbe essere lo scenario di stupefacente bellezza sul quale affacceranno finestre, balconi e terrazzi di oltre cinquemila persone. Un vero sfregio per la Regina viarum, che si aggiungerebbe agli abusi che la vilipendono da decenni. Ma sono picchiettate di lottizzazioni zone adiacenti altri parchi, come quelli di Veio, della Marcigliana o la Riserva del Litorale.
"Dal bando per l'housing ci aspettavamo un disastro", sbotta Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio, "ma i risultati che Alemanno vorrebbe approvare sono peggiori di qualsiasi incubo. L'associazione dei costruttori aveva chiesto l'1 % del territorio e Alemanno ne elargisce quasi il 2 %. Una brutta ipoteca sul futuro, visto che il sindaco non potrà mai vedere attuata prima delle elezioni l'assurda variante generale al Piano Regolatore scritta sulla base dei risultati di un bando, ma rischia di generare diritti edificatori che non ci toglieremo più". Molto duro è anche il giudizio di Italia Nostra che si dice "assolutamente contraria a tale iniziativa perché porta ad una dispersione caotica dei nuovi insediamenti residenziali che non rispondono ad alcun progetto di città ma sono determinati casualmente in base alle offerte della proprietà fondiaria. Prima di pensare a nuove urbanizzazioni dell'Agro romano, sarebbe piuttosto necessario utilizzare le aree e i fabbricati dismessi o sottoutilizzati da censire immediatamente per trovare soluzioni alternative e più articolate all'emergenza abitativa".
A Roma Nord, nel XIX Municipio, calano 29 insediamenti, per un totale di 454 ettari e quasi 15 mila appartamenti. Un acquazzone cementizio anche nel confinante XX Municipio, 357 ettari compromessi da oltre 10 mila appartamenti. In questi due Municipi risiede il Parco di Veio, da dove sono arrivati alcuni capolavori archeologici ora custoditi nel Museo di Villa Giulia. Altri insediamenti per oltre 110 ettari si annunciano nella zona di Porta di Roma, sempre a Nord della città, dove sono stati costruiti negli ultimi sei anni quasi 3 milioni di metri cubi e dove la sera, se ci si aggira fra le palazzine tirate su da Caltagirone, dai fratelli Toti e da Mezzaroma, i grandi nomi dell'edilizia romana, sono pochissime le finestre illuminate in un desolato panorama di case vuote. In pericolo le aree verdi di Selva Candida e Villa Santa, la Cecchignola, Colle della Strega. E altre palazzine potrebbero prendere il posto degli ulivi secolari nei 30 ettari di una tenuta a pochi metri da Villa Segni, un edificio storico sull'Anagnina. Anche qui vincoli paesaggistici e vincoli archeologici non sono bastati: questo terreno è finito, insieme agli altri 159, nella lista che potrebbe sconvolgere gli assetti già molto precari di Roma.
L’intera inchiesta con video, interviste, documenti su repubblica on-line
La chiusura di Cinecittà e la trasformazione degli storici studi nell’ennesima speculazione fondiaria forniscono la migliore chiave interpretativa del profondo tunnel in cui è piombata l’Italia. Il primo elemento riguarda il disvelarsi della nefandezza dell’ideologia dellaprivatizzazionea tutti i costi, che ha dominato la cultura di questi due ultimi decenni. Non che non ci fosse il bisogno di dismettere pezzi di attività che non attengono a una moderna concezione dello Stato. Il problema è che in questo caso, come in quello della Telecom, delle Autostrade, dell’Alitalia e tanti altri ancora, la privatizzazione è servita per creare un monopolio privat o per lanciare nuovi“capitani coraggiosi” che si sarebbero poi rivelati come modesti speculatori. Nel 1997 la proprietà di Cinecittà passa a una holding guidata daLuigi Abete, famiglia di imprenditori romani con grandi presenze nel sistema creditizio. Non si fanno investimenti e i gloriosi studi cinematografici declinano verso un inevitabile fallimento.
E qui arriva la secondo pilastro su cui questa irresponsabile classe dirigente ha pensato e pena di trovare la base per il futuro italiano: laspeculazione fondiaria. Un futuro dal cuore antico se si pensa che la storia dell’Italia unita – a iniziare dallo scandalo della Banca Romana del 1887-88 – è stato caratterizzato da ignobili speculazioni e scempi del territorio. I due edifici gemelli di piazza Esedra a Roma, ad esempio, versavano proprio negli stessi anni della privatizzazione di Cinecittà in condizioni di degrado. Il maggior industriale alberghiero italiano, Boscolo, si candida per trasformarne uno in un albergo di prestigio ma pretende un regalo in termini speculativi: aumentare l’altezza dell’edificio di un piano per costruirvi piscina e spazi comuni. L’amministrazione comunale guidata daFrancesco Rutelliaccolse entusiasticamente la proposta e così la prima piazza della Roma piemontese che ebbe vita da un concorso internazionale vinto dall’architetto Koch nel 1888 è stata sfregiata per sempre.
Si perdonobellezza e memoriain cambio di modesti risultati. Come a Cinecittà, dove un’attività di oltre settanta anni di produzione aveva creato una rete importante di piccole aziende specializzate, di tecnici di grande bravura e professionalità; di maestranze in grado di dare soluzione alle richieste dei più grandi registi del mondo. Questa straordinaria cultura del lavoro e della qualità delle risorse umane viene cancellata per creare l’ennesima (Roma ha otre 100 mila posti letto in alberghi) struttura ricettiva in cui lavoreranno al gradino più basso della specializzazione, addetti alle pulizie e inservienti.La ricchezza dei saperi e dei mestieri sacrificata alla speculazione. E qui si apre l’ultimo capitolo dell’incapacità dellaclasse dirigenteitaliana a delineare un futuro possibile. La monocultura del mattone ha funzionato per oltre un secolo, ma oggi non ha più alcuna possibilità. Gli operatori più avveduti e le ricerche di settore più autorevoli ci dicono che il numero degli alloggi invenduti in ogni parte d’Italia rischia di creare unabolla immobiliarecome quella che ha travolto l’economia spagnola e che sta sfiorando persino la solida Olanda. A Roma le stime più prudenti parlano di centomila alloggi invenduti, ma basta girare per l’intero paese per vedere una selva di alloggi vuoti, di capannoni abbandonati e di cartelli con la scritta “vendesi”.
Ma se esiste questa situazione di squilibrio di mercato, perché i dirigenti di Cinecittà o delle tante operazioni speculative che punteggiano il paese danno vita a nuove iniziative edilizie? Se non c’è mercatonon si vende: quindi il cemento si dovrebbe fermare. Invece non si ferma: la risposta sta nella condizioni strutturali. Le leve dell’economia urbana sono nelle mani delle grandi istituti di credito che negli anni scorsi si sono esposti oltre misura nel finanziare la comoda speculazione edilizia. Devono oggi rientrare a tutti i costi delle loro esposizioni: ecco il motivo del progetto Cinecittà o dellascandalosalegge sugli “stadi” approvata ieri alla Camera dei Deputati che consente alle società di calcio, indebitate fino al collo con le banche, di costruire in deroga rispetto a qualsiasi regola urbanistica, alberghi, centri commerciali e quant’altro. Come a Cinecittà. Nella guerra senza quartiere che caratterizza questa convulsa fase dicrisi economicae finanziaria ciascuno cerca di scamparla o di ridurre le perdite. Se si perde la storia produttiva, se si cancella una città intera o un’economia intera non interessa più. Lo sguardo di quella che fu classe dirigente si ferma al breve periodo, a speculazioni che denunciano soltanto un tragico vuoto di prospettive.
ROMA— La grande scritta sulla vetrata a volta si vede già da lontano, arrivando sulla via Ostiense, oltre il Gazometro e il Porto Fluviale, tra ponteggi di restauri industriali e vecchi docks sul Tevere. “Eataly”: il nome spicca tra le arcate del famoso Air Terminal progettato dall’architetto spagnolo Julio Lafuente per i mondiali di Italia 90, struttura all’avanguardia costata cinquanta miliardi di denaro pubblico e quasi mai utilizzata, simbolo di spreco e degrado, ridotta negli anni a rifugio per senzatetto, profughi e diseredati.
È qui, in questo panorama completamente ridisegnato e restituito alla città, che è approdato “Eataly Roma” l’ultima creatura dell’imprenditore di Alba Oscar Farinetti, che dopo aver fatto prosperare la catena di negozi di elettrodomestici “Unieuro”, sta facendo riscoprire all’Italia (e non solo), il gusto del cibo di qualità, con un business che per il suogruppo ormai sfiora i 300 milioni di euro l’anno. “Eataly Roma”, che aprirà al pubblico il prossimo 21 giugno, è un gigantesco, immenso villaggio del buon mangiare e del buon vivere, 17mila metri quadri dedicati al gusto e alle eccellenze gastronomiche di ogni angolo d’Italia, no, anzi, alla bellezza, come dice Farinetti, perché, in genere, «chi cerca l’armonia mangia bene». E dunque un grande luogo conviviale, un po’ piazza, un po’ mercato, un po’ ristorante un po’ caffè, con librerie e aule didattiche, dove «il cibo italiano di alta qualità si può comprare, mangiare e studiare», scelto, cucinato e insegnato da grandi chef e chef emergenti, produttori doc piccoli e grandi, in collaborazione con Slow Food, e dove ogni scelta ha il suo perché.
La mozzarella di bufala ad esempio. Quella di Eataly è prodotta, a vista, nel suo “Mozzarella Show” da Roberto Battaglia, che oltre a saperla fare secondo la più rigorosa tradizione casertana (tutto latte di bufala senza aggiunta di latte vaccino), è anche uno dei pochi produttori che ha denunciato i boss della camorra che lo perseguitavano. O gli aperitivi dell’associazione “Vino libero” che si impegnano a produrre etichette prive da concimi chimici, diserbanti e solfiti aggiunti. Eccolo allora “Eataly Roma”, il più grande dei 19 Eataly sparsi in tutto il mondo, Tokio e New York compresi, una vera sfida imprenditoriale in una Capitale fortemente impoverita e depressa. Progetto nel quale Farinetti e il suo gruppo hanno investito oltre80 milioni di euro, acquistando e ristrutturando il vecchio Terminal Ostiense, immagine fino a ieri di uno dei grandi sprechi italiani, e assumendo 500 giovani lavoratori.
Dice Nicola Farinetti, figlio di Oscar e responsabile di “Eataly Roma”: «Abbiamo puntato su Roma perché ci dispiaceva che il nostro negozio più grande e famoso non fosse in Italia ma all’estero, a New York. E abbiamo pensato a Roma perché è l’unica vera metropoli italiana, immaginando un luogo frequentato sia da romani che da turisti, dove si possa mangiare, bene, a partire dai 4 euro di un panino, o ai 5 euro di una pizza margherita. Le nostre aspettative: 35mila visitatori e seimila pasti al giorno. Una sfida enorme…».Entrando è la luce delle vetratedisegnate da Lafuente riflessa in lampadari color acqua che colpisce prima di tutto, nei quattro piani collegati da scale mobili, tra spazi dove i decori dei tavoli e delle sedie ricordano il rosso della carne, l’ambra della birra, l’azzurro della pescheria. Tutto a Eataly si può comprare o consumare in loco, che sia una bistecca del presidio Slow Food “La Granda”, o un piatto di culatello di Zibello, un fritto misto nel “cuoppo” (cartoccio) di Pasquale Torrente da Cetara, o un piatto di spaghetti espressi ma soltanto dei pastifici di Gragnano.
E partendo dal piano terra si passa dai panini d’autore di “Ino”, alla piadineria dei “Fratelli Maioli”, costruita come i chioschi delle spiagge romagnole negli anni Venti. E poi la cioccolateria Venchi, dove la crema gianduia, con nocciole Piemonte ed emulsionata con olio extravergine Roi di olive taggiasche, sgorgherà ancora calda da rubinetti cromati per la gioia (e lo sballo) dei golosi. Racconta Nando Fiorentini, anima e cuore di tutte le pescherie diEataly: «Vorremmo insegnare alla gente a mangiare, anche il pesce povero, quello che non si conosce, e di cui invece i nostri mari sono ricchi …».
Oltre l’immenso reparto salumi e formaggi, oltre le pizze napoletane con farina macinata a pietra, l’ultimo piano è quello degli chef. Per il ristorante Italia, lusso con vista su Roma, Gianluca Esposito, 29 anni, per la cucina dei grandi eventi Massimo Sola. Il 14 giugno apertura di gala per politici e ministri. Ma attenzione: al pubblico ad inviti sarà servito un “non pranzo”. «Offriremo soltanto acqua minerale a tutti — raccontano i collaboratori di Oscar Farinetti — e devolveremo i soldi del pranzo ai terremotati dell’Emilia.
postilla
Slow Food rappresenta i buoni, quindi questa iniziativa sponsorizzata è automaticamente buona. Mi pare già di immaginarlo, anzi lo provo anch’io, l’automatismo da vittima della pubblicità occulta. Ma mi scatta anche l’altro automatismo, quello di provare a collegare una cosa all’altra, come del resto ha fatto anche la giornalista nel titolo: il parco giochi dell’alimentazione, la Disneyland della pastasciutta, l’outlet della cucina della mamma … Ricorda qualcosa, no? Ricorda per esempio come anche i primi osservatori non adolescenti del parco tematico originale negli anni ’50 notavano una cosa, ovvero che dentro il recinto la gente andava a cercare esattamente quello che stava sparendo (che si stava facendo consapevolmente sparire) fuori, ovvero la via tradizionale, la piazzetta dove ci si ritrova, le relazioni amichevoli semplici e spontanee. Secondo un criterio commercialmente ineccepibile: rendo scarsa una risorsa e la rivendo in esclusiva. Ora, è vero che magari Eataly “recupera” cose perdute o difficili da trovare, ma secondo quale percorso? È una specie di monastero benedettino dove si ricopiano pazientemente codici in attesa di tempi migliori per ristamparli e farli leggere a tutti, o l’ennesimo scatolone introverso a pareti cieche con ingresso a pagamento, dove si compra quello che prima era gratis, o quasi? Chilometro zero, o conto chilometrico a parecchi zeri? Ovviamente una risposta io non ce l’ho, chiedete magari a Slow Food (f.b.)
L’Agro Romano– la vasta area a vocazione agricola intorno allaCapitale– rischia di scomparire definitivamente. A preoccupare sono i risultati di un bando promulgato dal sindacoGianni Alemannoad inizio legislatura per la selezione “di nuovi Ambiti di riserva a trasformabilità vincolata, finalizzati al reperimento di aree per l’attuazione del Piano Comunale di housing sociale e di altri interventi di interesse pubblico”. In poche parole: nuovi terreni da rendere edificabili. Delle 334 proposte pervenute – numerosi i proprietari di terreni agricoli che hanno partecipato – ben 160 sono ammissibili. Queste le valutazioni della Commissione istituita ad hoc nel 2008 (composta dal direttore dell’Ufficio per le Politiche Abitative e dai direttori dei Dipartimenti Urbanistica, Patrimonio, Mobilità, Ambiente e Riqualificazione delle periferie).
Sommando le 160 aree ritenute compatibili con i requisiti fissati dall’invito pubblico, sono complessivamente 2.381 gli ettari di campagna romana (già in parte fagocitata negli anni da grandi capannoni industriali, ville e palazzoni) che presto potrebbero essere cancellati da una nuova colata di cemento. Aree bellissime sottoposte a vincoli, adiacenti allaRiserva del Litorale, a quella Marcigliana, ai parchi dell’Appia Antica, diVeioe tanti altri.
Legambiente Lazio commenta sconcertata la cartografia dei nuovi insediamenti proposti,diffusa dal Dipartimento Urbanistica di Roma Capitale: “Il progetto di Alemanno va fermato subito – lancia l’allarmeLorenzo Parlati, presidente dell’associazione ambientalista – la giunta non può approvare questo scempio, l’assemblea capitolina tanto meno”. Entro l’estate infatti la giunta potrebbe dare il via alla maxi variante del piano regolatore (i tecnici sono già a lavoro per la stesura della delibera). Perché l’emergenza abitativa va affrontata: “Servono 25.700 alloggi – spiegava qualche mese fa il sindaco – di cui 6mila in edilizia agevolata e 19.700 in housing sociale.
In questo modo potremmo offrire abitazioni con mutui e affitti a prezzi molto più bassi di quelli che si sono mai potuti vedere in questa citta”. Quelle fasce deboli, a cui si riferisce il sindaco, la possibilità di accendere un mutuo (ancorché piccolo) non ce l’hanno di certo. Ma sarebbe comunque uno spreco, se si considera che a Roma gli immobili non utilizzati, vuoti, sfitti, sono 245mila (ultimo dato disponibile, riferito al 2009). A tal proposito va segnalato l’invito del forum “Salviamo il Paesaggio, Difendiamo i Territori” al sindaco di Roma (così come ai sindaci degli altri 8100 Comuni d’Italia) a partecipare alla campagna per il nuovo censimento degli edifici sfitti o non utilizzati. Manco a dirlo, nessuna risposta.
Su 2.381 ettari, però, si possono costruire quasi 23 milioni di metri cubi di superficie edilizia. Corrispondenti non a 25.700 alloggi, ma ad oltre 66mila (il dato è fornito dalla stessa commissione). “Bisogna offrire ai privati terreni edificabili in cambio di nuove metropolitane – spiega l’assessore all’ Urbanistica,Marco Corsini– e poi ci sono delle compensazioni edificatorie ancora da riconoscere”. Cioè tutte quelle cubature che sono state sottratte dal Comune ai privati, in presenza di aree di pregio ambientale, e che vengono compensate dando la possibilità di costruire altrove. Non a parità di metri cubi bensì di valore immobiliare. “E comunque quelle 160 aree sono state selezionate – sottolinea Corsini – non scelte. Ciò vuol dire che alla fine saranno di meno”.
Esprime però le sue “perplessità” anche l’Istituto Nazionale di Urbanistica: “Già nel 2008 avevamo criticato i criteri del bando, in particolare il fatto che si rendessero disponibili aree agricole, che fosse stabilita una distanza troppo grande dalle fermate del trasporto pubblico. E sul perché non venivano utilizzate le aree edificabili messe a disposizione dal Piano regolatore, né venivano attuati i ben 35 piani di zona per l’edilizia residenziale pubblica già approvati”. E Legambiente rincara la dose: “Utilizzare la scusa dell’ housing è ridicolo e patetico. La verità è che Alemanno,dopo l’acqua, vorrebbe cedere ai privati anche l’Agro Romano”. Insomma una strumentalizzazione per dar vita a nuove anonime periferie senza servizi. L’ennesimo regalo – dopo quelli diRutellie Veltroni– a chi muove voti. D’altronde, come dice il presidente di Legambiente Lazio, “la campagna elettorale è già aperta”.
I dati provvisori del censimento della popolazione di Roma e della sua provincia delineano una situazione urbanistica fuori controllo, frutto invitabile dell’assenza di un governo pubblico delle città e dei territori: l’intera provincia di Roma è stata coinvolta nella dissennata crescita urbana di Roma e ne paga i prezzi più elevati.
Cominciamo da Roma. L’Istat certifica un ulteriore lieve declino demografico della capitale che si attesta su un valore di poco superiore ai due milioni e seicento mila abitanti. Erano 50 mila in più nel precedente censimento (2.663 mila abitanti). Nonostante la gigantesca quanto immotivata offerta di questi ultimi dieci anni dovuta al piano regolatore liberista voluto dal sindaco Veltroni, la città non cresce. Segno evidente che i valori immobiliari sono così alti da essere insostenibili per la maggior parte della popolazione romana che è stata così costretta a trasferirsi nella immensa periferia metropolitana. E i numeri del disastro annunciati sono davvero impressionanti. Il litorale sud di Roma che comprende Anzio, Ardea, Nettuno e Pomezia è diventata una città di oltre 190 mila abitanti. Venti anni fa erano 120 mila. Nell’ultimo decennio la percentuale di incremento è stata del 31%. Anche il litorale nord (Ladispoli, Cerveteri fino a Civitavecchia) si avvia a diventare una grande conurbazione: oggi la sua popolazione complessiva supera i 150 mila abitanti e il dato più impressionante è quello di Cerveteri che con un aumento percentuale del 34% sul decennio 2001/2011 raggiunge le dimensioni di 35 mila abitanti. Il comprensorio del lago di Bracciano che raccoglie anche Anguillara e Trevignano ha dimensioni demografiche più modeste rispetto ai due precedenti (poco più di 50 mila abitanti), ma presenta – anche grazie alla linea ferroviaria metropolitana che lo collega velocemente con la capitale – un aumento percentuale del 30% nel decennio.
La valle del Tevere occidentale (Fiano, Capena e altri centri minori) supera ormai i 40 mila abitanti complessivi e il dato di Fiano – fortemente connesso con Roma per la presenza del casello autostradale lungo l’A1 – fa comprendere bene le dimensioni dei fenomeni in atto: in venti anni la sua popolazione è raddoppiata e oggi supera 13 mila abitanti. Sul lato opposto del fiume, la conurbazione tra Monterotondo e Mentana insieme agli altri comuni più piccoli ha una dimensione tre volte più grande in assoluto del precedente (120 mila abitanti totali) e in particolare Monterotondo raggiunge 40 mila abitanti. Anche in questo caso, potente fattore di sviluppo è stata la linea ferroviaria metropolitana che collega l’area con Roma. Analogamente fuori di ogni controllo sono i dati della grande area urbana formata da Guidonia e Tivoli: oltre 150 mila abitanti di cui 80 mila nella sola Guidonia che diventa la terza città del Lazio (dopo Latina) con un territorio pressochè privo di sevizi e con una della più alte percentuali di abusivismo d‘Italia.
Resta infine l’area dei Castelli romani, fino a pochi decenni fa cantata da poeti e pittori per la bellezza dei suoi spazi aperti. Gli attuali 360 mila abitanti hanno sconvolto la geografia dell’antico vulcano che si presenta, ad eccezione dell’area boscata centrale, come una grande conurbazione senza soluzioni di continuità. Di fronte a questo impressionante fenomeno di esplosione metropolitana, resta da chiedersi quale sia la qualità urbana di questi nuovi centri assurti a città di medie dimensioni in due decenni e quale sia la struttura di trasporto su ferro che garantisce ai nuovi abitanti di poter arrivare senza sforzo a Roma, luogo dove sono rimasti concentrati tutti i principali luoghi di lavoro pubblico e privato. Le risposte sono entrambe preoccupanti. «Non ci sono risorse», così ci dicono ad ogni occasione. Così i piccoli centri senza alcun servizio di qualità, senza scuole superiori e senza un parco urbano degno di questo nome, sono oggi città medie di 40/50 mila abitanti ma continuano ad essere prive di servizi di qualità perché non ci sono risorse da investire. Gli abitanti espulsi da Roma sono dunque condannati a vivere in condizioni sociali peggiori di quelle della capitale.
Condizioni peggiori che sono ulteriormente aggravate dalla crisi della mobilità. Roma è perennemente paralizzata dal traffico automobilistico privato, ma in media i suoi abitanti percorrono per raggiungere il posto di lavoro una distanza media di dieci chilometri. Chi è stato espulso verso l’area metropolitana percorre anche più di cinquanta chilometri per raggiungere la città ed è – salvo rare eccezioni – costretto a farlo con la propria automobile per la mancanza di collegamenti degni di una città capitale e di un paese civile. Esistono infatti soltanto due ferrovie efficienti, quelle che collegano i comprensori di Bracciano e di Monterotondo. Tutta l’altra gigantesca area metropolitana è costretta a raggiungere Roma con l’automobile. Tre ore al giorno di media tra andata e ritorno di media gettate via per spostarsi. Una vita condannata nell’immobilità, per giunta aggravata dall’insostenibile prezzo della benzina.
Al danno di essere stati costretti a trasferirsi lontano dalla capitale si aggiunge dunque anche la beffa di vedere aggravate le proprie condizioni di vita. In termini di qualità dei luoghi urbani per l’assenza di servizi pubblici; in termini di qualità della vita per le lunghe ore gettate via nella propria automobile; in termini economici per i costi esorbitanti degli spostamenti. Questo sconvolgente risultato è stato causato dalla cancellazione di qualsiasi regola: ci hanno raccontato che lasciando mano libera all’iniziativa privata tutto sarebbe stato risolto. Era vero il contrario e oggi scopriamo il terribile imbroglio. Dobbiamo invertire la rotta e investire risorse economiche nelle città e nei sistemi di trasporto collettivi. Soltanto con la mano pubblica si creano migliori condizioni di vita e di uguaglianza tra i cittadini.
Il rugby romano sarà presto soltanto un ricordo. Il basket – un glorioso passato di scudetti, fra Ginnastica Roma e Virtus – rischia di sparire dalla prima serie. Lo stesso può capitare al volley. Mentre le due squadre di calcio sono decisamente lontane, soprattutto la Roma, da Juve e Milan. La decadenza di una grande città si misura anche da questi fenomeni e segnali. Poi ve ne sono di più allarmanti, certo. Roma era la capitale europea di gran lunga più sicura. Con un tasso di omicidi talmente basso che, in Italia, veniva subito dopo Venezia e Bologna, le più “tranquille”, precedendo Firenze, Genova, Torino. Un omicidio volontario ogni 100.000 romani nel 2007, contro 1,7 omicidi di Milano e 1,5 della media italiana. Nell’ultimo anno c’è stata una escalation di ammazzamenti del 30 %. Impressionante.
Tutto è cambiato, in peggio. La violenza è di molto aumentata, come la smodatezza delle bevute dovuta anche all’assurdo allargamento degli orari in grandi piazze come Campo de’ Fiori, o a Monti, dove spesso scoppiano risse e si registrano accoltellamenti (l’ultimo di un giovane americano intervenuto a fare da paciere, qualche notte fa). L’ultimo decreto del governo dilata assurdamente orari e bevute. Ma il ministro Cancellieri non ha dato risposta alcuna alla denuncia allarmata in tal senso del senatore Luigi Zanda. Perché?
Con Alemanno i pullman turistici, per il Giubileo attestati in parcheggi esterni ben controllati, scorrazzano per Roma antica e parcheggiano, come minimo, sui Lungotevere rendendo più difficile un traffico sempre al limite del collasso. Il centro storico è una sorta di “mangiatoia” continua, senza più orari, fino a notte fonda. I cosiddetti “dehors”, orribili gazebos di plastica con stufe incorporate, di fatto impediscono la vista di chiese e palazzi. Erano stati in parte rimossi dal I° Municipio col “sì” della Soprintendenza statale. Ma Alemanno li ha prorogati fino a che non è sopravvenuta la primavera e non sono stati più indispensabili. Restano enormi ombrelloni con scritte pacchiane, menù goffi e ingombranti, camerieri che sollecitano i turisti a sedersi.
Fuori le mura cresce la foresta dei cartelloni pubblicitari. Dentro, la marea di tavolini e di seggiole di plastica invade senza regole né limiti anche piazza Navona trasformata in una bolgia dalla quale i vecchi “pittori”, ritrattisti o caricaturisti, sono di fatto spariti (saranno due o tre). L’arredo dei pubblici esercizi è precipitato. Per la prima volta i distributori automatici di coca-cola sono esposti nel gran teatro di Bernini e Borromini.
Nei vicoli e nelle strade intorno va pure peggio. Tor Millina ha raggiunto livelli di degradazione spaventosi. Fra pedoni e tavolini di plasticaccia sgasano in slalom, anche alle 13, camion e furgoni: portano cibi surgelati precucinati (nell’aria si diffondono odori inquietanti), oppure soltanto acque minerali, notoriamente deperibilissime. Anche in questo caso, niente limiti. Né vigili urbani in strada. Un caos e un frastuono continui. L’altra notte due vigilesse sono dovute battere in ritirata davanti ad una festa fracassona, a notte fonda, a Madonna dei Monti. E i residenti veri sono scesi sotto i 90.000, contro i 100-110.000 di pochi anni fa.
Penosa pure la gestione dei grandi servizi pubblici: tassa sui rifiuti decisamente elevata e raccolta differenziata poco efficiente. Così la spaventosa maxi-discarica di Malagrotta rimane un incubo. Le municipalizzate sono state affidate a manager “di fiducia” rivelatisi una frana, ad ex compagni “fasci”, e ad una corte di parenti, famigli e affini. Ed ora si vuol svendere una quota importante dell’Acea un tempo solida e sicura.
La politica culturale si è abbassata di livello, a parte il successo di Musica per Roma e di Santa Cecilia (dove nulla, per fortuna, è cambiato). Un pasticciaccio come quello per la Festa del Cinema era, qualche anno fa, inimmaginabile: ci si è intestarditi a cacciare una direttrice valida per far posto ad un direttore costoso e certamente “pesante”, aprendo conflitti di date e altro con Torino e Firenze. Al Maxxi la Fondazione procedeva, con entrate proprie superiori al 50 per cento (più del Louvre che è al 40). La si è voluta commissariare, grazie alla latitanza del ministro “tecnico”(?), costringendo alle dimissioni uno stimato dirigente come Pio Baldi, ex soprintendente di valore. Si è parlato dell’ex McDonald’s Mario Resca, sodale di Berlusconi, ma l’hanno “promosso” all’Acqua Marcia. E dell’onnipresente/onnipotente Emmanuele Emanuele che gioca in doppio con Vittorio Sgarbi sempre alla ricerca di “promozioni”, chissà.
Non va meglio, come dicevo, sul piano sportivo. Totti, dopo una stagione più che deludente, passa la mano per il basket e non si vede chi possa subentrare con progetti seri e capitali freschi. Non sta meglio la pallavolo, altro sport nel quale Roma eccelleva. Nel calcio la Lazio, tutto sommato, non demerita, anche se il suo presidente vuole soprattutto cubature attorno al nuovo stadio in una zona piena di vincoli. L’AS Roma sembra in stato confusionale: fuori dalla Champion’s e molto probabilmente dall’Europa League, ha raggiunto il record di espulsioni e fatto deprezzare taluni acquisti costosi, mentre il corso delle azioni è precipitato in Borsa da 1,09 € (primo trimestre 2011) all’attuale livello di 0,38-40 (- 60-65 %). Ora Luis Enrique ha deciso di lasciare ed è possibile che torni Vincenzo Montella che già allenava la Roma ed era stato indotto ad emigrare al Catania (dove ha fatto benissimo) da quei dirigenti che ora lo richiamano. Un colpo di genio.
Intanto i centurioni romani, tollerati per anni al Colosseo, rifluiscono da lì verso il Pantheon, in cerca di una qualche “rendita”. Anche per loro si profila il Parco tematico della romanità, una gigantesca Roma di cartapesta e cartongesso. Tanto per promuovere un’altra abbuffata di Agro romano. Qualcuno ricorda ancora i fasti alemanniani a tutto gas della Formula 1 all’EUR? Cittadini romani, le idee son queste.
A difesa di Roma, del centro storico più bello e insieme più minacciato sono intervenuti Confcommercio e Confesercenti col sostegno di Cgil, Cisl e Uil per dire al governo Monti: “Negozi senza regole? No, grazie”. Dopo le associazioni per la tutela (Comitato per la Bellezza, eddyburg, Italia Nostra, Touring Club, Bianchi Bandinelli, ecc. e personaggi come Salvatore Settis, Alberto Asor Rosa, Paolo Baratta, ecc.). Opposizione corporativa? No, difesa della vivibilità, del decoro, delle bellezza e quindi dell’attrattiva turistica delle nostre città d’arte. Il solo ineguagliabile patrimonio che i monitoraggi internazionali sul turismo di qualità ancora ci assegnano, avendo l’Italia compromesso spiagge e natura.
Si spiegano con chiarezza il presidente della Confcommercio romana, Giuseppe Roscioli: “Non siamo contro le liberalizzazioni, ma in questo modo non porteranno nessun beneficio. Per rimanere aperti 24 ore su 24, o si alzano i prezzi o si va in sofferenza”. E il segretario della Camera del Lavoro, Claudio Di Berardino: “Il rischio è che aumentino lo sfruttamento e il lavoro nero”. Nei bei servizi di Lilli Garrone e di Maria Egizia Fiaschetti sul “Corriere della Sera” sono indicati i guasti indotti da una liberalizzazione calata senza paletti nei centri storici: spariscono già negozi di qualità, stoffe inglesi, scarpe alla moda, norcinerie tradizionali o librerie, e subentrano, pub e ancora pub, gelaterie, pizzerie notturne ecc., con un abbassamento catastrofico dell’offerta turistico-commerciale. Eppure nel governo gli economisti ci sono, a cominciare dal premier: possibile che non sappiano che nel nostro Paese un terzo abbondante del 10-11 % di Pil turistico viene dal turismo culturale?
Il modello (terribile) sembra la “movida” notturna senza regole, tante Campo de’ Fiori disseminate ovunque. Secondo la stessa Confcommercio, il Decreto semplificazioni consente attività di discoteca, di spettacolo, di pubblico intrattenimento all’interno degli esercizi senza autorizzazioni né controlli preventivi di pubblica sicurezza e di agibilità. Idem per i cosiddetti “circoli culturali”, vecchio escamotage per aprire nelle aree contingentate locali notturni. Che non potranno più venire chiusi dalla Ps, né dalla questura. Nei negozi si potranno vendere cibi e bevande (anche alcoliche) senza autorizzazione e i clienti potranno sedersi a consumarle all’esterno. Anche in aree sin qui vietate. Con quale gioia degli ultimi residenti si può ben immaginare. Pure i distributori automatici non dovranno più chiudere alle 22 – fa notare il consigliere del I Municipio, Nathalie Naim – offrendo così alcol “facile” ai minori. Niente più vincoli pure per le bancarelle abilitate a vendere fino all’alba cibi, birre, souvenirs. Uno sterminato, degradante, inarrestabile bazar. Che garantisce ogni tipo di inquinamento: estetico, acustico, morale, malavitoso (i negozi “di copertura” per il riciclaggio e lo spaccio sono già tanti).E questa sarebbe concorrenza?
Di fronte alla valanga che promette di mettere fuori mercato i negozi veri e seri, gli esercizi di qualità, persino quelli storici, il governo dei “bocconiani” dovrebbe correre ai ripari correggendo se stesso, accettando i consigli sensati. Per ora tutti tacciono, a partire dal ministro dei Beni Culturali, Lorenzo Ornaghi. Se non lo fa il governo, ascoltino questi allarmi i Comuni, i sindaci, e intervengano. Nei 90 giorni dalla decorrenza del Decreto 214/2011 possono infatti confermare le limitazioni e i contingentamenti loro consentiti da leggi e regolamenti ispirati ad alcuni articoli-chiave della Costituzione, all’art. 9 che tutela il paesaggio e i patrimonio storico e artistico (quindi i centri storici), all’art. 32 che tutela la salute dei cittadini e anche all’art. 41 che dichiara libera l’iniziativa privata purché non “in contrasto con l’utilità sociale”, con la sicurezza, la libertà, la dignità umana. Una prova di saggezza economica oltre che di civiltà culturale.
La regola era stata inaugurata con il nuovo piano regolatore generale di Roma, una manciata di anni fa. Era nota con il nome di “compensazione” e funzionava così: il Comune acquisiva dal privato l’area che riteneva utile alla riorganizzazione del tessuto urbano (per farci una scuola, un parco, un ufficio), e in cambio offriva al privato la possibilità di edificare in un’altra area della città con un moltiplicatore che ne pesasse il pregio (più ci si allontanava dal centro, più si accrescevano le cubature). Era un sistema che andava certamente incontro alle difficoltà di cassa del Campidoglio e alla nota fame dei palazzinari del luogo, ma si poteva pensare ricadesse in un medesimo disegno organizzativo: quello della costruzione di una città che alla fine rispondesse a un sistema di regole.
Adesso, in quella Roma alle prese con le medesime difficoltà di cassa, il sistema della compensazione si è trasferito anche alla costruzione delle metropolitane, opere che, di norma, sono da sempre affidate alla mano pubblica: chi costruirà pezzi di metropolitana a Roma, otterrà dal Comune la possibilità di edificare su aree pubbliche della città (peraltro già densamente popolate) nuove case. Domenica sera, alla trasmissione Presadiretta di Riccardo Iacona, Lisa Iotti ci ha illustrato, progetti e proposte alla mano, quello che dal settembre 2010 è il nuovo credo dell’amministrazione Alemanno. L’idea che parte dai prolungamenti della linea B (la cosiddetta “B1”), quelli verso Bufalotta da una parte e Casal Monastero dall’altra, ha in realtà il boccone più ghiotto nel tormentato cantiere della metropolitana C, già finito sotto i riflettori la scorsa settimana per la bocciatura senza appello che ne ha fatto la Corte dei Conti in una dettagliata relazione.
Parliamo della terza linea della metropolitana di Roma, che, progettata nel 1990, avrebbe dovuto vedere la luce per il Giubileo del 2000. Undici anni dopo quella data, la tratta che avrebbe dovuto collegare la periferia sud della città (borgata Finocchio, Torre Angela, Giardinetti, Centocelle) a Piazzale Clodio, passando per San Giovanni, Colosseo e Piazza Venezia, è ancora in mezzo al guado. Con i costi già triplicati alla esorbitante cifra di 5 miliardi e 72 milioni (+163% certifica la Corte dei Conti) a causa di quello che nessuno ignorava all’aggiudicazione dell’opera (vale a dire il tessuto archeologico del sottosuolo capitolino) l’opera è in ritardo di quasi un anno anche rispetto ai tempi della gara affidata nel 2006. La linea C rischia di essere per Alemanno e per i romani un pozzo di spesa senza fondo. Se infatti si ha una qualche certezza sulle tratte che dal capolinea sud di Pantano muovono verso Centocelle (che si stima di completare entro il 30 giugno 2012, con quattordici mesi di ritardo), piazza Lodi (30 giugno 2013) e San Giovanni (31 dicembre 2014), è ancora un mistero che strada prenda la parte “pregiata” della metropolitana, quella che dal Colosseo porta a Piazzale Clodio, in gergo chiamata “T2”.
Sono sette chilometri. Per farli le società capofila del consorzio di impresa che sta costruendo il resto della metropolitana (Vianini, Astaldi, Lega Cooperative e Ansaldo) hanno chiesto che gli venissero trasferite le preziose caserme e depositi Atac dei quartieri Prati e Flaminio (175mila metri cubi in pieno centro, pronti ad essere “valorizzati”) e 1,2 miliardi che il Comune dovrà pagare cash. In più i privati chiedono la gestione della linea e anche un canone di 312 milioni di euro l’anno per i prossimi 35 anni. Cioè, tenere aperta la metropolitana di Roma costerebbe qualcosa come 850mila euro al giorno, anche al netto del patrimonio che il Comune dovrebbe alienare ai privati. “È evidente - dichiara Massimiliano Valeriani, presidente Pd della commissione Trasparenza in Consiglio comunale - che un accordo del genere la giunta non può farlo. Un appalto di queste dimensioni andrà per forza di cose messo a gara”.
Il problema, però, resta sempre lo stesso. Se Alemanno (come ha dichiarato) non ritiene di poter prendere in considerazione la proposta fatta dai costruttori, con quali soldi si potrà costruire quel pezzo di metropolitana? È sempre Valeriani a rispondere: “Quella che la giunta si apprestava a portare avanti era un’operazione spericolata. Al punto in cui siamo mi sembra difficile pensare che i privati non debbano contribuire all’opera, ma va trovata una misura. Non ci si può indebitare per trent’anni a venire lasciando tra l’altro ulteriori pezzi di territorio ai costruttori. Non si può, credo, nemmeno lasciargli la gestione del metrò. Non esiste in nessun posto del mondo che due società gestiscano linee interconnesse”.
La relazione di compatibilità economica della Commissione Roma 2020 mostra l'impatto positivo in termini economici di una candidatura della capitale alle Olimpiadi e Paralimpiadi del 2020. Analizzando a fondo la relazione, emerge che da un punto di vista metodologico sono state fatte scelte che hanno come conseguenza la convenienza del progetto. Ne deriva che la Commissione ha effettuato una valutazione che sovrastima alcuni benefici dell’evento, e va quindi presa con cautela.
La recente relazione di compatibilità economica per la valutazione della candidatura di Roma alle Olimpiadi e Paralimpiadi del 2020 ha dimostrato il potenziale impatto positivo dei Giochi sull’economia della capitale, del Lazio e del paese nel suo complesso. La Commissione di compatibilità economica, presieduta da Marco Fortis, afferma che le Olimpiadi, in un’ottica keynesiana di supporto pubblico alla domanda, porterebbero a una crescita dell’1,4 per cento del Pil. Nella Relazione, s’ipotizza un impegno economico di 9,7 miliardi di euro, di cui 4,7 miliardi pubblici: 2,5 per costi di organizzazione, 2,8 per infrastrutture sportive e 4,4 per infrastrutture di trasporti, mobilità e progetti urbani. Le Olimpiadi sarebbero a costo zero per lo Stato: l’investimento si autofinanzierà attraverso un maggior gettito erariale futuro e attraverso i ricavi del Comitato Organizzatore (ad esempio, biglietteria) e della valorizzazione immobiliare. Infine, i benefici occupazionali sarebbero notevoli, ma transitori: 170mila unità anno di lavoro in quattordici anni, con un picco di 29mila nuovi occupati nel 2020. D’altra parte, è necessario smorzare facili entusiasmi.
Il lavoro del team Fortis, seppur svolto con professionalità, sembra rappresentare una giustificazione economica a una decisione puramente politica. Sin dall’edizione di Los Angeles del 1984 sono state introdotte valutazioni ex ante sull’entità del finanziamento necessario e sui benefici derivanti dai Giochi, ma con scarsi risultati. (1) Tali studi sono più che altro esercizi matematici, che dimostrano ipoteticamente la convenienza dell’evento. D’altra parte, se la Relazione fosse inconfutabile, perché il Governo Monti sta prendendo tempo prima di dare una risposta su Roma 2020? Se i Giochi sono tanto convenienti, perché mettere in dubbio i risultati?
IPOTESI CREDIBILI?
Nella relazione, si confronta l’ipotesi in cui vengano assegnati i Giochi a Roma rispetto a un’ipotesi di base in cui i Giochi non vengano ospitati (cioè zero investimenti). Risultato: crescita del Pil e dell’occupazione. Si vede che alla Commissione piace vincere facile. Creare ipotesi alternative credibili è sicuramente impresa ardua. Ma un confronto corretto richiederebbe un’ipotesi rilevante, ad esempio, il caso in cui si investisse comunque in tutte le infrastrutture urbane e sportive previste nella Relazione, escludendo invece i costi direttamente legati all’organizzazione dell’evento. Solo in questo modo sarebbe possibile dimostrare il valore aggiunto delle Olimpiadi.
IL MODELLO
La relazione utilizza una metodologia input/output (I/O) per la valutazione dell’impatto dell’evento. Nell’appendice alla relazione si sostenga che negli ultimi anni tale metodologia sia stata in parte abbandonata a favore di modelli di Computable General Equilibrium (Cge), che superano la visione statica dei modelli I/O, permettendo di inserire le dinamiche comportamentali (come le aspettative) degli agenti. (2) Nel modello I/O utilizzato dalla commissione, i prezzi dei beni e dei servizi “non sarebbero influenzati, se non marginalmente per gli effetti della maggiore domanda” (pag. 62). Non tenendo in considerazione i vincoli dell’offerta, si sta ipotizzando, ad esempio, che i prezzi di alberghi e ristoranti non aumenteranno durante il periodo dell’analisi. In realtà, l’offerta non è sempre disponibile in qualsiasi quantità, ma sono i prezzi a modificarsi. In definitiva, i modelli I/O non includono gli effetti negativi, ma sovrastimano sistematicamente i benefici di un evento. Anche il modello Cge non è esente da critiche, ma è più accurato, e sorge il dubbio sul perché non sia stato scelto. La risposta si trova tra le righe dell’appendice: “i modelli Cge sono più costosi da sviluppare rispetto agli input-output, a fronte della struttura più complessa e del maggiore quantitativo di dati richiesto” (pag. 69). Di fatto bisognerebbe modellizzare il sistema dei prezzi e dei salari, complicando l’analisi. (3) Ne consegue che si è preferito risparmiare tempo e denaro.
I PUNTI CRITICI
Nella Relazione si prevede anche: 1. un aumento dei posti di lavoro legati all’organizzazione dei Giochi Olimpici, al commercio, al turismo e al settore delle costruzioni. Ma che tipo di posti di lavoro? Part-time? Temporanei? 2. nessun effetto negativo per il turismo, grazie alla particolare configurazione del nostro sistema turistico, caratterizzato da molti poli di attrazione. I turisti continueranno a visitare Roma e altre località italiane, senza paura di sovraffollamento, con un effetto positivo sui consumi e sul settore turistico. Un modello Cge avrebbe invece incluso l’effetto di un aumento dei prezzi dovuto alla crescita della domanda dei turisti, e anche lo spostamento di risorse in questo settore da altre industrie, con conseguenze economiche negative sulle seconde. Giesecke e Madden dimostrano con un modello Cge come i Giochi di Sidney abbiano comportato uno spiazzamento dei consumi a livello nazionale di 2,1 miliardi di euro; (5) 3. gli investimenti in infrastrutture (il villaggio olimpico e il villaggio media ) verranno “certamente” recuperati attraverso i privati. Una visione a dir poco ottimistica: il costo delle Olimpiadi di Londra 2012 è triplicato dall’anno della candidatura e il governo dovrà coprire con soldi pubblici il mancato investimento, a seguito della crisi, da parte dei privati. 4. la spesa pubblica prevista per i Giochi implicherà una riduzione della spesa in altri settori: a essere tagliate saranno le spese che risulteranno meno efficienti in termini di moltiplicatore del reddito. Sarebbe interessante sapere se anche per questa scelta si utilizzerà sempre un modello I/O. I risultati finali della Commissione dipendono dunque dalle discutibili ipotesi del modello, che dimostrano la convenienza economica del progetto Roma 2020. Ciò implica che non è una valutazione del tutto obiettiva, e, sovrastimando i benefici, dovrebbe essere presa con cautela.
(1) Preuss, H. (2004) “The Economics of Staging the Olympics”. Edward Elgar. London Reference Collections.
(2) Dwyer, L., P. Forsyth, J. Madden, and R. Spurr (2000) “Economic Impacts of Inbound Tourism under Different Assumptions Regarding the Macroeconomy”. Current Issues in Tourism, 3: 325-363.
(3) Blake, A. (2005) “The Economic Impact of the London 2012 Olympics”. Nottingham University Business School Working Paper No. 5, 2005.
(4) Giesecke, J.A., and J..R Madden (2007) "The Sydney Olympics, seven years on: an ex-post dynamic CGE assessment" Centre of Policy Studies/IMPACT Centre Working Papers -168, Monash University, Centre of Policy Studies/IMPACT Centre.
1. DAGOREPORT
La conquista del cinema Etoile, nella centralissima piazza San Lorenzo in Lucina, da parte del colosso della moda francese LVMH di Bernard Arnault, merita due righe. Intanto, lo spazio ha visto una guerra fino all'ultima goccia di sangue tra Armani e il transalpino. Non si sa come e perché, bisognerebbe chiederlo al Comune di Roma, ha vinto Arnault.
Anche perché l'ostacolo maggiore all'operazione porta il nome di "cambio di destinazione": come ha fatto il colosso parigino a convincere il Campidoglio a cedere, da cinema a grande magazzino di moda, il "più grande d'Europa"? Con i soliti "inghippi" alla romana: dalla pavimentazione del Tridente a una serie di "trovate", prossime alle stronzate, di creare una saletta cinematografica (con poltrone d'oro!) per chissà quali documentari in gloria della griffe, più vari ipotetici e anche ridicoli riferimenti al mondo del cinema.
Amorale della fava: mentre Roma dimostra ancor di più di essere una città portata alla penetrazione anale da parte di chiunque atterri a Fiumicino, il paraguru Arnault ha ‘incassato' un grande valore immobiliare.
2- RESTYLING GRIFFATO PER IL TRIDENTE FINANZIATO DALLA MAXI BOUTIQUE VUITTON
Alessandra Paolini, per "la Repubblica - Roma "del 13 maggio 2011
Come è possibile? La generosità non c'entra. C'entra piuttosto un accordo tra il Campidoglio e la Luis Vuitton, che a piazza in Lucina aprirà nei prossimi mesi il suo store più grande d'Europa. Lo aprirà lì, nell'ex spazio Etoile, ancor prima cinema. E proprio i soldi - due milioni e mezzo di euro circa, realizzati con gli oneri concessori per il "cambio di destinazione" - verranno spesi per rimettere a posto uno degli angoli più nobili della città eterna.
Il rapporto è diretto. I soldi saranno spesi direttamente dal marchio francese, che ha scelto anche le ditte committenti, mentre al Comune spetterà la supervisione dei lavori. Dovranno essere celeri: 32 settimane, complessivamente. E portati avanti con un sistema a "quarti" di via per cercare di creare minor disagio possibile ai negozi, che con la crisi non se la passano bene.
I lavori sono necessari. "Basta fare un giro per via del Gambero per vedere quante buche ci sono. Passeggiare in certe strade oramai è a rischio frattura", dice Stefano Mencarini, dell'associazione Tridente di Confesercenti. Così i commercianti, seppur spaventati (ne sono stati interpellati 250) sembra siamo pronti alla grande "rivoluzione". Le strade verranno lastricate da sampietrini, i marciapiedi buttati giù e al loro posto ci sarà una nuova pavimentazione, fatta da altri sampietrini di dimensioni più grandi.
2- LOUIS VUITTON E CENTRO SPERIMENTALE INSIEME PER I NUOVI TALENTI DEL CINEMA
http://www.bestmovie.it/
Uno dei marchi più prestigiosi dell'alta moda e la più antica scuola di cinema del mondo uniscono le forze per sostenere e arricchire la formazione delle promesse della settima arte in Italia. In occasione dell'apertura della Maison Roma Etoile, è stata infatti siglata una partnership triennale tra Louis Vuitton e Centro Sperimentale di Cinematografia a sostegno dei giovani talenti dell'istituto.
Gli studenti della Scuola Nazionale di Cinema avranno così l'opportunità di frequentare workshop e laboratori con celebri personalità del mondo del cinema, amiche della Maison. Gli studenti particolarmente meritevoli, ma privi di mezzi, avranno inoltre accesso a borse di studio istituite proprio in virtù di questa nuova collaborazione.
3- ROMA IN SVENDITA
Paola Pisa, per “Il Messaggero”
Due ali di folla come agli Oscar. Applausi a scena aperta per ogni diva che avanza. La piazza gremita. Il palazzo illuminato a festa. Un evento a stars&fashion da non dimenticare quello della apertura della prima Maison italiana, la Etoile Louis Vuitton. Lo scalone che occupa gran parte della immensa sala è stato concepito per sembrare una pellicola che si srotola. Le pareti-pannello che accolgono all'ingresso sono composte da mini-immagini di film in super-otto, un gioco-impazzimento da vero cinofilo.
Le prime borse in cui ti imbatti sono quelle colorate e disegnate da Sofia Coppola, amica della griffe. Nella saletta, con diciannove poltrone supercomode, si proiettano corti d'autore. Uno spasso anche per chi vorrà solo entrare e visionare. Ieri mattina si sono visti il filmato intitolato Handmade cinema di Laura Delli Colli e Guido Torlonia, produttore Luchino Visconti di Modrone, voce narrante Chiara Mastroianni e la serie di minifilm che parlano del Viaggio, complice da sempre del marchio francese. La collaborazione col Centro Sperimentale sarà continua e si avvarrà della collaborazione di Luca Guadagnino.
Ma è la moda, chiaro, che domina. E, nello splendore di luci che abbagliano, nel tripudio di bauli, borse, accessori, vestiti, nel trionfo di champagne e negazione di tutto quanto sia triste e depresso, con una iniezione di ottimismo come fosse una commedia glamour, ecco arrivare i personaggi da red carpet che fanno sognare dal grande schermo. Serata mix di Hollywood e Cinecittà.
C'è Bernard Arnault, presidente di LVMH, gruppo che riunisce il top del lusso mondiale. Ad accogliere è Yves Carcelle, presidente di Vuitton che si dichiara entusiasta di far rivivere un palazzo storico, nato nel '900 per il cinema muto. E' stata qui la prima, nel '49, di Riso amaro. «Abbiamo fatto un omaggio alla Hollywood sul Tevere», dice Pietro Beccari che ha seguito la realizzazione del negozio come vice presidente Vuitton, ma prestissimo sarà presidente di Fendi.
Ecco a voi, appunto, la Maison Etoile Louis Vuitton, spazio-cinema-libreria che più grande non si può. L'ha ideata Peter Marino, archistar americana, presente nel suo completo byker in pelle nera. C'è Patrick Louis Vuitton, discendente della famiglia di fondatori del marchio, che ora segue gli ordini speciali.
Da domani fino al 5 febbraio, alcuni bauli unici saranno in esposizione. Altri, così ha voluto l'architetto, salgono fino al cielo in quella parete infinita che Marino chiama la colonna vertebrale del negozio. L'inaugurazione è un momento di grandeur. Cate Blanchett è un sogno nel vestito Anni 50 pastello, Catherine Deneuve, accompagnata da Carla Fendi, indossa una pochette gioiello ed è accompagnata dalla figlia Chiara Mastroianni, ci sono Antoine Arnault e la fidanzata Natalia Vodianova che è uno schianto, è arrivato Stefano Accorsi in genere molto parigino e Laetitia dipendente ma al momento a Roma per le prove dello spettacolo Furioso Orlando che debutterà tra poco all'Ambra Jovinelli.
Poi Margaret Madè, Laura Morante, Francesco Scianna, Lavinia Biagiotti, Delfina Delettrez, Nicola Bulgari, il premio Oscar Francesca Loschiavo, Anita Caprioli, Adriano Giannini, Sveva Alviti, Saverio Ferragina con una delle top model che hanno sfilato per Dior e si è precipitata qui. C'è un po' di society romana che non guasta, come Mario D'Urso, Ivonne Sciò, Isabella e Ugo Brachetti Peretti, Ginevra Elkann e il marito Giovanni Gaetani dell'Aquila d'Aragona. Un jet privato con venti persone a bordo è arrivato dalla Francia, le limousine prenotate sono un subisso. La cena privatissima dopo il vernissage è a Palazzo Ruspoli.
Dal Colosseo a piazza Navona caffé e locali colonizzano il suolo pubblico Alemanno ha tenuto per anni nel cassetto i divieti delle Sovrintendenze E il ministero dei Beni Culturali ha fatto finta di niente. Degrado alla romana
Roma Eterna ostaggio dei “bottegari”. Col sindaco Alemanno che corre a sospendere e a rinviare il più possibile le stesse prescrizioni delle Soprintendenze statali che lui, nel 2010, aveva fatto proprie e che erano poi quelle della Giunta Veltroni. Sotto le feste natalizie il sindaco le ha spostate a dopo la Befana e, quando il I ̊ Municipio è intervenuto per farle rispettare a Campo de’ Fiori e al Pantheon, con un’altra ordinanza volante ha prorogato di 60 giorni l’illegalità degli orribili e pericolosi dehors di plastica. Ma il “no” delle Soprintendenze per le stufe a gas e per i teloni di plastica non era allegato alla delibera dello stesso Alemanno? Che importa? Lui, prima recepisce e poi neutralizza...il resto, si vedrà. E pensare che – sia pure senza prevedere sanzioni (ecco il buco) – la delibera è molto restrittiva: tende e teloni senza scritte né mantovane, solo riscaldamenti consentiti dai vigili del fuoco, via i gazebo di plastica, ecc.
Roma, dunque, rovesciata dall’egemonia “bottegara”? In piazza della Rotonda, davanti, nientemeno, al Pantheon 900 mq. occupati da locali, invece di ridursi, sono diventati 1.000. In via Salvi, di fronte, e dico poco, al Colosseo, il marciapiede è ostruito da due locali, per cui «flussi enormi di bambini di 5 scuole adiacenti», denuncia il consigliere verde del I ̊ Municipio, Nathalie Naim, «e folle di turisti devono passare in strada dove transitano centinaia di auto a velocità elevata». Non fai in tempo a compiacerti della vasta area pedonale in piazza Sant’Apollinare e scopri che è in funzione delle pizzerie (una è penetrata dentro la medioevale Tor Sanguigna, lì vicino). Ed è la prova generale della nuova Piazza Navona “restaurata” dal Comune senza più marciapiedi: una marea di tavolini.
Fiere le proteste del Comitato che coordina le battagliere associazioni dei residenti. Questi, pur ridotti a 80-90.000 (neppure pochissimi), rappresentano l’unico controllo sociale su una selva di locali, spesso effimeri, che la malavita, con la crisi, ha aperto o fatto propri, centri di spaccio e di riciclaggio. Senza i residenti, il cuore di Roma, come di ogni città storica, sarebbe zona franca per la criminalità. Tanto più che le pattuglie di polizia sono, per mancanza di fondi, assai poche. Per l’indecoroso balletto del decoro urbano il Comitato per la Bellezza ha chiamato in causa lo stesso ministro Ornaghi, il segretario generale del MiBAC Recchia, la soprintendente Galloni, il sottosegretario Cecchi. Solo l’ultimo ha risposto: il 5 febbraio 2010 la materia è stata oggetto di accordo fra le Soprintendenze (Beni Architettonici e Archeologici) e il Comune, però «non so quale esito questo strumento abbia avuto». Molto evasivo. Eppure, nell’indecoroso balletto il Ministero ci gioca la faccia. Se si fa rispettare, salva, almeno in parte, la faccia sua e un bene come Roma. Sennò, povera Roma nostra. Addio residenti. Addio turismo qualificato. Tutta “movida” stile Campo de’ Fiori. Se vi pare un affare, fate voialtri.
I palazzinari romani la regola l’hanno imparata negli anni ‘50, prima ancora del piano regolatore della Capitale: inizia a costruire, difendi tutto il cemento che hai messo in piedi, poi qualcosa succederà. È una regola aurea, che, unita a molte altre di bassa cucina di uffici, è quasi sempre vincente. Una regola che è diventata tanto più vincente quando i costruttori, finanziariamente molto liquidi, hanno iniziato a contrattare con un Comune sempre più povero, avendo in tasca una serie di condoni sempre più fantasiosi e una quantità di scheletri di cemento sempre più elevata da far adottare ai piani urbani. Lunedì prossimo il Comune di Roma riprenderà la discussione sull’attuazione del Piano Casa che la Regione Lazio ha approvato dopo una lunga battaglia consiliare nell’agosto scorso. In teoria il Comune dovrebbe porre dei paletti all’enorme deregolamentazione che la maggioranza di centrodestra alla Regione (Polverini, Pdl e anche Udc, che in Campidoglio siede invece all’opposizione) ha messo in pista. In verità, però, con il Piano Casa, si dà il via a un’ulteriore ampliamento delle cubature, ben oltre le previsione del Piano Regolatore Generale, il documento cardine che dovrebbe guidare le politiche urbane dell’amministrazione, tanto più perché approvato appena un paio d’anni fa dalla stessa aula consiliare.
E invece dopo aver ammesso tutta una serie di deroghe al Prg per venire incontro al Piano Casa regionale, la Giunta ha scritto un emendamento, il 5.3, per cui si lascia un’altra strada per sanare altri metri cubi di cemento. La strada passa attraverso i “relitti urbani”. Cosa sono i “relitti urbani”? Sono quei fabbricati spontanei abbandonati e degradati che, all’interno della città, avranno adesso la possibilità di essere “riqualificati”. Il bando, le cui domande sono scadute lo scorso ottobre, prevede che, “limitatamente ai soli edifici esistenti, dismessi o degradati” sia possibile proporre interventi anche “sulle aree agricole, a verde o a servizi pubblici”. Vale a dire che se un costruttore ha edificato un manufatto su un’area sulla quale non doveva esserci e che per via di quello stesso manufatto è andata con il tempo degradandosi, adesso riceverà un premio. Quale? Quello di poter ristrutturare l’immobile, oppure abbatterlo e ricostruirlo, o, ancora “rilocalizzare” i volumi eventualmente demoliti in altre aree che abbiano le medesime caratteristiche di degrado richieste dal bando. Una pacchia.
Questa ulteriore deroga al piano regolatore, i consiglieri capitolini si troveranno a votarla per l’appunto lunedì, quando, con il Piano Casa, si troveranno a certificare che “gli interventi sono comunque applicabili, senza eccezioni, negli ambiti oggetto di proposte di interventi di attuazione dei Bandi di recupero dei Relitti urbani qualora le stesse risultino ammissibili a seguito dal processo valutativo da quelli previsto”. Ma quali sono le proposte che il Campidoglio ha ricevuto su quel bando ormai tre mesi fa? E dove sono? I consiglieri comunali che hanno posto la questione hanno ottenuto per risposta che gli uffici sono ancora in una fase istruttoria, e che quindi a questa domanda non c’è risposta. Vale a dire che il Comune non dice chi ha fatto domanda né dove. Al quartiere Prenestino, sul tema, c’è una certa agitazione. L’area dell’ex Snia Viscosa, che si trova per l’appunto sulla Prenestina, tra il fascio di binari che dalla stazione Termini porta a Tiburtina, pare infatti rientrare a pieno titolo in quel bando. Non è l’unica (e nessuno sa se il proprietario ha chiesto di accedere al bando), ma forse può spiegare più di ogni altra di cosa parliamo.
Negli anni ‘80, il costruttore Antonio Pulcini (quello che anni dopo darà vita alla grande lottizzazione delle Terrazze del Presidente di Acilia), ottiene di poter costruire un palazzo in quell’area che, abbandonata dalla fabbrica chimica, era destinata - già all’epoca - a verde pubblico e servizi.
Qualcuno, al Comune, aveva combinato un marchiano “errore”, se così lo si vuol chiamare, tratteggiando un’area verde con i colori del terreno edificabile. Pulcini, legittimato dalla nuova colorazione, costruisce, trova prima nel sottosuolo la fogna della Marranella, poi, addirittura una fonte d’acqua che sommerge i primi tre piani dell’edificio dando vita a un bizzarro laghetto urbano con vista sui capannoni di fabbrica. Dal lago esce l’ecomostro, altri quattro piani di scheletro di cemento. Fu solo allora che l’assessore all’Urbanistica bloccò la concessione, cassò l’errore (che stranamente compariva solo sul piano regolatore depositato in Campidoglio), e, con apposita ordinanza, nel 1993, ne sancì la demolizione.
Tra un ricorso e l’altro passano diversi anni, fino a quando, nel luglio 2010, il Tar del Lazio, vista la scarsa opposizione del Comune di Roma e della Regione Lazio (la sentenza recita: “l’Amministrazione tace sul punto, avendo omesso ogni utile accertamento al riguardo”), accoglie parzialmente la richiesta del costruttore di annullare quell’ordinanza. È il primo passo per il quale, in caso di esproprio dell’area, il soggetto pubblico dovrà farsi carico non solo del terreno, ma anche dell’edificio abusivo.
In questi anni, quell’area, che nei piani del Comune aveva una vocazione universitaria non lontana dalla sede de La Sapienza - è rimasta bloccata tra un progetto di riqualificazione che prevedeva la costruzione di aule e residenze per studenti, e la difficoltà di trovare una soluzione che mettesse d’accordo università, costruttore, Comune e comitati di quartiere.
In questo limbo, l’area non ha trovato una destinazione e adesso ospita un parco pubblico di modeste dimensioni, una serie di corpi di fabbrica in uno stato di conservazione più o meno decente e uno scheletro di piscina mai finito, regalo degli appalti degli ultimi mondiali di nuoto a Roma, ancora sotto inchiesta. Ora, in questo che è già uno dei quartieri con più abitanti nella Capitale, potrebbero arrivare nuove abitazioni.
Confesso di essere rimasto piuttosto trasecolato, dazed and confused (Led Zeppelin n. 5? O Yardbyrds ?), di fronte al fragoroso silenzio che ha accompagnato e accompagna il Decreto Monti per Roma Capitale. Gli articoli e le prese di posizione critiche si possono contare sulle dita di una mano e, come diceva un mio professore di ginnasio, mi posso pure amputare qualche dito. Silenzio di molti, di quasi tutti. Associazioni incluse.
Vedremo ora che succederà nelle commissioni deputate. Ma - senza pressioni affinché la sostanza del Decreto cambi - temo che rimarrà quello che è: un primo sostanziale gravissimo rattrappimento del ruolo del Ministero e delle sue Soprintendenze, un abbassamento al livello del nuovo ente Roma Capitale che diventa così controllore e controllato insieme, o meglio assai più controllore senza controlli superiori, tecnici, specifici, controllore "concorrente" (con quel che succede nel superstite Agro Romano e in un centro storico vincolato a macchia di leopardo, stiamo freschi!).
Del resto è già successo quando si è delegata alle Regioni la tutela paesaggistica e queste l'hanno sub-delegata ai Comuni i quali, avendo a disposizione il freno della tutela e l'acceleratore dell'edilizia purchessia, hanno premuto quest'ultimo sperando così di incrementare, nell'immediato, la quota di entrate provenienti dagli oneri di urbanizzazione. Operazione resa possibile dopo la cancellazione, operata dal ministro Franco Bassanini nel 2000, dell'articolo 12 della legge n.10/77 che vietava l'uso degli oneri di urbanizzazione come spesa corrente vincolandoli alle sole spese di investimento.
Perché tanto fragoroso silenzio? Risponderò come faceva un giorno con me al telefono il grande disegnatore e incisore satirico Mino Maccari, cioè con versi tratti da libretti d'opera. "Ardon gl'incensi" (Lucia), "Oh, patria oppressa" (Macbeth), "Zitti zitti, piano piano, senza far tanto baccano, presto andiamo via di qua" (Barbiere), "Questa o quella per me pari sono" (Rigoletto). "All'idea di quel metallo" (Barbiere).
Quanto alla tutela, essa è, come Violetta, "sola, perduta, abbandonata in questo rumoroso deserto che chiamano...Roma".(Traviata).
E per parte nostra, che diremo? "La mente mia non osa pensar ch'io vidi il vero" (Otello di Verdi). A meno di non pensare sconsolati che "la fatal pietra sovra noi si chiuse..." (Aida) rinunciando al "Suoni la tromba e intrepido" (Puritani). Giammai. Ma è sempre più dura fra cecchi e cecchini.
Il tempo si è stampato meglio delle parole sugli avvisi di carta. Lungo l’interminabile rete di recinzione, raggrinziti come foglie, si legge appena “non sostare nei giardini durante il trattamento, tenere chiuse le finestre” e ancora: “Togliere i panni stesi, cuscini, giocattoli e cibi per animali dalle aree aperte, ecc.”. La ditta disinfestazioni avverte i “condomini limitrofi”. Non si scherza, succede quando manca la manutenzione ordinaria e allora bisogna andar giù pesante. I “limitrofi” attendono da quaranta anni un parco, un’area di pace o più semplicemente, un orizzonte libero per far riposare lo sguardo. Qualcosa oltre il serraglio inestricabile di vegetazione che per pudore o forse per pietà, nasconde gioielli come Il casino nobile: Preziosa testimonianza del primo “stile Liberty” italiano, oggi cade letteralmente a pezzi.
Villa Blanc, quattro ettari di verde privato sulla Nomentana e quattro vincoli di tutela storica, artistica e paesaggistica non sono l’Area 51. Eppure i misteri, anche qui, non mancano. Voluta alla fine dell’Ottocento dal Barone Alberto Blanc, al pubblico non si è aperta mai. Subito il degrado. Dalla Generale immobiliare negli anni 50, finisce alla Sogene di Michele Sindona. Poi, di proprietà in proprietà, perde per strada il diritto di prelazione all’acquisto da parte dello Stato, e cominciano serie interminabili di trattative tra privati e il Comune di Roma, mai concretamente interessato a far valere le prerogative, sacrosante, dell’interesse pubblico. L’ultimo padrone della Villa, dal 1996 è la LUISS, Libera Università della Confindustria che vorrebbe trasformare la Villa in una Business School per Supermanager d’elezione. Di certo, tra due anni, terminerà il vincolo a verde pubblico e il giardino diverrebbe per pochi e paganti.
Tra le moltissime voci contrarie a un accordo di compromesso tutto favorevole alla proprietà, da venerdì scorso c’è anche quella dell’Italia dei Valori (Roberto Soldà, Segretario romano e Giulia Rodano, Responsabile Nazionale della Cultura), che si aggiunge in Piazza Winckelmann allo “storico” Comitato Villa Blanc. I cittadini del quartiere ricordano una manifestazione ad aprile, stesso sole e stessa piazza. Altri politici e altri toni, forse troppo ottimismo; si chiedeva al presidente Marcucci di impegnare il Sindaco Alemanno all’acquisto della Villa. Il Sindaco non rispose... poi il nulla e il rincorrersi di voci, “stanno per vendere di nuovo”, “E’ tornato il progetto del parcheggio”. Solo alcuni dei timori di chi abita qui da una vita.
Se la “Carta di Firenze”, è il testo sacro internazionale della tutela delle ville e i giardini storici, quel “paradiso come immagine idealizzata del mondo” sembra oggi lontano e perduto. Stato e Comune di Roma, a oggi, han ben evitato di ricordare alle proprietà gli articoli del Codice: ovverosia chi rompe paga ma i privati “cocci”, se vincolati, appartengono secondo la legge, allo Stato. Per ora, a due passi dalla Villa del mistero, quel che è sicuro politicamente o letteralmente interpretabile, è scritto sui volantini del sit-in: Villa Blanc... noi non possiamo entrare.
Ha fatto bene il governo Monti sia ad approvare fra i suoi primi atti il decreto legge su Roma Capitale sia ad istituire un Ministero per la Coesione territoriale. Il concetto di Nazione è inciso nella nostra Costituzione, a partire dall’art. 9 che, in modo sintetico e felice, afferma: “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Con una prevalenza – di visione e di compiti – per l’apparato delle Soprintendenze statali allora ricadenti nella Direzione generale delle Antichità e delle Belle Arti (da non pochi rimpianta) presso la Pubblica Istruzione. Poi, con Giovanni Spadolini, nel Ministero dei Beni Culturali e Ambientali felice connubio presto spezzato togliendo l’Ambiente e lasciando però il Paesaggio.
La versione Pdl-Lega (che ora insorge) del decreto per Roma Capitale assegnava di fatto le deleghe per la tutela al nuovo ente togliendole a Regione e Ministero. Questa è certamente meno infelice e però suscita seri problemi funzionali, di competenza, che il Parlamento deve chiarire. All’articolo 131 del Codice per i beni culturali e paesaggistici è scolpito: “Salva la potestà dello Stato di tutela del paesaggio”. Norma che riprende quanto ribadito da varie sentenze della Suprema Corte. Ci deve dunque essere un organismo tecnico-scientifico che esercita un superiore controllo sugli atti di Regioni, Province e Comuni. Non su quelli del nuovo ente Roma Capitale? E’ vero che solo a Roma esiste – omaggio di Corrado Ricci – una Soprintendenza comunale, oggi flebile se si guarda al degrado del centro storico. Essa è affiancata alle Soprintendenze statali di settore, che però da sempre prevalgono, come del resto sta scritto nel Codice (prima Urbani, poi Buttiglione, infine Rutelli). Nel decreto inviato alle Camere si parla invece di una Conferenza delle Soprintendenze composta dalla Direzione regionale per i beni paesaggistici del Lazio, dalla Soprintendenza Capitolina e dalle varie Soprintendenze statali competenti su Roma. Alla pari. Formula assai macchinosa e, temo, inefficiente. Roma Capitale ha tutta una serie di deleghe che la fanno “concorrere” a molte cose. Escluse però le chiese romane “nazionalizzate” – SS Apostoli, Sant’Ignazio, Sant’Andrea della Valle, il Gesù, Santa Maria del Popolo, Sant’Andrea al Quirinale, ecc., una settantina - ricomprese nel Fondo per l’Edilizia di Culto presso il Viminale. Per queste, fermi tutti.
Ma essa “concorre” alle politiche di tutela e di valorizzazione paesaggistica, e ancora a tutela, pianificazione, recupero e riqualificazione del paesaggio e “all’attività di vigilanza sui beni paesaggistici tutelati dal Codice”. In tanta confusa collaborazione “orizzontale”, ci vorrà pure qualcuno che, alla fine, dice l’ultima parola e su questo l’art. 131 del Codice parla, o parlava, chiaro. Come ci vorrà pure qualcuno che apponga i vincoli: archeologici, architettonici, paesaggistici, ecc. E chi se non il Soprintendente ministeriale, cioè lo Stato? Insomma, sono tanti i nodi e garbugli da sciogliere e non si capisce come al MiBAC (forse, con la crisi di governo, in faccende di poltrone affaccendati) abbiano avallato un testo simile. A Roma la gestione dell’urbanistica è stata assai debole, con 12-14mila ettari “mangiati” dall’abusivismo. Fenomeno, ora, tutto speculativo, e galoppante. Al neo-ministro Ornaghi serve un sottosegretario “tecnico” molto esperto nei problemi dell’Amministrazione, centrale e periferica. Facile da individuare fra i tanti Soprintendenti o Direttori generali coraggiosi e di valore sciaguratamente mandati in pensione a poco più di sessant’anni.
Il presidente di Confesercenti, Valter Giammaria, riguardo il caos dovuto all’apertura del megastore di via Riano, ha dichiarato: “La Confesercenti provinciale di Roma stigmatizza e si fa interprete del disagio della città e delle imprese per quanto è accaduto nella giornata di ieri a Roma Nord in occasione dell'apertura di una grande struttura di vendita in zona Ponte Milvio. La Confesercenti chiede al sindaco e all'assessore al commercio Davide Bordoni, di conoscere come è stato possibile trasformare una superficie destinata alla riqualificazione del mercato rionale e dove in precedenza operava una struttura commerciale con più attività presenti, in questo tipo di struttura di vendita.
La riqualificazione dei mercati rionali è un argomento che riteniamo importante per l'economia della città e non può divenire occasione per snaturare l'obiettivo principale facendone strumento per ulteriori spazi alla grande distribuzione. Inoltre riteniamo che l'evento di inaugurazione e quanto è accaduto con il blocco dell'intero quadrante della città sia un fatto grave che non può essere risolto con delle semplici scuse. Ciò dimostra quello che da anni Confesercenti ribadisce in seno alle Conferenze di Servizi in cui chiediamo che sia sempre verificata la compatibilità di queste grandi strutture con il contesto di viabilità dell'area urbana in cui queste vengono attivate: accessibilità, parcheggi, fruibilità”.
Confesercerti “ribadisce la necessità di arrivare al più presto alla definizione del Piano Urbanistico Commerciale del Comune di Roma, bloccando, da subito e per almeno due anni il rilascio di nuove autorizzazioni per grandi superfici, anche perché la crescita in maniera selvaggia e senza programmazione di grande distribuzione contribuisce alla chiusura di migliaia di piccole e medie attività con la conseguente perdita di posti di lavoro, cosa a cui stiamo assistendo in questi anni nella nostra città”.
postilla
Non per voler fare a tutti i costi il bastian contrario, ma non pare proprio che alla intuizione di un problema sia seguita in questo caso una risposta adeguata: se programmare meglio il rapporto tra forma urbana e flussi generati dal consumo significa blocco di autorizzazioni, e in sostanza l'ennesima guerriglia tra esercizi locali e grandi catene, non si andrà proprio da nessuna parte, salvo forse sui tempi medi desertificare ulteriormente le zone centrali e favorire la crescita dei complessi ad orientamento automobilistico esterni e il relativo spreco di superfici. Nel caso specifico, ma non solo, il problema è stato creato dal rapporto perverso tra consumi e mobilità: come già Veltroni aveva platealmente dimostrato di non capire (faremo la metropolitana per andare ai centri commerciali) esiste un legame indissolubile tra formati commerciali, tipo di spesa, mobilità privata. Ed è su questo fronte che occorrerebbe intervenire, magari anche attraverso cose che sembrano non avere alcun rapporto diretto col territorio, magari usando intelligentemente le stesse "nuove tecnologie" che applicate al solo svuotamente del portafoglio, o a santificare chissà perché Steve Jobs, sfruttiamo tanto male (f.b.)
L’impianto del Salaria Sport Village ha ottenuto il nulla osta idraulico, e dunque il parere favorevole, il 31 marzo 2008, da parte di Roberto Grappelli, segretario generale dell’ Autorità di Bacino del Fiume Tevere (ABT), dopo che il Commissario delegato ai Mondiali di Nuoto Roma ’09, Angelo Balducci prima e Claudio Rinaldi poi, presentarono il progetto come “opera di interesse pubblico non residenziale, non delocalizzabile e come tale trattata ai sensi degli articoli n.46 delle Norme Tecniche di Attuazione (NTA) del Piano di Assetto Idrogeologico (PAI)”. Il Salaria Sport Village situato tra le aree esondabili del Piano di Stralcio – PS1 dell’ABT, classificate come ‘Zona A’, si trova in un’area dove è vietata qualunque attività di trasformazione dello stato dei luoghi (morfologica, infrastrutturale, edilizia), ma dove possono essere realizzati impianti destinati ad attività sportive compatibili con l’ambiente senza creazione di volumetrie (p.es., un campo di calcio senza spogliatoi attigui), purché venga consentita la libera attività espansiva delle acque per la sicurezza di tutti gli abitanti di Roma e dove l’attività edificatoria è fortemente limitata, salvo che per le opere pubbliche o di pubblico interesse. L’art.46 recita infatti: “all’interno delle fasce fluviali e delle aree a rischio idraulico ed idrogeologico è consentita la realizzazione di opere pubbliche e di interesse pubblico purché compatibili con le condizioni di assetto idraulico e/o geomorfologico definite dal PAI e non altrimenti localizzabili”.Quali sono dunque le motivazioni che hanno portato l’ABT a rilasciare il nulla osta idraulico per la realizzazione dl Salaria Sport Village ? Sostanzialmente tre: 1) opera di interesse pubblico 2) opera non delocalizzabile, 3) opera compatibile con le condizioni di assetto idraulico e/o geomorfologico. In dettaglio:
1. OPERA DI INTERESSE PUBBLICO.
Secondo la sentenza del TAR del Lazio nr.00906/2011, a seguito del ricorso nr.2834/2010 presentato dallo stesso Salaria Sport Village, l’impianto non può considerarsi di ‘interesse pubblico’. Ricordiamo che si definisce ‘opera pubblica’ un’opera che prevede la materiale modificazione e trasformazione di un bene immobile, che è destinata all’interesse pubblico e che è realizzata da un ente pubblico. Un’opera di interesse pubblico (poiché i termini “pubblica utilità”, “pubblico interesse”, “interesse generale” sono sostanzialmente equivalenti) deve avere gli stessi requisiti, ma è realizzata da parte di un soggetto privato – anche per perseguire utilità di natura privata – ferma restando la soddisfazione di un concreto interesse pubblico (per esempio un privato può costruire un parcheggio tramite project financing e ricavarne utili per soddisfare l’interesse pubblico, quello di dotare l’area di un parcheggio necessario ai cittadini). Ne segue che ogni opera pubblica è di pubblica utilità (ma non sempre è vero il contrario) e che un’opera di pubblica utilità deve comunque avere un interesse pubblico. Inoltre, la definizione di ‘interesse pubblico’ di un’opera deve essere dichiarata esplicitamente dalla pubblica amministrazione. Il Salaria Sport Village è stato dichiarato opera di interesse pubblico dal Commissario delegato ai Mondiali di Nuoto Roma ’09, pertanto doveva assolvere finalità di carattere generale legate alla sua funzione nel contesto della città di Roma. Non era allora, e non lo è nemmeno ora, possibile assumere ogni generico interesse pubblico (nel caso specifico, mancanza di piscine) per disattendere i limiti imposti dall’ordinamento urbanistico.
Su questo tema si è inserito il Comune di Roma che nella deliberazione di Giunta Comunale n.196 del 30 giugno 2010 ha ribadito l’interesse pubblico e fatto propri i relativi progetti di soli 5 impianti sportivi realizzati su aree di proprietà comunale in occasione dei Mondiali di Nuoto Roma ’09, escludendo da tale determinazione gli impianti di proprietà privata come il Salaria Sport Village. In base a ciò il TAR ha sentenziato quanto segue: “Si rivela un assunto indimostrato che, ai fini in discorso, ogni intervento compreso nel piano delle opere per i Mondiali di Nuoto 2009 sarebbe dovuto essere considerato d’interesse pubblico in quanto realizzato per un’iniziativa rispondente a tale interesse, a prescindere dalla circostanza che sia stato posto in essere su strutture di proprietà pubblica o privata”. Secondo il TAR dunque il Salaria Sport Village non è un’opera di interesse pubblico. Si attende l’espressione del Consiglio di Stato, che doveva esprimersi il 30 giugno.
2. OPERA NON DELOCALIZZABILE
Sostenere che in tutto il IV Municipio non ci fosse un’altra area dove realizzare delle piscine per ‘interesse pubblico’, non è credibile. Anche perché il Comune di Roma ha sempre espresso con chiarezza “parere non favorevole all’ampliamento e al potenziamento degli impianti” (conosciuti anche come ex centro sportivo della Banca di Roma, a Settebagni), così come negativo è stato il parere della Provincia di Roma. Come ha potuto dunque Roberto Grappelli, segretario generale dell’ABT, autorizzare il 31 marzo 2008 come “non altrimenti localizzabili” i 160 mila metri cubi di cemento del Salaria Sport Village in area esondabile? Non si sa, quello che invece si sa è che Grappelli è stato premiato, il 13 agosto del 2008, con la nomina a Presidente di Metropolitane di Roma”, carica che ha mantenuto fino al 19 gennaio 2010, per divenire poi amministratore unico di Officine Grandi Revisioni (OGR), la società interna dell’Atac, società responsabile della manutenzione dei treni delle metropolitane. Così come si sa che l’impresa che ha eseguito i lavori al Salaria Sport Village era della moglie di Diego Anemone, Vanessa Pascucci, a sua volta socia e finanziatrice della moglie di Angelo Balducci di una casa di produzioni cinematografiche . La realtà è che nessuno ha mai detto fino ad oggi perché, per dotare di un impianto natatorio il IV Municipio, si dovesse a tutti i costi posizionarlo proprio lì, sul fiume. Perché non era ‘altrimenti localizzabile’?
3.OPERA COMPATIBILE CON LE CONDIZIONI DI ASSETTO IDRAULICO E/O GEOMORFOLOGICO
L’area del Salaria Sport Village è indicata come area esondabile nel Piano di Stralcio – PS1 dell’ABT e classificata come ‘Zona A’, caratterizzata appunto da costante rischio di naturale esondazione delle acque del fiume Tevere. La normativa su di essa, come riportato all’art.39 del PAI, è quella del 1° Stralcio Funzionale – PS1, “Aree soggette a rischio di esondazione nel tratto del Tevere compreso tra Orte e Castel Giubileo”. Se l’area non fosse stata imposta come ‘opera di pubblico interesse’ dalle dichiarazioni del Commissario Delegato, sarebbe stato al massimo consentita la “realizzazione di aree destinate ad attività sportive compatibili con l’ambiente senza creazione di volumetrie” (art.4, c.4, lett.f), il tutto armonizzato con le norme tecniche del piano paesistico territoriale n.4 “Valle del Tevere” della Regione Lazio. In pratica, non poteva esistere il Salaria Sport Village.
Invece, dichiarandolo come ‘opera di pubblico interesse’, il caso del Salaria Sport Village è stato fatto rientrare sotto l’art.7, in cui in pratica si impone soltanto che venga convocata una Conferenza dei Servizi per studiare, con l’ABT, come realizzare l’opera prevista. L’ABT, in questi casi, deve imporre una serie di prescrizioni realizzative che devono essere rispettate alla virgola, compresa tutta la parte relativa all’impiantistica. La mancata attuazione di queste prescrizioni, e dunque l’eventuale riduzione dell’area a disposizione dell’espansione delle acque del Tevere in caso di esondazione, è motivo di mancato rilascio del nulla osta idraulico da parte dell’ABT. Questo vale soprattutto per l’area subito a monte di Castel Giubileo, in sinistra idraulica, dove le quote del terreno sono tali per cui la S.S. Salaria può essere inondata per circa 2 Km, così come anche il centro di Settebagni (la ferrovia Roma – Firenze si trova invece in quota di sicurezza). Le linee tecniche di indirizzo per il rilascio dei pareri in materia di concessioni edilizie prevedono per esempio che le quote di calpestio dei manufatti edilizi che possono essere realizzati nelle aree a rischio di esondazione, devono essere a quota superiore a quella del massimo livello prevedibile delle acque in caso di esondazione. Analogamente, la struttura portante demandata a sostenere il piano di calpestio, deve essere realizzata mediante i cosiddetti “pilotis” ad elementi verticali, la cui dimensione massima di ingombro non può essere superiore a 100 cm posti ad un interasse non inferiore a 9.00 mt a luce libera, senza tamponature. E così via, con tutte le eccezioni dei casi ‘non residenziali’ in cui quasi sicuramente è stato fatto rientrare il Salaria Sport Village. Ora di queste prescrizioni non è mai stata data informazione e sarebbe opportuno che l’ABT, per maggior chiarezza del suo operato, le rendesse pubbliche al fine di permettere non certo un’ispezione popolare sul realizzato, ma per chiarire tutti i dubbi che ancora esistono sulla regolarità dei controlli effettuati prima del sequestro dell’opera.
Riassumendo: fino ad oggi del Salaria Sport Village si è parlato in termini di vicinanza al fiume, cioè della sua collocazione in area esondabile, incolpando solo il Comune di Roma per non aver controllato i poteri del Commissario Delegato. In realtà l’esistenza del Salaria Sport Village la si deve al nulla osta idraulico dell’ABT, nulla osta che si basa sui tre punti sopra esposti. Gli scenari futuri allora sono due, entrambi legati al parere del Consiglio di Stato. Se riconoscerà che non è opera di pubblico interesse, come già sostenuto dal TAR, tutti gli impianti vanno demoliti perché l’ABT dovrà gioco forza ritirare il nulla osta idraulico (per questa ragione LabUr non ha mai compreso le motivazioni della raccolta di firma per l’acquisizione a patrimonio pubblico del Salaria Sport Village). Se invece il parere del Consiglio di Stato rovescerà l’espressione del TAR, bisognerà verificare che tutte le prescrizioni dell’ABT siano state rispettate, cosa che fino ad oggi nessuno ha mai fatto (che ci risulti, neppure la Procura, dove l’ABT è stata ascoltata sul caso ben 9 volte). Resta l’amarezza che nessuno, ma proprio nessuno, ha mai fatto rispettare la Legge sul Salaria Sport Village, creando un groviglio tale di interpretazioni che lasciano solo spazio a chi ha interessi, sicuramente non pubblici.
LabUr (laboratorio di urbanistica) è un’associazione no profit, con sede a Roma, il cui impegno essenziale è aiutare tecnicamente, culturalmente e politicmente i comitati, le associazioni e i gruppi di cittdinanza attiva nelle loro vertenze per la difesa del territorio, sulla base i principi molto vicini a quelli di eddyburg e della sua scuola.
Trattandosi di faccende del Vaticano, la delibera approvata dal Comune di Roma scomoda il latinorum e parla di ius aedificandi, cioè diritto a costruire. Un diritto ampio, per tantissime costruzioni, proprio nel momento in cui, ironia della sorte, l’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica, in pratica l’immobiliare della Santa Sede, sta accelerando sugli sfratti in città, da via del Gonfalone a via di Porta Pertusa, come sottolinea al Fatto il segretario dei Radicali, Mario Staderini. Al Vaticano il Campidoglio concede 65mila metri quadrati di superficie utile lorda, 210mila metri di cubatura, per un valore di circa 400 milioni. Quattrini che in Vaticano si ritrovano da un giorno all’altro in cassa grazie alla reverente prodigalità del Campidoglio. Un regalone, in pratica, uno di quei doni che meritano riconoscenza eterna.
Riconoscenza a chi? Ovviamente al sindaco, Gianni Alemanno, che però deve dividere il “merito” con i consiglieri presenti, opposizione compresa e Pd in prima fila. Perché quando si è trattato di votare, nessuno ha voluto “sfigurare” con le alte prelature. In un afflato bipartisan tutti si sono devotamente genuflessi ai desideri della Santa Sede e hanno votato sì. Solo un consigliere ha fatto il bastian contrario, un pasdaran del Pdl che si è astenuto, non si sa bene se a ragion veduta oppure se si è confuso.
La faccenda è stata ufficialmente presentata come uno “scambio” tra Comune di Roma e Vaticano, ma dello scambio, cioè dell’operazione alla pari, la decisione assunta non ha proprio nulla. Il comune incamera 60mila metri quadri dei 117mila di proprietà del Vaticano inseriti nel parco regionale urbano di Valle Aurelia a Roma conosciuto come il parco della tenuta di Acquafredda e in cambio dà alla Santa Sede il diritto ad edificare su una superficie all’incirca equivalente in una qualche zona della città. Dove non è ancora chiaro. Al momento il diritto non è “atterrato”, come dicono i tecnici, cioè non è incardinato a un’area precisa. Una volta individuata o acquisita l’area, il Vaticano potrà procedere alla costruzione dei palazzi oppure, più verosimilmente, potrà vendere il diritto acquisito a un terzo, magari a qualche grande costruttore capitolino. In altri termini: il Comune di Roma ottiene dal Vaticano poco o nulla, un’area che è già parco naturale da destinare di nuovo a parco, mentre il Vaticano incassa il diritto a costruire, che equivale a moneta sonante. Tanta. Ironizza il presidente laziale dei Verdi, Nando Bonessio: “Quando il Vaticano chiama, il Campidoglio risponde”, mentre Angelo Bonelli, presidente nazionale conferma: “È un regalone con il fiocco”. La delibera è stata presentata a ridosso di Ferragosto quasi sicuramente non a caso, forse per poter contare sulla generale rilassatezza pubblica. Per di più il consiglio capitolino è stato riunito in seconda convocazione quando, a norma di statuto , per approvare delibere non c’è bisogno del 50 per cento più uno dei presenti.
La delibera, infatti, è stata votata solo da 27 consiglieri su 60. Con questo voto Alemanno ha bruciato sul filo di lana la collega di partito Renata Polverini, presidente della Regione Lazio, che già nei mesi passati si era prodigata per venire incontro ai desiderata del Vaticano. Sono almeno 15 anni che la Santa Sede cerca di risolvere a modo suo la faccenda dei terreni di quella zona, un’ampia area verde nel cuore di Roma nord, tra Aurelia e Boccea. Nel 1997, ai tempi di Francesco Rutelli sindaco, il comune approvò una variante al piano regolatore del 1964 con una delibera detta delle “certezze” in forza della quale i terreni del Vaticano fino ad allora in parte edificabili, ma solo per servizi pubblici (scuole, ospedali, teatri etc..), venivano trasformati in area agricola. La scelta fu ribadita subito dopo dalla regione Lazio che destinò tutta la zona a parco. Undici anni dopo, a marzo del 2008, con l’approvazione del nuovo piano regolatore, la giunta di Walter Veltroni confermò implicitamente la scelta. All’articolo 19, quello in cui vengono individuate le compensazioni a favore dei proprietari dei terreni che hanno subìto variazioni d’uso, non c’è infatti alcun riferimento alle aree di Acquafredda. Negli ultimi mesi il Vaticano aveva cercato di accelerare le pratiche di sfratto della decina di famiglie di contadini che ancora lavorano quelle terre, forse con l’intento di spianare la strada alla delibera comunale. Che infatti è arrivata puntualmente, alla vigilia di Ferragosto.
Da Marrazzo a Carlino. “Le mani su Roccacencia
Il 19 maggio 2011 la giunta capitolina vara un provvedimento a firma dell’assessore alla casa Antoniozzi per acquisire cinque fabbricati di nuova costruzione da assegnare ai punti “numero dieci” delle graduatorie per le case popolari, ossia quelle persone con gravi necessità. Saranno 150 le abitazioni che il Comune comprerà alla “modica” cifra di 2598 euro al metro quadro, non appena l’iter dell’acquisto sarà terminato in Campidoglio.
Casualmente proprio all’angolo tra via Prenestina e via di Rocca Cencia, accanto al polo impiantistico per l’immondizia di Ama e Colari, sorgono cinque palazzi uguali, ultimati nell’estate 2010, su un terreno che il piano regolatore destinava a verde pubblico, poi sottratto ai cittadini per mezzo d’una variante approvata nel giugno 2007 dalla giunta regionale Marrazzo. Davanti vi campeggiano ancora gli annunci di vendita dell’Immobildream di Roberto Carlino, consigliere e presidente della commissione ambiente e cooperazione tra i popoli e membro della commissione urbanistica in Regione Lazio. Guarda il caso l’Immobildream ha già “chiuso” le vendite del complesso (per scoprirlo è bastato chiamare l’ufficio vendite dell’agenzia).
Nel dicembre del 2009 era stato pubblicato un bando dal Comune per acquisire 150 alloggi destinati all’emergenza abitativa. E’ scaduto ad aprile 2010 e la gara, stando a quanto riportano le agenzie, è stata vinta dalla “Tam Sas”, che ricaverà dalla vendita delle case circa 30 milioni di euro, una cifra esorbitante se pensiamo agli attuali prezzi di mercato dell’estrema periferia. La descrizione degli immobili fatta dall’assessore Antoniozzi coincide con i cinque fabbricati che la società Immobildream aveva inizialmente commercializzato come “complesso Le Gardenie”, oggi non più in vendita. Bisogna capire allora se ci sono collegamenti tra il proprietario dell’agenzia immobiliare, Roberto Carlino – con un conflitto di interessi grande come una casa – e la “Tam Sas”.
Chi c’e’ dietro la “Tam sas” e come si lega all’Immobildream? Risolto il mistero con una “web-inchiesta”
C’è una sola “Tam Sas” (fino ad aprile del 2009 “Tam Srl”) di Roma impegnata nelle costruzioni: è di Giuseppe Dell’Aguzzo. Un nome che ritroviamo in vari forum e blog dedicati alle lamentele dei cittadini verso costruttori e intermediari. Eccolo spuntare in una discussione del Torrino-Mezzocammino: il titolo è “Immobildream Marronaro… disavventure” e Dell’Aguzzo è membro della “Costruzioni Immobiliari 2005 srl”, che fa capo ai costruttori Marronaro. Il problema è la mancata consegna degli alloggi.
Un’altra denuncia in cui ritracciamo il responsabile della “Tam Sas” è rivolta da un blog di Lunghezza contro l’intermediaria “Progedil 90” (coinvolta nello scandalo “Coop Casa Lazio” e inquisita per una serie di truffe) e contro il costruttore “Immobiliare Lunghezza 2006 srl”: il 19/06/2008 è diventata “Immobiliare Lunghezza 2006 SAS con socio accomandatario Giuseppe Dell’Aguzzo. Ma le “magagne” di Immobildream e Marronaro non trovano sfogo solo nelle denuncie dei forum, e non sono estranee alle cronache che citano anche società oscure e “fortunate” come la “San Vitaliano 2003 srl”: negli articoli degli ultimi anni si parla, per esempio, dei residence per famiglie rom sia nel quadrante nord-ovest sia in quello orientale, pagati a peso d’oro dalla giunta Veltroni per far fronte all’emergenza abitativa (come succederà a via di Rocca Cencia oggi) oltre alle solite carenze dei lavori segnalate nei forum.
In sostanza i costruttori del “Gruppo Marronaro” hanno spesso beneficiato dell’intermediazione di Immobildream, e insieme a Marronaro ha lavorato, con le sue società di costruzioni dai molteplici nomi, anche Dell’Aguzzo, il titolare dell’impresa che si è aggiudicata l’appalto per vendere le case popolari a Rocca Cencia. Si possono ricostruire alcune parti del rapporto Dell’Aguzzo-Marronaro: la sede della “Tam Sas” di viale Bruno Buozzi 98 (un palazzo al centro di Roma, sede di molteplici società) è anche sede di altre attività di Dell’Aguzzo (come la citata “Immobiliare Lunghezza 2006 sas ”, “Investire 2009 sas ”, Marroimpresa sas ecc.). Tra le varie c’è anche la “Sviluppo Z36C società in accomandita semplice”che insieme a Marronaro era proprietaria dei terreni nella zona del Torrino-Mezzocammino (come si evince da vari documenti pubblicati online riguardanti i progetti delle costruzioni); sempre nel palazzo di viale Bruno Buozzi c’è la “Iris Costruzioni”di Dell’Aguzzo, e Marronaro Vincenzo è un dirigente della società.
Tornando all’angolo tra via di Rocca Cencia e la Prenestina, bisogna menzionare la “Marroimpresa srl (attualmente “Marroimpresa sas di Giuseppe Dell’Aguzzo” e diversi soci con il cognome Marronaro): stando a quanto riportato dalla Land srl, che effettua rilievi archeologici, la “Marroimpresa srl” le aveva commissionato delle “indagini archeologiche preliminari” proprio tra la Prenestina e Rocca Cencia: forse preliminari alla costruzione, effettuata da “Marronaro”, dei cinque palazzi venduti dall’Immobildream.
“In questa vicenda – dichiarano Simone Paoletti e Paolo Amarisse, presidente e vice del WWF Borghesiana – sembra emergere un fatto gravissimo e inquietante, ovvero che l’amministrazione pubblica, invece di tutelare gli interessi dei cittadini, abbia agito a solo vantaggio di pochi speculatori privati: dapprima nel 2007 consegnandogli un prezioso cuscinetto di verde pubblico di 5 ettari, tra il deposito AMA e la borgata Pratolungo, generando un profitto pazzesco per chi ha potuto costruire su un terreno non edificabile e successivamente nel 2010 ricomprando dallo stesso privato quelle abitazioni a circa 2.600 euro al metro quadro, in una zona dove i prezzi di mercato oscillano tra i 2000 e i 2400 euro/mq, come ci confermano le locali agenzie immobiliari”.
Insomma si prova a risolvere il problema delle classi più emarginate confinandole in un “ghetto” a ridosso della “monnezza”, pagato a peso d’oro grazie ai contribuenti.
Come per la vicenda dei residence veltroniani sopraccitati ci potrebbe essere stato un preciso disegno speculativo, oppure, come ipotizza il WWF Borghesiana, potrebbe essere accaduto che “in seguito alle difficoltà di trovare acquirenti, dovute da un lato all’eccessivo stock edilizio invenduto della zona, dall’altro all’aria insalubre proveniente dal vicinissimo deposito della “monnezza”, il Comune sia venuto in soccorso del privato, facendosi carico dell’acquisto per confinarvi cittadini bisognosi, che attendevano una casa popolare dal 2000. Il tutto a 20 Km dal centro città, senza servizi e con vista gabbiani”.
A questo punto bisogna ricordare cosa è successo prima in via di Rocca Cencia.
I precedenti: dalle case dell’Immobildream “erette” dalla variante del centrosinistra fino all’ annuncio di Antoniozzi
Nel 2007 l’Assessore all’urbanistica della giunta Marrazzo, Massimo Pompili (oggi deputato PD), dichiarava che era stata fatta qualche “concessione” ai meritevoli e caritatevoli costruttori, durante l’approvazione del “Piano Particolareggiato” della “Zona O n.86 Pratolugo”: cubature in cambio di servizi, addirittura un impianto sportivo. Poi, come immediatamente denunciato dagli attuali rappresentanti del WWF Borghesiana, cominciano a “crescere” proprio dov’era previsto “verde pubblico” le case rivendute dall’immobiliarista, presidente della commissione ambiente e membro di quella urbanistica, un ossimoro vivente!
Una storia degna di uno “sketch” di “Cettolaqualunque”, però ambientato a Roma: il verde pubblico si trasforma magicamente in “tronchi di cemento”. Il protagonista di questo “film” è un “trombato” (tradotto dal gergo giornalistico: “scartato”) delle elezioni europee 2009 e neoletto in regione: è lui, quello che aveva iniziato come agente immobiliare ed è divenuto esponente del partito con a capo Casini, il genero di Caltagirone. Roberto Carlino per quell’affare deve ringraziare i colleghi della Giunta Marrazzo.
Degne di nota sono anche le tre pubblicità dell’Immobildream per via di Rocca Cencia: in una prima campagna pubblicitaria si punta sul “fascino” della “Roma antica”, nonostante l’odore dell’impianto Ama ti riporti subito ai giorni nostri. Per non parlare di quella con lo slogan “a tu per tu con la natura” e l’immagine fuorviante di due giovani immersi nel verde, un picnic e un uomo con cavallo sullo sfondo; “non sogni” dice la voce di Carlino negli spot, ma “solide realtà”: forse bisognerebbe cambiare la denominazione sociale in “Immobilnightmare spa”.
Nel 2008 arriva un altro provvedimento riguardante “via di Roccacencia”: non sappiamo se abbia avuto seguito oppure no, ad ogni modo prevedeva variazioni di destinazione d’uso sulle cubature in possesso da una dozzina di soggetti per realizzare alloggi in tutta Roma. In cambio il Comune avrebbe ricevuto circa il 30% delle abitazioni, per destinarle a case popolari. L’atto era firmato nell’ambito dell’ “emergenza casa” dall’allora prefetto Mario Morcone, oggi candidato perdente a sindaco di Napoli e fallito anche come vertice dell’ Agenzia per i beni confiscati alle mafie (Maroni gli ha preferito il prefetto palermitano). In via di Rocca Cencia c’erano circa 7600 metri cubi della Sorain-Cecchini Due Srl (società del gruppo Sorain Cecchini comandato da Manlio Cerroni) pronti per ospitare 250 alloggi . E’ curioso notare almeno altri due beneficiari di questo provvedimento, oltre alla citata “Sorain”: la “Tribufrigo srl” (coinvolta nel 2005 in uno scandalo con protagonisti il figlio del craxiano Montali come rappresentante legale della società ed Enrico Nicoletti) e la “Cuma 6 srl” con Giuseppe Dell’Aguzzo in qualità di rappresentante legale.
Infine la notizia di un mese fa: cinque fabbricati, dopo un bando scaduto nel 2010, saranno comprati dal Comune. Si trovano in via di Rocca Cencia dal lato della Prenestina e l’appalto è stato vinto dalla “Tam Sas”. Questa la reazione delle opposizioni, riassunta da un comunicato di Stefano Pedica dell’Idv: “Leggendo gli annunci di compravendita immobiliare appare chiaro che il comune di Roma non ha fatto nessun buon affare. Si compra a botte di 150 alloggi allo stesso prezzo di quanto viene venduto un singolo appartamento, cercando poi fra le occasioni nella stessa via di Rocca Cencia, sulla Prenestina, il comune ha addirittura pagato di più. Non credo che l’emergenza abitativa si possa risolvere comprando case dai privati, serve invece un progetto di riqualificazione urbanistica di ampio respiro per risolvere la questione una volta per tutte ed evitare che fra dieci anni il problema si riproponga”.
Immobildream: non vende sogni ma… incubi che, invenduti, vengono comprati dal Comune per costruire ghetti, laddove c’era il verde pubblico.
Qui il tra il presidente dell'Immobildream (e consigliere regionale, presidente di commissione) e gli autori dell'articolo
E’ da diversi anni ormai che la pratica urbanistica si fa senza più pensare alla città, ai bisogni e ai problemi reali. I meccanismi di finanziarizzazione che hanno trasformato la città in merce di scambio nelle transazioni finanziarie sono ormai noti anche al grande pubblico. Tutti stiamo ancora vivendo in pieno gli effetti di una crisi che ha avuto origine proprio lì in quei meccanismi. E’ forse il caso di non parlare più di urbanistica, quello cui assistiamo, sono pratiche degradate, che hanno perso qualsiasi riferimento all’urbs e ancora di più alla civitas: sono faccende immobiliari tecnicamente assistite.
A Roma il divorzio tra l’urbanistica e la città è evidente, è palese. Negli ultimi anni in diversi modi abbiamo testimoniato di questa condizione parlando del disagio abitativo e di come i meccanismi di valorizzazione del patrimonio residenziale esistente, che soggiacciono ai meccanismi finanziari, hanno comportato l’impoverimento dell’ex ceto medio. La conseguenza, forse la più grave, è stata negare il diritto alla città a una fascia crescente di popolazione. Nel 2008 sono stati quasi 30 mila i residenti romani che si sono cancellati per andare a vivere nei comuni della provincia: da Orte in giù, in su e di lato, con una crescita del 14% rispetto all’anno precedente.
L’urbanistica “degradata” a leva economica e finanziaria è stata frequentata soprattutto dagli interessi privati e dalla necessità di fare leva per investimenti spesso a debito, è così che si sono realizzati plusvalori enormi da reinvestire nella ristrutturazione di imprese, nella riconversione, o in meccanismi di patrimonializzazione (si pensi solo a cosa è stata l’avventura Telecom Italia per la Pirelli).
Oggi il Comune di Roma si comporta allo stesso modo, l’urbanistica serve a fare cassa e “tentare” di salvare l’ATAC. L’azienda di trasporto pubblico, investita pochi mesi fa dallo scandalo parentopoli, ha un passivo di 319,1 milioni di euro, debiti in crescita e si rischia il fallimento. Così l’amministrazione ha deciso di mettere in “vendita” i depositi dei tram, degli autobus e tutti quegli immobili complementari al trasporto pubblico che non sono più necessari a svolgere il servizio. Un patrimonio importante, per volumi e superfici, che in molti casi è collocato in zone centrali della città. Questo della valorizzazione era un pensiero che aveva già fatto l’amministrazione Veltroni quando avviò la dismissione del deposito Atac di via della Lega Lombarda (un’area a pochi passa dalla stazione Tiburtina). Un pensiero che trova riscontro in una specifica norma del piano regolatore vigente, quello approvato nel 2008, che nel comma 4 dell’art.84 prevede che nel caso di dismissione di questi immobili è obbligatorio redigere un Programma generale che individui “la SUL massima consentita, ferma restando la volumetria (Vc) esistente e fatti salvi comunque i limiti e le condizioni derivanti dall’applicazione della disciplina di cui all’art. 94, commi 9 e 10”. Limiti che fissano l’indice di edificabilità territoriale al massimo “pari a 0,5 mq/mq, di cui almeno la metà da destinare a servizi o spazi pubblici d’interesse generale o locale”.
La norma afferma tre principi essenziali: nessun incremento di volume, superficie edificata, quindi la SUL, pari a non più di 0,5 mq/mq di suolo e individuazione delle funzioni da inserire avendo cura di guardare la compatibilità con l’intorno. Tre principi che però non sono quelli che la Giunta Alemanno ha intenzione di affermare: così nella delibera con cui si vuole approvare il Piano Generale per la dismissione del patrimonio immobiliare ATAC si legge che i limiti imposti dalla norma di piano, la volumetria esistente, la Sul max e l’obbligo di riservare almeno metà della nuova edificazione a servizi pubblici “limitano i potenziali ricavi derivanti dalla alienazione delle aree”. Insomma così non si fanno soldi e non si salva l’ATAC!
Al sindaco non viene il dubbio che in talune aree quella dotazione di servizi non solo è necessaria, ma forse è insufficiente per riuscire a dare vivibilità alla città esistente. Insomma i soldi prima di tutto! Così con questa premessa il “Piano generale per la riconversione funzionale degli immobili non strumentali al trasporto pubblico locale” in discussione, e forse in approvazione, nella seduta del Consiglio comunale di Roma del 16 Giugno (oggi) opera una sequenza di forzature e di interpretazioni delle norme di piano al solo fine di poter disporre della volumetria massima possibile in ogni area oggetto di valorizzazione. Il risultato finale (calcolato per difetto) è che sui 130.500 mq di superficie territoriale interessati dalla valorizzazione, dove si potevano fare, a norma di piano circa 65.000 mq di Sul, di cui la metà da dare a servizi per il quartiere, se ne vogliono fare 141.500 (più del doppio) senza più alcun vincolo per i servizi. Ad esempio, nell’ex rimessa di San Paolo si potranno fare 18.500 mq di SUL (secondo il piano dovevano essere 5.000 mq), e una parte sarà anche a residenza per 240 abitanti. L’ex Rimessa Vittoria, nel quartiere Prati, avrà una capacità edificatoria di 18.500 mq di Sul, invece di circa 8.000 mq consentiti dal piano vigente, e gli esempi potrebbero continuare.
Si può condividere che anche la norma vigente del piano deve essere oggetto rivista perché comporta un eccesso di meccanica algebrica lì dove invece i problemi sono complessi e articolati e dove ogni area fa storia a sé. Si vuole cambiare la norma? Lo si faccia, non è certo nella difesa acritica dell’attuale norma che ci si vuole attestare. Ma non la si può cambiare così, dichiarando per altro, la conformità al piano (sic!). Una procedura che rende debole il Piano e lo fa facile oggetto delle successive contestazioni. Se c’è una differenza con la giunta precedente forse è proprio qui, nei modi. Probabilmente si sarebbe arrivato a risultati non tanto diversi ma lo si sarebbe fatto con un po’ meno di superficialità di approssimazione e di inconsistenza tecnica.
Una città capitale non può trattare in questo modo processi di riconversione così importanti e decisivi per le sorti future della città, non può affidarsi a un così basso livello di pensiero dominato dal solo criterio della mercificazione della città. Si predisponga un piano serio, dettagliato per ogni area, si sottoponga ad una analisi attenta ogni area e il suo contesto potendone definire non solo le quantità ma anche la sostenibilità delle funzioni, la qualità delle trasformazioni che si vuole conseguire, si dia vita a una operazione di alto livello che possa essere di esempio per tutte le altre iniziative, e nei prossimi anni saranno sempre di più, che riguardano la riconversione e la trasformazione della città esistente.
Sindaco si fermi; se si vuole risanare l’ATAC questa è la strada peggiore: così si affossa l’azienda, si sperpera il suo patrimonio immobiliare e si aprono anni di contenziosi che saranno pagati a caro prezzo dal’azienda. Per non parlare delle conseguenze negative sulla città; ma questa non è più oggetto dell’urbanistica capitolina.