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Una città grande come Novara, è questa la popolazione che nellacapitale è interessata dall’emergenza abitativa. Il dato si ricava dalla delibera «sulle politiche abitative e sull’emergenza abitativa nell’area comunale romana» approvata prima dell’estate dal Consiglio comunale di Roma. La delibera è un documento politicamente rilevante: indica le strategie dell’amministrazione per rispondere all’emergenza abitativa e ne analizza anche le ragioni. Quali sono le cause dell’emergenza abitativa? Diverse, secondo il documento: «il mancato funzionamento della legislazione nazionale sugli affitti, l’ingresso consistente di nuovi poveri (immigrazione), la diminuzione generale del reddito delle famiglie…, la crescita esponenziale dei valori immobiliari e conseguentemente degli affitti, la progressiva scomparsa delle case degli enti previdenziali destinati all’affitto».

Per l’edilizia romana sono stati anni importanti: 7.288 abitazioni completate tra il 1998 e il 2002, una media di 1.500 alloggi l’anno (dati dell’ufficio statistica del Comune). Il settore delle costruzioni è cresciuto del 4,1% nel 2001, del 2,5% nel 2003 e del 4,7% nel 2004, quest’ultimo dato è quasi quattro volte quello del prodotto interno lordo (dati regionali Ance). Dal 1999 al 2003 si è registrata una crescita costante in tutti i comparti produttivi: edilizia abitativa, non residenziale, opere pubbliche. Anni di vera e propria espansione del settore. Il mercato delle costruzioni ha funzionato bene, tanto da sostenere l’economia della capitale, che si è diversificata ma che trova ancora le sue fonti di finanziamento principali nel settore tradizionalmente forte della città: quello immobiliare.

Ha funzionato il mercato dell’affitto, i canoni sono aumentati mediamente del 91% (media nazionale del 49%, nelle grandi città dell’85%). Ha funzionato il mercato della compravendita che ha registrato incrementi mai visti. La diminuzione del costo dei mutui ha favorito l’accesso al credito ma la crescita dei prezzi degli immobili, oltre il 100% in soli sette anni, ha comportato l’aumento dell’indebitamento delle famiglie. Una rincorsa alla proprietà che a Roma nel decennio 1991-2001 ha visto aumentare del 10% le famiglie con casa in proprietà (da 596.849 a 656.599, dati Istat 2001).

Eppure, in quegli stessi anni cresceva un fabbisogno abitativo rimasto insoddisfatto, e oggi è emergenza sociale. Secondo alcuni un paradosso, normale legge di mercato secondo altri, sta di fatto che oggi a Roma ci sono circa 100 mila persone interessate, seppure in modo diverso, dall’emergenza abitativa. Sono aumentati i proprietari di case ma anche, in misura consistente, le famiglie che vivono in coabitazione, 21 mila, mentre le famiglie senzatetto sono 3.078 (dati dell’ufficio statistica del Comune).

Si è prodotta una polarizzazione: da un lato la rincorsa alla proprietà, dall’altro l’insostenibilità del canone di affitto. A Roma, nel 2004, il canone medio per un alloggio di 75 mq era di 1.075 euro (per una famiglia con due stipendi da impiegato significa oltre il 50% del reddito). Molte famiglie non ce la fanno e per risparmiare si spostano nei Comuni dell’intorno (nel decennio 1991-2001 i residenti della capitale sono diminuiti di 187.104, con un calo del 6,8%, quelli della provincia sono aumentati di 126.461 - dati Istat). Comuni come Ardea e Guidonia hanno registrato tassi di crescita che superano il 40%. La periferia residenziale della capitale si sposta ben oltre il limes. A confermare questa dinamica è lo stesso Comune di Roma che ha preferito comprare alloggi per l’affitto sociale nei comuni di Lavinio, di Anzio, di Pomezia. Il Comune, come i privati, per risparmiare compra casa in provincia.

Nelle analisi della delibera manca una riflessione sul funzionamento (o sul malfunzionamento) del mercato edilizio a Roma, sull’efficacia delle scelte urbanistiche e sulle conseguenze scaturite dall’affermazione delle sole regole di mercato. Quest’ultimo soddisfa la domanda prevalente, che è quella della casa in proprietà, e scarta non solo i fabbisogni delle fasce sociali più deboli ma, sempre più, anche quelli della classe media e di tutti quei soggetti che articolano la domanda abitativa (persone/famiglia, precari, giovani coppie...). Nel conto delle cause bisogna mettere l’arretramento delle politiche pubbliche sul versante dell’offerta che, per una città governata da dodici anni da giunte di centro-sinistra, è un dato significativo. È anche vero che il dato nazionale per il periodo 1984-2004 ha registrato una contrazione degli alloggi pubblici da circa 34 mila a 1.900 (dati Cresme-Anci).

Se questo è il quadro, non si tratta di emergenza ma di un vero e proprio «male» al quale è urgente porre rimedio. In che modo? Nella delibera si dispiegano diversi interventi e si prefigura una strategia che dovrebbe consentire, nel medio periodo, di approntare soluzioni per circa 13 mila famiglie. Gli obiettivi dell’amministrazione sembrano essere: l’acquisizione di immobili dal mercato ma a valori scontati; l’utilizzo di incentivi, economici e/o urbanistici, in modo da regolare l’intervento privato e favorire l’immissione di alloggi in affitto a canone concordato. A questi si aggiungono gli interventi di sostegno alle famiglie con redditi medio-bassi (buoni casa, sgravi Ici, buoni di assistenza).

Resta da affrontare la questione di fondo: la disponibilità di immobili pubblici da immettere sul mercato per realizzare case a basso costo. La risposta all’emergenza casa non può infatti risolversi nel solo sostegno economico: è necessario aprire una stagione nuova di politiche urbanistiche per la casa. Per fare questo è necessario disporre del suolo. Ma oggi il Comune ha già un patrimonio di aree comunali rilevante, circa 4.300 ha, acquisito con la legge 167 del 1962 tra primo e secondo Peep. Si potrebbe utilizzare il suolo che oggi risulta inutilizzato o spesso sprecato per farlo incrociare con la differenziazione della domanda di fabbisogno abitativo.

I vantaggi di poter disporre di aree pubbliche sono notevoli. È possibile avviare la costruzione di alloggi senza dover indebitare il Comune; non c’è bisogno di coinvolgere i privati per realizzare forme di compensazione; le aree sono situate in contesti già urbanizzati. Ci sono poi vantaggi sociali: lo spostamento di fasce deboli, come gli anziani, avverrebbe all’interno di un contesto già consolidato favorendo il benessere e la qualità della vita.

Una simulazione condotta in tre quartieri di edilizia pubblica (Serpentara, Valmelaina, Torsapienza) dal Dipartimento di Studi Urbani dell’Università di Roma Tre ha evidenziato una disponibilità immediata di suolo per 128 mila mq. Nessuna di queste aree è oggi utilizzata per soddisfare gli standard. Si tratta di un vero e proprio spreco di suolo. Su queste aree si possono realizzare tra 600 e 900 nuovi alloggi.

Dovendo ammortizzare solo i costi di costruzione, che per un alloggio di circa 60 mq si aggirano intorno ai 40 mila euro (il costo è depurato dall’incidenza del costo dell’area), si ottiene un canone mensile di 331 euro per quindici anni o di 284 per venti anni (calcolo effettuato su un mutuo ordinario offerto da un istituto bancario nazionale al tasso fisso del 5,72%). Mancano i dati esatti delle aree utilizzabili negli altri quartieri e quindi del numero di alloggi: una stima di massima ne calcola circa 5.000.

Si potrebbero avviare da subito interventi pilota nei quali sperimentare forme di gestione che coinvolgano organizzazioni del terzo settore e no profit. Nei paesi ad economia di mercato questi soggetti sono presenti in modo consistente nella produzione di beni pubblici, mentre da noi sono quasi del tutto assenti. Interventi in questa direzione sarebbero importanti dal punto di vista quantitativo ma ancora di più da quello qualitativo. Segnerebbero una vera svolta nelle politiche urbanistiche della città liberando nuove risorse ed opportunità e orienterebbero ancora di più l’attenzione verso la città esistente. Si raccoglierebbe la sfida di ripensare un territorio che si è fatto metropoli senza passare per la città.

È quello che sta già avvenendo in altri paesi europei, dove il recupero dei grandi quartieri pubblici degli anni ’60 e ’70 è oggi l’occasione per una nuova politica pubblica della casa. Un progetto di ristrutturazione urbanistica dei quartieri pubblici che prevede la localizzazione di nuove funzioni e l’inserimento di nuovi soggetti in risposta alle nuove domande di abitare. Crediamo che Roma sia la città dove questo tipo di interventi può conseguire i risultati migliori, occorre solo che la politica assuma questo scenario di lavoro come prioritario

OBELISCHI con spot: teli pubblicitari, dunque, annunciati a piazza del Popolo, a San Giovanni, al Pantheon, alla Minerva, e ancora in tante altre piazze monumentali di cui le antiche cuspidi costituiscono il fulcro visivo. Con buona pace del paesaggio urbano e di tutti coloro che da ogni parte del mondo giungono in questa città per compiere il proprio pellegrinaggio nella storia e nell'arte!

E' ripresa dunque in grande l'offensiva delle aziende che producono pubblicità. Già da tempo si erano guadagnate il consenso di alcuni degli uffici ai quali spetta il compito di concedere o di negare il permesso di installare i giganteschi impianti recanti messaggi pubblicitari.

Il dilagare dell'iniziativa, che l'anno scorso aveva minacciato addirittura di occupare la facciata del Pantheon e che si era annunciata anche nei confronti dell'obelisco di piazza del Popolo, e poi di quello del Laterano, suscitò scandalo sulla stampa internazionale e trovò un freno nella tutela archeologica. I monumenti antichi di Roma, infatti, sono rimasti indenni da questo flagello. Anche quest'ultimo ostacolo ora sembra però aggirato, come apprendiamo dal servizio pubblicato ieri da Repubblica.

Nel 2004 la Soprintendenza regionale dei beni culturali (in realtà è un ufficio ministeriale), fortemente impegnata nel sostenere la pratica delle concessioni di spazi monumentali per la pubblicità, impedì alla Soprintendenza archeologica di eseguire verifiche sulla proclamata necessità di restauro per l'obelisco di Piazza del Popolo.

Ora l'intento di installare un telo pubblicitario nel centro della piazza per sei mesi o per un anno viene riproposto, senza pudore, per «verifiche preventive» sulla stabilità dell'obelisco in relazione al rischio sismico.

Chi conosce i monumenti antichi di Roma sa bene che si tratta di un ingenuo pretesto: gli obelischi hanno peraltro superato il collaudo sismico nel corso dei terremoti degli ultimi secoli. Il reale pericolo che incombe su di essi è costituito dai fulmini. Lo stesso obelisco di piazza del Popolo ne fu danneggiate un paio di decenni fa, e molto più recentemente anche l'obelisco di Axum, come molti ricorderanno. Su questo problema erano in corso ancora durante l'anno passato indagini condotte dall'architetto Giangiacomo Martines con la collaborazione di importanti centri di ricercò scientifica.

DOPO aver devastato per anni l'immagine della città, oscurando le facciate delle chiese (si veda ora il Gesù, o la Trinità dei Monti perpetuamente mortificata dalla pubblicità e dalle finte architetture dipinte sui teli), alterando incomparabili contesti monumentali (piazza di Trevi, tenuta a lungo nascosta da obbrobriosi teloni, piazza Navona che per anni non è stato possibile ammirare libera da volgari quinte), l'attacco viene ora rivolto agli obelischi. Certamente: mediante il loro impiego grandi pontefici e architetti avevano saputo dare forma ad un mirabile paesaggio urbano affinchè i nostri tempi possano facilmente trame lucro.

Quando si sostiene che queste alterazioni dei monumenti per tempi più lunghi di quelli necessari al restauro servono per ottenerne i finanziamenti si dimentica, evidentemente, che il paesaggio è un bene di interesse pubblico tutelato nel nostro sistema giuridico tanto quanto al bene monumentale, e che i provvedimenti a favore di questo non possono costituire detrimento per l'altro.

Abbiamo raggiunto evidentemente i livelli più bassi da quando, agli inizi del Novecento, lo Stato italiano aveva cominciato a costruire il proprio sistema di tutela del patrimonio storico e artistico.

Il centro storico romano continua a conseguire due primati negativi. Il primo è l’aumento dei livelli di inquinamento atmosferico; il secondo riguarda l’inquinamento acustico. I provvedimenti fin qui presi dall’amministrazione comunale hanno una logica emergenziale e non colgono la complessità del problema che ha un’unica motivazione: l’eccesso di funzioni lavorative e di svago che si svolgono nel centro storico. Da moltissimi anni vige il provvedimento di divieto di accesso ai non residenti nelle ore diurne. Da pochi mesi, per contrastare l’invasione turistica che ogni sera soffoca ogni strada, il divieto di accesso vige –soltanto per i fine settimana- anche nelle ore notturne. Dopo il primo periodo “sperimentale” la Giunta comunale ha deciso di rendere definitivo il provvedimento. Il rinnovo della Ztl notturna è certo un fatto positivo; ma è pur sempre un provvedimento d’emergenza che non affronta fenomeni che hanno radici lontane.

La causa più remota risale agli anni 60-70, quando il sistema amministrativo dello Stato e il settore del credito hanno costruito il grande polo direzionale. Convivevano con esso un equilibrato settore commerciale e una rete artigianale legata alla forte quota di residenti: nonostante i primi processi di espulsione, in quegli anni vivevano nel centro storico circa duecentomila abitanti.

L’aumento della domanda di mobilità generato dai nuovi posti di lavoro fu combattuto attraverso due strumenti: con politiche di limitazione di accesso privato e con il rafforzamento del sistema di trasporto pubblico su gomma. La domanda di mobilità era infatti limitata nel tempo -essendo legata allo spostamento da casa a lavoro- ed era tutto sommato controllabile. Ciononostante, è appena il caso di ricordare che l’inquinamento aveva comunque raggiunto livelli di guardia.

Da oltre un decennio è emerso un altro fenomeno. Il centro storico di Roma, (ma il processo riguarda tutte le città d’arte nazionali e mondiali) sta diventando un grande palcoscenico ad esclusivo uso del turismo di massa. La domanda di spostamento indotta non è più limitata nel tempo, ma si mantiene elevatissima per quasi tutte le 24 ore, come sa bene la sempre più esigua ed insonne pattuglia dei residenti nel centro.

Questa nuova domanda di mobilità si somma a quella precedente. Che nel frattempo è aumentata vertiginosamente sia per il continuo trasferimento di attività dello Stato, sia per l’aumento del terziario minuto che sta occupando tutti gli spazi disponibili. Tanto che i residenti sono ormai vicini ai 100.000. Il rinnovo della Ztl serve a limitare la domanda di accesso turistico e svago notturni, ma non servirà a risolvere il problema della mobilità e della salute delle centinaia di migliaia di cittadini che quotidianamente lavorano in centro.

Per raggiungere questo ambizioso obiettivo occorre recuperare un’idea del futuro del centro storico. Decidere se abbandonarlo ad un uso turistico incontrollato che sta minando la stessa identità di molte strade ormai perennemente occupate da pizzerie e tavolini selvaggi o se è invece giunto il momento di definire politiche pubbliche in grado di riequilibrare la vita urbana. Un programma finalizzato alla creazione di una rete tranviaria che integri la più remota linea “C” di metropolitana; al decentramento delle funzioni amministrative dello Stato ed alla reintroduzione della residenza negli immobili liberati; alla tutela delle attività commerciali non omologate dalla globalizzazione. Un’idea complessiva in grado di recuperare il riequilibrio delle funzioni urbane, aria pulita e, perché no?, un po’ di silenzio.

Tor Pagnotta è la sorella sfortunata di Tor Marancia. Le due torri e i due comprensori che le circondano, infatti, sono abbastanza vicine nello spazio urbano: sono entrambe localizzate nel quadrante meridionale della città. Sono anche vicine nel tempo perché nascono con il piano regolatore del 1962. In un certo senso ne rappresentano l’aspetto più criticabile, poiché era prevista, lì come in tanti altri casi, la realizzazione di grandi comprensori di espansione ad altissima densità. Nell’uno e nell’altro caso era consentita la realizzazione di 4 milioni di metri cubi, e cioè quartieri di oltre 40 mila abitanti: secondo gli ideologi del nuovo piano regolatore romano su di esse esistono dunque “diritti acquisiti”. La seconda analogia tra le due torri sorelle è rappresentata dal fatto che entrambe vengono drasticamente ridotte all’inizio degli anni ‘80 dalle varianti urbanistiche circoscrizionali (verranno formalizzate solo dieci anni dopo nella redazione delle varianti ambientali). Le aree sono simili, infine, per la straordinaria qualità dell’agro romano che ancora conservano.

Le loro strade divergono per due motivi che, con l’aria che tira, hanno giocato un ruolo decisivo. Il primo motivo risiede nella proprietà. Questa, nel caso di Tor Marancia era rappresentata dalla vecchia proprietà agraria e da un gruppo di immobiliaristi di peso non eccelso. A Tor Pagnotta l’azionista di riferimento è Francesco Gaetano Caltagirone, imprenditore famoso con un potere immenso rappresentato da molteplici imprese che spaziano dal cemento alla carta stampata; suo è, tra gli altri, Il Messaggero, molto diffuso a Roma. In precedenza l’area era di proprietà dell’Iri.

Il secondo risiede nella vincolistica esistente nelle aree vicine. Come accennavamo, la loro qualità paesaggistica è sostanzialmente identica: due grandi comprensori (oltre 200 ettari il primo, la metà il secondo) di colline con ampie presenze di zone boscate e di corsi d’acqua. Ma nel caso di Tor Marancia ha avuto un peso decisivo l’adiacenza con il Parco dell’Appia Antica. L’argomentazione più efficace utilizzata dal mondo che ne ha chiesto la cancellazione (primo tra tutti Antonio Cederna) ha infatti equiparato il paesaggio dell’area a quello limitrofo già tutelato, dando modo alla Soprintendenza archeologica di Roma di estendere il vincolo.

Nel caso di Tor Pagnotta non esistono invece vincoli e l’area confina con il Grande raccordo anulare: la motivazione forte con cui si è inutilmente richiesta la cancellazione della previsione di piano si è basata sulla preservazione di un raro cuneo verde che si ferma su quella infrastruttura stradale. Inutile dire che gli orientamenti urbanistici di questa, come della precedente amministrazione, non ritengono prioritario contenere l’espansione della città.

Un ultimo grande “colpo di teatro” perpetrato per dare il via libera all’edificazione di 1.100.000 metri cubi riguarda infine l’accessibilità dell’area. Il comprensorio di Tor Pagnotta, infatti, è collegata alla città da un'unica infrastruttura stradale, la via Laurentina, strada che presenta già oggi gravi problemi di percorribilità. Così l’amministrazione comunale di Roma afferma solennemente che non sarebbe stato costruito un solo metro cubo se non fosse stata prevista la realizzazione di una line di collegamento pubblico su ferro.

Detto-fatto. Come nelle più belle favole è stata programmata una linea tranviaria che collegherà il nuovo quartiere (e il vicino Laurentino 38, grande ensemble pubblico) con l’Eur. Il colpo di genio sta nel fatto che dei previsti 30 milioni di euro stimati per la realizzazione della nuova linea di trasporto, 27 li paghiamo tutti noi poiché la spesa graverà sul capitolo di spesa di “Roma capitale”. Solo il restante 12 % verrà (generosamente) offerto dalla proprietà. Chi dice che l’urbanistica contrattata non funziona è un rottame del passato. Funziona splendidamente!

PS - Il via libera alla lottizzazione di Tor Pagnotta è stato dato dalla maggioranza capitolina unita come un solo uomo, con la lodevole eccezione del gruppo di Rifondazione comunista che ha coerentemente (e coraggiosamente) votato contro.

1. Spopolamento e abbandono di servizi

Il quadro generale dei fenomeni che investono le città italiane tracciato da Vittorio Emiliani trova nel caso di Roma il luogo di massima intensità.

Le ragioni di questo fenomeno non risiedono tanto nella dimensione demografica -Roma, come noto, è la concentrazione urbana più grande in Italia-, quanto piuttosto nell’intensità dei processi di terziarizzazione che nella capitale hanno avuto una crescita molto più elevata che altrove. Il terziario diffuso, la grande distribuzione commerciale, l’aumento dell’offerta ricettiva turistica e la crescita della domanda abitativa da parte di categorie particolari come studenti e immigrati hanno portato ad un preoccupante spopolamento

La popolazione non solo è scesa nel cuore antico della città a livelli di allarme, ma ha vuotato i quartieri storici della città, e cioè le zona ricompresa all’interno dell’anello ferroviario. Da un decennio, poi, scende vistosamente anche la popolazione della fascia urbana compresa tra l’anello ferroviario e il grande raccordo anulare: quella che era la “periferia” ha evidentemente mutato i suoi destini.

Questo enorme spopolamento (nel decennio 1991-2001 sono sparite da questa area oltre 200.000 cittadini) in parte ha trovato luogo nella periferia in formazione, e cioè quella esterna al Gra, mentre la maggior parte di essi (180.000) sono andati a vivere nei comuni dell’area metropolitana.

E’ evidente che i fenomeni di terziarizzazione lasciati senza guida pubblica hanno portato ad un inedito abbandono residenziale mentre migliaia di ettari di territorio agricolo scompaiono per realizzare una immensa “villettopoli”.

La dotazione dei servizi che serviva per soddisfare i bisogni della città consolidata in molti casi è da anni abbandonata, preda di vandalismo e va in rovina, mentre nei comuni della cintura si torna ai doppi turni scolastici. Un’enorme politica dello spreco che premia esclusivamente la rendita fondiaria.

2. Il cuore antico della città

La popolazione che vive ancora all’interno del perimetro delle mura aureliane e di Borgo è di 120.000 abitanti. Dal 1951 il decremento è stato del 204%: nel 1951 abitavano nel centro oltre 370.000 cittadini. Il fenomeno ha avuto la maggiore intensità fino al 1971: da allora si assiste ad un progressiva emorragia appena temperata da recenti reintroduzioni di residenza (tab. 1).

Il centro antico accoglie, come noto, le funzioni del Parlamento della presidenza del Consiglio, della Presidenza della Repubblica, e cioè delle massime istituzioni rappresentative dello Stato. Oltre a queste, hanno trovato collocazione le sedi degli istituti di credito. Nell’insieme centinaia di migliaia di lavoratori lavorano quotidianamente nel centro di Roma.

Accanto a questa funzione direzionale, in particolare nell’ultimo decennio si è consolidata l’offerta ricettiva turistica. Se a Roma nel 2002 l’offerta complessiva era di circa 94.000 posti letti, nel solo centro storico esistono 41.000 posti letto: se a questi si aggiungono quelli localizzati nelle aree di Prati, Parioli e Aurelio, e cioè nella prima corona periferica si raggiunge la percentuale del 70% del numero totale dell’offerta (tab.2).

Di fronte a questi numeri è’ del tutto evidente il motivo dello spopolamento. Evidenti sono anche le conseguenze quotidiane che gli abitanti devono sopportare: degrado, rumore, occupazione di ogni luogo da parte di un’offerta di ristorazione sempre più aggressiva e volgare.

In questo senso il divieto della vendita di bevande in contenitori di vetro è un provvedimento in parte inutile, ma del tutto inefficace a combattere il male. Di fronte all’intensità dei fenomeni che abbiamo descritto è solo con un’alta visione d’insieme che si può riportare la vita del centro a livelli civili.

Un piano d’insieme formato da provvedimento d’urgenza che riduca il dilagare di “tavolino selvaggio” ad esempio. Ma che abbia l’ambizione di disegnare obiettivi di medio e lungo periodo incardinati sull’indispensabile svuotamento di funzioni pubbliche che occupano immobili che potrebbero invece essere restituiti alla residenza; la pedonalizzazione dell’intero centro e la ragionevole soluzione della sosta dei residenti; l’attuazione del grande progetto del Parco dei Fori romani colpevolmente abbandonato da un decennio; la realizzazione del progetto Lungotevere ideato da Italo Insolera.

Vediamo invece con preoccupazione che si continuano ad assecondare le tendenze del mercato: ulteriore aumento della ricettività turistica (il caso di via Giulia è emblematico) e aumento sconsiderato dell’offerta di parcheggi a partire dagli sciagurati progetti del Pincio e dei Lungotevere.

3. I quartieri della periferia storica

Se confrontiamo in questo caso la popolazione residente con quella del 1951, si riscontra un sostanziale equilibrio: siamo tornati ai circa 950.000 abitanti del primo dopoguerra. In realtà se si confronta il dato del 2001 con il picco del 1971 (circa 1.400.000) si comprende come il declino demografico sia stato sempre più intenso (tab.3).

Anche in questo caso sono state inizialmente le funzioni dello Stato a innescare la terziarizzazione: il polo giudiziari di Prati, quello universitario della Sapienza e tanti altri ancora.

Il fatto che continua l’introduzione di funzioni terziarie pregiate (si pensi all’Università Ostiense) non potrà non produrre un ulteriore abbassamento del numero dei residenti nel prossimo periodo.

4. La vecchia periferia

Il dato più inaspettato è comunque rappresentato dal declino demografico misurabile nell’ultimo decennio della periferia speculativa di Roma, quella sorta a partire dagli anni 60 e 70, compresa tra l’anello ferroviario e il grande raccordo anulare.

Se nel 1991 i residenti erano ancora 1.141.000 ora siamo di fronte a 1.033.000. Questo dato evidenzia che una parte del patrimonio abitativo è stato abbandonato sia per terziarizzazione diffusa sia perché una sua parte viene utilizzata per alloggiare cittadini dei paesi poveri o anche studenti.

Ma è il dato complessivo a preoccupare: nel decennio 1991-2001 l’Istat ha calcolato che sono stati 177.000 mila i romani ad abbandonare la città: in realtà dalla fascia compresa all’interno del grande raccordo anulare l’abbandono ha riguardato oltre 200.000 abitanti che in parte si sono trasferiti nell’area metropolitana e in parte nella periferia esterna al Gra (tab. 4).

5. La periferia della conurbazione

Questa estesa periferia presenta ormai evidenti fenomeni di conurbazione con i comuni della fascia metropolitana. Tale fenomeno era già parzialmente evidente, ma si è sicuramente incrementato per alcune scelte già effettuate. La realizzazione della nuova Fiera di Roma a Ponte Galeria rappresenterà la saldatura con Fiumicino. I nuovi quartieri della fascia nord della città stanno evidenziando la saldatura con il sistema urbano del lago di Bracciano. A est i grandi insediamenti commerciali e residenziali formano un unicum con Giudonia e Tivoli. A est il tumultuoso sviluppo commerciale e residenziale dell’asse Appia costituisce la saldatura con i Castelli romani.

6. La villettopoli metropolitna

la fascia della prima e seconda cintura metropolitana subisce maggiormente gli effetti dello svuotamento della città di Roma. Non solo sono stati complessivamente 117.000 gli abitanti che hanno incrementato la popolazione residente della provincia, ma se si guarda ad alcune localizzazioni si è di fronte a valori incrementali impressionanti. L’area della tiberina (servita dalla linea FM1) cresce nel decennio del 15%; l’area del lago di Bracciano del 27%; L’area della Flaminia del 22%; il litorale del 17%. Sono valori che dimostrano un impressionante fenomeno di consumo di suolo, poiché la domanda si orienta verso densità basse: è la grande villettopoli paventata da Antonio Cederna (tab. 5).

7. La scomparsa dell’agro romano

L'altra caratteristica che fa di Roma un caso esemplare nel panorama italiano à che da un decennio è stato programmaticamente abbandonato l’uso degli strumenti urbanistici di governo del territorio. Si procede con la politica del caso per caso, dell’uso dell’accordo di programma come strumento di scardinamento del piano regolatore.

E quando il piano urbanistico viene praticato si sceglie la strada di un consumo di suolo tanto elevato quanto ingiustificato di fronte ai dati che abbiamo fin qui fornito.

Italia Nostra ha fatto negli anni scorsi una battaglia rigorosa contro il consumo di suolo previsto dal nuovo Prg di Roma. A fronte infatti di una città che ha perduto circa 180.000 abitanti nel decennio 1991-2001, il piano prevede infatti l’urbanizzazione di oltre 15.000 ettari oggi destinati ad agricoltura (per avere un ordine di misura si pensi che l’area racchiusa all’interno delle mura Aureliane misura 1.400 ettari). La grande maggioranza dei 15.000 ettari sono localizzati nelle parti più pregiate dell’agro romano, lasciandone lacerti circondati da edificazione e da altri usi urbani.

In buona sostanza la polita dello spreco e la deregulation stanno cancellando se non ci saranno interventi urgenti, quello che è stato il grande patrimonio di natura e storia descritto da tanti letterati, artisti, poeti e uomini di cultura.

La cronaca de l’Unità, edizione di Roma, 15 giugno 2005

Muore la città "vecchia", che si svuota dei suoi abitanti, mentre tonnellate di cemento si riversano in periferia, in quella che un tempo era la campagna romana.

«La grande villettopoli paventata da Antonio Cederna è diventata una realtà. La diffusione residenziale, potentemente favorita dal terzo condono, ha consumato oltre 10mila ettari di terreni agricoli», ha denunciato ieri Paolo Berdini, nel corso del convegno organizzato dal Comitato per la Bellezza, presieduto da Vittorio Emiliani, e dall'associazione Polis. Un dibattito vivace, svoltosi alla Biblioteca della Camera, sul tema delle trasformazioni in atto nella città e nelle periferie, al quale hanno partecipato eminenti studiosi e decine di comitati di quartiere. E dal quale è emerso un quadro allarmante, innanzitutto sullo spopolamento della Capitale. «Nel complesso, tra '91 e il 2001, sono stati 204mila gli abitanti della zona all'interno del Gra che si sono allontanati, trasferendosi nell'area metropolitana e nelle periferie più estreme», afferma Berdini. A svuotarsi non è stato solo il centro storico. Persino nella vecchia periferia romana, quella nata negli anni '60 e '70, gli abitanti sono diminuiti del 9,4 percento. Intanto i rioni più belli della città sono assediati da uffici, centri commerciali, pub e fast-food, da strutture ricettive. Restano i palazzi delle massime istituzioni dello Stato e quelli delle banche, resta il viavai di centinaia di migliaia di lavoratori. E i residenti devono fare i conti con il degrado, il rumore l'invasione di «un'offerta di ristorazione sempre più aggressiva e volgare». Per dare conto del calo demografico, Berdini cita i dati sull'offerta turistica: a Roma nel 2002 era nel complesso di 94mila posti letto, il 70% dei quali nel centro storico. Come intervenire, allora? «I provvedimenti di divieto di accesso carrabile nelle ore serali o della vendita di bevande in contenitori di vetro sono strumenti del tutto inefficaci ad affrontare il problema. Serve un piano d'insieme - sostiene Berdini - anche con provvedimenti d'emergenza, ad esempio per contrastare il tavolino selvaggio. È indispensabile lo svuotamento di funzioni pubbliche e il riuso residenziale degli immobili oggi occupati, la pedonalizzazione dell'intero centro e la soluzione della sosta dei residenti». E poi ci sono i grandi progetti da attuare, come quello «del Parco dei Fori, colpevolmente abbandonato da un decennio». «Invece si continuano ad assecondare le tendenze del mercato», conclude amaro l'architetto, che se la prende anche con il Nuovo Prg, il quale «prevede l'urbanizzazione di oltre 15mila ettari oggi destinati all'agricoltura».

SCAVARE, su questo verbo sindaco e costruttori sono sicuramente d’accordo: «dobbiamo scavare», dice Veltroni ai costruttori romani riuniti per l’assemblea annuale dell’Acer, ieri all’Auditorium. Certo, per realizzare le nuove linee metropolitane. Ma anche, «scavare per portare le auto sotto terra», spiega Veltroni, forte di quello che ormai è più di un auspicio: i poteri speciali sul traffico, che comprendono, appunto, anche facilitazioni per la realizzazione di nuovi parcheggi. La richiesta ieri avanzata dalla Regione al governo è chiara. E così le prospettive che si aprono, non solo per il traffico ma anche per imprese e costruttori romani, che ieri hanno riproposto come un tormentone la domanda: «Roma può crescere ancora?». Il presente dice che il Pil del Lazio cresce più di quello del paese (4,6% contro l’1,2%) e che il settore delle costruzioni cresce di più degli altri (4,7% la crescita del valore aggiunto nel 2004), costituendo il 58% dell’industria provinciale. Quanto al futuro, da parte dei costruttori è pressing sul governo perché stanzi risorse per infrastrutture e grandi opere - ma anche per l’emergenza abitativa. Con l’amministrazione locale, invece, si gioca, un’altra partita: la costruzione di nuove case, quelle che fruttano sul mercato, e quelle da destinare all’emergenza abitativa.

Una partita che il nuovo piano regolatore ha già chiuso dentro a previsioni certe: 61 milioni metri cubi di nuove edificazioni, a fronte di 87mila ettari di verde tutelato. Ma l’Acer chiede di riaprirla, prima di tutto - spiega il presidente Silvano Susi - «per far fronte all’emergenza abitativa», con alloggi da mettere in vendita «ma anche in affitto». L’associazione romana, che pure indica nella «manutenzione» delle periferie la nuova frontiera, chiede di reperire nuove aree per la 167, e di destinare l’1% delle aree comunali ad opere di edilizia per i nuovi poveri: 1.260 ettari che i costruttori tradurrebbero in 30-35mila alloggi. Proposta contraria a quanto già ribadito nella delibera sull’emergenza abitativa («le previsioni del piano regolatore non si toccano») e depositata tra le 11mila osservazioni avanzate al nuovo prg, di cui Susi chiede contemporaneamente la rapida adozione, la modifica e l’anticipazione. Per cominciare a costruire e «riqualificare» le periferie, prima ancora che il prg venga adottato, attraverso l’approvazione di piani integrati urbani, sul modello degli articoli 11, decentrandone anche se possibile l’attuazione nei municipi. E torniamo ai poteri speciali.

I costruttori appoggiano in pieno la battaglia, riaperta da Comune e Regione, tanto sul versante dei finanziamenti a Roma capitale, quanto su quello dei poteri speciali, non solo in materia di traffico, però. Ovviamente, il governo dell’urbanistica, attualmente troppo spostato sulla Regione, è materia che preme ai costruttori, che hanno alle spalle 7 anni di attesa per l’approvazione dei cosiddetti articoli 11 per realizzare infrastrutture e case nelle periferie. E su questa materia, la giunta Marrazzo ha già annunciato che è pronta a procedere a semplificazioni e deleghe, come ha ripetuto anche ieri il nuovo presidente della Regione, promettendo un’approvazione del prg in 100 giorni. Però, ieri, il presidente dell’Acer ha aperto un altro fronte, quello delle deleghe in materia ambientale, che ha già trovato la contrarietà di Legambiente.

«La Regione non deve delegare l’ambiente»

MA QUALE DELEGA in materia ambientale? Legambiente attacca i costruttori romani, che chiedono alla Regione di semplificare e delegare al Comune anche in tema di tutela ambientale. «Ma così si passa dal gigantismo della Regione al gigantismo del Comune!», sbottano a Legambiente. Bene, i poteri speciali per il traffico, bene anche la semplificazione e le deleghe in materia di urbanistica, che servono a ridurre i tempi di approvazioni e l’eccesso di burocrazia. Ma l’ambiente non si tocca. «È una competenza cruciale delle Regioni, farebbe saltare quell'equilibrio tra poteri locali e poteri regionali che è alla base della stessa proposta di redistribuzione delle deleghe», avverte il presidente dell’associazione Lorenzo Parlati. D’altra parte, il tema delle deleghe in materia ambientale non è mai stato messo all’ordine del giorno della Regione, che continuerà a mantenere la valutazione di impatto ambientale. Unica eccezione, i parcheggi che serviranno a tagliare le gambe alla doppia fila e al traffico, la cui valutazione di impatto ambientale, con il trasferimento di poteri, spetterà al Comune.

Oltre alle deleghe non piacciono a Legambiente nemmeno le «anticipazioni» rispetto al piano. I costruttori premono perché nell’attesa che il piano venga adottato, si proceda all’approvazione di nuovi piani di interventi integrati - riqualificazioni, infrastrutture e case realizzate con il concorso di soldi pubblici e privati. «Ma così - osserva Legambiente - il Prg rischia di diventare un simulacro».

E poi, ovviamente, non piace alla associazione ambientalista la proposta di affrontare l’emergenza abitativa rubando altro verde alla città. «L’un per cento del suolo comunale significa sette volte villa Pamphili. Non cadiamo nella trappola di contrapporre il bisogno della casa alla tutela dell’agro romano», avverte Mauro Veronesi di Legambiente. Andare avanti a colpi di nuove aree verdi da destinare all’edilizia economica popolare è, dicono, inattuale e inattuabile: «A Roma 8mila stanze ogni anno vanno in deperimento, perché i costruttori non si dedicano al recupero della città che già c’è?». D’altra parte, fa notare Mauro Veronesi, lo stesso presidente dell’Acer ha parlato di «manutenzione» come nuova frontera dell’edilizia, e di «densificazione», costruire dove è già costruito.

L’altra partita che rischia di giocarsi sul verde è quella delle compensazioni. Il Comune per riscattare nuovi parchi ha promesso di cedere aree decentrate rese edificabili. «Perché in futuro non individuare zone già in parte edificate come aree di compensazione?», propone Legambiente, che infine lancia un allarme, condiviso in questo caso anche dai costruttori, per le ex aree abusive, che «devono essere circoscritte in modo rigoroso».

Ma. Ge

Berdini: I quartieri più belli assediati

da fast food e tavolino selvaggio

Muore la città "vecchia", che si svuota dei suoi abitanti, mentre tonnellate di cemento si riversano in periferia, in quella che un tempo era la campagna romana.

«La grande villettopoli paventata da Antonio Cederna è diventata una realtà. La diffusione residenziale, potentemente favorita dal terzo condono, ha consumato oltre 10mila ettari di terreni agricoli», ha denunciato ieri Paolo Berdini, nel corso del convegno organizzato dal Comitato per la Bellezza, presieduto da Vittorio Emiliani, e dall'associazione Polis. Un dibattito vivace, svoltosi alla Biblioteca della Camera, sul tema delle trasformazioni in atto nella città e nelle periferie, al quale hanno partecipato eminenti studiosi e decine di comitati di quartiere. E dal quale è emerso un quadro allarmante, innanzitutto sullo spopolamento della Capitale. «Nel complesso, tra '91 e il 2001, sono stati 204mila gli abitanti della zona all'interno del Gra che si sono allontanati, trasferendosi nell'area metropolitana e nelle periferie più estreme», afferma Berdini. A svuotarsi non è stato solo il centro storico. Persino nella vecchia periferia romana, quella nata negli anni '60 e '70, gli abitanti sono diminuiti del 9,4percento. Intanto i rioni più belli della città sono assediati da uffici, centri commerciali, pub e fast-food, da strutture ricettive. Restano i palazzi delle massime istituzioni dello Stato e quelli delle banche, resta il viavai di centinaia di migliaia di lavoratori. E i residenti devono fare i conti con il degrado, il rumore l'invasione di «un'offerta di ristorazione sempre più aggressiva e volgare». Per dare conto del calo demografico, Berdini cita i dati sull'offerta turistica: a Roma nel 2002 era nel complesso di 94mila posti letto, il 70% dei quali nel centro storico. Come intervenire, allora? «I provvedimenti di divieto di accesso carrabile nelle ore serali o della vendita di bevande in contenitori di vetro sono strumenti del tutto inefficaci ad affrontare il problema. Serve un piano d'insieme - sostiene Berdini - anche con provvedimenti d'emergenza, ad esempio per contrastare il tavolino selvaggio. È indispensabile lo svuotamento di funzioni pubbliche e il riuso residenziale degli immobili oggi occupati, la pedonalizzazione dell'intero centro e la soluzione della sosta dei residenti». E poi ci sono i grandi progetti da attuare, come quello «del Parco dei Fori, colpevolmente abbandonato da un decennio». «Invece si continuano ad assecondare le tendenze del mercato», conclude amaro l'architetto, che se la prende anche con il Nuovo Prg, il quale «prevede l'urbanizzazione di oltre 15mila ettari

di Marco Damilano

Una nuova Fiera affacciata sull'aeroporto. Un polo tecnologico all'avanguardia. Quartieri residenziali attrezzati di verde, centri commerciali e impianti sportivi. E poi 300 chilometri di binari. Interi palazzi da abbattere e riedificare. Ottantasette mila ettari di verde, contro gli attuali 82 mila. È il grande sogno di Walter Veltroni: passare alla storia come il sindaco del Piano regolatore che ha cambiato il volto di Roma. È, anche, il grande affare di inizio secolo. Una pioggia di miliardi. Tra i 15 e i 20 miliardi di euro in 15 anni (230-40 mila miliardi di vecchie lire). Una torta gigantesca che taglia trasversalmente forze politiche e imprenditori. Subito dopo il fischio di inizio della lunga partita che da qui al 2004 porterà all'approvazione definitiva del Piano (con la firma del presidente della Repubblica), due settimane fa in giunta si sono scatenati appetiti e polemiche. Si capisce: l'ultimo piano regolatore, firmato da Luigi Piccinato, risale al 1962, esattamente quarant'anni fa. Non fu neppure discusso dal consiglio comunale: la proposta del gruppo tecnico costituito dal sindaco dell'epoca, il democristiano Salvatore Rebecchini, fu adottata dal commissario prefettizio e promulgata con legge nel '65. Per trovare un piano approvato dall'aula Giulio Cesare bisogna risalire a 100 anni fa, al 1909, al sindaco Ernesto Nathan. A seguire il lungo cammino del Piano c'è un tandem composto da un vecchio urbanista e un giovane politico. L'urbanista è il bolognese Giuseppe Campos Venuti, negli anni Settanta assessore al comune di Bologna, punto di riferimento di generazioni di tecnici della progettazione delle città, il papà del piano. Il politico è il giovane assessore al Territorio Roberto Morassut, diessino, pupillo di Veltroni, incaricato di gestire politicamente l'approvazione del Piano. Una scommessa da brivido. Nel suo ufficio a due passi dal Circo Massimo, nelle stanze in cui negli anni Ottanta un assessore democristiano usava mettere a tutto volume un disco di musica classica al momento di chiedere la tangente per disturbare eventuali registrazioni, Morassut dispiega la pianta della Capitale del futuro: "La vecchia Roma centralista si reggeva sull'equazione burocrazia più mattone. Una città fondata sugli impiegati: i ministeri offrivano il lavoro, i palazzinari la casa. Tutto questo non esiste più. La nostra idea strategica si chiama centralità. Nuovi progetti urbanistici che puntano a creare tanti centri in periferia. È una sfida che facciamo all'imprenditoria locale: alzate il livello, costruite infrastrutture, una città in cui sia facile muoversi e ci sia una maggiore qualità sociale". No ai quartieri dormitorio, sì a quartieri verdi dove si possa abitare, dunque. In più, c'è una gigantesca operazione di ristrutturazione edilizia che passa per l'abbattimento e la ricostruzione della cosiddetta "città compatta", fondata sul cemento armato: Tuscolano, Prenestino, Casilino, Tiburtino. "Non è più la rendita che guida, ma l'amministrazione che guida", aggiunge Morassut. "Un'idea dirigista", attacca il consigliere comunale Claudio Santini, uomo di punta di Forza Italia nella commissione urbanistica del Campidoglio. "In questo modo i Ds diventano i grandi regolatori del traffico di affari di Roma. Mettono le mani sulla città, per usare una citazione cinefila cara al sindaco". Certo, il Piano ha risvegliato dal torpore gli imprenditori romani. E non solo. A ogni centralità, a ogni nuovo quartiere, a ogni schizzo sulla mappa corrisponde una corposa rete di interessi. C'è il gruppo Caltagirone che si sta spostando rapidamente dal mattone al ferro. Della vecchia attività edilizia resta nel Piano il quartiere di Tor Pagnotta, la cui cubatura cala da quattro milioni e mezzo di metri cubi a un milione e mezzo. In compenso, però, il gruppo è impegnato con la società Vianini nella zona di Tor Vergata e nella rete della metropolitana. In più, partecipa con le Ferrovie dello Stato nella società Grandi Stazioni alla costruzione della nuova stazione Tiburtina, che con l'alta velocità dovrebbe diventare la più importante della capitale, e alla gestione di Roma Termini, dove dovrebbe nascere un mega-parcheggio sopraelevato. Un feeling con la giunta Veltroni che, dicono i maligni, sarebbe all'origine dell'arrivo alla direzione de "Il Messaggero" di Paolo Gambescia, amico del sindaco. Ci sono poi nuovi imprenditori, aggressivi, decisi a non farsi scappare l'occasione: il gruppo Lanaro dei fratelli Toti (di Pierluigi si è parlato come possibile nuovo presidente della Roma, al posto di Franco Sensi) si è aggiudicato la nuova Fiera a Ponte Galeria, un milione e mezzo di metri cubi, progettato dall'architetto Masino Valle, che comprende le strutture fieristiche, gli alberghi e un parco fluviale sul Tevere, oltre alla Bufalotta. Questo quartiere in zona nord è stato al centro di alterne vicende alla fine dei ruggenti anni Ottanta, quando fu acquistato da un fantomatico mister Bond australiano, poi fallito. Adesso si presenta come una potenziale Milano due in salsa romana, ed è stata ribattezzata con enfasi "la porta di Roma". Il progetto, disegnato in modo avvenieristico, prevede boulevard e campi sportivi. Ci sono poi i milanesi del gruppo Pirelli-Telecom di Marco Tronchetti Provera. Proprietari del terreno Romanina, la zona dove negli anni Ottanta si era progettato di costruire il nuovo stadio da 100 mila posti. E dove ora il Comune sogna la nascita di un polo di ricerca, con lo spostamento del centro studi Donato Menichella di Bankitalia, del Centro nazionale ricerche, dell'Enea e dell'agenzia aerospaziale. In un'altra zona di proprietà Pirelli, il quartiere Acilia, vicino Ostia, il Comune proverà a trasferire, d'accordo con l'Università Roma Tre, alcune strutture per gli studenti. Ci sono poi le proprietà dello Stato e degli enti pubblici. Il quartiere di Pietralata, dove dovrebbero traslocare un pugno di ministeri (Agricoltura, Ambiente), l'Istat e la provincia di Roma, l'Ostiense dove si sposteranno gli uffici del Comune (il cosiddetto Campidoglio 2), le tre università. C'è infine, naturalmente, il Vaticano. Che dispone di proprietà diffuse sul territorio, a macchia di leopardo. Appartengono soprattutto a Propaganda Fidae, sotto la responsabilità del cardinale Crescenzio Sepe, già uomo-chiave del Giubileo, una vecchia conoscenza degli amministratori romani. Il problema più spinoso si chiama Cesano: zona extraterritoriale, ricolma di antenne nocive per la salute degli abitanti, già al centro di un clamoroso braccio di ferro con lo Stato italiano. Senza troppi clamori, Veltroni sta spingendo per trovare una soluzione alternativa alle antenne: un patto con il Vaticano per eliminare il problema. Accordo difficile. Un ginepraio di interessi in cui non è facile districarsi. E infatti, a piano appena presentato, è cominciata la bagarre. Il primo scontro è interno alla maggioranza: tra Veltroni che vuole accelerare e una parte della Margherita (i popolari del vicesindaco Enrico Gasbarra) che frena. Ma anche all'interno di An si confrontano anime diverse: grazie a una leggina regionale approvata dal centro-sinistra, la competenza sul via libera al Piano doveva passare a partire da quest'anno alla provincia (governata da un uomo di An Silvano Moffa). Ma la regione Lazio, cioè Francesco Storace, ha fatto finta di niente e non intende mollare. In gioco c'è la possibilità di condizionare il Comune alla vigilia della prossima campagna elettorale. E anche la candidatura a sindaco del centro-destra, che potrebbe essere contesa proprio da Moffa e Storace. E Forza Italia? Nel giro dei costruttori, gente poco ideologica e molto attenta al pratico, si riconosce che la giunta Veltroni ha rimesso in moto l'occupazione e "l'indotto". Così, all'opposizione, non resta che strepitare contro "la mancanza di trasparenza" del Comune che non fa conoscere i dettagli del Piano. Ma la vera differenza potrebbe farla Palazzo Chigi. Silvio Berlusconi promise un anno fa un finanziamento straordinario di 13 mila miliardi di lire per Roma se avesse vinto il suo candidato Antonio Tajani. Ora Veltroni lo incalza. Se convince anche il Cavaliere può davvero cambiare Roma.

Da quasi dodici anni il comune di Roma è impegnato nella formazione del nuovo piano regolatore. Adottato nel marzo 2003, è ancora lontano dalla definitiva approvazione. L’esperienza si colloca in uno spazio politico e culturale ambiguo: non a caso, “pianificar facendo” è l’ossimoro utilizzato per definire l’urbanistica romana degli ultimi anni. La prima osservazione dell’articolo di De Lucia riguarda l’assenza di ogni riferimento all’area metropolitana. Il nuovo piano regolatore è rigidamente chiuso dentro il confine comunale. Eppure, Roma è l’unico polo attrattore del territorio provinciale, l’imbuto verso il quale convergono la maggior parte dei flussi pendolari e delle merci. È costante da decenni la perdita di abitanti (la popolazione attuale è inferiore a quella di trent’anni fa), mentre continua a crescere il numero dei posti di lavoro, con conseguente abnorme sviluppo della pendolarità. La critica principale al piano riguarda però il consumo del suolo. Ormai da anni la capitale non è più un’isola nella campagna, ma una vasta agglomerazione saldata ai comuni limitrofi e dilatata a macchia d’olio in ogni direzione. Il consumo del suolo è avvenuto, e prosegue, con ritmo accelerato. Il mitico paesaggio della campagna romana sopravvive solo per disarticolati brandelli. Il nuovo piano doveva essere l’occasione, osserva De Lucia, per un’analisi critica del rovinoso modello di sviluppo e per porvi rimedio. Il perimetro della città attuale doveva essere assunto come invalicabile. Così non è stato. Nel 2011, anno assunto come riferimento per l’attuazione del piano, si prevedono circa 15 mila ettari di nuova urbanizzazione (si consideri che il territorio comunale di Napoli misura meno di 12 mila ettari), senza che sia documentato il bisogno di tanto spazio. Un’altra critica importante al piano riguarda la forma urbis. Il vecchio piano regolatore del 1962, per tante ragioni indifendibile, era però fondato su una spettacolare idea di città: accanto alla Roma storica, nei settori della periferia orientale doveva prendere corpo la città moderna, destinata a ospitare i ministeri e le altre attività terziarie, riservando il centro alla residenza e alle più pregiate funzioni di rappresentanza istituzionale. Quest’idea è stata accantonata nel corso degli anni, il nuovo piano è privo di ogni indirizzo e non trova di meglio che prevedere una ventina di cosiddette nuove centralità, dove dovrebbero concentrarsi la direzionalità grande e piccola, pubblica e privata, i servizi e le attività commerciali. Disposte a corona, le nuove centralità rafforzeranno il carattere eternamente centripeto di Roma. Del tutto abbandonato dal nuovo piano è anche il progetto Fori, accuratamente descritto da De Lucia, che non era solo una straordinaria operazione di archeologia urbana, ma il punto di partenza per un radicale rinnovamento dell’urbanistica romana, ponendo la storia al centro dell’immagine della città. L’articolo ricorda infine l’azione condotta da Italia nostra e da altri per evitare che le previsioni del vecchio piano regolatore fossero considerate diritti acquisiti, con conseguenze disastrose per la città.

L’urbanistica liberista è stata alimentata -al pari di altri segmenti del pensiero neoconservatore- di un forte impianto ideologico. Il principale di questi attributi è consistito nell’attribuire al piano urbanistico i vizi di rigidità e di scarsa aderenza al mercato. Solo l’iniziativa privata poteva avere gli strumenti per rendere realizzabili interventi altrimenti destinati al fallimento proprio per il vizio d’origine, e cioè quello di derivare da una matrice pubblicistica. Il caso che illustriamo dimostra finalmente che il re è nudo e che il castello di bugie su cui era costruita l’urbanistica contrattata si è dimostrato soltanto il modo più efficace per abolire qualsiasi discussione nella società e far trionfare la proprietà fondiaria.

“Laurentino 38” è uno dei quartieri di edilizia pubblica più grandi di Roma. Progettato all’inizia degli anni ’80 da un grande architetto come Pietro Barucci, esso è articolato su una serie di percorsi pedonali che attraversano per nove volte la sottostante strada carrabile che attraversa l’intero quartiere: sono i cosiddetti “nove ponti”, strutture che contengono spazi per negozi e uffici pubblici e privati, per raggiungere quella qualità e integrazione urbana che è alla base del pensiero urbanistico moderno.

Già sulla stessa volontà di ipotizzare un qualsiasi uso differente degli spazi pubblici si è concentrata la prima offensiva ideologica. Obiettivo principale della riqualificazione era “superare la logica parcellizzata costruita dall’impianto originario per insule cui fa riferimento l’elemento centrale del ponte; creare una dimensione urbana unitaria che consenta il formarsi di una vita sociale ed economica”. Proprio così, è scritto nel documento del comune di Roma.

Il secondo capitolo dell’offensiva neoliberista ha sfruttato al meglio lo stato di degrado in cui versano tre ponti. Essendo stati occupati da senza casa o da centri sociali, versano in uno stato di totale assenza di manutenzione. L’abilità è stata quella di dichiararli origine di ogni male e chiederne conseguentemente la demolizione, mentre necessitavano soltanto di una visione pubblica, di recupero sociale e fisico. E infatti, coloro che si opponevano alla demolizione argomentando che era sufficiente recuperarli e inserirvi funzioni pregiate, come uffici pubblici o servizi sociali, furono dipinti come esponenti dell’urbanistica pubblicistica ormai inutile. L’unica salvezza sarebbe stata quella di affidarsi ai privati. I tre ponti verranno demoliti, ma –per rientrare delle spese- al loro posto verranno costruiti (da privati) 50.000 metri cubi di nuove attività prevalentemente commerciali e per uffici.

Il bello lo scopriamo oggi. Il sito dell’Assessorato romano delle Periferie afferma che al fine di riqualificare il quartiere, in questi nuovi edifici troveranno posto le seguenti funzioni: la scuola infermieri gestita dal vicino ospedale S. Eugenio che già occupa uno dei ponti e i cui “locali attualmente in dotazione sono molto ridotti e avrebbe bisogno di espandersi”; un posto di Polizia e infine un Ufficio postale. Era proprio quello che proponevano coloro che si opponevano alle demolizioni! Riempire di alcune funzioni pubbliche i ponti degradati: la riqualificazione sarebbe venuta di conseguenza.

Oggi si tocca con mano quale sia stato il ruolo ingannevole dell’offensiva ideologica: mascherare dietro parole d’ordine vuote quanto accattivanti (la lotta al degrado e la liberazione delle forze private) una speculazione edilizia vecchia maniera in cui a pagare sarà l’intero quartiere Laurentino. La vicenda è dunque paradigmatica del fallimento delle teorie neoliberiste della privatizzazione delle città: speriamo soltanto che gli attori di questa vicenda abbiano almeno l’onestà intellettuale di riconoscere il fallimento e aiutare al ritorno ad una visione pubblica delle città.

Mi piacerebbe che solo un centesimo dei fiumi d’inchiostro versati sulla questione Meier-Ara Pacis fosse dedicato a ciò che sta succedendo sull’altra sponda del lungotevere, un po’ più giù, all’angolo tra via della Lungara e piazza della Rovere. Qui si è da poco impiantato un cantiere ed è già stato demolito il piccolo manufatto costruito su un relitto del nefasto sventramento con cui erano state a suo tempo tagliate via Giulia e la Lungara e che valeva solo per il frontocino baroccheggiante che lo sovrastava. Poi, in uno dei punti focali più in vista del centro storico, sorgerà un moderno palazzo di sei piani con relativo scavo per interrato e fondazioni. Siamo vicino al bastione e alla porta del Sangallo, di fronte a San Giovanni dei Fiorentini e all’elegante “confetto succhiato” della sua cupola, sulla testa del rettilineo che un tempo si chiamò anch’esso Via Julia, perché voluto da Giulio II in simmetria con la prestigiosa via sull’altra sponda del Tevere, sulla strada di Palazzo Corsini, della Farnesina e dell’Orto Botanico. Siamo anche sul terreno che separa il fiume dalla domus imperiale, detta “di Agrippina”, scoperta durante i discussi lavori giubilari per la rampa del Gianicolo. Insomma, tutto dovrebbe portare a grande attenzione e cautela prima di procedere a qualsiasi opera. Sarebbe in primo luogo necessario uno scavo archeologico per esplorare una possibile estensione verso la sponda del Tevere della domus e dei suoi affreschi.

Segnalai già questa necessità nella riunione della Commissione edilizia che si riunì eccezionalmente in sessione plenaria per esaminare il progetto nel giugno 2001, quando ci fu un’accesa discussione perché esso era stato prima respinto da una Sezione della Commissione stessa nel marzo 1999 e poi approvato a maggioranza in un’altra, nel febbraio 2001. La Commissione, che si poteva pronunciare solo sulla qualità architettonica dell’intervento e sul suo inserimento nel contesto urbano, manifestò diverse posizioni, ma concordò comunque su un punto: quello di trovarsi di fronte a “un momento importante della storia della città”. Ora vorrei sapere se le varie soprintendenze hanno aggiornato i propri pareri, visto che a quel tempo esistevano solo quelli espressi su elaborati precedenti alla scoperta della domus e dei suoi affreschi. In secondo luogo mi chiedo, e chiedo, se un intervento del genere possa realizzarsi solo sulla base della rispondenza o meno alle norme tecniche e non anche su una piattaforma culturale condivisa per il centro storico cittadino, che vede improvvisamente riaprirsi con un fatto compiuto la discussa e lungamente accantonata questione dei suoi cosiddetti “buchi”, da riempire o meno con edilizia contemporanea.

Mi piacerebbe, appunto, che la vasta nomenclatura che si è cimentata col progetto Meier si pronunciasse più in generale sulla legittimità culturale e sulla presenza o meno del moderno in centro storico, anche se posso già immaginare le varie posizioni. Ci sarà infatti chi invocherà la Rinascente di Albini, i vetri bronzei dell’hotel Jolly di Corso Italia o le sopraelevazioni di Ridolfi e ci sarà la pressione degli architetti per “lasciare il segno” nel centro, non accontentandosi di tutto il resto della città. Ma si potrà anche sorvolare sul pericolo di un’edilizia del tipo palazzo dei Monopoli dietro piazza Mastai e altri fattacci del genere, passati o possibili futuri. A mio giudizio l’intervento alla Lungara, che lo si consideri qualificato o meno, può dare l’avvio a molti episodi pericolosi per il delicato cuore della città. Sono rimasto colpito da un recente giudizio di Benevolo, alla presentazione del suo ultimo libro riguardante San Pietro e la spina dei Borghi, sull’inadeguatezza dell’attuale normativa per il centro cittadino e degli strumenti di cui l’Amministrazione dispone e sono anche perplesso sulla pur affascinante proposta del professore di ricostruire quella spina, proprio per l’inadeguatezza che egli denuncia e per quella piattaforma culturale condivisa che credo non ci sia. E per quanto riguarda i famosi “buchi” credo che eventualmente valga molto di più progettarli come vuoti che come pieni e che sia da riprendere la metodologia che Insolera propose nel 1969 partecipando provocatoriamente al concorso per piazza del Parlamento non col progetto architettonico di un nuovo edificio, ma con una soluzione urbanistica di quello spazio e dei suoi dintorni.

Il rilancio dell’urbanistica

La differenza tra le esperienze urbanistiche di Milano e Bologna e quella romana sta tutta nello stato d’animo di chi ha il compito di svolgere la relazione introduttiva. I due relatori che mi hanno preceduto, infatti, hanno sottolineato con forza e con sdegno le distorsioni prodotte da una prassi che demolisce la pianificazione sull’altare di una contrattazione continua con la proprietà fondiaria.

Non si può dar loro torto, poiché criticano quello stesso schieramento politico che nel breve volgere di un anno ha sconvolto il panorama legislativo nazionale. La legge sulla privatizzazione dei beni immobiliari pubblici prevede la possibilità di variante urbanistica mediante accordo di programma per valorizzare (così recita l’articolo 14, comma 3) i beni da vendere. Con la legge sulle grandi opere si abolisce di fatto ogni vincolo paesistico e ambientale: basta essere inseriti nell’apposito elenco delle opere strategiche per superare qualsiasi tutela. Con la introduzione della “super dia” è permesso demolire e ricostruire anche nei centri storici con una semplice segnalazione al comune. La valutazione di impatto ambientale è di fatto abolita. E mentre si avvia la svendita del patrimonio culturale per fare cassa, nel Lazio si vuole restituire alla speculazione una parte delle aree tutelate dai parchi. Lo sdegno è dunque il sentimento adatto per giudicare l’operato delle forze della destra.

Il mio stato d’animo non può essere lo stesso. Dovrò elencare una serie di gravi alterazioni della prassi pianificatoria che a Roma ha preso il nome di “pianificar facendo”, che non differisce affatto dai due precedenti casi. Anzi a ben guardare è la più sistematica operazione culturale di demolizione dell’urbanistica mai tentata fin d’ora, anche per la contiguità fisica e culturale tra le persone che hanno contribuito alla redazione dei nuovi strumenti di intervento in deroga che il Ministero dei Lavori pubblici ha emanato negli anni ’90 e quelle che hanno costruito la nuova disciplina urbanistica romana.

Ma Roma rappresenta contemporaneamente la più solida speranza di un’alternativa al governo delle destre. Per questo motivo, insieme alla critica severa non è mai mancata in nessuno di noi la consapevolezza di non fare regali a coloro che renderebbero ancora peggiore la qualità del governo urbano. Anche nei momenti di maggiore attrito si è sempre mantenuto un atteggiamento teso alla correzione di quelli che consideriamo errori gravi.

In quest’ultimo periodo, per la verità, siamo in presenza di segnali che non sottovalutiamo. Il sindaco Veltroni è intervenuto spesso nella vicenda urbanistica dimostrando di avere a cuore le critiche che si muovono in molte parti della società romana. Svolgerò la mia relazione nella speranza che si possa ancora cambiare una proposta di piano regolatore che non convince la città.

Una questione preliminare: i numeri

Se poniamo con forza una questione di numeri del piano è perché ci troviamo di fronte ad una contraddizione insanabile. Una città che conferma il forte declino demografico viene allo stesso tempo sottoposta ad una previsione edificatoria che è pari a quella che venne realizzata nel periodo 1981/1991. Allora furono realizzate 135.000 nuove abitazioni, pari a circa 40.000.000 di mc. Oggi i documenti ufficiali del nuovo piano ci dicono che la manovra complessiva è pari a 69 milioni di metri cubi, equamente suddivisi tra residenze e servizi.

Appare evidente che la città viene condannata a un destino insostenibile, anche perché il consumo di suolo aumenta vertiginosamente proprio per le caratteristiche culturali del piano. Di recente le associazioni ambientaliste hanno presentato un approfondito studio da cui si evince che a fronte dei circa 40.000 ettari di territorio urbanizzato al 1998 si aggiungono altri 11.000 ettari, ma a fronte di una percentuale di aumento di volume sull’esistente pari al 9,2%, si arriva ad un valore del 19,8 % di incremento di consumo del suolo: è la conseguenza del meccanismo della “ compensazione urbanistica” come vedremo in seguito. Resta il fatto che se ai 51.000 ettari se ne aggiungono ulteriori 5.000 relativi a tutte le aree urbanizzate presenti all’interno dei perimetri dei parchi, si ha che la superficie urbanizzata totale al 2011 è pari al 43 % dei complessivi 129.000 ettari del territorio romano. Restano dunque 73.000 ettari di spazi aperti: ma essi sono parzialmente a rischio per l’indeterminatezza della normativa tecnica del piano (come ad esempio per le aree ferroviarie).

Lo ripetiamo, questa prospettiva è insostenibile a fronte dell’enorme spostamento di popolazione nella fascia metropolitana: qui è la prima censura verso l’impostazione del piano, e cioè l’abbandono di qualsiasi prospettiva di assetto metropolitano, proprio oggi in cui tutti i fenomeni -dalla mobilità alla demografia- si comprendono soltanto se si guarda al di là dei confini di Roma.

Dalle relazioni allegate alla nuova proposta di piano leggiamo poi che circa 40 dei 69 milioni previsti sono già stati decisi dalla cultura del pianificare facendo, e cioè attraverso la versione romana del liberismo applicato all’urbanistica. Nessuno sembra chiedersi quando e perché sia stata decisa una così colossale colata di cemento. E’ invece fondamentale comprenderne motivazioni e strumenti utilizzati ai fini operativi.

Quaranta milioni di metri cubi e “diritti acquisiti”

Sono tre i periodi in cui si può suddividere la storia urbanistica di questi ultimi anni. Ciascuno di questi periodi ha utilizzato un concetto chiave, nell’ordine i diritti acquisiti, le centralità e la compensazione, su cui svolgeremo alcune riflessioni.

Il primo periodo è quello, così si affermò, relativo all’anticipazione del nuovo disegno di piano. Si disse che l’avvio di alcune trasformazioni era coerente con gli assunti teorici del nuovo piano.

Sono cinque i quadranti urbani interessati da quelle decisioni. Alla Bufalotta oltre a due consistenti piani di zona si prevede la trasformazione dell’ex autoporto. La conseguenza sarà la saldatura del quadrante nord sul Gra, mentre l’intera area è priva di trasporti su ferro. Al Collatino si concentrano il nuovo mercato agroalimentare, il polo tecnologico, il grande quartiere privato di Ponte di Nona e una grande area commerciale. La conseguenza sarà la saldatura con Guidonia-Zagarolo, mentre è assente il trasporto su ferro. A Cinecittà si avviano due nuovi piani di zona, l’area commerciale Ikea e altre localizzazioni terziarie. La conseguenza sarà la saldatura con Frascati. Il comprensorio è solo lambito dal sistema su ferro. Al Laurentino oltre al piano di zona di Tor Pagnotta e al polo sanitario privato a Trigoria si pensa di avviare la lottizzazione privata di Tor Pagnotta. La conseguenza sarà l’accentuazione delle tendenze alla conurbazione con Pomezia. Il comprensorio non è servito dal ferro. Alla Magliana si è dato avvio alla edificazione delle aree Alitalia, al completamento dell’ex autoporto di Ponte Galeria e ad alcune attrezzature alberghiere. La conseguenza sarà la saldatura con Fiumicino. Il comparto è solo lambito dal sistema su ferro. Questi quadranti sono attualmente in fase di completamento: i loro effetti sull’organismo urbano si sentiranno pertanto a partire dalla metà del prossimo anno.

Gran parte delle decisioni sono state prese con varianti di destinazione d’uso mediante accordi di programma e si basavano su uno dei pilastri teorici del piano: che tutte le cubature residue del piano del 1962 fatte salve dalle varianti ambientali degli inizi degli anni ‘90 fossero “diritti acquisiti”. E’ invece noto che le leggi urbanistiche in vigore non contengono alcun riferimento di questo tipo: attraverso una rigorosa motivazione si possono cancellare previsioni giudicate superate o anacronistiche. Ma questa motivazione deve essere coerente: quando invece, come a Roma, si applica una politica di variazione discrezionale e continuativa non si è in grado di opporre coerenza. Nessun obbligo, nessun diritto, dunque, ma una deliberata scelta.

L’uso sistematico degli strumenti della deroga e “le centralità”

Il secondo periodo è relativo al sistematico uso dei cosiddetti programmi complessi e cioè l’insieme degli strumenti derogatori del piano regolatore ideati dal Ministero dei Lavori pubblici. Sottolineo ancore che a differenza di Milano e Bologna, Roma si pone in questo caso come la punta più avanzata della sperimentazione della cosiddetta nuova urbanistica: lo testimonia l’ampiezza delle operazioni avviate. Appartengono a questo periodo l’avvio di 5 programmi di riqualificazione urbana (Case Rosse, Borghesiana, Pigneto, Quadraro, Ostia Ponente) e di 11 programmi di riqualificazione urbana (Valle Aurelia, Fidene-Val Melaina, San Basilio, Labaro-Prima Porta, Tor Bella Monaca, Laurentino, Acilia, Magliana, Corviale, Primavalle-Torrevecchia, Palmarola-Selva Candida). In complesso altri milioni di metri cubi in variante: per quanto riguarda i primi stanno per iniziare i cantieri in questi giorni. I secondi saranno approvati tra breve dopo una defatigante opera di contrattazione con la Regione Lazio.

Il pilastro teorico che regge l’operazione è che in questo modo si sarebbe portata qualità nelle anonime periferie romane, e cioè che si sarebbero costruite “ centralità” e servizi che mancano. Credo al contrario che sia maturo il tempo in cui sottoporre ad un giudizio esente dalla vuota retorica questi programmi. Essi si basano sul principio della contrattazione urbanistica, ma il loro incipit pone una insuperabile ipoteca da qualsiasi prospettiva socialmente utile: la delega al privato della definizione degli obiettivi. So bene che vengono redatti programmi preliminari -tanto generici quanto elastici, peraltro- e anche nella fase della concertazione molto spesso i programmi vengono migliorati. Ma, appunto, se va bene si limitano i danni, non si costruisce una svolta: tant’è che in quelle desolate periferie verranno realizzati pochi edifici per uffici e molti nuovi insediamenti commerciali di media e grande dimensione che non rappresentano certo un modello culturale e sociale.

Del resto, anche se analizziamo quali siano stati le centralità fin qui concretamente realizzate si resta nel campo delle attività commerciali: Alla Pantanella ha aperto un Super Bingo, alla Bufalotta verrà realizzato la più grande superficie di vendita fin qui realizzata, alla Magliana i rari edifici terziari sono avulsi dal tessuto urbano, al Polo tecnologico, in attesa del Polo satellitare che colpevolmente si continua a negare a Roma, verrà realizzata una superficie commerciale.

C’è poi da osservare che la “cura del cemento” in atto non sembra giovare alle quotazioni di mercato. La rivista mensile della Borsa immobiliare, infatti, continua a produrre i dati storici dell’evoluzione del mercato edilizio romano da cui emerge che nel decennio 1992-2002 crescono molto i valori degli immobili localizzati nelle aree qualificate della città, mentre i prezzi nelle periferie al massimo sono stabili nel decennio, mentre più frequentemente accusano leggere flessioni: continuare ad edificare, dunque, non sembra una ricetta efficace né per la città nè per gli abitanti di quei luoghi.

Eppure nell’indifferenza generale esistono a Roma esempi di trasformazioni positive e di creazione di vere centralità: i due programmi di sviluppo dell’università di Tor Vergata e del terzo ateneo, dimostrano che un lungimirante progetto pubblico è l’unico strumento in grado di riqualificare la città. E’ un punto fondamentale per la ripresa di un pensiero progressista sulla città: il recupero del ruolo pubblico, di un pensiero alto che sappia interpretare bisogni e costruire le condizioni per attuarle. Certo che questa impostazione deve fare i conti con la limitatezza degli investimenti pubblici, ma mi chiedo se non sia arrivato il momento in cui non venga ponga finalmente come grande questione nazionale il destino delle città: Roma potrebbe porre tutto il suo peso in questa affascinante sfida.

Il nuovo piano e “la compensazione”

E veniamo alla terza fase, e cioè alla proposta di piano regolatore in discussione. Si comprende che è inevitabile una prima critica metodologica. All’interno degli elaborati di piano, infatti, le nuove trasformazioni previste sono state graficizzate allo stesso modo di quelle appartenenti ai primi due capitoli che invece sono ormai decisi e in gran parte attuati: chiediamo pertanto che venga fornita una chiara distinzione tra ciò che è stato deciso e ciò che è ancora in discussione e cioè, i residui trenta milioni di metri cubi. Non è un passaggio che allunga i tempi: con gli strumenti informatici questi elaborati possono essere prodotti in pochi giorni. Polis e Aprile sono per una rapida approvazione del piano, ma una discussione vera potrà avvenire soltanto se la città sarà messa in grado di capire. Del resto, è una questione di trasparenza e democrazia analoga a quella che l’assessore Morassut, gliene do atto con piacere, ha compiuto sulla questione delle cubature del piano: l’operazione di corretta quantificazione delle cubature effettuata è stato infatti un atto coraggioso.

Ma veniamo al merito: il piano in discussione inverte la china rovinosa che ho tratteggiato o la conferma? Credo che siamo sempre all’interno della stessa logica che contratta ogni trasformazione senza definire un quadro di coerenze. Molte delle norme rinviano a successive specificazioni, è il caso dei progetti urbani e dei programmi integrati di riqualificazione. In molte aree urbane strategiche non vengono specificate le trasformazioni previste, come nel caso degli enormi comprensori ferroviari di San Lorenzo. In altri casi si da il via a trasformazioni con una disinvoltura che rischia di mettere a repentaglio il patrimonio storico della città: è il caso degli ambiti di valorizzazione della città storica. Ancora, si consente un’ulteriore, definitiva, terziarizzazione del centro storico e della fascia all’interno dell’anello ferroviario perdendo di vista i destini dell’intera città.

Ma sono solo alcuni esempi: credo che non sia necessario che mi soffermi su dettagli tecnici che altri potranno fare meglio di me: il dibattito fornirà sicuramente molti suggerimenti che l’assessore potrà utilmente prendere in considerazione. Vorrei invece soffermarmi su tre questioni cruciali. La prima è come si affronta lo squilibrio tra l’eccesso di funzioni nel centro storico e la desolazione delle periferie. Mi sembra al riguardo che non sia stata colta l’occasione di un effettivo decentramento di funzioni pubbliche, né tantomeno di una posizione chiara sul progetto Fori, e cioè sull’idea di centro storico che si vuole perseguire: lo si abbandona all’attuale insostenibile congestione. Ne’ sembrano convincenti le centralità sparse in ogni dove (come a Massimina o nella lontana Gabi) e lasciate a funzioni ancora indeterminate proprio perché si è rinunciato a governare la leva pubblica.

Il secondo aspetto riguarda il modello che viene prefigurato: siamo di fronte ad una gigantesca macchia d’olio, e cioè un assetto che è congeniale alla moltiplicazione delle rendite, ma che non delinea un’idea alternativa rispetto all’attuale stato di crisi urbana. Anzi, dobbiamo rilevare un grave peggioramento del piano presentato dalla precedente amministrazione nella definizione di ulteriori aree di espansione urbana – gli ambiti di riserva edificatoria- che aggiungono alle conurbazioni già elencate anche quelle lungo la via Cassia, così da prefigurare una conurbazione con Anguillara e lungo la via Ardeatina.

Da ultima la questione del consumo di suolo che è intimamente legata ad un altro pilastro teorico del piano, “ la compensazione”. Vale la pena di ripeterlo, ma la quantità delle aree messe in gioco è insostenibile, non serve ad una città in declino demografico e non inverte la tendenza ad un progressivo impoverimento della periferia. Questo diluvio di cemento non sembra infatti portargli fortuna: la Borsa immobiliare ha certificato che la quasi totalità dei quartieri esterni di Roma hanno subito un decremento di valori immobiliari nel decennio 1992-2002. Occorre dire basta all’espansione e dedicarsi alla riqualificazione: questo è l’obiettivo. Anche perché attraverso il meccanismo della compensazione si aumenta esponenzialmente il consumo di suolo. A Tor Marancia, ad esempio, un partito politico che era favorevole alla completa edificazione ha ora proposto che venisse compensata la parte (400.000 metri cubi) che veniva realizzata lontano da quel meraviglioso comprensorio. Così i proprietari che ci guadagnano sono due e si consuma suolo prezioso.

Proprio in questi giorni il sindaco Veltroni ha rilasciato un’intervista al Messaggero in cui sancisce il definitivo tramonto dell’istituto della compensazione: è un passo importante per porre le basi per una profonda revisione del piano.

Una questione di democrazia

E torno per concludere alla questione principale. L’urbanistica -insieme a tanti esempi negativi che non vanno sottovalutati- ha permesso anche di creare città più vivibili e di contribuire alla maturazione di una coscienza civile. La discussione sul futuro della città deve riguardare tutti i cittadini e non solo gli addetti ai lavori. I nuovi strumenti dell’urbanistica hanno cancellato partecipazione e trasparenza: proprio a Roma sono stati decisi 40 milioni di metri cubi senza che il coinvolgimento sociale permettesse di costruire una città migliore e più vivibile.

Ecco dunque la grande occasione che ci permettiamo di sottolineare: il sindaco Veltroni può invertire questa china rovinosa per le forze di progresso e porre le basi per una rinnovata fiducia con la città. Del resto, e finisco davvero, la situazione romana è caratterizzata dallo svolgimento di una numerosa serie di assemblee sul piano regolatore: in esse si coglie un atteggiamento consapevole e maturo, ma non si coglie consenso verso questo piano.

Non cerchiamo scorciatoie o forzature: recuperiamo invece queste zone d’ombra invece di farle andare verso la deriva di un silenzioso distacco dalla politica e dall’impegno sociale.

Paolo Berdini

Franco si sveglia ogni sabato all'una, prende il camion da Forcella, Napoli, per venire a vendere a Porta Portese, Roma, le sue merci a buon prezzo. Pacchi di maglie e calze: "Togliere questo mercato? Seee... ma prima devono spostare il Colosseo". Franco si sbaglia. Nella pianta in 3D dell'assetto strategico del Tevere il mercato di Porta Portese non c'è. Il frammento di piano regolatore, già approvato, trasformerà in qualche anno la zona del più famoso mercato delle pulci d'Italia in un parco fluviale. Ci sarà la pista ciclabile, il filare di alberi, le terrazze panoramiche, ci sarà anche il vicolo dei biciclettari, salvato da un sindaco amante del cinema perché appariva nel capolavoro neorealista Ladri di biciclette. Ma il mercato, che esiste dal dopoguerra, è stato cantato da Claudio Baglioni, è entrato al pari di Fontana di Trevi nelle attrazioni turistiche della città e viene visitato da ogni italiano in gita, quello non c'è più. Nella pianta tutta colorata del piano regolatore, che censisce gli edifici da salvare della zona, resta il deposito degli autobus, reperto mastodontico di un'epoca oggi consegnata all'archeologia industriale. Qualcuno voleva farne un design hotel ma non c'è riuscito, perché nel corso degli scavi è stato trovato un mitreo. Resta l'edificio fascista che ora ospita il Cinema Sacher di Nanni Moretti, una trattoria nei locali di una corderia (perché tutta la zona fino alla fine dell'Ottocento era portuale), e resta un gioiello del '700: l'arsenale pontificio, simile a quello di Venezia ma infinitamente più piccolo, da anni occupato da una rivendita di materiali edili. Sarà che le pietre tranquillizzano e le persone meno: il progetto di "riqualificazione urbana" del comune di Roma salva tutto tranne i duemila mercatari e gli oltre 70 mila romani che ogni domenica, dal '51, i tempi della borsa nera, a Porta Portese vengono a risparmiare e a divertirsi gratis. Il fatto è che il mercato di Porta Portese è, sì, un'istituzione, ma al contrario del Colosseo, non è un monumento. Se lo fosse, si sarebbe forse salvato dalla furia urbanistica di fare ordine e "mettere a reddito" la zona di Trastevere. Magari sarebbe stato spostato, blocchettino per blocchettino, come i templi di Luxor sul Nilo o come la stessa porta di Urbano VIII da cui prende nome, la Porta Portese appunto, ricollocata insieme alle mura aureliane qualche metro più in là, alla fine del Seicento. Invece quell'agglomerato anarchico di robivecchi, giacche vintage, chioschi di kebab e ambulanti di frittelle, dove si trova di tutto, dal cellulare rubato alla pelliccia di seconda mano, dal francobollo di Stalin alla maniglia vecchia - non è un'opera d'arte. Non è nemmeno un pezzo di città, se assessori, architetti e politici oggi possono dire, con la baldanza di uno slogan, "Liberando Porta Portese restituiremo un pezzo di città ai cittadini". In seconda battuta, sottovoce, quasi tutti aggiungono: "E ai turisti". Certo non a Irina, falsa bionda e vera dura, slava, che al mercato la domenica viene a comprare ma anche a vendere: "A mia figlia ho preso il vestito della prima comunione dalla signora cinese. Aveva i pizzi e un fiocco vero, l'ho pagato 12 euro, in negozio costava più di 50". A vendere ci viene quando ha qualcosa di buono: cianfrusaglie, diresti a occhio, cose antiche dice lei: "Ci faccio quei 50, 100 euro che aiutano". Il mercato, da oltre venti anni, è diviso in due grandi aree: la parte nuova e la parte vecchia. E tra le due zone c'è un'antica ruggine: "Hanno trasformato il mercato in una jeanseria" dicono i vecchi, "siamo noi a fare il commercio, a portare la gente" rispondono i nuovi. I vecchi sono gli antiquari, che vendono preziosi, mobili, cornici, ma anche lampade di design, abiti da sera, rubinetti degli anni '40. La parte più estesa però è quella nuova, frequentata in massa da migranti, molti slavi che comprano vestiti da pochi soldi ma alla moda, molte famiglie filippine che riforniscono gli armadi dei figli, molti adolescenti a caccia di jeans taroccati. Qui, da qualche anno ormai, gli stranieri lavorano in pianta stabile: montano e smontano le strutture all'alba, friggono gli hamburger, vendono i giornali. L'amministrazione vuole conservare la parte vecchia e ridurre la nuova o, come dice l'assessore al commercio Daniela Valentini: "Tenere la storia e togliere la baraccopoli. Mettere a posto le cose insomma, che non vuol dire ingrigire il mercato, ma rilanciarlo". Altrove però, non qui. "C'è anche un problema di regole: l'ordine non è un fatto solo estetico o burocratico, l'abusivismo è un problema morale", continua l'assessore. Effettivamente a Porta Portese l'abusivismo è la regola, ma da quaranta anni: su oltre duemila operatori, solo 500 hanno la licenza, tutti gli altri si arrangiano, autoregolamentandosi, cedendosi i banchi, vantando anzianità, pagando anche, quando si deve, ai vigili urbani. "Lo so, ordine e disciplina può sembrare uno slogan della destra", ammette l'assessore. "Diciamo, allora, regole e fantasia. Anche perché mettere a posto un mercato sembra una contraddizione". E sì, perché un mercato ordinato è un supermercato. Il modello dell'assessore Valentini, comunque, non è certo il suq di Istanbul, che pure è pulitissimo: "Portobello a Londra è un modello che ci piace, è caratteristico ma al tempo stesso non è caotico. E poi sta in un posto adeguato". Ai mercatari l'amministrazione sta per promettere licenze. Per tutti. E dato che una licenza vale anche un miliardo, nessuno avrà da ridire nel caso in cui il mercato venisse trasferito in qualche periferia, lontano dai turisti. Per far fuori i mercati rionali a Roma, oltre una decina nel centro storico, la formula ufficiale è stata sempre la stessa: "Mercato in sede impropria". "Si tratta di capire impropria rispetto a chi. L'ordine non è un valore assoluto, e poi non è che tutti vogliono andare in bicicletta o possono permettersi una gita sul fiume", obietta l'urbanista Silvia Macchi dell'Università la Sapienza che a Roma ha lavorato sul contro-piano regolatore. "Ogni volta che vuole cambiare le relazioni di potere di una città, chi la usa, chi la controlla, per prima cosa cambia l'immagine. Finora nessuno ha pensato che Porta Portese non era al suo posto, adesso improvvisamente lo chiamano "luogo improprio"". Per spiegare Porta Portese riqualificata l'architetto Gennaro Farina, direttore dell'ufficio Centro Storico di Roma che sta progettando il restyling, mostra una stampa del 1748 dove si vedono orti e barchette: "Riqualificare significa elevare. Mettere in luce i monumenti, e in questa zona ce ne sono di bellissimi: costruiremo una lunga passeggiata che dall'Aventino andrà a Porta Portese, con un ascensore per salire al giardino degli Aranci e il porticciolo da dove prendere il battello per navigare il fiume". Quel che l'architetto non dice è che il progetto di restyling non è stato ancora finanziato e i soldi non si sa da dove verranno. "La valorizzazione di cui si parla è soprattutto di natura economica", ribatte Silvia Macchi: "Saranno consentite demolizioni, cambi d'uso, cubature nuove". Una opportunità per i costruttori insomma, il parco fluviale potrebbe essere la loro foglia di fico. Ma le polemiche sono soprattutto sulle valenze "culturali" dell'operazione: "Vogliono una città borghese e per borghesi, con grossi marciapiedi per camminare, alberi, cancellate a difesa dei luoghi. È lo stesso modello urbanistico che vuole fare di piazza del Popolo un salotto, e che a piazza Vittorio, anch'essa risanata, non ha voluto le panchine per evitare che ci vadano a dormire gli extracomunitari", conclude Macchi. Il sospetto è che il modello culturale di riferimento finisca per assomigliare all'aulica New Architecture del principe Carlo d'Inghilterra: separare ciò che è antico, vale a dire ciò che è ottocentesco, da ciò che è venuto dopo. Come se la storia si fosse fermata. Per Nando, benzinaio a Porta Portese, la storia invece si è fermata al '51: "Quando vedo arrivare la gente che viene qui a risparmiare qualche soldo, penso ai nostri nonni, vedo l'Italia che ricostruiva e sgobbava nel dopoguerra. I turisti vengono per questo, vengono a vedere la vita di Porta Portese. L'Arsenale sarà pure bello, ma è morto, ha fatto il tempo suo. E poi dicono che il mercato è sconcio. Ma è solo antico: non ce l 'hanno forse trovato?".

Trascorsero una guerra e un quarto di secolo prima che qual sogno si realizzasse. Quella della Pianura pontina fu una operazione di ingegneria territoriale, sociale ed economica (di pianificazione) confrontabile con quelle che, negli stessi anni, avvenivano negli USA, nel regime roosveltiano del New Deal, per reagire alla crisi del sistema capitalistico.

Oggi la terza fase della trasformazione dell'Agro romano avviene con gli interventi causali dell'esplosione metropolitana: una delle forme di "megalopoli"?

v. Illusioni.

La questione è rimasta giovane pur essendo vecchia di secoli.

Roma è cinta di un deserto, che l'avvolge come un sudario, dal quale la sua testa emerge magnifica di una bellezza immortale. Una poesia dolorosa sale da quella campagna calva e squallida, senza paesi e senza case, interrotta da lugubri stagni, solcata da rivoli morti, rigata da stecconati, dentro i quali mandre di buoi e di bufali, dall'occhio selvatico e dal pelo ispido, guardano sospettosi il raro viandante o si voltano fremendo al fischio della vaporiera. Il pensiero si turba e s'interroga attraversando quel deserto, così muto e così pieno di memorie, mentre nella nostra anima moderna si alza alteramente un nuovo problema di conquista e di creazione.

Può Roma, ridivenuta capitale d'Italia, una nazione giovane e ardente al lavoro, profonda d'istinti ed arsa da tutte le febbri della modernità, rimanere così separata dalla patria, che per giungervi si debba ancora attraversare una solitudine quasi preistorica difesa dalle febbri contro ogni imprudente temerità di lavoro? Può ancora la grande metropoli portare stretto sui lombi questo cinto di dolore e di miseria, mentre la sua vita si gonfia a tutti gli aliti di una nuova primavera, e un'altra grandezza si prepara alla sua opera di capitale che può contenere il Papa e il Re, tutto quanto ancora ci resta di universale nello spirito delle genti e di più individuale nel monarca che unificò la sua storia e incarna la sua vita politica?

Qualche giorno fa la Camera discusse il problema dell'Agro.

Il sogno è di ridurlo una campagna florida, ondeggiante di messi e di alberi, sparsa di case e di paesi, solcata da canali e da strade; gli oratori si smarrirono fra le illusioni del passato e quelle dell'avvenire, ricostruendo su scarsi ed incerti frammenti di autori latini la storia agricola dell'Agro, o fantasticando dietro qualche affermazione di autore moderno sulla prossima ubertosità del suo deserto ancora consacrato ai silenzi della morte. Una dialettica monca ed aspra battaglia nel problema, a seconda dei partiti, si accusa tutto e tutti, dai barbari delle invasioni ai pontefici che pur :mantennero a Roma un primato universale, dai feudatari del medioevo ai latifondisti di oggi, dimenticando che il problema ha caratteri ben più originali e difficoltà più profonde.

Qualunque possa essere stata ai tempi belli della repubblica e dell'impero l'ubertosità dell'Agro, questo è ben certo, che i romani non furono mai un popolo agricolo e che intorno a Roma, troppo ingrossata di ricchezze e di vizii, la campagna non poteva avere che una vita riflessa del suo fasto e delle sue dovizie. Non si sa bene che intorno a Roma vi fossero città importanti e viventi di una propria prosperità industriale ed agricola: vi erano forse più ville che paesi, più schiavi che cittadini, più splendore di eleganze che vivacità di prodotti, più letizia di arte e gloria di monumenti che effervescenza di libero lavoro e originalità indigena di produzione.

Infatti bastò che Roma cadesse, perché tutto rovinasse nell'Agro senza speranza di resurrezione. Evidentemente le condizioni naturali di questo erano tristi e difficili, se un contraccolpo di sventura politica poté tutto isterilirvi; e quando, dopo l'invasione dei barbari, assodata la sua lava, ricominciò per tutta Italia, nell'epoca dei Comuni, il nuovo lavoro di fecondazione, l'Agro rimase ancora un deserto. Feudatari potenti e feroci vi si combatterono, ma il Comune non poté, come altrove, assorbirli e digerirli; i Pontefici avvicendarono sul loro trono tutta la varietà dei temperamenti e degli ingegni, dei vizi e delle virtù; ma da Roma non una irradiazione di fecondità arrivò alla campagna, oda questa una originalità di lavoro a Roma. Mancava nell'Agro la vita comunale e quella agricola e l'altra dell'industria e del commercio; il suolo era malato, e i radi paesi vi parevano appena fortezze o ospedali per un popolo d'infermi. L'infallibile istinto della vita lasciò stendersi sui campi la zolla pratile come un tegumento protettore; la popolazione si rarefaceva, e quindi i possedimenti si allargavano; il lavoratore ridiscendeva verso la barbarie della preistoria, non essendo oramai più che un pastore o un mandriano, mentre il padrone a Roma, senza personalità di cittadino nella città dei Papi, non aveva altri legami colla terra che quelli di una sovranità territoriale o di una curiosità di cacciatore.

Così Roma arrivò sino ai nostri giorni. Se lo stato pontificio era un muraglione cinese che impediva il contatto fra il Nord e il Sud d'Italia, e adesso l' inferiorità civile del Mezzogiorno non ha forse spiegazione più vera di questa, a Roma la politica dei Pontefici faceva un cinto d'ignoranza col misoneismo, e intorno a Roma l'Agro raddoppiava quel cinto col proprio deserto di morte.

Come improvvisarvi oggi una campagna ubertosa quanto la Lombardia, o ingegnosa quanto la Toscana? Invece vi manca il personale agricolo e cittadino; mancano le case dei coloni, i loro centri di scambio, i focolari d'interessi e d'idee, l'amore della terra e la fede nel lavoro. I latifondisti, a che accusarli? Non potrebbero improvvisamente mutare se stessi in industriali agricoli, mancando per questa improvvisazione nella medesima misura di capitali intellettivi ed economici; l'acqua e l'aria sono del pari insalubri; la poca gente non vi ha alcuna tradizione di campo o di bottega: Un governo che sappia, e sappia veramente volere ciò che sa, deve adesso guardarsi sopratutto dal sogno di una improvvisazione territoriale, giacchè vita e civiltà non s'improvvisano; non deve accusare nè il passato nè il presente, né i padroni nè gli operai, mentre l'antico problema è maggiore d'ambidue. Nessun provvedimento di legge o esenzione d'imposta o lusinga di premi o minaccia di pene può affrettare l'ora del risveglio: la legge non inventa e non crea, non muta l'animo o l'intelletto della gente, non suscita paesi, non affolla un popolo rado, vagante, muto e livido, per un deserto.

L'illusione legislativa è antica nelle democrazie che rappresentarono sempre piuttosto l'immaginazione e il sentimento che l'intelletto delle nazioni; è antica ed immortale. Come resistere, essendo voi stesso un legislatore improvvisato, all'illusione di potere col proprio pensiero e col proprio voto cangiare la faccia della terra e della gente?

La legge, invece, non è che istinto nel popolo, che la segue prima che sia formulata, od esperienza nel legislatore, che finalmente la formula per regolarizzare un ordine già esistente.

Non lo chiedete al ministro Baccelli; egli è di coloro che bevono da più lungo tempo alla coppa delle illusioni parlamentari; bevono e credono al miracolo della loro parola.

Non diventò forse, e per questo soltanto, ministro di agricoltura?

16 marzo 1903.


La cronaca

ROMA - Solo Ernesto Nathan era riuscito a farlo approvare, all´inizio del Novecento. Anche se, allora, c´era una Roma piccola piccola, che non arrivava oltre le Mura Aureliane. Il consiglio comunale della capitale, dopo cento anni, vota il nuovo piano regolatore alla fine di una maratona d´aula durata tutta la notte. Il sindaco Veltroni parla di «giornata storica» per la città più grande d´Italia che, dopo quasi dieci anni di lavoro e una larga consultazione dei municipi, disegna le linee del proprio futuro urbanistico.

Tutela integrale dell´agro, riduzione delle previsioni di nuovi edifici da 120 a 61 milioni di metri cubi, vincolo definitivo di 87mila ettari di territorio verde, istituzione di venti "centralità". Insediamenti, questi, che mescolano residenza, uffici, e commercio. E che dovrebbero ricucire, con buone architetture, zone periferiche sfilacciate e prive di servizi. E infine, la "cura del ferro", col permesso di costruire case solo se la più vicina fermata del metrò è a non più di un chilometro di distanza.

Il nuovo piano (il Polo ha votato contro) è una sfida ai costruttori e una scommessa sul futuro di Roma. Smentite le previsioni espansive (la capitale ha perso 300 mila abitanti negli ultimi dieci anni), il Prg sancisce la fine della rendita fondiaria e chiede agli imprenditori progetti per la demolizione e la ricostruzione di interi quartieri.

A seguire il lungo cammino del progetto, iniziato con l´amministrazione Rutelli, sono stati un giovane assessore, Roberto Morassut, e un vecchio urbanista, il bolognese Giuseppe Campos Venuti, punto di riferimento di generazioni di tecnici. Che però, a sorpresa, ha annunciato al sindaco Veltroni di voler ritirare la propria firma in calce al documento. Il motivo? L´abbandono dello strumento delle compensazioni, una delle novità del testo. In pratica un meccanismo per cui il proprietario di un´area verde cede al Comune l´80 per cento del terreno, in cambio del permesso di costruire sul restante 20.

L´innovazione non è piaciuta a Rifondazione, che ha scelto il più costoso strumento dell´esproprio. Non si tratta, però, di uno strappo definitivo. Campos Venuti loda il piano, giudicato «un disegno che innova radicalmente l´urbanistica italiana». E non esclude di riappropriarsi della paternità del Prg nel caso, in fase di osservazioni, venissero reintrodotte le compensazioni.

L’intervista a Walter Veltroni

ROMA - Sindaco Veltroni, perchè ci sono voluti decenni per approvare il nuovo piano regolatore?

«Per la prima volta dai tempi di Nathan, il consiglio comunale, l´organismo eletto dai romani, decide il proprio destino. Con il voto sul piano abbiamo assistito a una pagina confortante di democrazia».

Roma, però, ha già avuto altri piani regolatori.

«Sì, ma non sono mai stati approvati dal consiglio. Ce ne furono vari, tra cui quello del '62, ma fu adottato dal commissario prefettizio. Per effetto di questo non governo del territorio Roma, la città più bella del mondo, ha subito ferite profonde. Ancora oggi investiamo molto per portare acqua e fogne nelle borgate cresciute senza regole e infrastrutture».

Milano, invece, non adottando il piano ha deciso di non darsi queste regole.

«Roma ha scelto di ridisegnare la città lungo alcune direttrici di moderna cultura urbanistica: non crescerà più alcun insediamento lontano da una stazione. La città storica viene allargata e ingloba quartieri come Eur e Garbatella. Mettiamo in campo investimenti per le infrastrutture, che serviranno per dotare la città di 600 chilometri di binari ferroviari e del metrò. Gli ettari vincolati diventano 87mila e Roma si riorganizza intorno a venti "centralità" con servizi dislocati nelle periferie. Tutto questo è un segnale per il Paese».

Perché?

«Il piano è il contrario della logica dei condoni. Ed è la dimostrazione che si possono fare regole leggere e flessibili. Noi crediamo che possano convivere la difesa della qualità ambientale e lo sviluppo economico. Grazie a una maggioranza unita, abbiamo approvato il bilancio e la più grande una manovra urbanistica fatta da decenni a questa parte. E che porterà investimenti per 5 miliardi di euro e 100 mila unità lavorative».

Storace aveva proposto di rimandare il voto del Prg a dopo le Provinciali.

«Storace, legittimamente, non voleva che si approvasse né il piano né le successive attuazioni. La destra ha annunciato ostruzionismo, ma la maggioranza ha avuto la forza e la determinazione di aprirsi al dialogo. Non si approva un testo così importante ignorando l´opposizione. Che, con senso di responsabilità, ha abbandonato il muro contro muro».

Campos Venuti, però, non si riconosce più nel "suo" piano.

«È naturale che in un organismo democratico come il consiglio il testo sia stato modificato. I cambiamenti sono frutto di un´ampia consultazione in città, e sono contento che il piano sia stato apprezzato dal mondo ambientalista e dai settori più moderni dell´imprenditoria».

Da parte dell´urbanista restano le critiche sulle compensazioni.

«Gran parte di quell´ispirazione è stata confermata, e lo stesso Campo Venuti loda il piano. La sua è una critica seria, su un punto particolare, e sarà un tema di discussione dei prossimi passaggi del piano. A cui Campos Venuti parteciperà con quell´affetto e quell´amicizia per Roma e la sua giunta che mi ha confermato al telefono».

A quaranta anni dalla discussione che portò all’adozione del piano del 1962, Roma inizia a discutere la nuova variante urbanistica. Oggi non si respira il clima di partecipazione e attenzione culturale che caratterizzava quegli anni: segno del forte declino dell’urbanistica. Proprio in questi giorni il governo Berlusconi sta varando il terzo condono edilizio. Sono ormai molti i comuni che giudicano il ricorso all’urbanistica come un’inutile perdita di tempo. Numerose sono le leggi dello stato e delle regioni che gareggiano nell’individuazione di deroghe e nella compressione degli spazi della discussione pubblica.

In questo clima generale, al comune di Roma va riconosciuto il merito di aver messo mano a un nuovo piano regolatore generale. Potrebbe essere una grande occasione per delineare una nuova cultura urbana in grado di recuperare le migliori tradizioni dell’urbanistica italiana. Ma il nuovo piano di Roma, nell’attuale formulazione, presenta alcune caratteristiche molto discutibili. Sono cinque gli aspetti fondamentali su cui è necessario concentrare l’attenzione.

Il primo è relativo a una previsione del consumo di suolo che ci sembra immotivata e insostenibile. Già oggi, come si vedrà in dettaglio nei successivi paragrafi, Roma presenta una superficie urbanizzata pro capite molto superiore a quella di altre grandi città. Il nuovo piano, pur in presenza di un decremento demografico 1991-2001 di 270 mila abitanti, prevede un’ulteriore, imponente, urbanizzazione di suolo agricolo.

Il secondo aspetto è relativo al modello di città delineato dal piano. Non convincono le decisioni sul futuro del centro storico dove, attraverso “gli ambiti di valorizzazione” si ipotizzano rilevanti trasformazioni del tessuto storico e non si prende una decisione chiara e irreversibile sul progetto dell’area centrale su cui si è cimentata la migliore cultura urbanistica, e cioè il progetto Fori. Analogamente poco convincente è il sistema delle nuove centralità che dovrebbero costituire una credibile alternativa al centro storico e appaiono invece frammentarie e prive di logica unificante.

Il terzo aspetto è relativo all’assenza di una vera attenzione verso la tutela dei beni archeologici e culturali diffusi nel territorio agricolo. La “Carta dell’agro”, storica conquista della cultura ambientalista, non è parte fondante del piano ma ne rappresenta soltanto un elemento di incerto riferimento.

Il quarto aspetto è legato all’ulteriore potenziamento della mobilità su gomma, a partire dal devastante completamento dell’autostrada tirrenica verso Napoli. Mentre appaiono incerti i tempi del completamento della rete del ferro, si è scelto di appesantire gli assi stradali già oggi al limite del funzionamento (la via Cassia e la via Ardeatina, per esempio) o interi quadranti urbani come l’area orientale.

Il quinto aspetto, infine, è relativo all’impianto normativo del piano che risente fortemente della cultura della deroga: lungi dal delineare una posizione di inequivocabile definizione delle trasformazioni ammissibili e dei loro perimetri, essa rinvia sistematicamente a successive fasi affidate alla pratica della contrattazione.

In questo documento si è scelto di concentrare l’attenzione sul primo aspetto, e cioè sul consumo di suolo determinato dal piano. In successive occasioni si darà conto delle critiche sugli altri aspetti del piano. Con atteggiamento sempre concreto e costruttivo. Al riguardo c’interessa chiarire subito che le elaborazioni di cui trattiamo in seguito sono state effettuate al fine di disporre dei dati indispensabili per le nostre valutazioni, e allo stato non reperibili nelle sedi istituzionali. Le operazioni di rilevo sono state condotte con la massima precisione ma, anche per evitare eventuali inutili discussioni sulle quantità in gioco, siamo pronti a sostituire le nostre elaborazioni con quelle che saranno fornite dall’amministrazione comunale.

Secondo i dati provvisori del censimento Istat 2001, la popolazione residente nel comune di Roma ammonta complessivamente a meno di 2,5 milioni diabitanti. Così come molte altre città italiane, nei dieci anni trascorsi dal censimento precedente Roma ha perso una quota molto consistente dei suoi abitanti (oltre un decimo, cioè 270.000 persone: praticamente l’intero comune di Venezia); già nel 1991 si era verificata una flessione rispetto al 1981 (allora gli abitanti erano più di 2,8 milioni).

Con la popolazione, rispetto al 1991, è diminuito anche il numero delle famiglie - che oggi sono poco più di un milione - ma in misura più contenuta (-1,2%).

Il censimento 2001 segnala che, nel corso degli anni novanta, sono diminuite di circa 35 mila unità anche le abitazioni, sia quelle occupate da residenti che quelle occupate da non residenti o non utilizzate. La flessione è evidentemente legata al fatto che molte abitazioni che al 1991 risultavano ad uso abitativo oggi sono esclusivamente utilizzate per altri usi, e in particolare per attività lavorative.

2. Tab. 1 - Comune di Roma. Confronto tra dati censuari 1991-2001


1991[1] 2001[2] variaz.%
Popolazione residente 2.733.416 2.459.776 -10,0%
Famiglie 1.018.520 1.006.229 -1,2%
Abitazioni totali 1.132.934 1.098.305 -3,1%
- di cui occupate da residenti 1.007.074 985.103 -2,2%
- di cui altre abitazioni 125.860 113.202 -10,1%

Fonte: Istat

3. nuovo Prg di Roma prevede al 2011 [3] una popolazione oscillante tra 2.611.724 e 2.716.488 abitanti, quindi consistentemente superiore a quella del censimento provvisorio 2001. Si prevede inoltre che il numero medio di componenti per famiglia sia di 2,39 persone. Arrotondando per eccesso le previsioni del piano, accettiamo pure una stima di 30 mila nuove famiglie al 2001 [4]. A 30 mila famiglie devono evidentemente corrispondere 30 mila nuovi alloggi, che dovrebbero quindi rappresentare il fabbisogno residenziale aggiuntivo del nuovo Prg. Assegnando 320 mc a ogni alloggio, la cubatura residenziale aggiuntiva del nuovo Prg dovrebbe essere di 9,6 milioni di mc.

Il Prg prevede, invece, un’offerta residenziale aggiuntiva al 2011 di 36,15 milioni di mc [5], ai quali corrisponderebbero circa 113 mila nuovi alloggi, che potrebbero ospitare quasi 270 mila abitanti in più (113.000 x 2,39 ab/fam), quantità che sembra difficilmente giustificabile a fronte della netta diminuzione di abitanti (- 273 mila), di famiglie (- 12 mila) e di alloggi (- 35 mila) che si è verificata negli anni Novanta [6].

Altrettanto immotivato appare il dimensionamento delle altre attività (terziario pubblico e privato, industria e artigianato) per le quali si prevede un’offerta pari a 28,74 milioni di mc [7], di cui non sembra che siano ben specificati i parametri di calcolo e i dati di partenza.

Nella seguente tabella [8] sono confrontati i volumi previsti dal piano con quelli dello stock attuale per le residenze e per le altre attività.

Tab. 2 – Confronto fra le previsioni di incremento del Prg e lo stock esistente (milioni di mc)


Previsioni Prg 2011

(a)
Stock esistente

(b)
% (a/b)
Residenze 36,15 420,2 8,6
Altre attività 28,74 281,7 10,2
Totale 64,89 701,9 9,2

Per concludere sul punto, è difficile non considerare improbabili le previsioni di piano sinteticamente esposte. Del resto, manca qualunque riferimento a specifiche strategie, e alle relative risorse, a sostegno, per esempio, di nuova edilizia abitativa per i giovani, per le fasce sociali sfavorite, per gli immigrati, che possano far prevedere orizzonti quantitativi diversi da quelli derivanti dalle previsioni demografiche. Come del resto manca qualunque indicazione di politiche a scala territoriale, provinciale o di area metropolitana, che renda plausibili le inversioni di tendenza che si propongono per il comune di Roma.

L’unica motivazione fornita dal piano è rappresentata dalla scelta, “a monte”, di vecchio stampo immobiliarista, di conservare, nel nuovo piano, circa la metà dei volumi previsti dal vecchio Prg del 1962: in sostanza, circa 65 milioni di mc, rispetto ai 120 milioni della cubatura residua del vecchio piano. Il nuovo Prg di Roma assume, infatti, fra le finalità generali, la diffusa preservazione dei diritti edificatori derivanti dalla disciplina urbanistica previgente. E’ bene chiarire subito che la salvaguardia delle potenzialità edificatorie pregresse non è richiesta né dalle vigenti leggi nazionali e regionali, né dalla giurisprudenza. Questa ha chiarito che la ridefinizione delle potenzialità edificatorie (fino alla loro totale soppressione) da parte della pianificazione sopravveniente rientra nella piena discrezionalità tecnica e politica del pianificatore, al quale è richiesto solo di motivare le nuove scelte[9].

4. Abbiamo finora analizzato i dati quantitativi, in termini volumetrici, desunti dagli atti di piano. Consideriamo ora le localizzazioni previste dal nuovo Prg al fine di effettuare anche in questo caso i necessari confronti con la situazione attuale. Non disponendo di dati ufficiali, è stato necessario, come si è già detto, procedere ad apposite elaborazioni, riportate nelle tavole allegate, di cui si dà conto qui di seguito.

La tav. n.1 riguarda il consumo di suolo al 1998. Per consumo di suolo si intende la somma di tutte le aree del sistema insediativo, dei servizi e delle infrastrutture esistenti nel territorio comunale. Si tratta, pertanto, dell’insieme delle aree sottratte all’agricoltura e alla natura. L’elaborazione è stata effettuata a computer sulla base della cartografia del nuovo piano regolatore. Alla scala di lavoro di 1:5.000 sono state perimetrate tutte le aree edificate e i relativi spazi di pertinenza, nonché il sedime delle principali infrastrutture per la mobilità. Costituiscono, inoltre, consumo di suolo gli spazi verdi di quartiere e le ville storiche (queste ultime sono state evidenziate). Gli edifici isolati, per i quali non è stato possibile individuare il confine del lotto, sono stati classificati come case sparse cui è stata attribuita una superficie complessiva di circa 400 ettari[10]. Tutti gli spazi liberi interni all’edificato, di estensione superiore a 1 ettaro, sono stati esclusi. Calcolato in tal modo, il suolo consumato nel comune di Roma al 1998 ammonta complessivamente a circa 41 mila ettari, pari al 33% della superficie comunale.

Non potendo escludere errori nella valutazione di spazi considerati liberi e invece eventualmente occupati da verde pubblico o privato o da servizi urbani, e più in generale per ragioni di precauzione, si è ritenuto opportuno incrementare la superficie calcolata sopra del 10% circa, assumendo dunque ai fini di questo studio una superficie del suolo attualmente consumato pari a circa 45 mila ettari. Di conseguenza, la superficie libera del comune di Roma risulta pari a 84 mila ettari.

Qui è possibile una prima valutazione. A Roma, il consumo di spazio per abitante corrisponde a quasi 180 mq, dato che non ha confronti con altre grandi città[11] e che non ha certamente contribuito a innalzare la qualità urbana della capitale, anzi, è all’origine di molte disfunzioni di larghe parti della città.

La tav. n.2 restituisce in estrema sintesi le destinazioni urbanistiche previste dal Prg 2002. Anche in questa tavola il territorio comunale è stato suddiviso secondo le due categorie dell’urbano e dell’extraurbano. Il sistema urbano include tutte le voci del sistema insediativo e dei servizi, così come sono definiti dal piano regolatore, il sistema ambientale è composto da fiumi e laghi, dai parchi istituiti e dalla tenuta di Castel Porziano, dalle aree agricole. Complessivamente, il sistema urbano misura circa 51 mila ettari, quello ambientale 78 mila. Come è evidente, il rapporto fra aree urbanizzate e aree libere subisce un notevole incremento rispetto alla situazione attuale.

Tab. 3 – Confronto fra il consumo di suolo attuale e quello previsto dal Prg 2002 (ha)


Suolo consumato

(a)
Suolo libero

(b)
%

(a/b)
Totale
Situazione attuale (tav. 1) 45.000 84.000 53,6 129.000
Previsioni Prg (tav. 2) 51.000 78.000 65,4 129.000

Nella tav. n.3 è stato sovrapposto l’attuale consumo di suolo (ex tav. 1) alle previsioni del Prg 2002. Il confronto dettagliato è riportato nella tabella seguente dalla quale emerge che:

-dei 45 mila ettari di suolo consumato al 1998, circa 5 mila sono disseminati nel sistema ambientale e 40 mila ricadono nel sistema urbano;

-dei 51 mila ettari complessivi del sistema urbano previsto, 40 mila risultano già consumati e 11 mila rappresentano quindi l’espansione prevista dal nuovo piano.

Tab. 4 – Uso del suolo. Confronto fra la situazione attuale e quella prevista al 2011 (ha)


Suolo consumato Suolo

libero
Totale
Sup. edific. nel sistema urbano Sup. edific. nel sistema ambient. Totale
Verde [12]

pubblico
Altre sup. utilizzate Totale
Situazione attuale 3.800 36.200 40.000 5.000 45.000 84.000

129.000
Incrementi previsti dal Prg 2002 4.000 7.000 11.000 - 11.000 -

-
Situazione al 2011 7.800 43.200 51.000 5.000 56.000 73.000 129.000

E’ evidente che anche sottraendo agli 11 mila ettari di espansione del Prg 2002 i circa 4 mila ettari di verde pubblico di nuova previsione resta una superficie di 7 mila ettari destinati all’edificazione. Dato francamente allarmante.

Tab. 5 – Stato di fatto e previsioni del Prg 2002


Esistente

(a)
Incremento previsto

(b)
%

(b/a)
Cubature (milioni di mc) 701,9 64,89 9,2
Consumo di suolo (ha) 36.200 7.000 19,8

Che preoccupa ancora di più se confrontiamo l’incidenza percentuale delle previsioni d’incremento volumetrico del Prg 2002 con quelle relative all’incremento del consumo di territorio (escluso il verde pubblico). In sintesi, come appare dalla tabella precedente, ad un aumento delle cubature del 9,2% corrisponde un aumento più che doppio (19,8%) del territorio consumato.

5. Il presente documento è diretto con rispettosa fiducia al sindaco Walter Veltroni perché si dimostri sensibile all’esigenza di una sostanziale revisione di alcune scelte del Prg in discussione, al fine di ricondurlo a quel modello di sostenibilità più volte delineato in convegni e meeting internazionali. I documenti di piano non forniscono risposte convincenti in proposito. Com’è possibile che, a fronte del netto decremento di abitanti, di famiglie e di alloggi si prevedano 65 milioni di mc di edilizia aggiuntiva, e un’ancora più accentuato consumo di suolo? Per dirla con Antonio Cederna, si sarebbe deciso di realizzare 650 nuovi alberghi Hilton nell’agro romano.

Come si vede bene dalle tavole allegate, l’agro romano è ormai in via di estinzione. Ne sopravvivono sparsi brandelli, le uniche superfici consistenti sono quelle di proprietà pubblica: Castel Porziano, Santo Spirito, e poche altre grandi proprietà private. La ragione di tanto disastro va attribuita soprattutto, come si è già detto, al grande spreco di spazio che si è realizzato nella crescita di Roma dal dopoguerra, e di questo si deve tener conto nel formulare le ipotesi per la revisione del piano. E’ necessario il massimo impegno per salvare il salvabile. La richiesta che si sottopone al sindaco e all’amministrazione è di contenere l’ulteriore consumo di suolo entro limiti decisamente più ristretti di quelli attualmente previsti.

Per avviare il discorso, proponiamo, in primo luogo, la riduzione di alcune previsioni volumetriche e della conseguente superficie occupata, a partire dalle aree di riserva; in secondo luogo, l’accentuazione delle politiche di recupero e di ristrutturazione in quei quartieri periferici dov’è possibile un più razionale uso dello spazio.

[1] Al netto della circoscrizione XIV, trasformata nel comune di Fiumicino nel 1992.

[2] Dati provvisori ( www.istat.it).

[3] Cfr. il paragrafo 7.2.1 La domanda residenziale, p. 76 della relazione.

[4] Nel paragrafo citato prima, sulla base di calcoli non esplicitati, il nuovo Prg stima un numero di famiglie al 2011 variabile fra 22.384 e 29.470.

[5] Cfr. tab. 10, paragrafo 7.3, p.88.

[6] La differenza fra le previsioni residenziali del Prg 2002 e quella stimata sopra è attribuita dal piano a un non meglio precisato fabbisogno pregresso al 1991 e al suo aggiornamento al 2001.

[7] Idem

[8] I dati sono desunti, per quanto riguarda l’offerta di Prg, dalla citata tab. 10 e, per quanto riguarda lo stock esistente, dalla tab. 2, paragrafo 7.2, p.74.

[9] Va tenuto presente un altro fatto sostanziale e cioè che molte delle cubature che si intendono confermare erano destinate nel piano del 1962 a funzioni pubbliche (Zone M1 ed M3). Oggi si propone di trasferire questi “diritti” ai privati.

[10] A ognuna delle circa 1.600 case sparse è stata attribuita una superficie convenzionale di 2.500 mq di lotto.

[11]Secondo Alberto Lacava il consumo di suolo per abitanti a Roma è “pari a circa tre-quattro volte quello medio delle altre grandi città europee (Barcellona 36 mq/ab, Parigi 37 mq/ab)”. In, “La questione ambientale nel sistema territoriale dell’area romana”, in Ambiente e sviluppo sostenibile nei piani territoriali di coordinamento di nuova generazione, Edizioni Papageno, Roma, 1999, p.60 sgg.

[12] I dati sono desunti, per quanto riguarda il verde attuale, dalla tab. 3, paragrafo 8.3, p.93; per quanto riguarda il verde previsto, dalla tab. 5.2, paragrafo 8.3, p.98 della relazione.

Il piano contro l’antipiano

Il processo devastante che investe il governo delle istituzioni in tutto il Paese, non risparmia certamente la città, il territorio e l’ambiente. A Milano, dove già negli anni 80 si diffuse la deregulation urbanistica piegando alla speculazione edilizia le vecchie leggi, si sceglie oggi di formalizzare la deregulation. Elevando a sistema amministrativo la contrattazione degli interventi sulla città, con una valutazione caso per caso pudicamente nascosta dietro paraventi culturali. Questo smantellamento delle ultime regole urbanistiche, trova le forze politiche e intellettuali che dovrebbero opporsi al processo devastante, divise nel pensiero e nell’azione; spesso inattive, ma talvolta votate ad atteggiamenti esasperati, che cedono alla seduzione di stimoli irrazionali, rendendo così più debole la necessaria, ferma risposta alla nuova e sistematica deregulation.

In questo quadro indubbiamente negativo, non mancano però i segnali di resistenza e di alternativa, che rappresentano la base su cui costruire una più generale risposta razionale, offrendo così un contributo concreto alla ripresa del riformismo nel Paese. E dal Comune di Roma, che dopo 40 anni ha elaborato un nuovo piano regolatore, viene la risposta forse più significativa alla deregulation e alla passività, all’antipiano e all’estremismo. E’ un piano, quello per Roma, che ha saputo adeguarsi alle condizioni del 2000: un piano che fissa regole semplici, ma che esclude di contrattarle; che persegue la flessibilità, ma in modo uguale per tutti; che coinvolge gli operatori privati, ma in un preciso quadro di interesse pubblico. Un piano riformista, dunque, il solo che può sperare di superare il confronto con la deregulation urbanistica.

Il piano elaborato per Roma dalle Amministrazioni Rutelli e Veltroni è un concentrato delle più innovative scelte disciplinari, rappresentando quanto di più avanzato è stato prodotto in Italia in campo urbanistico. Un piano che, pur in assenza di un quadro territoriale di area vasta, nasce da una esplicita visione metropolitana, da cui deriva lo schema strutturale comunale e la conseguente processualità dello strumento urbanistico; un piano che, per la prima volta in Italia, sceglie la mobilità su ferro come prioritaria rispetto alla gomma; un piano che fa dell’ambiente e del verde un elemento determinante nel disegno territoriale e non un fattore residuale; un piano che fa uscire in modo originale la salvaguardia di valori storici dal chiuso della città antica, per investire l’intero comune; un piano che affronta a Roma per la prima volta lo scontro con la rendita edilizia, operando drastiche riduzioni previsionali ed estese riqualificazioni; un piano che raccoglie l’antica aspirazione al decentramento, spingendo la direzionalità all’estrema periferia, nel cuore dei Nuovi Municipi da realizzare; un piano costruito sulle antiquate leggi vigenti, per superarle con un meccanismo gestionale capace di attuarne realmente le previsioni, che ormai erano irrealizzabili con il vecchio metodo prevalentemente espropriativo.

Una strategia metropolitana e processuale

Il peccato originale di tutti i piani romani è stata sempre la mancanza di una visione metropolitana, resa apparentemente meno necessaria dalla enorme dimensione del territorio comunale; un difetto per la verità abituale dei piani delle maggiori città italiane. Un difetto che ha sempre prodotto piani autoreferenziali, indifferenti alle interrelazioni con le aree circostanti, pensati per una mobilità centripeta e una crescita dimensionale indefinita, estranei al rapporto con le presenze ambientali marginalizzate rispetto alla città. D’altra parte, anche in questo caso, per l’area vasta intorno a Roma non esisteva alcun piano di inquadramento territoriale: era necessario allora che una visione metropolitana nascesse all’interno dello stesso piano comunale, condizionandolo e proiettandolo così verso i futuri rapporti con l’esterno.

E questa visione metropolitana è stata il punto di partenza dal quale il nuovo piano regolatore di Roma ha preso le mosse. Una visione metropolitana basata sulle tre scelte di fondo del piano: il trasporto su ferro, i parchi regionali e il controllo della dimensione insediativa. Infatti lo slogan della “cura del ferro” introduce a Roma una novità per l’Italia: le ferrovie metropolitane che - sul modello tedesco delle S-bahn e su quello francese del R.E.R. - rappresentano un mezzo di trasporto di scala provinciale e regionale, che dà ampio respiro ai tratti urbani della rete e offre una prospettiva ben diversa agli stessi nodi comunali. Mentre i parchi naturali regionali sostenuti e condivisi dal Comune di Roma, penetrano nel territorio municipale a realizzare un rapporto organico fra il cuore stesso della città e tutta l’area metropolitana, con una offerta ambientale che disegnerà il sistema locale come quello di tutta l’area vasta. E infine, aver dato finalmente battaglia alla rendita urbana nel comune di Roma, crea per il futuro una possibilità di relazioni dialettiche tra le trasformazioni proposte per la Capitale e quelle degli altri insediamenti della metropoli. Di fronte alla quale non c’è più l’attesa crescita indefinita di Roma, ma un centro urbano da controllare e qualificare, aprendo la prospettiva delle occasioni da cogliere nel restante territorio metropolitano. Innegabilmente, dunque, una visione metropolitana fino ad oggi mancata.

Questa visione metropolitana, chiara fin dall’inizio, ha permesso anche di formulare rapidamente uno schema direttore, che è stato chiamato “piano manifesto”, traccia esplicita di tutta la futura operazione urbanistica. E ciò ha consentito di adottare un metodo processuale per la costruzione graduale del piano, per non costringere la città ad una lunga apnea amministrativa in attesa degli elaborati finali; ma anche per sperimentare strada facendo le soluzioni innovative che si volevano introdurre nel piano. Questa metodologia, battezzata del “planning by doing”, ha permesso di realizzare in anticipo le prime tre linee di ferrovia metropolitana; di dar vita alle istituzioni gestionali dei parchi; di anticipare le nuove normative previste per l’intero piano, che hanno trasformato radicalmente le vecchie regole, abbassando le densità edilizie e moltiplicando le cessioni gratuite per vede e servizi. Del nuovo piano regolatore esiste, dunque, una parte già programmata, che in taluni casi è in corso di attuazione anticipata e una parte ancora da programmare, con regole comuni messe a punto nella fase processuale. Chi ha parlato di contrattazione è smentito dalla realtà, perché la sistematicità delle regole comuni è, invece, una caratteristica e un vanto del nuovo piano di Roma.

La cura del ferro

Altro difetto, oggi riconosciuto, del vecchio piano regolatore del 1962 era quello di aver basato ostentatamente la strategia della mobilità sulla motorizzazione individuale e non sul trasporto collettivo. Bisogna purtroppo ricordare in proposito la nota “anarchia genetica” delle città italiane, cresciute in ritardo rispetto alle consorelle europee senza il sostegno dei trasporti su ferro; trasporti che offrono una facilità di spostamento dieci volte superiore. Ebbene, il nuovo piano predisposto per Roma, è il primo in Italia basato concettualmente su quella che è stata chiamata la “cura del ferro”, cioè su una vera e propria rivoluzione del sistema di traffico; con un disegno che è l’esatto contrario di quello rappresentato ieri dall’”asse attrezzato” – un’autostrada urbana, cui erano collegati i nuovi centri direzionali – e dalla maglia viaria complementare. Il nuovo obiettivo del piano è quello di costruire il ferro per la città esistente e di non costruire la città nuova senza il ferro.

Nella formazione del piano, il maggiore impegno è stato quello di selezionare le zone edificabili da non cancellare, fra quelle raggiunte dalla rete su ferro esistente o programmata. Arrivando anche a predisporre il trasferimento delle edificabilità non cancellabili e non collegate alla rete del ferro, su altre aree prossime alle stazioni. In pratica l’edificabilità, che per decenni è stata determinata a Roma dalle scelte speculative, nasce oggi invece dalla garanzia dell’accesso al trasporto collettivo: raggiungendo l’obiettivo di nuovi risultati funzionali, ma anche di indiscutibili valori etici.

La nuova rete su ferro è basata su una doppia croce di metropolitane comunali, in prevalenza sotterranee, che attraversano diagonalmente la città; combinate con le ferrovie metropolitane che utilizzano i binari esistenti delle Ferrovie dello Stato, partono dalla cintura ferroviaria che avvolge il centro urbano e si spingono in profondità nell’area provinciale e regionale. A queste linee forti, si aggiungono i corridoi per il trasporto pubblico in sede propria, cioè le moderne linee tranviarie, delle quali è già partita la realizzazione.

Quando la formazione del piano è iniziata nel 1994, esistevano due sole metropolitane comunali (36 chilometri di linea e 49 stazioni); e a queste l’attuazione anticipata del piano regolatore – il planning by doing, che alcuni hanno accolto polemicamente – ha aggiunto tre linee di ferrovia metropolitana (93 chilometri e 39 stazioni), che hanno triplicato l’estensione della rete e raddoppiato il numero delle stazioni. L’obiettivo finale del piano è quello di realizzare quattro linee di metro comunale e sette linee di ferrovia metropolitana, che moltiplicheranno largamente la rete e le stazioni (598 chilometri e 289 stazioni). L’attuazione di questo ambizioso programma garantirà un buon servizio all’interno del Grande Raccordo Anulare, meno capillare all’esterno del GRA: non sarà il livello di Parigi o di Berlino, ma per Roma e per le città italiane sarà una innovazione radicale e un salto qualitativo eccezionale.

La cura del verde

La dotazione romana di verde non è certo la peggiore in Italia, ma la vastità dell’Agro intorno alla città, più che rappresentare una riserva di verde, è piuttosto servita in passato a valorizzare le rendite di attesa per l’edificazione. Il vecchio piano del 1962 riuscì faticosamente a vincolare il parco dell’Appia Antica, inizialmente senza neppure impedirne del tutto l’edificazione. La strategia del nuovo piano regolatore ha rivoluzionato questo approccio miope e antiecologico, ponendo i valori ambientali del verde quale fattore determinante della struttura e della forma territoriale. Cominciando col cancellare ogni formula normativa del passato che consentisse nell’Agro Romano edificazioni non strettamente necessarie alla conduzione dell’agricoltura, intesa come valore produttivo, ma anche quale riserva ambientale. Realizzando finalmente la completa salvaguardia sui 2/3 del territorio comunale.

Sulla base di questa premessa, il disegno dei parchi naturali realizzato nelle anticipazioni del piano d’intesa con la Regione Lazio, incide esplicitamente sulla morfologia dell’insediamento esistente e programmato. Sono i grandi cunei verdi dei parchi di Veio e dell’Insughereta, della Valle del Tevere a nord e della Marcigliana, della Valle dell’Aniene e dell’Appia Antica, del Litorale romano che segue il Tevere da sud e di Castel Porziano, dell’Arrone e Castel di Guido che cinge i rilievi occidentali della città, fino ai più piccoli parchi della Tenuta dei Massimi, della Valle dei Casali e del Pineto. Un disegno complessivo che investe 23.000 ettari, pari a 1/4 del territorio comunale vincolato da 11 parchi: a fronte dell’unico parco dell’Appia Antica di quarant’anni fa. Ricordando nuovamente che dei parchi sono state ormai insediate le istituzioni gestionali, che funzionano egregiamente, con autonomia e aggressività. E ciò mentre la politica del governo nazionale, dei parchi mette in discussione lo spirito naturalistico e l’esistenza stessa.

Un altro aspetto strategico della cura del verde, riguarda il verde pubblico all’interno dei tessuti urbani: il piano raddoppia le dotazioni attuali (12 mq/ab.), raggiungendo l’obiettivo finale di 7.800 ettari e lo standard di 23 meri quadrati per abitante. Una dimensione ragguardevole, concretamente realizzabile proprio perché in larga prevalenza non sarà raggiunta tramite impossibili espropri, ma attraverso compensazioni gratuite. Per avere un’idea dell’ordine di grandezza, si tratta di un’estensione pari ad ottanta volte Villa Borghese; senza dimenticare che il Bois de Boulogne ed il Bois de Vincennes a Parigi non arrivano a 1.800 ettari. E sarà giusto ricordare anche che le diverse previsioni di verde privato ammontano nel piano a oltre 2.300 ettari: il che porta a più di 10.000 ettari complessivi il verde previsto a Roma, pari ad 1/3 di tutti gli insediamenti esistenti e programmati.

E’ indispensabile a questo punto rendere chiaro come e perché si è arrivati a queste previsioni; partendo dai 7.000 ettari di vincoli per verde e servizi del vecchio piano, non utilizzati perché il costo calcolato variava da 4 a 6.000 miliardi di lire e che, comunque, erano scaduti per legge. Per far fronte alla situazione, le destinazioni edificabili non cancellate con il piano, sono state sottoposte a nuove regole; cioè al meccanismo di cessione gratuita di alte percentuali di aree per verde e servizi pubblici, a compensazione della edificabilità privata prevista. Chi, ostile a questa soluzione, continua a sostenere anche a Roma l’attuazione dei piani urbanistici sperando di poter utilizzare il meccanismo espropriativo, è fuori dalla realtà e difende soltanto posizioni ideologiche.

A Roma è stato, invece, rifiutato assolutamente il metodo milanese della contrattazione caso per caso, che baratta elevatissime quote di edificabilità privata, con cessioni compensative di aree per usi pubblici assai modeste e variabili secondo le circostanze, senza nessuna garanzia di equità nei rapporti fra istituzioni e proprietà immobiliari. Le compensazioni vanno, invece, normate preventivamente dal piano, come si è fatto a Roma, garantendo un trattamento “uguale per tutti”, diversificato soltanto per categorie di interventi urbanistici.

Compensazioni gratuite, garanzia dei servizi

Nel piano di Roma le aree da acquisire per compensazione gratuita frutteranno ben 5.300 ettari per usi pubblici e in particolare 3.200 ettari di verde pubblico. Per ogni stanza che sarà costruita, le compensazioni gratuite assicurano circa 100 metri quadrati di servizi e verde, cioè cinque volte di più dello standard obbligatorio per legge. E il meccanismo del piano offre l’assoluta garanzia che gli edifici privati saranno costruiti solo se sarà fornita gratuitamente l’area per verde e servizi pubblici.

Nel piano non c’è, però, alcun rifiuto ideologico dello strumento espropriativo. Saranno espropriati i servizi della Città Storica, dove non si è ritenuta opportuna la compensazione, come avverrà in parte nei programmi di recupero urbano e perfino in alcuni casi negli interventi delle Nuove Centralità direzionali. Il grosso degli espropri che saranno effettuati a Roma riguarda, comunque, i comprensori del vecchio Sistema Direzionale Orientale che sono stati confermati e le aree per l’Edilizia Economica e Popolare. Complessivamente si tratta di circa 860 ettari; e sarà dura, sapendo i prezzi che si stanno pagando per i terreni dello SDO.

Si è, dunque, scartata l’idea di confermare il vincolo espropriativo sui 7.000 ettari destinati nel 1962 a verde e servizi; ma per una parte di questi, oltre 2.100 ettari, si è proposto un doppio regime, espropriativo-compensativo. Si è cioè proposta una edificazione alternativa privata a bassissima densità, contro la cessione gratuita per uso pubblico dell’80% dell’area, pari a poco più di 1.700 ettari. L’edificazione concentrata sul 20% dell’area sarà utilizzata per servizi privati dei settori assistenziale, sanitario, educativo, culturale e associativo. E in cambio di 430 ettari di servizi privati, si otterranno in cessione gratuita oltre 1.700 ettari di aree per verde e servizi pubblici: una superficie pari ad 1/10 del Comune di Milano.

Con queste acquisizioni in larga prevalenza compensative e gratuite, la dotazione media comunale per vede e servizi pubblici supera i 33 metri quadri per abitante. Questo parametro medio ha spinto alcuni critici superficiali a suggerire di ridurre lo standard delle destinazioni pubbliche, credendo di poter parallelamente ridurre le destinazioni private del piano. Per la verità se lo standard medio comunale è buono, quello medio di alcuni municipi è ancor più elevato. Il fatto è che i critici superficiali spesso dimenticano le dimensioni del Comune di Roma; dove due municipi sono più grandi del Comune di Milano e talvolta la distanza fra un capo e l’altro di un municipio arriva a 15 chilometri. Succede allora, che in un municipio a standard medio elevato, gli alti standard offerti dalle edificazioni non cancellate ad una estremità nascondano standard troppo bassi dei tessuti esistenti privi di servizi pubblici alla estremità opposta; e che la soddisfazione di queste carenze può essere affrontata soltanto con le compensazioni gratuite ricavate, in cambio della modesta edificazione a servizi privati, dalle aree destinate al cosiddetto doppio regime. Formula che rappresenta un evidente eufemismo: perché l’alternativa alla cessione compensativa di queste aree è l’esproprio al costo di circa 600 miliardi di vecchie lire, pari a 300 milioni di euro.

Le critiche superficiali trascurano anche l’elevatissima quota di verde pubblico o privato realizzata con queste operazioni, all’interno delle quali la percentuale di terreno piantumato e permeabile va dai 2/3 ai 3/4. Ed è strano che spesso queste obiezioni siano motivate da intenti ambientali: che finiscono così per chiedere la riduzione delle destinazioni a verde pubblico, o l’eliminazione di aree piantumate e permeabili pur di perseguire l’obiettivo ideologico nichilista di cancellare qualunque trasformazione dello statu quo, anche se propone una rilevante qualità urbanistica e ambientale. Il disegno concretamente realizzabile messo a punto per il piano di Roma permetterà, invece, di porre ogni iniziativa immobiliare futura al servizio di una qualificazione in profondità dei tessuti edilizi cresciuti senza attrezzature né forma urbana nella grande periferia romana, che saranno ricomposti spesso utilizzando proprio le aree per verde e servizi acquisite gratuitamente con il meccanismo compensativo.

Una strategia possibile contro la rendita fondiaria

Forse il più clamoroso errore del vecchio piano di Roma – che pure nel 1962 fu accettato positivamente dalla cultura italiana – è costituito dalla enorme ipoteca che la rendita fondiaria urbana poneva con quel piano sul futuro della città. Allora il dimensionamento non fu neppure calcolato con precisione: a conti fatti ci si è accorti che, a 2 milioni di stanze disponibili allora per i 2 milioni di abitanti esistenti, le previsioni consentivano di aggiungere altri 3 milioni di stanze. Bisogna riconoscere che la cultura urbanistica non raccolse le battaglie politiche condotte da Aldo Natoli nel Consiglio comunale di Roma contro la rendita urbana; e nel corso degli anni e dei decenni successivi il sovradimensionamento delle previsioni edilizie del piano vigente non ha ricevuto particolari attenzioni da parte della cultura urbanistica e ambientalista.

Soltanto all’inizio degli anni 90 la questione del dimensionamento edilizio è venuta alla luce, per diventare esplicitamente uno dei nodi fondamentali da affrontare. A quel punto però le condizioni giuridiche per risolvere il problema erano molto pregiudicate. Perché, se sentenze e leggi avevano fortemente penalizzato le destinazioni pubbliche (i vincoli) dei piani urbanistici, nessuno aveva messo in discussione le destinazioni private; e mentre le destinazioni pubbliche avevano ormai una validità perfino inferiore a quella del piano (5 anni invece di 10, decisione francamente stravagante, che obbliga a realizzare le previsioni pubbliche nella metà del periodo previsto per il piano), le previsioni private continuano ad avere validità a tempo indefinito. E nessuno degli attuali nichilisti previsionali ha mai affrontato in termini giuridici, culturali e politici il problema di come mettere in discussione le previsioni edificatorie private del piano di Roma e di una buona parte dei piani italiani.

Così la pesante eredità urbanistica ricevuta dalla nuova amministrazione di centro-sinistra che si era impegnata a dare a Roma un nuovo piano, fu un residuo di destinazioni pubbliche non acquisite e scadute per 7000 ettari; e insieme un residuo di destinazioni private non realizzate, ma sempre vigenti, per 1 milione di stanze. Fintanto che una legge non consentirà di porre una scadenza temporale ai diritti di edificazione privata riconosciuti dai piani, questi diritti possono essere cancellati soltanto espropriandoli; un piano urbanistico che basasse la sua strategia sulla pura e semplice cancellazione dei diritti privati residui, sarebbe impugnato e bloccato agevolmente dai ricorsi alla Magistratura di ogni ordine e grado, a cominciare dalla Corte Costituzionale.

Le interpretazioni giuridiche ripetute anche dalla Corte Costituzionale, attribuiscono ad un solo tipo di vincolo la possibilità di cancellare il diritto di edificazione esistente: il vincolo ambientale, imposto sia da un Piano Paesistico, sia dalla istituzione di un Parco Naturale con legge nazionale o regionale. E a Roma si è deciso di sfruttare proprio questa possibilità offerta dalla giurisprudenza, spingendo la Regione Lazio e collaborando con questa per la adozione dei parchi regionali estesi nel Comune di Roma su molte aree residue edificabili, anche se caratterizzate da alti valori ambientali. In sostanza è con questo accorgimento principale che il piano di Roma ha potuto cancellare il 50% delle previsioni edificabili residue, pari a circa 60 milioni di metri cubi; vale la pena di ricordare che alla cancellazione ha contribuito l’eliminazione della edificabilità residenziale in zona agricola, resa possibile dalla scelta di destinare esclusivamente agli usi produttivi e ambientali il territorio dell’Agro Romano.

Una dimensione equilibrata per il piano

Questa riduzione indubbiamente assai drastica, è per altro il massimo risultato ottenibile con gli strumenti giuridici esistenti. Sul residuo edificabile che non si è mai riusciti a cancellare, si è operato in tre direzioni: favorendo in larga misura gli interventi di riqualificazione dei tessuti esistenti rispetto a quelli nuovi; destinando una percentuale assai consistente alle destinazioni terziarie rispetto a quelle residenziali; e infine trasferendo con appositi meccanismi regolati, la quota peggio ubicata del residuo in aree servite dal trasporto su ferro. Proprio perché la maggior parte del residuo non cancellato era stata già selezionata fra quelle servite dal trasporto su ferro.

I nuovi interventi del piano regolatore sono quelli indicati come tessuti della Città da Ristrutturare e della Città della Trasformazione; i primi sono sempre relativi ad aree già edificate, in modo disordinato e assai incompleto, spesso abusive, che vanno riqualificate completandone il tessuto slabbrato e introducendo inoltre servizi pubblici e privati; ma anche fra i secondi, negli ambiti a pianificazione già definita, sono frequenti i tessuti nati abusivamente da recuperare. Così sul totale dei nuovi interventi previsti dal piano, il 60% della superficie riguarda i tessuti esistenti da recuperare e il 40% i tessuti da realizzare ex-novo. Mentre la quota di edificabilità attribuita al terziario sfiora il 40% del totale e raggiunge il 45% con le destinazioni flessibili, praticamente dimezzando il residuo di edificabilità non cancellato. Il piano formula inoltre la proposta innovativa di trasferire intorno alle stazioni del ferro, la quota del residuo di edificabilità mal localizzata dal punto di vista urbanistico e ambientale; e ciò si realizza aumentando dell’8% l’edificabilità residua.

Il dimensionamento complessivo è, comunque, pari a 500.000 stanze equivalenti – fra residenziali, non residenziali e flessibili -, alle quali si aggiungono circa 40.000 stanze equivalenti degli ambiti di riserva per i trasferimenti volumetrici. E il dimensionamento residenziale, che sembra il principale nodo polemico del piano arriva, calcolando anche gli ambiti di riserva, a 300.000 stanze di abitazione. Queste previsioni, confrontate con lo stock edilizio del comune di Roma che è di 4.700.000 stanze, rappresentano un incremento pari al 6%: una quota di crescita fra le più basse in assoluto mai registrate dal piano regolatore in Italia.

Come è possibile considerare il piano sopradimensionato? Si tratta di una previsione da distribuire nell’arco di 10-15 anni, sperando che entro 15 anni il Comune di Roma sia in grado di darsi un altro piano. Dunque una produzione abitativa di 30.000, o piuttosto di 20.000 stanze di abitazione all’anno, potrebbe realmente danneggiare la Capitale? Gli operatori immobiliari parlano, comprensibilmente, di offerta troppo bassa; la domanda è naturalmente anch’essa più alta, ma non è detto che sia domanda solvibile. Il problema non è, quindi, quello di una “crescita zero” per Roma: il vero problema è quello di una crescita di elevata qualità urbanistica e ambientale – e questo il piano lo garantisce – e insieme quello di una politica pubblica e privata per la casa, che realizzi una riduzione dei costi delle abitazioni, in affitto come in proprietà. Ma quest’ultimo non è un obiettivo realizzabile con un qualsivoglia piano regolatore; né un piano che adotti la strategia della crescita zero, sarebbe in grado di influenzare in alcun modo i prezzi del mercato, che essendo un mercato oligopolistico non è in alcun modo proporzionale alla quantità dell’offerta. Senza dimenticare che queste previsioni hanno già dato, o daranno in cambio, una superficie per verde e servizi di oltre 11.000 ettari, che è pari ai 2/3 dell’intero territorio comunale di Milano.

Dallo SDO ai Nuovi Municipi

Il Sistema Direzionale Orientale nacque con il piano del 1962 allo scopo di realizzare la grande intuizione di Luigi Piccinato, che mirava a decongestionare il centro di Roma e a qualificare la periferia orientale con il decentramento terziario. Purtroppo, aver affidato l’operazione al trasporto su gomma e non a quello su ferro, non ha permesso di realizzare quella intuizione; inoltre l’iniziativa partì concretamente soltanto 25 anni dopo l’adozione del piano, quando le aree dello SDO che distavano 4 o 5 chilometri da Piazza Colonna erano già diventate semicentrali, invece di essere collocate nel cuore delle periferie programmate o abusive nate ai margini del Grande Raccordo Anulare e ben oltre questo. Il nuovo piano raccoglie allora la grande suggestione piccinatiana del decentramento terziario, ma la applica in modo radicalmente diverso. Anche perché nel frattempo ha preso forza la nuova strategia del decentramento istituzionale, che tende a trasformare le Circoscrizioni romane nei Nuovi Municipi, perché la popolazione di questi oscilla da quella di Padova a quella di Pavia.

Il piano, quindi, tende a rafforzare l’identità urbana dei Municipi, moltiplicando in periferia i fattori di centralità usati, anche morfologicamente, per creare numerose alternative decentrate alla monocentralità della zona storica, alla quale fino ad oggi si è aggiunta soltanto l’EUR. L’operazione è, dunque, quella di stimolare la crescita di 19 Nuove Centralità, che avranno un ruolo decisivo per trasformare le vecchie Circoscrizioni nei Nuovi Municipi. E già nella prima fase di programmazione anticipata del piano, è stato definito il disegno urbanistico di 8 fra queste centralità “urbane e metropolitane”, dalla Bufalotta al nord, a Tor Vergata al sud, mentre 11 restano ancora da programmare, da Collatino-Togliatti ad est, a Massimina ad ovest. Le sole due Centralità poste ancora in posizione non periferica sono Pietralata (che riutilizza le aree dello SDO già in corso di attuazione) ed Ostiense, che godono di un eccezionale accesso al ferro ed hanno un ruolo decisivo per la riqualificazione di due settori strategici della città.

Le previsioni insediative delle Nuove Centralità, contribuiscono fra terziario e residenza, ad 1/4 della dimensione complessiva; di queste previsioni, insieme ad una larghissima prevalenza di terziario, si è voluto mantenere nelle Nuove Centralità un 16% di previsioni residenziali, considerate la quota minima per evitare la rigida monofunzionalità degli insediamenti. E a fronte di queste modeste previsioni abitative, che le ingiustificate preoccupazioni sul sovradimensionamento insediativo vorrebbero cancellare, si ricorda il rischio che la monofunzionalità potrebbe produrre su questi interventi; cancellando la residenza, diventerebbero tessuti privi di vita una volta cessato l’orario di lavoro, facile preda del degrado sociale e dell’insicurezza.

Per quanto è stato possibile il piano ha, comunque, ricercato la più stretta integrazione fra i vecchi tessuti periferici disordinati e gli interventi che vi introdurranno nuove funzioni e una vitalità oggi sconosciuta. In ogni caso non si deve mai dimenticare l’ampiezza del comune di Roma, che giustifica e rende necessaria una operazione così decisa e originale. Se confrontate con Milano, le posizioni indicate a Roma per far nascere le Nuove Centralità, corrispondono a quelle di Monza, Abbiategrasso o Legnano. E all’operazione darà forza determinante, aver strettamente collegato alla rete del ferro comunale e metropolitana i nuovi insediamenti; che nasceranno così, non come luoghi direzionali isolati, ma come una rete di terziario nella quale ogni nodo aumenterà la forza di tutti gli altri. Una operazione ambiziosa, indubbiamente, ma basata assai più sulla qualità che sulla quantità. A fronte dei 32 miliardi di metri cubi previsti dai 5 comprensori del vecchio SDO semicentrale, abbiamo oggi appena 16 milioni di metri cubi, distribuiti fra 17 Nuove Centralità fortemente periferiche, oltre alle 2 semicentrali la cui localizzazione necessaria non smentisce però il disegno complessivo.

Dal Centro Storico alla Città Storica

Il ritardato sviluppo industriale italiano, insieme al pesante prezzo negativo economico e sociale pagato dal Paese, ha però offerto alle città una condizione assai rara in Europa; salvandone sostanzialmente l’integrità dei preziosi centri storici, altrove prevalentemente distrutti. E’ certamente questa condizione originale che ha maturato in Italia prima che in altre nazioni europee, la cultura dei centri storici; producendo anche negli anni 60 il primo modello di salvaguardia – quello bolognese – poi diffuso in Italia e in Europa. Le condizioni di partenza hanno spinto il modello bolognese a ricercare i valori della storicità in un periodo che termina appunto con la rivoluzione industriale; e in Italia questo approccio culturale alla storicità si è anche sovrapposto a quello razionalista che considerava gli interventi urbani dell’Ottocento e del primo Novecento come ideologicamente negativi e possibilmente da distruggere. E’ questo l’approccio corbusieriano del Plan Voisin per Parigi che, come Haussmann aveva cancellato la città medievale e rinascimentale, progettò di cancellare la città haussmanniana dell’800, sostituendola con anacronistici grattacieli razionalisti in mezzo al verde.

Una delle innovazioni disciplinari che caratterizzano l’urbanistica del nuovo piano per Roma, è allora quella che fa finalmente i conti con i valori storici nelle città italiane e supera il blocco ideologico che li faceva fermare alla breccia di Porta Pia. Tra l’altro utilizzando fino in fondo le analisi propedeutiche di Muratori e Caniggia sulle tipologie, che il piano bolognese sfrutta per le sole tipologie edilizie, mentre a Roma il percorso culturale avanza verso il pieno utilizzo delle tipologie urbanistiche. Il piano di Roma suggerisce, dunque, l’innovazione disciplinare del passaggio dal Centro Storico, che ha per facili confini territoriali la rivoluzione industriale, alla Città Storica, che non ha più confini temporali e si impegna, dunque, nella difficile ricerca dei valori storici da individuare fino ai giorni nostri.

Così al Centro Storico, tutto compreso all’interno delle Mura (1.500 ettari) anche se manomesso dall’Ottocento fino agli anni 50, il piano sostituisce la Città Storica, che interessa i tessuti dell’Ottocento e del primo Novecento, ma i cui valori arrivano a coinvolgere tessuti più recenti dell’ultimo Novecento e riguardano un’area di circa 6.500 ettari. Si comprende allora come, dall’uso delle tipologie edilizie quale unica matrice delle regole di salvaguardia nel Centro Storico, rigidamente disciplinato edificio per edificio, il nuovo piano di Roma estenda alle tipologie urbanistiche la matrice delle regole di salvaguardia per la Città Storica; con un meccanismo che modella la conservazione dei valori storici da conservare, passando dai tessuti medievali da curare fin nel particolare edilizio, ai tessuti dell’Ottocento e del Novecento, nei quali la conservazione interessa prevalentemente aspetti urbanistici.

E all’analisi statica, elaborata cioè una volta per tutte al fine di identificare le regole necessarie per il Centro Storico, si sostituisce una analisi dinamica, aperta ad ogni nuovo contributo conoscitivo futuro, indispensabile per arricchire nel tempo le regole fin da oggi indicate per i diversi tessuti della Città Storica. Piuttosto che ripetere a Roma un modello statico analisi conoscitiva-sintesi pianificatoria come quello bolognese, si è allora scelto un modello dinamico, che anche per i tessuti più antichi non rinuncia a profittare delle future conoscenze per condizionare i futuri interventi. Una concezione dinamica che, dopo aver individuato i tessuti della Città Storica, aggiunge con la Carta della Qualità, le conoscenze già disponibili per le preesistenze isolate storico-archeologiche di tutto il territorio comunale, allo scopo di condizionare qualunque intervento alla salvaguardia dei valori storici localmente riconosciuti.

Un’altra innovazione disciplinare è quella che ha spinto a individuare cinque grandi ambiti di programmazione strategica, che investono prevalentemente la Città Storica: il Tevere e l’Aniene, le Mura, il Parco archeologico monumentale, l’asse virtuale Flaminio Fori Eur e la Cintura Ferroviaria. Si tratta di grandi segni della forma urbana, sui quali il piano pone l’attenzione per l’importanza degli interventi di conservazione che richiedono, ma anche per le grandi occasioni che offrono. Non è sembrato assolutamente lecito che il piano proponesse per questi ambiti una qualunque, esplicita proposta di trasformazione urbanistica. Che nel quadro della pianificazione processuale già iniziata, potrà maturare per gradi, anche in funzione delle occasioni che la città realizzerà al contorno; a cominciare dall’aumento della mobilità su ferro, che potrà ridurre lo stato di necessità di alcune strade, permettendone un uso meno subalterno al traffico di quello attuale. Un approccio complessivamente nuovo, di alto valore scientifico, con cui i valori storici di importanza decisiva per Roma sono stati affrontati, colmando un vuoto culturale che a Roma durava da troppo tempo e che offre preziosi avanzamenti alla disciplina, validi per tutto il Paese.

Adottare il piano per Roma

Il piano è pronto per l’adozione in Consiglio Comunale, anzi l’iter di adozione è già cominciato, in Giunta, nei Municipi, nelle Commissioni. Le dimissioni anticipate del Sindaco Rutelli, candidato premier per l’Ulivo alle elezioni politiche del 2001, avevano interrotto un iter iniziato due anni fa, che altrimenti avrebbe potuto già essere concluso. La nuova Amministrazione Veltroni ha fatto propria pienamente l’eredità, confermando l'impegno di dare a Roma il nuovo piano; e ha profittato delle circostanze per affinare e perfezionare un progetto che, comunque, nelle sue linee essenziali non è certamente cambiato. Il maggior tempo disponibile, se ha permesso a molti nella società civile e politica, come negli ambienti culturali, di maturare una maggiore consapevolezza del piano, ha anche provocato le ultime polemiche, il più delle volte basate sulla cattiva informazione, ormai difficile da comprendere.

L’obiettivo che il sindaco Veltroni si è dato, di ottenere il voto del Consiglio Comunale entro il 2002, resta probabilmente valido, anche dopo la decisione dalla Regione Lazio di prorogare per dodici mesi il quadro legislativo che fa da sfondo al piano. Non so se tale proroga sarà utilizzata o meno dalle forze politiche presenti in Consiglio; ma se dei dodici mesi sarà utilizzato un breve periodo, non credo ci sia molto da preoccuparsi. Altro sarebbe se i tempi di adozione dovessero slittare ampiamente nel tempo; perché ciò aprirebbe un interrogativo preoccupante sulla reale possibilità di arrivare all’adozione in Consiglio Comunale. Nel quale caso ogni parte politica si prenderà la propria responsabilità.

Ciò che indubbiamente oggi può preoccupare, è la possibilità che la proroga offra l’occasione a forze politiche e ad ambienti culturali, per riaprire la vertenza del Nuovo Piano Regolatore di Roma. Per quanto riguarda quegli ambienti culturali che non hanno mai risparmiato all’operazione urbanistica romana, gli strali più acerbi e il più delle volte oggettivamente ingiustificati, questo è il momento per dimostrare che la polemica era frutto di passione intellettuale e mirava soltanto a migliorare lo strumento urbanistico.

Nessuno può illudersi che il progetto di piano attualmente in corso di adozione non sia ancor oggi perfezionabile; ma la sua redazione con il metodo processuale ha costruito questo progetto passo a passo, sottoponendo ogni fase al vaglio del Consiglio Comunale. E anche se non sempre ciò viene ricordato, ogni tessera del mosaico non è fine a se stessa, ma al contrario rappresenta una parte essenziale della strategia generale; e cambiando quella tessera è l'intera strategia che viene messa in discussione. Ad esempio, eliminando unilateralmente una delle previsioni non cancellate, ma trasformate, non è solo questa scelta che rischia di essere impugnata di fronte alla Magistratura; è l'intero meccanismo selettivo che rischia di saltare giuridicamente, perché questo meccanismo si basa su un trattamento uguale per tutti i soggetti che si trovano nelle stesse condizioni.

Così come è stata ricordata l'impossibilità di ridurre lo standard medio delle dotazioni di verde e servizi, al solo scopo di produrre una modesta riduzione delle non certo alte previsioni residenziali; perché per farlo bisognerebbe ridurre la quota delle cessioni compensative di aree gratuite prevista per tutto il piano, senza poter ridurre l'edificabilità - e perché mai, allora, rinunciare a centinaia o migliaia di ettari gratuiti ? - oppure privare molte zone periferiche carenti di verde e servizi delle dotazioni pubbliche previste per tutte le zone della città. Come mai c'è ancora qualche romano che non conosce l'apologo di Trilussa sul mezzo pollo della media fasulla ?

Bisogna, allora, riconoscere che l’operazione culturale del piano di Roma costituisce l’impegno più ragguardevole messo a punto in questi anni nel campo della disciplina urbanistica. E che, dunque, è giusto e necessario adottarlo. Per l’enorme ritardo che sta alle spalle del nuovo piano, per l’eccezionale dimensione fisica e problematica che il piano ha affrontato, per l’originalità delle numerose innovazioni che il piano presenta, per il valore emblematico culturale e politico che può avere oggi il piano regolatore di Roma. E perché questo, certamente più di altri piani italiani di oggi, si presenta come un piano riformista, senza aggettivi, ma carico di concreta progettualità innovativa. Mi auguro che l'Amministrazione Comunale condivida queste valutazioni e con un atto storico adotti quanto prima il nuovo piano regolatore di Roma.

L’impegno di Italia Nostra e delle altre associazioni ambientaliste per migliorare il piano regolatore di Roma credo debba essere conosciuto e apprezzato da quanti hanno a cuore il futuro delle nostre città. Com’è noto, infatti, le questioni dell’urbanistica romana assumono sempre un rilievo nazionale e forniscono un modello di riferimento per altre esperienze. Nelle pagine interne si fornisce un primo resoconto dell’attività svolta, al quale spero possa far seguito una pubblicazione più ampia e documentata. I temi trattati sono molti, ma con determinazione particolare sono stati affrontati, soprattutto da Italia Nostra, i criteri assunti dal piano di Roma in materia di governo della proprietà fondiaria. Sto parlando dei cosiddetti “diritti edificatori”, vale a dire delle previsioni del vecchio piano regolatore, che gli amministratori di Roma e gli estensori del nuovo piano hanno equiparato a “diritti acquisiti” e quindi a decisioni non modificabili (se non attraverso l’esproprio dei beni interessati). E’ evidente che non si tratta di astrazioni, ma di questioni assai concrete, dalle quali dipendono le scelte fondamentali del piano, in primo luogo il suo dimensionamento.

Per comprendere la gravità della linea seguita dall’amministrazione capitolina, si deve tener presente, in primo luogo, che il piano regolatore della capitale, quello del 1962-65, decrepito ma tuttora vigente,era stato concepito per una città di cinque milioni di abitanti; in secondo luogo, centinaia di migliaia di alloggi sono stati realizzati abusivamente: sono perciò molto estese le previsioni di piano non attuate. Dette previsioni, una volta promosse al rango di diritti, formano una pesantissima eredità negativa, che condiziona inesorabilmente ogni ipotesi alternativa di assetto del territorio. Secondo il Comune di Roma, per rimuovere i diritti acquisiti, l’unica strada possibile è il ricorso alla “compensazione”e cioè il trasferimento in altra parte del territorio delle edificabilità previste dal vecchio piano. Il che determina, inevitabilmente, la moltiplicazione delle espansioni, che nel nuovo piano di Roma ammontano a molti milioni di metri cubi, spalmati su migliaia di ettari dell’agro romano ormai avviato all’estinzione.

Tutto ciò è stato al centro della contestazione sviluppata da Italia Nostra, grazie anche ai contributi di Vincenzo Cerulli Irelli e di Edoardo Salzano, riportati di seguito, che hanno autorevolmente smentito i principi ispiratori del piano di Roma in tema di diritti edificatori. Tant’è che l’amministrazione capitolina ha in qualche misura accolto il nostro punto di vista, cominciando a mettere in discussione orientamenti assunti da quasi dieci anni. Ma tutto può ancora succedere, siamo solo all’inizio dell’iter di approvazione del piano.

CORRIERE DELLA SERA, 20 Marzo 2003

Campidoglio, votazioni-fiume nell’aula Giulio Cesare. Il documento urbanistico ha «tagliato» metà delle previsioni edificatorie

E’ «verde» il nuovo piano regolatore di Roma Su 130 mila ettari di territorio, 89 mila restano all’ambiente. Nuove costruzioni per 60 milioni di metri cubi

È la notte in cui il Campidoglio deve «adottare» il nuovo Piano regolatore, una decisione preparata da anni e attesa forse da decenni. L’ultimo, del 1962, prevedeva un’enorme espansione della Capitale. Tale da mettere in conto ben 120 milioni di metri cubi, un’intera città. Roma in quarant’anni si è fermata, dai cinque milioni previsti i suoi abitanti si sono bloccati a meno di tre milioni. Il nuovo Piano ha dunque «tagliato» la metà delle previsioni edificatorie per privilegiare l’ambiente, il verde tra pubblico e privato. Dei 130 mila ettari del territorio comunale (la superficie delle prime nove città italiane, Capitale esclusa) quasi 89 mila restano destinati al verde. Il nuovo Prg prevede poco più di 60 milioni di metri cubi da costruire, ma i due terzi sono stati già decisi o individuati. Restano «liberi», dunque, poco più di ventimila ettari. L’appuntamento col voto, caduto fatalmente nella nottata della guerra in Iraq, è stato preceduto da un dibattito durato alcuni giorni ma soprattutto da infinite polemiche tra centrodestra e maggioranza veltroniana. La CdL schierata contro il nuovo progetto urbanistico preparato da Rutelli e messo a punto dall’amministrazione Veltroni, la maggioranza impegnata a raccogliere i benefici effetti che derivano dal varo di un nuovo Piano regolatore. Tra questi, anche quelli elettorali: a maggio ci saranno le elezioni provinciali e il nuovo Prg della Capitale sarà un argomento da spendere nella campagna di Enrico Gasbarra. Nella comprensibile soddisfazione delle forze politiche che l’hanno portato al voto si infila una nota distonica: il «padre» del Piano, l’urbanista Giuseppe Campos Venuti, annuncia stamane di «ritirare la firma» del Prg. È una protesta contro la forte compressione dell’uso delle «compensazioni» per attuare gli obiettivi ambientalistici. Si tratta di una delle maggiori novità di questo Piano (il proprietario di un’area cede al Comune quattro quinti da destinare a verde ma può utilizzare il resto «a scopo sociale» con fini di reddito): è stata messa da parte a favore, soprattutto su pressione di Rifondazione, dell’uso dell’esproprio, uno strumento «senza compromessi» ma costosissimo per il Comune. Di qui il gesto di Campos Venuti. Il centrodestra ha rinunciato infine all’ostruzionismo ritirando migliaia di emendamenti. Ne sono stati votati centinaia, quasi tutti respinti. Il voto finale sul Piano era in programma per l’alba di stamane. Il sindaco Veltroni ha seguito fino all’ultimo le votazioni, impegnato a legare il suo nome al varo del nuovo Prg di Roma, il quinto da quando è Capitale (1883, 1909, 1931, 1962). «Abbiamo scritto le regole della futura Capitale - dice Lionello Cosentino, Ds - che punta sulla modernità. È un evento storico, ma il lavoro inizia ora. Nella cornice del Prg, le scelte urbanistiche sono tutte da costruire». Commenta Franco Dalia, della Margherita: «Dopo il voto, i cittadini potranno fare le loro osservazioni: è la prima volta che un Prg vede i romani protagonisti nella politica urbanistica. È straordinario». Aggiunge Silvio Di Francia, dei Verdi: «Di fronte a tanti interessi, l’amministrazione ha tenuto una linea dritta. Forse siamo alla fine delle logiche della rendita fondiaria che ha sempre pesato sulla città». L’opposizione contrattacca. Dice Gianfranco Zambelli, di FI: «Abbiamo rinunciato all’ostruzionismo perché il sindaco si è impegnato ad accogliere alcune mozioni politiche dell’opposizione che cambieranno in parte il Piano. Apprezziamo le scelte sul verde, ma questo Piano non crea occupazione, è sottodimensionato nell’edificazione. Dopo tanta attesa, una delusione». Bruno Prestagiovanni, di An: «Un evento storico non sfruttato a dovere. È un Piano non discusso dalla gente. E poi, quanti "buchi neri", quante domande senza risposta: non viene indicata una nuova discarica per la città e quella di Malagrotta sarà chiusa tra due anni». Infine, Marco Di Stefano, dell’Udc: «Con questo Piano Roma non offre nessun interesse per gli investitori, non porta lavoro. Se vinceremo le future elezioni, lo cambieremo». A mezzanotte, è giunto in aula Mimmo Cecchini, ex assessore all’Urbanistica che ha preparato il Prg per anni: «Questo Piano va bene, ma migliorerà col tempo». Un pizzico di veleno.

G. Pull.

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CORRIERE DELLA SERA, 20 Marzo 2003 IL SUPER ESPERTO Samperi: «Servono modifiche - Manca una vera struttura del Piano, che non va oltre i limiti del Comune»

Pietro Samperi, docente di materie urbanistiche alla Sapienza, è stato il responsabile del Piano regolatore dal 1968 al 1980. Da allora segue la città con l’occhio del super-esperto. Si definisce un «tecnico», anche se «cattolico e di centro».

Questo Piano di Veltroni è proprio da buttare? «In un Prg c’è sempre qualcosa da salvare. Questo Piano regolatore va corretto, modificato. Anzi: tutti i Piani andrebbero sempre aggiornati ma non cambiati rispetto a quelli precedenti, a meno che non siano da attuare autentiche rivoluzioni di tendenza. Il Prg del 1962 fu aggiornato con le Varianti del ’67 e del ’74».

Ma il «pianificar facendo» che ha ispirato il nuovo Piano non va in questa direzione? «No. Questa espressione vuol dire "decidere una cosa nuova e poi metterla nel Piano". Ma così non c’è più un Piano bensì una situazione di fatto. Io parlo di "pianificar aggiornando" in coerenza con il disegno del Piano». Cosa salverebbe del nuovo progetto urbanistico? «La manovra sul verde e l’ambiente. È una scelta di salvaguardia che speriamo funzioni. È uno sforzo da apprezzare».

Nient’altro? «Sì: l’analisi dei valori della città consolidata, l’aver individuato questi valori e averli classificati in categorie per epoche. Nel suo complesso, la città è più preparata ad essere difesa da trasformazioni che ne altererebbero un volto da conservare. Tuttavia manca una disciplina che tuteli gli abitanti-proprietari da interventi speculativi di trasformazione».

Quali sono le cose da buttare di questo Prg? «Manca la struttura del Piano, una forte configurazione del progetto urbanistico. Nel ’62 si poteva parlare, ad esempio, dell’Asse Attrezzato poi divenuto Sdo. Oggi cosa c’è al suo posto? Il verde? Ma è solo un complemento, seppure importante. Si parla di policentrismo, ma in cosa consiste? Le nuove "centralità" con quali criteri sono state fissate? Perché è stata decisa lì e non altrove? Quali rapporti hanno con i Municipi? Manca una proiezione su scala metropolitana, il Piano non va oltre i limiti del Comune. Regione e Provincia non hanno neppure provato a dire la loro in proposito. Il futuro urbanistico della città non può prescindere dal rapporto col territorio che la circonda. La "cura del ferro": in cosa consiste? Il Piano disegna lo stesso numero di linee del metrò del precedente, con la sola differenza che la D (ex Bufalotta-Laurentino) è stata sostituita da una linea, parallela alla B, che passerà in pieno centro storico. E le "ferrovie metropolitane", le FM, risalgono a una dozzina d’anni fa. E comunque non servono i romani, ma i pendolari».

Basta così o continua?

«C’è altro. Sono spariti tutti gli autoporti, i centri merci come Bufalotta, Romanina, Ponte Galeria: perché? Con le nuove destinazioni le aree non sono forse divenute più redditizie per i proprietari? E infine, il dimensionamento: ha seguito e non preceduto il Piano. I 60 milioni di m3 che prevede questo Prg sono la somma di interventi già decisi negli anni scorsi col "pianificar facendo", in parte realizzati o in corso di realizzazione. Non rispondono a un calcolo del fabbisogno. Ma non è la quantità di cubature che mi spaventa, ma la mancanza di una programmazione nel tempo poiché è stata rifiutata l’applicazione del III Piano poliennale di attuazione. Comunque, i 150 milioni di m3 decisi nel ’62 quando Roma cresceva di 100 mila abitanti l’anno non erano poi tanti, se oggi se ne prevedono 60 con popolazione in diminuzione e 50 milioni di m3 abusivi già costruiti».

Come giudica le «compensazioni», la novità di questo Piano?

«Sono un’invenzione improvvida, non prevista dalla legge. Le aree destinate all’edificazione ma non inserite nei Piani di attuazione possono tranquillamente cambiare destinazione senza compensazioni o indennizzi».

Insomma, il quinto Prg di Roma è un evento storico o no? «Era un dente da levare e ce lo siamo tolto. Comunque è meglio avere un Piano che...pianificar facendo. Speriamo che ne vengano rispettate le regole».

E cosa pensa dell’assessore Morassut?

«Ha cercato di rimettere a posto molte cose rispetto alla proposta di Piano che ha ereditato. Ma non ha potuto, come nel caso del Centro Congressi dell’Eur, perché erano state irrevocabilmente decise».

Giuseppe Pullara

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CORRIERE DELLA SERA, 20 Marzo 2003 IL PROGETTISTA Garano: «Cubature ridotte e qualità della vita migliore» «Contiene gli elementi più innovativi, ora possiamo competere con le altre metropoli»

Stefano Garano, direttore del Dipartimento di Pianificazione del territorio della Sapienza, fa parte del gruppo di urbanisti che, sotto la guida di Giuseppe Campos Venuti, ha «disegnato» il nuovo Piano regolatore.

Perché si è voluto fare un nuovo Prg? Quello del 1962 non andava più bene?

«Ci voleva un progetto coerente per rispondere ai nuovi bisogni della città. Già nel ’74 si fecero i primi tentativi di rinnovare il Piano con le Varianti circoscrizionali. Le città si trasformano, cambiano le esigenze produttive, di mobilità, di servizio. Anni fa fu creato il Poster Plan, un quadro di riferimento per una trentina di interventi specifici con cui riqualificare la periferia. Siamo partiti da lì».

Quando avete cominciato a fare il nuovo Piano?

«Il via è stato dato dal Piano delle Certezze del ’97, che definisce la città consolidata, i territori esterni da tutelare e la città della trasformazione, una zona mediana che viene rimandata alla competenza del nuovo Prg. Fu fissato, sui 130 mila ettari di un territorio comunale grande come la provincia di Milano, l’equilibrio tra verde e cemento. Fu cancellata la metà dei 120 milioni di m3 previsti dal vecchio Piano».

Lei dice: questo è un buon Piano. Perché?

«Perché contiene tutti gli elementi più innovativi dell’urbanistica contemporanea, seppure innestati in una legislazione vecchia, del 1942, che frena ogni progetto urbanistico. E perché risponde alle esigenze di una metropoli che ha bisogno di nuove strutture per dare qualità della vita ai cittadini. Così si espandono anche le opportunità economiche di Roma e si rende la città più competitiva con le altre capitali».

Qual è il modello ispiratore del nuovo Prg?

«Ci sono alcuni punti-base. Il policentrismo, in contrapposizione con l’idea centralistica di prima, che concentrava le funzioni: il direzionale, ad esempio, era fissato sull’Eur e sullo Sdo. Poi abbiamo puntato sulla riqualificazione delle periferie rilocando le funzioni pregiate (università, tempo libero, commercio, ecc.). Un terzo principio riguarda la mobilità su ferro, che è anche anti-inquinamento. Le nuove centralità vengono localizzate presso i nodi della mobilità. Il tutto, ed è il quarto criterio ispiratore del Piano, è immerso in un territorio fortemente tutelato con aree verdi e agricole di alto valore paesistico collegate al sistema dei parchi regionali».

Quali sono le novità di questo Piano?

« Parecchie. Il centro storico diventa "città storica", si passa da mille a settemila ettari tutelati (quartieri Parioli, Trieste, Garbatella, Flaminio, ecc.) nella diversità dei loro tessuti storici, dal Medioevo al Novecento. C’è anche il superamento della monofunzionalità delle destinazioni d’uso nei nuovi poli urbani. Ogni polo viene arricchito con diverse funzioni: servizi, commercio, ricettività, ricerca, case.....». Ma con quale criterio avete individuato le centralità? «Tenendo presenti i problemi della mobilità e il residuo del vecchio Piano. Dove erano previsti forti carichi di cubature, abbiamo ridotto». Continui con le novità. « Ecco: la limitazione degli espropri, costosissimi. Per evitare una spesa che il Comune non può sostenere - gli ettari vincolati sono migliaia - e per difendere il programma di verde e servizi di quartiere, è stata introdotta la "cessione compensativa", un sistema adottato a Torino e Reggio Emilia: al cedente resta un 20% di area su cui può realizzare servizi che danno reddito. Con i soldi risparmiati, il Comune risana le periferie e potenzia il trasporto pubblico. Purtroppo le esigenze della politica hanno ridotto l’uso di questo strumento».

E la storia degli edifici che si possono abbattere?

«Si, è un’altra novità. Al Tuscolano, Tiburtino, Marconi, quartieri ad alta densità abitativa, è previsto il "diradamento": verde e servizi al posto del cemento. I palazzoni abbattuti sono ricostruiti nelle aree di riserva, ma con densità minore».

Il cemento va così nelle aree agricole? Non è peggio?

«Si creano insediamenti più umani nella campagna romana: mettiamola così».

Perché il Prg non è allargato all’hinterland, all’area metropolitana?

« Per sua natura è comunale, non può farlo. Ma è un Prg "aperto" sotto l’aspetto della mobilità, del verde, delle centralità urbane. È perfino possibile una co-pianificazione con i comuni confinanti».

Anche questo Prg durerà 40 anni?

«La città cambia sempre: un Piano dovrebbe essere aggiornato ogni 10 anni».

G. Pull.

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CORRIERE DELLA SERA, 20 Marzo 2003 Piano regolatore, il voto arriva all’alba

Ma il «padre» del documento urbanistico, Campos Venuti, ritira la firma

Una maratona notturna per consentire al Campidoglio di «adottare» il nuovo Piano regolatore, una decisione preparata da anni e attesa forse da decenni. L’ultimo piano, del 1962, prevedeva un’enorme espansione della Capitale e disegnava una città da 5 milioni di abitanti. Oggi, che i residenti sono meno di tre milioni, il nuovo Piano ha «tagliato» la metà delle previsioni edificatorie per privilegiare l’ambiente, il verde tra pubblico e privato. Dei 130 mila ettari del territorio comunale, quasi 89 mila restano destinati al verde. Il nuovo Prg prevede poco più di 60 milioni di metri cubi da costruire. Nella comprensibile soddisfazione della maggioranza, una nota polemica: il «padre» del Piano, l’urbanista Giuseppe Campos Venuti, annuncia stamane di «ritirare la firma» del Prg per protestare contro la forte compressione dell’uso delle «compensazioni».

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«Espropri troppo cari, meglio»

Legambiente, attraverso una presa di posizione di Maurizio Gubbiotti e di Mauro Veronesi, annuncia fin d’ora una serie di «osservazioni» al nuovo Piano regolatore: «Per ottenere la riduzione dell’obiettivo rischioso dei 32 metri quadri di verde e servizi per abitante». Gli ambientalisti ritengono infatti che questo obiettivo, che comporta l’esproprio di 3 mila ettari, è astratto non avendo il Comune la possibilità di finanziare una tale operazione. Per rendere invece realistico l’obiettivo da raggiungere (25 mq), gli ambientalisti chiedono che le aree destinate a verde e servizi (N) siano riclassificate H2 (aree agricole con valenza ambientale, ad edificabilità quasi nulla). In tal modo per «salvare il verde» non occorrerebbe spendere somme impossibili. La quota dei 32 mq per abitante era possibile, secondo le prime previsioni del Prg, ricorrendo alla manovra «perequativa» (il proprietario di un terreno lo cede restandone però utilizzabile un quinto). Ma nelle ultime settimane la quota di cubature collegata a questo meccanismo, 5 milioni di mc, è scesa a 1,2 milioni di mc con relativo aumento delle aree da espropriare dovendosi mantenere l’obiettivo dei 32 mq. Insomma, Legambiente trova irreale questa quota in quanto fondata su espropri «impossibili» perché troppo cari. Meglio usare lo strumento della «destinazione».

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LA STAMPA, 20 Marzo 2003 Luigi Nieri: «Fuksas ha ragione sulle periferie»

In dirittura d’arrivo il nuovo Piano Regolatore. Prosegue la maratona in consiglio comunale. L'approvazione del provvedimento è prevista nella notte. Ieri per tutto il giorno è continuato l'esame degli emendamenti. Udc e Forza Italia hanno ritirato quelli ostruzionistici. Il consiglio ha cominciato i lavori alle 11 e dopo una pausa per il pranzo e la conferenza dei capigruppo, ha ripreso i lavori alle 15,30. Un'ulteriore sospensione dei lavori è stata prevista dalle 19 alle 22.30, per la cena, ma soprattutto per consentire ai consiglieri romanisti di seguire la partita Roma-Ajax. Dopo la mezzanotte è previsto che si voti senza discussione. In stretto collegamento con l’adozione del nuovo Prg, prossime sedute del consiglio sono previste lunedì e martedì prossimi: all'esame saranno le delibere attuative del vecchio piano regolatore, quelle che prevedono numerose edificazioni, tra cui Tor Pagnotta e le compensazioni di Tor Marancia. La rivoluzione è rappresentato dall'idea di città policentrica, caratterizzata da 20 centralità, cioè aree con proprie vocazioni e riqualificate con un mix di uffici, servizi e funzioni moderne. Queste le innovazioni. Il maxi emendamento Presentato dalla maggioranza, prevede la riduzione di nuove edificazioni fino a 61 milioni di metri cubi, dai 64 milioni inizialmente previsti; la possibilità di costruire nelle aree individuate nell'ambito delle compensazioni derivanti dalla Variante delle certezze; maggiore e definitiva tutela per l'agro romano. A 1 km dalla stazione Roma crescerà con le sue infrastrutture su ferro. Niente edifici se si trovano a più di un chilometro da una stazione della metro o di ferrovia. Tutela città storica Dai 1000 ettari del centro storico ai 7mila ettari della città storica, comprendendo anche edifici dell'800 e del '900, con cinque ambiti strategici: Tevere, Mura aureliane, anello ferroviario, direttrice Appia, Eur e Flaminio. Demolizioni La riqualificazione di aree degradate, come ad esempio quelle del quartiere San Lorenzo, avverrà attraverso il sistema della demolizione e ricostruzione. La città si trasformerà senza ricorsi a varianti o espropri, ma con il sistema delle compensazioni. 500.000 stanze in meno Rispetto al piano del '62 che prevedeva 120 milioni di metri cubi, le nuove edificazione saranno per 61 milioni di metri cubi (il 58% servizi), di cui 42 già deliberati e 19 milioni ancora da decidere. Più verde e parcheggi Le aree destinate a verde e servizi: 32 metri quadri per abitante, contro 22 metri quadri del resto d'Italia e i 18 del precedente piano. In particolare, gli standard del nuovo Prg prevedono, in media, 22,5 metri quadri di verde per abitante, 7,3 di servizi e 2,9 di parcheggi. Il verde tutelato aumenta rispetto al cosiddetto Piano delle certezze: da 82mila a 87mila ettari (dal 66 al 68% del territorio). Trasporto su ferro Oggi: 49 stazioni e 36 chilometri di metropolitana. Domani: 57 stazioni e 129 chilometri. Aumentano anche le ferrovie metropolitane: da 430 a 470 chilometri. La maggioranza «Con questo piano - ha osservato il capogruppo dei Ds Lionello Cosentino - finisce l'espansione a macchia d'olio della città». Per il capogruppo della Margherita Franco Dalia, «Importante è la tutela delle aree agricole e la parte normativa che dà certezze sulle procedure». Il capogruppo di Rifondazione Patrizia Sentinelli sottolinea che si mette fine «al pianificar facendo e all'idea che si possa costruire in modo scriteriato in aree agricole». «Il prg pone un limite allo sviluppo indiscriminato della città - ha aggiunto il capogruppo dei Verdi, Silvio Di Francia - tutela le aree agricole e pone il principio che non ci può essere sviluppo senza infrastrutture e servizi». L’opposizione Il centrodestra ha annunciato che voterà contro. Per il capogruppo di An, Bruno Prestagiovanni, «c'è una cementificazione senza criterio, senza infrastrutture di collegamento, e ci sono poi alcuni problemi senza risposta, ad esempio lo smaltimento dei rifiuti solidi della città». Secondo l'eurodeputato, coordinatore regionale e consigliere comunale di Forza Italia Antonio Tajani, «c'è carenza sul fronte della viabilità e degli aspetti sociali e sanitari, anche se abbiamo cercato di presentare emendamenti migliorativi, come quelli per l'impiantistica sportiva. La fermezza non si misura con gli strilli». Infine il capogruppo dell'Udc, Marco Di Stefano: «Il nuovo piano regolatore è sottodimensionato. Prevede solo 10 milioni di metri cubi di nuove edificazioni, il resto sono residui del piano del '62. Ossia le attuazioni del vecchio piano che ci apprestiamo ad approvare: 47 milioni di metri cubi, il grosso delle quali sono Tor Pagnotta e le compensazioni di Tor Marancia». L’iter Dopo la pubblicazione del piano, che avverrà tra 45 giorni, scattano i 60 giorni per le osservazioni dei cittadini. Potranno essere presentate anche su carta semplice. Il piano poi dopo le controdeduzioni del consiglio alle osservazioni dei cittadini, alla fine dell'anno andrà al parere della Regione Lazio.

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IL MESSAGGERO, 20 Marzo 2003 Piano regolatore, la lunga notte del Consiglio

Seduta fiume nell’aula Giulio Cesare, ultima tappa per varare la nuova manovra urbanistica - di CLAUDIO MARINCOLA

«Aspetteremo le due di notte, e solo allora, allo scadere dell’ultimatum di George W. Bush, ritireremo i nostri emendamenti». Sembrava uno scherzo, una minaccia buttata lì. Era invece l’ultimo scampolo di “intransigente opposizione" che ha costretto il Consiglio comunale ad una lunga maratona notturna. Nulla a che vedere ovviamente con la guerra, anche se a metà seduta Nunzio D’Erme (Rifondazione) ha esposto la bandiera della pace e Roberto Lovari (FI) gli ha risposto sventolando quella americana. Nulla a che vedere con la guerra ma neanche con l’ostruzionismo ad oltranza agitato nei mesi scorsi. Tutta l’opposizione si è condensata in una notte. Un passaggio obbligato prima di annunciare alla città un evento in un certo senso “storico": l’adozione del nuovo Piano regolatore. Arriverà a 41 anni di distanza dal Piano elaborato dalla commissione di esperti guidata nel 1962 da Luigi Piccinato. Ma rimanda al Prg del 1909, l’unico adottato dall’aula Giulio Cesare al termine di un lungo percorso democratico. Ieri l’ultima tappa, anche se in realtà tutto o quasi era già deciso. Un hortus conclusus al quale mancavano piccoli aggiustamenti definiti in aula, col rischio che comporta un intervento in extremis, l’incremento o la riduzione delle aree di riserva. Dinanzi ad una maggioranza compatta, nonostante le differenze affiorate anche ieri (sul futuro di Corviale e sui Ponti di Laurentino 38, ad esempio) l’opposizione si è divisa. È successo col Bilancio, approvato in anticipo. E una volta spianata la strada, frantumato il fronte, il sindaco Walter Veltroni ha intravisto la possibilità di chiudere entro marzo. Progetto che ora sembra a portata di mano, visto che da lunedì prossimo si tornerà in aula per approvare le delibere attuative. Una coda tutt’altro che irrilevante, il rispetto dei diritti acquisiti durante il vecchio Prg. La lunga notte, in realtà, è cominciata sin dalle 11 del mattino, a mano a mano che i gruppi dell’opposizione cominciavano a ritirare gli emendamenti ostruzionistici. «Questo piano non ci convince - ha comunque ribadito Antonio Tajani, coordinatore regionale di Forza Italia - ma voteremo contro perché non ne condividiamo l’assetto generale. Abbiamo cercato una opposizione costruttiva presentando emendamenti migliorativi, come quelli per l’impiantistica sportiva». Il maxi emendamento della maggioranza prevede la riduzione di nuove edificazioni dai 64 milioni previsti inizialmente a 61. Rispetto al Piano del ’62, il nuovo Prg di Morassut - l’assessore all’Urbanistica che ha continuato il lavoro del suo predecessore Domenico Cecchini, con il concorso di Giuseppe Campos Venuti, di Maurizio Marcelloni e Daniel Modigliani - definisce l’idea della città policentrica. Non rincorre il “ferro", ma si sviluppa quadruplicando la rete dei trasporti. Promette verde, servizi, parcheggi, tutela ed estensione della città storica, la riqualificazione delle aree degradate e della periferia anche attraverso lo strumento della demolizione e ricostruzione. «Non ci può essere sviluppo senza infrastrutture - spiega Silvio Di Francia, l’esponete verde che ha cucito i rapporti tra maggioranza e opposizione - le osservazioni dei cittadini potranno rafforzarlo ulteriormente». Prendono corpo anche le nuove centralità urbane, alcune già pianificate altre nuove. Saxa Rubra, Acilia-Madonnetta; La Storta; Massimina e Santa Maria della Pietà. Ma anche Torre Spaccata, Fiera di Roma, Bufalotta, Ostiense, Sdo Tiburtino, Polo Tecnologico, Lunghezza, Alitalia, Castelluccio, Tor Vergata. Nomi e località tornati a ripetizione anche ieri nella lunga notte del Prg suscitando nuovi contrasti. Su un solo punto i consiglieri si sono trovati d’accordo: la pausa dalle 19.30 alle 22.30. Giocava la Roma.

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IL TEMPO, 20 Marzo 2003 Quarant’anni dopo il nuovo Prg

Ora dovrà andare alla Regione per le eventuali modifiche

IL CONSIGLIO comunale ha approvato in tarda notte il nuovo Piano Regolatore. La maggioranza ha votato a favore, la Casa delle Libertà invece contro. «È UN PIANO poco partecipato, che non risponde alle esigenze di una capitale del terzo millennio — ha spiegato il capogruppo di An Bruno Prestagiovanni — C’è una cementificazione senza criterio, senza infrastrutture di collegamento». «Questo Prg non ci convince — ha aggiunto l’eurodeputato di Forza Italia Antonio Tajani — Votiamo contro perché non condividiamo l’assetto generale, c’è carenza sul fronte della viabilità e degli aspetti sociali e sanitari». E anche dal segretario romano dell’Udc Marco Di Stefano arriva una sonora bocciatura: «È un Piano sottodimensionato, che prevede solo 10 milioni di metri cubi di nuove edificazioni, il resto sono residui del piano del ’62». «Quello che volevamo affermare — afferma soddisfatto Silvio Di Francia — è che le regole valgono per tutti, il progetto-città viene prima delle scelte caso per caso. E in più abbiamo messo fine a quel consumo delle aree agricole andato avanti per anni».

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MESSAGGERO, 21 marzo 2003 «Nel nuovo Piano le regole per lo sviluppo» - Il Nuovo PRG

Trenta ore di discussione e dodici sedute del Consiglio comunale: entro martedì prossimo, con le attuazioni, si chiuderà la sessione urbanistica.

Dalle 5,20 di ieri Roma ha un nuovo Piano regolatore. Lo ha votato il Consiglio comunale al termine di una seduta fiume con 35 voti favorevoli e 18 contrari. Alla maggioranza è mancato solo il voto di Nunzio D’Erme, consigliere di Rifondazione, nonché leader dei centri sociali, d’accordo, però, sul maxiemendamento presentato dalla giunta. Il sindaco Veltroni è rimasto in aula tutto il tempo, seguendo su un piccolo televisore le prime immagini della guerra. Ci sono volute in totale 30 ore e 12 sedute. Che sembrano tante ma sono meno del previsto. Consentiranno di archiviare la sessione urbanistica al massimo entro martedì prossimo con l’approvazione delle attuazioni del vecchio Prg. «Mi ero impegnato a chiudere la manovra entro il 31 marzo, mi scuso per l’anticipo», ha chiosato Veltroni, annunciando «l’evento storico» nella conferenza stampa tenuta ieri pomeriggio in Protomoteca. Con lui tutta la “squadra": il vicesindaco Enrico Gasbarra, l'assessore all'Urbanistica Roberto Morassut, la giunta, i capigruppo e i consiglieri di maggioranza. «Erano cento anni che l'organo sovrano dei cittadini non adottava un piano regolatore, l' ultimo fu quello ai tempi del sindaco Ernesto Nathan nel 1909», ha puntualizzato il sindaco, rimarcando il carattere democratico del nuovo strumento urbanistico. A seguire i ringraziamenti: «alla maggioranza «che si è dimostrata compatta e non si è sfarinata dinanzi alle prime difficoltà» e «al coordinatore Di Francia e ai capigruppo». Ma anche all’opposizione che, nonostante i 5000 emendamenti inizialmente presentati sul bilancio e gli 8000 sul Prg, «non si è chiusa a testuggine, non è caduta in un ostruzionismo privo di qualsiasi capacità propositiva». Si è corso il rischio di un corto circuito istituzionale. «Lo abbiamo evitato - dice ora Veltroni - perché non siamo mai stati arroganti e non abbiamo perso la capacità di ascolto. Errore che invece ha fatto Milano». La città aspettava questo piano da 41 anni. «Roma è cresciuta per molti anni senza regole urbanistiche, senza relazione fra infrastrutture e nuove edificazioni. Ora queste regole ci sono», ha continuato il sindaco. Il percorso si completerà in consiglio comunale con l'approvazione delle delibere attuative del vecchio piano, con programmi di trasformazione urbana «che porteranno ad investimenti di 5 miliardi di euro nei prossimi 8 anni e 100mila posti di lavoro». Il nuovo Piano riassunto in sintesi punta sulla tutela dell'agro romano, e sulla diminuzione della previsione edificatoria che nel precedente piano nel '62 prevedeva di 120 milioni di metri cubi e che ora passa a 62 milioni. cubi. Aumenta la tutela del verde che passa da 82 a 87 mila ettari e divenuta "sistema" con una rete ecologica. I Prg prevede centralità metropolitane e urbane, programmi integrati, ambiti di trasformazione residenziale e non residenziale e verde attrezzato. Distingue tra la città storica con cinque ambiti strategici (Tevere, Mura Aureliane, Anello Ferroviario, Direttrice Appia, Eur e Flaminio), in tutto 1.500 ettari all’interno delle mura più 6.500 tutelati da una “carta della qualità". E tra una città da ristrutturare (le borgate abusive e le zone 0). L’intero Prg è governato dal piano della Mobilità, legato in modo indissolubile allo sviluppo, definisce il nuovo polo della Stazione Tiburtina. Ma fatto il nuovo piano ora bisogna metterlo in pratica. «Anche per questo, ora è importante chiudere subito la sessione - è l’impegno di Franco Dalia, capogruppo della Margherita - ciò vuol dire attivare sviluppo, posti di lavoro, fare di Roma un grande polo per attrarre investimenti nazionali e internazionali». E l’opposizione? Quelli di An, sfiniti anche loro per la notte insonne, hanno scelto di presentarsi sulla piazza del Campidoglio una carriola carica di mattoni. Nel gesto il senso della loro protesta. Nelle parole del consigliere Luca Malcotti il risentimento per non essere stati "ascoltati": «Sono stati respinti quasi integralmente i 13 punti che il nostro partito aveva indicato come qualificanti».

Claudio Marincola

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LA STAMPA, 21 marzo 2003 Questo non è più il mio Piano» - i chiarimenti di Campos Venuti

Notizia che mette in difficoltà il Campidoglio: il professor Giuseppe Campos Venuti, l’anziano urbanista bolognese considerato «padre» del nuovo Prg, disconosce il Piano.

Perché il suo «no», professor Campos Venuti? «Guardi, con gli ultimi emendamenti approvati nella notte, è stato disfatto il meccanismo innovativo del "mio" Piano. In questa maniera, gran parte dell’innovazione diventa irrealizzabile».

Addirittura? «Sì... La posizione dei gruppi che definirei più estremisti, ha inferto un serio danno. Spero che si possa ricucire nella fase delle osservazioni. E mi rendo conto che il sindaco doveva tenere conto di tutte le posizioni. Anche di quelle più ritardatrici, immobiliste, ma che paradossalmente danno spazio a quelle antitetiche, le liberiste a oltranza, di chi dichiara faccio-quello-che-mi-pare. Così gli opposti estremismi finiscono per danneggiare il riformismo. Ma d’altra parte è una vecchia storia in questo Paese».

Si sente in minoranza? «Putroppo sì. Anche qui: una lunga storia. Ho fatto la resistenza. Ero nel partito d’Azione. Poi tante battaglie urbanistiche. E tante sconfitte».

Il punto che lei contesta è sul meccanismo delle compensazioni. La maggioranza in Campidoglio ha preferito la via degli espropri. Ci spieghi la differenza. «Semplice. Con le compensazioni, che stanno funzionando benissimo in tanti piani regolatori, specie al Nord, noi garantivamo migliaia di ettari gratis. Un terreno contro un altro. Con gli espropri, ci vorrebbero migliaia di miliardi. E i soldi non ci sono. Se ci fossero, il Comune costruirebbe le metropolitane che mancano».

E ora? «Gli amministratori romani sono troppo avvertiti per non sapere che si dovrà tornare alle compensazioni. Altrimenti salta tutto. E’ molto bello il meccanismo di far costruire accanto alle future stazioni della metro o della ferrovia. Ma come si fa a convincere i costruttori? A qualcuno fa schifo spostare i diritti edificatori? E allora che resta: la forza? li convinciamo manu militari? oppure a suon di miliardi? La legge parla chiaro: i terreni vanno pagato a prezzo di mercato. Ed è giusto così».

Quelli che lei chiama «immobilisti» la pensano diversamente. «Il Piano ha indubbiamente delle norme innovative a cui io stesso ho dato un contributo. Ma se lo ingessiamo a monte, lo si rende ingestibile. Con la mia lettera, ho voluto testimoniare coerenza. Oltretutto, c’è un aspetto tragicomico che emerge dalla notte del consiglio comunale: a forza di togliere e aggiungere, la somma algebrica dei metri cubi previsti è superiore a quella dell’inizio».

Di qui la sua lettera aperta. «La mia paura è l’ennesima sconfitta. Già ne ho incassata una, ai tempi del governo di centrosinistra, sulla legge urbanistica che poi non ha mai visto la luce. Ora non vorrei assistere al disastro del Piano regolatore che è il più importante d’Italia. E’ anche quello più innovativo e che si erge contro l’altro modello, quello di Milano, dove trionfa il liberismo. Lì il consiglio comunale decide caso per caso, tu sì e tu no, tu mi piaci e tu mi stai antipatico. A Roma doveva essere un’altra cosa».

Francesco Grignetti

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MESSAGGERO 21/03/03 L’accusa di Campos Venuti - la lettera al sindaco

È considerato il "padre" del nuovo Piano regolatore di Roma. Per anni ha collaborato con il Campidoglio per definire le linee guida del nuovo strumento urbanistico. Ma ieri, a poche dall’adozione del Prg, ha scritto al sindaco per «separare le sue responsabilità». Il professore bolognese conclude la sua lettera pregando o al sindaco di cancellare il suo nome dai consulenti del nuovo Prg «nella versione adottata dal consiglio comunale, nella speranza spero non illusoria che questo gesto individuale contribuisca in futuro a riproporre il percorso urbanistico che oggi sembra abbandonato». L’accusa che Campos Venuti muove è di aver liquidato le compensazioni a beneficio degli espropri, ovvero stravolto la strategia innovativa del piano per non dividere la coalizione, un «prezzo» pagato alla politica, insomma. «Il meccanismo attuativo - scrive ancora l’urbanista - dimezzava le vecchie previsioni residue del ’62 ma evitava di aprire un contenzioso giuridico sulle previsioni non cancellate». E ancora: «questo meccanismo attuativo, costruito assieme al piano in anni di lavoro è stato sacrificato sbrigativamente in poche settimane». Il professore prende quindi le distanze dal maxiemendamento proposto dalla giunta che «ha provocato una inevitabile turbolenza in tutto il sistema del piano». Secca la risposta di Veltron: «Ho già parlato con lui. Continuerà a lavorare con noi - ha commentato il sindaco - al di là della riserva su un aspetto, resta il suo giudizio assolutamente positivo sugli aspetti innovativi del piano».

Claudio Marincola

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LA STAMPA, 21 marzo 2003 Il varo di un nuovo Piano regolatore - l'opinione di Vittorio Vidotto

«L’idea delle venti centralità è bella ma c’è il rischio che ogni municipio si rinserri nel suo piccolo privilegio. Il piano del 1962 nei fatti non è mai stato attuato: prevedeva l’Asse attrezzato a Est, invece è nato all’Eur».

Giornata storica, quella che vede il varo di un nuovo Piano regolatore. Capita in media una volta ogni quarant’anni. E’ il caso, insomma, di parlarne con uno storico. Vittorio Vidotto, ad esempio, insegna Storia contemporanea alla Sapienza. Conosce bene le vicende di Roma avendo da poco licenziato un paio di volumi sulla Capitale.

Professor Vidotto, ci si avvia ad archiviare il Piano Regolatore del 1962. Dobbiamo esserne dispiaciuti? «Non c’è mai stato un Piano meno applicato di quello. Ricordiamo che prevedeva un cosiddetto Asse attrezzato a Est, dove sarebbero dovuti sorgere uffici e ministeri, ma in quarant’anni non s’è mai fatto. Al contrario, non previsto da quel Piano, il centro direzionale è nato all’Eur. Cioè verso Sud e il mare come voleva Mussolini. In pratica, tra urbanistica democratica e urbanistica del fascismo, nonostante la Liberazione, vinse quest’ultima. D’altra parte basta guardare le biografie personali: Virgilio Testa, il dominus dell’Eur, l’uomo che portò a compimento il quartiere, e riuscì a tenere assieme qualità edilizia e verde pubblico, portandosi dietro l’Archivio di Stato e l’edificio della democrazia cristiana, le residenze e gli uffici, era l’ex segretario generale del Campidoglio ai tempi del Governatorato fascista».

Quale fu il tallone d’Achille del Piano regolatore? «La coesione tra politica ed economia. Andarono ciascuno per la sua strada. Ma siccome la domanda di alloggi è incomprimibile, lo sfogo fu l’abusivismo a macchia d’olio. Non tanto quello dei tuguri, quanto interi quartieri di palazzine e di villette. Poi ci si misero i cosiddetti Peep, i Piani di edilizia economica popolare, che nacquero a raggiera un po’ dappertutto, a Est, ma anche a Sud. Nacquero il Laurentino o Spinaceto. Ma così si spostarono irrimediabilmente persone e mezzi. Mettiamoci poi che il Raccordo Anulare è stato snaturato, è diventato sul malgrado il vero Asse attrezzato, trasformandosi da via di scorrimento veloce extraurbana a urbana, ed ecco la città d’oggi».

Da come ne parla, sembra che il primato della politica abbia preso una bella bastonata dall’economia. «No, attenzione, stiamo parlando degli anni democristiani. Fu una scelta politica anche quella di accontentare tutti, accogliere ogni sollecitazione, concedere licenze che pure contraddicevano il Piano regolatore in cambio di consenso. Il primato della politica non ne venne affatto intaccato. Solo che era cambiato il disegno. E gli interessi cacciati dalla porta rientravano dalla finestra».

Fu la speranza (o illusione) della pianificazione, allora, a esserne infranta? «Senza un’idea precisa dei tempi e dei luoghi di dove costruire, senza priorità, insomma senza una volontà politica più che salda, non poteva che essere un’illusione».

E oggi? Cosa dobbiamo attenderci da questo Piano regolatore che il Campidoglio ha appena votato? «Oggi la città è forse ferma quanto a incremento demografico, ma non è ferma tout court. Ha nuovi bisogni. I miei studenti affannosamente cercano di andare via di casa. Proprio in questi giorni, un’allieva mi raccontava che assieme a quattro altri colleghi hanno affittato un appartamento all’Esquilino. Ecco, i giovani hanno dei bisogni a cui si deve dare risposte. E non dimentichiamo quel recente passato in cui la distribuzione delle case pubbliche ha premiato la violenza. Nel complesso s’era dato un senso di incertezza permanente. L’abusivismo è stata una scelta obbligata. Ma i danni sotto gli occhi di tutti».

Cioè? «Quando si permette di costruire senza strade adeguate, o in un budello, interi quartieri saranno invivibili. D’altra parte è solo di recente, con la giunta Rutelli, che si comincia seriamente a mettere al centro della città i trasporti pubblici su ferro. La speculazione edilizia non è un male in sé. A me, a noi, non importa se un costruttore guadagna poco o tanto: importa che che sia ben guidato. Importa che le linee di comunicazione siano veloci. Oggi, spostarsi da Est a Ovest è un dramma. Bisogna mettersi a fare calcoli: quanto tempo ci vuole? Ne va della vivibilità generale della città».

E per il futuro? Ottimista? «Mica tanto. E’ bella questa idea delle venti centralità, di dare orgoglio ai municipi. Ma se deve diventare microcampanilinismo, se poi tutti insorgono contro una via di scorrimento veloce o un parcheggio sotterraneo, se diventa dominante l’idea che non si deve più toccare un mattone e che ognuno sta rinserrato nel suo piccolo privilegio, allora non ci sto. D’altra parte si sente nell’aria quest’idea che il futuro si sia fermato. Un’idea neoconservatrice di città, trasversale a destra e sinistra. S’è rinunciato all’audacia dell’innovare».

Francesco Grignetti

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IL TEMPO, 23 marzo 2003 Storace esclude che possa essere discusso prima delle prossime elezioni per la Pisana - Prg, l’esame alla Regione dopo il 2005

IL PIANO Regolatore sarà approvato dalla prossima giunta regionale, non certo da quella attuale. Ne è sicuro Francesco Storace che però gela le speranze del centrosinistra che intravede in questo modo la possibilità di affidarlo a un futuro presidente, possibilmente non di centrodestra: «Se è la loro speranza allora il Comune se lo dovrà tenere per altri 20 anni». STORACE interviene anche sulle polemiche esplose dopo l’approvazione alla Regione della nuova legge sui parchi. «L’OPPOSIZIONE ha presentato 6 mila emendamenti, erano stati chiaramente scritti solo per fare ostruzionismo. E noi avevamo il diritto-dovere di stroncarlo. Se avessero presentato solo 100 emendamenti ci potevamo anche stare, ne avremmo discusso per una settimana, serenamente. Invece hanno perso e non lo accettano».

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IL MANIFESTO, 24 marzo 2003 Che forma avrà Roma? Il piano regolatore approvato dal comune è pessimo. Ma almeno è un piano regolatore, e rifiuta la logica della contrattazione con i privati area per area. La città comunque rischia di snaturarsi in modo gravissimo, se non ci saranno modifiche migliorative. Il lavoro è tutto davanti a noi - VEZIO DE LUCIA

Il sindaco Walter Veltroni ha ragione di essere soddisfatto. Non perde occasione di ricordare che solo Ernesto Nathan, nel 1909, era riuscito a far adottare un piano regolatore dal consiglio comunale di Roma. I due successivi strumenti urbanistici furono approvati, con una legge quello del 1931, e da un commissario prefettizio quello del 1962. Veltroni ha il merito di aver condotto con equilibrio e autorevolezza l'ultima fase di formazione del piano, apportando, mi sembra, miglioramenti rilevanti alle elaborazioni ereditate dalla precedente amministrazione. Al nuovo piano regolatore si mise mano all'inizio dell'amministrazione Rutelli, circa dieci anni fa, assumendo subito la parola d'ordine del «pianificar facendo», che è una specie di contraddizione in termini nel senso che, mentre si lavorava alla stesura del piano con vaste risorse, anche propagandistiche, al tempo stesso si «anticipava» il piano, sfornando interventi di ogni genere, di ogni misura, in ogni angolo della città, per un totale di oltre 40 milioni di metri cubi di nuova edificazione (vedi Paolo Berdini, Il Giubileo senza città, Editori Riuniti, 2000).

Così Roma ha continuato a espandersi a macchia d'olio, in tutte le direzioni. Il consumo del suolo, secondo me, è la questione centrale dell'urbanistica romana. Vale la pena di ricordare che, negli ultimi quarant'anni, la capitale ha sacrificato sotto il cemento e l'asfalto 30mila ettari di agro romano. Mille ettari all'anno. In 40 anni, la popolazione è aumentata del 13 per cento e il territorio urbanizzato del 360 per cento. Oggi Roma, come tutte le grandi città, è in forte declino demografico. Secondo i dati, ancora provvisori, del censimento 2001, la popolazione di Roma è diminuita di 270 mila unità rispetto al 1991, si è ridotto anche il numero delle famiglie e addirittura il numero delle abitazioni che, evidentemente, sono state destinate ad altri usi.

Ma il consumo del suolo continua a ritmo frenetico. L'agro romano è la più importante riserva archeologica d'Italia, forse del mondo; è il nucleo originario dell'identità romana, eppure continua a essere considerato buono a tutti gli usi. E' ormai ridotto a brandelli, sopraffatto da periferie in perenne espansione che hanno raggiunto la costa e i confini comunali. E' attraversato da una rete imponente di strade, ferrovie, elettrodotti, e frantumato dalla diffusione, in forma legale e più spesso illegale, di case e casette, impianti sportivi, servizi pubblici, uffici e attività produttive, depositi, esposizioni di ogni genere, vivai, maneggi, discariche, squallide distese di piccoli orti, spazi dismessi o in abbandono. Anche all'interno dei parchi naturali è evidente la disseminazione edilizia. Le uniche residue superfici agricole di consistente ampiezza sono quelle di proprietà pubblica (Castel Porziano, Santo Spirito) e poche altre grandi proprietà private.

La conseguenza di tutto questo è una città dov'è smodato lo spreco del territorio. Più che nelle altre città italiane ed europee. Nel 1961 ogni cittadino romano utilizzava meno di 60 metri quadrati di spazio urbanizzato, 40 anni dopo la superficie pro capite è aumentata a quasi 180 mq. Per completare il quadro, una recentissima legge della regione Lazio conferma l'edificazione nelle aree agricole.

Di fronte a tendenze come queste sommariamente descritte, sarebbe stato necessario un energico provvedimento volto a porre un freno alla rovina della campagna romana. La bassa densità delle periferie avrebbe potuto indurre a scelte di riorganizzazione e di ristrutturazione del territorio urbanizzato prevedendo un'intensificazione del suo uso, evitando un ulteriore consumo del suolo. Così non è stato. Il piano regolatore di Roma adottato mercoledì scorso prevede invece che, entro il 2012, la superficie urbanizzata aumenti di quasi 15 mila ettari e il volume edilizio di oltre 60 milioni di metri cubi.

Non si tratta solo di quantità esorbitanti. Un altro difetto fondamentale del nuovo piano riguarda la forma della città futura. Il decrepito piano regolatore del 1962, un piano indifendibile, immaginato per una città di cinque milioni di abitanti, senza alcun'attenzione per il rapporto con l'ambiente circostante, era però fondato su una suggestiva idea di città: accanto alla Roma storica, nei settori della periferia orientale doveva prendere corpo la città moderna. Lì dovevano trasferirsi i ministeri e le altre attività terziarie, liberando il centro - da riservare alla residenza e alle più pregiate funzioni di rappresentanza istituzionale - dalle oltraggiose condizioni di congestione e di inquinamento in cui viveva, e continua a vivere. Il successivo progetto Fori, ponendo l'archeologia al centro della città, completava un'immagine straordinaria della Roma moderna. Il nuovo piano, ahimè, non prevede niente del genere. Non c'è un'idea, se non quella, modestissima, di una quindicina di cosiddette centralità, più o meno una per ogni municipio (le vecchie circoscrizioni), dove concentrare attività commerciali e poco più. Il requiem al progetto Fori è stato celebrato di recente ponendo sull'area un vincolo monumentale che ne impedisce la trasformazione, inconfessato omaggio al regime fascista. Con tanti saluti al lavoro e alle speranze di Antonio Cederna, Luigi Petroselli e Adriano La Regina.

Se penso così male del nuovo piano di Roma, perché giudico positiva l'azione condotta da Veltroni? In primo luogo, perché è comunque un bene che la capitale non abbia rinunciato, come proponevano tanti portatori di interessi fondiari operanti in tutti gli schieramenti politici, alla pianificazione del territorio, e cioè al primato del- l'azione pubblica. Non va dimenticato che Milano ha, di fatto, rinunciato al piano regolatore generale, avendo assunto come strada maestra la contrattazione con i proprietari immobiliari, e che in larga parte d'Italia gli strumenti urbanistici sono ormai consunti simulacri di altre stagioni, all'ombra dei quali s'infittiscono le pratiche di accordo diretto con i privati, com'è consentito dall'ultima generazione di leggi varate ben prima del governo Berlusconi.

In secondo luogo, l'azione condotta da Walter Veltroni è positiva perché, senza il suo intervento, il piano sarebbe molto peggiore. Mi riferisco alla strumentazione attuativa e, in particolare, alla cosiddetta compensazione, che è il presupposto dell'urbanistica contrattata, un marchingegno perverso, funzionale all'obiettivo di rendere potenzialmente edificabile qualunque suolo, in qualunque circostanza. La possibilità di far ricorso alla compensazione ha indotto, con un madornale errore giuridico, a considerare diritti edificatori le vecchie previsioni urbanistiche. Grazie alla compensazione, si sono moltiplicati gli scambi obbrobriosi fra verde pubblico e nuova edificazione, con esiti paradossali, fino a 80 metri quadrati ad abitante di verde pubblico nel XII municipio, sì da indurre le associazioni ambientaliste a pretendere meno verde. Lo stesso sindaco ha preso le distanze dalla compensazione. A difenderla sono rimasti i costruttori e pochi altri. Alla fine, grazie a una decisiva mobilitazione di associazioni ambientaliste, dei verdi, di Rifondazione comunista, che si sono avvalsi anche di illustri specialisti (il giurista Vincenzo Cerulli Irelli, l'urbanista Edoardo Salzano), la compensazione urbanistica è stata depennata dagli strumenti di governo del territorio in uso nella capitale. Mi sento in obbligo di ricordare l'impegno lucido e convinto di Patrizia Sentinelli, capogruppo di Rifondazione comunista, protagonista delle discussioni negli ultimi mesi. L'esperienza di Roma non è conclusa.

All'adozione del piano farà seguito, nei prossimi mesi, la presentazione di osservazioni consentite agli operatori della materia e a chiunque intenda portare un contributo. La risposta spetta al consiglio comunale. Tutto può ancora succedere, non si possono escludere colpi di coda degli interessi colpiti. Spero che prevalga la ragione e siano possibili altri miglioramenti. Spero soprattutto che la vicenda del piano di Roma fornisca l'occasione per riflettere sull'urbanistica italiana, sui disastri degli ultimi anni, sui comportamenti delle istituzioni e del mondo politico. Anche a proposito di programmi del dopo Berlusconi. E' stato notato che in uno degli ultimi fascicoli di MicroMega, quello che conteneva i programmi della sinistra, erano elencate ventiquattro voci, dalla giustizia alla polizia, al lavoro, all'emigrazione, eccetera, ma niente che riguardasse il territorio, la città, le condizioni urbane. Un tempo l'urbanistica era una voce importante della politica, particolarmente a scala locale; e l'urbanistica romana, nel bene e nel male, era un riferimento per tutti. Si potrebbe ricominciare.

Vezio De Lucia

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LA STAMPA, 24 marzo 2003 La rivoluzione di Roma

Appena approvato tra mille polemiche il provvedimento ora passa alla fase attuativa - Dagli inizi con la giunta Rutelli all’allargamento politico della maggioranza - L’assessore all’Urbanistica ripercorre i passaggi salienti ed elenca le priorità di un piano storico Morassut: «Il Nuovo Piano Regolatore è una scommessa delle periferie»

Una rivoluzione copernicana. Si parte dalla concezione stessa della città, politica e culturale, per rinnovarla dalle radici. Si arriva alla forma estetica della metropoli il più possibile equilibrata, bella da vedersi, buona da viversi. Questi gli ambiziosi obiettivi del Nuovo Piano Regolatore, approvato la settimana scorsa a quarant’anni dall’ultimo provvedimento urbanistico, a cento dall’ultimo Piano votato da un’assemblea democraticamente eletta e non per decreto presidenziale. Tanti gli artefici di questo riassetto cittadino, tra loro, in primo piano, l’assessore all’Urbanistica Roberto Morassut che ha raccolto un’eredità fitta di storia che ha voglia di raccontare:

«Il Piano nasce nel `96 con la giunta Rutelli come base di un bilancio urbanistico romano temporalizzato. Con la variante delle certezze, primo rivoluzionario passaggio, si chiudeva con il passato e la sua pesante eredità fatta di abusivismo, degrado generalizzato condizionato da Tangentopoli. Questa Variante completava la Variante di Salvaguardia iniziata da Signorello sulla quale la sinistra impegnò una dura battaglia politica finalizzata e migliorarla. Ci riuscì e poi con Rutelli si completò. A questo punto, 1996-1997, si costituì il gruppo di lavoro del quale fece parte da subito anche Campos Venuti. Nel 2000 ci fu una prima proposta di Giunta accompagnata da atti importanti, articoli 11 mirati al recupero delle periferie, più in generale al recupero urbano e alla salvaguardia dell’ambiente. Su questi punti si è articolato il lavoro di Bettini che diede la barra politica del risanamento».

E siamo ai giorni nostri. La giunta Veltroni a questo punto come si è mossa? «Abbiamo ereditato un Piano che esce, dopo un anno e mezzo di lavoro, arricchito anche nel suo quadro politico. Penso a Rifondazione, alla riorganizzazione del centro. Ci vedo pure una coerenza maggiore un rapporto tra Piano e sistema della Mobilità più fluido. Infrastrutture, senza le quali non c’è edificabilità. Gli architetti Colasante e Maltese, tecnici del Comune, hanno lavorato molto alle previsioni di sviluppo legate all’edilizia residenziale pubblica». [RMINTERV]A questo proposito, il Piano pare pensi poco all’edilizia residenziale pubblica, sembra più un piano di protezione... «È un’offerta che dovremo implementare con scelte che privilegino il recupero di aree dismesse e che non sfruttino il suolo nuovo. Tor Pagnotta, forse lì l’edificabilità è eccessiva (1 milione e mezzo di metri cubi) pur se già ridotta di tre quarti rispetto a prima. Su Tor Marancia avevamo avuto un parere di non edificabilità che adesso ci pone il problema delle compensazioni, la necessità di costituire la riserva di aree pubbliche per onorare questo debito. Trecento ettari di aree di riserva, un esperimento per trovare il giusto equilibrio con le istanze ambientaliste. Dobbiamo mettere a punto una manovra sostenibile per l’edilizia residenziale pubblica in accordo con la Regione che promuova bandi anche per incentivare il riuso del già esistente. Dando premi per chi vuole recuperare edifici dismessi da strappare al degrado».

Ma i costi sono maggiori e gli imprenditori non ci stanno «Costi maggiori, soprattutto una filiera produttiva diversa, competenze, tecniche e rischio imprenditoriale differente, anche la sfida di superare una cultura vecchia. Io ho molta fiducia in una certa ala di imprenditori romani che ha imboccato la strada della consapevolezza e della qualità, costruttori dalla mente aperta, sensibili, che vedo ben guidati. Se fossero aiutati dagli incentivi pubblici andrebbe ancora meglio. La Regione deve dare una mano alle imprese di costruzioni romane».

E i 105 mila immigrati che gravitano su Roma dove andranno a vivere? «Mai in quartieri ghetto. L’edilizia residenziale pubblica è fatta di programmi per l’affitto da destinare i monoreddito, a coloro che comprano casa a costi ridotti con incentivo pubblico e alle fasce del bisogno e all’emergenza. Quest’edilizia deve tendere a forme sparse, inserite in quartieri di alto e medio livello; Massimina, Romanina, La Storta, che sono le centralità del futuro. Così garantiamo un’integrazione e un’articolazione del sistema sociale».

L’opposizione vi accusa di avere messo insieme un Piano poco partecipato, nato e cresciuto nelle segrete stanze. Come ribatte alle accuse? «Con la realtà. Tutti i Municipi hanno votato tre volte gli elaborati del Piano. Abbiamo ascoltato le associazioni e i comitati dei cittadini con grandissimo senso di responsabilità. E ne è venuto fuori un Piano moderno che punta a recuperare il gap infrastrutturale, che valorizza il lascito ambientale, culturale e storico di Roma. L’agro romano, per esempio, perché la capitale non è solo dentro le mura».

Il padre ideologico del Piano, Campos Venuti, ha fortemente criticato una parte del provvedimento, tanto da ritirare la sua firma. La sua riserva era puntata sullo strumento della perequazione. Lei come risponde? «Accolgo le osservazioni di Campos Venuti. Bisogna acquisire aree verdi per i servizi locali senza usare come unica arma l’esproprio. La perequazione è una via percorribile. Si tratta dell’acquisizione gratuita di un terreno in cambio di un 20% da lasciare ai proprietari. Questo 20% deve essere usato per pubblici esercizi, o ambulatori o servizi socio-assistenziali. Uno strumento nuovo che utilizzeremo nella città da ristrutturare. Vorrei approfondire la discussione che deve però essere svincolata dal contrappunto tra urbanisti riformisti e urbanisti massimalisti, altrimenti si rischia di rendere poco chiaro il contorno del problema. I fatti sono che si deve riorganizzare il tessuto delle borgate intermedie, mi riferisco a Torre Maura, Vitinia, Monte Spaccato, Giardinetti, cresciute tra palazzoni di periferia e una vasta proliferazione abusiva della corona esterna. Ecco quel tessuto manca di infrastrutture, intese persino come marciapiedi. Questa situazione può cambiare anche con la perequazione. Accetto le critiche di Campos Venuti. Mi dispiace la sua radicalità, non penso che il "suo Piano" sia stato stravolto. Lui era consapevole delle tante istanze che abbiamo rafforzato. Il passaggio da centro a città storica, il policentrismo, la ricerca di un equilibrio tra periferia e centro ancora lontano dall’essere raggiunto e soprattutto l’importanza dei municipi».

In definitiva, avremo modo di vedere una città architettonicamente omogenea, innovativa, in grado di coniugare passato e presente in modo armonioso? Come si può ottenere questo risultato? «Grazie agli architetti che progetteranno su uno schema preliminare di assetto unitario dell’intera centralità. La qualità urbana è proprio nelle nostre priorità, per questo abbiamo pensato a un comitato per la qualità con la partecipazione di urbanisti di chiara fama che dovranno approvare i progetto con un occhio aperto al nuovo ma compatibile con il già esistente».

I costruttori lamentano che non sia inserito, all’articolo 1 del piano, la parola «sviluppo». Perché è stata omessa? «Perché il Piano Regolatore non è uno strumento per promuovere sviluppo ma è la base per le politiche di crescita. Il Piano è la maglia, agli imprenditori il compito di dotarsi degli strumenti adatti allo sviluppo».

Michela Tamburrino

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CORRIERE DELLA SERA, 24 marzo 2003 «Il centro? Ha ragione il sovrintendente» Le associazioni sono d’accordo con le accuse, ma gli amministratori replicano: stiamo facendo molto

Gli abitanti della zona con La Regina, i politici con l’amministrazione. Se, da una parte, l’associazione «Centro storico» e gli ambientalisti di «Scopriroma» concordano in pieno con quanto denunciato ieri sul Corriere dal sovrintendente ai beni archeologici, dall’altra assessorato al Commercio e Primo Municipio, ricordano quanto, fin qui, è stato fatto per salvare la parte pregiata della città dal degrado. «Oggi stesso chiederò un incontro con Adriano La Regina. Voglio parlare con lui per fare il punto su quanto è stato fatto e su quello che c’è da fare». L’assessore al Commercio Daniela Valentini, dopo il j’accuse

E' senz'altro vero che la vigente normativa non pone limiti temporali alle previsioni di edificazione privata, ma questo non vuol dire che l'edificabilità prevista non possa essere modificata da un successivo intervento di pianificazione urbanistica.

La giurisprudenza amministrativa è infatti unanime e costante nell'affermare che "il comune, in sede di adozione di una variante al piano regolatore generale, ha la facoltà ampiamente discrezionale di modificare le precedenti previsioni urbanistiche senza obbligo di motivazione specifica ed analitica per le singole zone innovate, salva peraltro la necessità di una congrua indicazione delle diverse esigenze che si sono dovute conciliare e la coerenza delle soluzioni predisposte con i criteri tecnico-urbanistici stabiliti per la formazione del piano regolatore" (così Cons. Stato, sez. IV, 03-07-2000, n. 3646). Si precisa tuttavia che "è comunque necessario che l’amministrazione dia conto delle ragioni che la inducono a modificare la destinazione di un’area nella quale lo strumento generale prevedeva l’edificazione" (Cons. Stato, sez. IV, 13-05-1998, n. 814).

Sul punto è interessante sottolineare che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, "neppure la preesistenza di un piano di lottizzazione approvato e già convenzionato costituisce - per se sola - un ostacolo alla modifica delle previsioni urbanistiche vigenti su una determinata area, proprio perché il PRG non rappresenta uno strumento immodificabile di pianificazione del territorio, sul quale i privati possano fondare sine die, le proprie aspettative, ma è suscettibile di revisione ogni qual volta sopravvenute esigenze di pubblico interesse, obiettivamente esistenti ed adeguatamente motivate, facciano ritenere superata la disciplina da esso dettata" (T.A.R. Lombardia, sez. Brescia, 12-01-2001, n. 2).

In sostanza, mi sembra che nessun ostacolo giuridico (ma vi possono certamente essere ragioni di carattere politico o comunque di opportunità) escluda che un comune, in sede di variazione degli strumenti urbanistici vigenti ovvero in sede di nuova redazione del piano regolatore, disciplini il regime di trasformazione degli immobili in modo difforme dal precedente atto di pianificazione, ad esempio prevedendo per alcune aree la destinazione a zona agricola.

Resta inteso che tanto maggiore sarà l'affidamento ingenerato nel proprietario, tanto più analitica ed esauriente dovrà essere la motivazione posta alla base del nuovo atto di pianificazione.

Effettuata questa premessa mi preme formulare un ulteriore considerazione.

La nuova destinazione di un'area non deve coincidere necessariamente con l'imposizione di un regime di inedificabilità assoluta (ossia un vincolo di carattere sostanzialmente espropriativo ovvero preordinato all'espropriazione) né di un vincolo di carattere morfologico (caratterizzato cioè dalla particolare natura del bene).

Per quanto attiene alla prima ipotesi, è noto che la Corte costituzionale, con la sentenza 179/99, ha stabilito che si pone un problema di indennizzo per quei vincoli che 1) siano preordinati all'espropriazione, ovvero abbiano carattere sostanzialmente espropriativo, nel senso di comportare come effetto pratico uno svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà stessa, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati, comportanti inedificabilità assoluta, qualora non siano stati discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore dello Stato o delle Regioni; 2) superino la durata che dal legislatore sia stata determinata come limite, non irragionevole e non arbitrario, alla sopportabilità del vincolo urbanistico da parte del singolo soggetto titolare del bene determinato colpito dal vincolo, ove non intervenga l'espropriazione, ovvero non si inizi la procedura attuativa (preordinata all'esproprio) attraverso l'approvazione di piani particolareggiati o di esecuzione, aventi a loro volta termini massimi di attuazione fissati dalla legge.

Orbene, non vi è dubbio che, tra la previsione di una nuova destinazione su un'area, comportante la drastica riduzione degli indici di edificabilità (ad esempio destinazione agricola) e l'imposizione sulla stessa di un regime di inedificabilità assoluta (con tutte le conseguenze con riguardo all'obbligo indennitario, in caso di reiterazione), si collocano una serie di soluzioni pianificatorie intermedie, comunque compatibili con l'attuale disciplina della materia, non rappresentando cioè lo svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà.

Ricordo peraltro che la stessa sentenza costituzionale 55/68 ha riconosciuto che non ogni disciplina restrittiva dell'attività edificatoria comporta un obbligo di indennizzo: "rappresenta un punto fermo il concetto che non possono farsi rientrare nelle fattispecie espropriative le limitazioni del genere di quelle ammesse senza indennizzo dall'art. 42, secondo comma, della Costituzione, e, quindi, tra l'altro, quelle che fissano gli indici di fabbricabilità delle singole proprietà immobiliari, anche quando tali indici possono assumere valori particolarmente bassi (come nel caso di edilizia urbana estensiva e persino rada, del tipo di costruzioni circondate da ampi e predominanti spazi verdi). Pur essendo imposte nei confronti di singoli beni, tali limitazioni sono da considerare, infatti, operate sulla base di quel carattere tradizionale e connaturale delle aree urbane, basato su quelle esigenze di ordine ed euritmia nell'edilizia …".

Ed infatti è stato autorevolmente stabilito che "la destinazione a zona agricola contenuta in un piano regolatore generale non concretizza un vincolo a contenuto espropriativo, bensì conformativo del diritto di proprietà; ne consegue che la relativa prescrizione non è indennizzabile, né è soggetta al limite temporale d’efficacia di cui all’art. 2 l. 19 novembre 1968 n. 1187" (C. Stato, sez. IV, 06-03-1998, n. 382); "anche se i vincoli compressivi della proprietà immobiliare soggetti a decadenza quinquennale ai sensi della l. 19 novembre 1968 n. 1187 non sono solo quelli preordinati all’espropriazione ma anche quelli che comportano l’inedificabilità assoluta, o comunque che privano il diritto di proprietà del suo sostanziale valore economico, deve peraltro ritenersi che fra tali vincoli non rientri la destinazione a verde agricolo, atteso che quest’ultima non si configura come una limitazione tale da rendere inutilizzabile l’immobile in relazione alla destinazione inerente alla sua natura, restando al proprietario la possibilità di trarne un utile mediante la coltivazione e, inoltre una possibilità, sia pure contenuta entro parametri prestabiliti, di limitata edificazione" (C. Stato, sez. V, 07-08-1996, n. 881); ancora "è legittima la previsione di un’edificazione estremamente rada e la conservazione di ampi intervalli di verde finalizzata al più conveniente equilibrio delle condizioni di vivibilità della popolazione, in quanto la destinazione agricola può servire per orientare gli insediamenti urbani e produttivi in determinate direzioni, ovvero per salvaguardare precisi equilibri di assetto territoriale" (T.a.r. Lazio, sez. I, 19-07-1999, n. 1652).

In sostanza, l'amministrazione comunale, fermo restando l'obbligo di motivazione, può rivedere le destinazioni urbanistiche vigenti senza dover necessariamente addivenire all'espropriazione delle aree il cui regime intende innovare ovvero integrare una delle fattispecie che, sulla base della citata sentenza costituzionale, impongono un obbligo indennitario.

Quanto ai vincoli cosiddetti morfologici, concordo in pieno con le affermazione del prof. Campos Venuti, essendo indiscutibilmente vero che il regime giuridico preordinato alla tutela di tale tipologia di beni prevale sulle prescrizioni urbanistiche con esso eventualmente incompatibili.

«Roma non merita questo piano regolatore»: sotto questo slogan scritto a caratteri cubitali sullo striscione che guidava il corteo, centinaia di persone hanno manifestato ieri pomeriggio contro la proposta di Prg del comune di Roma. Il corteo, promosso da varie associazioni ambientaliste e comitati di cittadini (dalle «Rete per il piano regolatore partecipato» a Italia nostra, dal Wwf a Legambiente, da Verdi ambiente e società ai centri sociali ai disobbedienti) è sfilato dal Colosseo al Campidoglio, dove una delegazione di manifestanti ha incontrato i capigruppo in consiglio comunale. Alla giornata di protesta, seguita a molte iniziative promosse nei giorni scorsi in diversi quartieri, hanno aderito anche partiti (Rifondazione e Verdi), urbanisti, docenti universitari e sindacalisti Cgil. Al sindaco Veltroni contestano innanzitutto il «mancato coinvolgimento dei cittadini» nella redazione della nuova pianta di Roma. Nel merito del Prg, in particolare l'«enorme quantità di cemento» (sessantaquattro milioni di metri cubi) che si riverserà, se il Piano verrà approvato così come è dal consiglio comunale, nel territorio. Troppo, eccessivo in una città che «continua a perdere abitanti», fanno notare i promotori dal corteo, accusando il comune di «ascoltare soltanto i costruttori». «Il piano comunale - dice Mirella Belvisi, di Italia nostra, per anni consigliere comunale verde - va a compromettere aree che avevamo tutelato con il vecchio `piano delle certezze', le aree agricole infatti ora sono trasformate in aree di riserva per nuove costruzioni. Lo sviluppo urbano è inoltre previsto nella cintura verde della città, il che vuol dire che finisce la tutela ambientale per la quale ci eravamo tanto battuti in passato». L'altra «cosa grave - aggiunge Belvisi - è che nel centro storico il comune prevede la demolizione dell'esistente e la ricostruzione senza piano di recupero. E' un fatto gravissimo». «Basta con la città degli affari, con la città dei salotti - dice Guido Lutrario, della Rete per il piano regolatore partecipato - . Vogliamo un piano che salvaguardi l'identità storica della città, che tuteli i ceti popolari che ancora ci vivono».

I manifestanti ribadiscono al comune la richiesta di un confronto con «il nostro piano regolatore». «Roma - scrivono in un documento appello - ha davanti a sè la grande occasione per ripensare la città e farne il centro della sostenibilità (mobilità pubblica su ferro, lotta all'inquinamento acustico, atmosferico ed elettromagnetico), della biodiversità (tutela del territorio) e dell'accoglienza e la solidarietà verso i migranti e tutti coloro che vivono nel disagio».

L'approvazione del Prg è prevista per la fine dell'anno. Per le eventuali modifiche c'è ancora tempo, ma dal Campidoglio neanche ieri sono arrivati segnali «positivi» per i manifestanti». I Verdi e Prc, in giunta, minacciano di non votarlo. Noi il piano lo vogliamo, ma non così com'è, ora è un'orgia di cemento incontrollato», dicono.

In serata, mentre era in corso la riunione con i capigruppo capitolini, in via Ostiense un gruppo di studenti e lavoratori precari hanno occupato uno dei tanti edifici pubblici abbandonati. E' una ex sede della Croce rossa, dove, secondo glio occupanti, nascerà «la camera del lavoro e del non lavoro». Il nuovo centro di aggregazione giovanile ha già un nome: si chiama «Acrobax».

Roma ha il nuovo piano regolatore. Non è stato ancora varato, ma è già un evento: la sua redazione dura da otto anni e il piano precedente risale al 1962. Da settimane se ne discute in ogni circoscrizione (che ora si chiamano municipi) e in tante altre sedi: è come se la città si fosse ripresa da un certo intontimento. Il documento agita anche il meglio della cultura urbanistica: a Giuseppe Campos Venuti, che lo ha realizzato insieme a Federico Oliva e agli architetti del Comune, si oppongono Vezio De Lucia ed Edoardo Salzano. Obiezioni ha avanzato anche Leonardo Benevolo.

Roma ha una storia politica, una religiosa, una affidata al suo ruolo, un´altra al suo mito. Eppure le trasformazioni vere della città, l´aggregarsi dei poteri, si leggono nelle vicende materiali, nella crescita dei quartieri, nel costituirsi e nello slabbrarsi della forma urbana. E niente, come la stesura di un piano, fa risaltare la trama degli interessi che innervano Roma e quanto restino forti quelli della proprietà fondiaria e immobiliare.

Il piano del 1962 si avventurava in previsioni clamorosamente smentite (una Roma da sei milioni di abitanti) e metteva il sigillo sulla speculazione, sugli affari del Vaticano e della Società Generale Immobiliare, sul dominio delle macchine, sulla crescita della città come una macchia d´olio che invadeva da tutti i lati la campagna romana. L´eredità di quel progetto è ingombrante: sono 120 milioni i metri cubi di nuovi edifici che allora erano stati previsti e che invece non vennero realizzati (per mille motivi, compresi il buonsenso e l´assenza di domanda, ma anche perché dilagò l´abusivismo).

La partita più delicata si gioca su quei numeri. Quasi che il nuovo non possa liberarsi dall´ingombro del vecchio e Roma resti inchiodata al suo passato. Il Comune vuole consentire l´edificazione di 65 di quei 120 milioni di metri cubi. Sono diritti acquisiti, si sostiene in Campidoglio, li abbiamo già dimezzati e non si può fare di più. Altrimenti finiremo sommersi dai ricorsi. Inoltre, 40 milioni sono già in costruzione (li ha decisi in gran parte la giunta Rutelli) per cui i nuovi sarebbero 25: cerchiamo di usarli al meglio, spiega il sindaco Walter Veltroni, «per mettere un punto fermo alla crescita della città, che altrimenti crescerebbe da sola, per creare tanti centri in periferia e per distribuire verde e servizi».

La replica arriva da tutto il fronte ambientalista (Italia Nostra, Wwf, Legambiente, Polis, Comitato per la bellezza, Verdi ambiente e società, che oggi, alle 16,30, sfileranno dal Colosseo al Campidoglio) e da una parte della stessa maggioranza (il gruppo Aprile dei Ds, i Verdi e Rifondazione). Troppe scelte sono affidate ai privati, assicurano, in particolare ai proprietari delle aree. E poi non è vero che quei diritti edificatori siano intoccabili: lo dimostrerebbero sia sentenze della Corte costituzionale che la legge e basterebbe solo motivare con buona perizia il rifiuto opposto dal Comune ai proprietari e fissare regole valide per tutti, senza ammettere privilegi. Roma, aggiungono gli ambientalisti, non sopporterebbe questo massiccio carico di edifici, 540 mila nuove stanze ammassate su 7 mila ettari che dovrebbero ospitare quasi 270 mila persone: come se a Roma si aggiungesse Venezia. Il tutto in una città che negli ultimi dieci anni ha perso quasi 300 mila residenti, stando ai dati del censimento, e per la prima volta ha visto diminuire anche il numero delle famiglie.

Manca ancora il voto finale del Consiglio comunale e non è detto che l´approvazione del piano rispetti la scadenza del 31 dicembre (è in atto un braccio di ferro fra Veltroni e il presidente della Regione, Francesco Storace): ma non è secondario, insiste Campos Venuti, che si affidi alla pianificazione la capitale di un paese dove si diffonde la più sfacciata deregulation urbanistica e dove va affermandosi il modello milanese, tanto caro alla destra, di contrattare tutti gli interventi - Comune, da una parte, grandi investitori dall´altra.

Il marchio di Campos Venuti, urbanista fra i più affermati e di grande esperienza, è evidente: Roma in dieci anni avrà tre linee ferroviarie urbane e quattro metropolitane con 266 stazioni («E´ un passo in avanti, ma siamo ancora molto indietro rispetto a Londra, Berlino o Parigi», aggiunge Campos). Veltroni sottolinea anche altri aspetti: «Il perimetro della città storica si allarga oltre la parte monumentale, comprendendo l´edilizia novecentesca fino alle case popolari di San Saba, alla Garbatella, al quartiere delle Vittorie, all´Eur; nelle periferie vengono distribuite venti "centralità", e cioè insediamenti che mescolano residenza, uffici e commercio e che dovrebbero ricucire con buone architetture zone sfilacciate e prive di servizi, portando scuole, campi sportivi e tanto verde». E quanto al verde, ecco i numeri più imponenti: 87 mila sarebbero gli ettari di terreno vincolati e sui quali non si dovrebbe poter costruire mai più (l´intero territorio comunale ammonta a 129 mila ettari) e 7.700 gli ettari destinati a verde pubblico, «pari a cinquanta ville Borghese», sottolinea Campos Venuti.

Ma anche su queste ultime cifre si è aperto un contenzioso con gli ambientalisti. Che a tratti può sembrare paradossale. Per Campos Venuti è il fiore all´occhiello di un´urbanistica riformista. Non potendo più espropriare suoli da destinare a verde pubblico perché costerebbero troppo, il Comune avvia una trattativa con i proprietari, ai quali si consente di costruire, mettiamo, su un venti per cento del proprio suolo "regalando" all´amministrazione l´altro ottanta. E su questo ottanta il Comune attrezza un parco. Il meccanismo si chiama "compensazione". Che può avere anche un altro risvolto. Se gli interessa acquistare una certa area da destinare integralmente a verde pubblico, il Comune chiede al privato che la possiede di cedergliela e gli consente di andarsene a costruire altrove.

Legambiente, Italia Nostra e gli altri gruppi sostengono che questo meccanismo sia una trappola. Una legge del 1968 prevede che ogni abitante abbia una quota di territorio per verde e servizi pari a 18 metri quadri. E´ una legge scarsamente rispettata. Ma a Roma accadrebbe il miracolo: con il nuovo piano regolatore quella quota schizzerebbe a 32 metri quadri. «Il problema», spiega Edoardo Zanchini di Legambiente, «è che per fare parchi in città si costruirebbero case per 3 milioni di metri cubi nella campagna romana: è un gatto che si morde la coda. Il rischio è che quei parchi non si realizzino mai e che la campagna venga ulteriormente saccheggiata». Replica Veltroni: «Noi fissiamo delle previsioni di crescita, ottenendo in cambio di trasformare Roma nella città con più verde in Europa: non capisco lo scandalo».

Il confronto vede fronteggiarsi due anime dell´urbanistica e della sinistra (la destra sta a guardare divisa al suo interno: un po´ fa ostruzionismo, un po´ cavalca l´ambientalismo, ma nell´attesa la Regione di Storace riduce i perimetri dei parchi). Da una settimana è stato aperto un "tavolo verde": da una parte il Comune, dall´altra le associazioni ambientaliste. Il sindaco Veltroni mostra grande apertura: «Abbiamo proposto di ridurre le cubature e in particolare i volumi delle centralità. E inoltre abbiamo assicurato che mai più ci saranno compensazioni».

Nel frattempo Roma cresce. Non si vedeva da tempo un simile fervore di cantieri (la gran parte avviati nell´ultimo scorcio degli anni Novanta). Quaranta milioni di metri cubi dalla Bufalotta, estremo nord della città, dilagano su una striscia di campagna romana che supera il raccordo anulare e con le sue forme ondulate, le alture rotonde e i pini a ombrello, gli olmi e i lecci avvolge la città fin oltre la Magliana, nel lembo a sud-ovest che si spinge verso Fiumicino e il mare. E´ la città non-città. Le réclame dei costruttori sono intinte nella tavolozza del bucolico: boccioli di rosa e cespugli di alloro. Vaste praterie e oasi naturali ospitano complessi residenziali che scalano la sommità delle colline e ridiscendono nelle valli. Sono villette a schiera, palazzine o palazzi più grandi con videocitofoni, porte blindate, antenne satellitari, serrande elettriche e parquet. Si costruisce alla Marcigliana e a Ponte di Nona sulla Prenestina (qui i Caltagirone stanno realizzando un insediamento da 1 milione 200 mila metri cubi per 10 mila persone). Altri complessi spuntano a Ponte Galeria e a Mezzocammino, a Castellaccio e a Vitinia. A Tor Pagnotta, lungo la Laurentina, a ridosso di una torre medioevale che sormonta una villa romana, arriveranno 1 milione di metri cubi in un´area di proprietà Caltagirone.

La domanda di case, si assicura, è orientata verso questo tipo di edilizia. Pochi servizi e tanti centri commerciali. Gran parte degli spostamenti avverrà in macchina. E il ferro? Scarsissimo, assicura l´urbanista Paolo Berdini: «Nulla è previsto alla Bufalotta, dove stanno costruendo il più grande ipermercato della città, ventimila metri quadri; nulla a Ponte di Nona, dove Roma tenderà a saldarsi con Guidonia e Zagarolo; nulla a Tor Pagnotta». «Buona parte di questi insediamenti li ereditiamo e a Tor Pagnotta abbiamo più che dimezzato le cubature», insiste Veltroni. «Ma nel piano abbiamo fissato il principio che si costruirà solo dove arrivano le infrastrutture».

Da alcuni anni la residenza si sta ammassando nelle estreme periferie, mentre diminuiscono ancora gli abitanti del centro storico (dal 4,4 per cento dell´intera popolazione romana nel 1991, al 3,6). Il fenomeno, concordano tutti, aggrava la congestione di macchine e rende il centro sempre più povero di servizi essenziali (spariscono gli alimentari e gli artigiani, crescono jeanserie e bigiotterie), mentre sedi di assicurazioni e studi professionali divorano anche le zone semicentrali (da Prati ai Parioli, dal quartiere Trieste alla zona di Piazza Bologna). Con il passare del tempo si è sbiadito un orizzonte culturale che aveva animato l´urbanistica romana (un nome su tutti, Antonio Cederna): trasferire uffici e ministeri dal centro verso la periferia per migliorare l´uno e l´altra (Cederna si batteva anche per rimuovere via dei Fori Imperiali, creando un parco archeologico e impedendo alle macchine di affumicare piazza Venezia: ma anche quell´idea, rilanciata nei giorni scorsi da Leonardo Benevolo, è stata lasciata sfiorire). Qualcosa si sta realizzando: le venti "centralità" fissate da Campos Venuti dovrebbero andare in questa direzione e già è deciso che gli uffici del Campidoglio traslochino all´Ostiense. Manca però un piano organico, il governo nazionale non dà alcun contributo e si innestano le retromarce (gli uffici del ministero delle Finanze dall´Eur a Trastevere).

Basta abitazioni, non ne possiamo più: si alza forte la protesta di Sandro Medici, ex direttore del Manifesto, ora presidente del X Municipio, un cuneo che parte da Porta Furba e arriva fino alle vigne del Frascati, sotto i Castelli. E sono proprio le centinaia di ettari dove si produce il Frascati che rischiano di essere sommersi da case e villette. «In quindici anni abbiamo subito un´invasione di cemento, oltre a imponenti centri commerciali come l´Ikea e Cinecittà 2», spiega Medici. «Il nostro quartiere è stremato e non si risolvono i problemi che ci trasciniamo dal dopoguerra, quando questo territorio diventò il laboratorio della speculazione e poi ospitò interi insediamenti abusivi. Ora sono stati aggrediti i residui terreni agricoli ai margini della città, un processo che consuma suolo e moltiplica la rendita immobiliare nelle aree circostanti».

A Torre Spaccata e alla Romanina, fra Cinecittà e il raccordo anulare, sono previste "centralità" per 2 milioni e mezzo di metri cubi. Era concreto il rischio che questa massa di cemento ospitasse soprattutto case e centri commerciali che fanno guadagnare solo chi costruisce e non riqualificano niente. «Ora, però, il Comune si dice disposto a tagliare i volumi e ad accogliere la nostra richiesta di insediarvi dipartimenti universitari e altre strutture legate alla cinematografia, oltre a un polo per il volontariato», dice Medici. «A Roma esistono due trasformazioni positive generate da vere "centralità"», aggiunge Berdini, «le hanno prodotte la Terza Università all´Ostiense e la Seconda Università a Tor Vergata: entrambi interventi guidati dalla mano pubblica».

Il dibattito è acceso. Dalle stanze degli amministratori e dagli studi degli architetti si sposta nei quartieri, da quelli del centro ai più lontani spicchi di città. Non si sa se la disputa fra ambientalisti e Campidoglio sfocerà in un accordo. Veltroni assicura che si è sulla buona strada: troppo forte è il rischio che spunti un terzo contendente, quello che il piano regolatore a Roma non lo vuole né ora né mai.

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