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«Il mix di spinte dall’alto e dal basso, di spontaneismo e blindature ferree che rappresenta la vita del Movimento 5 Stelle si sta spalmando sulla complessità della politica romana.». Il manifesto, 9 luglio 2016

Era già successo lo scorso 24 giugno: la sindaca Virginia Raggi freschissima di insediamento era rientrata in Campidoglio alla fine di una giornata intensa, richiamata dall’impellenza di dover firmare dei documenti. Aveva colto l’occasione del ritorno in ufficio per incontrare le donne dei ventidue Centri antiviolenza romani la cui convenzione col Comune non era stata rinnovata dal commissario Tronca. La delegazione era salita dalla piazza del Campidoglio all’ufficio della sindaca. Le donne avevano raccolto la disponibilità a farsi carico del problema, raccontando tra l’altro di averla vista provata da quei primi giorni di lavoro e da quelle che abbiamo scoperto essere le difficoltà di composizione della giunta.

È successo di nuovo, e la circostanza fa pensare ad un atteggiamento non casuale ma ad una scelta che assomiglia ad un messaggio preciso ai protagonisti delle vertenze romane. I manifestanti della rete Decide Roma che si erano radunati sulla scalinata che conduce alla piazza del monumento equestre a Marco Aurelio e ai quali è stato impedito di arrivare davanti all’aula consiliare dalla questura, sono stati ricevuti da alcuni assessori freschi di nomina della appena nata giunta capitolina. C’erano l’assessore all’urbanistica e ai lavori pubblici Paolo Berdini, la responsabile dell’ambiente Paola Muraro e Laura Baldassarre, che nella squadra di Raggi si occupa di scuola e politiche sociali. «Sono state sottoposte loro le urgenze dei lavoratori dei canili comunali e dei servizi d’accoglienza: «Internalizzare è l’unica soluzione in grado di garantire livelli occupazionali, qualità del servizio, minori costi per l’amministrazione», hanno detto lavoratori e attivisti agli assessori. «La nostra lotta si basa sul controllo popolare e partecipato da parte di cittadini e lavoratori sui servizi e su tutti i beni comuni urbani – ribadiscono da Decide Roma all’indomani del colloquio con gli assessori -. Misureremo la nuova amministrazione alla prova dei fatti, senza sconto alcuno». Il prossimo appuntamento è per il 20 luglio in piazza dei Sanniti, nel quartiere di San Lorenzo, per una «assemblea di autogoverno» cui dovrebbe partecipare proprio l’assessore Berdini. Dal canto suo, Paola Muraro ha preso l’impegno di andare a trovare i lavoratori del canile della Muratella che autogestiscono il servizio in attesa che il Comune prenda le opportune decisioni.

Il mix di spinte dall’alto e dal basso, di spontaneismo e blindature ferree che rappresenta la vita del Movimento 5 Stelle si sta spalmando sulla complessità della politica romana. La sfera decisionale dell’amministrazione pentastellata pare muoversi all’interno di cerchi concentrici. Le giornate, convulse e a porte chiuse, delle nomine e del confronto tra diverse anime, potrebbero avere una coda velenosa: Daniela Morgante, magistrata della Corte dei conti e già assessora al Bilancio nella giunta Marino, non avrebbe preso la frenata sulla sua nomina. Potrebbe mollare. Ieri intanto però Raggi è uscita dall’inner circle e ha riunito la maggioranza ancon i tavoli di lavoro e i cittadini che hanno partecipato assieme al M5S romano alla scrittura del programma e che già l’altro giorno, alla prima convocazione del consiglio, riempivano ostentando spillette pentastellate e gadget la piccola platea dell’aula. «Stiamo discutendo delle linee programmatiche, ci sono anche gli assessori – spiega Paolo Ferrara -. Si tratta del primo documento che rispecchia il programma, con le priorità trasporti, rifiuti e trasparenza». Tra le impellenze una in particolare, discussa ieri con l’assessore Marcello Minenna: l’assestamento di bilancio da approvare entro la fine di questo mese.

Senza trasparenza, non si può decidere sulle Olimpiadi a Roma. Alcune associazioni chiedono di rendere nota la convenzione stipulata nel 1987, tuttora vigente, per la realizzazione dell'università di Tor Vergata. Carteinregola online, 5 luglio 2016 (m.b.)

Le associazioni CILD (Centro Italiano Legalità Democratica), Riparte il futuro, Open Polis, Cittadinanzattiva Lazio, OPA (Osservatorio Pubblica Amministrazione), Carteinregola, Comunità Territoriale VII Municipio, scrivono al Rettore della Seconda Università di Roma chiedendo di pubblicare sul sito istituzionale la Convenzione stipulata nel 1987 con l’associazione temporanea di 19 imprese, capitanata dalla Vianini spa, vincitrice di una gara europea. Alla Sindaca Virginia Raggi chiedono di “adoperarsi affinchè sia applicata la massima trasparenza davanti alla città su questioni di tale rilevanza pratica e giuridica”.

Il gruppo Caltagirone ha annunciato querele per un servizio televisivo andato in onda su La 7 in cui l’ex assessore all’urbanistica Giovanni Caudo e l’assessore all’urbanistica in pectore Paolo Berdini commentavano la scelta del Comitato Promotore di Roma 2024 di realizzare il Villaggio olimpico a Tor Vergata, un terreno di proprietà dell’Università, quindi pubblico, parlando di una convenzione stipulata con il gruppo Caltagirone per l’esecuzione dei lavori ivi previsti. Dal comunicato, pubblicato su Il Messaggero il 14 giugno, apprendiamo che “La società Vianini Lavori del Gruppo Caltagirone, insieme ad altre 9 imprese di costruzioni (e quindi senza alcuna esclusiva), è concessionaria dei lavori per l’Università. Ciò a seguito di gara europea vinta nel lontano 1987. La quota di Vianini Lavori nel Raggruppamento Temporaneo di Imprese è di circa il 33%.” E’ una informazione rilevante, dato che il testo della convenzione per la concessione non è reperibile sul sito dell’Università, e che quindi i cittadini non ne conoscono i contenuti.

La vicenda, ricostruita con i pochi elementi a nostra disposizione, e quindi con molte lacune e possibili imprecisioni, è così sintetizzabile: nel 1979 viene approvata la legge per l’istituzione di alcune nuove università, che prevede che la progettazione e l’esecuzione unitaria delle opere possa essere affidata in concessione mediante apposita convenzione anche a consorzi di imprese, sulla base di uno schema di convenzione tipo, che comprende l’indicazione delle modalità di gara e di contabilizzazione per le opere e per le forniture da appaltare specificando che “l’affidamento in concessione dovrà avvenire con provvedimento motivato dell’Università sulla base di un confronto tecnico ed economico delle offerte a tal fine presentate a seguito di bando”. Nel 1986 viene indetta la gara, nel 1987 il Consiglio d’Amministrazione dell’Università delibera l’aggiudicazione della gara a un’associazione temporanea di imprese formata, oltre che dalla capogruppo Vianini spa, da altre 19 imprese (5), ognuna specializzata nel settore di competenza. Il 23 ottobre 1987 viene stipulata la convenzione “concernente la progettazione e la realizzazione dell’intero comprensorio universitario. “Le opere dovranno essere realizzate complete delle loro parti accessorie, degli impianti, dei servizi, delle attrezzature fisse e delle eventuali opere di urbanizzazione necessarie”. La Convenzione riserva all’Università medesima di definire i lotti funzionali da realizzare secondo la tempistica correlata all’approvazione dei progetti da parte delle autorità competenti, alle disponibilità finanziarie ed alle esigenze scientifiche, didattiche, culturali ed organizzative. Varie disposizioni della Convenzione prevedono un’esecuzione differita nel tempo degli interventi e rinviano la definizione di essi ad atti successivi”.

In pratica un’esclusiva concessa a un gruppo di imprese, senza limiti temporali – dato che la concessione è ancora vigente oggi, quasi trent’anni dopo – senza un budget prefissato, e, si dedurrebbe, senza neanche una quantificazione precisa delle opere da realizzare. Negli anni successivi, oltre alla messa in opera di strutture provvisorie, restauri di edifici esistenti e realizzazione di nuove edificazioni al servizio dell’università, l’area diventa anche uno spazio a disposizione dei progetti della città. Dopo un primo progetto dell’amministrazione Rutelli di realizzarvi un villaggio olimpico nel caso dell’assegnazione a Roma dei Giochi olimpici del 2004 (poi tenutisi ad Atene), la successiva amministrazione Veltroni vi colloca il progetto del complesso sportivo polifunzionale dall’architetto spagnolo Santiago Calatrava che avrebbe dovuto ospitare i Campionati mondiali di nuoto 2009. Del progetto sarà realizzata solo la struttura dello stadio del nuoto, con l’intelaiatura della copertura a “vela a pinna di squalo” e la struttura di base dell’altro palazzetto per il basket e la pallavolo, a oggi entrambe incompiute. E ancora nel settembre 2015 è riproposta la localizzazione a Tor Vergata del villaggio olimpico per Roma 2024, ipotesi sostenuta dal comitato promotore guidato da Montezemolo e Malagò, in alternativa a quella del Sindaco e del suo assessore Giovanni Caudo, che già nel luglio precedente avevano presentato al CIO a Losanna un progetto che prevedeva invece di inserire il villaggio in un’operazione di rigenerazione urbana dell’area dell’ex areoporto dell’Urbe tra la Flaminia e la Salaria.

Ipotesi poi tramontata dopo la caduta dell’amministrazione Marino, lasciando quindi il campo al progetto di Tor Vergata, che, a causa della convenzione citata, potrebbe essere ancora vincolato all’esecuzione dei lavori da parte dell’associazione temporanea di imprese guidata dalla Vianini. Come del resto il completamento – previsto da entrambi i progetti – del palazzetto dello Sport di cui è stata edificata finora solo la base.

Ora sulla candidatura Olimpica, sull’eredità che i Giochi potrebbero lasciare alla città e sulla eventuale collocazione del villaggio deciderà la nuova Sindaca. In ogni caso, anche in considerazione dell’attuale dibattito rilanciato per Roma2024, riteniamo che i documenti relativi a una convenzione ancora vigente oggi – dal bando del 1987, alla convenzione e alle successive integrazioni – debbano essere pubblici e pubblicati sul sito dell’Università, trattandosi di un ente pubblico che conferisce soldi pubblici a privati che hanno vinto una gara pubblica.

Per questo alcune associazioni – CILD (Centro Italiano Legalità Democratica), Riparte il futuro, Open Polis, Cittadinanzattiva Lazio, OPA (Osservatorio Pubblica Amministrazione), Carteinregola, Comunità Territoriale VII Municipio – hanno scritto al Rettore della Seconda Università di Roma chiedendo di pubblicare sul sito la Convenzione del 23.01.1987, Rep. 121 e tutti i documenti collegati, compresi quelli della Città dello Sport. Alla Sindaca Virginia Raggi hanno chiesto di “adoperarsi affinchè sia applicata la massima trasparenza davanti alla città su questioni di tale rilevanza pratica e giuridica“.

Il testo della lettera e tutti i riferimenti ai fatti e ai documenti citati nell'articolo sono consultabili sul sito carteinregola.it

Il calabraghe delle associazioni ambientaliste: La corazzata Malagò-Montezemolo ha affondato le barchette Italia nostra, Legambiente, WWF, Lipu, Greenpace. Viva viva i Grandi Eventi, il passato non insegna niente. La Repubblica, 2 luglio 2016

Gli ambientalisti appoggiano Roma 2024. Le principali associazioni italiane che si occupano di ecologia e sostenibilità, condividono i progetti sul territorio legati alla candidatura della capitale ai Giochi. Una posizione aperta, che non viene pregiudicata dalle perplessità su alcuni punti per i quali i “verdi” suggeriscono alternative. In un documento che Repubblica possiede in esclusiva, le indicazioni al Coni, il comitato olimpico nazionale, e al comitato organizzatore di Roma 2024 sul “gradimento” e l’opportunità degli interventi previsti dal dossier presentato nel febbraio scorso anche al Cio, il comitato olimpico internazionale. A sorpresa, i verdi dicono sì. Un atteggiamento inedito, collaborativo e persino ottimistico, di cui anche la neo sindaca Virginia Raggi non potrà non tenere conto.

Una svolta, anche rispetto al recente passato quando con la giunta Marino fu bocciato un punto cardine del programma, il villaggio a Tor di Quinto poi dirottato a Tor Vergata. Anche prima che il governo Monti ritirasse il suo appoggio per Roma 2020, le sigle ecologiste avevano manifestato più di qualche avversità. E due delle città concorrenti per l’edizione 2024 (Parigi, Los Angeles) incassano il no dei green. E allora, cos’è cambiato?

L’obiettivo e l’idea di base: riutilizzare, piuttosto che cementificare. Il presidente di Italia Nostra Marco Parini: «Se ben pensate, le Olimpiadi possono essere un’opportunità in termini di recupero di aree e manufatti abbandonati, di convivenza e valorizzazione della città piuttosto che di sfruttamento. Non abbiamo ancora parlato del nuovo stadio, sul quale le associazioni hanno espresso dubbi». Per il resto, la linea è condivisa scrivono gli ambientalisti: «Priorità al recupero di impianti esistenti, l’accessibilità a tutte le strutture attraverso il trasporto pubblico su ferro e percorsi ciclabili, la valorizzazione del fiume Tevere e dei beni culturali del territorio romano» scrivono Greenpeace, Italia Nostra, Legambiente, Lipu e Wwf nel loro resoconto. Nessuna pregiudiziale. Semmai, aggiustamenti di tiro: «In particolare per il progetto di bacino remiero nell’area compresa tra l’autostrada Roma-Fiumicino, il fiume Tevere e la fiera di Roma: riteniamo che vi siano criticità ambientali rilevanti. La tutela del Tevere è infatti per noi una condizione irrinunciabile che ci ha portato, in passato, a condividere con il comitato l’opposizione al progetto di Villaggio Olimpico in un area a Roma nord, nella piana alluvionale del fiume. L’area prevista per il bacino remiero è all’interno della Riserva Statale del Litorale Romano e rappresenta uno degli ultimi ambiti ancora liberi dall’edificazione di una certa consistenza. Vi chiediamo pertanto di percorrere altre ipotesi, sia a Roma - ad esempio nella zona a Roma Nord, presso Passo Corese di proprietà del demanio militare - che in altri ambiti, come a Milano, dove si potrebbe recuperare l’idroscalo». Gli altri punti chiave del dossier: «Per il progetto di media-center a Saxa Rubra, condividiamo la scelta per la presenza della RAI e l’accessibilità su ferro, attraverso la linea Roma-Viterbo da potenziare. Invece, vediamo con preoccupazione la realizzazione di una parte degli interventi nell’area oggi libera prossima al fiume, che oltretutto il Piano Regolatore prevede a verde e dove anche il piano paesistico vigente interdice ogni edificazione. Piuttosto crediamo che sia da percorrere la strada di una riqualificazione delle aree limitrofe alla RAI, dove si potrebbero realizzare interventi coerenti con le previsioni del Piano Regolatore nell’ambito dell’operazione olimpica con minori costi e impatti ambientali».

Sull’area di Tor Vergata, appoggio totale: «Condividiamo la scelta di localizzazione del Villaggio Olimpico, perché consente di recuperare le vele di Calatrava oggi in abbandono, di portare la metropolitana in un’area di Roma che ne ha un gran bisogno e per l’impegno a riutilizzare gli edifici che ospiteranno gli atleti per alloggi universitari e legati all’ospedale. Siamo infine convinti che la candidatura debba connotarsi per l’eredità che lascerebbe ai cittadini in termini ambientali». Olimpiadi ecologiche e con memoria, da consegnare come nutrimento ai figli.

Pasticci romani. «Roma. La risposta del governatore: "Non ci è arrivato nulla". Polemico GiachettiıIl manifesto, 2 luglio 2016

Nonostante le polemiche sul consigliere-capo di gabinetto Daniele Frongia e sul suo vice Raffaele Marra, ex militare della Guardia di Finanza proveniente dal sottogoverno di Gianni Alemanno e dall’Unire di Franco Panzironi, per la neo-sindaca Virginia Raggi doveva essere un mercoledì festivo relativamente tranquillo. Ma nel giorno dedicato ai patroni di Roma San Pietro e Paolo è arrivata ad un nodo fondamentale la vicenda controversa legata alla costruzione dello stadio della Roma. Il Sole 24 Ore ha rivelato che l’iter procedurale per dare il via ai lavori dell’impianto a Tor di Valle ha ricevuto il via libera dagli uffici comunali. « I dirigenti mi hanno comunicato che giuridicamente e tecnicamente è tutto in ordine – ha dichiarato Paolo Berdini, assessore in pectore all’urbanistica – Quindi il dossier è stato formalmente trasmesso alla Regione Lazio per l’avvio della conferenza dei servizi».
Era stato proprio mentre lavorava attorno all’opposizione al progetto, con lo stadio considerato soltanto un escamotage per l’ennesima cementificazione sul territorio romano, che il gruppo di minoranza del M5S aveva apprezzato la competenza di Berdini. In campagna elettorale, Virginia Raggi si era detta dapprima «favorevole» allo stadio a patto che «non ci siano speculazioni edilizie». Poi aveva corretto il tiro: «Se vinciamo ritiriamo la delibera sulla pubblica utilità. Lo stadio della Roma si farà da un’altra parte, a Tor di Valle c’è una speculazione edilizia e non ci sono le condizioni». Quindi in un’intervista al Tempo aveva definito meglio la sua linea: «Sullo stadio non devo cambiare idea. Voglio farlo (anche uno per la Lazio) ma il progetto deve seguire le norme».
Nei giorni scorsi, c’è stato prima l’incontro di Berdini col suo predecessore Giovanni Caudo negli studi di Radio Radicale: qui era emersa la posizione critica dell’assessore in attesa di nomina. Poche ore dopo, una strana «rettifica» fatta trapelare dai pentastellati: «Sullo stadio non abbiamo pregiudizi».

Il progetto viene licenziato prima del 7 luglio, quando la giunta verrà presentata al consiglio comunale? Non è chiaro. Dalla Regione arriva una polemica smentita: «La Regione Lazio è ancora in attesa dal Comune della trasmissione del progetto sullo stadio della Roma». L’ente amministrato da Nicola Zingaretti manda anche una stoccata circa la procedura: «Nella trasmissione del progetto il Campidoglio dovrà dichiarare la conformità del progetto stesso alla delibera sull’interesse pubblico votato dal Consiglio comunale di Roma».
«Raggi spinge l’urbanista a precisare: “Nessun pregiudizio, valuteremo l'ipotesi di variante al Piano regolatore». Se le scelte urbanistiche diventano questue misurate col termometro dei tifosi stiamo proprio mal messi. Repubblica, ed. Roma, 26 giugno 2016

PIÙ che una retromarcia sembra una frenata tattica. Sul progetto del nuovo stadio della Roma a Tor di Valle interviene nuovamente il futuro assessore all’Urbanistica Paolo Berdini. Per dire che le parole utilizzate l’altro ieri («Userò ogni mezzo consentito per impedire questo scempio e per tutelare gli interessi della città», aveva detto durante un intervento su Radio Radicale) sarebbero state «travisate». Lo fa dopo una sollecitazione da parte dell’entourage del sindaco Virginia Raggi che ha provato così a contenere quella che viene definita «una verve comunicativa troppo esplicita» del futuro assessore a 5 Stelle.
E così Berdini si è trovato costretto a rettificare: «Scempio è pensare di poter edificare su Roma senza alcuna logica urbanistica, dopo che la Capitale è stata martoriata dalla mala politica negli ultimi vent’anni. Non c’è nessun pregiudizio nei confronti dello stadio della Roma, ma sarà mio dovere, nel rispetto della città e dei romani, approfondire ogni singolo aspetto del progetto insieme al sindaco».
Prima, erano stati gli stessi 5 Stelle a far filtrare la linea: «Lo stadio della Roma può essere invece una grande opportunità di crescita per la città, a patto che rispetti i principi di legge di fronte ai quali il M5S non transige». Secondo l’entourage della Raggi, «il piano della progettistica va affiancato alla considerazione del prestigio europeo e internazionale che un impianto sportivo per la Roma, ma anche per la Lazio, può conferire alla città. In ogni caso è prematuro esprimere ora una valutazione, avremo tutto il tempo per studiare da vicino il progetto».

Lo Stadio di Tor di Valle, dunque, non rappresenta per il nuovo sindaco una priorità. La frenata sulle dichiarazioni di Berdini, insomma, appare più che altro tattica. Quello che emerge al momento è che, come già confermato una decina di giorni fa dall’assessore all’Urbanistica della Regione Lazio, Michele Civita, per realizzare il progetto disegnato da architetti del calibro di Daniel Libeskind, Dan Meis e Andreas Kipar sarà necessaria una variante al piano regolatore da approvare in Consiglio comunale.

Ma era stata proprio la Raggi, in campagna elettorale, a precisare che «lo stadio si può fare se rispetta la legge e il Piano regolatore ». Bisognerà aspettare ancora, dunque, per capire se e come il progetto farà passi in avanti. La Regione attende che dal Campidoglio l’atto formale attraverso il quale aprire la conferenza dei servizi e dare il via all’iter.

Su tutto pende l’avvertimento del dg della Roma Mauro Baldissoni di due settimane fa: «Se il futuro sindaco vorrà assumersi la responsabilità di opporsi al progetto dovrà assumersi anche i costi, visto che è stato autorizzato e molti investimenti sono stati già fatti».

Intervista di Giuliano Santoro ad Ascanio Celestini. «Difficile distinguere il Pd di governo dalla destra. Nelle periferie non esistono quasi più spazi di incontro e discussione. Nell’illegalità fioriscono spesso iniziative culturali straordinarie». Il manifesto, 23 giugno 2016 (m.p.r.)

Ascanio Celestini, attore, scrittore e regista, viene dalla borgata di Casal Morena, alla periferia sud-est di Roma. Ha cominciato la sua carriera di narratore scavando con occhio da antropologo nella memoria e nelle storie orali. Da qualche anno ha piantato il radar sulle periferie metropolitane, raccontando le storie della gente che vive ai margini della città. Il suo ultimo film, uscito l’anno scorso, si intitola Viva la Sposa.

Lo abbiamo incontrato per chiedergli come osserva, dal suo punto di vista, il tracollo della sinistra, l’abbandono delle periferie da parte delle forze eredi del Partito comunista, le mutazioni in corso a Roma.

«Fino ad alcuni anni fa c’era un vincolo ideologico tra gli elettori e gli eletti – dice Celestini – L’elettore si sentiva rappresentato perché votava un’insieme di idee delle quali l’eletto era portavoce e attuatore. Quelle idee non erano generali e buone per tutti. Nel caso del Pci, ad esempio, si trattava di una visione del mondo che puntava a trasformarlo radicalmente. Per questa trasformazione tutti erano chiamati a partecipare e a discutere. Questo accadeva soprattutto nelle sezioni che si trovavano ovunque e soprattutto nelle periferie».

E poi, cosa è accaduto? Quando comincia la crisi?
È accaduto che a partire dagli anni Ottanta la situazione è cambiata: da una parte il legame tra elettore ed eletto è diventato virtuale, dall’altra il Partito comunista ha definitivamente abbandonato l’idea di cambiare il mondo preferendo la prospettiva di governarlo. Dunque è diventato sempre più difficile distinguere tra partiti di destra e di sinistra.

La mancanza di spazi comuni, pubblici e condivisi nella città è tra i temi dei tuoi ultimi lavori. Non so se te ne sei accorto: la vittoria del Movimento 5 Stelle a Roma non ha avuto festeggiamenti di piazza. Un timidissimo applauso al comitato elettorale nell’immediato e poi una festa privata, a inviti, in un teatro nel centro. Non è strano, per un partito che si definisce «di cittadini»? E soprattutto, non ti pare che questo denoti ancora una volta la nostra allergia agli spazi pubblici, aperti?
Il M5S riesce a portare in piazza molte persone ma ha bisogno di qualcuno che le organizzi. Non è un partito che fa cortei o manifestazioni spontanee, la sua è una ritualità che somiglia di più alla convention.

Il tuo nuovo spettacolo va in scena proprio a Roma (oggi all’Auditorium, ndr). Parla di un «povero cristo» metropolitano. Che genere di miracoli occorrerebbero per la Roma dispersa, abusiva, clandestina?
Il settimo municipio, quello nel quale vivo, ha più di trecentomila abitanti. Firenze ce ne ha pochi di più, ma già Ferrara ne ha meno della metà. E ancora di meno Pisa. Allora mi chiedo: com’è possibile gestire Roma lasciando a municipi grandi come città solo una piccola parte di autonomia? E poi i territori dovrebbero avere una serie di spazi pubblici nei quali si fanno continuamente attività, che siano frequentati dagli abitanti e ciò dovrebbe accadere soprattutto in periferia. Uno spazio che conosco bene, il teatro biblioteca del Quarticciolo, è chiuso da mesi, ma la sua riapertura è vitale: quello potrebbe essere uno dei tanti spazi pubblici sempre attivi.

Qualche giorno fai hai chiesto pubblicamente alla nuova sindaca di Roma cosa intende fare per la cultura, sottolineando come il concetto di «legalità» non sia sufficiente e anzi rischi di travolgere esperienze culturali formalmente «illegali». Tu che cosa le suggeriresti?
Il teatro del Lido di Ostia è stato occupato due volte e oggi è un esempio di attività culturale e di scelte condivise col territorio. Anche il teatro Valle è stato occupato ricevendo attenzione e sostegno internazionali. Trovo che sarebbe sciocco e pericoloso pensare che le palazzine abbandonate da anni che comitati di cittadini recuperano e mettono a disposizione di chi è senza casa siano solo espressione di illegalità. Lo stesso vale per i centri sociali che colmano un vuoto avvertito soprattutto nelle periferie.

C’è un balconcino che affaccia sui fori dal quale i sindaci di Roma si sporgono assieme ai loro ospiti. Se avessi la possibilità di condurre la nuova giunta in un luogo emblematico di Roma, per fargliela osservare da una prospettiva differente, che luogo sceglieresti e perché?
Potrebbe visitare il Cie di Ponte Galeria, per esempio. O il carcere di Regina Coeli o di Rebibbia. Oppure i campi nomadi. Se nessuno deve restare indietro, bisogna cominciare dagli ultimi.

«Dal cardinale de Merode a oggi Roma ha dovuto fare i conti con il potere immobiliare. Neanche l’amministrazione M5S farà eccezione». La Repubblica, 22 giugno 2016 (m.p.r.)

Bufalotta, Tor Pagnotta, Malafede, Casal Boccone, Castellaccio, Murate, un arcano spregiativo segna nei nomi i confini dell’impero palazzinaro della capitale, che dalle rare e dolci denominazioni come Romanina e Madonnetta non può avere riscatto. L’impero ormai è lì nella ripugnanza di favelas postmoderniste, nell’incolpevole degrado sottoproletario. «Roma è l’unica città mediorientale senza un quartiere europeo», diceva Francesco Saverio Nitti già ai primi del Novecento. E adesso? E gli imperatori del cemento (absit iniuria verbis) che si sono perpetrati per più di mezzo secolo di generazione in generazione? Chissà se davvero basterà una giovane signora di 37 anni, determinata ma alquanto innocente, a scalfire il fortilizio invitto della speculazione, che è la cifra quasi bicentenaria della capitale fin dai tempi del cardinal Francesco Saverio De Merode, il quale lanciò negli affari immobiliari i gesuiti, poi gli agostiniani, i certosini e via via gli altri ordini proprietari terrieri, fino a gettare le basi di una città undici volte più estesa di Parigi.

Occorre distinguere bene tra imperatori e re delle favelas (ex?), da domani alle prese con la risoluta Virginia Raggi. C’è chi nella notte di lunedì scorso piangeva sui suoi bilanci, rimpiangendo Rutelli, Veltroni, Alemanno e persino Marino, oltre agli omini in Campidoglio in vendita per un pezzo di pane, e teme di dover cambiare mestiere. E chi, con aplomb principesco, si è già preparato alla fatalità Cinque Stelle.
Lacrima, per dire, Luca Parnasi. Carico di invenduto, Parnasi, erede di Sandro, ha puntato tutto sulla costruzione dello stadio della Roma con Pizzarotti. Ma lo stadio M5S si farà mai ? Erasmo Cinque, ex costruttore di riferimento di Alemanno, è impaniato, insieme all’ex ministro Altero Matteoli nel processo del Mose. Gli altri non gongolano. Lamaro e Toti sono in guerra con Franco Caltagirone e per di più considerati vicini al centrosinistra (quale?). Un giorno i fratelli Toti vendono un terreno a Caltagirone alla Bufalotta e poi si mettono a trafficare per farsi autorizzare una variante per trasformare in residenziali altre aree, vicine a quelle già vendute al re delle favelas, che non perdona. Più o meno in una zona che Veltroni volle dedicata, alla cultura.
Traversi una favela e ti ritrovi un po’ stordito in via Riccardo Bacchelli, in via Ezra Pound o in via Cesare Zavattini, che, poveretto, viveva in un eremo verde ai Castelli romani. Qualcuno, in un’ultima resipiscenza, scelse per la sede del III Municipio Via Olindo Guerrini, poeta scapigliato che verseggiava: ”Quando schizzan le sorche innamorate/ Dalle tue fogne o Roma”. Da fare affari ce ne era per tutti: i Toti, i Todini, i Pulcini, i Parnasi, gli Scarpellini, i Bonifaci. E adesso con l’audace Raggi, algida e intrattabile? S’interroga ancora incredulo chi sperava in pezzetti o pezzoni della Metro C, nelle opere delle Olimpiadi del 2024, se mai Giovanni Malagò e Luca Montezemolo riusciranno ad aggiudicarsele, la Fiera di Roma, le voragini stradali, i restauri.
Ma c’è uno che figurarsi se fa piagnisteo. Lui a Roma (e in Italia) è abituato a dare ordini di qualunque parte siano i sindaci. E nessuno ha il coraggio di snobbarlo di fronte alla potenza di fuoco di carta di cui dispone: a Roma Il Messaggero, il giornale cittadino che con il gratuito Leggo finisce in ogni bar e che è assai ben disposto a seguire gli affari dell’editore. Poi, tanto per gradire, Il Mattino a Napoli e Il Gazzettino a Venezia. Ma non solo è per questo che Franco Caltagirone ha il diritto di scrollarsi il titolo di imperatore delle favelas. Ormai è un finanziere di prima fila. Collezionista di sculture, quadri, monete antiche ma soprattutto moderne, “liquido” per molti miliardi è capo di una dinastia di origine siciliana, di cui fanno parte il fratello Leonardo, che ha costruito il Parco Leonardo, vicino all’autostrada per Fiumicino e Edoardo. Altro ramo i Caltagirone Bellavista, che avevano in tasca Andreotti e l’intera Democrazia cristiana.
Il capostipite Franco non può più neanche dirsi immobiliarista, visto che, oltre che di Acea, è azionista di Generali, Mediobanca, Unicredit, una delle “banche di sistema” del mondo. Oggi è abituato a dire la sua non solo sulla presidenza della Rai o sulle più importanti nomine pubbliche, ma è nel cuore del cuore del capitalismo italiano. Fu anche lui a silurare il Ceo delle Generali Mario Greco e, in questi giorni, sta creando un po’ di rogne al presidente della banca Giuseppe Vita, il quale parla un giorno sì e un giorno no con Angela Merkel, chiedendo che il nuovo capo di Unicredit sia un italiano e non uno straniero fra quelli che compaiono nella lista di Egon Zehnder.
Ecco la vera partita del nuovo sindaco di Roma, il potere vero con il quale dovrà confrontarsi. Resisterà dura e pura? O il governo è un’altra cosa, come ha dimostrato il sindaco Pizzarotti a Parma?
Paolo Berdini, probabile assessore, ha già detto che «le Olimpiadi non sono un male a prescindere». E davvero vogliamo fare tram come nell’Ottocento?
Che la partita abbia inizio, perché «Roma deve apparire meravigliosa a tutte le genti del mondo: vasta, ordinata, potente, come ai tempi del primo impero di Augusto» (Benito Mussolini).

«Questi tre aspetti rappresenteranno la “cifra” dell’azione di Raggi al Campidoglio». Articolo di Ernesto Menicucci e intervista di Paolo Boccacci a Paolo Berdini, Corriere della Sera e il manifesto, 21 giugno 2016 (m.p.r.)



Corriere della Sera
LA «SIGNORA NO» APRE AL DIALOGO: OLIMPIADIE METRO VANNO RIPENSATE
di Ernesto Menicucci

Roma. Le Olimpiadi, lo stadio della Roma, la Metro C. In campagna elettorale, Virginia Raggi è stata accusata dal «rivale» Roberto Giachetti, dal Pd e da certi ambienti imprenditoriali della Capitale di essere una «signora no». No ai Giochi, no al progetto di Tor di Valle della società giallorossa, no al prolungamento della terza linea della metropolitana.

E lei, su questi tre argomenti, è sempre stata vaga. Le Olimpiadi «non sono una priorità: i romani mi chiedono altro». Lo stadio «va fatto nel rispetto delle regole: vale per la Roma e varrebbe anche per un eventuale impianto della Lazio». Sulla Metro C «va fatta una riflessione». In realtà, di questi tre aspetti - che insieme alla gestione dell’ordinario (buche, trasporti, rifiuti) rappresenteranno la «cifra» dell’azione di Raggi al Campidoglio - la neosindaca ha parlato spesso, nelle riunioni col suo staff e in particolare con l’assessore «in pectore» all’Urbanistica, Paolo Berdini, docente a Tor Vergata, grande oppositore del Piano Regolatore firmato da Walter Veltroni («il peggior sindaco dal punto di vista urbanistico», lo bolla) nel 2008.

Cosa pensa, davvero, la Raggi sui tre progetti? Sulla Metro C va «aperta una discussione». Obiettivo numero uno, naturalmente, è arrivare a San Giovanni. E da lì? «È impensabile avere una linea che attraversa il centro storico, passa al Colosseo, e per due chilometri non fa uno stop». L’idea, allora, visti i recenti ritrovamenti archeologici (una caserma romana a nove metri di profondità), potrebbe essere quello di cambiare percorso. Per andare dove? «Ci sono tanti quadranti...», dice Berdini. Verso ovest, ad esempio.

Sulle Olimpiadi, il nodo è il Villaggio per gli atleti a Tor Vergata. Berdini non è convinto: «E non per chi costruirebbe: i terreni sono del Demanio, il Comune non mette bocca». E perché, allora? Quell’area, secondo Raggi e il futuro assessore, serve allo sviluppo futuro dell’Università e del Policlinico, per dare a Roma una vocazione da «Città degli Studi», quella che sognava l’urbanista Italo Insolera, che a sua volta riprendeva un’idea di Quintino Sella. Eppure, spostare il villaggio olimpico (17 mila appartamenti, che poi dovrebbero diventare 6 mila alloggi per studenti e per i familiari dei pazienti dell’ospedale) non è così semplice. Ma il piano della Raggi è cercare una soluzione alternativa. Per cambiare il progetto olimpico, in effetti, c’è anche qualche margine: il secondo step del dossier sulla candidatura, va inviato al Cio ad ottobre. Per questo, finora, Raggi ha sempre detto che le Olimpiadi «non sono una priorità»: in questi mesi vuole prima dare risposte sulle emergenze cittadine.

Ultimo, ma non ultimo, lo stadio della Roma. Che vuol dire «farlo dentro le regole», se c’è la legge sugli stadi? Che, secondo la sindaca, il progetto (dei privati) deborda dai parametri. E approvarlo così com’è rappresenterebbe un precedente pericoloso. Anche per lo stadio (ipotetico) della Lazio.

La Repubblica
PAOLO BERDINI: "STOP AI PALAZZINAI E SU OLIMPIADI E STADIO È MEGLIO RIPENSARCI"
intervista di Paolo Boccacci a Paolo Berdini

Il futuro assessore all’urbanistica: "Fallito il rilancio economico basato sull’immobiliare. Accorcerò le distanze tra la periferia e il centro"

ROMA - Sarà proprio lui, Paolo Berdini, il nemico giurato del nuovo piano regolatore di Roma e della città disegnata dai sindaci Rutelli e Veltroni, il nuovo assessore all'Urbanistica nella futura giunta di Virginia Raggi.

Magro, un paio di baffi sottili, classe 1948, docente, saggista (La città in vendita è un suo saggio uscito per Donzelli), da sempre un "uomo contro", ha collaborato con Italo Insolera all'ultima edizione di un testo storico come Roma Moderna, una bibbia dell'urbanistica.

Per cominciare, la domanda che si fanno tutti: ma Berdini, da sempre vicino alla sinistra radicale e fautore di un'urbanistica altrettanto radicale, che ci fa a braccetto con i 5 Stelle?
"Macché, sono culturalmente una persona moderata. Sono però convinto, anche grazie all'insegnamento di studiosi come Insolera, che l'urbanistica sia una materia pubblica. E che quindi l'amministrazione comunale debba delineare il futuro della città. Questa convinzione c'è nel programma della Raggi e quindi la convergenza è sui fatti reali".

Mettiamo subito le mani nel piatto: le Olimpiadi del 2024. La nuova sindaca ha votato "no" in Consiglio, lei è contro il Villaggio di Tor Vergata. Il presidente del Coni Malagò è sicuro che un referendum a pochi mesi dalla decisione sulla candidatura dei Giochi equivarrebbe al ritiro. Che farete?

"Intanto bisogna capire se davvero questi Giochi rappresentino un futuro per Roma. La nostra è una città notoriamente in grave sofferenza economica e sociale. Sembra dunque giusto che ci sia da parte del nuovo sindaco una riflessione per comprendere se davvero non ci siano altre priorità".

Altro caso, lo stadio della Roma. Raggi &Co. hanno votato contro, il dg della squadra Baldissoni minaccia di chiedere risarcimenti milionari in caso si torni indietro. Ingoierete il rospo come il sindaco di Parma Pizzarotti ha fatto con l'inceneritore?
"Se dobbiamo costruire lo stadio della Roma ho sempre detto che vanno rispettate le leggi dello Stato, che permettono alle società di calcio, come ha fatto la Juventus a Torino, di avere stadi di proprietà. Il problema di Tor di Valle è molto differente, perché lì per tenere in equilibrio la bilancia economica sono stati concessi un milione di metri cubi di uffici. Mi chiedo se questa non sia un'alterazione del mercato immobiliare in una città che vive un grave malessere dell'edilizia".

Che cosa non va nel nuovo piano regolatore?

"Ha visto la luce nel 2008, l'anno della più grave crisi economica e finanziaria che sta vivendo l'Occidente. Prima di quella data era sembrato che con il comparto immobiliare si potesse rimettere in moto tutta l'economia di una città. Gli esempi straordinari che esistono in Europa ci hanno dimostrato che le città che hanno saputo guardare a un'articolazione dei segmenti produttivi, privilegiando la qualità alla quantità, hanno superato la crisi in modo molto più veloce che Roma. Il vulnus sta qui".

Come lo cambierà?

"Lo farò con il consenso di tutti i protagonisti della scena urbana. Un elemento aiuta a pensare a una città differente: i valori immobiliari delle periferie sono in picchiata da anni. Dunque costruendo si abbasserebbero maggiormente quelli delle case di tante famiglie romane. Non c'è più bisogno di costruire".

Uno dei problemi principali di Roma è la mancanza di trasporto su ferro. Che fine dovrà fare la Metro C? Si dovrà fermare a piazza Venezia o proseguire verso piazzale Clodio?
"Intanto credo che sia inaccettabile pensare di spendere denaro pubblico per una metropolitana che non avrebbe stazioni da piazza Venezia a oltretevere. È evidente che bisognerà studiare in accordo con gli operatori privati un differente percorso".

Ancora metropolitane. C'è un project financing di Caltagirone e soci già approvato per la costruzione del prolungamento della linea B da Rebibbia a Casal Monastero e i nuovi insediamenti oltre il Gra, in cambio di nuove cubature per i re del mattone. Anche qui c'è odore di carte bollate.
"Non conosco nel merito l'accordo. Se è formalizzato in modo impeccabile, la continuità amministrativa è stata un faro della mia vita. Certo, siamo di fronte ad un modello insostenibile, perché se per costruire qualsiasi infrastruttura dobbiamo pagarla con milioni di metri cubi, la città che fine farebbe?".

Tra i grandi progetti bisognerà dare una risposta definitiva per il nuovo quartiere della Città della Scienza al posto delle caserme di via Reni davanti al Maxxi di Zaha Hadid.

"A quale futuro pensiamo se vogliamo costruire una Città della Scienza su un'area di un ettaro che non è nulla rispetto alla Villette di Parigi? Dobbiamo ragionare sul modello previsto".

Quale sarà la sua parola d'ordine per l'urbanistica romana?

"Accorciare le distanze tra periferia e centro. Il segnale elettorale è questo. Le periferie hanno voluto un cambiamento perché sono state abbandonate".

Che farà nei primi cento giorni?
"Un piano per il rilancio della rete su ferro, tranviaria e metropolitana ".

«Il futuro assessore all’urbanistica "Sono convinto che una amministrazione debba delineare il futuro: questa convinzione nel programma della Raggi, c’è la convergenza è nei fatti. Fallito il rilancio economico basato sull’immobiliare. Accorcerò le distanze tra la periferia e il centro”». La Repubblica, 21 giugno 2016 (c.m.c.)

Sarà proprio lui, Paolo Berdini, il nemico giurato del nuovo piano regolatore di Roma e della città disegnata dai sindaci Rutelli e Veltroni, il nuovo assessore all’Urbanistica nella futura giunta di Virginia Raggi. Magro, un paio di baffi sottili, classe 1948, docente, saggista (La città in vendita è un suo saggio uscito per Donzelli), da sempre un “uomo contro”, ha collaborato con Italo Insolera all’ultima edizione di un testo storico come Roma Moderna, una bibbia dell’urbanistica.

Per cominciare, la domanda che si fanno tutti: ma Berdini, da sempre vicino alla sinistra radicale e fautore di un’urbanistica altrettanto radicale, che ci fa a braccetto con i 5 Stelle?
«Macché, sono culturalmente una persona moderata. Sono però convinto, anche grazie all’insegnamento di studiosi come Insolera, che l’urbanistica sia una materia pubblica. E che quindi l’amministrazione comunale debba delineare il futuro della città. Questa convinzione c’è nel programma della Raggi e quindi la convergenza è sui fatti reali».

Mettiamo subito le mani nel piatto: le Olimpiadi del 2024. La nuova sindaca ha votato “no” in Consiglio, lei è contro il Villaggio di Tor Vergata. Il presidente del Coni Malagò è sicuro che un referendum a pochi mesi dalla decisione sulla candidatura dei Giochi equivarrebbe al ritiro. Che farete?
«Intanto bisogna capire se davvero questi Giochi rappresentino un futuro per Roma. La nostra è una città notoriamente in grave sofferenza economica e sociale. Sembra dunque giusto che ci sia da parte del nuovo sindaco una riflessione per comprendere se davvero non ci siano altre priorità».

Altro caso, lo stadio della Roma. Raggi &Co. hanno votato contro, il dg della squadra Baldissoni minaccia di chiedere risarcimenti milionari in caso si torni indietro. Ingoierete il rospo come il sindaco di Parma Pizzarotti ha fatto con l’inceneritore?
«Se dobbiamo costruire lo stadio della Roma ho sempre detto che vanno rispettate le leggi dello Stato, che permettono alle società di calcio, come ha fatto la Juventus a Torino, di avere stadi di proprietà. Il problema di Tor di Valle è molto differente, perché lì per tenere in equilibrio la bilancia economica sono stati concessi un milione di metri cubi di uffici. Mi chiedo se questa non sia un’alterazione del mercato immobiliare in una città che vive un grave malessere dell’edilizia».

Che cosa non va nel nuovo piano regolatore?
«Ha visto la luce nel 2008, l’anno della più grave crisi economica e finanziaria che sta vivendo l’Occidente. Prima di quella data era sembrato che con il comparto immobiliare si potesse rimettere in moto tutta l’economia di una città. Gli esempi straordinari che esistono in Europa ci hanno dimostrato che le città che hanno saputo guardare a un’articolazione dei segmenti produttivi, privilegiando la qualità alla quantità, hanno superato la crisi in modo molto più veloce che Roma. Il vulnus sta qui».

Come lo cambierà?
«Lo farò con il consenso di tutti i protagonisti della scena urbana. Un elemento aiuta a pensare a una città differente: i valori immobiliari delle periferie sono in picchiata da anni. Dunque costruendo si abbasserebbero maggiormente quelli delle case di tante famiglie romane. Non c’è più bisogno di costruire».

Uno dei problemi principali di Roma è la mancanza di trasporto su ferro. Che fine dovrà fare la Metro C? Si dovrà fermare a piazza Venezia o proseguire verso piazzale Clodio?
«Intanto credo che sia inaccettabile pensare di spendere denaro pubblico per una metropolitana che non avrebbe stazioni da piazza Venezia a oltretevere. È evidente che bisognerà studiare in accordo con gli operatori privati un differente percorso».

Ancora metropolitane. C’è un project financing di Caltagirone e soci già approvato per la costruzione del prolungamento della linea B da Rebibbia a Casal Monastero e i nuovi insediamenti oltre il Gra, in cambio di nuove cubature per i re del mattone. Anche qui c’è odore di carte bollate.
«Non conosco nel merito l’accordo. Se è formalizzato in modo impeccabile, la continuità amministrativa è stata un faro della mia vita. Certo, siamo di fronte ad un modello insostenibile, perché se per costruire qualsiasi infrastruttura dobbiamo pagarla con milioni di metri cubi, la città che fine farebbe?».

Tra i grandi progetti bisognerà dare una risposta definitiva per il nuovo quartiere della Città della Scienza al posto delle caserme di via Reni davanti al Maxxi di Zaha Hadid.
«A quale futuro pensiamo se vogliamo costruire una Città della Scienza su un’area di un ettaro che non è nulla rispetto alla Villette di Parigi? Dobbiamo ragionare sul modello previsto».

Quale sarà la sua parola d’ordine per l’urbanistica romana?

«Accorciare le distanze tra periferia e centro. Il segnale elettorale è questo. Le periferie hanno voluto un cambiamento perché sono state abbandonate».

Che farà nei primi cento giorni?

«Un piano per il rilancio della rete su ferro, tranviaria e metropolitana ».

Uno sfogo, un'invettiva e una speranza da un'attivista per un'altra Roma e portavoce di "carteinregola". Rivolta al PD, (#fateveneunaragione) ma non solo. massimocomunemultiplo blog online, 20 giugno 2016


Elezioni Roma
#fateveneunaragione

(e rimbocchiamoci le maniche per la città)

Come la fiaba di quel tale che parte per vendere la mucca al mercato e a forza di scambi al ribasso si ritrova con un uovo, il Partito Democratico a Roma ha dissipato in poco tempo il suo consenso, passando dai 664.490 voti raccolti dal suo candidato Ignazio Marino al ballottaggio del 2013, ai 376.935 del suo successore Roberto Giachetti del 2016*. Tra le due date è successo di tutto, ma il Partito Democratico deve finalmente guardare in faccia la realtà.

Basterebbe guardare alcune immagini dell’ultimo giorno di campagna elettorale per capire la profonda frattura tra il Partito Democratico e la città. Una piazza strapiena a Ostia ad acclamare la candidata M5S Virginia Raggi, un gruppo di sostenitori di Roberto Giachetti che non riempiva neanche metà dello stretto Ponte della Musica. [vedi icona in alto]

Adesso nel Partito cominceranno le rese dei conti, si spargeranno veleni, voleranno stracci e coltelli, mentre si moltiplicano le versioni consolatorie sui social: un voto contro Renzi, contro il PD, la gente si è fatta abbindolare dal populismo etc etc etc. Ma è un esercizio inutile cercare colpevoli, o ventilare complotti e ripicche. Forse qualcuno effettivamente avrà votato Raggi per farla pagare a Renzi, o per punire il PD, ma la stragrande maggioranza ha scelto il Movimento 5 Stelle perché è stato l’unico a presentarsi come partito del cambiamento, perché da sempre promette onestà e legalità, e perché lavora da tempo su quei territori di cui il Partito Democratico si ricorda solo all’avvicinarsi delle elezioni. Già nel 2008, la vittoria di Alemanno aveva dimostrato il fallimento del Modello Roma del quindicennio Rutelli/Veltroni e il grave malessere delle periferie. Anziché fermarsi allora a fare autocritica, si è sprofondati in uno dei periodi più oscuri della città, non solo per l’amministrazione di uno dei peggiori centrodestra, ma per il consociativismo di un’opposizione che si opponeva ben poco, a quel centrodestra. Mafia capitale ha poi svelato un po’ di fuoriscena, nelle risultanze giudiziarie, ma soprattutto in quelle migliaia di pagine di intercettazioni, da cui emerge l’immagine di un Partito Democratico deteriorato, preoccupato di voti, correnti e consensi, e ben poco del bene della città e delle persone.

Fatevene una ragione, non sono i radical chic con la puzza sotto il naso che hanno girato le spalle al vostro partito, ma la gente normale, che si è sentita sempre più povera, senza dignità e senza speranza. Abbandonata da una classe politica che anche a sinistra non difendeva più diritti per elargire favori, ben più remunerativi. Classe politica rimasta la stessa anche durante il breve mandato di Ignazio Marino, e che a Marino ha fatto la guerra fin dall’inizio, soprattutto a quelli della sua squadra che non volevano continuare il tran tran precedente. Con una conclusione cruenta - quelle firme dal notaio dei consiglieri PD - che forse ha segnato anche la vera fine del Partito. Ma il suicidio collettivo del PD romano va avanti da tanto, anche se “al ralenti”, con una inesorabile selezione alla rovescia che ha allontanato i militanti più volenterosi e intraprendenti, lasciando il campo ai comitati elettorali.

Quante tessere - vere - sono state perse in questi anni? L’indagine di Barca è stata acqua fresca. Che ha indicato il partito cattivo dei valvassini dei circoli e non quello dei vassalli e dei principi e delle relative correnti - tutte ben vive e vegete - in Campidoglio, in Regione, in Parlamento. E se non sappiamo quale dibattito si sia svolto nel partito dopo Mafia Capitale, di certo i candidati del PD hanno parlato ben poco, in campagna elettorale, di mafia e corruzione. Sembrava che le elezioni si tenessero a Oslo, non nella Roma dei “mondi di mezzo”. Mobilità sostenibile. Piste ciclabili. Programmi fotocopiati dal passato, candidati anche. Invito quelli che pontificano sulle presunte incompetenze dei futuri consiglieri Cinque Stelle, a scorrere i curricula dei candidati PD, e approfondire meriti e competenze di quelli in cima alla graduatoria delle preferenze che finiranno in Assemblea o in lista di attesa (naturalmente quelli prestigiosi delle liste civiche hanno preso un pugno di voti perché non sorretti dall’organizzazione del partito, che in questo è ancora efficiente).

Fatevene una ragione, non bastano più i richiami alla grandeur di RomatornaRoma, gli echi di Festival del Cinema e Notti bianche, per far credere che Roma sia una capitale europea. La gente vive nel terzo mondo ogni giorno, il centrosinistra raccoglie ancora il voto delle enclave dei municipi dove vivono i privilegiati, ma sempre meno, perché anche lì l’abbandono e il degrado proliferano come una malattia contagiosa.

Fa impressione che un partito che per tanto tempo ha messo al centro del suo progetto per un mondo migliore le persone, e valori come l’uguaglianza, la solidarietà, la difesa del bene comune, si sia ridotto a usare come principale argomento elettorale l’ennesima candidatura Olimpica, in una città stremata dai grandi eventi precedenti, giocando sulla retorica sportiva e su quella degli eventi-che-creano-posti-di-lavoro. Oltretutto con un paradossale scambio di ruoli che vede il candidato PD Sindaco della Capitale dare per scontata la sua subalternità a un comitato sportivo, anche per quelle decisioni che riguardano i progetti urbanistici e l’eredità che dovrebbero lasciare le Olimpiadi alla città.

E altrettanto tristi sono i messaggi scelti dalla campagna elettorale del PD e del suo candidato per parlare alla città, evidentemente frutto di una comunicazione maldestra e povera di idee - anche perché costretta ad attingere a un repertorio povero di contenuti orignali e convincenti - che ha ripiegato su temi segnalati dai sondaggi come le buche - non per niente in comune con gli altri contendenti - messe in pole position insieme alla riduzione delle tasse, o su formule stantie come il tormentone romanesco (con tanto di “Società dei magnaccioni”), come se la strizzata d’occhio pseudo popolaresca potesse cancellare il profondo fossato che divide da tempo la politica dai cittadini.

E soprattutto nel Partito Democratico, nato dalle ceneri del Partito Democratico della Sinistra, manca appunto la sinistra. Mancano i valori di sinistra. Molti sostenitori del Partito Democratico rinfacciano ai Cinque Stelle di non avere un sistema di valori condivisi, cioè quei fondamenti indiscutibili, come la tutela dei deboli e la giustizia sociale. E agitano il rischio - reale - di derive demagogiche che oscillano tra mondi di destra e di sinistra in base alla pancia e agli umori dei sostenitori o degli attivisti in rete. Però dovrebbero a questo punto interrogarsi su cosa è rimasto oggi dei valori che hanno condiviso e difeso quando il PD si chiamava PCI, poi PDS, poi DS. Valori che non basta scrivere nei codici etici, nella carta dei valori o nei programmi elettorali, devono essere messi in pratica ogni giorno, da tutti.

Ed è devastante sapere che quei valori per cui si sono battuti e sacrificati i nostri padri e nonni oggi non hanno più significato per la maggior parte della gente, che sostiene”che destra e sinistra sono uguali”. Se sono tanti a pensarla così, è perchè molto spesso sono uguali i partiti, i comportamenti, gli interessi. I valori sono ancora diversi, anche se bisogna trovare nuove forme, linguaggi e canali per farli vivere di nuovo.

Mafia Capitale ha segnato una ferita e un solco, tra chi continua a perseguire le vecchie logiche politiche spartitorie e chi invece si batte per l’interesse pubblico e la partecipazione dei cittadini. Il monocolore M5S non può funzionare da solo, ha bisogno di sostegno, competenze e anche confronti critici con le realtà più diverse, anche della politica. Penso che un percorso possibile sia quello che sta cercando di costruire il nostro Laboratorio per una Politica trasparente e democratica, che vuole tenere aperto uno spazio di confronto tra realtà della società civile e quei pezzi di partiti e movimenti – compresi i simpatizzanti di quei partiti che oggi sembrano antagonisti inconciliabili come PD e M5S – che vogliono davvero costruire il cambiamento. Questa campagna elettorale è stata devastante, ha portando il conflitto tra le due principali forze politiche fino a livelli inaccettabili**, spaccando la città e esasperando pregiudizi e sospetti anche tra persone che potrebbero avere molto in comune. Bisogna ricucire il dialogo e il confronto.

Coraggiosi, M5S e non, cercasi.

*al primo turno: Marino 512.720 voti, Giachetti 320.170 voti

** La campagna contro Virginia Raggi per i due incarichi alla ASL di Civitavecchia da 13000 euro segnalati tardivamente al Comune, al di là del giudizio sul fatto in sé, è stata davvero indegna. L’invio di SMS anonimi agli elettori che definivano la candidata Raggi una bugiarda è un episodio inaccettabile, su cui spero che il Partito Democratico vorrà fare chiarezza prendendo le distanze dai suoi autori. E voglio ricordare che una simile e virulenta campagna denigratoria - sostenuta sfacciatamente da testate giornalistiche un tempo autorevoli - non ricorda neanche lontanamente quella condotta verso avversari del centro destra come Alemanno. Questi sistemi non sono accettabili da nessun sincero democratico.

Ricostruire il profilo della legalità, mettere in soffitta la cultura delle deroghe, e privilegiare il diritto sociale alla città e ai beni comuni. I propositi del possibile assessore all'urbanistica di Roma, spiegati su il manifesto, 19 giugno 2016.

Roma è una città fallita. Ai 13,5 miliardi certificati dal Commissario governativo ne vanno aggiunti due degli anni del sindaco Marino e un numero finora imprecisato che proviene dall'accensione di tìtoli derivati. Roma supera dunque i parametri di legge che regolano l'indebitamento degli enti locali e se il Governo volesse - e non è detto che non giocherà questa carta - potrebbe sciogliere il governo municipale. Dei candidati sindaci che si sono presentati al primo tumo solo Raggi e Fassina hanno posto con chiarezza la questione proponendo l'apertura della rinegoziazione del debito. Silenzio da tutti gli altri, compreso quello di Giachctti.
La causa strutturale del debito sta nell'anarchia urbanistica. Negli ultimi 20 anni si è costruito dappertutto al di fuori di ogni regola sicuri che la mano pubblica avrebbe portato i servizi indispensabili. L'ultimo scandalo riguarda ad esempio un intero quartiere nato in aperta campagna a tre chilometri dall'ultima periferia, Pian Saccoccia, a cui il comune deve garantire trasporti e raccolta dei rifiuti. A fronte di pochissimi che hanno intascato una rendita immobiliare enorme, la collettività accumula debito mentre Atac e Ama sono sull'orlo del fallimento. Il manifesto ha denunciato sistematicamente in questi anni gli effetti dell'urbanistica derogatoria e il risultato di questo prezioso lavoro sta nel volume di recente pubblicazione Viaggio in Italia che raccoglie i ragionamenti collettivi provocati da una intuizione di Piero Bevilacqua e curato con Ilaria Agostini. Il quadro che emerge è la crisi irreversibile delle città, come noto amministrate in larga parte dal «centro sinistra».
È dunque evidente che sussiste ancora una difficoltà culturale nella sinistra a fare i conti con gli errori del recente passato, quando sono stati sacrificati gli interessi dei cittadini per privilegiare quelli economici e finanziari dominanti. L'effetto di questa scelta di campo è resa evidente dal voto del 5 giugno scorso: in tutte le periferie urbane la sinistra non intercetta più il malessere delle famiglie impoverite da una crisi senza fine e dalla cancellazione del welfare. Questa parte di società ha invece scelto di premiare a Torino e Roma il movimento 5stelle e dobbiamo chiederci i motivi di fondo di questo orientamento. I gruppi parlamentari 5stelle hanno contrastato con forza lo «Sbocca Italia» imposto per decreto dal governo Renzi che ripropone l'ennesima e sempre più accentuata stagione derogatoria cosi come si sono battuti contro quella che viene vergognosamente chiamata la legge contro il consumo di suolo e che contiene invece altri meccanismi che lo incentivano.
In buona sostanza, quella complessa galassia piena di contraddizioni lucidamente sollevate da Alberto Asor Rosa su queste pagine, si è però saldamente impadronita della cultura urbana che era il vanto della sinistra. Da questa maturazione politica e culturale sono arrivate due proposte di lavoro coraggiose. Virginia Raggi con me e Chiara Appendino con un'altra figura di rilievo dell'urbanistica democratica, Guido Montanari, hanno scelto di ricostruire il profilo della legalità mettendo in soffitta la cultura delle deroghe e privilegiando invece il diritto sociale alla città e ai beni comuni. È lo stesso percorso scelto, come notava ieri Norma Rangeri, a Napoli da Luigi De Magistris sia nella sfida per l'acqua pubblica sia nel rispetto del piano urbanistico di Vezio De Lucia. È per questo motivo che ho ritenuto di accettare la proposta offertami da Virginia Raggi di guidare l'urbanistica di una città fallita a causa della mala urbanistica.

«D'Alema ha telefonato allo storico dell'arte per convincerlo ad accettare l'assessorato alla cultura offertogli dal M5S a Roma: "Mi ha chiamato come hanno fatto in molti - conferma lui - mi ha detto che sarei stato un ottimo assessore"». Il Fatto quotidiano online, 16 giugno 2016 (c.m.c.)

«Forse ci sarebbero cose più serie di cui parlare. Lo dico da vicepresidente di Libertà e Giustizia: se si discutesse delle ragioni del ‘no’ al referendum un decimo di quanto si parla delle telefonate di Massimo D’Alema, sarebbe un Paese migliore».

Tomaso Montanari, docente di Storia dell’arte moderna alla Federico II di Napoli, torna sulla querelle tra l’ex premier e La Repubblica, secondo cui in diverse occasioni pubbliche il “Lìder Maximo” si sarebbe detto pronto a votare Virginia Raggi “pur di mandare via Renzi”. Il quotidiano romano racconta anche che D’Alema ha telefonato allo storico dell’arte per convincerlo ad accettare l’assessorato alla cultura offertogli dal M5S a Roma.

«Quando è uscita la notizia che Virginia Raggi mi aveva chiesto se fossi disponibile a diventare assessore alla cultura a Roma, ho ricevuto moltissime telefonate da amici, conoscenti, persone appassionate di politica, ho sentito Civati e Fassina, Salvatore Settis e Goffredo Fofi, Gian Antonio Stella e Massimo Bray… Tra costoro c’era anche D’Alema, e mi ha fatto piacere sentirlo. Non ci sentiamo spesso, ma abbiamo fatto entrambi la Scuola Normale di Pisa, tra noi ci sono argomenti e ragionamenti in comune. Voleva sapere se era vero e mi ha detto che secondo lui sarei stato un ottimo assessore alla cultura di Roma e che quindi avrei potuto pensare ad accettare. Ma non c’è stata alcuna pressione, non è che D’Alema stia facendo la giunta dei 5 stelle, queste sono sciocchezze. Anche perché non so in base a che cosa avrebbe potuto fare pressione su di me, io con il Pd non c’entro nulla».

D’Alema dice che lei gli ha chiesto un consiglio.
«L’ho chiesto a molte persone che mi hanno chiamato, gli ho domandato cosa avrebbe fatto lui al posto mio. Il fatto che il M5S stia per conquistare Roma e che in questo momento ragioni non come il Pd o come la destra con una logica di appartenenza, ma si apra a persone molto diverse dalla sua storia come me, e in particolare che si apra a persone e a idee della sinistra, ha incuriosito molti e ha creato un dibattito. Credo che ascoltare le opinioni delle persone sia importante: D’Alema è una persona a particolarmente intelligente e di esperienza. Ma non ho chiesto consiglio solo a lui. L’ho chiesta anche al mio ortolano, ai miei colleghi di università, per capire come reagisce il mondo della sinistra di fronte a queste aperture».

All’assessorato ci ha pensato davvero.
«Certo che ci ho pensato. Io studio storia dell’arte romana da una vita. E poi fermare il Pd a Roma e tentare un esperimento diverso sia una grande occasione. Da un punto di vista professionale e da un punto di vista politico ero molto tentato. Ma poi ho pensato che, specie nell’ambito della cultura, non si può governare una città in cui non si vive tutti i giorni, in cui non si ha una famiglia, della cui comunità non si fa parte. Quelli che fanno gli assessori o i superconsulenti esterni alla cultura e sono sempre in viaggio da un posto all’altro alla fine non fanno un gran lavoro. Una delle cose che mi è piaciuta dei discorsi della Raggi è che parla di comunità. Per governare una comunità bisogna esserne membri».

Che giudizio ha dei programmi di Giachetti e della Raggi?
«Il programma del Pd non riserva nessuna sorpresa: continuerà tutto come prima, spero non la corruzione. Giachetti mi sembra una persona pulita, quello che che c’è dietro di lui mi piace di meno e mi dà minori garanzie, è il motivo per cui voterei la Raggi se fossi residente a Roma. Su tanti punti condivido il suo programma. In generale mi pare che i 5 stelle abbiano un’idea della cultura molto simile alla mia: cultura non come mercato, che è l’idea di Renzi e del Pd, ma come strumento per ridare sovranità ai cittadini e renderli partecipi della vita politica».

Cosa pensa di questa storia? D’Alema sta veramente tramando contro Renzi?
«Renzi non c’entra nulla con la storia della sinistra. E’ un gigantesco equivoco che Renzi oggi, invece di guidare Forza Italia, sia il leader del Pd. Sarebbe il leader ideale di Forza Italia per le idee che ha e le leggi che sta facendo. Lo Sblocca Italia, la riforma della Costituzione, la riforma della scuola sono tutte cose che hanno un minimo comune denominatore: il primato assoluto del mercato. Nel momento in cui in un modo assurdo, con delle primarie aperte anche a chi non era iscritto al partito Renzi diventa segretario del Pd, chi è di sinistra in quel partito si pone il problema: o riuscire a recuperare il partito o uscirne. A un certo punto D’Alema e molti altri dovranno decidersi».

Come esce da questa storia il Pd?
«Il Pd è un partito che ha subito un’opa ostile da parte di uno che con la sua storia non c’entra nulla. D’altra parte però in questa vicenda vengono al pettine molti nodi. Io sono fiorentino, ero al liceo di Renzi che ai miei tempi era vicino a Comunione e Liberazione, poi è stato presidente della Provincia di Firenze da democristiano qual è. Poi solo la creazione a freddo del Pd ha permesso che queste due storie, quella di Renzi e quella della sinistra, si incontrassero. Ora un’anima ha prevalso sull’altra. Ma quando da sindaco di Firenze Renzi diceva che per lui le bandiere rosse erano quelle della Ferrari diceva la verità».

Un incontro tra due storie che è il prologo della mutazione genetica del Pd.
«Il problema è questo: esiste ancora la sinistra in questo Paese? Se esiste, che scelte fa? Cambiare il Pd? Non ce la fanno e allora creano Possibile e Sinistra Italiana. Io sono nel consiglio scientifico di Possibile, ho grande stima per Civati e Fassina, hanno creato un laboratorio di idee importantissimo, ma non riescono ad avere un consenso maggioritario. In questo quadro i 5 stelle sono una creatura molto strana in cui ci sono cose molto inquietanti – l’aspetto proprietario e privatistico dei Casaleggio lo trovo terribile, il ruolo di Beppe Grillo che va superato, tanti altri punti a partire dalla loro posizione sui migranti non mi convince affatto – però vedo che su molti altri temi c’è una convergenza con la sinistra come la intendo io».

Quali?
«Sul campo, io che mi occupo di ambiente, paesaggi e territorio mi trovo dall’altra parte il sindaco con la betoniera cementificatrice e non riesco a distinguere se è del Pd o di Forza Italia, mentre dalla mia parte ci sono i militanti 5 stelle. Allora mi domando se non esista la possibilità che i 5 stelle non assomiglino nel tempo a quello che è Podemos. Un dato di fatto: se al governo della città di Roma arriva l’urbanista più di sinistra che in questo momento è attivo in Italia, Paolo Berdini, non si deve a un partito di sinistra ma al M5S. Se la sinistra delle idee va al governo in alcune città grazie ai grillini è un dato di fatto su cui occorre ragionare».

La macchina del fango lavora sempre a pieno regime. Paolo Berdini risponde alle accuse mosse dal Messaggero nei suoi confronti. Il manifesto, 15 giugno 2016

Dietro la vicenda Olimpiadi 2024 si sta conducendo un’offensiva tanto strumentale quanto priva di dati oggettivi e sarà bene recuperare un minimo di dignità di discussione. Speravo che fossero finiti per sempre i tempi della santa inquisizione. Vedo purtroppo che non è vero.

Leggo infatti sul Messaggero di Roma che sarei stato denunciato per diffamazione da Francesco Gaetano Caltagirone per una intervista che riguardava il tema di Tor Vergata, luogo in cui si vorrebbe costruire il villaggio degli atleti.

Nella mia vita ho rilasciato decine di interviste sul comprensorio di Tor Vergata e ho scritto molti articoli e libri che la riguardano. Non mi era mai accaduto di essere denunciato perché ho sempre riportato l’esattezza della vicenda.

Il comprensorio è di proprietà dello Stato e non mi sogno di affermare – come sostiene il quotidiano – che sia di un consorzio guidato da un importante gruppo imprenditoriale. Affermo soltanto che quel gruppo, la Vianini, ha la regia delle realizzazioni all’interno del comprensorio. Dunque nel caso venissero costruite le abitazioni per gli atleti sarebbe quel consorzio a realizzarle. Una verità incontrovertibile.

Ma il Messaggero non si ferma e mi accusa di aver messo sul banco degli imputati le imprese ed aver taciuto sui veri responsabili dell’ennesima incompiuta.

Purtroppo per loro ho denunciato troppe volte la folle disinvoltura con cui la politica ha deciso di costruire opere senza avere le coperture economiche. Nei miei scritti ho anche denunciato con forza che questo irresponsabile modo di procedere è il male che sta divorando l’Italia e con essa le imprese che ancora svolgono la propria funzione con serietà e rigore. Le centinaia di opere non finite presenti in tutto il paese sono figlie del fallimento della programmazione sbagliata della mala politica e non dei soggetti economici.

Ripeto, il fatto che venga accusato dell’esatto contrario di quanto sostengo da troppi anni la dice lunga sul clima che si va preparando.

Ma, per concludere, vorrei cercare ancora di discutere sul futuro della capitale e spiegare i motivi della mia contrarietà al progetto di Tor Vergata come casa per gli atleti.

I seicento ettari di Tor Vergata furono espropriati dallo Stato negli anni ’70 per realizzare un’università, il luogo della formazione d’eccellenza dei nostri giovani. Consentiranno i redattori del Messaggero che costruirci case non è il massimo di quel futuro di eccellenza che tutti ci auguriamo per l’Italia.

Sarebbe allora meglio ad esempio che su quelle aree venissero costruite cliniche specializzate per la cura delle nuove malattie che colpiscono gli anziani o alcune fasce dell’infanzia.

Tor Vergata è la più grande carta che Roma ha per tentare di diventare una città in grado di attirare risorse e valorizzare i tanti giovani che studiano pensando di poter trovare un ruolo nel nostro paese.

Tutto qui, e in questo senso l’ennesimo villaggio olimpico non serve a nulla e, soprattutto, potrebbe essere comodamente costruito altrove senza sprecare una grande occasione.

Se il renzismo è il pericolo maggiore, se una sinistra che voglia colpire le radici del disastro non c'è, ben vengano i M5S come la candidata per Roma. La Repubblica online, blog "Articolo 9", 15 giugno 2016

Seppur a malincuore ho deciso di non accettare la proposta di Virginia Raggi di diventare (in caso di una sua vittoria al ballottaggio di domenica prossima) assessore alla Cultura di Roma. Ci ho pensato a lungo: per me, che mi occupo della storia dell’arte di Roma e che sono profondamente convinto della centralità della cultura nella vita democratica, sarebbe stata una straordinaria sfida professionale.

Ma governare una città non è solo una questione professionale. Per farlo davvero bene – specialmente nella cultura – non si può essere capitani di ventura, o tecnici vaganti: bisogna essere un membro stabile di quella comunità. È necessario essere parte di quel popolo, sentirsi esistenzialmente radicato a quelle pietre. Io non sono romano e non vivo a Roma: e in Italia come in pochi altri paesi il legame con la nostra città è viscerale, carnale. È un’appartenenza biunivoca: la nostra città ci appartiene, ma anche noi le apparteniamo.

Dunque, questa non è la mia partita. Ma vorrei sottolineare il valore politico della proposta di Virginia Raggi. Mi riconosco nei valori della Sinistra. Non ho mai votato Cinque Stelle, e se avessi votato a Roma, al primo turno avrei votato per Stefano Fassina.

Ma è un dato di fatto che in questi anni, nelle tante battaglie per la difesa dell’ambiente, del territorio e del patrimonio culturale, ho sempre trovato dall’altra parte della barricata un sindaco o un presidente di regione del Pd o di Forza Italia (purtroppo spesso indistinguibili). E, invece, dalla mia parte e senza che li cercassi, c’erano immancabilmente i cittadini che si riconoscono nel Movimento Cinque Stelle. È da questa oggettiva convergenza su alcuni valori, è da ciò che ho scritto nei miei libri, che è nata l’idea di rivolgersi a me. Ed è per lo stesso motivo che la Raggi ha scelto come assessore all’urbanistica Paolo Berdini: uno degli eredi diretti di Antonio Cederna, inflessibile avversario degli eterni palazzinari romani, editorialista del Manifesto e indiscutibilmente di sinistra.

Ora, io credo che questa apertura del Movimento Cinque Stelle verso alcuni dei valori costituzionali cari alla storia della Sinistra italiana sia da salutare come un fatto assai positivo.

Quando più di un romano su tre vota per i Cinque Stelle – con percentuali assai alte tra i più giovani e altissime nelle periferie – diventa evidente che non si tratta più di un voto di protesta, ma di una richiesta (quasi di un’implorazione) di governo.

Mi pare indispensabile che ora i Cinque Stelle accelerino la loro evoluzione: vanno superati al più presto il ruolo incongruo di Beppe Grillo, l’inquietante dinastia proprietaria dei Casaleggio, le inaccettabili posizioni sui migranti, sul cammino dell’Unione Europea e su altre questioni cruciali. Se questo processo continuerà sarà un bene per l’intera democrazia italiana: che rischia di bloccarsi sul mantra dell’assenza di alternative al Pd di Matteo Renzi.

Sono tra i molti che credono che Renzi stia spostando la politica del Pd ben più a destra dell’imperante moderatismo liberista europeo: ne sono segni inequivocabili una politica insostenibile per l’ambiente e il territorio, una inaccettabile mercatizzazione della scuola e della cultura, la contrazione dei diritti dei lavoratori e soprattutto una caotica quanto pericolosa manomissione della Costituzione, accompagnata da una legge elettorale programmaticamente non rappresentativa, e sostanzialmente antidemocratica.

Se la sinistra radicale non riesce, con ogni evidenza, a rispondere a tutto questo, è impossibile non riconoscere che i Cinque Stelle (occupando di fatto lo spazio che in Spagna è stato conquistato da Podemos) stanno invece aprendo nuovi spazi di cittadinanza: suscitando partecipazione almeno quanto questo Pd sembra invece puntare, irresponsabilmente, sull’astensione.

Se votassi a Roma, al secondo turno sceglierei dunque la Raggi, anche perché (nonostante l’evidente probità di Roberto Giachetti) è vitale – dopo l’impressionante disastro consociativo – che sul Campidoglio tiri un’aria radicalmente nuova.

Se poi quest’aria riuscirà a costruire una alternativa nazionale ispirata ad un riformismo radicale, e se lo farà aprendosi a valori e personalità della sinistra, il Paese non avrà che da guadagnarci.

Se si vuole votare alle elezioni comunali nella capitale d'Italia senza turarsi il naso la scelta è chiara: M5S non è il demonio, e ha buone carte. Il manifesto, 14 giugno 2016

Sul voto al prossimo ballottaggio delle elezioni per il sindaco di Roma è bene raccogliere una pluralità di pareri davanti a uno scenario che appare abbastanza problematico e ingarbugliato. Per lo meno per chi si colloca a sinistra del Partito democratico. Oggi, tuttavia, rispetto a poco tempo fa, il quadro della situazione politica romana mi appare molto più chiaro e definito e le possibilità di fare una scelta di voto assai meno problematica.

Avendo votato per Stefano Fassina al primo turno, sapevo per certo che avrei dovuto affrontare al ballottaggio una scelta che lo escludeva. E confesso che, se mi fossi trovato di fronte a un alternativa tra Roberto Giachetti e un candidato del centro-destra, non avrei avuto dubbi: mi sarei “turato il naso”, per dirla alla Montanelli, e avrei scelto il candidato Pd. Lo avrei scelto per senso di responsabilità, pensando alle sorti della mia città, che non può tornare in mano al peggior centro destra d’Italia. Ma lo avrei fatto con disagio, prima di tutto per ragioni di politica nazionale.

Considero il Pd di Matteo Renzi un grave danno per la sinistra e per l’Italia. Per la sinistra, perché la sua politica di apertura alla destra berlusconiana – come alcuni di noi avevano previsto – non avrebbe allargato il consenso di quel partito , mentre avrebbe definitivamente spezzato i legami con il suo insediamento popolare, esponendolo alla sconfitta. I risultati elettorali recenti sono le prime prove della validità di tali previsioni. Ma il danno è anche per l’Italia.

Questa non è la sede per valutazioni generali, ma un aspetto che non bisogna dimenticare, nel dare un giudizio sull’operato di questo governo, è di considerare anche quel che non si è fatto e invece si poteva fare. Il tempo nel frattempo sprecato con i problemi che si aggravano.

Son passati due anni e mezzo e Renzi ha perduto l’occasione di impostare un sistema fiscale progressivo: vera chiave di volta per attenuare le diseguaglianze crescenti che lacerano tutte le società “neoliberiste”.

Ha premiato la rendita, abolendo la tassa sulla prima casa e non ha impostato una vera politica di investimento nella formazione e nella ricerca, per il rafforzamento strategico del sistema-paese: borse di studio per migliaia di giovani che non possono proseguire la carriera scolastica o iscriversi all ‘Università, fondi per la ricerca, ingresso di nuovi docenti nell’Università e soprattutto risorse per ridare slancio a un settore da cui dipende l’avvenire dell’Italia. Nulla di tutto questo, com’è noto.

Ma che c’entra tale valutazione con la scelta del sindaco di Roma? Per fortuna, senza dover dimenticare i danni generali della politica nazionale del Pd, al ballottaggio non sarò costretto a turarmi il naso. Ho sentito più volte Giachetti in Tv perorare la causa delle Olimpiadi a Roma e del nuovo stadio della squadra capitolina e questo mi ha definitivamente persuaso.

Considero simili scelte il distilllato del neoliberismo urbanistico che già affligge le nostre città (Venezia fa testo da anni) e che rischia di distruggerle. E’ il processo di disneyzzazione dei nostri centri urbani, un modo di mobilitare risorse per singoli eventi, tutto interno alla logica della società dello spettacolo, del profitto per alcuni gruppi, mentre si rimuove la visione d’insieme della città: con i suoi bisogni quotidiani, le sue periferie, il suo crescente disagio sociale, le sacche di emarginazione che si vanno gonfiando.

Ispirato da tali scelte, – che lo portano anche a strumentalizzazioni pacchiane, come l’uso elettorale di Totti – Giachetti è dunque un perfetto avversario da sconfiggere. Tanto più che la candidata del Movimento 5 stelle, Virginia Raggi, ha cominciato a fare scelte interessanti per la sua eventuale squadra di governo cittadino.

Ed è di dominio pubblico che ella ha chiesto, per l’assessorato all’urbanistica, la disponibilità di Paolo Berdini. Ebbene, considero questa una scelta di grande valore, una vera bandiera politica.

L’Assessorato all’ urbanistica (o comunque si chiamerà) è un posto di potere-chiave dei governi municipali. Da li si governa l’uso del territorio e la possibilità di cavare profitti dal suolo. E da li, nei decenni passati, sono passate le scelte che hanno devastato Roma, cementificando l’Agro romano, costruendo interi quartieri senza trasporto su ferro, innalzando cinture di centri commerciali che richiamano traffico da ogni dove.

Paolo Berdini è uno dei più competenti e intransigenti avversari di questa politica dissennata, che ha premiato la rendita dei grandi costruttori e creato danni all’universalità dei cittadini romani.

Infine, qualche considerazione sugli insuccessi elettorali più significativi della sinistra a Roma e a Torino, che mi paiono comuni per tanti aspetti.

Avevo considerato, a suo tempo, imprudente la candidatura di Fassina, ma – una volta nell’agone elettorale – ho espresso su questo giornale il mio sostegno al suo lavoro per tanti versi coraggioso. Naturalmente, senza illusioni, con l’auspicio che si costruisca a Roma, per il futuro, un centro aggregatore delle forze di sinistra, quale terminale di una formazione politica più larga, di respiro nazionale.

C’era, tuttavia, nella candidatura di Airaudo a Torino e di Fassina a Roma, un peccato d’origine che evidentemente il lavoro sul campo, quello tra la classe operaia torinese e nella periferia romana, non è bastato a sanare. E le ragioni sono ovvie. Il lavoro quotidiano tra i cittadini non può dare frutti elettorali nel giro di pochi mesi.

Si tratta di un’opera di lunga lena, che sarebbe dovuta iniziare molto prima dell’apertura della campagna elettorale. Lo si voglia o no, la fiera elettorale copre di una patina di strumentalità qualunque impegno e dialogo “col popolo”.

E infine, di passata, ma è forse il problema fondamentale, tanto Airaudo che Fassina e altri candidati meno noti, sono apparsi troppo isolati: avanguardie solitarie di una sinistra che non c’è, per giunta esponenti dissenzienti di una tradizione che oggi si chiude nel fallimento.

L’idea di Sinistra Italiana di aspettare il congresso di dicembre per “partire” non ha certo aiutato questi candidati. Ma ha anche gettato un ombra pesante di fragilità su tutto il campo. Persino il mio «giovanile entusiasmo» (come benevolmente ironizza Asor Rosa) è stato messo a dura prova.

Effetti collaterali della decadenza programmata del pubblico rispetto al privato, dell'individuale rispetto al collettivo, e delle altre vittorie del finanzcapitalismo. Ma se scendessimo a Sud sarebbe ancora peggio. Corriere della Sera, ed. Roma, 10 giugno 2016

Fino a pochi anni fa Roma era il Comune più agricolo d'Italia. Ora è il terzo, superato da Andria e Cerignola. Il consumo di suolo, nonostante la pesante stasi edilizia, procede, in tutta Italia, e anche l'Agro Romano superstite si riduce. Ma, in questo quadro, c'è un settore in crisi ancor più grave, in crisi epocale. Ed è il verde pubblico, non la sua quantità (che è aumentata), ma il suo stato di manutenzione, il suo degrado che sembra inarrestabile. Siamo al disastro. Negli ultimi decenni l'attenzione delle Amministrazioni è stata sempre più ridotta. Lo testimonia la cifra datami da un esperto: il Comune di Roma, dopo decenni di tagli, investe mezzo centesimo di euro per ogni metro quadrato di verde.

Del resto i giardinieri in forza al Comune sono precipitati dai 1300 del 1995 (dati ufficiali del Comune, pubblicati nel Rapporto 2013) ai 250 odierni, una parte dei quali nemmeno in grado di svolgere lavori pesanti. Quindi un calo spaventoso, superiore all'80 % (80,7). Da anni non ci sono più concorsi, da anni non vi sono più assunzioni. L'ultima ventina di giardinieri reclutati sono arrivati, senza particolare preparazione specifica, dalle liste dell'Ufficio di collocamento.

C'è stata quindi a Roma come e più che in altri Comuni italiani una disastrosa sottovalutazione del problema della cura, della manutenzione, ordinaria e straordinaria, del verde pubblico, dei viali, dei parchi, dei giardini, delle ville storiche. Per anni si è tagliato ad ogni nuovo bilancio un 10 % circa della spesa destinata a questo servizio essenziale per ragioni ambientali, estetiche e igienico-sanitarie.

Praticamente oggi ci sono 20 sparuti giardinieri per ogni Circoscrizione. A fronte di questo contingente ridottissimo a Roma si calcola che vi siano 330.000 alberi circa dei quali 130.000 lungo le strade e altri 200.000 nei parchi e nelle ville storiche alcune delle quali sono vaste dai 150 ai 180 ettari. I mq di verde pubblico - a differenza di quelli di verde agricolo - sono aumentati fra 1995 e 2010 salendo da 30,5 a 39,3 milioni.

La caduta di rami o di interi alberi (di pini in specie che schiantano all'improvviso) è diventata sempre più frequente con morti e feriti gravi di continuo. Meno fondi per il personale qualificato, affidamento di servizi specializzati a cooperative di ex detenuti, principio socialmente valido, ma con risultati disastrosi se non si fanno prima corsi adeguati di formazione.

Meno fondi ovviamente anche per nuove falciatrici meccaniche, nuove gru, meno decespugliatori, ecc. Con una crescente demotivazione fra i giardinieri superstiti.

I prati non vengono sfalciati, neppure nel fossato di Castel Sant'Angelo, gli alberi caduti o segati non vengono sostituiti per mancanza di mezzi e di macchine. Alcune Ville come Villa Sciarra o la stessa ampia Villa Doria Pamphilj sono in grande sofferenza.

Dopo Mafia Capitale non ci sono stati in pratica nuovi investimenti, nuovi affidamenti, se non per la somma modesta di 200.000 euro. Sempre il Rapporto ufficiale del Comune ci dice che il Servizio Giardini gestisce soltanto il 41 % del verde urbano, mentre il 59 % è affidato a soggetti per lo più esterni: 30 % ditte, 10 % Ama, 10 % cooperative, quote minori ad altri Dipartimenti o Municipi. Per risalire da questo baratro e riavere un Servizio Giardini sufficientemente efficiente ci vorranno anni e anni di duro lavoro, di investimenti mirati, di riqualificazione del personale, di cultura insomma del verde urbano degna di una capitale storica quale è Roma.

«Comunali. Al candidato Fassina Roma offre una forte base di militanza sociale e la più grande università d’Europa. Il volano per un lavoro di aggregazione utile alla costruzione di un modello di intervento per il nuovo soggetto politico»Il manifesto, 25 maggio 2016

Quando, alcuni mesi fa, circolò la notizia che Stefano Fassina si candidava a sindaco di Roma, pensai che quella scelta fosse un errore politico. La replica di vecchie esperienze – dalla lista della Sinistra-Arcobaleno in poi – che faceva coincidere la nascita di qualche nuova aggregazione con l’immediata partecipazione a una campagna elettorale.

Un battesimo irrimediabilmente sbagliato: una nuova formazione che si pretendeva alternativa al vecchio ceto politico, prima ancora di essersi cimentata in lotte e proposte nella società, inaugurava il suo corso bussando alle porte del potere.

Così il suo biglietto da visita era lo stesso di quello dei partiti che diceva di voler combattere. Ogni volta gli elettori lo hanno ben compreso. In questi mesi di campagna elettorale, tuttavia, alcune circostanze hanno contribuito a far cambiare il mio atteggiamento, con una riflessione che voglio sottoporre quale contributo alla discussione su Roma e sulle prospettive di Sinistra italiana.

Intanto, c’è da osservare che, col tempo, l’ “imprudenza” della scelta di Fassina ha mostrato anche un’altra faccia: quella del coraggio personale, della sua disponibilità a rischiare e a mettersi in gioco nel momento in cui a Roma non emergeva a sinistra un qualche candidato all’altezza di un compito così impegnativo. E, sia detto con tutta la discrezione possibile – poiché Roma non è una qualche cittadina della nostra remota provincia, ma è la capitale d’Italia – il suo è l’unico nome, nella rosa dei candidati, dotato di un profilo intellettuale di un certo rilievo. Per il resto, la modestia delle altre figure non fa che confermare la condizione di desolazione politica della nostra città. Ma in questi ultimi tempi il candidato Fassina ha mostrato altri tratti che la sinistra sbaglierebbe a non incoraggiare come meritano, anche al di la della vicenda romana.

Non mi riferisco soltanto allo stile della sua campagna elettorale, territorialmente insediata nella periferia di Tor Pignattara, alla sua disponibilità all’ascolto delle voci e delle competenze varie che circolano nella città, alla frequentazione quotidiana dei cittadini alle prese coi loro problemi quotidiani. Egli ha mostrato un elemento di intransigenza politica che io considero strategica per l’avvenire di una formazione politica autonoma della sinistra italiana. Il suo netto rifiuto di ipotesi di alleanze con il Pd costituisce un aspetto non negoziabile di tutta la partita politica che la sinistra si gioca in Italia in questi giorni e nei prossimi mesi. Su questo punto della discussione non possono esserci incertezze. Esponenti di Sel criticano la rottura netta con il Pd per il pericolo del minoritarismo, ma l’intransigenza nei confronti del Pd non è una ripicca, non è rubricabile come una semplice mossa tattica. Essa nasce da una valutazione strategica, è l’esito di una considerazione storica ormai pienamente decantata. E non è limitata all’Italia.

I partiti che un tempo rappresentarono in Europa la classe operaia e i ceti popolari, gli ex comunisti italiani, i socialisti francesi, spagnoli, greci, i laburisti inglesi (Corbyn a parte) sono i resti di un fronte che ha capitolato, hanno esaurito la loro funzione storica. Essi competono nei rispettivi paesi con i partiti della destra su un identico obiettivo: la capacità di rappresentare gli interessi del capitalismo industriale-finanziario con maggiore capacità di controllo dei ceti popolari.

Chi realizza la riforma del lavoro che rende più flessibile la forza lavoro, facendola meglio accettare alla rispettiva comunità nazionale e lucrando consenso e conferma del proprio potere? Chi, in Italia, Berlusconi o Renzi? Chi in Francia, il governo socialista di Valls o quello di Sarkozy? Chi non comprende quel che è avvenuto di definitivo nel campo della sinistra storica non può avere idee chiare sull’avvenire. Quegli organismi politici sono morti e occorre seppellirli, altrimenti la loro putrefazione trascinerà anche noi.
A prescindere da quali saranno gli esiti delle elezioni di giugno, Fassina ha la possibilità di fare del lavoro politico a Roma un’avanguardia di assoluto rilievo per il resto della sinistra italiana. E per un insieme di ragioni.

Lavorando per i problemi della città, se avrà capacità di aggregazione e mobilitazione, potrà costituire anche un modello di lavoro per la formazione del nuovo soggetto politico nazionale. Roma ha innanzi tutto bisogno di essere pensata come un organismo, un ecosistema urbano che negli ultimi decenni è cresciuta in modo informe e slabbrata, generando forme di caos indicibili nella circolazione e nelle possibilità di spostamento dei cittadini. Bisogna tornare a ripensare la città come un tutto, spiegando ai cittadini la necessità di bloccare il cemento, di salvaguardare quel che resta della campagna dell’Agro romano se si vuol assicurare un avvenire possibile ai suoi cittadini. E qui non si parte da zero.

E’ impressionante infatti la moltitudine di comitati e associazioni che operano in città, per difendere i diritti di chi non ha una casa (pur in presenza di migliaia di edifici vuoti), di chi organizza orti urbani, di chi difende beni pubblici e beni comuni dalla privatizzazione, di chi rivendica spazi di libertà associativa in mezzo al furore della mercificazione di ogni brandello di territorio. Questa immensa base di militanza e di volontariato va raccordata, fatta diventare una forza politica se non unitaria almeno aggregata, in grado di esprimere rapporti di forza rilevanti nei confronti dei poteri dominanti locali e centrali.

Ma Roma possiede una potenza politica, culturale, intellettuale immensa a cui nessuno presta attenzione. Mi riferisco alle sue tre Università pubbliche. La Sapienza conta oggi circa 115 mila studenti e diverse migliaia di docenti ed è la più grande Università d’Europa. Anche Roma Tre, cresciuta rapidamente, è diventata una grande Università, con 35 mila studenti, mentre Tor Vergata supera le 30 mila.

Si tratta di un vasto mondo nel quale non solo si fa formazione, ma si svolge ricerca, si produce cultura e conoscenza, si creano ogni anno migliaia di nuove figure intellettuali e di professionisti. Eppure questo mondo è sempre stato una specie di ambito a sé, che certo ha contribuito a innalzare il tono culturale della città, ma senza che si creasse un rapporto collaborativo tra questo universo di saperi e il governo urbano. Il legame tra queste cittadelle e il territorio è stato esile o inesistente. Eppure, oggi si può creare un nuovo rapporto collaborativo.

Ho sempre pensato che costituire una istituzione simile alle Maison des Sciences de l’Homme, che operano in Francia – istituti dove operano docenti universitari di varie discipline e realizzano ricerche e interventi a favore dei rispettivi territori regionali – faccia al caso di Roma. Occorrerebbe creare un centro dove un largo ventaglio di saperi è al servizio della città e dei suoi problemi, attivando un canale di comunicazione costante con le tre Università. Ma intervenire oggi nel mondo degli atenei, incontrare gli studenti che pagano rette elevatissime, che non hanno borse di studio, privi di servizi, di case dello studente, di mense, di biblioteche adeguate, ecc. significa entrare in contatto con un pezzo di futura classe dirigente, che oggi nutre solo rabbia e rancore nei confronti dei partiti e del ceto politico di governo.

Nell’Università di Roma, ovviamente si intrecciano problemi cittadini e problemi nazionali: l’Università italiana e soprattutto la Sapienza ha subito colpi micidiali negli ultimi anni. E al suo interno, come nel resto d’Italia, la trasformazione degli studi in una gigantesca pratica aziendale, sottoposta continuamente a valutazioni di efficienza produttiva, crea frustrazione e sfiducia nella vasta platea dei docenti. E’ un’occasione da non perdere per chi si presenta come avanguardia della nuova sinistra: salvare l’Università italiana e ridarle più alte funzioni formative e di ricerca fa parte della battaglia per cambiare Roma ma anche per un nuovo progetto di società.

Quando, alcuni mesi fa, circolò la notizia che Stefano Fassina si candidava nelle elezioni a sindaco di Roma, pensai che quella scelta fosse un errore ... (continua la lettura)

Quando, alcuni mesi fa, circolò la notizia che Stefano Fassina si candidava nelle elezioni a sindaco di Roma, pensai che quella scelta fosse un errore politico. La replica di vecchie esperienze della sinistra radicale - quelle, per intenderci, che vanno dalla lista della Sinistra-Arcobaleno in poi - che faceva coincidere la nascita di qualche nuova aggregazione con la sua immediata partecipazione a una campagna elettorale. Un battesimo irrimediabilmente sbagliato, perché una nuova formazione che pretendeva di essere alternativa al vecchio ceto politico, prima ancora di essersi cimentata in lotte e proposte nella società civile, inaugurava il suo corso bussando immediatamente alle porte del potere, per avere un posto nelle istituzioni della rappresentanza. Così il suo biglietto da visita era lo stesso di quello dei partiti che diceva di voler combattere. Ogni volta gli elettori lo hanno ben compreso.

In questi mesi di campagna elettorale, tuttavia, alcune circostanze hanno contribuito a far cambiare il mio atteggiamento, con una riflessione che voglio sottoporre quale contributo alla discussione su Roma e sulle prospettive di Sinistra italiana. Intanto, c'è da osservare che, col tempo, l' ”imprudenza” della scelta di Fassina ha mostrato anche un'altra faccia: quella del coraggio personale, della sua disponibilità a rischiare e a mettersi in gioco nel momento in cui a Roma non emergeva a sinistra un qualche candidato all'altezza di un compito così impegnativo. E, sia detto con tutta la discrezione possibile - poiché Roma non è una qualche cittadina della nostra remota provincia, ma è la capitale d'Italia - il suo è l'unico nome, nella rosa dei canditati, dotato di un profilo intellettuale di un certo rilievo. Per il resto, la modestia delle altre figure non fa che confermare la condizione di desolazione politica della nostra città.

Ma in questi ultimi tempi il candidato Fassina ha mostrato altri tratti che la sinistra sbaglierebbe a non incoraggiare come meritano, anche al di la della vicenda romana. Non mi riferisco soltanto allo stile della sua campagna elettorale, territorialmente insediata nella periferia di Tor Pignattara, alla sua disponibilità all'ascolto delle voci e delle competenze varie che circolano nella città, alla frequentazione quotidiana dei cittadini alle prese coi loro problemi quotidiani. Egli ha mostrato un elemento di intransigenza politica che io considero strategica per l'avvenire di una formazione politica autonoma della sinistra italiana.
Il suo netto rifiuto di ipotesi di alleanze con il PD costituisce un aspetto non negoziabile di tutta la partita politica che la sinistra si gioca in Italia in questi giorni e nei prossimi mesi. Su questo punto della discussione non possono esserci incertezze. Gli esponenti di Sel che criticano la rottura netta con il Pd, rispolverando la vecchia retorica del pericolo del minoritarismo, dovrebbero ricorrere ad altri argomenti per nobilitare i loro umanissimi interessi di ceto politico che ha assaporato i vantaggi del potere.
L'intransigenza nei confronti del PD non è una ripicca, non è rubricabile come una semplice mossa tattica. Essa nasce da una valutazione strategica, è l'esito di una considerazione storica ormai pienamente decantata. E non è limitata all'Italia. I partiti che un tempo rappresentarono in Europa la classe operaia e i ceti popolari, gli ex comunisti italiani, i socialisti francesi, spagnoli, greci, i laburisti inglesi (Corbyn a parte) sono i resti di un fronte che ha capitolato, hanno esaurito la loro funzione storica. Essi competono nei rispettivi paesi con i partiti della destra su un identico obiettivo: la capacità di rappresentare gli interessi del capitalismo industriale-finanziario con maggiore capacità di controllo dei ceti popolari.
Chi realizza la riforma del lavoro che rende più flessibile la forza lavoro, facendola meglio accettare alla rispettiva comunità nazionale e lucrando consenso e conferma del proprio potere? Chi, in Italia, Berlusconi o Renzi? Chi in Francia, il governo socialista di Valls o quello di Sarkozy? Chi non comprende quel che è avvenuto di definitivo nel campo della sinistra storica non può avere idee chiare sull'avvenire. Quegli organismi politici sono morti e occorre seppellirli, altrimenti la loro putrefazione trascinerà anche noi.

A prescindere da quali saranno gli esiti delle elezioni di giugno, Fassina ha la possibilità di fare del lavoro politico a Roma un'avanguardia di assoluto rilievo per il resto della sinistra italiana. E per un insieme di ragioni. Lavorando per i problemi della città, se avrà capacità di aggregazione e mobilitazione, potrà costituire anche un modello di lavoro per la formazione del nuovo soggetto politico nazionale. Roma ha innanzi tutto bisogno di essere pensata come un organismo, un ecosistema urbano che negli ultimi decenni è cresciuta in modo informe e slabbrata, generando forme di caos indicibili nella circolazione e nelle possibilità di spostamento dei cittadini. Bisogna tornare a ripensare la città come un tutto, spiegando ai cittadini la necessità di bloccare il cemento, di salvaguardare quel che resta della campagna dell'Agro romano se si vuol assicurare un avvenire possibile ai suoi cittadini. E qui non si parte da zero.

E' impressionante infatti la moltitudine di comitati e associazioni che operano in città, per difendere i diritti di chi non ha una casa (pur in presenza di migliaia di edifici vuoti), di chi organizza orti urbani, di chi difende beni pubblici e beni comuni dalla privatizzazione, di chi rivendica spazi di libertà associativa in mezzo al furore della mercificazione di ogni brandello di territorio. Questa immensa base di militanza e di volontariato va raccordata, fatta diventare una forza politica se non unitaria almeno aggregata, in grado di esprimere rapporti di forza rilevanti nei confronti dei poteri dominanti locali e centrali. Ma Roma possiede una potenza politica, culturale, intellettuale immensa a cui nessuno presta attenzione. Mi riferisco alle sue tre Università pubbliche. La Sapienza conta oggi circa 115 mila studenti e diverse migliaia di docenti ed è la più grande Università d'Europa. Anche Roma Tre, cresciuta rapidamente, è diventata una grande Università, con 35 mila studenti, mentre Tor Vergata supera le 30 mila.

Si tratta di un vasto mondo nel quale non solo si fa formazione, ma si svolge ricerca, si produce cultura e conoscenza, si creano ogni anno migliaia di nuove figure intellettuali e di professionisti. Eppure questo mondo è sempre stato una specie di ambito a sé, che certo ha contribuito a innalzare il tono culturale della città, ma senza che si creasse un rapporto collaborativo tra questo universo di saperi e il governo urbano. Il legame tra queste cittadelle e il territorio è stato esile o inesistente. Eppure, oggi si può creare un nuovo rapporto collaborativo.

Ho sempre pensato che costituire una istituzione simile alle Maison des Sciences de l'Homme, che operano in Francia - istituti dove operano docenti universitari di varie discipline e realizzano ricerche e interventi a favore dei rispettivi territori regionali - faccia al caso di Roma. Occorrerebbe creare un centro dove un largo ventaglio di saperi è al servizio della città e dei suoi problemi, attivando un canale di comunicazione costante con le tre Università. Ma intervenire oggi nel mondo degli atenei, incontrare gli studenti che pagano rette elevatissime, che non hanno borse di studio, privi di servizi, di case dello studente, di mense, di biblioteche adeguate, ecc. significa entrare in contatto con un pezzo di futura classe dirigente, che oggi nutre solo rabbia e rancore nei confronti dei partiti e del ceto politico di governo.
Nell'Università di Roma, ovviamente si intrecciano problemi cittadini e problemi nazionali: l'Università italiana e soprattutto la Sapienza ha subito colpi micidiali negli ultimi anni. E al suo interno, come nel resto d'Italia, la trasformazione degli studi in una gigantesca pratica aziendale, sottoposta continuamente a valutazioni di efficienza produttiva, crea frustrazione e sfiducia nella vasta platea dei docenti. E' un'occasione da non perdere per chi si presenta come avanguardia della nuova sinistra: salvare l'Università italiana e ridarle più alte funzioni formative e di ricerca fa parte della battaglia per cambiare Roma ma anche per un nuovo progetto di società.

L'articolo è inviato contemporaneamente a il manifesto

«Una riflessione di Giovanni Caudo, ex Assessore alla Trasformazione Urbana della Giunta Marino, sul manifesto di governo con cui l’avvocato Sadiq Khan ha vinto la sindacatura della più grande metropoli europea, Londra, a confronto con il dibattito elettorale in corso nella Capitale d’Italia». Carteinregola, 8 maggio 2016 (p.d.)

Contrastare l’emergenza abitativa, costruire migliaia di alloggi ogni anno e raggiungere l’obiettivo che almeno il 50% dei nuovi alloggi sia realmente a costo accessibile; e comunque fare in modo che il canone sia remunerativo per i proprietari degli alloggi dati in affitto. Essere il sindaco più pro-business di sempre, lavorando in partnership con le imprese per realizzare le infrastrutture e sostenere lo sviluppo. Assicurare una qualità dell’aria sana, entro i limiti di sicurezza fissati dalla legge, agendo per un trasporto più verde, ampliare le aree pedonali continuando a proteggere la cintura verde della città. E ancora, fare della città una tra le più tolleranti, aperta e accessibile a tutti e dove ognuno può vivere e prosperare libero dai pregiudizi.

Sono solo quattro delle dieci priorità, dettagliatamente descritte e misurate, che compongono il manifesto di governo con cui l’avvocato Sadiq Khan ha vinto la sindacatura della più grande metropoli europea: Londra (http://www.sadiq.london/introduction_manifesto).

Un linguaggio chiaro diretto, impegni semplici e precisi sostenute da schede per ognuno dei temi e l’obiettivo di governare una realtà complessa, diversa certo, ma non meno di quella romana.

Anche a Roma siamo in campagna elettorale, una campagna che deve affrontare la crisi profonda nella quale la città è sprofondata, soprattutto – a quanto ci dicono – negli ultimi tre anni. Ti aspetti proprio per questo che la campagna elettorale affronti in profondità e metta a fuoco i temi anche strutturali, quelli veri, la cui soluzione è indispensabile se si vuole invertire il declino e risanare la città, non da ultimo ad esempio le radici che hanno fatto proliferare Mafia Capitale (c’è un processo in corso ma sembra che nessuno sia interessato a sapere che cosa è successo). Una funivia tra due località in piano, la pubblicità per adottare le buche e ripianarle e poco di più sono gli argomenti riportati dai giornali, per altro in poche righe, e che hanno fatto “discutere” di programmi.

La sensazione prevalente è che a Roma sembriamo destinati ancora una volta a essere “figli di un Dio Minore”, e non solo rispetto a Londra, ma forse anche a Tunisi. E’ lodevole l’iniziativa del Corriere che con la rubrica “Cosa chiedo al sindaco” sta cercando di alzare il livello e spostare l’attenzione su questioni realmente centrali per il futuro della Capitale. Ma non dovremmo prima sapere da loro, dai candidati sindaco, cosa vogliono fare e con quali idee si candidano? Ho fatto un giro sui siti dei candidati in cerca dei programmi ma, nonostante l’impegno lodevole di alcuni, non mi sono sentito affatto rassicurato. Penso ad esempio che per esercitare il diritto di delega che la democrazia rappresentativa ci affida sarebbe importante che i candidati sindaco ci dicessero qualcosa ad esempio su:

– Su quale progetto per le Olimpiadi metteranno la firma, deciso da chi, dove e quando?

– In che modo si aprirà la città agli investimenti privati esteri (un obiettivo concreto potrebbe essere quello di vederli quintuplicati nei prossimi tre anni, arrivare almeno allo stesso livello di Dublino!);

– Quale modello aziendale si pensa di perseguire per mettere insieme energia, acqua e rifiuti? In che modo realizzare una integrazione che apporti più efficienza nel servizio ai cittadini e realizzi un modello industriale all’altezza delle sfide tecnologiche del settore energetico e ambientale?

– Come si pensa di contrastare e ridurre le crescenti disparità e disuguaglianze economiche e sociali che stanno lacerando il tessuto sociale della città, sempre più diviso tra ricchi (sempre meno e sempre più ricchi) e poveri (sempre di più e sempre più poveri)?

Ora che è ufficialmente aperta, buona campagna elettorale e che sia vera. Altrimenti ci assale il dubbio che sia solo una rappresentazione per il popolo, mentre dietro le quinte tutto è stato già deciso e andare a votare serve a eleggere si il sindaco migliore… ma a tagliare i nastri.

«Intervista a Virginia Raggi la candidata sindaco del M5S ci parla del suo programma per Roma: trasparenza e sicurezza, zero consumo di suolo, tutela dei beni comuni, laicità» Buone idee, ma non c'è una strategia per il territorio. MicroMega newsletter, 5 maggio 2016

Legalità. La parola viene scandita più volte da Virginia Raggi. “I partiti hanno creato questo disastro, noi metteremo in atto una rivoluzione legalitaria”. Nella città di Mafia Capitale e della corruzione endemica della governance, la candidata sindaco del M5S – 37 anni, già consigliera comunale – si mostra sicura di sé e guarda al ballottaggio: “Giachetti, Marchini, Meloni… non importa contro chi, rappresentano tutti il vecchio. È il turno del M5S”.

La deputata grillina Paola Taverna ha ipotizzato un complotto per far vincere il Movimento Cinque Stelle a Roma. Al di là della polemica che ne è scaturita, chiunque andrà a governare la città non rischierà di “bruciarsi” in poco tempo viste le enormi difficoltà?
Il punto è provarci, senza false promesse ed illusioni. Ci vuole pragmatismo. E noi siamo gli unici ad avere un progetto credibile perché sono stati i vecchi partiti gli artefici di tale dissesto. Il debito chi l’ha creato? E il disastro nelle municipalizzate? E i rifiuti per strada? E la corruzione? Roma è una città molto difficile ma riteniamo che non ci sia altra soluzione se non quella di rimboccarsi le maniche.

Esiste un debito di quasi 14 miliardi di euro, una voragine…
Le casse in rovina sono quelle ordinarie. E lì c’è da intervenire con una gestione oculata che miri al taglio degli sprechi, al recupero di risorse (sino ad oggi mai recuperate) e ad un livello di spesa che sia adeguato ai servizi, oltre a iniziare a lavorare per ottenere fondi europei tramite i bandi pubblici e per questo ho in mente una squadra di professionisti ad hoc che si occuperà proprio di ottenere queste risorse. Poi c’è la piaga del debito che è una cassa diversa, una gestione separata, come se fosse una bad company rispetto a Roma Capitale. E pare impossibile entrarci. Quando eravamo all'opposizione abbiamo provato a fare richiesta di accesso agli atti e ci è stata chiusa la porta in faccia.

Anche il commissario prefettizio Tronca ha risposto con un diniego alle vostre richieste?
Lui e i subcommissari non hanno ritenuto importante analizzare e approfondire la composizione di tale debito pur essendo una spada di Damocle per l’amministrazione della città: un mutuo che finiremo di pagare tra il 2040 e il 2048 a tranche di 500 milioni di euro l’anno.

Quindi, qual è la exit strategy? Esiste?

Vogliamo ristrutturare il debito di Roma, un debito che è principalmente finanziario e nei confronti delle banche. È nato per l’indebitamento di Roma Capitale verso fornitori e di soggetti vari, pensi che un miliardo riguarda le indennità da esproprio per i mondiali di calcio di Italia ‘90... C’è poca chiarezza. A nostro avviso bisognerebbe capire perché sono stati contratti quei debiti. Quindi interrogarsi sulle responsabilità e sui tassi di mutuo – se sono regolari o meno – ed infine trovare il modo per rinegoziare il debito con gli istituti di credito.

Le banche si opporranno, ovviamente.

Da sindaco, avanzerei l’ipotesi di un’Audit sul debito e pretenderei di entrare nella gestione commissariale, ormai priva di qualsiasi possibilità di controllo malgrado tutti i cittadini italiani paghino per ripianare questo debito. È possibile che nessuno possa entrare? Non è un tema soggetto a segreto di Stato. Hanno paura – e hanno ragione – che scopriamo la verità e rovesciamo il tavolo.

La accusano di provenire dal mondo di destra. Si sente tale?
Ho pure sempre votato a sinistra (ride).

Additano il M5S romano di essere legato e di provenire dal mondo della destra imprenditoriale e non..
Accusa sterile. Dove sono le prove? Quale mondo di destra? Quando parliamo di sicurezza ci accusano di essere di destra, quando parliamo di scuola o acqua pubblica ci accusano di essere di sinistra. Si mettessero d’accordo e decidano come vogliono definire il M5S.

Però c’è da chiarire la questione del suo curriculum: non crede ci sia stata poca trasparenza? Fa mea culpa?
No, ho inserito le mie esperienze lavorative e tendenzialmente lo studio presso cui si effettua la pratica forense non viene inserito a meno che non sia il medesimo studio nel quale si esercita l’attività. Da 13 anni lavoro in un altro posto.

E cosa mi dice del ruolo in una società in qualche modo vicina ai giri alemanniani?
Innanzitutto non era vicina agli alemanniani e a confermarlo è stato lo stesso Alemanno. Questo le fa capire la dimensione delle accuse che mi vengono rivolte dal Pd. Si trattava di un incarico, non di un lavoro, che svolgevo per conto dello studio Sammarco, tanto che poi ho lasciato l’incarico una volta che la Hgr ha interrotto il suo rapporto con lo studio. Quindi cosa avrei dovuto inserire nel cv? È come se mi veniste a chiedere di indicare i clienti che ho patrocinato in questi anni. C’è un codice deontologico e io non ritengo di dover inserire queste specificazioni.

Non temeva di essere attaccata e per questo ha volutamente preferito di sottacere l’informazione?

Dove avrei sbagliato? Di essere stata un presidente senza deleghe di una società per un anno? E perché? Fossi stata presidente di Telecom probabilmente avrebbe avuto un senso ma qui parliamo di una società con solo 20mila euro di capitale. Sa che le dico?

Cosa?
Mi stanno fossilizzando per un passato professionale perché evidentemente non possono attaccarsi a nessun tipo di trascorso politico. Sono ossessionati.

Cambiamo discorso. Il M5S si è sempre schierato per la difesa dei beni comuni. Da sindaca ripubblicizzerà Acea e gli altri servizi locali?
Vuole nuovamente far crollare il titolo di Acea in borsa? (ride, nuovamente. Poi torna subito seria). Vogliamo rispettare il risultato del referendum del 2011 e gestire i servizi idrici in maniera il più rispondente alle esigenze dei cittadini. Bisogna investire sulle reti, evitare i distacchi e i successivi riallacci, operazioni costose, soprattutto per le famiglie meno abbienti. È necessaria una gestione virtuosa di questa spa.

Il contrasto agli sprechi e la razionalizzazioni delle risorse forse non sono sufficienti per riassestare le municipalizzate. Saranno previsti licenziamenti?
Perché mai. In molte municipalizzate persevera la politica dei mega appalti dati ovviamente a soggetti terzi per effettuare servizi che gli stessi operatori di Acea potrebbero tranquillamente effettuare: dalla manutenzione, alle riparazioni, alla gestione dei guasti. Le società municipalizzate si trovano, di fatto, a pagare due volte per lo stesso servizio. Una follia.

Roma è da sempre la città dei palazzinari. Negli anni è stata svenduta ai privati con piani regolatori che hanno avvantaggiato i Caltagirone o i Parnasi di turno. Come vi opporrete ai poteri forti della città?
Roma non può essere ulteriormente devastata dal cemento. Consumo di suolo zero, basta. L’Istat ci dice che ci sono oltre 100mila appartamenti tra sfitti e invenduti quindi non c'è fame di nuove case. Caso mai ci sarà fame di occupare quelle già esistenti. Allora, il settore edilizio che è uno dei più operosi nella Capitale non va bloccato ma riconvertito in maniera sostenibile e compatibile con l'ambiente: rigenerazione energetica, riqualificazione, stabilità degli edifici, messa in sicurezza delle strade etc.

Non verrà costruita nuova edilizia pubblica nemmeno per porre fine all’annosa emergenza abitativa?
Il recupero del demanio pubblico presuppone un censimento, che ad oggi ancora non è completo, sugli immobili di proprietà del Comune di Roma. Completato il censimento, bisognerà capire quanti immobili potranno essere riconverti in alloggi popolari. E poi ci sono i temi dell'autocostruzione e dei piani di zona. Negli anni è stato consentito ai privati di costruire a prezzi agevolati ottenendo sovvenzioni dalla Regione, ottenendo sconti anche a livello di oneri che i privati avrebbero immesso sul mercato questi appartamenti o a canoni di locazione concordati o con un prezzo di cessione basso. Molti privati, invece, hanno violato gli accordi aumentando i canoni di locazione. E quindi gli inquilini che avevano accettato determinate condizioni si sono visti cambiare in corsa queste condizioni e sono ora a rischio sfratto. Parliamo di edilizia per una fascia media di popolazione che è stata truffata e va ora protetta.

Sulle molteplici occupazioni abitative invece ci sarà tolleranza?
Umanamente non possiamo rimanere sordi davanti al dramma di queste persone. Però, contemporaneamente, ci sono da anni migliaia di persone in lista d'attesa per un’assegnazione di una casa popolare. E noi dobbiamo ripristinare un discorso di legalità, senza dubbio. Perché tollerare un’occupazione a fronte di una persona che ha lo stesso diritto e si mette pazientemente in lista ad attendere? Ovviamente non faremo sgomberi coatti e aiuteremo gli occupanti a trovare una ricollocazione. Dobbiamo rimettere in circolo le buone pratiche.

Più volte ha ripetuto che le Olimpiadi non sono un’occasione per rilanciare Roma. Ma non sarebbe un’occasione importante per la città, anche in termini di immagine?
I fondi messi a disposizione dal CIO non sono sufficienti quindi la città dovrebbe indebitarsi ulteriormente per sostenere le Olimpiadi. Mi sembra alquanto azzardato. Detto questo, siamo contrari alle grandi opere e vogliamo riportare la politica del quotidiano. Se si vuole incidere sulla pratica sportiva iniziamo a ripristinare tutti i campi sportivi di atletica che abbiamo a Roma e che cadono a pezzi, che hanno il tartan sgretolato ad esempio. Ripartiamo da qui, altro che super piste e piscine.

Rimaniamo sul tema dell’edilizia, sullo stadio di calcio della As Roma che mi dice? Lo costruirete?
La legge stadi dà delle indicazioni precise riguardo alle modalità e ai luoghi nei quali debbono essere costruiti i nuovi impianti: o si recupera uno stadio esistente oppure si costruisce in un'area già urbanizzata. Noi vogliamo uno stadio della Roma così come vogliamo uno stadio della Lazio e faremo il possibile affinché siano realizzati, nel rispetto della legge.

Altro discorso. Secondo lei, l'immigrazione è un tema legato soltanto alla sicurezza? Sarà la questione su cui si giocheranno le elezioni?
Anche qui ci vuole pragmatismo. Abbiamo visto come Mafia Capitale abbia evidenziato che l'immigrazione e le politiche sociali siano utilizzati come cavalli di battaglia per stimolare da un lato la risposta pietistica delle istituzioni, dall'altro una pletora di avvoltoi dediti a lucrare sulle disgrazie umane. Il tema dell'immigrazione coinvolge quasi a 360 gradi la gestione delle casse capitoline, o almeno sicuramente i fondi per la sicurezza e l'inclusione sociale. Dobbiamo insistere affinché tutte le attività relative al riconoscimento dei diritti di asilo, per chi ne ha diritto, e dei migranti transitanti vengano effettuate nel minor tempo possibile, altrimenti si rischiano bombe sociali soprattutto nelle periferie più abbandonate.

E il Baobab - il centro di volontariato che si è occupato per mesi di accoglienza migranti ma poi sgomberato - riaprirà?
Nel solco della legalità dobbiamo di fatto incentivare queste forme di mutuo soccorso ma è chiaro che l'accoglienza è un’attività che va gestita direttamente dalle amministrazioni. La buona volontà dei cittadini e il loro attivismo nel sociale è fondamentale, ma è l’amministrazione in primis che deve creare le opportunità per una sana gestione del fenomeno.

Quindi è un no, il Baobab non avrà una nuova casa?
Valuteremo, ascoltando anche in questo caso la voce dei cittadini: che siano i residenti e che siano tutti quei volontari che vi hanno prestato servizio.

Il candidato sindaco di Napoli, De Magistris, ha dichiarato “Non sono violento ma meglio i centri sociali che i Casalesi”. Lei direbbe mai una frase del genere?
Non farei questo accostamento. È irrilevante, le due cose non hanno nulla a che vedere l'una con l'altra. I Casalesi sono da combattere sempre e comunque.

E i centri sociali?
Sono da ricondurre anche qui nell'alveo di una legalità, valorizzando comunque quanto di buono fatto per il territorio.

Non esclude nuovi sgomberi, anche se di fatto parliamo di realtà sociali che in alcuni territori hanno costruito welfare e servizi dal basso?
Vedremo caso per caso. Sicuramente i centri sociali nascono in un momento di manchevolezza delle istituzioni ree di aver abbandonato interi quartieri e di non aver valorizzato il protagonismo dei cittadini che riprendevano possesso del territorio sottraendolo al degrado. Si tratta di una tutela di un bene pubblico per fini non privatistici. Ma ora è finita l'era delle assegnazioni dirette. Lo dice pure il magistrato Cantone. Si passa per i bandi pubblici. Se questi spazi hanno lavorato bene sul territorio, parteciperanno al bando e, se meritevoli, lo vinceranno.

Oltre la legalità e il contrasto agli sprechi quali sono i suoi cavalli di battaglia per governare la città?
Beh, sicuramente, con una rapidità estrema ci sarà da verificare tutte le scadenze degli appalti che sono attualmente in essere in modo tale da poter riprogrammare subito le gare. Più trasparenza, quindi. Dobbiamo iniziare da subito a impostare bene il lavoro per il futuro. Un'altra cosa importante sarà verificare perché non c'è mai stato un potere ispettivo vero e proprio dei funzionari del Comune di Roma sulle società partecipate, per poter capire effettivamente come stanno i conti. Inoltre, istituiremo un ufficio che inizi l'immane lavoro di verifica dei piani di zona.

Il centro storico rimarrà pedonalizzato come ha deciso l’ex sindaco Ignazio Marino o ritornerà come prima?
Al momento quell'area è soltanto sottratta al traffico privato perché è un'area di cantiere. Hanno spacciato per pedonalizzazione una cantierizzazione.

Quindi voi chiuderete il centro storico anche a bus, taxi e auto blu?
Se la metro C, come sembra, arriverà al Colosseo il cantiere dovrà rimanere aperto, non c'è nulla da fare. Per il resto, creeremo delle aree pedonali all'interno di ogni municipio: zone pedonali che trovano il favore sia dei cittadini che dei commercianti.

Emergenza rifiuti. La discarica di Malagrotta verrà chiusa del tutto?
Si lavorerà in tale direzione. Sentendo i dipendenti dell’Ama, dobbiamo prevedere una riorganizzazione della raccolta dei rifiuti eliminando le varie storture, in modo tale che i lavoratori possano effettuare giri in maniera regolare tutti i giorni e in tutte le vie. E poi c'è tutta la parte dello smaltimento con centri di riuso, riparazione e recupero che per altro portano posti di lavoro. Possibilmente centri in tutti i municipi o comunque iniziando in tutti i quadranti di Roma affinché i prodotti di scarto vengano intercettati prima e vengano reimmessi sul mercato e se è possibile recuperati.

Mi sembrano obiettivi molto difficili da raggiungere. Sicura che non ci sarà bisogno di inceneritori?Non fanno parte del nostro vocabolario. Puntiamo sulla politica dei “rifiuti zero”.

Non hai mai nominato le politiche sociali, eppure nella città aumentano le sacche di povertà…
Le politiche sociali e i fondi per la scuola saranno svincolati dal Patto di stabilità. Non è possibile continuare così: ogni anno i servizi sociali terminano i soldi stanziati tra giugno e luglio. Dobbiamo razionalizzare il settore, evitando sprechi, e rifinanziarlo per sostenere i cittadini in difficoltà incidendo anche per quanto riguarda il sistema dell'assistenza domiciliare.

Lei è cattolica. Manterrà il registro delle coppie di fatto?
Siamo stati i primi a depositare la proposta di delibera in Aula Giulio Cesare. Non faremo un passo indietro sui diritti civili.

Ho letto anche della sua proposta di far pagare l’Imu agli immobili del Vaticano, siete pronti alla guerra contro la Chiesa?
È stato lo stesso papa Francesco a dire che gli immobili nei quali si effettua attività commerciale devono pagare le tasse. È giusto, etico e morale.

Data la disaffezione dei cittadini nei confronti della politica, a Roma non si rischia un tasso di astensionismo altissimo?
Da anni il M5S lavora perché il cittadino sia informato e si impegni in prima persona nella gestione della cosa pubblica: organizziamo eventi sulla democrazia partecipata, allestiamo info-point. Stiamo puntando sul far innamorare i cittadini alla prassi della buona politica.

L’astensionismo vi penalizzerà?
Non facciamo previsioni di questo genere. Il nostro obiettivo è far tornare la gente al voto.

Chi teme di più tra Meloni, Marchini e Giacchetti?
Rimasi colpita il primo giorno della mia consiliatura quando in Aula vidi i vari esponenti confabulare tra loro e salutarsi. Un po’ il clima dei compagni di scuola che si rincontrano dopo le vacanze estive. Destra, sinistra, centro… di fatto, tra loro c'è sempre stato un tacito patto per non pestarsi i piedi. Fanno parte di un unico sistema. Al loro Patto del Nazareno bis, preferisco il Patto coi cittadini.

Mi dica almeno chi teme di più al ballottaggio…
Nessuno. Una vale l’altro. Sono il sistema, noi l’alternativa.

Se andate al ballottaggio contro Roberto Giachetti chiederete i voti a Giorgia Meloni o alla sinistra radicale di Fassina?
Non facciamo calcoli né apparentamenti: miriamo a governare la città con il voto consapevole dei cittadini che preferiranno il nostro modo di far politica e le nostre idee.

Domanda personale, quali sono i tre leader politici che l’hanno formata?
San Suu Kyi, Martin Luther King e Gandhi. Mi piacciono le persone che si impegnano anima e corpo nei progetti nei quali credono.

Ecco perché, primarie o non primarie, oggi a Roma la speranza è Stefano Fassina, se saprà vincere (come sembra che stia facendo) le trappole che gli stanno disponendo intorno.Il manifesto, 13 marzo 2016

Anche lo scarno coinvolgimento popolare nelle primarie conferma quanto sia esile la candidatura di Roberto Giachetti a sindaco di Roma. Non che i suoi competitori squillino o risaltino, ma tornare a guidare il Campidoglio o raggiungere le soglia di ballottaggio, per il Pd appare arduo. E del resto, siccome la politica di solito non fa sconti, è inevitabile che così vadano le cose. Dopo la deludente esperienza della giunta Marino e dopo la sua ignobile defenestrazione, la credibilità del partito si attesta su quote di mera sopravvivenza.

Dunque il candidato Giachetti è debole. Ed ecco qua e là affiorare in suo soccorso le prime movimentazioni politiche, palesi o sottotraccia che siano. Quelle obbligate, provenienti da saloni, salotti e sottoscala governativi. Quelle scontate, orchestrate da un’informazione conformista e cortigiana. Quelle impigrite, motivate dalla pavida rassegnazione al meno peggio. Quelle interessate, giustificate dal timore di dover rinunciare a prebende e linee di finanziamento. Quelle malintese, prigioniere di un’appartenenza politica ormai completamente svanita. E infine quelle (per così dire) di convenienza, dettate dall’ansia di ritrovarsi nudi e crudi, sguarniti e indifesi.

Non stiamo qui a stupirci se l’esteso sottobosco di notabili, faccendieri e guardaspalle si sentano impegnati a salvaguardare se stessi e gli assetti di potere che li nutrono. O se l’indistruttibile trama politica centrista preferisca rivolgersi al bischero rampante, piuttosto che al cavaliere cadente o, ancor peggio, agli stellati emergenti.

Ma se a soccorrere il candidato di Matteo Renzi ritroviamo anche chi dovrebbe al contrario contrastarlo, allora un po’ di stupore dobbiamo pur ammetterlo. Con amarezza e dispiacere, oltreché con quel disperante rammarico che come una dannazione emerge tutte le volte che solo si profila un’unità delle sinistre. Che è esattamente quel che a Roma si sta provando a realizzare. Così come a Torino, Trieste, Bologna, Napoli, Ravenna e in diverse altre città. Tra tormenti e fatiche.

Si possono capire diffidenze e incredulità. Si può capire quanto possa apparire ancora parziale e di sicuro imperfetto. Ma è tuttavia un processo in atto, che come prima tappa (prima, non ultima) ha scelto di misurarsi con le elezioni comunali. Sta insomma per comporsi una lista unica della sinistra, che ambisce a governare Roma in alternativa alle destre, al movimento cinquestelle, al Pd e a chiunque altro. Un progetto autonomo, dunque, che recide definitivamente i legami parassitari del recente passato.

Come tutti e ciascuno, Stefano Fassina a Roma si segnala per qualità e limiti. Ma un merito gli va indiscutibilmente riconosciuto. E’ riuscito a tenere insieme quel che da anni insieme non stava più. Partiti, forze sociali, movimenti, soggettività, intenti e stati d’animo. Si è di fatto autocandidato, è vero. Ma paradossalmente ha consentito un’aggregazione politica, che, se lasciata alle solitudini dei tavoli di confronto o agli esiti di irrealistici processi partecipativi, non avrebbe fatto neanche un passo. Intorno a lui s’è insomma creato un embrione di quel che potrebbe diventare un’esperienza nuova della sinistra romana. Ancora insufficiente, non del tutto definita, forse manchevole nella sua impronta culturale. Ma tuttavia viva, vitale e desiderosa d’incamminarsi verso prospettive promettenti.

Ecco perché i tentativi di incrinarne il percorso e offuscarne il senso appaiono insensati e anche un po’ meschini. Avanzare nuove candidature a sinistra, riesumare figure inaffidabili, alludere a improponibili scappatoie arancioni non solo indebolisce il progetto unitario e disorienta l’elettorato, ma trasmette quella disperante sensazione di una sinistra patologicamente divisa e inconcludente. Va da sé che tale sensazione non può che suscitare ulteriore disincanto. A beneficio di altri: per esempio, del Pd renziano del renziano Giachetti.

Ma come sappiamo la strada dell’unità delle sinistre è lastricata di agguati e di insidie. C’è solo da percorrerla con il respiro profondo e lo sguardo lungo, sperando che non se ne aprano altre, tanto malintese quanto ingannevoli.

Qui il sito che illustra il percorso e le schede programmatiche della candidatura diStefano Fassina per le elezioni a sindaco di Roma.

Nel groviglio delle contraddizione e delle menzogne, delle vacuità e delle solite grinfie sulla citta, forse una speranza per Roma. Se trovano, come stanno cercando un accordo largo con un programma convincente. Il manifesto, 11 marzo 2016

Anche le primarie del Pd hanno finito per entrare, con le loro schede bianche, nell’imbuto dei tanti misteri della città; una piccola tragedia che conferma il carattere dissipativo di questa città; a Napoli è andata assai peggio. Il Pd arranca: troppe ombre nelle gestioni passate delle giunte di sinistra non hanno avuto giustificazioni, sono state semplicemente rimosse dall’affannoso dibattito politico; e ora esse si riaffacciano chiedendo il conto.

Quale rapporto avere con gli avidi costruttori mai sazi di cemento? Quale futuro si prospetta per le immense periferie entro e oltre il raccordo anulare? E il traffico, diventato vero e proprio incubo dei romani? E la raccolta differenziata (a che punto sta?)? Dove si discute del tema dell’accoglienza, un tempo l’arma segreta della Roma imperiale? E così via. Unica promessa: quella di imitare, a Roma, il “successo” del Modello Expo a inaugurare il “nuovo corso” della capitale: replicare un Nuovo Modello (dopo quello “Roma”) è tutto ciò che viene invocato.

Tutto sommato che Giachetti, e il Pd con lui, non abbiano neppure presentato un programma per la città, è comprensibile. Che c’è da dire? Ricostruiamo dalle fondamenta? Tappiamo i buchi? Modernizziamo (lo slogan di Rutelli)? Sostituiamo il vecchio modello con uno nuovo? Le parole (e i Modelli) si sono consumate tutte (e con loro i programmi), e manca persino un’idea di come si vorrebbe gestire e amministrare questa città. Che dire dello Stadio della Roma (con annessi grattacieli e centri commerciali) e della sua invocata candidatura alle Olimpiadi? Dove si parla, in città, di tutto questo? Che fine ha fatto l’indagine di Fabrizio Barca a proposito dei circoli del Pd? E’ volato qualche straccio (circolo), e poi? Non ne era emerso un panorama devastante di collusioni e beghe interne tale da paralizzare l’intero Pd romano?

Anche sui Fori si discute a vuoto e si dimentica la grande lezione di Petroselli e Nicolini: loro i Fori pedonali non li avrebbero voluti per soddisfare l’ingordigia dei turisti, tantomeno per farne il salotto bello della città dei benestanti. Li volevano per regalarli ai borgatari, per accorciare le distanze tra loro e la Grande Bellezza.

Da questo gnommero, come lo avrebbe chiamato Gadda, non si esce; neppure con il perturbante Giachetti con la sua barba incolta stile disoccupato engagé, la cui immagine vuole apparire (persino nella pronuncia dialettale) lontana da quella dell’algido Marino sempre in giacca e cravatta. Ce la mette tutta Giachetti per convincersi che qualcosa si possa ancora fare per questa città; ma non convince i romani che si sono tenuti lontani dai seggi, sia pure in una giornata che sembrava promettere tuoni e temporali che non ci sono stati. La sua fedeltà a Renzi gli nuoce. E i romani, si sa, sono cinici e spietati: cedono facilmente alle lusinghe ma poi, al momento giusto, sono pronti ad abbandonare il carro del vincitore senza pietà: «Non c’è più niente da fà pe’ sta’ città», mormorano risentiti nei bar delle periferie.

Fassina ci ha messo molto coraggio. Ha girato in lungo e in largo la città; ha presentato un programma, tenta di raccogliere le voci disperse a sinistra del Pd, senza retorica, senza squilli di tromba ed è subito incappato nello gnommero delle beghe romane, così che dal cilindro sono spuntate altre candidature: Marino e Bray. Ce n’era proprio bisogno? Semmai c’e ancora bisogno di loro per allargare il cerchio del consenso intorno a lui.

Così ancora una volta il carattere tragico della città ha divorato speranze ed emozioni. I romani, diceva Pasolini, hanno una sola espressione per manifestare la loro emozione: “Anvedi o’”, e sembra che questa volta neppure riescono a pronunciarla.

Ma, a parte la figuraccia delle fasulle schede bianche, il fatto è che l’entusiasmo che accompagnò la vittoria di Marino non c’è più. Ed è solo consolatorio (ancorché penoso) attribuire questa freddezza alle vicende di Roma mafiosa. Adesso ripartirà il tormentone (e la dittatura) del “voto utile”. C’è spazio a sinistra, abbiamo detto in coro; non sbattiamo la porta in faccia a chi sta aspettando da tempo e occupiamolo questo invocato spazio.

Nulla accade per caso: i dati taroccati nelle primarie di Roma sono il sintomo di una malattia, grave, che affligge il partito democratico. Un commento di Walter Tocci, ripreso da waltertocci, online (m.b.)

Chi ha ordinato di gonfiare i dati delle primarie non può passarla liscia. Ha danneggiato il partito nel modo più stupido che si possa immaginare, e ha prodotto nuovo sconcerto tra gli elettori. Il risultato non è inficiato e, tutto sommato, la partecipazione non è stata neppure bassa rispetto alla povertà di contenuti nel confronto tra i candidati. Certo, se il Pd avesse promosso una lista civica di centrosinistra aperta alle competenze più innovative, alle forze sociali e alla cittadinanza attiva, avrebbe ottenuto una partecipazione al voto superiore alla soglia dei centomila. Sarebbe stata una festa democratica, avrebbe dato al candidato lo slancio decisivo per vincere le elezioni.
Era l'occasione per far vedere un vero partito democratico, e invece ha vinto la miopia del ceto politico. Quando prevale il piccolo cabotaggio, non ci sono più strumenti politici per innalzare la partecipazione e restano solo i trucchi contabili. Nulla accade per caso; anche uno stupido episodio come questo è il sintomo di una malattia. E far finta di niente, ridimensionare, sopire e sperare che passi non è la terapia giusta. Anzi, la patologia si aggrava se i responsabili restano ignoti, se chi sbaglia rimane ai posti di comando. Mi aspetto che gli organi di garanzia prendano provvedimenti senza guardare in faccia a nessuno.
I “notabili” hanno portato alla crisi del partito romano, prima con Mafia capitale, poi con le firme dal notaio, e da tempo con la palese impreparazione nel programma di governo. Ora sappiamo che possono far male al Pd non solo per arroganza ma anche per idiozia.

Sappiamo anche che il commissariamento non ha risolto il problema. Anzi, per non riformare la struttura di partito ha sviato l'attenzione sui circoli, i quali proprio nelle primarie si sono confermati, invece, come l'unica forza capace di mobilitare i militanti e gli elettori. È tempo di commissariare il commissariamento affidando le gestione della campagna elettorale a un Consiglio dei Garanti, da scegliere tra le personalità più autorevoli, indipendenti e libere da incarichi parlamentari o politici. In tal modo si evitano altre figuracce e si crea il clima sereno per un impegno corale a sostegno di Giachetti che ha vinto le primarie ed è pienamente legittimato come candidato sindaco.
Al Consiglio spetta anche il compito di preparare il congresso per organizzare il Pd romano secondo un modello mai visto prima. Sarà un lavoro lungo e difficile, ma la direzione da prendere è indicata proprio dalle ultime vicende.
C'è da domandarsi perché da diverso tempo non si riesca a festeggiare il risultato di questi appuntamenti, spesso offuscati dagli errori e da scene desolanti ben vive nella memoria di tutti. Si alza subito la richiesta di nuove regole, poi cala il sipario e non se ne fa più nulla. Eppure non è colpa delle primarie, ma del partito che non riesce a rappresentarne l’etica democratica. Si è ormai generato un contrasto tra la forma politica e la sua regola fondativa. È un'organizzazione gerarchica diretta dai leader mediatici e dai padroni del territorio, ma proprio questo modello frena la partecipazione che pure viene evocata dall'invenzione delle primarie. È un partito verticale con una regola orizzontale. L'attuale PD è ortogonale a se stesso. Per questo, gli capita, anche inconsapevolmente, di smentire le aspettative del suo popolo.

Si tratta allora davvero di cambiare verso, di mettere il partito in parallelo con la partecipazione politica, chiamando i militanti e gli elettori a scegliere non solo i candidati ma anche i punti salienti del programma di governo. L’innovazione potrebbe cominciare proprio da Roma. Laddove è il rischio è anche ciò che salva.
«L’italianissima parabola del salvatore che in poche ore diventa “ladrone”. Il ritiro in Africa. Ma alla fine il miracolo: meglio di Lazzaro, sarà il candidato sindaco di Roma del centrodestra». Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2016 (m.p.r.)

Come San Gennaro. Mancava il miracolo. Era il 2009 quando la fama di Guido Bertolaso raggiunse l’apice. All’Aquila, nei giorni del terremoto, appena compariva attirava folle che neanche Barack Obama al G8. Indice di gradimento al 60 per cento! Bertolaso era quasi diventato un sostantivo: l’uomo che “risolve problemi” per dirla alla Tarantino. Poi il crollo, le inchieste a raffica.

L’italianissima parabola del salvatore che in poche ore diventa “ladrone”. Il ritiro in Africa. Ma alla fine il miracolo: meglio di Lazzaro, sarà il candidato sindaco di Roma del centrodestra. E pensare che appena una manciata di giorni fa aveva detto no per la malattia di un famigliare. Ieri il dietro-front con toni da candidato: «Sono onorato della proposta che Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni mi hanno formulato. Grazie al miglioramento della mia adorata nipotina, accetto la sfida... per migliorare la vita dei romani, per ridare decoro e prestigio a una città in condizioni di emergenza. Per amore di Roma, per la sua storia e per il rispetto che i romani meritano».
Tipo complesso, Bertolaso: lineamenti e fisico da uomo di scrivania, ma sicurezza incrollabile e modi asciutti. Il curriculum: 56 anni, figlio di un generale di Squadra Aerea pluridecorato, nasce medico esperto di malattie tropicali. Lavora per la Farnesina e per l’Unicef, compie missioni in Africa. Poi la chiamata della politica come Capo Dipartimento della Protezione Civile. A volerlo è il Governo Prodi. Quindi la parentesi del Giubileo con l’etichetta di uomo di Francesco Rutelli. Un anno dopo rieccolo alla Protezione Civile, voluto, però, dal governo Berlusconi. Un crescendo. Si occupa dell’epidemia di Sars (malattia respiratoria), frane a Cavallerizzo, rifiuti in Campania (di nuovo voluto da Prodi), area archeologica romana e terremoto in Abruzzo. Arriva perfino ad Haiti per il terremoto.
Le canta a tutti, anche agli Stati Uniti e si becca una risposta pepata da Hillary Clinton. Ma piovono inchieste. Tutte le colpe adesso sono sue: è indagato per una consulenza da 25mila euro del gruppo Anemone a sua moglie. Gli attribuiscono i massaggi a luci rosse al Salaria Sport Village (lui ha sempre negato). Indagato anche per le bonifiche per il G8 della Maddalena, la commissione Grandi Rischi in Abruzzo, i bagni chimici dell’Aquila. Lui se ne va, torna medico in Africa. Sudan, non una passeggiata: «Abbiamo curato mille bambini per malaria celebrale, non tutti ce l’hanno fatta», racconta. E gli anni di gloria, gli infortuni: «Davvero pensate che sia stato la reincarnazione di Satana o Belzebù? Ho commesso migliaia di errori e dato credito a chi non lo meritava. Ma facevo tante cose e sono fatto così». Una dopo l’altra arrivano le archiviazioni e lui torna nei talk show. Manca un passo: la politica. Ieri l’ha compiuto. I sondaggi lo danno al 23 per cento (Grillo al 30, Pd al 26 e Marchini al 16). Sarebbe andato bene a destra come a sinistra. Come Beppe Sala e Stefano Parisi a Milano.
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