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L’economia romana cresce a ritmi maggiori di quella nazionale. E’ un dato oggettivo, ci sono i numeri concreti delle statistiche, non servono dimostrazioni. Affermare che in questi ultimi anni le condizioni di vita urbana sono notevolmente peggiorate è invece una tesi, e richiede una doverosa dimostrazione. La faremo partendo dai tre più evidenti segnali della crisi urbana: il blocco quotidiano del traffico automobilistico, lo stato della periferia e il degrado del centro storico.

I veicoli dei romani sono quasi due milioni e 400 mila. A questi bisogna aggiungere 600.000 tra motorini e moto di grossa cilindrata. Ogni abitante dispone di un’automobile; uno su quattro di uno scooter. Cifre impressionanti che non hanno uguali in ogni altra città italiana o del mondo. Roma ha infatti 893 auto per ogni 1000 abitanti a fronte di una media italiana di 724. Il confronto con l’Europa è disastroso. Il massimo numero di automobili è raggiunto da Madrid, 464 ogni mille abitanti. Vienna ne ha 363. Stoccolma 297.

Serve l’automobile perchè l’espansione urbana ha raggiunto nell’ultimo decennio una dimensione gigantesca. Lo studio redatto dallo stesso comune di Roma (Assessorato alle politiche di attuazione degli strumenti urbanistici, Dipartimento IX, Carta dell’uso del suolo, Roma 2004) misura l’estensione dell’urbanizzazione a cavallo dell’anno 2000 in46.000 ettari. L’estensione della città è di 129.000 ettari. Sottraendo dunque l’urbanizzato, restano inedificati 83.000 ettari. Se togliamo anche le previsioni del nuovo piano regolatore 2003-2006, e cioè 70 milioni di metri cubi di cemento pari ad un consumo di suolo di almeno 15.000 ettari, gli spazi agricoli si riducono a 68.000 ettari, il 52% del territorio. Aumenta la dissipazione del territorio e gli spostamenti tra residenza e lavoro.

Nelle relazioni del nuovo piano regolatore si continua invece ad affermare che “88.000 ettari di territorio romano sono sottratti all’urbanizzazione e mantenuti per sempre all’attività agricola”. Non è vero, ventimila ettari sono già stati urbanizzati o lo saranno in tempi brevissimi. Sono stati occupati dalla grande espulsione di abitanti di questi anni. Nel periodo compreso tra i censimenti del 1991 e il 2001, hanno abbandonato Roma circa 178 mila persone, una città come Modena. Con l’attuale indice medio di persone per famiglia (2,42), fanno quasi 80 mila famiglie.

Nel 2001 i quartieri dentro l’anello ferroviario hanno una popolazione residente inferiore a quella del 1951. Il fenomeno inedito è che anche nella periferia interna al Grande raccordo anulare è in atto un forte decremento di abitanti: nell’area compresa tra l’anello ferroviario e la grande arteria stradale è scesa di circa 70 mila abitanti. Tutta la periferia esterna all’anello aumenta invece la propria popolazione di circa 133 mila abitanti, una percentuale superiore al 15%. I romani sono stati spinti oltre il Grande raccordo anulare e fuori dei confini comunali. Dell’insieme degli abitanti che hanno lasciato Roma, infatti, 117 mila si sono trasferiti nei comuni dell’area metropolitana.

Ogni giorno gli abitanti della periferia urbana e metropolitana cercano di raggiungere i posti di lavoro localizzati nel centro della città. Migliaia di veicoli incolonnati la mattina. Migliaia di veicoli incolonnati la sera, nelle ore del ritorno. Dalle due alle tre ore al giorno per spostarsi. Uno spettacolo sempre uguale e sempre più inaccettabile. Per coloro che sono condannati a quella vita e per coloro che ne sopportano le conseguenze in termini di inquinamento. Non è un oscuro destino ad aver condannato quelle persone a recarsi nel centro di Roma ogni giorno. E’ la rinuncia a decentrare i luoghi di lavoro verso aree più esterne, servite da trasporto pubblico su ferro. Il record del numero dei veicoli romani nasce da qui, e se cercate all’interno degli elaborati del nuovo piano regolatore, non troverete nessuna delle impressionanti cifre che abbiamo riportato, né alcuna ipotesi credibile di decentramento delle attività dello Stato che soffocano il centro storico.

Come se il problema non esistesse. Forse perchè la città continua ad attrarre turisti, attività lavorative, alberghi, residenze per studenti universitari, un numero crescente di immigrati dai paesi poveri. Perde popolazione ma richiama nuove attività. Non presenta segni di declino e dal punto di vista strettamente economico attraversa una fase di grande dinamismo. Diventa sempre più invivibile, ma più ricca. Sta diventando un luogo per il consumo voluttuario di massa.

Ance e Nomisma affermano che le abitazioni hanno raddoppiato il loro valore nel giro degli ultimi otto anni. Nei centri storici l’aumento è stato molto più elevato. Nello stesso periodo gli affitti sono lievitati del 150%. A Roma ci sono 10.000 famiglie in stato di disagio abitativo o sotto sfratto. La popolazione sparisce perchè non può pagare i prezzi delle abitazioni. Il nuovo piano regolatore prevede la realizzazione di 70 milioni di metri cubi di edifici: togliendo la parte destinata alle attività terziarie e produttive, resta una quantità di case in grado di ospitare circa 400.000 abitanti. La contraddizione è palese: quasi 200 mila sono stati costretti ad allontanarsi da Roma perché non ce la fanno a sostenere i prezzi degli immobili, e si prevede di costruire una quantità enorme di abitazioni private, dello stesso valore di mercato di quelle abbandonate.

Una quantità così elevata di cubatura non trova dunque giustificazione nei reali fabbisogni della città. Risponde esclusivamente ad alcuni segmenti di mercato (quelli di medio e alto valore) ed è un inaspettato regalo alla proprietà fondiaria. In tempi non sospetti (2003), un attento osservatore delle questioni economiche nazionali, Dario Di Vico, dopo aver sottolineato l’emersione sulla scena romana del fenomeno dei nuovi “immobiliaristi”, lanciava sul Corriere della Sera un quesito di fondo:“E allora chi per il ruolo che ricopre deve ragionare in termini di bene pubblico (e quindi di investimenti nella ricerca e nuovi posti di lavoro) la domanda deve porsela: se l’economia romana torna ad essere trainata dal mattone –per di più fattosi banca- siamo proprio sicuri che sia un segnale positivo? Non sarà il caso di essere più guardinghi?”.

Quali sono le caratteristiche della crescita economica romana? Nello studio Roma e la sua struttura produttiva presentato dall’assessore capitolino all’economia Marco Causi, si legge che nel settore commerciale e del turismo si è verificata in dieci anni una crescita di occupazione di 70 mila unità. E’ positivo che l’economia vada a gonfie vele. Ma, oltre a dover richiamare le condizioni di precarietà che caratterizzano quei settori, dobbiamo anche interrogarci sulle conseguenze sulla città.

Nel 1987 c’erano in tutta l’Italia 40 centri commerciali con superficie superiore a cinquemila metri quadrati. Nel 2005 sono diventati 430 e occupano una superficie di 7 milioni di metri quadrati. Dalla metà degli anni ’90, anche Roma ha visto sorgere un elevato numero di grandi strutture commerciali dei colossi internazionali, Carrefour, Auchan, Coop, Lidl, Pam e altri gruppi minori. Nella distribuzione merceologica di settore hanno aperto sedi Ikea, Leroy Merlin, Castorama ed altri. Tutte le periferie romane sono state riempite fino alla saturazione di medi e grandi supermercati. L’attività ferve anche nell’area metropolitana. Sono stati poi aperti due grandi città del consumo, gli outlet di Castel Romano (McArturGlen) e Valmontone (Fashion district), nel quadrante sud orientale della città. Tra breve ne apriranno altri tre: a Civitavecchia (nord), Sant’Oreste (nord-est) Lunghezza (est). L’accerchiamento della città è compiuto.

Per ogni apertura di medie e grandi superfici di vendita scompaiono almeno 70 piccole botteghe. La struttura commerciale delle periferie -spesso l’unico elemento di relativa complessità di quei tessuti urbani- è sottoposta ad una concorrenza insostenibile ed è destinata in tempi brevi ad una drastica riduzione. Con le politiche di localizzazione delle grandi strutture commerciali si sta perdendo l’ultima occasione di recupero dell’immensa periferia romana.E anche i Programmi di recupero urbano stanno iniziando a dimostrare il loro vero volto: lottizzazioni residenziali e commercio. Le periferie non ne avranno benefici.

Ma il principale fattore della crescita economica della città è il turismo. Il numero di posti letto in alberghi a Roma ha raggiunto nel 2002 la cifra di 93 mila. Dell’intera offerta, quella nel centro storico è di circa 42 mila (44% del totale). Una parte consistente è localizzata a ridosso delle mura aureliane, nei quartieri di Prati e San Pietro (circa 5 mila posti letto) o nella zona delle vie Salaria e Nomentana e dei Parioli (oltre 8 mila posti letto).

Il grande richiamo rappresentato dalla celebrazione del Giubileo 2000, è stato il momento di svolta della ristrutturazione del settore. Oltre al consolidamento dei maggiori gruppi italiani e internazionali già presenti da decenni sul mercato romano (Jolly, Boscolo, Hilton), sono arrivati grandi catene internazionali. Marriott international gestisce l’ex hotel Flora in via Veneto e sta per aprire una nuova struttura di 2.000 posti letto lungo la direttrice Roma-Fiumicino. Anche la seconda catena europea, la Sol Melià, arriva nella capitale. E mentre si concentrano e si espandono i gruppi già presenti (Golden Tulip, Bass hotel e resort, Sifa hotel, Starwood, Choice hotels) sono annunciate le aperture di strutture delle catene statunitensi Hyatt e la Cedant.

Per comprendere le loro dimensioni d’impresa, si può citare il caso della Cedant che possiede 6.300 alberghi sparsi in tutto il mondo. La Choice (marchi Clarion, Confort e Quality) ha 4.200 alberghi per un totale di 400.000 stanze. Si tratta dunque di società il cui bilancio annuale supera la somma del Pil di molti paesi poveri.

La enorme offerta turistica già esistente nel centro antico è considerata ancora insufficiente. Sono attualmente in corso di realizzazione altre strutture ricettive. La prima riguarda la riutilizzazione di edifici a piazza Nicosia, alle spalle di piazza Navona. La seconda il progetto di ricostruzione di un edificio sulle propaggini occidentali del Gianicolo, a due passi dal Vaticano.

Sono iniziative private e –forse- non potevano essere evitate o indirizzate altrove. Stupisce invece l’atteggiamento della stessa amministrazione comunale che promuove l’insediamento di nuovi alberghi in centro. La storica sede del I municipio romano, ospitata in uno splendido palazzo rinascimentale a via Giulia, sta per chiudere i battenti. E’ stata venduta e al suo posto arriverà un nuovo albergo. Una parte del complesso comunale di via dei Cerchi al Circo Massimo, attualmente sede di alcuni uffici, verrà parzialmente venduta. Al suo posto si realizzerà un albergo. Le Ferrovie dello Stato, poi, stanno costruendo un albergo a ridosso delle mura leonine con vista sulla cupola di Michelangelo, sulle aree della stazione ferroviaria di San Pietro. A nulla sono valse le proteste dei residenti che, già provati dall’invasione dei turisti, ne chiedevano la cancellazione.

Le statistiche ufficiali del 2005 parlano di circa 16 milioni di presenze turistiche in strutture alberghiere. Sulla base dell’andamento dei primi otto mesi, per il 2006 si azzarda una previsione di 18 milioni. E’ stato più volte annunciato l’obiettivo di raggiungere i venti milioni di turisti. Se si tiene conto degli incrementi dovuti alle altre tipologie di offerta (residence, abitazioni o campeggi), si può ragionevolmente stimare che non siano meno di 30 milioni all’anno i turisti che affollano la città, o meglio il suo cuore antico. I percorsi turistici sono infatti concentrati nell’area del Campidoglio, nel tessuto barocco, nell’area di Borgo e del Vaticano e poche altre zone. Gli abitanti nel centro storico si attestano sotto la soglia dei centomila abitanti, ma quelli che vivono nella parte investita dal turismo intensivo sono meno di 50 mila. Il numero dei turisti giornalieri supera di due volte il numero dei residenti in quelle zone.

Le attività commerciali, lasciate senza alcun vincolo dalle leggi neoliberiste approvate nell’ultimo decennio, si orientano verso questa enorme massa erratica. Gli esercizi tradizionali legati alla residenza chiudono i battenti e alcune strade sembrano enormi luna park, uguali a quelle di ogni altra città. Pizzerie, gelaterie, paninoteche, e ogni sorta di offerta turistica hanno omologato lo spazio. Un quotidiano stillicidio, come testimoniava Tiziano Terzani in Anan il senzanome. “Sono così pazzo che per protestare contro il degrado di Firenze e della mia amata via Tornabuoni dove una delle più belle librerie di Firenze, la Seeber, è stata sostituita da un negozio che vende mutande firmate, ogni volta che ci passo davanti apro la porta e urlo dentro: “Vergogna!”.

E’ lo squilibrio tra residenti e turisti che sta portando il centro storico ad un degrado irreversibile. Per riportare la normalità in alcune piazze che di notte diventano veri e propri campi di battaglia, siamo arrivati al punto di vietare la vendita di bottiglie in vetro, così da evitare almeno il tiro a segno verso i monumenti e gli abitanti che si azzardano a protestare. Ma sono cure inutili sia nel breve che nel lungo periodo. Si tenta di aggredire l’effetto più evidente del malessere urbano, senza affrontare le cause strutturali di quel sintomo.

Il fatto che il centro storico sia sottoposto ad una pressione turistica insostenibile viene ignorato dal nuovo piano regolatore. Anzi, nella relazione di accompagnamento c’è scritto (pag. 15) che: “Ciò significa un nuovo ruolo per l’area centrale: appare difficile immaginare un suo svuotamento delle funzioni forti né tale ipotesi sarebbe auspicabile (il centro storico come museo)”.

Il centro antico è un immenso pub, una gigantesca catena di pizzerie a taglio. E’ investito da un traffico automobilistico e da livelli di inquinamento insostenibili, da rumori intollerabili diurni e notturni. E dopo dodici lunghi anni di ponderosi studi, i progettisti del nuovo piano hanno trovato il bandolo della matassa: bisogna evitare di far diventare il centro storico un museo!

La forte crescita economica di Roma è dunque basata su tre settori. Sull’intramontabile rendita fondiaria, sul commercio e sul turismo. Il primo è quanto di più arretrato si possa pensare in un paese moderno. Gli altri due sono guidati dall’economia globalizzata. Oltre alle imprese che abbiamo citato, in questi anni sono giunti a Roma i colossi dell’economia internazionale. Nel mondo dei fondi di investimento, ad esempio, oltre al consolidamento delle società italiane candidate a raccogliere il prezioso regalo della svendita del patrimonio immobiliare pubblico (Pirelli real estate, Caltagirone, Progestim della Sai, etc), arrivano società come la Morgan Stanley, il colosso dei fondi di investimento Carlyle, Peabody.

Nel 2004 viene affidata la trasformazione del Mercati generali dismessi, ad una cordata composta da diverse società italiane e dalla corporation americana Mills. Quotata al New York stock exchange, la società è un self-managed real estate investmnets trust (Reit) che gestisce, sviluppa o possiede 38 centri sparsi nel modo a destinazione retail & entertainment per un totale di 4,3 milioni di metri quadrati. In particolare Mills sta realizzando uno shopping center nel New Jersey, a Meadowlands Xanadu che si svilupperà su 440 mila metri quadrati. Questa è la dimensione d’impresa che viene inserita nel mercato finanziario e immobiliare romano.

Lo schieramento progressista deve saper cogliere gli aspetti devastanti di questa vera e propria colonizzazione. Trovo dunque molto importante la sollecitazione di Sandro Medici a riflettere sul “modello romano”. Sono tre, a mio giudizio, i nodi da affrontare prioritariamente. Il primo è relativo all’assenza di qualsiasi legame tra gli investitori e la città. InFiducia e paura nella città,Zygmunt Baumann afferma che: “Quelli della prima fila non appartengono al posto in cui abitano, dal momento che i loro interessi stanno (o meglio fluttuano altrove). Si può supporre che non abbiano acquisito altri interessi, per la città in cui si trovano ad abitare……. Essi dunque, non sono interessati agli affari della “lorocittà: nient’altro che un posto come tanti, e come tanti piccolo e insignificante”.

Alle grandi catene alberghiere, alle organizzazioni del turismo, ai centri finanziari, non interessa nulla del destino di città in cui investono. Ne traggono ricchezze colossali, ma non investono nulla per mantenerne la bellezza. Un’enorme ricchezza viene accumulata da pochi gruppi, lasciando la cura dei luoghi a carico delle amministrazioni comunali. Un problema da affrontare urgentemente, specie in una fase di restringimento delle capacità di spesa locale.

Il secondo è relativo allo svuotamento della democrazia. I consigli comunali e la stessa figura del Sindaco sono messi in crisi dallo strapotere dell’economia. Torna di attualità il lucido pensiero di Ernesto Balducci in Immagini del futuro: “Nella megalopoli ci si abita, ogni tanto si prova a interessarci del destino comune, ma si avverte subito che ci sono processi che ci sovrastano, perché la megalopoli non è formata, come invece la città è stata formata fin dalle origini, da processi organici in conflitto con processi meccanici: il meccanicismo investe totalmente la città. I processi che investono le nostre città vengono da altrove, che hanno estensioni che superano di gran lunga i confini della città. Pensate ad esempio al traffico, alle città alle città ormai investite di arterie autostradali che le sfiorano e che le investono. Cosa può fare una città per contenere questo processo dentro una propria logica? Quasi nulla!”.

Infine, la sollecitazione di Medici è di straordinaria importanza perché oggi iniziano ad affiorare anche all’interno del pensiero liberale le preoccupazioni per gli aspetti devastanti della globalizzazione. “Abbiamo sotto gli occhi un sistema commerciale globale ingiusto, che ostacola lo sviluppo, e un sistema finanziario globale instabile in cui i Paesi poveri si trovano ripetutamente oberati di un debito ingestibile. Il denaro dovrebbe affluire dai Paesi ricchi a quelli poveri, ma sempre più spesso va nella direzione opposta. L’aspetto più significativo della globalizzazione è la disparità tra promesse e realtà. Sembra che la globalizzazione sia riuscita a unire gran parte del mondo contro di sé, forse perchè sembra che ci siano troppi perdenti e troppo pochi vincitori”. E’ Joseph Stiglitz a fare queste affermazioni.

Lo schieramento progressista non può continuare a recitare la parte del neofita e cantare acriticamente le lodi del mercato. Deve saper ridefinire un pensiero critico. Nel campo dell’urbanistica ciò significa l’abbandono dell’illusione che “il mercato” possa risolvere i problemi urbani. Non è mai avvenuto nella storia delle città e del territorio: il governo dei beni comuni appartiene alle amministrazioni pubbliche.

E alla luce del fallimento dell’urbanistica romana è venuto il momento di inviare segnali di inversione di tendenza. Dietro l’involuzione culturale nascosta al concetto della “compensazione urbanistica” si è ristabilita la supremazia della rendita fondiaria. L’esempio romano sta dilagando in tutta l’Italia, e stiamo assistendo ad una grande restaurazione proprietaria. E ciò che sembrava tutelato per sempre è rimesso in discussione. Non è solo l’agro romano a scomparire sotto una mostruosa quantità di cemento. Stanno per essere approvati progetti per l’edificazione delle colline bolognesi. La mirabile campagna di Pienza è aggredita da volgari speculazioni stile anni ’60. Luoghi urbani e paesaggi di grande bellezza vengono sfigurati.

E mentre tutti le altre nazioni d’Europa incrementano i settori ad alto contenuto tecnologico, siamo rimasti l’unico paese ostaggio della rendita parassitaria. E’ ora dunque di ripristinare le regole del governo pubblico delle città e del territorio.

“La denuncia di Riccardo Pacifici è sacrosanta”: sintetizza così la sua posizione Vezio De Lucia, urbanista, una lunga carriera professionale e politica divisa fra Roma e Napoli. “Ha perfettamente ragione a temere per l’identità di un quartiere, perché un quartiere soprattutto in un centro storico, è la gente che lo abita, sono le attività che vi si svolgono, la rete di rapporti che si instaura. Se la gente va via, si snatura il profilo di un quartiere: e questo vale a maggior ragione per il quartiere ebraico di Roma, che ha un carattere identitario rinforzato”.

Pacifici chiede che si indaghi sulla speculazione che sta dietro l’espulsione dei residenti.

“Concordo anche su questo. L’indagine che va fatta non è tanto un’indagine di polizia, anche se di fronte a violazioni di legge è la magistratura che deve intervenire”.

E a quali indagini pensa?

“Non si può la sciare che la distribuzione sociale di una città e dei suoi quartieri sia solo affidata al mercato. E invece è ciò a cui assistiamo. I centri storici, compreso quello di Roma, da anni si stanno svuotando dei vecchi residenti e riempiendo di residenza di lusso, di studi professionali e di uffici”.

E questo fenomeno come si può contrastare?

“In passato lo si è contrastato. Ora molto meno. Uno dei pochi contributi che l’Italia ha fornito all’urbanistica europea è stato proprio il recupero dei centri storici. L’esperienza di Bologna, tra la fine degli anni 60 e i primi 70, è stata esemplare. Il piano di Pier Luigi Cervellati prevedeva che si risanassero le abitazioni e che si lasciassero i vecchi residenti.”

E’ accaduto solo a Bologna?

“No, anche a Roma. I casi di Tor di Nona e di San Paolo alla Regola dimostrano che, quando vuole, un’amministrazione comunale può controllare la distribuzione sociale di una città. In quelle due circostanze fu decisiva l’iniziativa del sindaco Petroselli, che progettò anche il trasferimento in periferia di alcune funzioni amministrative, cercando di ottenere due vantaggi: allontanare dal centro attività urbanisticamente troppo onerose e riqualificare le periferie, dove Petroselli avrebbe voluto mandare non il catasto o l’anagrafe, ma le sedi dei ministeri. Questo era il sogno di Antonio Cederna. Ma le cose a Roma sono andate diversamente”.

Qualcuna delle duecento persone che contano in Italia (o anche delle mille che credono di contare) è mai scesa nella metropolitana di Roma? S'intende, non per un tragitto finto, per un'inaugurazione, con la vettura pulita e le hostess sorridenti, ma in una prima mattina vera, una qualsiasi; o anche tra le otto e le nove, evitando così l'alzataccia. Sarebbe un'esperienza senz'altro utile, per capire il mondo che si muove, i giovani e gli anziani, il commercio, la scuola, i sistemi di famiglia, i segni complessivi del progresso, del ritardo, del ristagno e anche un bel po' di globalizzazione. Un'esperienza che comunque i nostri vip non faranno. Ai funerali si va con le auto di servizio.

Alle otto, alle nove del mattino nella metro di Roma molti e molte vorrebbero leggere, se non altro il giornale. Si tratta per lo più di un giornale gratuito fatto per loro che si chiama appunto Metro. Molte donne leggono libri, quelle poche che sono riuscite a sedersi. Se ci riescono, la loro giornata andrà meglio. Molti uomini le guardano, pieni di curiosità. Lo spazio è così ridotto che non c'è problema per reggersi in piedi, sempre che non ci siano brusche frenate o brusche accelerazioni. Non è l'inferno, ma certo è molto scomodo, sporco, degradante. Perché mai la parte più viva della città debba essere tanto penalizzata, non è dato capire. A volte sembra poi che l'unica manutenzione sia fatta dai graffitari che amano lasciare memoria di sé rendendo oscuri i vetri e illeggibili i nomi delle stazioni nei cartelli sulle pareti.

Sulla linea arancio, contrassegnata dalla A - come dice con una punta di orgoglio la società comunale che svolge il servizio - salgono in media quattrocentocinquanta mila utenti al giorno. Sulla linea blu, indicata con la B sono trecento mila. E poi l'alfabeto, il più corto tra quelli in uso in qualsiasi capitale, è già finito. La metropolitana romana, così miserabile, così degradata è uno strumento essenziale per vivere e spostarsi in una città infestata dalle auto e dalle moto che provocano un inquinamento crescente, anche se i duecento vip e i loro adepti fingono di non conoscerlo o lo curano con palliativi domenicali. I tempi per allungare l'alfabeto, per avere una terza linea metropolitana, si dilatano continuamente; e i problemi di mobilità di abitanti e ospiti della città crescono, come anche i sacrifici e i tempi di percorrenza. Intanto il Comune, anche attraverso la società della metropolitana costruisce parcheggi sotterranei, e facendolo, non solo spreca la capacità tecnica e finanziaria disponibile che non è eccelsa, ma dà in prima persona un chiaro segnale in una direzione opposta: più auto, più traffico individuale in città.

Sarebbe un errore farne un caso solo romano. In Italia, in centri grandi e piccoli l'auto e la sua sorellina a due ruote stanno definitivamente espropriando le persone dalle loro vite. Strade come confini, ponti, cavalcavia, tunnel, autostrade a otto corsie, sono la nuova geografia, molto invadente. Le nuove rotaie servono solo per far correre i treni ad alta velocità, inutili, come sanno tutti, per ridurre il traffico delle automobili, quello vero, che consiste in spostamenti brevi, di cinquanta chilometri o poco più. O per girare come anime perse in città, alla ricerca di un parcheggio, in attesa che il Comune, che la società della metropolitana gliene crei uno.

Antonio Cederna per quarantacinque anni si è occupato dell’urbanistica romana e ne ha seguito, giorno per giorno, le vicende. Ma la sua azione non fu solo, come molti sono indotti a credere, di accusa, di critica e di disapprovazione. Egli fu anche propositivo e operativo, fino a impegnarsi nella costruzione di una diversa idea di Roma. Francesco Erbani, nella prefazione alla nuova edizione a I vandali in casa (Laterza, pp. 279, euro 18,00), conferma la propensione di Cederna per l’urbanistica, e scrive che si sbaglierebbe a ridurre il suo atteggiamento alla sola “componente conservativa”. E nella postfazione, non a caso titolata “L’Italia possibile di Antonio Cederna”, ricorda la “storia moderna dell’Appia Antica”, che parte dal decreto di approvazione del piano regolatore di Roma, del 1965, a firma di Giacomo Mancini, ministro socialista ai Lavori pubblici (non operavano ancora le regioni), decreto con il quale furono destinati a parco pubblico i duemila e cinquecento ettari di territorio a cavallo della regina viarum.

Fu una vittoria alla quale Cederna contribuì in modo decisivo con i suoi articoli sul Mondo (molti sono raccolti nel libro su I vandali). «Viste nei tempi lunghi le battaglie di Cederna hanno prodotto risultati inimmaginabili cinquant’anni fa», commenta Erbani. Ancor più percepibile è l’impegno urbanistico di Cederna a proposito del progetto Fori, il gran parco storico-archeologico che lui immagina di realizzare con l’eliminazione di via dei Fori Imperiali, che dal Colosseo giunge a piazza Venezia, e di farne la prosecuzione intra moenia dell’Appia Antica. In forza della sua attitudine a disegnare concretamente il futuro di Roma, Erbani consacra Cederna “urbanista ad honorem”. Ma, a differenza dell’Appia Antica, come vediamo qui di seguito, il progetto Fori, non è andato a buon fine. Sono assolutamente d’accordo, lo ripeto, con il riconoscimento di Cederna urbanista, e il tema merita di essere approfondito.

L’idea che aveva di Roma la illustrò più volte, ma il testo nel quale è sviluppata compiutamente è la sua Proposta di legge per Roma capitale, dell'aprile 1989, quand'era deputato indipendente del Pci. La relazione alla proposta di legge raccoglie alcune delle più convincenti pagine dell’urbanistica moderna, una vera e propria lezione di urbanistica che dovrebbe essere utilizzata nelle scuole e nell'università. Cederna propose, tra l’altro, due operazioni fondamentali. In primo luogo, il trasferimento dei ministeri dal centro della città nelle aree della prima periferia, il cosiddetto Sistema direzionale orientale. Lo Sdo, inventato per primo da Luigi Piccinato, per tutto il dopoguerra, è stato l’idea forza dell’urbanistica romana; fu al centro di infinite discussioni, soprattutto nell’ambito della sinistra; era considerato il presupposto e la condizione per la costruzione della città moderna e per la salvezza della città antica.

La seconda operazione che propone Cederna nel suo disegno di legge, è il parco storico-archeologico dell'area centrale, dei Fori e dell'Appia Antica. L’obiettivo essenziale che Cederna intendeva perseguire per i Fori era – non lo dimentichiamo – “l'eliminazione dello stradone che negli anni Trenta ha spianato un intero quartiere” e “l'incompatibilità del traffico con il centro storico e con la salute dei monumenti”.

Che ne è oggi del disegno e della strategia per Roma di Antonio Cederna? A parte l’istituzione del parco regionale dell’Appia Antica, che peraltro ha sempre operato stentatamente, il resto è rimasto sulla carta. Dei due obiettivi del suo disegno di legge, lo Sdo è stato silenziosamente cancellato. Non sono riuscito a capire che cosa lo ha sostituito. Anche il progetto Fori, che pure raccolse vastissime ed entusiastiche adesioni in Italia e all’estero, è stato cancellato e contraffatto.

In effetti, il progetto Fori cominciò a essere accantonato il 7 ottobre 1981, quando morì improvvisamente Luigi Petroselli che, con Adriano La Regina eAntonio Cederna, era stato protagonista del progetto Fori. Lo capì subito Cederna che, a pochi giorni dalla morte, scrisse su “Rinascita” dello “scandalo” di Petroselli: lo scandalo di un sindaco comunista che aveva capito l’importanza della storia nella costruzione del futuro di Roma; che non voleva lasciare a nostalgici e reazionari il tema della romanità.

Nella postfazione a I vandali, Erbani scrive che, a poco a poco, “il grande parco che avrebbe immesso verde e archeologia fin nel cuore di Roma, strutturando la città su ritmi diversi da quelli dettati dalla rendita immobiliare e dalle macchine, viene lasciato cadere. È prima sistemato nell’orizzonte lontano delle utopie, […] poi fatto completamente sparire dall’orizzonte della città”.

Ma la pietra tombale sul progetto Fori è stata posta nel 2001 con il decreto ministeriale di vincolo monumentale proprio sulla via dei Fori e dintorni, fino alle terme di Caracalla, congelando la situazione attuale. La relazione storico-artistica che giustifica il vincolo rappresenta un radicale cambiamento rispetto al progetto concepito da La Regina, Cederna, Petroselli, Insolera, Benevolo e tanti altri. La sistemazione patrocinata da Benito Mussolini non è più contestata, diventa anzi “un’immagine storicamente determinata che rappresenta il volto della Capitale laica per tanti anni ricercato e finalmente, come sempre e ovunque, nel bene e nel male, raggiunto”.

Il contrasto con il pensiero di Cederna è assoluto. In Mussolini urbanista (colgo l’occasione per segnalare il ritorno anche di questo libro, grazie alla nuova edizione della Corte del Fontego, con interventi di Adriano La Regina eMauro Baioni) si legge che “i Fori imperiali sulla sinistra di chi va verso il Colosseo sono stati sprofondati in catini, come in seguito a un errore di calcolo o a uno sconquasso sismico; mentre i monumenti sulla destra presentano tutti al passeggero il di dietro, per di più gravemente mutilato e rappezzato. Una cosa davvero straordinaria che le guide turistiche trascurano di segnalare”.

Viceversa, nella relazione ministeriale, alla soluzione fascista si riconosce il merito di aver conseguito una compiuta immagine urbana di Roma Capitale. “Quella visione d’insieme, che aveva caratterizzato le capitali moderne nell’Otto e Novecento, ma che non era emersa dai modesti piani regolatori del 1873 e del 1883, limitati a un adeguamento della struttura viaria ai bisogni primari di uso della città, né dal Piano del Sanjust del 1909, più interessato agli aspetti dello sviluppo funzionale che non a quelli rappresentativi, e nemmeno dal Piano del 1931, che raccoglie maldestramente idee precedenti senza dar loro un’unità d’immagini, di forme, di contenuti, ebbene quella visione d’insieme si viene realizzando […] proprio nel corso degli anni Trenta, quando via dei Fori Imperiali (con anche la simmetrica via del Mare) diviene l’elemento centrale di un sistema complesso, che si snoda da nord (oltre il Flaminio) al sud (oltre l’Eur, fino al mare)”.

Infine, la relazione che giustifica il vincolo rinnega il progetto Fori. Il gran parco urbano che avrebbe dovuto estendersi, lungo l’Appia Antica, dai Castelli Romani al Campidoglio, formando la struttura principale dell’area metropolitana e, insieme allo Sdo, il punto di partenza per un radicale rinnovamento dell’assetto di Roma: tutto ciò è ignorato nelle motivazioni del vincolo, che contesta la valenza generale del disegno proposto da Cederna, riducendolo a un insieme di singoli interventi puntuali, svincolati da ogni problematica urbanistica, con l’unico obiettivo di eliminare la via dei Fori Imperiali, “senza porsi il problema della sua storia, della sua funzione urbanistica, della sua immagine consolidata”.

Leonardo Benevolo – cui si deve, nel 1971, la prima formulazione del progetto che prevedeva l’eliminazione dello stradone – è stato fra i pochi che non ha ceduto alla sirena del revisionismo, e così ha commentato sul Corriere della Sera il decreto di vincolo: “è diventato illegale il disseppellimento degli invasi dei Fori di Cesare, Augusto, Vespasiano, Nerva e Traiano, che renderebbe percepibile ai cittadini di oggi uno dei più grandiosi paesaggi architettonici del passato. […] si è preferito Antonio Muñoz (lo sprovveduto autore di quelle sistemazioni) ad Apollodoro di Damasco, l’architetto dell’imperatore Traiano”.

Concludo con due sole rapidissime considerazioni. In primo luogo, si deve riconoscere che ha vinto il revisionismo. Anche in urbanistica. L’immagine di Roma moderna è insomma quella definita negli anni Trenta, quella di Benito Mussolini. È “il fascismo perenne” di cui scriveva Cederna. L’Italia repubblicana non ha dato nessun contributo a definire la sua capitale. Sta scritto in un decreto della repubblica che non ha suscitato proteste né indignazioni, che io sappia.

In secondo luogo, abbiamo verificato che l’idea di Cederna (e di Petroselli, La Regina, Insolera, eccetera) è “sparita dall’orizzonte della città”. È ovviamente fuori discussione che si possa cambiare idea, e che l’amministrazione capitolina e quella dei Beni culturali abbiano il diritto di confermare l’impianto urbano degli anni Trenta. Nessuno può pretendere il rispetto di un progetto alternativo, non più condiviso. Non di questo si discute. Mi sembra invece che non si possa non discutere del modo in cui è avvenuto e sta avvenendo il ribaltamento del fronte, senza aver mai formalmente dichiarato che il progetto Fori è stato archiviato. Si continua invece a evocarlo, solo che con quel medesimo nome si indicano oggi soluzioni ben diverse da quella sostenuta da Cederna.

Ripetiamo allora che Antonio Cederna, di Via dei Fori voleva cancellare la memoria. Ha scritto cose feroci contro la via dei Fori (“operazione antistorica, antiurbanistica, antisociale, antiarcheologica per eccellenza”). Viceversa, che succede? Succede che ci capita di leggere sul Corriere della Sera, sulle stesse pagine sulle quali Cederna aveva iniziato la sua battaglia per il progetto Fori nientemeno che, “l’antico sogno di Antonio Cederna” sta per realizzarsi. E come? Grazie a un progetto di attraversamento della via dei Fori, senza nemmeno interrompere il traffico, senza “nessuna demonizzazione del traffico, come si conviene a una metropoli”.

Questo sarebbe il sogno di Antonio Cederna? Che devo dire? Dovremmo essere sopraffatti dalla costernazione.

Però, proprio da Cederna abbiamo imparato che non bisogna arrendersi, ma continuare con ostinazione a sostenere le idee che ci sembrano giuste. “Questa è una città dove può succedere di tutto”, diceva Tonino. Anche che, nonostante il vincolo, anzi, proprio per contrastare quel vincolo, e il revisionismo delle sue motivazioni, si rimetta nuovamente in discussione la via dei Fori Imperiali.

Uno studio attento delle situazioni particolari porta a decidere dove, come, con quali norme e caratteristiche la città debba estendersi, e quindi all’imposizione di uno sviluppo in una direzione predominante: affinché il centro di gravità (cioè l’insieme dei pesi umani, edilizi e degli interventi economici) non torni più a gravare sul nucleo antico, ma gradatamente continui a spostarsi nel senso della massima espansione della città. Occorre dunque, se vogliamo ridare una dimensione sopportabile alle nostre città, rompere definitivamente l’indiscriminato ingrandimento a macchia d’olio, sui sono sottoposte dalla peggior specie di vandali, latifondisti e trafficanti e monopolizzatori di suolo urbano, che tirano furiosamente la città sui loro terreni, strategicamente disposti intorno a essa e tendono a urbanizzare abusivamente le aree agricole”.

La prefazione ai “Vandali in casa” scritta da Cederna nel 1956 -anno in cui l’Espresso con l’articolo di Manlio Cancogni lancia lo slogan “Capitale corrotta, nazione infetta”- è una grande lezione di metodo, ancora attualissima. E, a proposito di attualità, iniziamo da una piccola nota di colore, i puristi del politicamente corretto oggi così in voga, tradurrebbero il tagliente termine di trafficante di suolo urbano con immobiliaristi, e cioè un più neutro attributo a coloro che fino a poco tempo fa venivano chiamati con il loro vero nome: speculatori.

Ma torniamo alla lezione. Afferma Cederna che è con l’urbanistica che si salvano le città dalla speculazione. E’ con l’urbanistica che si può tentare di dare una prospettiva di riscatto alle periferie urbane. Ma, appunto, è un’urbanistica mirata, apertamente schierata, affatto condiscendente con le tendenze del mercato.

Il rifiuto netto quanto motivato dello sviluppo urbano a macchia d’olio serve a Cederna trent’anni dopo per definire le linee del progetto di legge per “Roma capitale” che elaborò nel 1989 quando era stato eletto alla Camera dei Deputati come indipendente nelle liste del Partito comunista italiano. Dei pochi fondamentali elementi di cui era composta la sua proposta di legge, uno era particolarmente connesso con la negazione della macchia d’olio. La riproposizione del Sistema direzionale orientale in chiave di riqualificazione della immensa periferia romana. Nato proprio negli anni in cui Cederna scrive la prefazione citata in apertura, quel progetto doveva servire per fornire forma e dignità allo sviluppo urbano della capitale. Serviva insomma ad evitare ciò che aveva paventato poco più avanti.

“Proseguendo lungo le direzioni dei giochi di parole mussoliniani, la città continua a espandersi senza regole né misura, caoticamente verso il sud, stringendo sempre più l’Appia nella sua morsa: vengono attuati nuovi attraversamenti, si addensano nuove borgate, la città dilaga senza soluzione di continuità, come un’infezione. Scompare il distacco tra città e colli, tutto diventa un’ininterrotta serie di sciatti, lerci sobborghi: una nuova immensa escrescenza si propaga a sud, con tutti i suoi deleteri effetti sulla città, conferma dell’anarchica espansione a macchia d’olio, scomparsa di tutte le zone verdi sotto un’unica colata cementizia, congestione e minaccia di distruzione del centro storico, sconfitta di ogni razionale pianificazione”.

E sul Mondo del 22 novembre 1955 afferma ancora:

“Roma, dopo essersi faticosamente mossa verso est negli ultimi decenni, torna ora a spostarsi verso il mare nostrum, come un granchio azzoppato. E’ facile immaginare che tutta la Cristoforo Colombo verrà trasformata in un corridoio murato, che tutta la campagna tra Roma e il mare andrà a farsi benedire. D’altra parte, nonostante tutte le dichiarazioni in contrario, Roma si salderà ai Colli e quindi anche quella campagna se ne va”.

Quelle previsioni si sono purtroppo avverate. Ma alla fine degli anni ’80, al tempo della proposta di legge per Roma capitale, le aree che dovevano ospitare lo Sdo erano ancora vuote, mentre intorno abusivamente e legalmente era sorta la più brutta periferia romana. Il nuovo sistema direzionale doveva dunque servire per ridare dignità a quei tessuti senza qualità. E ospitare i Ministeri, così da vuotare il centro storico da pesi urbanistici insostenibili.

Nel decennio che ci separa dalla sua scomparsa, quella stessa sinistra che Cederna aveva contribuito a fare autorevole e rispettata, ha disegnato un nuovo piano regolatore della città che cancella d’un colpo la grande lezione sulla macchia d’olio e l’obiettivo strategico dello svuotamento del centro storico dalle funzioni dello Stato.

“La relazione centripeta finora dominante svolta dall’area centrale costituita dal centro storico e dalla sua cintura viene affrontata nel nuovo piano attraverso il modello policentrico delle nuove centralità in rete. Ciò significa un nuovo ruolo per l’area centrale: appare difficile immaginare un suo svuotamento delle funzioni forti né tale ipotesi sarebbe auspicabile (l’area centrale come museo)” (Relazione del Nuovo piano regolatore di Roma adottato dal Consiglio comunale il 19-20 marzo 2003, pagina 16).

Il “modello policentrico delle nuove centralità in rete” è infatti sapientemente distribuito a raggiera intorno al centro antico. La macchia d’olio trionfa in un’acritica indifferenza. E il centro storico rimane definitivamente condannato a sopportare funzioni che lo soffocano.

La furbesca agitazione del fantasma “dell’area centrale come museo” serve solo da banale alibi per non vedere quanto sta avvenendo. Il grande incremento del turismo di massa sta sottoponendo il centro ad un inarrestabile svuotamento di residenti (ne restano ormai soltanto 100.000 all’interno delle mura aureliane) e alla riduzione di interi quartieri antichi a baracconi adatti al turismo mordi e fuggi (sempre all’interno della cerchia delle mura sono oltre 50.000 i posti letto in strutture alberghiere). Altro che museo.

L’urbanistica che credeva nella supremazia della visione pubblica sugli interessi privati. Che tentava di immaginare un futuro migliore per i quartieri e i suoi abitanti. L’urbanistica insomma che piaceva ad Antonio Cederna non c’è più, sostituita da una cortina fumogena di slogan che hanno tentato di nascondere la totale capitolazione verso la proprietà fondiaria. Una sola cosa è forse mutata. Al posto dei “pallidi scherani della speculazione”, come amava dire Cederna, sono comparsi “i furbetti del quartierino”. Ma Roma continua ad essere nelle mani di “latifondisti e trafficanti e monopolizzatori di suolo urbano”.

Di Antonio Cederna – uno dei fondatori dell’ambientalismo italiano, che fu archeologo e critico d'arte, poi soprattutto straordinario giornalista e ancora consigliere comunale di Roma e parlamentare – mi pare importante, su queste pagine, ricordare soprattutto l’impegno a favore del progetto Fori, la più affascinante idea per l’urbanistica romana dopo l’unità d’Italia. Il suo contributo non fu solo di metodo, di critica o di informazione. Cederna fu anche concretamente operativo. L'immagine che aveva della Roma del terzo millennio, l'ha descritta più volte, ma il testo nel quale quell'immagine è sviluppata compiutamente è la sua Proposta di legge per Roma capitale, dell'aprile 1989, quand'era deputato indipendente del Pci. La relazione alla proposta di legge è una delle più convincenti pagine dell’urbanistica moderna. Cederna riprende un’impostazione del piano regolatore del 1962, un piano per molti versi indifendibile, fondato però su una spettacolare idea di città: accanto alla Roma storica, nei settori della periferia orientale doveva prendere corpo la città moderna. Lì dovevano trasferirsi i ministeri e le altre attività terziarie, liberando il centro dalle oltraggiose condizioni di congestione e d’inquinamento in cui viveva (e continua a vivere). L’operazione volta alla formazione di un nuovo centro cittadino assunse il nome di Sdo (Sistema direzionale orientale) ed è stata a lungo oggetto di studi e di proposte.

Per lo Sdo Cederna propose la soluzione che fu definita “a saldo zero”: i ministeri spostati dalle aree centrali e trasferiti non dovevano essere sostituiti da altre funzioni con un analogo carico urbanistico. Si dovevano invece formare vuoti urbani attrezzati, parchi verdi e ampie zone pedonali, con la valorizzazione delle aree archeologiche. “Basti pensare – scrisse Cederna – allo sgraziato salto di quota che separa la Via Cernaia dal piano degli scavi delle terme di Diocleziano, frutto della sommaria sistemazione della zona dopo l'edificazione del ministero delle Finanze". L’operazione Sdo diventava in tal modo una parte del progetto Fori. Che non era solo un’operazione di archeologia urbana. L’archeologia era il punto di partenza per un radicale rinnovamento dell’assetto di Roma, e in questo senso era complementare allo Sdo. Il progetto, inizialmente elaborato dal soprintendente Adriano La Regina, prevedeva il ripristino del tessuto archeologico sottostante la via dei Fori, attraverso la sutura della lacerazione prodotta nel cuore della città dallo sventramento degli anni Trenta. Allora, Benito Mussolini, per consentire che da Piazza Venezia si vedesse il Colosseo, e per formare uno scenario grandiosamente falsificato per la sfilata delle truppe, aveva fatto radere al suolo gli antichi quartieri, le chiese e i monumenti costruiti sopra i Fori e spianare un’intera collina, la Velia, uno dei colli di Roma. Migliaia di sventurati cittadini furono deportati in miserabili borgate, dando inizio all’ininterrotta tragedia della periferia romana.

Il progetto per il ripristino dei Fori e dell’area archeologica centrale fu sostenuto dal sindaco Luigi Petroselli con entusiasmo e disponibilità culturale sorprendenti. Anzi, “il grigio funzionario di partito” venuto dalla gavetta di Viterbo diventò, insieme a Cederna, il protagonista del progetto Fori. L’idea della storia collocata al centro della città, sotto forma di vertice intra moenia del parco dell’Appia Antica – una grande pausa, dal Campidoglio ai Castelli Romani in una conurbazione senza fine e senza qualità – raccolse vasti e qualificati consensi. Favorevoli furono soprattutto i cittadini di Roma, che parteciparono in massa a quelle straordinarie occasioni determinate dalla chiusura domenicale della via dei Fori e alle visite guidate ai monumenti archeologici. Con determinazione e rapidità inusitate, Petroselli mise mano fattivamente all’attuazione del progetto provvedendo all’eliminazione della via del Foro Romano, che da un secolo divideva il Campidoglio dal Foro Repubblicano, e all’unione del Colosseo – sottratto all’indecorosa funzione di spartitraffico – all’Arco di Costantino e al tempio di Venere e Roma. Si realizzò allora la continuità dell’area archeologica, liberamente percorribile, dal Colosseo al Campidoglio.

E’ forse il momento più alto per l’urbanistica romana contemporanea, ma durò poco. Il 7 ottobre 1981 morì improvvisamente Luigi Petroselli (è passato un quarto di secolo e dobbiamo commemorare anche lui). Dopo tre lustri di abbandono, furono ripresi gli scavi ai lati della via dei Fori ed è stata ripetuta l’esperienza delle domeniche pedonali. Ma la chiusura definitiva della strada alle automobili è stata continuamente rinviata. Eppure non è vero che l’eliminazione della via dei Fori determinerebbe insostenibili problemi di traffico. E’ vero il contrario. La chiusura, a Napoli, di piazza del Plebiscito – esperienza che fu pensata assumendo a modello proprio il progetto Fori – dimostra che risoluti interventi di pedonalizzazione riducono nettamente il traffico cittadino.

Che ne è oggi del disegno e della strategia per Roma di Antonio Cederna e Luigi Petroselli? Devo dire con dolore che quel disegno e quella strategia sono stati abbandonati. Non è questa l'occasione per analizzare le politiche territoriali del comune di Roma e della regione Lazio. Devo però osservare, in primo luogo, che lo Sdo, per molti decenni idea forza dell'urbanistica romana, è stato silenziosamente cancellato. Era sicuramente un’ipotesi superata dall’enorme e in larga misura abusiva crescita di Roma in tutte le direzioni, ma andava proposta e discussa un’altra idea generale per il futuro della capitale. Che invece non c’è stata.

In secondo luogo, il progetto Fori e l'area archeologica centrale. Non è più all'ordine del giorno l'eliminazione della via dei Fori Imperiali, che è stata addirittura proibita da un inverosimile vincolo di tutela sullo stradone fascista. Non c'è più l'incompatibilità del traffico con la salute dei monumenti. Non c'è più, insomma, il progetto epocale di Cederna e Petroselli per cambiare la forma e il futuro di Roma. Quando morì Luigi Petroselli, Cederna fu il primo a capire che con lui era morto anche il progetto Fori, e scrisse su Rinascita dello "scandalo" di Petroselli. Lo scandalo di un sindaco comunista che voleva mettere la storia e la cultura al posto dell'asfalto e delle automobili.

Antonio Cederna, Mussolini urbanista. Lo sventramento di Roma negli anni del consenso, Corte del Fontego editore, Venezia 2006, 290 p.,23 €. Qui:
Mauro Baioni, Postfazione in formato .pdf

"Mussolini urbanista" è una condanna senza appello dell’urbanistica romana durante il regime fascista, ma sbaglieremmo se pensassimo che è soltanto questo. Nonostante l’accuratezza della ricerca e l’ampiezza della documentazione storica1, chi volesse leggere quest’opera come una ricostruzione delle vicende di quell’epoca si troverebbe a disagio. Ad una prima lettura

“il libro di Antonio Cederna può apparire così pregno di faziosità, unilaterale nella sua più completa condanna dell’operato del periodo fascista, da dare in parte anche fastidio, [...] una vera epopea alla rovescia della stupidità e dell’incultura di quel periodo”2.

Se invece inquadriamo il libro nell’opera più complessiva di Cederna comprendiamo perché abbia deciso di utilizzare la stessa prosa secca e pungente dei suoi articoli, ricorrendo all’ironia e al sarcasmo come in un vero e proprio pamphlet3. Non è il racconto del passato fine a se stesso ad interessare l’autore. Piuttosto, il «suggestivo pantagruelico felliniano quadro che ha tracciato del periodo fascista» è funzionale «alla denuncia che quella stessa incultura è ancora tra noi, pronta a farsi valere, se non siamo vigili nel riconoscerla e nel ricacciarla»4.

1. Roma prima e dopo il ventennio

Per comprendere le ragioni dei giudizi perentori espressi da Cederna, è utile ampliare lo sguardo fino a riconsiderare le vicende urbanistiche della capitale italiana, prima e dopo il periodo trattato. Gli episodi testimoniati costituiscono il tassello centrale di un processo di radicale trasformazione, che in poco più di cent’anni ha mutato profondamente le dimensioni e il volto di Roma5.

Già prima del fascismo, il centro storico aveva subìto numerose alterazioni: diradamenti, apertura di strade, inserimento di nuove costruzioni e, soprattutto, lottizzazione di numerosi parchi e giardini che, posti a corona del centro antico, si frapponevano tra questo e le mura aureliane e, più in là, si protendevano verso la campagna6. Sotto questo aspetto, il regime di Mussolini non cambia le cose, se non per il fatto che permette «di realizzare in maniera più macroscopica quelle che erano le stesse aspirazioni urbanistiche» dell’epoca precedente7. «La continuità è nei fatti»8 anche nei confronti del periodo successivo alla seconda guerra mondiale, quando la città cresce a dismisura – in modo repentino, sregolato e privo di qualità – e alle manomissioni del patrimonio storico e archeologico operate nel cuore della capitale si sommano le distruzioni di complessi archeologici, edifici e manufatti antichi posti nelle aree di espansione9.

La rinuncia a pianificare lo sviluppo della città è una costante che accomuna le vicende dell’urbanistica romana del Novecento. Anche quando – faticosamente – si perviene all’adozione di un piano regolatore, esso «funziona anzitutto come sanatoria di irregolarità precedenti e si propone di omogeneizzare una serie di elementi eterogenei, prodotti nel periodo precedente»10. Quanto agli effetti dei piani, questi sono di fatto vanificati dal patto scellerato tra speculazione fondiaria e azione amministrativa: si moltiplicano le lottizzazioni intensive, si tollerano gli insediamenti abusivi e l’iniziativa pubblica – comunque minoritaria – viene ostacolata da difficoltà burocratiche, tecniche o finanziarie. Roma cresce perciò in tutte le direzioni, priva di un disegno compiuto, così come delle più elementari dotazioni di infrastrutture, verde e servizi.

“Si è calcolato che tra il ‘45 e il ‘60 mentre la popolazione di Roma aumentava di ottocentomila abitanti, ogni nuovo romano ha avuto in appannaggio 0,04 metri quadrati di verde, qualcosa come mezzo foglio di carta protocollo”11.

È questa la «Roma sbagliata» contro la quale si batte tenacemente Cederna12.

2. Per una diversa cultura urbanistica

Essendo questo il contesto, possiamo sostenere che Mussolini urbanista sia soprattutto una condanna senza appello della mancanza di cultura urbanistica imperante nel nostro paese. Le vicende della capitale nel ventennio non sono dunque altro che lo specchio, deformato e ingigantito dall’importanza della città e dalle aberrazioni, tragiche o grottesche, indotte dal fascismo, di ciò che è avvenuto e avverrà per molto altro tempo, in molte altre città d’Italia.

Attraverso i suoi scritti, Cederna si batte innanzitutto per affermare una diversa cultura urbanistica, nella quale la difesa del patrimonio storico e ambientale, della storia e della bellezza, siano poste a fondamento della costruzione del presente e del futuro, affidando alla pianificazione il compito di «impedire che il vantaggio di pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità»13. L’introduzione a I vandali in casa, scritta nel 1955, costituisce una sorta di manifesto del suo pensiero. Questi i titoli di alcuni paragrafi: «Le vili ragioni della distruzione dei centri storici», «Perché la cultura moderna ci impone di conservare l’antico», «Centri storici e pianificazione urbanistica, contro la macchia d’olio della speculazione», «Come combattere i distruttori d’Italia». La decisa opposizione ad ogni ulteriore alterazione dei centri storici, accompagnata dalla spiegazione delle ragioni culturali che motivano questo rifiuto, costituisce pertanto la premessa di un ragionamento volto al presente e al futuro.

“La questione della salvaguardia dei centri storici e delle bellezze naturali rientra così nel piano regolatore, diventa finalmente un fatto urbanistico. [...] La salvaguardia effettiva di quei valori che stanno a cuore a tutte le persone civili ... è frutto di coscienza civica, dipende dalla pianificazione, cioè da una politica urbanistica a largo respiro, che sappia prevedere, programmare, controllare e coordinare tutti i fenomeni, tra loro interdipendenti, delle trasformazioni del nostro territorio. Non si salva Venezia se non si stabiliscono le premesse del suo sviluppo economico sulla terraferma, non si salva il centro di Roma se non si sviluppa economicamente Roma verso i Colli, evitando di accerchiarla bestialmente come si fa da anni con cinture compatte di cemento e di asfalto. [...] Possiamo ben dire che la salvaguardia dell’antico e realizzazione del nuovo sono le due operazioni fondamentali di ogni pianificazione moderna e illuminata, e che l’una dipende strettamente dall’altra”14.

Ulteriori passaggi del pensiero di Cederna meritano di essere sottolineati. In seguito alla «soluzione di continuità» che si è determinata con la rivoluzione industriale, «attribuire le complesse funzioni della vita di oggi a tessuti urbani nati per soddisfare esigenze di vita del tutto diverse» costituisce «un’assurda pretesa», come testimoniano gli esiti negativi degli innumerevoli esempi di inserimento, diradamento, ambientamento. Semmai sarebbe opportuno agire in senso contrario, adattando le forme di intervento «al progresso della cultura»15, allo stesso modo in cui si deve rinunciare alla «crescita illimitata», basata su un indiscriminato e dissennato sfruttamento delle risorse naturali, in favore di un nuovo paradigma di sviluppo16. In ogni caso, la salvaguardia dell’antico richiede una concezione urbanistica della conservazione, assente negli interventi dell’epoca fascista così come in quelli del dopoguerra. «L’attività di conservazione si è esercitata in modo selettivo, frammentario, settoriale, rapsodico, limitandosi ai monumenti maggiori, alle “cose” e agli oggetti di “particolare” interesse»17. Una siffatta impostazione “antologica e gerarchica”18 conduce necessariamente a selezionare le parti da proteggere, isolandole e cristallizzandole, da quelle su cui intervenire pesantemente, per ragioni igieniche, estetiche, funzionali, di prestigio, attraverso uno stillicidio di interventi grandi e piccoli che si sommano l’uno all’altro. Viceversa il centro storico, considerato come organismo unitario e come parte integrante della città, deve essere oggetto di un’accorta pianificazione urbanistica che sappia determinare quali funzioni sono compatibili con il tessuto antico e quali debbano essere collocate nelle parti di nuovo impianto, da progettare con la medesima attenzione19.

3. La questione dell’impegno civile

L’altro fondamentale aspetto dell’attività e del pensiero di Cederna è l’impegno civile. La superficiale attenzione e, talvolta, l’idiosincrasia verso la pianificazione e le sue regole, il perverso intreccio di interessi tra amministratori e speculatori immobiliari sono accettati passivamente o di buon grado da larghi strati della cultura, accademica e professionale, nella sostanziale indifferenza della stampa. Per Cederna, tutto ciò è particolarmente intollerabile.

“Da tempo immemorabile i vandali trionfano anche per il silenzio delle persone ragionevoli, per l’assenza di una forte posizione moralistica: in attesa di tempi migliori, è bene servirsi dei mezzi a disposizione, quali la incessante campagna di stampa, la polemica acre e violenta, la protesta circostanziata e precisa, lo scandalo sonoro. Simulatori ed ipocriti i vandali tengono molto alla propria privata rispettabilità: giova schernirli e trattarli per quello che sono, malintenzionati cialtroni. Abituati a intimidire e corrompere, si trovano sconcertati di fronte all’inflessibile denuncia: la loro potenza è fatta di viltà altrui. Abituati a violare, impuniti, la legge e a spacciare per “esigenze tecniche” la loro avidità, non sanno che fare contro chi svela pubblicamente i loro raggiri: può capitare che perdano la testa e passino a vie legali, nelle quali, allibiti, si rompono le corna. Sostenuti da una complicata rete di omertà, lo scandalo li può intimorire, scompigliare i loro piani, far rientrare i loro capricci. Occorre sfondare il sipario di complice riservatezza in cui operano, dilatare le loro colpe sul piano più ampio possibile, ridicolizzarli, screditarli, perseguitarli, processarli nelle intenzioni, mettendo in evidenza la sostanziale matta bestialità che li muove. Denuncia, protesta, polemica, scandalo, persecuzione metodica e intollerante: in un Paese di molli e di conformisti, la rivolta morale può essere almeno un elemento di varietà”20.

Bersaglio prediletto di Cederna è l’indifferenza, l’ignavia e la sostanziale accondiscendenza con la quale troppi esponenti della cultura, della borghesia e del ceto politico assistono alla trasformazione del paesaggio e dell’ambiente e alla realizzazione di periferie tanto squallide quanto invivibili. Ecco perché si scaglia con particolare veemenza contro archeologi, architetti, storici dell’arte che risultano troppo accomodanti con gli amministratori e i potenti di turno. Ed è in questa prospettiva che meglio si comprendono le ragioni e – soprattutto – lo stile di Mussolini urbanista. Sebbene i fatti narrati risalgano ad un’epoca precedente, il legame con quanto avviene nel presente è troppo stretto per utilizzare una prosa distaccata, come confermeranno le vicende relative all’area dei Fori Imperiali.

I Fori e l’urbanistica di Roma alla fine degli anni Settanta

1. L’urbanistica del ventennio torna d’attualità

Mussolini urbanista viene pubblicato in un momento particolare per Roma, nel quale storie passate, cronache del momento e destini della città si intrecciano nuovamente21. Luogo di incontro è il Foro Romano, la cui sistemazione impressa in epoca fascista con la costruzione della via dei Fori Imperiali22 è direttamente chiamata in causa allorché, il 21 dicembre del 1978, i giornali riprendono un appello del soprintendente ai beni archeologici, Adriano La Regina, riguardante le «gravissime condizioni» in cui versano i monumenti dell’area archeologica centrale.

L’incipit dell’appello è memorabile:

“Una serie di accurati rilievi e controlli sui monumenti del centro di Roma hanno dimostrato che, senza ombra di dubbio, nel giro di pochi decenni, perderemo tutta la documentazione della storia dell’arte romana”23.

La corrosione dei marmi antichi è la conseguenza diretta dell’inquinamento dell’aria dovuto alle industrie, al riscaldamento delle abitazioni e ai gas di scarico delle automobili. Per capire come si era giunti ad una tale situazione, occorre ricordare che le sistemazioni dell’epoca fascista avevano mutato radicalmente l’assetto dell’intera città. Via dei Fori Imperiali era divenuta nel secondo dopoguerra l’apice di una consistente direttrice d’espansione e l’area dei fori, da periferica qual’era nel 1870, si era venuta a trovare al centro di un nuovo grande quadrante urbano, sempre più soffocato dal traffico e perciò inquinato. Negli anni in questione si calcola che oltre 50.000 veicoli, lo stesso numero di automobili che oggi interessa l’autostrada del Sole nel tratto fra Bologna e Firenze, percorrano quotidianamente via dei Fori Imperiali, aggirando il Colosseo, ridotto a gigantesco spartitraffico24.

“Via del Mare e via dell’Impero [oggi via dei Fori Imperiali, ndr]... due strade che hanno rovesciato tutto il traffico dei quartieri meridionali di Roma, dai colli e dal mare, su piazza Venezia, allora scambiata per ombelico del mondo e quindi sul corso Umberto (cioè su una strada tracciata venti secoli prima), congestionando tutto il centro di Roma fino alle inverosimili parossistiche condizioni attuali di completa paralisi della circolazione”25.

L’allarme del soprintendente è raccolto immediatamente da Cederna, in un articolo pubblicato sul «Corriere della Sera».

“Stiamo dunque pagando, come era da aspettarsi, la nostra lunga incuria e la nostra tenace indifferenza per la conservazione del patrimonio storico-artistico e per i problemi dell’ambiente in generale”26.

Il rammarico per ciò che è accaduto prelude, come d’abitudine, ad un’indicazione sul diverso indirizzo che deve essere impresso alle politiche urbanistiche, nazionali e locali.

“È un problema che coinvolge tutta la politica nazionale, stato regioni comuni, purché ci si renda conto che la salvaguardia del nostro patrimonio storico e artistico può essere garantita solo da un governo del territorio, dell’ambiente che sia finalmente nell’interesse pubblico”27.

Nel concludere l’appello, il soprintendente è altrettanto esplicito: la conservazione dell’area archeologica non richiede una semplice opera di salvaguardia, bensì una più complessa modifica dell’assetto urbano.

“Il problema fondamentale non è tanto quello dei fondi per il restauro dei monumenti, perché ciò che costerà enormemente sono gli interventi di riorganizzazione della città”28.

Torna così d’attualità la proposta, nata nel secolo precedente, di costituire un grande parco archeologico che comprenda l’intera area dei Fori, tra il Campidoglio e il Colosseo e si protenda verso la campagna romana, lungo il tracciato della via Appia29.

Il grande cuneo Campidoglio-Fori-Appia Antica taglia in due l’intero settore sud della città e costituisce una vera e propria pausa di silenziosa e immutata bellezza nella sterminata e caotica periferia costruita negli anni Cinquanta e Sessanta. È il cosiddetto progetto Fori: non una specifica proposta di piano, bensì un complesso di idee, studi e proposte progettuali presentate a cavallo tra il 1979 e il 1985 riguardanti l’area archeologica centrale di Roma compresa tra il Campidoglio e il Colosseo e le sue connessioni con la sistemazione più generale della città.

Rispetto all’originaria ideazione, il «parco archeologico più grande e più importante del mondo»30 acquista necessariamente un significato più ampio: elemento di attrazione per turisti e visitatori da tutto il mondo, museo di se stesso, possibile luogo di incontro per i romani, area verde di incommensurabile valore per una città priva delle dotazioni minime, elemento unificante il centro storico, la periferia e la campagna circostante.

Gli interventi principali riguardano:

“- lo smantellamento graduale dell’ex via dell’Impero e quindi l’esplorazione archeologica per riportare in luce le antiche piazze imperiali, creare il parco unitario Fori Imperiali-Foro Romano, ampliando il centro storico e arricchendo Roma e i romani di un incomparabile spazio per la cultura, la contemplazione, il riposo, per tacere del contributo che lo scavo stratigrafico darà alla conoscenza della storia della città;

- il riassetto ambientale della zona tra il Colosseo e le mura aureliane [...];

- la creazione del gran parco dell’Appia Antica, prosecuzione extra-moenia del parco archeologico centrale”.31

Lo smantellamento della via dei Fori Imperiali32 e di parte delle strade circostanti il Colosseo mette in discussione l’assetto viario a scala urbana, sollecitando un deciso decentramento delle funzioni attrattrici di traffico, dal centro storico verso il settore est della città, in un’area appositamente dedicata dal piano regolatore33. La portata del problema e i termini della sfida travalicano di gran lunga l’archeologia e la conservazione dei beni culturali e richiedono un ripensamento complessivo e una forte azione di governo della città.

Alla guida del governo cittadino, per la prima volta nel dopoguerra, c’è un’amministrazione di sinistra, guidata da Giulio Carlo Argan, storico dell’arte. Argan, e ancor più il suo successore Luigi Petroselli, funzionario del partito comunista, percepiscono la possibilità di mutare il volto della capitale attraverso il progetto Fori. Roma si può affrancare dalla sua immagine degradata, al centro come in periferia, per proporsi al mondo ed essere vissuta dai propri cittadini in modo completamente diverso, realizzando così una sintesi tra la sua connotazione popolare e il rango di metropoli internazionale cui essa aspira. Nei giudizi di alcuni dei protagonisti delle vicende di allora, si coglie l’ampio respiro delle proposte.

Così si esprime Antonio Cederna:

“Col grande parco da piazza Venezia all’Appia antica, la cultura, l’archeologia diventano determinanti per l’immagine di Roma: l’urbanistica moderna riscopre la funzione strategica dei vuoti, degli spazi liberi dell’ambiente paesistico”34.

Così l’urbanista Italo Insolera:

“Il progetto Fori propone una sintesi ambiziosa quanto inedita tra il patrimonio archeologico e il tessuto urbano che lo circonda: l’antico non vi è più inteso come “monumento” né come quinta evocatrice di illustri memorie, ma come parte storica potenzialmente equiparabile ad altre parti storiche – medievali, rinascimentali, barocche – che la città non ha mai smesso di usare”35.

Così il soprintendente Adriano La Regina:

“Il grande parco archeologico compreso entro il perimetro delle Mura aureliane di fatto esiste già... e occorre solamente organizzarlo diversamente. Occorre in primo luogo sottrarlo alla sua condizione di spazio utilizzato per l’attraversamento veicolare e, in alcuni ambiti, come riserva di esclusivo interesse turistico. [...] Si dovranno nuovamente rendere agibili gli spazi già in antico destinati all’uso pubblico: le piazze quali luoghi di sosta e di attraversamento, le strade come viabilità ordinaria pedonale”36.

Così l’assessore alla cultura Renato Nicolini:

“Tutto al contrario di quello che credono i superficiali e i dogmatici, la difesa attiva del patrimonio storico e dell’identità culturale di una città, può coincidere con la sua affermazione come metropoli. [...] Questo è, secondo me, il senso vero del progetto Fori, almeno nella forma che aveva assunto per la giunta Petroselli. Al centro di Roma, proprio a rendere evidente la trasformazione della città, da città burocratico-industriale in qualcosa d’altro, città di servizi, metropoli postindustriale, non ci debbono più essere i ministeri, ma il grande parco archeologico che partendo dall’Appia Antica arriva fino al Campidoglio”37.

Il sindaco Luigi Petroselli, il principale protagonista della vicenda per Cederna, Insolera e De Lucia, è colui che più di tutti coglie l’importanza della posta in gioco e comprende «la ricerca e la possibilità di conquista e di riconquista di una nuova identità cittadina e insieme [...] di unificazione della città intorno a nuovi valori»38.

2. Dalla discussione all’abbandono della proposta

Per quanto ampia, l’adesione di urbanisti, archeologici, storici dell’arte, architetti e altri uomini di cultura non si rivela tuttavia sufficiente per costruire il necessario consenso attorno alla proposta39.

Mentre il degrado dei monumenti aveva acceso lo sdegno di tutti e favorito un altrettanto unanime consenso sulla necessità di intervenire urgentemente, né il progetto di sistemazione dell’area archeologica, né tanto meno l’idea di trasformazione della città ad esso legata vengono compresi appieno e condivisi. Al contrario, un lungo e acceso dibattito accompagna l’elaborazione dei progetti.

Lo smantellamento della via dei Fori Imperiali, perno dell’operazione, diventa ben presto il punto attorno al quale si coagula il dissenso. Nonostante il successo della chiusura domenicale al traffico, avvenuta per la prima volta il 1° febbraio 1981, il dibattito sul destino della strada aperta da Mussolini prende una piega indesiderata: la demolizione è ritenuta un provvedimento troppo radicale, inessenziale al recupero dei monumenti e foriero di conseguenze indesiderabili sul traffico e sulla vita quotidiana della città40. A nulla valgono le considerazioni dei due sindaci, né l’opinione di Giulio Carlo Argan, che aveva coniato l’espressione «o i monumenti o le automobili», né quella di Petroselli, che si era domandato retoricamente:

“si devono accettare i livelli e le condizioni del traffico e della circolazione come dati immutabili ai quali piegare la vita dei cittadini, o piuttosto la vita dei cittadini si deve organizzare finalizzando le condizioni e i livelli del traffico ... ad un nuovo rapporto tra sviluppo e progresso civile che costituisce il terreno privilegiato della sfida sulla modernità di Roma?”41

Comincia ad insinuarsi l’idea che la rimozione della strada nasconda una sorta di rivalsa o di accanimento nei confronti di quanto realizzato sotto il fascismo42. Il quotidiano «Il Tempo» lancia una campagna di forte opposizione, dando risalto alle polemiche sollevate da alcuni studiosi che si richiamano al Gruppo dei Romanisti43.

“La chiusura della ex via dell’Impero e la restituzione del tracciato degli antichi Fori fu, ne convengo, soltanto l’indizio di un organico disegno urbanistico: era senza dubbio opportuno, per alleggerire la congestione del centro, chiudere quello che Cederna chiama, giustamente, un tronco di autostrada nel cuore di Roma, com’era senza dubbio opportuno ridare ai Fori l’antica spazialità mutilata. Ma Petroselli, che ideò l’operazione, vi annetteva un senso politico: cancellare un macroscopico segno della retorica fascista che con quella via destinata alle parate militari s’immaginava di ricalcare la via dei trionfi imperiali. Che la progettata chiusura di quello scenario di maccheronica romanità implicasse un’idea politica si rese conto l’amministrazione pentapartita, che s’affrettò a bloccarla e a restituire quel condotto stradale al fasto delle parate militari. Un brutto, ma eloquente, segno”44.

Non sorprende, dunque, che il governo centrale neghi ogni sostegno economico a proposte che eccedano la mera conservazione dei monumenti45.

Non è solo la diatriba ideologica ad alimentare il dissenso. Altrettanto decisivi sono il mancato appoggio del mondo della cultura e il sostanziale disinteresse della politica nazionale. L’acme del dibattito si raggiunge nei primi mesi del 1981, in concomitanza con alcune iniziative di grande significato prese dall’amministrazione comunale che fanno presagire un’accelerazione degli eventi in favore della costituzione del parco e della rimozione di via dei Fori imperiali: nel dicembre del 1980 si dà inizio allo smantellamento di via della Consolazione e si approva la chiusura parziale di piazza del Colosseo; nel febbraio, come detto, comincia la chiusura domenicale di via dei Fori Imperiali. Diversi archeologi, storici dell’arte, architetti e giornalisti esprimono le proprie perplessità46. Bruno Zevi e Paolo Portoghesi contestano l’idea di città sottesa al progetto Fori. Mario Manieri Elia, Vittorio de Feo, e Carlo Aymonino chiedono più tempo per discutere le priorità e i contenuti delle proposte: «Nessuno deve montare in cattedra: un’idea di città, oggi, la si può costruire tutti insieme e in un tempo non breve»47. Anche nel mondo politico le proposte non trovano la necessaria sponda: come ricordato, il governo nazionale è contrario e lo stesso partito comunista, che pure guida l’amministrazione comunale, guarda con «sostanziale disinteresse» al dibattito sulla questione dei Fori48. L’improvvisa morte di Petroselli, nell’ottobre 1981, costituisce lo spartiacque per l’avvenire del grande progetto urbanistico legato alla sistemazione dell’area archeologica e l’inizio del suo abbandono.

La nuova amministrazione guidata da Ugo Vetere si muove inizialmente in sostanziale continuità con la giunta precedente, ma gradualmente si fa strada l’idea che sia preferibile ricondurre il progetto Fori nell’alveo strettamente conservativo assicurando, grazie ai finanziamenti statali, gli interventi di manutenzione del patrimonio archeologico e rimandando tutte le altre operazioni ad un tempo successivo che non verrà mai. Le proposte della Soprintendenza e del Comune divergono progressivamente: il percorso congiunto si conclude con il Progetto per la valorizzazione dell’area dei Fori imperiali e dei Mercati Traianei, elaborato nell’ambito del Coordinamento settore archeologico, presentato pubblicamente dal sindaco Ugo Vetere il 12 gennaio 198349.

La Soprintendenza prosegue lo sviluppo dell’idea iniziale. Incarica un gruppo di esperti coordinati da Leonardo Benevolo di elaborare una proposta definitiva. Benevolo si avvale della collaborazione dei funzionari della Soprintendenza, coordinati da

Francesco Scoppola, nonché di progettisti di eccezionale valore: lo studio Gregotti per la parte più strettamente architettonica, Guglielmo Zambrini per la parte trasportistica, Ippolito Pizzetti per il verde. Cederna e Insolera sono esplicitamente ringraziati da Benevolo per la «lunga consuetudine di lavoro comune». Contestualmente Italia Nostra promuove la redazione di una proposta di Piano per il Parco dell’Appia Antica, curata da Vittoria Calzolari. Le due proposte vengono presentate al pubblico ma rimangono prive del necessario sostegno amministrativo e urbanistico: per la loro realizzazione infatti devono essere finanziati e coordinati interventi statali e comunali, raccordando tra loro politiche dei trasporti e pianificazione urbanistica50.

L’amministrazione comunale, impegnata su un numero impressionante di fronti (lavori pubblici, periferie abusive, case popolari, completamento della metropolitana), prende tempo.

Si consolida la posizione di quanti negano che la trasformazione dell’area archeologica centrale sia l’indispensabile premessa per una riqualificazione complessiva della città. L’assessore al centro storico Aymonino ritiene che la «complessità culturale e le difficoltà di gestione» del «più importante problema di scienza urbana che si sia presentato in Italia dal dopoguerra» rendono indispensabile un tempo lungo51. Piero e Roberto Della Seta sottolineano il sostanziale ripensamento:

“Il progetto Fori abbandona i binari di una incisiva iniziativa politica, che lo aveva caratterizzato all’inizio, per acquietarsi in una stanca attività burocratica, in cui man mano si smarrisce”.52

A conti fatti, la lentezza con cui si procede si rivela esiziale.

Il Comune sceglie la strada di un concorso internazionale di idee, ma la giunta cade prima che sia indetto il concorso e, alle elezioni, viene sconfitta53.

3. Gli sviluppi successivi

Nei vent’anni che ci separano dagli avvenimenti sopra ricordati, nessun amministratore ripropone il progetto Fori al centro della politica urbanistica comunale. Non lo fanno i sindaci delle giunte a guida democristiana (Signorello, Giubilo) e socialista (Carraro), né quelli di centro-sinistra (Rutelli e Veltroni, attualmente in carica). Con il passare del tempo si consolida la convinzione che «l’utopia di una renovatio urbis»54 basata sul progetto Fori sia destinata a rimanere tale, per le troppe resistenze che essa incontra e per l’impegno, economico e amministrativo, che essa richiede. Non è un caso isolato: a Roma come in tutto il resto d’Italia, con rare eccezioni, si registra il

“progressivo appannarsi di ogni «progetto per la città»: inteso questo non come disegno redatto a tavolino o sommatoria di singoli progetti, ma come idea generale capace di assommare le singole volontà e mobilitare al meglio le varie spinte particolaristiche, come insieme di norme comportamentali fissate per assicurare un migliore uso dell’aggregato urbano e sole capaci di dare contenuto al concetto stesso di convivenza”55.

Liberata dall’abbraccio “fatale” con la trasformazione urbanistica immaginata nel progetto Fori, la sistemazione dell’area archeologica prosegue il suo corso, seppure con grande lentezza.

I finanziamenti sono assai modesti e i tempi di realizzazione non seguono la tabella di marcia prevista. Nel 1988 il programma iniziale viene finanziato nuovamente ma, come lamenta Cederna, le risorse sono ridotte56. Vengono avviati i primi sondaggi archeologici nel Foro di Nerva che preludono al successivo scavo, iniziatosi nel 1995, con il quale si dà concretamente avvio al progetto per la realizzazione del Parco archeologico dei Fori Imperiali, inserito nell’ambito del Piano per il Giubileo del 2000, e proseguito con gli scavi dei fori di Traiano e di Cesare. Si interviene anche per migliorare la fruizione pubblica dell’area, altro elemento qualificante delle proposte nate alla fine degli anni Settanta. Sono presi alcuni provvedimenti significativi, in particolare dalla giunta Veltroni, le cui iniziative possiedono una certa continuità con il programma dell’«Estate romana» ideato da Renato Nicolini57. L’apertura gratuita della via Sacra, avvenuta nel 1997, che permette tuttora una magnifica promenade dall’Arco di Tito al Campidoglio, può essere vista come il primo passo per restituire al Foro quella funzione urbana ipotizzata vent’anni prima dal soprintendente

La Regina58.

“È stato il modo di restituire al Foro una funzione veramente urbana. Questo è un modello di ampliamento di cui tenere conto per l’assetto futuro, mettendo a tacere chi vuole sempre e comunque mercificare tutto”.

È in questa prospettiva che la Soprintendenza ripresenta, nel 2005, una nuova proposta di sistemazione, affidata all’architetto Massimiliano Fuksas. Diversamente dal passato, non si prevede l’eliminazione della via dei Fori Imperiali, tuttora presente e utilizzata dalle auto, sebbene crescano di anno in anno le limitazioni alla circolazione a causa dell’inquinamento atmosferico59. Come aveva ipotizzato anche Cederna, gli scavi sono potuti proseguire per anni senza creare alcun problema, e questo ragionevole compromesso avrebbe lasciato aperta ogni soluzione, se il Ministero per i beni e le attività culturali, il 20 dicembre 2001, non avesse apposto un vincolo di tutela all’insieme delle sistemazioni viarie operate durante il fascismo tra piazza Venezia e le mura aureliane, riconoscendovi un valore culturale. Quali ragioni hanno portato a conferire al simbolo della «maccheronica romanità» un valore storico, al pari di molte altre realizzazioni della prima metà del Novecento che certamente lo possiedono, considerandolo come un elemento intangibile da restaurare e curare con attenzione? Certamente hanno avuto un peso coloro che riconoscono un valore all’insieme delle opere realizzate nel ventennio, giudicate il tentativo di conferire a Roma «il volto di una capitale»: capitale laica per Giorgio Ciucci, politica, morale e culturale (sic!) per Vittorio Vidotto60. Un’importanza non secondaria deve essere anche attribuita al fatto che, sebbene nata come «macabra scenografia», via dei Fori Imperiali si è trasformata nel dopoguerra in un importante teatro di manifestazioni pacifiche e democratiche61. Probabilmente, più di ogni altra cosa, ha prevalso un certo spirito di conciliazione con il passato, lasciando in secondo piano le considerazioni urbanistiche, una volta di più incomprese o ritenute inessenziali62.

La conclusione di questa vicenda lascia un velo di amarezza. La politica e la cultura non hanno compreso il messaggio contenuto in Mussolini urbanista. È stato abbandonato progressivamente, senza nemmeno un esplicito rifiuto, il progetto che più di ogni altro poteva trasformare il volto della capitale attraverso la pianificazione urbanistica in modo esemplare per il resto della nazione. Tuttavia, se è vero che «non c’è futuro senza memoria del passato» e «nulla di peggio dell’assuefazione agli errori commessi», i moniti e i ragionamenti, i sarcasmi e le proposte di Cederna continuano ad essere un riferimento, tanto attuale quanto indispensabile.

NOTE

1 Mussolini urbanista è costantemente incluso fra i testi di riferimento per lo studio della storia dell’urbanistica romana nel periodo fascista, anche da parte di autori in disaccordo con le opinioni di Cederna. L’importanza delle illustrazioni a corredo del libro è stata sottolineata da Italo Insolera, curatore di Roma fascista nelle fotografie dell’Istituto Luce. Con alcuni scritti di A. Cederna, Editori riuniti, Roma 2001. Nella pubblicazione di Insolera sono contenuti alcuni estratti di Mussolini urbanista corredati dalle fotografie recentemente messe a disposizione dall’Istituto Luce.

2 L. Quilici, Considerazioni sulla Roma d’oggi in margine al libro di A. Cederna, Mussolini urbanista, «Bollettino di Italia Nostra», 195-196 (1981), p. 21. Le tesi esposte in Mussolini urbanista e, più in generale, i giudizi espressi da Cederna sull’urbanistica romana durante il fascismo sono stati criticati molto duramente. All’autore si rimproverano un eccessivo schematismo e un antifascismo “manicheo”. Cfr. in particolare M. Manieri Elia, Roma Capitale: strategie urbane e uso delle memorie, in A. Caracciolo, Le Regioni dall’Unità d’Italia a oggi: Il Lazio, Einaudi, Torino 1991 e V. Vidotto, La Capitale del fascismo, in Roma capitale, a cura di V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 2002.

3 Nello Ajello descrive così la prosa di Cederna in Via degli obelischi, uno dei primi articoli scritti sul «Mondo»: «Quello che uscì dalla sua penna era un intervento critico. Ma era soprattutto un’invettiva. Accorata. Sdegnata. Furente. [...] Gli anatemi del giovane archeologo toccavano nervi scoperti dell’intellighenzia italiana. Agivano su una minoranza, ma in profondità. Comunicavano sdegno. Creavano allarme nei colpevoli». Cfr. Hanno scritto di lui, in Beni culturali, urbanistica e paesaggio nell’opera di Antonio Cederna, 1921-1996, Roma 1999 (Ministero per i beni e le attività culturali, Centro di documentazione Antonio Cederna), p. 41.

4 Quilici, Considerazioni sulla Roma d’oggi,p. 22.

5 Secondo il censimento della popolazione, Roma nel 1871 ha poco più di 240.000 abitanti. Cento anni dopo gli abitanti sono oltre 2.700.000. La superficie urbanizzata subisce un incremento ancora più consistente: l’area compresa entro le mura aureliane è di circa 1.500 ettari, molti dei quali nel 1870 erano liberi da costruzioni; oggi la superficie urbanizzata è di circa 40.000 ettari, venticinque volte più estesa. Per i dati al 1870 cfr. P. Della Seta, R. Della Seta, I suoli di Roma. Uso e abuso del territorio nei cento anni della capitale, Roma, Editori Riuniti, 1998, p. 15-19. I dati sull’espansione edilizia tra il 1951 e il 1981 sono stati raccolti in una ricerca condotta da Filippo Ciccone e Vezio De Lucia i cui esiti fondamentali sono riportati in F. Ciccone, Il sabato mattina, se non piove, «Urbanistica informazioni», 78 (1984). I dati sulla superficie e popolazione attuale, messi a confronto con le previsioni del nuovo piano regolatore sono contenuti in C’è troppo consumo di suolo nel nuovo piano regolatore di Roma, 17 settembre 2002 (Comitato per la bellezza, Associazione culturale Polis e Wwf); cfr. anche V. De Lucia, Il nuovo piano regolatore di Roma e la dissipazione del paesaggio romano, «Meridiana», 47-48 (2003), p. 289.

6 Tra gli scritti di Cederna dedicati alle trasformazioni del periodo post-unitario, cfr. in particolare A. Cederna, Prefazione in R. Lanciani, L’antica Roma, Laterza, Roma-Bari 1981 (or. Ancient Rome in the light of recent discoveries, 1888), p. ix-xxxviii. Sulla distruzione delle ville che circondavano il centro antico cfr. A. Cederna, È sempre emergenza per le ville storiche, «Bollettino di Italia nostra», 265 (1989), p. 26-27; A. Cederna, Roma la capitale del Duemila, «Bollettino di Italia nostra», 322 (1995), p. 21. Lo stesso argomento è ripreso dall’autore in molti articoli dedicati alla cronica carenza di verde pubblico a Roma e ai tentativi di lottizzazione edificatoria perpetrati fino agli anni ’60: cfr. La capitale d’Italia in A. Cederna, Brandelli d’Italia, Newton Compton, Roma 1991, p. 285-346.

7 Quilici, Considerazioni sulla Roma d’oggi, p. 22.

8 Così scrive Cederna nell’introduzione a Mussolini urbanista. Piero e Roberto Della Seta leggono nel secondo dopoguerra una degenerazione rispetto all’epoca precedente, venendo a mancare ogni politica di controllo della rendita fondiaria e della speculazione edilizia e, conseguentemente, ogni proposta sullo sviluppo della città. Cfr. P. Della Seta, R. Della Seta, I suoli di Roma e V. De Lucia, Se questa è una città, Donzelli, Roma 2005, p. 6.

9 Una parte consistente delle nuove costruzioni è realizzata in modo illegittimo: tra il ’62 e il ’76 sono stati lottizzati, in aree destinate a verde o all’agricoltura, ben 12.000 ettari di terreno. Negli insediamenti abusivi vivono tra le 500.000 e le 700.000 persone. Nel denunciare in consiglio comunale la gravità di queste trasformazioni, il consigliere del partito comunista Aldo Natoli parla di un nuovo “sacco di Roma” (A. Natoli, Il sacco di Roma, Roma, Tipografia Lugli, 1954). L’espressione sarà utilizzata successivamente da molti e, in un’occasione ufficiale, perfino dal sindaco Argan, nell’indirizzo di saluto al pontefice rivolto in occasione della visita di quest’ultimo al Campidoglio il 3 gennaio 1977: «La condizione è sventuratamente tale che s’è parlato e si parla, anche fuori dall’Italia, del terzo sacco di Roma; non più perpetrato da torme di Lanzichenecchi, ma da mercanti avidi e senza scrupoli, non nella momentanea furia di un saccheggio, ma nel metodico e pervicace sfruttamento del suolo urbano». P. Della Seta, R. Della Seta, I suoli di Roma, p. 165.

10 L. Benevolo, Città in discussione. Venezia e Roma, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 149.

11 A. Cederna, L’erba di Roma, 1972, ora in Brandelli d’Italia, p. 342.

12 Come fondatore e attivista di Italia Nostra e come giornalista, Cederna ha dedicato un impegno specifico per contrastare il distorto sviluppo urbanistico di Roma. Alle cronache del periodo 1957-1965 è dedicato in particolare Mirabilia Urbis, Torino, Einaudi, 1965, in cui sono raccolti gli articoli di Cederna pubblicati sul «Mondo», divisi per argomento (piano regolatore, centro storico, verde pubblico, Appia Antica) e ordinati cronologicamente. Il libro si apre con una raccolta di 31 fotografie della periferia romana costruita in quegli anni, assai eloquenti per comprendere la portata e le conseguenze della speculazione edilizia. Anche le altre pubblicazioni di Cederna (I Vandali in casa, Bari, Laterza, 1956, ora 2006, La distruzione della natura in Italia, Torino, Einaudi, 1975, Brandelli d’Italia) contengono una sezione dedicata agli articoli scritti in relazione alle vicende della capitale. Un’ulteriore raccolta di scritti su Roma è contenuta nel Cd-rom allegato a Beni culturali, urbanistica e paesaggio nell’opera di Antonio Cederna. Particolarmente vicine alle posizioni di Cederna, e costantemente citate nei suoi scritti, sono le ricostruzioni delle vicende urbanistiche della capitale effettuate da Leonardo Benevolo (in part. Roma da ieri a domani, Roma-Bari, Laterza, 1971) e Italo Insolera (in part. Roma moderna, Torino, Einaudi, 1993). L’espressione «Roma sbagliata» è contenuta nel titolo di un ciclo di seminari, promosso da Italia Nostra, sulle condizioni di degrado della città nei primi anni settanta. Cfr. Roma sbagliata: le conseguenze sul centro storico, Roma, Bulzoni Editore, Roma 1976 (Italia Nostra).

13 Cederna, Prefazione, a I vandali in casa ora in Brandelli d’Italia, p. 44-45.

14 Cederna, Mirabilia Urbis, p. 457. Sullo stesso argomento cfr. A. Cederna,

M. Manieri Elia, Orientamenti critici sulla salvaguardia dei centri storici, «Urbanistica», 32 (1960), A. Cederna, Salvaguardia dei centri storici e sviluppo urbanistico, «Casabella» 250 (1961) riportato anche in Cederna, Mirabilia Urbis, p. 451 e seg.; A. Cederna, I centri storici nella città contemporanea in Italia Nostra 1955-1995. Quarant’anni dalla fondazione. I centri storici nella città contemporanea. Atti del conve-gno , Roma 1995.

15 Citazioni tratte da Cederna, Manieri Elia, Orientamenti critici sulla salvaguardia dei centri storici, p. 69-71.

16 Cederna può essere annoverato, a buon diritto, anche tra i precursori dell’ambientalismo italiano ed è stato tra coloro che per primi hanno capito la necessità di integrare politiche urbanistiche e ambientali. Cfr. in particolare A. Cederna, Prefazione, a Guida della Natura d’Italia, a cura di G. Farneti, F. Pratesi, F. Tassi, Mondadori, Milano 1971 e G. Berlinguer, G. Sacco, A. Cederna, F. Pistolese, L’ecologia alla conferenza di Stoccolma, «Politica ed economia» 4 (1972) e A. Cederna, Presentazione in E. Tiezzi, P. degli Espinosa, I limiti dell’energia, Garzanti, Milano 1987. Cfr. anche la prefazione alla seconda edizione del libro di V. De Lucia, Se questa è una città, che Cederna conclude spiegando perché «è necessario che la sinistra impari a fare i conti ecologici».

17 A. Cederna, Una cultura indifferente al nostro passato, «Corriere della Sera», 28 giugno 1975, ora in In nome del Bel paese.Scritti di Antonio Cederna sull’Emilia Romagna (1954-1991), a cura di G. Gallerani, C. Tovoli, Bologna 1998 (Istituto per i beni artistici, culturali e naturali dell’Emilia Romagna), p. 71.

18 Ibidem.

19 Sebbene sia ricordato soprattutto per le sue battaglie in difesa del patrimonio storico e naturale, Cederna ha dedicato uguale impegno a promuovere l’affermazione della pianificazione urbanistica, illustrando realizzazioni straniere e, più raramente, italiane da portare ad esempio (cfr. «L’Europa», selezione di articoli riguardanti città europee in Beni culturali, urbanistica e paesaggio nell’opera di Antonio Cederna), occupandosi a più riprese come giornalista, come parlamentare della legislazione urbanistica e come “urbanista operativo”. Secondo De Lucia, le proposte per lo sviluppo di Roma contenute nella relazione alla proposta di legge per Roma capitale, presentata nell’aprile del 1989, costituiscono «una vera e propria lezione di urbanistica moderna» (V. De Lucia, Cederna, Petroselli, il progetto dei Fori, «Carta qui», 4, 2006).

20 Cederna, Prefazione, a I vandali in casa, ora in Brandelli d’Italia, p. 56.

21 Il principale testo di riferimento per la comprensione delle vicende accadute tra il 1978 e il 1983 e delle cronache relative al dibattito allora suscitato è I. Insolera, F. Perego, Archeologia e città. Storia moderna dei Fori di Roma, Laterza, Roma-Bari, 1983. Gli avvenimenti sono sintetizzati con grande efficacia anche in De Lucia,

Se questa è una città, p. 121-127. Il punto di vista dell’amministrazione comunale e le iniziative assunte tra il 1983 e il 1985 sono descritti in R. Panella, Roma Città e Foro. Questioni di progettazione del centro archeologico monumentale della capitale, Officina Edizioni, Roma 1989 e in C. Aymonino, Progettare Roma Capitale, Laterza, Roma-Bari 1990. Una riflessione di segno opposto a quello di Cederna, Insolera e De Lucia, è formulata in Manieri Elia, Roma capitale: strategie urbane e uso delle memorie.

22 Originariamente via dell’Impero. Le vicende relative alla sistemazione di piazza Venezia e delle aree attorno al Campidoglio sono descritte nel capitolo terzo di Mussolini urbanista. Alla costruzione di via dell’Impero è dedicato il capitolo quinto.

23 Insolera, Perego, Archeologia e città, p. 212. L’agenzia trova un’ampia eco sui giornali di allora: ne parlano il 21 dicembre stesso il «Corriere della Sera» (I monumenti di Roma vanno a pezzi, articolo di Cederna) e «Paese Sera» (La lebbra del marmo uccide i monumenti); il 23 dicembre, «La Stampa» (Fra vent’anni avremo solo le foto dei preziosi monumenti dell’antica Roma); il 31 dicembre, «L’Unità» (Lo smog cancella il passato e ipoteca il futuro). Cfr. Insolera, Perego, Archeologia e città, p. 213 e seg. «Ritengo che molti di noi serbino il ricordo persino delle parole che aprono il comunicato» (Manieri Elia, Roma capitale, p. 551).

24 A. La Regina, Roma: continuità dell’antico, in Roma, continuità dell’antico. I fori imperiali nel progetto della città. Electa, Milano 1981, p. 11.

25 Cederna, Mirabilia urbis, p. 455.

26 Cederna, I monumenti di Roma vanno a pezzi.

27 Ibidem.

28 Insolera, Perego, Archeologia e città,p. 212.

29 Gli scavi dell’area archeologica centrale, promossi da Pio vii agli inizi dell’Ottocento, proseguiti sotto l’amministrazione napoleonica e, dopo il 1871, dal governo italiano, avevano portato ad ipotizzare una passeggiata archeologica intorno alle rovine romane e ad un grande parco, esteso dal Campidoglio alla via Appia. Scrive Insolera: «Non se ne farà nulla, ma l’idea era posta, e durerà per sempre». (Insolera, Perego, Archeologia e città, p. xviii). Cederna ricostruisce le vicende relative alle sistemazioni di fine Ottocento nella relazione alla proposta di legge n. 3858, 26 aprile 1989, «Interventi per la riqualificazione di Roma Capitale della Repubblica», riportata in Il parco archeologico più grande e più importante del mondo, «Bollettino di Italia Nostra», 265 (1989), p. 21 e nel Cd-rom allegato a Beni culturali, urbanistica e paesaggio nell’opera di Antonio Cederna. Ricostruzioni storiche del periodo postunitario sono contenute anche in Insolera, Perego, Archeologia e città, p. 1-30 e in

La Regina, Roma: Continuità dell’antico, p. 54-94. Cfr. anche L. Barroero, A. Conti, A. M. Racheli, M. Serlo, Via dei Fori Imperiali.La zona archeologica di Roma: urbanistica, beni artistici e politica culturale, Marsilio, Venezia 1983.

30 Cfr. nota precedente. L’area della zona monumentale individuata nel 1887 è di 227 ha; il comprensorio dell’Appia Antica interessa oltre 2500 ha.

31 Cederna, Interventi per la riqualificazione di Roma Capitale della Repubblica.

32 L’eliminazione di via dei Fori Imperiali consentirebbe di ampliare l’area di scavo archeologico, poiché sotto il suo sedime (la carreggiata è larga più di venti metri, che in alcuni punti diventano cento con le sistemazioni a verde ad essa circostanti) sono collocati parte dei fori di Traiano, Augusto e Nerva, ricostituendo l’unitarietà dell’area archeologica, tuttora tagliata in due dall’asse stradale. L’ipotesi di soppressione è avanzata pubblicamente da La Regina nell’aprile del 1979. Nel luglio successivo il sindaco Argan conia, in una lettera aperta all’Ordine degli ingegneri, lo slogan “o i monumenti o le automobili”. Pochi giorni dopo, La Regina precisa la proposta mediante un’agenzia di stampa e raccoglie l’immediata adesione, pubblicamente espressa, del sindaco e degli assessori della giunta comunale Calzolari e Nicolini. Cfr. Insolera, Perego, Archeologia e città, p. 219 e 233-35.

33 Si tratta del comprensorio noto come Sistema direzionale orientale (SDO). «Trasferendo nello SDO alcuni milioni di metri cubi di attività direzionali, a cominciare dai ministeri, si alleggerisce il centro, si pone un argine alla sua terziarizzazione selvaggia e si possono recuperare immobili alla residenza» (A. Cederna, Tra critica e proposta, «Bollettino di Italia Nostra», 265, 1989, p. 5). Occorre dire che è avvenuto l’esatto contrario di quello che ipotizzava Cederna: il progetto SDO è stato abbandonato, i ministeri non sono stati decentrati, il centro storico ha perso drammaticamente popolazione.

34 Cederna, Tra critica e proposta, p. 7.

35 Insolera, Perego, Archeologia e città, p. xvii.

36 La Regina, Roma: continuità dell’antico, p. 14. Per il soprintendente è essenziale conferire ai Fori la loro originaria funzione di luogo di incontro, eliminando la separazione tra area archeologica e città e restituendo tali spazi all’uso dei cittadini.

37 R. Nicolini, Introduzione a C. Aymonino, Progettare Roma Capitale, p. 7.

38 Seconda conferenza cittadina sui problemi urbanistici, Roma 1982 (Comune di Roma), p. 217, riportato in De Lucia, Se questa è una città, p. 122. Cederna, commemorando Petroselli su «Rinascita» del 16 ottobre 1981, parlerà dello “scandalo” prodotto dalla determinazione del sindaco nel sostenere il progetto Fori e nell’avviare le prime iniziative concrete.

#39 Sul «Corriere della Sera» del 14 marzo 1981 è pubblicato un appello sottoscritto da 240 studiosi, italiani e stranieri. Il testo integrale e le firme sono riportate in Insolera, Perego, Archeologia e città, p. 341. Cfr. anche De Lucia, Se questa è una città, p. 124.

40 Le voci del dissenso sono raccolte in particolare dal quotidiano «Il Tempo». Timori relativi alle ripercussioni della chiusura della via dei Fori Imperiali sul traffico ricorrono anche negli interventi degli storici dell’arte, tra i quali Federico Zeri che interviene con alcuni articoli su «La Stampa»nel febbraio del 1981.

41 L. Petroselli, [Presentazione], in Roma: continuità dell’antico, p. 9.

42 Bruno Palma su «Il Tempo»dell’11 agosto 1979 apre la polemica domandandosi retoricamente se l’idea della soppressione della strada si debba a cultura urbanistica o a «rabbia politica».

43 Il Gruppo dei Romanisti è un movimento culturale fondato negli anni ’20, al quale sono appartenuti alcuni dei protagonisti delle vicende di allora, come Ojetti, Muñoz e Giovannoni. Nel febbraio del 1981 viene pubblicato da «Il Tempo» un appello dei Romanisti contro la rimozione della via dei Fori Imperiali, giudicata una «gravissima perdita difficilmente giustificabile», con Cederna è guerra di penna. Cfr. in particolare l’articolo di Cederna pubblicato sul «Corriere della sera» del 6 febbraio 1981 e le successive repliche in Insolera, Perego, Archeologia e città, p. 324-332.

44 G. C. Argan, Prefazione, a P. Della Seta, R. Della Seta, I suoli di Roma, p. 11.

45 Il governo si era dichiarato disponibile a finanziare gli scavi: nel gennaio 1979, poco tempo dopo l’appello del soprintendente, era stata istituita una Commissione nazionale di studio, presieduta dallo storico dell’arte Cesare Gnudi (1910-1981). Conclusi i lavori della commissione, con un parere determinato sull’urgenza di provvedere alle opere di riparo dei monumenti, ma decisamente vago sui provvedimenti urbanistici, nel maggio del 1980 era stato assegnato per decreto un finanziamento straordinario di 180 miliardi di lire per attuare gli interventi ritenuti indispensabili e urgenti dalla commissione, convertito l’anno successivo nella Legge 23 marzo 1981, n. 92 «Provvedimenti urgenti per la protezione del patrimonio archeologico della città di Roma». Nei due anni intercorsi tra la nomina della commissione e l’approvazione della legge era montata la polemica contro la demolizione di via dei Fori Imperiali, cosicché mentre il precedente ministro, Biasini, aveva avuto un atteggiamento possibilista, sia pure tra mille tentennamenti, il nuovo ministro, Vernola, aveva preso subito posizione contro la rimozione.

46 Agli inizi del 1981 il «Messaggero», il «Corriere della Sera» e l’«Unità» pubblicano il resoconto di una serie di tavole rotonde, nelle quali i principali esponenti della cultura accademica esprimono la loro opinione. Parallelamente vengono organizzati incontri pubblici di dibattito a palazzo Braschi (3 marzo 1981) e alla Casa della cultura (6 febbraio e 28 maggio). Dal 26 al 29 marzo si tiene la Seconda conferenza urbanistica cittadina, promossa dall’amministrazione comunale.

47 Retrospettivamente Manieri Elia assume una posizione nettamente contraria alle proposte urbanistiche, giudicando «arbitrario e incoerente» lo slittamento di prospettiva dal programma di restauri alla «proposta di una sterminata operazione di trasformazione urbana» (Roma capitale, p. 554).

48 V. De Lucia, Peccato capitale, Edizioni Il Manifesto, Roma 1993, p. 20.

49 I lineamenti della proposta sono descritti in Tutto il progetto Fori, «Bollettino di Italia Nostra», 219 (1983), p. 49-63, con scritti – tra gli altri – di La Regina, Aymonino, Insolera, Quilici, Rossi Doria. L’intervento del sindaco è pubblicato in Piano per il Parco dell’Appia Antica, Roma 1984 (Italia Nostra, sezione di Roma).

50 I primi studi e orientamenti programmatici della Soprintendenza sono presentati al pubblico in due mostre nella Curia al Foro Romano nel 1981 e nel 1985. Cfr. rispettivamente Roma: continuità dell’antico e Forma. La città antica e il suo avvenire, Catalogo della Mostra itinerante, 1985-1987, De Luca, Roma 1985. Cfr. L. Benevolo, Roma, studio per la sistemazione dell’area archeologica centrale, De Luca, Roma 1985. Sulla proposta di Piano per l’Appia Antica cfr. il Piano per il Parco dell’Appia Antica. Successivamente la Soprintendenza commissiona uno sviluppo del progetto relativo all’area dei Fori con approfondimenti relativi sia alla fattibilità economica, sia alle iniziative di inquadramento (assetto della viabilità, formazione del nuovo PRG, decentramento dei ministeri) che richiedono il coordinamento di altri soggetti pubblici. Cfr. L. Benevolo, F. Scoppola, Roma, l’area archeologica centrale e la città moderna, De Luca, Roma 1989 con scritti, tra gli altri, di De Lucia (Le esigenze di Roma capitale) e Cederna (Distruzione e ripristino della Velia).

51 C. Aymonino, Un tema grandissimo di scienza urbana, «l’Unità», 8 marzo 1981, ripreso in Archeologia e disegno urbano, «Casabella» 482 (1982). Aymonino ritiene con ciò di superare «una semplicistica vendetta dell’urbanistica radicale». Anche per Manieri Elia occorre «evitare gli estremismi» e «resistere alle tentanti semplificazioni e ai roboanti schematismi». Le difficoltà operative sono sottolineate da Raffaele Panella: «i grandissimi risultati conseguiti praticamente a costo zero con i pochi ma incisivi interventi di ricongiunzione del Foro al Campidoglio e al Colosseo, ... le iniziative dell’Estate romana e la chiusura domenicale di via dei Fori non potevano ripetersi ed estendersi senza compiere un salto di scala. Anzitutto in termini di investimenti». Cfr. R. Panella, Roma città e Foro, p. 49.

52 P. Della Seta, R. Della Seta, I suoli di Roma, p. 259.

53 Gli atti propedeutici al concorso sono formalizzati in una serie di delibere della giunta comunale (8 maggio 1984 e 27 dicembre 1984) e del consiglio comunale (10 luglio 1984). Cfr. R. Panella, Roma Città e Foro, p. 382-385.

54 Così definita da La Regina in Roma: continuità dell’antico, p. 13.

55 P. Della Seta, R. Della Seta, I suoli di Roma, p. 265. L’abbandono progressivo della pianificazione generale in favore di una serie di singoli interventi di trasformazione urbana, dettati dalle opportunità del momento senza curarsi del loro inquadramento complessivo, costituisce la mutazione più evidente dell’urbanistica italiana degli ultimi venti anni. Cederna, assieme a Edoardo Salzano e Vezio De Lucia, può essere a buon diritto annoverato tra i pochi che hanno giudicato negativamente e avversato la crescente deregulation. Sulle conseguenze nella capitale, cfr. P. Berdini, Il Giubileo senza città, Editori riuniti, Roma 2000 e, per un punto di vista opposto, M. Marcelloni, Pensare la città contemporanea: il nuovo piano regolatore di Roma, Laterza, Roma-Bari 2003. Sul dibattito nazionale, cfr. gli scritti degli autori citati in eddyburg.it.

56 Cederna sottolinea la differenza tra i fondi destinati nel decennio precedente al restauro dei monumenti romani e quelli spesi per la costruzione di autostrade, 24 contro 18.000 miliardi di lire. A. Cederna, Il parco archeologico più grande e importante del mondo, in «Bollettino di Italia Nostra», 265 (aprile-maggio 1989), p. 21.

57 Il 25 agosto 1977 il cinema si accende nella basilica di Massenzio dando inizio all’Estate romana, programma di spettacoli estivi all’aperto che si è svolto ininterrottamente dal 1977 al 1985, in una serie di luoghi significativi della città, nel centro e nella periferia.

58 Le proposte sono presentate in una mostra al Colosseo che si è tenuta dal luglio 2004 al gennaio 2005. Cfr. Forma: la città moderna e il suo passato, a cura di A. La Regina, M. Fuksas, D. O. Mandrelli, Electa, Milano 2004.

59 Fuksas immagina la strada come «un nastro sostenuto da ponti sotterranei» ipotizzando l’estensione della sua pedonalizzazione per «almeno sei mesi l’anno». Cfr. F. Giuliani, Ponti sotteranei, passerelle e l’antica Roma torna a vivere, «La Repubblica», 30 giugno 2004. Va ricordato che con l’amministrazione Rutelli sono riprese anche le domeniche pedonali.

60 Cfr. G. Ciucci, Relazione storica sugli interventi architettonici e urbani a via dei Fori Imperiali, allegata come parte integrante del provvedimento di vincolo ai sensi dell’art. 2 del Dlgs 29 ottobre 1999, n. 490 apposto con decreto del Ministero per i beni e le attività culturali; Vidotto, La capitale del fascismo, p. 405-406.

61 Questa tesi è sostenuta ad esempio da Manieri Elia.

62 Un perfetto esempio di travisamento è contenuto nella citata relazione di G. Ciucci che motiva il provvedimento di vincolo monumentale. Ciucci sostiene che «l’avvio della questione Fori Imperiali nel 1982 ha come obiettivo finale l’eliminazione di via dei Fori Imperiali, senza porsi il problema della sua storia, della sua funzione urbanistica, della sua immagine consolidata: l’interesse è concentrato solo nello scavo archeologico» [corsivi nostri].

La proposta di riunificazione dell’area del Colle Oppio segnalata da La Repubblica si presta in primo luogo a una breve considerazione preliminare. Il progetto proviene da una delle numerose idee della Soprintendenza archeologica romana tenacemente perseguite nel corso di questi anni. Lesignore e i signori NO, come vengono generalmente apostrofati dal mondo politico e dell’informazione gli archeologi quando tentano di tutelare i beni loro affidati, dimostrano ancora una volta di avere una chiara idea su quale debba essere il futuro del centro storico. Rappresentano un prezioso giacimento di idee e progetti per lo sviluppo culturale di Roma.

Il nodo vero rimane quello della concreta attuazione dei progetti. Ed è la stessa Repubblica a indicare due macigni che graverebbero sul cammino della proposta. Il primo di carattere economico; il secondo di natura funzionale.

Nel primo caso si afferma che mancano i soldi per l’attuazione del progetto. La giustificazione ha un parziale fondamento. Le Soprintentendenze e tutto il Ministero dei Beni culturali sono stati falcidiati dalle politiche di bilancio del governo Berlusconi. Solo pochi mesi fa è stata addirittura chiusa la Domus Aurea per gravi problemi di staticità. Mancano i soldi per la manutenzione ordinaria, figuriamoci per una nuova campagna di scavi. Ma nel caso del Colle Oppio il progetto potrebbe esser attuato per fasi successive, iniziando dalla chiusura al traffico automobilistico dei 700 metri di via del Colle Oppio. Con tale chiusura si potrebbe intanto avere un altro grande parco a disposizione dei cittadini: gli scavi sistematici potrebbero essere programmati su un ragionevole arco di tempo.

Ma l’ostacolo vero è il secondo. Si vuol far credere che la chiusura del breve tratto stradale provocherebbe chissà quali ripercussioni sul traffico urbano mentre invece la maglia urbana circostante è in grado di assicurare il funzionamento viario. Se la mancata chiusura di via dei Fori imperiali è stata giustificata con l’impossibilità di alternative nei collegamenti centro storico-quartieri orientali, in questo caso la giustificazione non tiene. Il collegamento tra centro storico ed Esquilino ha già oggi la possibilità di sfruttare la rete stradale limitrofa. Eppoi sul tratto stradale da chiudere non transita nessuna linea di trasporto pubblico

Evidentemente chiudere la via del Colle Oppio non rientra nei programmi dell’amministrazione comunale così come è tristemente tramontata l’idea di chiudere via dei Fori imperiali. Manca il coraggio di pensare ad una città diversa, che faccia della sua area archeologica centrale liberata dal traffico il principale elemento qualitativo. Manca insomma l’idea di un centro storico che non sia soffocato dal traffico e in cui i gas di scarico delle automobili non debbano continuare a danneggiare i monumenti. Basta accontentarsi dell’effetto annuncio mediatico.

Un progetto di riqualificazione dell´intera area del Colle Oppio che prevede ulteriori scavi nell´immenso patrimonio di palazzi sepolti insieme alla Domus Aurea e, in superficie, il recupero dell´integrità delle Terme di Traiano. Per questo dovrà essere interamente cambiata la viabilità all´interno del parco: sparirà l´attuale via del monte Oppio che taglia a metà le Terme, che verrà sostituita da percorsi alternativi lungo l´attuale tracciato viario che circonda il Colle. Tutta questa materia entrerà, a settembre, nella conferenza dei servizi di Roma Capitale. Spesa prevista: dagli 80 ai 100 milioni di euro.

«È un progetto messo a punto alcuni anni fa», spiega il sovraintendente ai Beni Culturali di Roma Eugenio La Rocca, «quando il ministro Rutelli era sindaco di Roma. Allora un gruppo di lavoro composto con le diverse sovraintendenze, il sindaco, le università, architetti e archeologi riesaminò la situazione del Colle Oppio. A parte il degrado del parco, c´è infatti un problema di tipo archeologico. Il progetto di riassetto delle Terme di Traiano fatto dall´architetto Antonio Munoz negli anni ‘30 ha spaccato in due parti una delle opere più pregevoli dell´antichità: queste terme sono dell´architettto Apollodoro Damasceno, il più grande tra tutti gli architetti che operarono a Roma. Noi, attualmente, ne vediamo solo alcune esedre e qualche pezzo in mezzo alle aiuole: non è possibile per il visitatore coglierne la bellezza come di un unico monumento». Tanto più che la strada che le taglia in due è diventato, come nota La Rocca, «solo un parcheggio di pullman: una cosa assolutamente intollerabile».

Il progetto che ora sta arrivando in dirittura d´arrivo, però, non si limita alla superficie del colle. «Le Terme di Traiano sono state realizzate su un´enorme piattaforma che Apollodoro realizzò con i resti della Domus Auera e di molti altri edifici. Gli scavi che stiamo effettuando stanno portando alla luce tesori straordinari. Sappiamo che là sotto ci sono saloni enormi, ricchi di affreschi e di mosaici. È scavando lì che abbiamo trovato l´eccezionale dipinto della città perfetta, oppure il mosaico con i pampini e l´uva. È un´area ricchissima che va portata alla luce interamente».

Farlo però non sarà facile. Non solo per lo spostamento della strada - «Andranno esaminati percorsi alternativi sulle strade limitrofe» - ma per il costo dell´intera opera. «La questione dei tempi», dice La Rocca, «è legata a quella dei finanziamenti. Per un intervento di questo tipo ci vuole un finanziamento straordinario, che può essere elargito solo attraverso una legge dello stato. Stiamo parlando di una cifra dagli 80 ai 100 milioni di euro. Per questo se ne dovrà parlare nella conferenza dei servizi per Roma Capitale».

Caro Eddy, dalla tua ultima home page leggo un intervista di Gigi Marcucci a Campos Venuti. Va tutto più o meno bene. Diciamo che va tutto tanto più bene quanto sono lontani gli episodi di vita, non solo professionale, che Bubi rievoca.

Va poi molto male quando, come nell’ultima domanda, Campos ricorda la recente esperienza della sua consulenza al nuovo Prg di Roma. Per quanto riguarda il Piano in sé, eddyburg vi ha dedicato tante pagine e critiche autorevoli (prima fra tutte quella di Vezio De Lucia, che a sue spese ha ricostruito il folle sovradimensionamento del Piano), che non vale la pena di soffermarsi più di tanto, se non per ricordare due cose:

1. La stesura del Piano è durata 12 anni, tutto compreso (è un tempo inaccettabile per un urbanista che si rispetti). E’ una critica che ho già sollevato pubblicamente in presenza di Campos che si scandalizzò, insieme a Marcelloni, che guidava l’ufficio, e a Federico Oliva (braccio destro di Bubi). A Maurizio Marcelloni suggerirei di rileggere il libro che Laterza (o tempora, o mores!) gli ha pubblicato, per ripulirlo dalle numerose bugie che lo pervadono. A Federico Oliva, vecchio amico, consiglierei di ritornare ai tempi in cui era meno “moderno” e meno “berlusconiano”;

2. Campos ha coniato espressamente per Roma, credo, un fortunato slogan: “Pianificar facendo”. So di apparire un po’ troppo eccentrico rispetto ai tempi che corrono nella povera urbanistica italiana, ma mi è consentita una domanda? Un tempo, non lontano, “pianificar facendo” non era un reato?

Passiamo poi alla “cura del ferro”. Campos, riferendosi all’esperienza romana, letteralmente dichiara: “la soluzione che non sono riuscito a imporre a Bologna, quella che io chiamo “la cura del ferro”. Quando arrivai a Roma come consulente del Piano, questa fu la bandiera che Rutelli accettò di impugnare. Quasi mezzo secolo fa si diceva che l’automobile (…) doveva diventare un mezzo per tutti. Ora tornare indietro non è facile ma, come dimostra l’esperienza romana, non è nemmeno impossibile”. Mi trovo costretto a ricordare cose di cui sono stato testimone e protagonista (dal 1993 al 1997 sono stato consulente di Walter Tocci per i trasporti e ho presieduto la società pubblica che, in compartecipazione con i francesi di Ratp e Sncf , si è occupata delle metropolitane a Roma):

La “cura del ferro” è uno slogan di Walter Tocci. Tocci puntava, dietro la spinta forte di un gruppo di noi, a fare l’Assessore all’Urbanistica. Qualcuno lo stoppò, mettendo al suo posto un outsider, Domenico Cecchini, molto vicino e molto devoto al Sindaco. Di conseguenza, fra i due assessori vi era concorrenza e conflittualità. Il Piano che con Tocci mettemmo a punto (Agenda dei trasporti) approvato dal Consiglio comunale nel 1995, lo facemmo cercando di incontrarci il meno possibile con “gli uomini” di Cecchini (e di conseguenza anche con Campos). Nello stesso tempo, fin dal dicembre del 1993, cominciarono incontri serratissimi con Fs: in pochi mesi venne realizzata l’integrazione tariffaria estesa a tutto il Lazio e, a infrastruttura invariata, messo a punto un sistema di linee passanti, prima fra tutte la FM1 (Fara Sabina-Fiumicino). Questo ha consentito in pochi anni di passare da poco più di 50 mila, a oltre 200 mila passeggeri giorno sulle cosiddette ferrovie metropolitane (FM, appunto). Ma ancora oggi non esiste un collegamento diretto, che per altro sarebbe poco utile, fra Termini (stazione di testa) e Trastevere (che si trova sull’anello Ovest). Posso citare come segnale della distanza fra Bubi e la Cura del ferro la frase della richiamata intervista che recita: “Per andare da Termini a Trastevere, una volta si prendeva il taxi. Oggi lo si può fare in treno, in poco tempo” (sic!) ?

Come ricordavo, passai ad occuparmi di metropolitane. Da una posizione molto autorevole: venni nominato presidente della società Sta/Sdt sistemi di trasporto Spa. 50% Comune di Roma, 50% Systra, la società di ingegneria dei trasporti più importante al mondo, a sua volta al 50% di proprietà di Ratp (metropolitana di Parigi) e al 50% di Sncf (le ferrovie francesi). Raggiungemmo ottime performance. Con pochi uomini (e donne) mettemmo a punto un programma e dei progetti per la linea C che già nel 1996 erano in conferenza dei servizi. Presentammo i nostri risultati in un convegno pubblico nell’ottobre del 1997, a pochi giorni dalla campagna elettorale. Fu un successo. Campos venne a complimentarsi con me. Cecchini bolliva dalla rabbia. Purtroppo io sapevo già che non sarebbe finita bene. Da qualche mese eravamo sotto tiro. Non piacevamo agli imprenditori romani che temevano le gare e, forse, i francesi (ma sbagliavano, i francesi erano in cabina di regia per motivi di prestigio e non avrebbero potuto partecipare alle gare). E io non piacevo all’establishment: non accettavo raccomandazioni. Subito dopo le elezioni fu deciso di chiudere la società con i francesi e di chiudere con me. Il mio capo-progetto della Linea C, Jerome de la Menardière, definito dai giornali romani (una volta tanto un’esagerazione ben riposta) “il mago delle metropolitane”, arriverà dopo qualche tempo a Torino. E’ lui la mente tecnica della metropolitana a guida automatica (la prima in Italia) entrata in servizio prima delle Olimpiadi invernali e realizzata a tempo di record. La Sdt viene liquidata con 31 dipendenti. La nuova sezione ingegneria di Sta spa, dopo pochi, mesi vede decuplicati gli organici. Ma, a dieci anni da allora, nessuno ha ancora visto un centimetro di nuove metropolitane. E per quello che capisco io, anche i nostri nipoti dovranno aspettare. Nonostante la stampa romana continui a scrivere da anni lo stesso articolo sulla B1 e sulla C che stanno lì lì per arrivare.

Il furbissimo Rutelli, dopo la cacciata fatta da Tocci, mi richiama in servizio: vuole che sia l’esperto di trasporti del Commissariato di Governo per il Giubileo, coordinato da Guido Bertolaso. Ritorno a occuparmi di Fs e del Nodo di Roma. Dal nuovo volto di Termini, alla strada che costeggiando i binari di Tiburtina, dovrebbe poi proseguire nella cosiddetta tangenziale ferroviaria, liberando dal traffico intenso e permanente gli abitanti di Circonvallazione Tiburtina, dalla rifunzionalizzazione della Stazione Ostiense a interventi diffusi per migliorare i servizi del nodo (nuove fermate, Capannelle, Fidene, eccetera, eliminazioni di passaggi a livello sulle linee per i Castelli, interventi di scavalco a Ostiense, quarto binario da S. Pietro a Trastevere, eccetera). Ma, soprattutto, la nuova FM3, Roma-Viterbo. L’unica opera davvero significativa sul nodo Fs realizzata a Roma nel dopoguerra: cento chilometri di elettrificazione (la linea era gestita con locomotori diesel), 23 chilometri di raddoppio, di cui quattro in area urbana e in sotterranea, 13 nuove stazioni e fermate con scale mobili e ascensori). Un miracolo, realizzato in tre anni. Me ne prendo il merito, insieme al povero Antonio Pacelli, prematuramente scomparso la scorsa estate. Una delle menti più lucide e fattive incontrate in Fs. Abbiamo trovato più reperti archeologici che ostacoli tecnici. Ma, come racconta il libro che narra dell’intera vicenda, curato con Maristella Casciato,(Roma-Viterbo: da linea suburbana a ferrovia metropolitana, Edizioni Union Printing, Roma 2000), tutto è stato fatto con una stretta collaborazione sia con la sovrintendenza archeologica di Roma che con quella dell’Etruria Meridionale. La ricetta, semplicissima: noi rispettavamo il loro lavoro e loro il nostro. Io ed Antonio abbiamo passato intense e straordinarie giornate sui numerosi cantieri archeologici. Nel libro citato, sono loro archeologi a raccontare, compreso un entusiasta Adriano La Regina. In quel periodo sul Nodo di Roma (facevo parte, insieme a Silvio Rizzotti e Pasquale Esposito, due icone dell’ingegneria Fs, di un Comitato di coordinamento delle opere sul Nodo) si investivano 500 miliardi di lire all’anno. Poi, rapidamente, con i nuovi consulenti (Mario Di Carlo, allora assessore comunale alla mobilità, Legambientino e Rutelliano di ferro, non volle rinnovarmi l’incarico) gli investimenti sono precipitati, fino quasi ad azzerarsi. Oggi il Nodo è fermo. Una delle opere più importanti, il quarto binario da S: Pietro a Trastevere, non è ancora terminata.

Quindi, e in conclusione, al contrario di quanto dice Campos,”l’esperienza romana” di cura del ferro è ben poca cosa: ferma l’evoluzione del Nodo Fs, ferme nella sostanza le metropolitane (ci si avvia a realizzare record a contrario già noti alla città: 25 anni per fare quattro miseri e brutti chilometri di linea A). E, con la copertura del “pianificar facendo”, qualche altro milione di metri cubi è stato realizzato ben distante da qualsiasi linea su ferro. Vorrà dire che, come faccio da anni, continuerò ad andare in Vespa, sempre più in compagnia (attualmente a Roma circolano 700 mila mezzi su due ruote. Non so se il Sindaco si rende conto che se costoro usassero la macchina la città si paralizzerebbe). Ad maiora.

Ti ringrazio della tua testimonianza, che illumina una pagina di storia ancora viva.

Il processo di miglioramento delle condizioni di vivibilità della città di Roma fu, in primis, avviato dal Sindaco Petroselli (1979-81) che, primo tra tutti i precedenti sindaci, iniziò ad affrontare il tema delle periferie e proseguì con l’invenzione dell’Estate Romana voluta da Renato Nicolini. Processo, questo, ripreso e sviluppato dalle successive amministrazioni Rutelli e poi Veltroni. Una città fino ad allora provinciale legata all’immagine (voluta dalla DC) di capitale religiosa, oggetto di saccheggio edilizio e di dominio incontrastato della rendita fondiaria (vero ed unico motore dell’espansione della capitale fino ad allora), iniziò a diventare una metropoli moderna basata sullo sviluppo industriale e sul decentramento dei poteri. Pochi forse ricorderanno che prima dell’esperienza dell’estate romana la città era, di notte, un deserto sociale, inospitale e perfino pericoloso. Le due amministrazioni menzionate hanno avuto entrambi due grandi meriti che di seguito tenterò di illustrare e che oggi è necessario sottoporre al vaglio di una riflessione critica se si vuole procedere nella direzione della costruzione di una autentica modernità.

Il primo merito è quello di aver avviato la trasformazione di questa “vecchia città di provincia” in una metropoli moderna. Le scelte, le decisioni che hanno portato a questo sono note: iniziative culturali di livello internazionale, progetti e rifacimenti di strade e piazze di un centro storico fino ad allora troppo monumentale e museizzato (ma scarsamente accessibile ai più), tentativo di inclusione nella vita della città delle grandi periferie fino ad allora relegate a rango di dormitorio urbano, rottura della storica alleanza tra amministrazione e poteri legati alla rendita, autonomia dei rapporti con la Città del Vaticano. La successiva nascita dei Municipi ha conferito alle periferie la dignità di “città nella città” avviando esperienze anche significative di partecipazione diretta degli abitanti alle scelte urbanistiche e dell’abitare. Ci sono stati anche momenti di aspre critiche e di opposizione come, ad esempio, quelle alla celebrazione, a Roma, delle Olimpiadi, poi del Giubileo, sul sottopasso a Castel S. Angelo e, più di recente, quella legata alla prima ipotesi di Piano Regolatore sotto l’amministrazione Rutelli.

Il secondo merito è stato quello di aver tentato di sottrarre, soprattutto attraverso la redazione del Piano Regolatore, lo sviluppo edilizio dalle mani di poche famiglie di costruttori e di aver tentato di guidarne gli esiti (non senza qualche vistosa contraddizione) verso la realizzazione di spazi pubblici da restituire alla città e ai suoi abitanti. A questi due meriti va aggiunto quello della buona amministrazione e del buon governo. Cose queste, non da poco considerato che questa città era diventata famosa (come documenta Italo Insolera nei suoi libri sulla storia di Roma moderna) come “Capitale infetta” o “Roma ladrona”, comunque città del saccheggio edilizio e della rendita fondiaria; in una parola, la città degli immobiliaristi e dei palazzinari che, in tempi non troppo remoti, riuscivano a condizionare pesantemente le scelte e le decisioni delle amministrazioni elette.

Queste, seppure descritte in maniera forfettaria, le premesse alla base della nascita oggi di quel laboratorio ed esperimento politico-urbano cui è stato dato il nome di “modello romano”. Di questo si parla da tempo e da più parti come esempio di un’esperienza, e di una pratica politica la cui validità autorizzerebbe a esportarne e a diffonderne l’esperienza all’intero Paese. Forse è d’obbligo fare qualche riflessione anche perché il “modello romano”, per bocca dei suoi stessi sostenitori, si presta a differenti interpretazioni e contraddizioni.

La città moderna (che meglio sarebbe chiamare “contemporanea”) è al tempo stesso, per usare le espressioni di Marc Augé, città-mondo e mondo-città. Città mondo perché in essa si ritrovano tutte le contraddizioni sociali e i conflitti che attraversano il pianeta, primi fra gli altri, quelli connessi all’esclusione, alla povertà, all’ineguaglianza. Mondo-città perché l’intero pianeta tende ad essere progressivamente urbanizzato e già oggi quello urbano costituisce l’unico modello di vita. Tornando alla prima immagine (la città-mondo), la città contemporanea produce conflitti aspri e tutt’altro che facili da affrontare: immigrazioni, confronti etnici, esclusione, disoccupazione, marginalizzazione, paura, insicurezza, clandestinità, povertà. Affrontare questi temi significa affrontare la questione del futuro della città moderna e forse dell’intera comunità vivente. Deve essere essa città dell’accoglienza, dell’incontro, dell’essere-insieme-tra diversi (in-between), di una nuova civiltà multietnica e meticciata, luogo della convivenza pacifica, o…cosa? Non è una domanda scontata. Per esempio alcuni ritengono che anche le nostre città sono in competizione tra loro e che per sopravvivere occorre inseguire il treno del modernismo dilagante e i miti e riti del liberismo (marketing urbano, restyling, ecc.). Le città, insomma, sono in questa visione equiparate a vere e proprie merci da esporre nella vetrina-mondo.

Rispetto a queste visioni alternative occorrerebbe riflettere sulle azioni da intraprendere.

Inseguire la politica dei grandi eventi rischia, quando essa diventa “ossessiva”, di oscurare i conflitti latenti e di trasformare i cittadini in sudditi gaudenti che si muovono da una parte all’altra della città consumando quegli stessi eventi proprio come si consuma una pizza o una cena in un ristorante di Trastevere. Penso che le istituzioni e le amministrazioni urbane non dovrebbero limitarsi al solo buon governo (intendiamoci, obiettivo tutt’altro che trascurabile!); esse dovrebbero avere un ruolo attivo di agenti che responsabilizzano i cittadini; possedere, insomma, un’anima e una volontà educante. La governance (brutta parola) è proprio quella capacità di regolare le relazioni sociali producendo senso attraverso la progressiva estensione dello spazio pubblico. La partecipazione non è assemblearismo né un processo inconcludente né pura tecnica di costruzione del consenso o eliminazione del conflitto e neppure un’azione una tantum. Essa dovrebbe essere uno stile di governo, un metodo attraverso il quale correggere errori e produrre senso.

E’ stato vantato che la città di Roma produce un Pil in crescita assai più di quello nazionale. Ebbene forse bisognerebbe educare i cittadini anche a un’idea diversa di ricchezza che abbia a che vedere con l’incremento dei beni comuni, con l’uguaglianza, con la solidarietà, con la reciprocità. Se il successo di una città viene identificato esclusivamente con il suo Pil, allora continueremo a restare inchiodati all’ossessione della ragioneria contabile e a quella della compatibilità finanziaria.

Il plebiscitarismo e il cesarismo sono forme anomale e degenerative della moderne democrazie. Esse deresponsabilizzano i cittadini e ostacolano la costruzione di una cittadinanza attiva. Quest’ultima dovrebbe esercitare un ruolo di vigilanza continua dei partiti prospettando loro il rischio di ritiro della delega qualora i rappresentanti eletti smarrissero per strada le promesse fatte ai loro rappresentati. La cittadinanza attiva, a nostro avviso, non deve fare competizione ai partiti tradizionali né tanto meno proporsi di sostituirli. Sarebbe un errore grave, un cortocircuito del difficile rapporto, sempre instabile, tra rappresentanti e rappresentati. Non c’è bisogno di nuovi partiti, c’è invece bisogno di una cittadinanza vigile che sappia tenerli sulla corda e mantenga alto il livello del confronto e anche del conflitto (il conflitto è sempre salutare alla democrazia e non va confuso con l’aggressione o la ricerca di supremazia). L’eccesso di ecumenismo può essere anch’esso un filtro oscuratore della sofferenza di coloro che non hanno ascolto e voce per difendere i propri diritti, ma che non appartengono al popolo-che-partecipa. C’è sempre da tener presente il lato oscuro e contraddittorio della partecipazione, quello secondo il quale per ognuno che accede ai luoghi delle discussioni e delle scelte qualcun altro rimane escluso.

Sulla seconda questione che ha visto impegnata l’amministrazione Veltroni, ovvero quella del Piano Regolatore, non mi trattengo sia per ragioni di spazio, sia perché mi sembra una questione ancora aperta i cui esiti sono anche in parte legati alle iniziative locali dei Municipi che potrebbero mitigare e orientare le scelte capitoline attraverso un maggior coinvolgimento delle comunità locali.

In conclusione, prima di pensare ad esportare l’esperienza romana occorre aprire un dibattito che abbia un grande respiro.

Il meccanismo di partecipazione ampia che va (come ha osservato Sara Menafra, Il Manifesto del 25.06, p.3) da Mastella a Nunzio D’Erme non garantisce tout court, di per sé, che questo esperimento produca esiti necessariamente positivi per i motivi che sopra accennavo. L’eliminazione dei conflitti, il trasversalismo e il relativismo politico, visione secondo la quale ogni opinione vale quanto qualsiasi altra, in base a una distorta interpretazione della libertà di giudizio, sterilizza le passioni anziché costituire uno stimolo alla vigilanza e al confronto continuo. Può, insomma, addormentare le coscienze anziché renderle vigili. Resta, a mio avviso, invece aperta la questione di quale debba e come debba realizzarsi una convivenza tra diversi che apra la prospettiva di costruzione di una autentica modernità.

Postilla

Condivido gran parte dell’analisi di Enzo Scandurra, e la sua proposta: il suo invito a riflettere criticamente sul “modello romano” prima di imitarlo. Vorrei riprendere un punto del suo ragionamento e, a partire da questo, sottolineare una carenza del suo intervento: rilevare, e tentar di riempire, un silenzio che non comprendo.

Scandurra osserva, giustamente, che è un errore assumere il PIL come la misura del successo, e sostiene la necessità di “educare i cittadini anche a un’idea diversa di ricchezza che abbia a che vedere con l’incremento dei beni comuni, con l’uguaglianza, con la solidarietà, con la reciprocità”.

D’accordo, pienamente d’accordo. Ma vorrei osservare che il PIL di Roma è gonfio, rispetto a quello di altre regioni, anche perché esso è carico di due voci attive nella bilancia ragionieristica dell’economia data, che invece, nella bilancia degli interessi generali e dei “beni comuni”, rappresentano dei passivi. Due passivi sociali, culturali, ambientali e anche economici, già oggi pesantissimo l’uno, già minaccioso l’altro: mi riferisco alla quota del PIL derivante dal settore immobiliare e quella relativa al turismo. Di quest’ultimo bisognerebbe cominciare a preoccuparsi per “governarlo”, prima che sia troppo tardi: e una politica che si affidi alla sua generica espansione, come mi sembra quella auspicata da Veltroni, non sembra promettere se non nuvoloni di disagio e degrado. Ma a me interessa soprattutto l’altro passivo: quello rappresentato dal forte premio dato dal Comune alla valorizzazione delle proprietà immobiliari, e in particolare fondiarie, con il nuovo PRG.

Senza forzare troppo le cose si può dire che, nel PRG, il motore è la rendita immobiliare. Altrimenti non si spiegherebbe perché ulteriori 15mila ettari saranno sottratti all’Agro romano; perchè in tanti quartieri si documentano scambi simoniaci tra dotazioni pubbliche, cui si è rinunciato, e incrementi di cubature edificabili, con cui si è gratificata la proprietà immobiliare; perché si sia accreditata la tesi, perversa e menzognera, che il piano regolatore attribuisca “diritti edificatori” che devono comunque essere riconosciuti.

Se vogliamo discutere seriamente il “modello romano”, il PRG non possiamo proprio trascurarlo, caro Scandurra. E dobbiamo domandarci se siano effettivamente tramontati i tempi in cui il “dominio incontrastato della rendita fondiaria” era il “vero ed unico motore dell’espansione della capitale”, o se non prosegu, in forme certamente più colte di quelle praticate trent’anni fa, e più accattivanti (come testimonia il fatto che le critiche al PRG sono rientrate nel momento decisivo)

Proprio in questi ultimi giorni che hanno preceduto l’approvazione delle controdeduzioni al nuovo piano regolatore, l’urbanistica romana ha raggiunto uno straordinario record: il consiglio comunale ha infatti votato uno dei più vergognosi regali alla speculazione immobiliare che sia mai stato concretizzato nel panorama italiano. Autore di questo ennesimo scandalo è l’assessore Claudio Minelli, un passato da sindacalista Cgil che nella giunta Veltroni svolge il compito di raccordo con i grandi poteri. Il suo assessorato è appunto denominato ai “grandi progetti”.

La deliberazione comunale di cui parliamo approva un precedente atto della giunta municipale romana, il n. 85 del 2005, finalizzato a un “programma di interventi per la realizzazione della nuova sede del Municipio XX e di un complesso di residenze in via Flaminia nuova nonché di un incremento di volumetria residenziale nel piano di lottizzazione convenzionata Acqua acetosa-Ostiense”. La vicenda è questa. Lungo la via Flaminia c’è un gruppo di vecchi capannoni produttivi abbandonati da decenni. Sono di proprietà di Bonifici, un nome molto noto nella capitale poiché oltre ad essere uno dei più grandi costruttori è anche il proprietario del Tempo, quotidiano aprioristicamente schierato con la destra più estrema che spesso da spazio a voci apertamente forcaiole.

Il quadro è quello che abbiamo più volte evidenziato su queste pagine: a Roma l’urbanistica pubblica non esiste più, sostituita da un oscuro sistema di sotterranee contrattazioni con la proprietà immobiliare. Così Bonifici propone al comune di Roma di realizzare la sede del Municipio su una parte dell’area dove ricadono i capannoni. Ovviamente in cambio pretende un diluvio di cemento. Se è soltanto attraverso la rendita fondiaria che si possono realizzare servizi pubblici, i proprietari sono autorizzati ad avere in mano il destino delle città.

Utilizzando la legge per il Giubileo del 2000, la proprietà aveva ottenuto la possibilità di realizzare un albergo al posto dei capannoni abbandonati. L’albergo non è mai stato realizzato e quella legge affermava esplicitamente che le procedure straordinarie sarebbero decadute alla conclusione del Giubileo. Siamo nel 2006 e la proprietari fanno il furbesco tentativo di vantare ancora quell’ipotetica cubatura e tentano di trasformare i 105.440 metri cubi ottenuti nel 1999 in più remunerative residenze. Quella concessione era scaduta ma il comune non batte ciglio e accetta la contrattazione. E qui avviene un altro passaggio vergognoso.

Afferma infatti la deliberazione di Giunta che “a seguito delle verifiche preliminari di compatibilità urbanistico ambientale è emersa la necessità che comunque la volumetria che poteva essere realizzata sull’intera area andava ridotta e l’area opportunamente indagata sotto il profilo di presumibili preesistenze archeologiche quali il tracciato dell’antiva via Flaminia, di possibili resti di murature antiche e di un altro tracciato viario”. Un modo contorto per dire che la Soprintendenza archeologica aveva più volte segnalato che l’area è interessata dal tracciato della via Flaminia, già visibile ad appena poche centinaia di metri di distanza.

L’area non permette dunque la realizzazione delle cubature previste. In un paese civile le cubature sarebbero state tagliate, in coerenza con le esigenze di tutela. A Roma no. Non si può fermare l’economia ed umiliare la speculazione edilizia. Ecco pronta la ricetta: la parte eccedente delle cubature che non si possono realizzare vengono trasferite su un altro terreno del gruppo Bonifiaci, localizzate all’Eur e attualmente destinate a verde privato! Così ventimila metri cubi, oltre la nuova sede del municipio, verranno realizzati al Flaminio. La parte più rilevante, 75.000 metri cubi, andranno in un altro quadrante urbano.

Riepiloghiamo. Una concessione ormai scaduta viene arbitrariamente recuperata in aperta violazione della legge. La gigantesca cubatura che essa prevede non può essere realizzata poiché il sito è interessato da rilevanti preesistenze archeologiche. La parte eccedente di quella cubatura viene così compensata su altri terreni oggi inedificabili, ubicati nell’altro capo della città. Il trionfo della proprietà fondiaria.

Potrà sembrare incredibile, ma non è ancora tutto. Pur se ridotte, infatti, le cubature da realizzare sulla via Flaminia devono prevedere per legge la cessione delle aree per servizi pubblici. Afferma ancora la deliberazione comunale che quelle aree non sono sufficienti a fornire lo standard urbanistico. Ecco allora che si consente alla proprietà di ridurre la quantità di standard e di localizzarla su un altro terreno limitrofo ma non contiguo all’area edificabile. Questo terreno per il verde di quartiere e per i servizi è localizzato al di là di una ferrovia esistente ed è oggi destinato a uso industriale!

I lettori di Carta ricorderanno che uno dei punti più scandalosi della famigerata legge Lupi era relativo proprio all’abolizione dell’obbligatorietà della dotazione minima dei servizi e la sostituzione con l’ambiguo concetto della “prestazionale di qualità”. Roma, vera avanguardia dell’urbanistica liberista, ha dato concreta dimostrazione dell’oscuro concetto di qualità dei servizi: si mettono in misura ridotta al di là di una ferrovia. Ma c’è sempre il lieto fine. E’ lo stesso Bonifici che si propone di realizzare il sovrappasso sulla linea ferrata: i palazzinari hanno un cuore, mica sono selvaggi. E’ ovvio che per realizzare questo ponte pedonale si dovranno spendere soldi e dunque si devono aumentare le cubature da realizzare. Roma ha inventato la creazione perpetua della rendita.

Il Chiostro del Bramante? Invaso da una struttura che ospita serate di gala ed eventi. Col celebre pavimento rinascimentale coperto da una pedana di legno e l'invaso tra i portici chiuso con un ponteggio. Un capolavoro nascosto dalle tovaglie. Prima opera del Bramante a Roma, eretta tra il 1500 e il 1504. Spazio per esposizioni, è stato man mano modificato e destinato sempre più a serate di gala.

Il chiostro più affascinante della Roma rinascimentale non c'è più. Al suo posto una creazione posticcia che viene utilizzata per ospitare eventi, cene di gala e concerti musicali. Doveva essere qualcosa di provvisorio e mobile, ormai ha preso il posto dell'opera d'arte ideata tra il 1500 e il 1504 da Donato Bramante a Roma, la sua prima opera in città. Un gioiello, come il successivo Tempietto a San Pietro in Montorio eretto quattro anni dopo.

Com'è possibile che nel silenzio generale il chiostro del Bramante sia stato ridotto nel modo in cui si presenta oggi ai visitatori ignari? Quale sovrintendenza permette tutto ciò? Partiamo dal pavimento. Mirabile nella sua struttura a diagonali di marmo bianco incrociate al centro esatto, secondo un disegno perfetto che si inquadra nel superbo portico sovrastato da un loggiato superiore, giace ora sotto una penosa piattaforma in legno. Va avanti così da tempo, minaccia di diventare una soluzione permanente. La bigliettaia delle mostre ospitate dal chiostro (in corso c'è quella di Aristide Sartorio) avverte premurosa: «La struttura è provvisoria, certo qui spesso ci sono gala serali e poi tra poco la serie di concerti...».

Cose di questa Italia. L'invaso pregevole del chiostro che guardava al cielo aperto e da un angolo del quale si poteva ammirare il magnifico campanile con la cuspide a maioliche dell'adiacente Santa Maria dell'Anima si presenta oggi oscurato da un involucro a tronco piramidale, basato su colonnine metalliche e un tetto strutturato sugli stessi materiali, dall'aria decisamente stabile come qualcosa che ormai è lì e intende restarci. Unica consolazione, al posto delle tegole, un velo di cellophane che fa passare la luce. Sul sito internet la società che gestisce, in partnership dice con Comune e Regione Lazio, mette a disposizione il chiostro per gala e cose affini in pratica tutti i giorni, sabato escluso, a partire dalle 19,30. «Disponibile», si legge. Basta pagare.

Scomparso e illeggibile è poi il lungo fregio che corre lungo tutto il perimetro interno del Chiostro tra il portico e il loggiato superiore. Occultato dal ponteggio. Non si legge il fregio, ma in aggiunta si possono ammirare invece tutta una serie di faretti e di ingombranti matasse di fili elettrici appoggiati sullo spiovente ad ardesie che copre il fregio. È così che appare il chiostro dal loggiato superiore, dove oltre a vedere i fili elettrici si ammirano anche i tavolini mobili della caffetteria appoggiati alla balaustra del loggiato, tra i pilastri con lesene a fascio alternati a colonne di ritmo doppio.

L'introduzione dei tavolini, tempo fa, sembrava un insulto veniale. Invece era solo un avvertimento. Oggi infatti il bar che era nato come struttura al servizio dell'esposizione museale è diventato un servizio autonomo, un bar pregiato alla pari degli altri della zona conosciuta a Roma come «triangolo delle bevute» e che ha nel vicino Bar della Pace un locale cult. Per frequentare il bar non è necessario visitare mostre, vi si accede liberamente dicendolo alla biglietteria. A quel punto, c'è da meravigliarsi se il chiostro ne ha seguito la sorte come stand?

Era un chiostro, spiegano le guide, di «mirabili proporzioni e inalterato in ogni sua parte». «Opera di affascinante, raffinata ed elevata qualità formale» aggiunge su Internet la società di gestione. Costruito quando l'adiacente chiesa non era ancora il capolavoro di Pietro da Cortona (eseguito a metà '600) ma solo la chiesa riedificata da Baccio Pontelli nel 1482, Sant'Andrea de Aquariziis, non sapeva però di essere nel Terzo Millennio destinato a stand, in partnership con le istituzioni cittadine.

Il marciapiede di Largo Labia, ultimo solco d´aratro della metropoli, finisce improvvisamente nel fango. Dietro la rete comincia la terra di nessuno, affacciata sugli spazi della campagna romana. E quelle trincee fresche di scavo, apparentemente così banali e provvisorie, rimarcano, per la storia e per la cronaca, il confine tra presente e futuro. Il passato è da qualche parte, alle nostre spalle, con le appendici della borgata. Roma non si vede; ma non deve essere troppo distante, come testimonia la fila degli autobus - 92, 36, 235, 90 Express - che sosta nel piazzale tra una corsa e l´altra. Da questo colle gli abitanti dell´antica Fidene controllavano la riva sinistra del Tevere, sopra la confluenza dell´Aniene. Tremila anni dopo siamo a un tiro di capolinea dalla stazione Termini. Ma la vista può ancora spaziare lontano, fino agli orizzonti di Valmelaina e del Tufello. Tutti quei mucchi di argilla smossa sembrano però annunciare l´arrivo di qualche grossa novità, già iscritta nei destini dell´Urbe. Una volta da quest´altura, per vaticinare il futuro, si interrogava il volo degli uccelli. Al giorno d´oggi basta consultare il foglio 11 del nuovo piano regolatore.

Dunque, ecco lì davanti, tutta distesa, una bella fetta di quella che in gergo politico urbanistico si chiama la «Centralità Bufalotta»: due milioni di metri cubi di nuove costruzioni. Uno dei capitoli fondamentali di un piano regolatore che si appresta a ridisegnare i profili dell´intera cinta extra urbana: un ciambellone di cemento, arrotolato sul Grande raccordo, tutto attorno a quell´anello d´asfalto chiamato a svolgere - dentro o fuori - quella che un tempo era stata la funzione delle mura cittadine. Negli ultimi anni il settanta per cento delle nuove abitazioni (e Roma, con il record dei prezzi, detiene anche quello della città italiana dove si è costruito di più) sono state realizzate all´esterno del Gra. E tutti i nuovi insediamenti previsti dal piano regolatore sorgeranno al di fuori del raccordo anulare. Con una sola eccezione: la Bufalotta. Un intervento di peso (anche progettuale, stando alle firme degli architetti) che avrà molti riflessi, diretti e indiretti, sull´area che gravita tra Flaminia e Tiburtina.

Le centralità sono fatte così. Le puoi prendere da destra, o da sinistra; ma gli approcci, per quanto divergenti, finiscono alla stessa conclusione. Anche alla Bufalotta, dunque, si può arrivare da strade opposte. Ci si può tuffare, senza preamboli, dal Grande raccordo, immergendosi in fondo a quello che fino a ieri era solo un anonimo svincolo cieco e oggi è già un nuovo punto cardinale, segnalato dai vessilli gialli e blu dell´Ikea. Accanto al santuario dell´arredamento svedese, ormai meta consolidata di lunghe processioni, ferve un enorme cantiere. Si realizzano, in dimensioni adeguate alla mole delle escavatrici, una catena di nuovi templi merceologici, un intero Pantheon mega, super, iper, ultra. Visione agli antipodi, eppure simile, a quella che si incontra arrivando lungo il classico itinerario delle mappe ottocentesche: via della Bufalotta, «tenuta posta otto miglia distante da Roma, fuori di Porta Pia, al fine di una strada campestre». Un frammentario susseguirsi di casette e condomini, orti e carrozzerie imbudellate, tra un campo coltivato e un monnezzaro, nelle dimensioni proprie di una ex strada campestre. Si arrivi da dove si arrivi, però - si passi per l´edilizia economica popolare, la residenziale, l´abusiva - alla fine ci si ritroverà comunque davanti alle diverse facce della stessa espansione; una necessità connaturata alla stessa fisiologia del Moloch che ingoia ettari e risputa metri quadri.

La metamorfosi di un territorio è anche una metamorfosi linguistica. E la questione non si limita alla toponomastica degli stradari, alle inaugurazioni delle vie dedicate al cantante o all´attore, ai viadotti spartiti, un pezzo a testa, tra Gronchi, Saragat e Pertini. Nonostante una certa propensione per i biglietti da visita in inglese (Building, Holliday, Mister, Dream) i costruttori, gli immobiliaristi, tutti quelli che vendono case non disdegnano l´italiano, purché suoni in un certo modo. Vedi i comprensori, i residence, le sfilze di palazzi venuti ad occupare le vigne e i poggi fino a ieri evocati da indicazioni caserecce, ispirate a storie di malaffare, o radicate nella botanica della gramigna e della cicoria. Ti guardi attorno. E scopri che ormai è tutto un fiorire di magnolie e orchidee. Se gratti dietro la superficie dei cartelloni del «Vendesi» e «Affittasi» ritrovi comunque, ben mimetizzate, le denominazioni originali dei fondi: la Vignaccia, il Cannettaccio, l´Ortaccio... Vecchia geografia agro romanesca. In effetti non suona: come reclamizzi un condominio costruito su un fondo che si chiamava Gallinaro? Meglio i Colli fioriti, i Bei poggi e la marana assurta a Candida fonte.

La capanna dell´età del ferro è stata ricostruita col suo tetto di paglia là dove l´avevano ritrovata, nel giardinetto di un condominio che da via Quarrata si affaccia, speculare a Largo Labia, su un altro orizzonte di grattacieli dispiegati come un arco dentale. Acquedotti ed elettrodotti. Nessun´altra città riesce ad assemblare con altrettanta indifferenza epoche tanto diverse. Una volta da Fidene passava il confine che divideva i latini dagli etruschi; e da quassù si controllavano i traffici - sale, pecorino, vasellame - che andavano verso la Sabina o la Campania. Oggi i punti di riferimento si chiamano A1, A 24, Gra, Fs... la ferrovia, che ha tagliato il colle e le borgate lasciando da una parte Fidene e dall´altra Villa Spada, sorelle siamesi separate in casa da un ponticello a senso unico alternato. Nel panorama prossimo venturo bisogna adesso inserire qualche centro commerciale, un po´ di edilizia residenziale di livello medio alto, alcune strutture direzionali (la Rai, ad esempio, che si troverebbe non lontano da Saxa rubra). A conti fatti un terzo dei 129 mila ettari dell´agro fidenate sarà edificato; gli altri due terzi, il futuro parco delle Sabine, rimarranno verdi. La mappa dice così. Ma come fai a immaginare, orizzontali e verticali, vuoti e pieni, la centralità Bufalotta senza collegarla alla galassia delle cubature che le gravitano attorno?

Castel Giubileo, Cinquina, Nuovo Salario, Serpentara uno, Serpentara due.... Case, ville, palazzi, inframmezzati da realtà agricole anche notevoli, come la Cesarina e la Marcigliana. Certo una cosa è guardare la carta... un´altra osservare un panorama dall´alto... un´altra ancora calarsi nella realtà. Per perdersi nella schizofrenia di una segnaletica che ora ti sbatte verso un quadrifoglio senza svincoli, ora ti costringe nelle spire di una borgata assurta al rango di quartiere, ora ti ignora, affidandoti alla tradizione orale: «Avanti, fino alla rotonda con al centro la statua di un tizio... un santo, un cardinale, boh... si riconosce perché è proprio bianca bianca... l´hanno appena ripulita, ché l´avevano tutta dipinta di giallo e rosso». Avanti, fino a calarsi in quei riquadri grigi che, stando allo stradario, non hanno strade. Canneti, calcinacci, sentieri selvaggi battuti da carovane di camion inzaccherati. Gru e greggi, ruspe e randagi. L´ultima, provvisoria frontiera tra l´oggi e il domani. E il capo di un filo che avvolge la città, perché due milioni di metri cubi sembrano tanti, ma, a chiudere il cerchio, stando alle mappe del nuovo piano regolatore, ne mancano più o meno un´altra sessantina.

Intervista di Anna Pacilli

L’abnorme consumo di suolo è uno dei punti più negativi e ingiustificati del nuovo Piano regolatore generale [Prg] di Roma, ma nessun dato o numero è stato fornito in proposito, nonostante la gran mole di documentazione che ne ha accompagnato tutta la preparazione. Lo ricorda l’urbanista Vezio De Lucia, che i calcoli ha deciso di farli da solo già nel 2003 per documentare le effettive dimensioni dell’espansione prevista dal nuovo Piano.

«Con il nuovo Prg, la città di Roma si ingrandisce di 15 mila ettari, con un incremento di circa il 40 per cento rispetto alla superficie già urbanizzata. Un dato impressionante se si considera che l’intero comune di Napoli occupa una superficie di circa 11 mila ettari» dice De Lucia, che accetta di commentare il nuovo Prg della capitale licenziato il 22 marzo dal consiglio comunale. A De Lucia non piace per niente questo Piano, come non gli va giù l’accordo praticamente unanime che, alla fine, ha portato alla sua approvazione e poi lo ha incoronato. Con anche il manifesto, sottolinea con amarezza, a cantare nel coro di giubilo dei media.

Che cosa non va nell’esperienza urbanistica romana?

Diciamo innanzitutto che questo Piano regolatore è una sorta di registrazione di cose già fatte e successe nel corso degli ultimi dieci anni e la stima che lo dà attuato al 70 per cento probabilmente è per difetto. Basta ricordare che per il Giubileo del 2000, è stato calcolato, sono stati autorizzati 40 milioni di metri cubi di nuove edificazioni. E il consumo di suolo è stato un argomento tabù, che infinite volte si è tentato di portare anche nelle sedi istituzionali. Molto diverse sono invece le esperienze in Europa in materia di crescita urbanistica e di riduzione, o addirittura arresto, del consumo di territorio. In Germania, per esempio, un indirizzo governativo dell’epoca di Kohl è noto con lo slogan «30 ettari al giorno» a indicare il limite di consumo di suolo consentito complessivamente nel paese. Facendo i calcoli, vuol dire che ogni cittadino tedesco ha, diciamo così, una dotazione di suolo agricolo da consumare di 1,3 metri quadrati l’anno. Mi sono divertito a fare i conti con il nuovo Piano della capitale, che invece «autorizza» ogni romano a consumare 6 metri quadrati.

Eppure, Roma è da sempre considerata un laboratorio.

Dal dopoguerra Roma è stata un positivo laboratorio dell’urbanistica. Gli standard urbanistici, introdotti nel ’68 nella normativa nazionale, erano in qualche modo già stati anticipati nel Piano regolatore di Roma del 1962. Oggi, purtroppo, Roma è un laboratorio che anticipa soluzioni non positive, per usare un eufemismo. Per esempio, nella filosofia del nuovo Piano continuano a essere sottintese manovre di perequazioni e compensazioni, come mette chiaramente in evidenza Paolo Berdini nel testo pubblicato sul sito di Edoardo Salzano www.eddyburg.it .

Qual è lo stato di salute della pianificazione?

L’Italia è spaccata in due. Ci sono regioni come Toscana, Marche, Umbria e Emilia Romagna dove tutti i comuni sono dotati di strumenti urbanistici che si rinnovano con notevole frequenza. Dal Lazio in giù, l’urbanistica sparisce; si salva forse un po’ la Basilicata e speriamo si salvi la Puglia con la nuova amministrazione. I dati sul Lazio sono sconfortanti. Su 378 comuni, 89 sono ancora senza Piano regolatore a 64 anni dalla legge urbanistica. Altri 135 hanno Piani vecchi di almeno venti anni, che equivale a dire che non li hanno perché sicuramente massacrati da varianti, modifiche... Forse si tratta soprattutto di piccoli comuni. Ma, ad aggravare la situazione, ci sono i dati regionali sugli accordi di programma, in crescita continua: erano 31 nel 2001, almeno 100 nel 2005. Stiamo parlando di atti che servono a derogare dagli strumenti urbanistici.

La «controriforma» dell’urbanistica della proposta di legge Lupi, rimasta al palo in questa legislatura, è solo rimandata alla prossima?

L’archiviazione della Lupi, vero cavallo di Troia della rendita immobiliare, è stata una grande soddisfazione. Né vanno trascurati alcuni segnali: quest’estate Prodi, a differenza della sinistra, mi pare abbia avuto una posizione chiara verso i cosiddetti immobiliaristi, distinguendo fra rendita e profitti. Sempre Prodi ha sostenuto che bisogna rimettere mano alla questione urbanistica, cosa confermata nel programma dell’Unione che propone un fatto inedito per la cultura italiana, il contenimento dell’espansione urbana. Spunti che inducono all’ottimismo. D’altronde, siamo obbligati a essere ottimisti alla vigilia delle elezioni.

Il nuovo piano regolatore di Roma è stato approvato definitivamente con buona pace di tutti. Anche di coloro che si sono opposti radicalmente ai suoi contenuti. I numerosi comitati che in quest’ultimo periodo hanno combattuto contro questo strumento sbagliato e ingiustificato, hanno infatti cercato di proporre un altro Piano, non la cancellazione di ogni regola. Ora le regole ci sono. Mi auguro che consentano di chiudere per sempre la fase delle deroghe che hanno arricchito pochi soliti noti e aggravato il funzionamento della città. Gli estensori del Piano assicurano che Roma sarà migliore di quella attuale. è allora importante ricordare, senza alcun preconcetto, gli errori di impostazione che ne compromettono in radice proprio la possibilità di rendere la città migliore. I piani urbanistici sono, infatti, utili se sanno interpretare e tentano di risolvere gli elementi di crisi dei sistemi urbani. E, nel caso di Roma, alcuni di questi nodi sono stati colpevolmente ignorati.

La prima e più grave omissione è, senza dubbio, l’assenza di un ragionamento sull’area metropolitana. A Roma non esiste da oltre un decennio nessun fenomeno urbano che non abbia origine negli squilibri tra Roma e il suo hinterland. L’intera provincia di Roma ha incrementato, nel decennio 1991-2001, la popolazione di circa 120.000 abitanti proveniente da Roma. Cittadini che non hanno potuto più permettersi di abitare nella capitale a causa di una rivalutazione immobiliare senza precedenti. Queste dinamiche indicano che sono in atto fenomeni spontanei di enorme intensità guidati dal mercato immobiliare. Basta ricordare l’andamento delle quotazioni delle abitazioni: Ance e Nomisma hanno stimato un aumento medio dei valori immobiliari su scala nazionale pari al 69 per cento nel periodo 1998-2005. A Roma la stima raggiunge il valore del 100 per cento di aumento, mentre nell’area romana è notevolmente più bassa. Era dunque facilmente prevedibile che i processi di valorizzazione urbana in atto nella capitale, non mitigati da politiche di creazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, avrebbero prodotto un fenomeno socialmente iniquo: la fascia meno protetta della popolazione si trasferisce in luoghi maggiormente accessibili dal punto di vista economico andando conseguentemente a ingrossare il numero dei pendolari che si recano quotidianamente a lavorare a Roma, sobbarcandosi interminabili ingorghi.

Di tutto questo, però, non c’è traccia nel nuovo Piano regolatore. Solo recentemente, in fase di controdeduzioni, è stata inserita in uno studio allegato la seguente frettolosa frase: «L’approfondita analisi delle dinamiche urbane dell’ultimo decennio consente di individuare alcuni elementi di novità rispetto al precedente scenario, e in particolare: [...] l’accelerazione dei flussi migratori verso i comuni della corona». Punto e basta.

Ma vediamo cosa hanno prodotto le dinamiche territoriali dell’ultimo periodo. La popolazione della provincia di Roma è passata da circa 986.000 abitanti [esclusa Roma] del 1991 a 1.103.000 nel 2001, con un incremento medio dell’11,9 per cento. Se si guarda il dato generale più in dettaglio, si scopre che la prima corona dei comuni metropolitani cresce a livelli molto più intensi del dato generale. I comuni del litorale nord [Cerveteri, Ladispoli, ecc.] presentano un incremento del 16,6 per cento. I comuni del comprensorio del lago di Bracciano del 27 per cento. La conurbazione della via Flaminia [Sacrofano, Morlupo, ecc] del 22 per cento. I comuni della valle del Tevere del 15,6 per cento. Il litorale sud [Pomezia, Ardea, Anzio e Nettuno] del 18,1 per cento. Sono percentuali impressionanti, tipiche di periodi particolari, come è avvenuto a Roma nell’immediato dopoguerra. Del resto, se la crescita media della provincia è più contenuta, lo si deve soltanto al fatto che il comprensorio dei Castelli romani cresce a un ritmo più contenuto della media [8,2 per cento] per la funzione deterrente dell’esistenza del Parco regionale, e il comprensorio del Sublacente mantiene la popolazione senza incrementi.

E’ poi evidente da tempo che il funzionamento metropolitano di Roma coinvolge territori esterni alla stessa provincia. Le aree meridionali del viterbese [Sutri, Nepi, ecc], il basso reatino con Fara Sabina e i comuni limitrofi, il comprensorio di Aprilia e Cisterna in provincia di Latina, l’alta valle del Sacco nel frusinate, solo per citare i casi più macroscopici, funzionano ormai come pezzi dell’enorme periferia romana. In un raggio di 60-70 chilometri dalla capitale è evidente il fenomeno d’area metropolitana e del conseguente pendolarismo giornaliero.

Il nuovo Piano regolatore avrebbe dovuto, insomma, affrontare nelle mutate condizioni lo storico problema dell’urbanistica romana, quello del decentramento delle funzioni direzionali, così da alleggerire la domanda di accesso verso il centro della città. In realtà è stato fatto il contrario. Anche in questo caso, facciamo parlare i documenti. Nella relazione di Piano si afferma che «non è più attuale la questione dello spostamento delle sedi dell’amministrazione centrale dello stato». Un breve rigo che cancella trent’anni di dibattito culturale sui destini del centro storico. E che cancella anche ogni velleità di riequilibrio con le periferie urbane e con l’area metropolitana. Paradossalmente, poi, si è fatto anche di peggio. Le concrete politiche abitative aggravano ulteriormente gli squilibri spontanei. Il comune di Roma, nel tentativo di dare soluzione ai gravi disagi abitativi, ha infatti acquistato interi edifici nei comuni di Albano, Pomezia, Anzio e Aprilia allargando il concetto di periferia all’intera area metropolitana.

E, nel nuovo Piano, le conseguenze di questa gigantesca domanda di mobilità non sono state affatto indagate. Ricordiamo che uno dei precedenti assessori alla mobilità nonché vicesindaco della giunta Rutelli, Walter Tocci, ha affermato che allora fu realizzato il modello del traffico privato indotto dal nuovo Piano e verificata la sua compatibilità con la struttura urbana. I risultati avevano dimostrato che la città non reggeva l’impatto ed era previsto il blocco dell’intero sistema. Nei giorni precedenti l’approvazione del Piano è stato addirittura accettato un emendamento di Forza Italia che prevede un nuovo raccordo anulare ancora più esterno del Gra. E mentre si parla solo di future metropolitane, prepariamoci a sprofondare nel traffico.

Giuseppe Campos Venuti, noto urbanista e Presidente onorario dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU) dal 1990, pubblica sull’Unità del 1 aprile un articolo sul Nuovo Piano Regolatore dal titolo “I mille centri della nuova Roma”.

L’articolo si apre con un appunto tutto economico: secondo Campos Venuti, il primo dato da evidenziare è la produzione di ricchezza e il primato di Roma come motore del mercato nazionale. A Roma, secondo Campos Venuti, si produrrebbe il 6,7% della ricchezza italiana. Naturalmente, come tante altre discussioni in corso (vedi TAV o Ponte sullo Stretto), il calcolo dei benefici non include il modo in cui viene ripartita la ricchezza prodotta, i modi in cui ricava profitto e i benefici per la comunità.

E’ di questi giorni la notizia che numerosi cantieri edili di Roma sono stati sequestrati non solo per inadempienze tecniche, ma anche per il massiccio uso di lavoratori pagati in nero, sottocosto e in condizioni di sicurezza scarse. Nessuna sorpresa, quindi, che il Pil (prodotto interno lavoro nero) si innalzi a vantaggio di quella dozzina di grandi costruttori attivi sulla scena capitolina.

Inoltre, nel calcolo economico di Venuti, non sembra essere stato incluso il danno agli abitanti per le spese aggiuntive (traffico, tempo, salute, ecc.) portate dalla massiccia cementificazione del Nuovo Piano Regolatore. Sono state infatti approvati mega centri commerciali senza linee di trasporto pubblico (vedi Ikea a Bufalotta), si costruisce in aree agricole lontane, si approvano progetti malgrado le valutazioni pessime da parte di commissioni tecniche.

Insomma, l’importante è che si parli di sviluppo, di qualunque natura sia, senza fare un serio calcolo dei benefici e dei costi per la comunità. A Roma si muore ogni anno di polveri sottili, un’alta percentuale di adolescenti soffre di malattie dovute all’inquinamento, il consumo di psicofarmaci è alto nelle zone di maggior traffico, il consumo di suolo innalza la temperatura atmosferica con conseguenze sulla salute e sulla spesa pubblica.

Sul consenso al Nuovo Piano, Campos Venuti si sbilancia (“tutto sommato le poche discussioni che si sono attardate a misurarsi con le vecchie patologie immobiliari del lontano passato, di fatto si sono occupate di una realtà che ormai non esiste più”): in una sola frase l’urbanista, con un colpo di spugna, cancella i mesi di polemiche sulle scalate degli immobiliaristi d’assalto (che hanno trovato sponda in ogni schieramento politico), i fiumi di inchiostro sulle spirali liberiste di Ricucci & co., le frequenti manifestazioni per il diritto alla casa e contro gli sfratti organizzate anche insieme alle associazioni ambientaliste.

Dov’è il “trionfo” di cui parla Campos Venuti? E’ ancora il caso, secondo lui, di giustificare il malaffare, affermando che più case si costruiscono più i prezzi d’acquisto si abbasseranno? E che dire dell’edilizia veramente pubblica, ipotizzata e mai realizzata?

Nessun partito politico ha difeso il Programma Pluriennale Attuazione, allo scopo di calcolare il fabbisogno di edilizia pubblica: il sindaco di Roma Luigi Pianciani, il 21 aprile 1873, affermò che “in scala assai più larga del fabbricare, si procede al negoziare dei terreni, e la popolazione intanto manca di case”. Sono passati 130 anni da quella affermazione ed essa è ancora così drammaticamente valida.

Non basteranno nuovi termini urbanistici a cambiare l’aspetto delle cose: una nuova espansione di servizi commerciali e palazzine, carente di trasporto e servizi pubblici, non si redime chiamandola “centralità locale” Con le periferie romane si continua il vecchio gioco di prenderne solo il nome, ma di mortificarne la storia: dove sono le vigne di Vigne Nuove? Dove il colle di Colle della Strega? Perché attorno alle ville romane di Faonte (Tufello) e di Fidene si colano centinaia di migliaia di metri cubi di cemento? Perché si costruisce i deroga ai vincoli paesistici? E’ un processo molto simile a quello che è successo negli Stati Uniti: i nativi sono stati pressoché sterminati e solo il loro nome è stato conservato sui caschi dei giocatori di football.

Infatti è ormai fuori discussione che la strategia del sistema policentrico romano basato sulle «nuove centralità», è confermata allo scopo di far nascere veri e propri centri in quelle città, grandi come Pisa o Ferrara, che nel Comune di Roma si sono formate, che già oggi chiamiamo Municipi e che occupano complessivamente un territorio più grande delle province di Milano o di Napoli. Municipi che, come abbiamo visto, non sono più i «quartieri dormitorio» di 25 anni fa, che oggi pulsano invece di produzione e di attività sociali e devono coagularsi intorno a «nuove centralità», indispensabili a definire l’identità autonoma di questi luoghi non più marginali.

In conclusione, è forse importante un pensiero più ampio sui reali esiti di questo presunto sviluppo senza limiti. Se è vero che grandi poteri economici come quelli immobiliari agiscono di concerto con le banche, e se è vero che le banche agiscono di concerto con l’economia indotta dai conflitti bellici e dai governi che appoggiano guerre grandi e piccole, si osserva una filiera corta che dallo stato fisico di cemento passa a quello ancor più pesante del piombo. Ci sono altre filiere da sfruttare. C’è un’altra economia, realmente rispettosa dell’ambiente e della società, che deve farsi spazio, soffocata da centri commerciali senza scrupoli per l’ambiente e per i lavoratori che producono i beni (?) esposti sui loro scaffali (vedi http://www.tmcrew.org/killamulti/cocacola/)

.E’ soprattutto così che si può fare pace.

Dal sito del Comitato Parco delle betulle

Postilla

Già. Io vorrei aggiungere che l’aumento della “ricchezza”, misurato non sulla produzione di merci comunque utili (le scarpe, i componenti elettronici, gli occhiali, il prosciutto ecc.) ma su un’attività edilizia finalizzata al mero accrescimento della rendita immobiliare, mi sembra un segno di degrado e non di sviluppo. Così pensava anche Campos Venuti quando era un maestro.

A maggior ragione ciò è vero quando provoca la perdita di beni comuni,come 15mila ettari di Agro romano.

Critiche a pagamento

Lunedì 20 marzo sulla cronaca del Corriere della Sera un’intera pagina era occupata da una denuncia del “comitato degli acquirenti dell’Acqua acetosa” che denunciava l’arrivo sulle aree destinate a verde privato da convenzione urbanistica prospicienti le loro abitazioni di 75.000 mila metri cubi decisi da un accordo di programma in variante al piano regolatore. Quello stesso piano che da lì a poche ore sarebbe stato approvato definitivamente dal Consiglio comunale[1]. Per difendere i propri diritti nella Roma del terzo millennio si deve pagare una pagina di quotidiano. Nessun partito politico si fa più carico dello stato della città.

E’ però vero che per far sentire la propria voce non tutti hanno pagato. In questi ultimi tempi moltissimi comitati di quartiere e di cittadini si sono impegnati contro questo piano regolatore per un’altra idea di città. Senza avere l’appoggio di partiti, hanno imposto –almeno formalmente, poiché i concreti risultati non sono stati così importanti- il loro punto di vista. Questo tessuto partecipativo, di cui anche Eddyburg ha dato rappresentazione, è la vera novità della vicenda dell’approvazione del piano di Roma. Si è trattato un punto di vista che ha cercato di collocarsi a favore della pianificazione, favorendo quindi il cammino del piano, battendosi nel contempo contro le scelte sbagliate che esso definiva.

Un punto di vista certamente minoritario nella società romana. Le critiche, anche quelle più moderate alla conduzione dell’urbanistica romana non hanno trovato facile udienza in questi anni. Ma i toni elogiativi hanno superato ogni livello di decenza nel commento al voto di controdeduzione del 22 marzo. Argomenti acriticamente elogiativi sono apparsi su tutti i quotidiani[2]. Una serie di numeri inventati – come vedremo - di sana pianta citati da assessori e consiglieri di maggioranza sono stati riportati fedelmente, senza la minima verifica. Un quadro desolante cui dobbiamo per ora rassegnarci.

Solo per ora, però. Gli effetti di uno sviluppo urbano senza regole verrà inevitabilmente alla luce in tempi molto più contenuti di quanto si crede. Si pensi soltanto all’ultima colossale bugia inventata per convincere l’opinione pubblica della bontà del nuovo piano. Affermano i giornali che verranno realizzati “tre campus universitari in periferia”, per riqualificare le periferie romane. In realtà si tratta soltanto di 6.000 posti letto per studenti localizzati in tre aree che con le sedi universitarie hanno poco a che fare [3]. Solo la localizzazione di Tor Vergata coincide con un polo universitario: ma si tratta si una università la cui localizzazione non è stata decisa da questo PRG, ma da quello del 1962, e che è stata realizzata grazie alla totale proprietà pubblica dell’area e alla determinazione del corpo docente di farne elemento centrale del sistema formativo romano. Le altre due localizzazioni sono invece diffuse nell’anonima periferia urbana, altro che campus! Per ora l’effetto mediatico è assicurato, poiché tutta la città è stata portata a credere che verranno costruite tre Cambridge nei posti più desolati della periferia romana [4]. Ma l’effetto durerà il tempo dei titoli dei giornali, lasciando irrisolti i problemi.

Converrà allora richiamare brevemente i principali elementi di critica che i questi ultimi anni sono stati inutilmente portati all’attenzione dell’opinione pubblica e degli amministratori. Erano critiche argomentate e civili: si riferiscono in particolare a un errore di fondo e, nel merito tecnico, a tre omissioni e tre errori di impostazione. Ad esse non è stata fornita risposta né in fase di adozione nel 2003, né in quest’ultima fase di controdeduzione. Il piano votato in via definitiva, infatti, non si scosta dall’impostazione fin qui avuta.

L’errore di fondo

L’errore di fondo è rachiuso in due espressioni equivoche, “compensazione urbanistica” e “diritti edificatori”. Un errore in apparenza nell’attuale stesura del piano, ma di fatto conservato. Si è dovuto prendere atto dell’autorevole parere espresso da Vincenzo Cerulli Irelli e Edoardo Salzano, che per conto di Italia Nostra che hanno dimostrato l’assoluta infondatezza giuridica della tesi secondo la quale aver ottenuto una certa edificabilità da una un PRG attribuisce alla proprietà dei “diritti edificatori”, che vanno in qualche modo “compensati” anche da nuove previsioni urbanistiche[5].

Il nuovo piano di Roma contiene continui rinvii ai due concetti. Se sono stati tolti, grazie alle puntuali denunce, gli articoli che li ne generalizzavano l’impiego tentando di dar loro dignità di principio, essi trovano surrettiziamente collocazione sia in numerosi articoli della normativa tecnica di attuazione, sia nella relazione di piano. Si sono insomma cancellate le stesure più vistosamente compromettenti per lasciarne intatta la centralità nella fase gestionale del piano [6].

Al di là di questa critica di fondo ricordiamo le critiche legate al merito delle scelte pianificatorie, accompagnandole con i commenti apparsi in questi ultimo giorni sui quotidiani, così da cogliere la distanza tra realtà e rappresentazione. Si tratta in grana parte di conseguenze tecniche di quell’errore di fondo.

Tre omissioni

L’area metropolitana. La prima omissione presente nella stesura del nuovo piano riguarda l’assenza di alcun ragionamento sull’area metropolitana. Attualmente non esiste nessun fenomeno urbano che non abbia origine negli squilibri tra Roma e il suo hinterland. La provincia di Roma ha incrementato la popolazione di circa 120.000 abitanti nel decennio 1991-2001. Tutta gente che non si può permettere più di abitare a Roma a causa di una rivalutazione immobiliare senza precedenti[7]. Tutti questi cittadini, in assenza di politiche di decentramento delle attività terziarie, devono raggiungere quotidianamente Roma contribuendo al quotidiano blocco della circolazione stradale.

Di tutto questo, però, non c’è traccia nel piano regolatore. Alle critiche di questi anni si è risposto solo in fase di controdeduzioni inserendo in uno studio allegato[8] la seguente frettolosa formulazione: “L’approfondita analisi delle dinamiche urbane dell’ultimo decennio consente di individuare alcuni elementi di novità rispetto al precedente scenario, e in particolare: …..l’accelerazione dei flussi migratori verso i comuni della corona”. Punto e basta. Ma il piano è rimasto lo stesso. Intanto i giornali hanno titolato che “Roma si apre alla sua area metropolitana”.

Il traffico. Gli stessi quotidiani hanno diffuso la notizia che i chilometri di metropolitana passeranno dagli attuali 39 a129. In realtà non si sa bene come e lo stesso assessore all’urbanistica ha affermato che l’attuazione è del tutto teorica. Ma non è questo il punto. Dobbiamo invece ricordare che si era sempre denunciata la mancanza di studi che dimostrassero la sostenibilità dell’enorme peso insediativo contenuto nel nuovo Prg. Uno dei precedenti assessori alla mobilità e vicesindaco della giunta Rutelli, Walter Tocci, ha affermato recentemente che durante il suo mandato fu realizzata la simulazione del modello di traffico, verificandone la compatibilità con la struttura urbana esistente e prevista. I risultati avevano dimostrato che la città non reggeva l’impatto, evidenziando diffusi blocchi del sistema. Abbiamo pazientemente chiesto che venissero fornite assicurazioni. Solo silenzi. Negli ultimi giorni che hanno preceduto l’approvazione è stato addirittura accettato un emendamento di Forza Italia che prevede un nuovo raccordo anulare ancora più esterno del Gra: il modello automobilistico trionfa. Ma si parla solo di ipotetiche metropolitane. Intanto prepariamoci ad sprofondare nel traffico.

Il centro storico. Nell’estate dello scorso anno insieme al Comitato per la Bellezza, l’associazione Polis ha organizzato un riuscito convegno sullo stato del centro storico di Roma. Gli studi eseguiti per l’occasione hanno permesso di svelare che i residenti all’interno delle Mura aureliane sono scesi sotto al soglia dei 100.000 abitanti. Erano oltre 350.000 nel 1951. Sempre nel centro storico le strutture ricettive raggiungono oltre 50.000 posti letto e proliferano i residence. Roma, insomma, è entrata nel grande circuito del turismo di massa internazionale che rischia di diventare un teatro turistico svuotato della complessità delle funzioni urbane, come Venezia. Ma di questa delicatissima problematica non c’è traccia nelle relazioni di piano. C’è invece una normativa tecnica di attuazione molto permissiva che agevola gli interventi singoli. E ci sono ulteriori cedimenti accolti in fase di controdeduzione, come l’articolo che permette la possibilità di sostituire residenza con attività terziarie in tutto il tessuto medievale (un buon terzo dell’intero centro storico) fino al primo piano degli edifici! I giornali titolano sul fatto che il centro antico è rigorosamente salvaguardato. Inutile ribadire che della più straordinaria idea di assetto del centro storico mai prodotta, e cioè del progetto Fori imperiali, non c’è la minima traccia. Abbandonata nel mare di retorica.

Tre errori di impostazione

Il consumo di suolo. E’ sul consumo di suolo che sono state avanzate le critiche più decise. Il gruppo di validissimi giovani urbanisti che sotto la guida di Vezio De Lucia hanno misurato la dimensione dell’urbanizzato e quella delle previsioni del nuovo piano (Alessandro Abaterusso, Georg Joseph Frisch e Andrea Giura Longo) avevano fornito i seguenti numeri. Superficie urbanizzata al 2002: 45.000 ettari; ulteriore consumo di suolo previsto dal nuovo Prg 15.000 ettari. In totale 60.000 ettari.

Anche questi dati sono stati presentati in convegni pubblici, ma le risposte sono state di aperto fastidio e di smentita. Oggi sono stati immessi in rete i dati misurati dall’Assessorato ai lavori pubblici: affermano che al 2003 la superficie urbanizzata è esattamente pari a 45.000 ettari. Nella conferenza stampa che festeggiava il voto finale del piano, Sindaco e assessori hanno continuato ad affermare che “su due terzi del territorio romano, 88 mila ettari sui complessivi 129 mila non si potrà costruire alcun edificio”. Una menzogna, smentita dagli stessi dati comunali: al massimo restano 69.000 ettari di agro romano, 19.000 in meno di quanto si annuncia. Ma è quanto succede a Roma.

Il dimensionamento della residenza. La seconda questione – connessa con la precedente - era relativa al dimensionamento del piano. Le previsioni edificatorie sono queste: un’incremento pari a 35 milioni di metri cubi residenziali e 30 milioni di metri cubi non residenziali. Nella relazione alle controdeduzioni è stato finalmente reso pubblico lo studio (Cresme) da cui è stato desunto il dimensionamento. Questo studio contiene un vistoso errore poiché conteggia due volte il fabbisogno dovuto al sovraffollamento. Correggendo l’errore avrebbero dovuto esserci “soltanto” 25 milioni di metri cubi residenziali. La questione è stata posta nelle sedi opportune. Nessuna risposta.

I quotidiani parlano di 100.000 nuovi alloggi realizzati con il nuovo Prg. In realtà se si tiene conto del taglio dimensionale preferito attualmente dagli operatori immobiliari, gli alloggi saranno almeno 150.000. Nessuno ha però sottolineato che viviamo in una città che ha perso nei dieci anni del precedente censimento oltre 60.000 famiglie. I prezzi delle abitazioni che si realizzeranno saranno inferiori a quelli i cui livelli hanno spinto migliaia di famiglia a spostarsi verso i comuni vicini? Nulla ne testimonia neppure l’intenzione. Ma allora proporre un così elevato incremento dell’offerta di alloggi è soltanto un grande regalo alla rendita immobiliare.

Il dimensionamento delle attività. Per quanto riguarda la quota di nuove cubature non residenziali, è appena il caso di ricordare che la Giunta municipale di Roma sta approvando una deliberazione che consente ai numerosi edifici destinati ad uffici vuoti da anni, in particolare nelle periferie, di essere trasformati in abitazioni. Come mai, dunque, se nelle periferie ci sono consistenti quantità di edifici destinati a uffici non utilizzati, si consente di costruire ulteriori 30 milioni di metri cubi per attività terziarie? Una risposta è rintracciabile nella grande espansione del comparto commerciale. Negli ultimi anni sono approdati a Roma i più grandi gruppi del commercio internazionale, da Panorama a Wal-Mart: i nuovi trenta milioni di metri cubi serviranno dunque a realizzare nuove superfici commerciali a scapito della ricerca di attività qualitativamente innovative.

E proprio le attività terziarie di qualità, si afferma, formano il pilastro della riqualificazione delle periferie articolata intorno a 18 nuove centralità che, in buona sostanza, sono l’idea di città del nuovo piano. I giornali hanno addirittura affermato che “il centro si sposta in periferia attraverso la realizzazione di attività pregiate”. Anche in questo caso facciamo parlare i documenti. Nella relazione di piano si afferma che “non è più attuale la questione dello spostamento delle sedi dell’amministrazione centrale dello Stato”. Un breve rigo che cancella trent’anni di dibattito culturale sui destini del centro storico, oggi intasato dalle attività direzionali e dalla conseguente morsa del traffico. Ma cancella anche ogni velleità di riqualificazione delle periferie. Con quali funzioni si qualificheranno infatti i tessuti urbani se non con lo spostamento di funzioni pubbliche?

È la stessa amministrazione comunale, del resto, a denunciare apertamente il fallimento dell’urbanistica privatistica perseguita a Roma in questi anni. A pagina 16 della relazione approvata alcune sere fa si legge: “Dall’adozione del Prg, sono stati presentati gli schemi di assetto preliminare per diverse “centralità da pianificare”. L’istruttoria predisposta dagli uffici comunali ha evidenziato da un lato le difficoltà da parte dei progetti presentati a garantire la subordinazione alla preventiva e contestuale realizzazione delle infrastrutture ferroviarie; mentre dall’altro lato, ha evidenziato una tendenza ad impoverire il contenuto di servizi ed attrezzature delle centralità a scapito delle funzioni più solvibili sul mercato immobiliare (residenze e attrezzature commerciali)”.

Si confessa insomma che le centralità definite nel Prg i privati intendono costruire residenze e supermercati infischiandosene delle altre funzioni “non solvibili”. Gli apprendisti stregoni si accorgono che il tanto mitizzato mercato fa i suoi interessi. Non se ne accorge la stampa che grida al miracolo del risanamento delle periferie.

Il piano della rendita immobiliare è stato approvato, in un assordante coro di elogi giunti anche da versanti inaspettati. I prossimi anni ci daranno la misura della distanza tra i numerosi effetti annuncio e la realtà dell’assetto urbano.

[1] E’ l’ultimo scandalo in ordine di tempo dell’urbanistica romana. Riguarda il proprietario del quotidiano Il Tempo, beneficiato da un enorme valorizzazione immobiliare fuori di ogni regola e legge. Di questo ennesimo caso, immediatamente censurato da tutti i quotidiani daremo conto in un prossimo intervento su Eddyburg.

[2] E’ sempre opportuno ricordare che i due quotidiano locali più diffusi a Roma, Il Messaggero e Il Tempo sono di proprietà di due imprenditori del mondo edilizio (Caltagirone e Bonifaci).

[3] I seimila posti letto saranno realizzati su finanziamento dell’Inail.

[4] Uno dei tre gruppi di case per studenti è localizzato all’interno dell’università di Tor Vergata che è realmente un grande campus universitario. Ma lo è in base a strumenti urbanistici pubblici,. Non è certo il frutto del nuovo piano regolatore.

[5] Il parere dei due autorevoli esperti affermava che i cosiddetti diritti edificatori non esistono poiché il piano urbanistico può cancellare in qualsiasi momento le previsioni edificatorie contenute in precedenti strumenti urbanistici. È sufficiente motivare adeguatamente le ragioni della modifica delle previsioni. L’istituto della compensazione urbanistica, dal canto suo, operando solo su iniziativa e su aree private ha portato nel caso romano ad ingiustificabili aumenti di cubature che in alcuni casi hanno superato il doppio del valore inizialmente previsto.

[6] E’ il caso di ricordare che nello scorso mese di dicembre il nuovo assessore all’urbanistica della Regione Lazio ha proposto una legge urbanistica che definiva “principio” la compensazione urbanistica! La stessa opposizione all’interno della maggioranza regionale ha consigliato l’abbandono della proposta indecente.

[7]Ance e Nomisma hanno stimato un aumento medio dei valori immobiliari su scala nazionale pari al 69% nel periodo 1998-2005. A Roma la stima raggiunge il valore del 100% di aumento.

[8] “Scenari della domanda residenziale e non residenziale a Roma” a cura del Cresme. Roma, novembre 2005.

L’Unità

“Ecco il Prg che tutela l’ambiente”

intervista di Jolanda Bufalini

Nella sala Giulio Cesare si votano gli emendamenti di minoranza. Una campanella come quella delle scuole suona a lungo per richiamare l’attenzione dei consiglieri. È ormai rilassato Roberto Morassut. Si è da poco conclusa la riunione di giunta. Già ieri sera il testo è andato in votazione in Consiglio. Esprimono soddisfazione Legambiente e Prc. An voterà contro ma - dice Morassut - è normale che non ci sia una scelta ostruzionistica «anche perché le richieste che abbiamo accolto rientrano nella filosofia del piano».

E' possibile tenere insieme i tagli delle cubature e le “centralità” delle periferie?

Il ridimensionamento delle cubature riguarda tutta l’area del Prg mentre nelle centralità, anche se vi è una riduzione, vi è una massa critica adeguata per servizi di qualità, infrastrutture, oneri concessori anche a carico dei privati.

Facciamo qualche numero?

Ad Acilia-Madonnetta la riduzione è di 300mila mc, ad Anagnina-Romanina il taglio è di 200mila.Ripartiti a circa il 50% fra pubblico e privato (il taglio della quota pubblica ad Acilia è del 55,23%, alla Romanina del 57,95%, ndr). A Torre Spaccata dei 600mila metri cubi tagliati, 500mila sono di privati. Miriamo ad allargare la base produttiva della città in un patto chiaro col mondo dell’economia: l’obiettivo strategico di questo piano è spostare in periferia grandi funzioni di pregio di servizi pubblici e privati. È necessario garantire la contemporaneità di trasformazioni urbane e realizzazione delle infrastrutture e, attraverso i concorsi, la qualità urbanistico-architettonica.

A quali interventi pensa?

L’Amministrazione, insieme ad altre amministrazioni pubbliche, sta conducendo l’operazione dei tre campus universitari. Nei prossimi giorni approveremo la delibera che assegna le aree Sdo di Pietralata alla Sapienza (dove sulla base di un’iniziale lavoro di Franco Purini si farà un concorso), a Tor Vergata siamo già partiti con la città dello sport su progetto di Calatrava (il 22 l’architetto presenterà i primi bozzetti). Ad Acilia, dove l’area è privata(Pirelli), stiamo lavorando alla realizzazione del campus di Roma tre con Gregotti.

Torre Spaccata ha suscitato molte discussioni

A ragione, perché è un’area fra due grandi quartieri popolari, Torre Spaccata-via dei Romanisti e Subaugusta. In mezzo a questi realtà molto intensiva sorgerà la centralità che è una eredità del vecchio Sdo. Noi abbiamo ridotto e vincolato le funzioni che dovranno secondo me dialogare con i due grandi poli vicini: l’università di Tor Vergata e Cinecittà, con un museo dell’audiovisivo e quello del cinema. Lì si potrebbe insediare il Dams di Tor Vergata ed anche residenze per studenti. L’opportunità, con la realizzazione della centralità, è ottenere dai proprietari dell’area (la società Quadrante) circa metà del parco di Centocelle, un parco che - per quel che riguarda l’area già espropriata - verrà inaugurato fra aprile e maggio.

Passiamo alla questione dell’edilizia residenziale pubblica?

Il Prg ha individuato le aree, il Comune poi deciderà quanti dei 7000 alloggi previsti saranno edilizia sovvenzionata dal Comune e dall’Ater e quanti saranno invece gli alloggi delle case in cooperativa.

In che proporzioni?

Siamo in fase di discussione, si parte da un minimo del 30 per cento per l’edilizia sovvenzionata, stabilito dalla delibera sulla casa votata l’estate scorsa.

Quali sono le aree ?

I piani di zona futuri sono individutai su aree edificabili previste dal Prg, per ridurre l’impatto su aree agricole e di verde pubblico.

Sembra una grande novità, ma il comune pagherà a prezzi di mercato?

Pagheremo a prezzi di mercato. Anche se è chiaro che ormai la politica della casa non si può fare con il solo strumento invecchiato della 167. Con l’assessore al Patrimonio Minelli abbiamo concordato in 15 aree cambi di destinazione d’uso per ottenere alloggi di edilizia pubblica in cambio delle varianti ottenute dai proprietari delle aree. Un altro strumento è il ripristino del buono casa da parte del governo nazionale. C’è la vendita del patrimonio immobiliare del comune e c’è un quinto strumento previsto dal Prg. Bisogna unire la politica della casa e la riqualificazione della periferia: con gli interventi di ristrutturazione urbanistica si portano servizi, si fanno operazioni di demolizione e ricostruzione, si valorizzano aree oggi dismesse e degradate. È chiaro che così il valore immobiliare delle aree cresce e qui interviene un patto fra costruttori e amministratori. Una parte delle aree resta ai proprietari l’altra viene ceduta. Noi finora abbiamo usato questo strumento per le compensazioni che ci hanno consentito di realizzare i parchi (nel Prg sono previsti i tre nuovi parchi agricoli comunali di Casal del Marmo, di Arrone Galeria e di Rocca Cencia) ma nell’arco di due anni l’amministrazione potrà “spendere” questa riserva di edificabilità per l’edilizia pubblica.

Veniamo alle richieste di An e al declassamento di Corviale dalla città storica.

Questi complessi popolari unitari che Alemanno chiama «collettivisti» restano nella carta delle qualità e nella città consolidata.

Ma la carta delle qualità quanto tutela, le famose torri di Ligini sono in quella Carta...

È uno strumento importante perché l’Amministrazione se deroga e demolisce deve avere delle motivazioni fortissime. La carta delle qualità è uno strumento che potenzialmente può portare a un vincolo da parte delle soprintendenze. E non riguarda solo Corviale ma anche le borgate degli anni Trenta, Primavalle, Quarticciolo , Trullo, Acilia. D’altra parte gli incentivi volti alle operazioni di demolizione-ricostruzione ritengo che vadano indirizzati al vero «brutto» della città, l’edilizia privata a carattere intensivo realizzata fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta nei grandi quartieri popolari come Marconi, Tiburtino, Tuscolano, Prenestino.

eddyburg.it

Non c’è più alibi

di Paolo Berdini

L’approvazione del nuovo piano regolatore di Roma toglie finalmente alibi alla grande operazione mediatica cui siamo da qualche anno sottoposti. E ci sarà spazio per ragionamenti più distaccati. Anche nell’intervista dell’assessore all’Urbanistica all’Unità di oggi ricorre sempre l’immagine di una città che migliorerà il suo assetto grazie al nuovo piano. Rispetto molto questo atteggiamento ottimistico. Faccio solo notare che esso è quanto meno fuori luogo per un motivo e per un’esplicita ammissione.

Il motivo che non consente ottimismi di facciata sta nel fatto che l’approvazione di questa sera è solo un suggello formale. In realtà dei 65 milioni di metri cubi previsti (una quantità mostruosa e di cui non si mai dimostrata la necessità) almeno 50 milioni (e cioè il 75%) è già stato realizzato o è in corso di realizzazione. Nessun osservatore della realtà romana sostiene che la città sia migliorata da quando è stata sottoposta a questa sconsiderata cura di cemento, tutti dicono che la città è oggettivamente peggiorata. Come si fa allora ad evocare un futuro radioso quando la realtà, proprio in virtù dell’attuazione del piano, afferma l’esatto contrario?

Nell’intervista si afferma poi che nelle “centralità” verranno trasferite importanti funzioni dello Stato ed in questo modo si riqualificherà la periferia. Attendiamo fiduciosi e ci limitiamo a riportare una parte della relazione alle controdeduzioni dell’assessore Morassut dove implicitamente si denuncia il fallimento dell’urbanistica romana per aver fondato tutte le speranze per una città migliore sulle magnifiche sorti e progressive del mercato.

A pagina 16 della relazione che verrà approvata questa sera si legge infatti: “Dall’adozione del Prg, sono stati presentati gli schemi di assetto preliminare per diverse “centralità da pianificare”. L’istruttoria predisposta dagli uffici comunali ha evidenziato da un lato le difficoltà da parte dei progetti presentati a garantire la subordinazione alla preventiva e contestuale realizzazione delle infrastrutture ferroviarie; mentre dall’altro lato, ha evidenziato una tendenza ad impoverire il contenuto di servizi ed attrezzature delle centralità a scapito delle funzioni più solvibili sul mercato immobiliare (residenze e attrezzature commerciali)”.

Si confessa insomma che le centralità definite nel Prg non sono collegate dalla rete del ferro e che i privati intendono costruire residenze e supermercati infischiandosene delle altre funzioni “non solvibili”. Gli apprendisti stregoni si accorgono che il tanto mitizzato mercato fa i suoi interessi. Se ne accorgono, ma continuano a parlare di “allargare la base produttiva della città in un patto chiaro col mondo dell’economia”: dove la base produttiva è quella del mattone, e il patto è con i Ricucci.

Alcuni particolari significativi. Si sottolinea che si porterà qualità attraverso la “realizzazione di campus universitari”: ma non si tratta di campus, sono soltanto alloggi per studenti. Si afferma che la legge 167è uno strumento invecchiato” e che le aree perl’edilizia pubblica sarà pagata “a prezzi di mercato”, e concordando in 15 aree cambi di destinazione d’uso per ottenere alloggi di edilizia pubblica in cambio delle varianti ottenute dai proprietari delle aree”!.

Una postilla. Alleanza nazionale ha ritirato centinaia di emendamenti in cambio dell’accettazione di qualche localizzazione di edilizia residenziale pubblica e di un gravissimo cedimento culturale cui allude la stessa intervista (ma a cui non viene fornita convincente risposta). E’ stata infatti accettata l’ipotesi che alcuni interventi di edilizia residenziale pubblica degli anni ’80 (in particolare Corviale, ma si chiede la testa anche del Casilino di Quaroni) siano da demolire. La risposta di alla domanda della giornalista de l’Unità si riferisce infatti alla “carta delle qualità”, che è un mero elaborato d’analisi e che non comporta alcun vincolo. Significa dare una risposta possibilista a un’offensiva “culturale” dei neofascisti, finalizzata a mettere sul banco degli accusati lo stesso concetto di modernità. Si può certo discutere la qualità dell’esito di alcuni di questo interventi. Ma se si dimentica il contesto in cui questi interventi sono stati ideati e realizzati e si accetta che debbano essere demoliti, si compie un’operazione di revisionismo storico. Ed è grave che un’amministrazione progressista abbia accettato di mettere in discussione i valori e le esperienze che hanno segnato l’intervento residenziale pubblico nel momento più alto del dopoguerra.

Caro Eddyburg,

a Roma si sta approvando il nuovo Piano Regolatore che prevede 70 milioni di nuovi metri cubi di cemento. I giornali sono un plebiscito mediatico a favore di Veltroni, che ha il consenso dei poteri forti e anche della destra. Delle proteste dei cittadini, che vogliono una città più umana e impedire che essa si saldi alla provincia con un'unica colata di cemento, pochissimi ne danno notizia.

Ti chiediamo di aiutarci e se puoi, pubblicare questo appello che abbiamo inviato a Veltroni e soci.

Con stima,

Qui sotto la lettera aperta e le firme dei Comitati di quartiere. Una documentazione sugli errori gravi del PRG di Roma è nella cartella dedicata a Città oggi: Roma , in particolare negli scritti del 2004 e dei primi mesi del 2005

LETTERA APERTA AL SINDACO

E A TUTTE LE ISTITUZIONI CAPITOLINE

Egregi,

come comitati ed associazioni esprimiamo la voce della cittadinanza dell'estrema periferia Sud-Orientale di Roma.

I nostri quartieri, con l'abusivismo prima e i generosi permessi di costruire degli uffici comunali dopo, sono rimasti senza più aree libere e pubbliche, protesi a "saldarsi" coi quartieri limitrofi e la provincia. Le ovvie conseguenze sono il collasso viario, la carenza atavica di servizi a fronte di un'utenza ingigantita, i livelli illegali di smog e decibel (Legambiente - marzo 2005; ARPA - dicembre 2005), per cui il Comune non usa provvedimenti, come per la città interna al G.R.A.. Inoltre la concentrazione in zona Pantano-Laghetto e Rocca Cencia di poli industriali-commerciali, del deposito AMA, e di cantieri edili intensifica il traffico pesante sulla Casilina e sulle vie limitrofe senza marciapiedi e sicurezza alcuna per i pedoni.

Da fonti ufficiali, nel 2000 la zona Finocchio-Borghesiana contava 38.500 residenti. Il censimento del 2001 registrò per il medesimo quadrante l'incremento demografico (+6%) ed edilizio (+20%) più alto della città, rispetto al '91. Considerato che dal 2000 l'edilizia romana gode di un'espansione senza precedenti (fatturati quattro volte la media del pil nazionale: dati ANCE; 90.000 abitazioni costruite: dati CRESME) e che l'VIII Municipio è tra i fiori all'occhiello di questo settore, possiamo realisticamente supporre che la popolazione di Finocchio-Borghesiana sia oggi (2006) alle soglie dei 50.000 abitanti (comunque transitori). Conosciamo il DM 1444/68 che obbliga i COMUNI a garantire un minimo di 9 mq di verde pubblico attrezzato per abitante. In base a ciò nella nostra zona si dovrebbe disporre di almeno 45 ettari di verde pubblico.

Il nuovo Piano Regolatore secondo i suoi redattori doterebbe ogni municipio di oltre 13 mq/ab di verde e noi, sprovvisti di neppure un ettaro di verde, attendevamo con ansia i benefici annunciati. Ma esso, in barba a quanto pubblicato, nell'unica area del nostro quadrante salvata dalla speculazione, attorno via di Rocca Cencia, decide di edificare un NUOVO QUARTIERE di oltre 2000 persone ed un enorme POLO INDUSTRIALE-ARTIGIANALE; senza contare l'altro MOSTRO previsto nelle immediate vicinanze: il deposito Graniti della ferrovia, completamente progettato in superficie.

Vogliamo che ci dimostriate come si possono inserire simili opere in un quadrante così compromesso, senza peggiorarne oltremodo il collasso e il già illegale inquinamento!

Convinti che la volontà di un'amministrazione sia quella di migliorare, giammai peggiorare la vita dei cittadini, chiediamo la cancellazione delle citate previsioni, e l'istituzione in loro vece del PARCO DI ROCCA CENCIA, di cui rappresentiamo il Comitato Promotore.

Il parco oltre a ridare ossigeno ai cittadini, salverebbe dall'assedio e da panorami inquietanti le limitrofe bellezze superstiti di Pantano Borghese e Gabii.

La nostra richiesta è uleriormente legittimata dalla presenza nell'area di reperti di massima importanza come l'Acquedotto Alessandrino, la via Cavona, ville e villaggi d'epoca romana ecc. (prot. Soprintendenza N° 33757 del 28/12/2005; libro "Collatia" di Lorenzo Quilici), che andrebbero distrutti. Altresì, l'Acea Ato 2 ci ha dato conferma della presenza di vincoli di falda idrica "dell'Acqua Vergine".

Siamo certi che prevarrà il buonsenso e l'ascolto delle esigenze dei cittadini, piuttosto che l'interesse di pochi, che tanti spazi per la socialità e il verde hanno già sottratto. Ci auguriamo che possiate favorire in Consiglio Comunale il passaggio di un maxi-emendamento teso a migliorare dal punto di vista ambientale e qualitativo il nuovo Prg, e che contenga tra i suoi punti fondamentali l'ISTITUZIONE DEL PARCO DI ROCCA CENCIA, contestualmente alla CANCELLAZIONE DEL PIANO DI ZONA C-25 BORGHESIANA PANTANO e del PIANO INTEGRATO con destinazione ARTIGIANALE.

In caso contrario saremo costretti ad agire con quanto la legge ci mette a disposizione per tutelare i nostri diritti di cittadini.

Cordiali saluti.

Comitato Promotore per il Parco di Rocca Cencia

Via Casilina 1856, 00132 Roma;

fax: 0620763117; web: http://casilina18.free.fr A questo appello aderiscono tutte le seguenti Associazioni e Comitati che fanno capo al Coordinamento Romambiente

Ananke

Associazione degli abitanti del Villaggio Olimpico ADAVO

Associazione Ex Lavanderia

Associazione Fleming-Vigna Clara per la Mobilità

Associazione Hermes 2000

Associazione Il Parco (Spinaceto)

Associazione Ottavo Colle

ATAVIFE (Quartiere Parioli)

Balduina per il Pineto

Comitato "Antonio Cederna" per Tormarancia

Comitato Cittadino per il XX Municipio

Comitato Cittadino Pietralata-Tiburtino

Comitato Colle della Strega

Comitato della Collina di Pietralata -Area Pertini

Comitato di Quartiere Casilina 18

Comitato di Quartiere Collina Lanciani

Comitato di Quartiere di Torrespaccata

Comitato di Quartiere Ottavia

Comitato di Quartiere per la Difesa del Parco di Feronia

Comitato di Quartiere Pigneto - Prenestino

Comitato Parco della Caffarella

Comitato Parco delle Betulle

Comitato Parco delle Sabine

Comitato Promotore Parco di Veio

Comitato Quartiere Valli Conca d'Oro

Comitato Vitinia

Comunità Territoriale X Municipio

Coordinamento Comitati Quinto Municipio

Nuovo Comitato Quartiere Magliana

Occupiamoci di…..

Parco Aguzzano

Parco Monte Mario Insugherata

Radici

Nel panorama nazionale, l’urbanistica è pressoché scomparsa e molti comuni si contendono il primato nell'uso sistematico degli strumenti della deroga che permettono di approvare senza alcuna coerenza complessiva progetti, i quali, dal punto di vista economico, rappresentano un grande premio alla rendita immobiliare. Il caso che ci accingiamo a descrivere riguarda Roma: è la vicenda dell'autoporto sud della cittàLa narrazione deve necessariamente iniziare dal piano regolatore di Roma approvato nel 1965, che ha rappresentato il disegno dell’assetto futuro della città per quarant’anni, fino al nuovo piano regolatore adottato dal comune di Roma nel marzo 2003. Quel piano prevedeva che a sud di Roma, lungo l’autostrada che collega con l’aeroporto di Fiumicino -realizzato alla metà degli anno ’50- doveva sorgere l’autoporto sud, e cioè uno dei centri di scambio intermodale delle merci in arrivo nella capitale. Il luogo prescelto era localizzato a Ponte Galeria, piccola località alla confluenza con l’autostrada per Civitavecchia-Livorno: l’estensione dell’area prescelta era di circa 150 ettari.

Trent’anni dopo, durante tangentopoli su quei terreni viene sperimentata la nuova urbanistica caratterizzata dall’assoluta arbitrarietà della destinazione d’uso rispetto a quella prevista dagli strumenti urbanistici. E’ la proprietà immobiliare a decidere la destinazione più consona alle proprie convenienze: l’amministrazione pubblica deve soltanto mettere il timbro. L’area è di una società nota e qualificata, la Lamaro, che forzando le normative realizza un edificio per uffici e un grande numero di capannoni commerciali. Nulla a che vedere, dunque, con il previsto autoporto.

Siamo nel 1991. I manufatti vengono sequestrati dalla magistratura e si apre un processo che non avrà alcun esito. Nel 1995, passata la speranza rappresentata da Mani pulite, la giunta comunale di Roma, sindaco Francesco Rutelli, permette l’apertura di un polo commerciale, denominato Commercity. Il valore di quei terreni subisce una seconda –enorme- rivalutazione economica. Non solo. Il quadrante urbano in cui inizia ad operare la nuova struttura è tra i più accessibili e pregiati di Roma: è inevitabile che a quella lacerazione ne seguano altre.

Nel 2001, sindaco Francesco Rutelli, iniziano a trapelare sulla stampa le prime indiscrezioni sulla volontà del comune di Roma di localizzare sui terreni residui di Commercity e su altri a limitrofi, la nuova Fiera di Roma. Ma l’annuncio della decisione non avviene attraverso le procedure urbanistiche, anche se proprio in quel periodo la nuova variante di piano è sostanzialmente definita. L’annuncio della decisione di localizzare su altri 223 ettari di territorio la struttura fieristica romana viene comunicato agli inizi di marzo del 2003, e cioè due settimane prima del voto di adozione del nuovo piano da parte del Consiglio comunale di Roma, alla Fiera immobiliare Mipim che ogni anno si svolge a Cannes, un incontro del grande capitale internazionale alla ricerca di affari. E’ con l’amministrazione guidata da Walter Veltroni che il comune di Roma inizia ad essere sistematicamente presente alla “fiera della speculazione immobiliare”. Una decisione coerente con il pilastro teorico del nuovo piano che nelle relazioni di accompagnamento viene apertamente definito come il “piano delle offerte”.

La variante circoscritta alle aree della nuova Fiera viene anticipata rispetto all’iter amministrativo del nuovo Prg e perfezionata attraverso lo strumento dell’accordo di programma: da notare che insieme alla struttura fieristica verrà realizzato un nuovo quartiere residenziale di circa milione di metri cubi. La sottoscrizione dell’accordo di programma da parte della Regione Lazio avviene agli inizi del 2004. Pochi mesi dopo iniziano i lavori di costruzione.

Un altro gigantesco regalo alla rendita immobiliare

Ma fin qui, come dicevamo, siamo nella prassi canonica dell’urbanistica contrattata: i terreni cambiano destinazione d’uso in relazione alla volontà della proprietà fondiaria. Ma c’è un fatto nuovo e inquietante, e cioè il ruolo della Regione Lazio di Francesco Storace: nel febbraio 2002 -in una data in cui non è ancora concluso l’iter della variante che localizza la Fiera nei terreni dell’Autorporto- l’amministrazione regionale stipula con il comune di Fiumicino (anch’esso guidato da una giunta di centro destra) un accordo di programma che individua in 160 ettari di terreno agricolo, localizzati a meno di un chilometro dall’originaria previsione del piano del 1965, un nuovo autoporto.

Riassumiamo. I vecchi terreni dell’autoporto erano stati trasformati negli anni ‘90 in un centro per il commercio. Sulla base di questa preesistenza, nel 2004 viene variato il piano urbanistico per prevedere la nuova Fiera di Roma. Il comune di Fiumicino due anni prima, con l’esplicito consenso dell’ente Regione che dovrebbe teoricamente vigilare sul rigoroso rispetto delle attuazioni previste dai piani regolatori comunali, trasforma 160 ettari di campagna in un autoporto nuovo di zecca.

Un giro di rivalutazione economica di qualche milione di euro a vantaggio della rendita immobiliare. Un rapido calcolo. La valutazione di un terreno agricolo in quel quadrante non supera 20 euro al metro quadrato: il terreno del nuovo autoporto valeva dunque inizialmente 32 milioni di euro. Il cambiamento di destinazione d’uso porta il valore unitario a almeno 100 euro al metro quadrato: il terreno viene dunque portato ad un valore di circa 160 milioni di euro. Ecco il vero volto dell’urbanistica contrattata.

POST SCRIPTUM

Dopo che l'articolo era andato in stampa sono venuto in possesso del parere di Aeroporti di Roma sulla proposta di realizzazione del nuovo interporto.Le aree del nuovo autoporto, infatti, sono confinanti con l'aeroporto Leonardo da Vinci. Il parere era negativo poiché -si affermava - le aree in questione servivano per la programmata realizzazione dellla quarta pista dell'aeroporto internazionale. Nonostante questo parere, Regione Lazio e comune di Fiumicino si sono affrettate a chiudere l'accordo di programma! In questi giorni a Roma si parla insistentemente della necessità del potenziamento degli aeroporti di Ciampino e dell'Urbe. Il primo verrebbe utilizzato da compagnie low cost; il secondo da voli esclusivi. Questi due aeroporti si trovano in ambiti urbani densamente abitati e, specie a Ciampino, ci sono continue proteste per il rumore da parte dei residenti. Quando le loro condizioni di vita peggioreranno, potranno almeno ringraziare la banda degli speculatori e i pifferai della "nuova" urbanistica.

Il declino dell'Italia non è inevitabile. E' vero: i più recenti dati sulla crescita economica nazionale confermano una linea di tendenza modesta. In assoluto, e anche se si fa un raffronto col resto d'Europa. Ma la strada imboccata non è inesorabilmente in discesa. Le possibilità di andare avanti, di riprendere a crescere, il nostro Paese le ha tutte. E ci sono realtà che in questi anni, nonostante uno scenario nazionale «stanco», lo hanno dimostrato.

Lo dico senza alcuna presunzione, ma con il giusto orgoglio: Roma è una parte importante di queste realtà, la principale. E' la più grande area metropolitana italiana e da sola, secondo le stime del Censis, produce il 6,5% del pil. Nel 2004 è cresciuta del 4,1% contro l'1,3% nazionale. E anche i segnali congiunturali più recenti continuano a essere positivi: l'ultima indagine dell'Isae sottolinea quanto stia crescendo il clima di fiducia degli imprenditori, passato nel terzo trimestre del 2005 dall'89,4 al 98,1. In quattro anni poi, e questo lo dice l'Istat, l'occupazione è cresciuta di 145 mila unità, il 10,3% in più, contro il 3,7% a livello nazionale. Il tasso di occupazione è cresciuto di 5,7 punti, mentre in Italia di 1,4 punti: è del 48,3%, contro una media nazionale del 45,4%. Di questi risultati, peraltro, protagoniste decisive sono le donne: tra il 2001 e il 2004 la crescita dell'occupazione è aumentata, per quanto le riguarda, del 17%, contro una media del 5,3%. E l'imprenditoria femminile è passata, nello stesso periodo, da 144.742 a 154.306 unità, vale a dire il 6,6% in più.

Questi sono i dati. A spiegarli c'è un lavoro, c'è una visione della città e del suo futuro, ci sono alcuni fattori che vorrei provare a riassumere. Parto da un modo di procedere che a Roma in questi anni è stato una costante. Tutti i risultati che abbiamo raggiunto sono la conseguenza di una comune assunzione di responsabilità, di una capacità di programmazione e di concertazione. Pubblico e privato insieme, con l'Amministrazione che definisce un'agenda, che dà garanzie e certezze negli obiettivi e nei tempi, e con le energie di cui sono ricche l'economia e la società romana: imprenditori, istituzioni, associazioni, centri di ricerca e formazione, rappresentanti dei lavoratori. E' il metodo che abbiamo seguito insieme con un principio: non c'è vero sviluppo senza qualità sociale, una città, una comunità, non cresce davvero se di essa cresce solo una parte o un solo settore.

E poi, certo, c'è stata la capacità di compiere scelte chiare, precise. Roma ha avviato un importante ciclo di investimenti in infrastrutture su cui ha convogliato risorse finanziarie per 6 miliardi di euro. Risorse non solo pubbliche, perché anche i privati sono stati coinvolti, ad esempio, in vasti programmi di riqualificazione urbana, dedicati in particolare alle periferie della città, che hanno visto una forte partecipazione dei cittadini stessi. Con lo stesso metodo si sono realizzate opere come il Centro agroalimentare o l'Auditorium, il Passante a nord-ovest o la nuova Fiera di Roma, che sarà inaugurata ad aprile, così come i passi che stiamo compiendo per l'Alta velocità e per la nuova rete di metropolitane.

Secondo fattore è l'investimento nell'inclusione sociale. Se in cinque anni abbiamo aumentato del 63% i posti negli asili nido, se migliaia di anziani sono seguiti ogni giorno grazie alla teleassistenza e se le famiglie che hanno al loro interno un ragazzo disabile sanno di poter contare su una fondazione chiamata «Dopo di noi», è perché ad animarci è l'idea di un nuovo welfare

locale, assai lontano dal vecchio assistenzialismo. Non più uno Stato che elargisce dall'alto, ma una welfare community, dove le risorse della società civile, di tanti volontari e associazioni, delle stesse famiglie, disegnano una rete in cui la cura dei bisogni va di pari passo con nuove tutele a favore dell'ingresso nel mondo del lavoro e della stabilizzazione degli impieghi. Terzo fattore: Roma e il suo sistema produttivo hanno risposto con la prontezza e la fiducia ai momenti più difficili di questi anni, moltiplicando gli sforzi di promozione, non abbassando la guardia sulla difesa della principale attrattività di Roma, quella legata alla cultura, al turismo. Se nel 2005 siamo arrivati al massimo storico di 16 milioni e mezzo di presenze turistiche, è anche perché oggi a Roma non si viene più soltanto per ammirare le sue bellezze artistiche e archeologiche, ma anche per i grandi eventi, per i concerti, per le mostre, per il ritorno della grande architettura contemporanea: la nostra città sta assumendo un volto nuovo, con l'Auditorium di Renzo Piano, il Polo culturale e multimediale di Rem Koohlaas negli ex Mercati generali, il Macro di Odile Decq, il Centro congressi di Massimiliano Fuksas, l'Ara pacis di Richard Meyer.

Quarto fattore della crescita di Roma è la scelta della diversificazione. La nostra competitività è più forte anche perché sempre più Roma ha una struttura produttiva diversificata, perché possiamo contare sulla forza del terziario avanzato, del settore della comunicazione, dell'audiovisivo e del cinema, sull'editoria, sull'informatica e sulle nuove tecnologie, sulla ricerca. Proprio sull'università abbiamo puntato come motore dello sviluppo locale, favorendo programmi di rilocalizzazione e di ampliamento, per il trasferimento tecnologico e per l'eccellenza formativa. E grazie anche all'investimento da parte dell'Inail di 500 milioni, diventeranno presto realtà i nuovi grandi campus universitari di Tor Vergata, Pietralata e Acilia. Ecco: i risultati di questi anni sono venuti da questa visione della città. E d'altra parte è all'Italia intera che ho sempre pensato in questo modo: un'unione di storia e di modernità, di antica cultura e di innovazione, di capacità della nostra società e della nostra economia a pensare il mondo e il futuro. Dobbiamo guardare avanti per non perdere l'appuntamento con i più importanti obiettivi di interesse nazionale. Perché l'Italia ritrovi fiducia e voglia di fare, di cercare, di intraprendere.

Postilla

Sarebbe interessante conoscere, oltre ai dati celebrati dal Sindaco di Roma, anche il contributo che all’incremento del PIL è dato dalle attività immobiliari, e l’incentivo offerto allo “sviluppo” della rendita dal nuovo PRG e dalle variazioni in aumento che la Giunta sta promuovendo.

In queste settimane si registrano (trovando poca eco sulla stampa) le protesta di moltissime associazioni e comitati di cittadini che, in molti municipi, stanno contestando le “compensazioni” che aumentano le cubature edificabili (attraverso i Programmi di recupero urbano) rispetto a quelle, gia esageratamente eccessive, del PRG adottato

L’immagine in apertura dell’articolo, che riportiamo qui sotto, è stata diffusa via e-mail da uno di questi comitati. Essa è accompagnata dallo slogan:

centro sinistra +

centro destra =

centro commerciale .

Davide Sfragano

Rifondazione: troppo cemento, non votiamo

L’Unità

NON È PROPRIO PIACIUTA al partito della Rifondazione comunista e a Legambiente Lazio, ma anche ad altre associazioni ambientaliste, la delibera, inserita nei cosiddetti «Progetti speciali», proposta dall'assessore al Patrimonio Claudio Minelli e approvata

lunedì dal consiglio comunale. La delibera prevede, in cambio della realizzazione della nuova sede del Municipio XX la modifica della destinazione d'uso di un ex albergo sito in Via Flaminia km 8,5 e l'ulteriore realizzazione di 80mila metri cubi a destinazione residenziale, in un'area sita nel Municipio XII. Tanto che ieri il capogruppo del Prc in Campidoglio, Patrizia Sentinelli, ha annunciato che «il cammino per l'approvazione definitiva del Prg è ormai pregiudicato», e che «la delibera deve essere bloccata per recuperare il lavoro per l'approvazione definitiva del piano». Un altolà cui si è associato anche Mauro Veronesi, responsabile territorio e ambiente di Legambiente Lazio che ha aggiunto: «Il voto del consiglio comunale di lunedì, in relazione al progetto speciale proposto dall'assessore "all'Urbanistica creativa" Minelli, è semplicemente sconcertante. Chiediamo non solo di annullare tale delibera, ma di cassare tutti i progetti speciali incompatibili con il Prg adottato». Ma oltre all'oggetto della delibera, inoltre, al Prc non è piaciuto anche il metodo con cui la stessa è stata approvata. Ha spiegato a tal proposito la Sentinelli: «L'unica cosa che giustifica la delibera è la proprietà delle aree interessate. Evidentemente per qualcuno, anche per coloro che governano il Comune, il piano, le regole, danno fastidio, sono considerate un intralcio alla "modernizzazione della città". Così si preferiscono concessioni ad alcuni proprietari di aree scelte senza alcuna trasparenza e in modo discrezionale».

Critiche molto aspre, alle quali la reazione dei rappresentanti della giunta comunale non si è fatta attendere. In primis, il diretto interessato, l'assessore Minelli, che ha replicato: «La delibera in questione ha rispettato tutti i passaggi amministrativi e di confronto democratico, sia a livello centrale che a quello municipale. Sono state accolte gran parte delle proposte emendative avanzate in sede tecnica, di commissione consiliare e municipale». Poi, quella più distensiva dell'assessore all'Urbanistica Roberto Morassut: «Il percorso del nuovo Prg non è compromesso. La preoccupazione sul contenimento dei pesi e sulle regole è condivisa da tutta la maggioranza, e deve e può essere affrontata con misure accorte e ragionevoli. Perciò andremo avanti per cogliere questo obiettivo con la consueta ragionevolezza e tenendo conto di tutte le posizioni».

Carlo Alberto Bucci

"Così l´arte invaderà le periferie"

la Repubblica

Nel futuro delle periferie romane c´è il segno dell´arte contemporanea. Strettamente legato, sin dai primi disegni, al progetto architettonico. Sembra di essere tornati agli anni d´oro del Bauhaus, la scuola d´arte creata da Gropius a Weimar. Invece la novità è contenuta nel provvedimento, che sarà approvato nei prossimi giorni dalla giunta comunale, in base al quale tutte le tipologie di opere pubbliche a Roma saranno sottoposte alla legge del 2 per cento. Nata nel 1949, la 717 stabilisce di destinare almeno il 2% della spesa prevista a opere d´arte che abbelliscano l´edificio in costruzione. Rispetto alla norma nazionale, destinata ai palazzi (caserme, carceri o uffici postali), il piano capitolino estende l´apporto degli artisti ai parchi, alle piazze, alle strade e agli interventi di urbanizzazione. E stabilisce che pittori, scultori, fotografi o videomaker siano coinvolti sin dalle prime fasi dei progetti, soprattutto nei piani di recupero e riqualificazione delle periferie (articoli 11 e 2).

«Opere d´arte contemporanea non come lusso, ma elemento fondamentale della progettazione urbana. Insomma, una necessità della città», ha spiegato ieri Roberto Morassut, presentando in Campidoglio l´iniziativa. L´assessore all´Urbanistica ha ricordato anche l´inizio dei lavori per la trasformazione dell´ex Mattatoio al Testaccio in "Città delle arti". E ha annunciato la norma in base alla quale «gli studi d´artista saranno riconosciuti come tali dal nuovo piano regolatore generale». Così non sarà più "cambio di destinazione d´uso" l´adibire alla creazione artistica una parte, non superiore al 30%, della superficie della propria casa.

Tre gli obiettivi della delibera del 2%, secondo Walter Veltroni: «Migliorare la qualità dei progetti delle nostre opere pubbliche. Creare domanda d´arte contemporanea che coniughi l´intervento del pubblico e del privato. E - ha concluso il sindaco - liberare Roma dall´idea che il bello sia solo legato al passato di questa città».

La deliberazione comunale - che prevede il coinvolgimento dei giovani delle accademie di belle arti nei cantieri dal costo basso, compreso tra i 250 e 500mila euro - è nata in seguito al convegno del 2004 al Macro "Io arte, noi città". Ed è stata redatta con la consulenza di una commissione ad hoc composta da Bruno Civello (Miur) e Patrizia Ferri (Miur/Afam), Anna Maria Tatò del ministero delle Infrastrutture, Gaetano Castelli e Gabriele Simongini dell´Accademia di belle arti di Roma, Alfio Mongelli e Paolo Dorazio della Rome University of Fine Arts, Daniela Fonti della Sapienza, Manuela Crescentini dell´Archivio Crispolti e da Alberto Abruzzese.

Attraverso l´estensione e l´applicazione certa della legge del 2%, l´arte contemporanea potrebbe riacquistare una funzione attiva nel tessuto sociale. A scongiurare il pericolo che siano sempre i soliti noti a spartirsi gli 11milioni di euro per l´arte nelle periferie, il Comune metterà in campo una commissione composta da un artista, un critico e un urbanista. Sarà in carica per un solo anno e dovrà decidere della bontà di progetti artistici da far sposare a quelli architettonici.

Quello che è stato bloccato dalla partecipazione popolare vorrebbero reintrodurlo. Vorrebbe reintrodurlo un assessore regionale dei diesse. Il soggetto? La possibilità di edificare migliaia e migliaia di metri cubi. La possibilità, per la rendita immobiliare, per gli speculatori di continuare ad inventarsi case, supermercati, interi quartieri. A Roma, nelle zone periferiche di Roma. I giornali in questi giorni, soprattutto nelle pagine locali, sono pieni di titoli e notizie sulle difficoltà che su questo tema stanno incontrando le maggioranze dell’Unione che governano la capitale, la sua Provincia e il Lazio. Qualcuno ha anche scritto che Rifondazione sarebbe stata ad un passo dal ritirare i propri assessori.

Comunque sia, Rifondazione ha deciso di puntare i piedi. Ed ecco perché. Tutto comincia nel 2002, con l’avvio dell’iter legislativo sul nuovo piano regolatore di Roma. Rifondazione, assieme ad altri pezzi della sinistra ma soprattutto assieme ai movimenti e alle organizzazioni di base, riesce ad imporre che quel documento sia discusso davvero nella città e dalla città. Ed è un metodo che paga. Perché la partecipazione delle persone e delle associazioni riesce a modificare il progetto di crescita della città. Per capire: viene cancellato dal piano regolatore quel meccanismo che si chiama della «compensazione».

Due parole per spiegarlo, anche se il termine tecnico già fa intuire di che si tratta. Esistono casi - e in una città come Roma ne esistono innumerevoli - nei quali una zona viene vincolata: a verde, a servizi, eccetera. I proprietari di quei terreni «vincolati» potrebbero però vantare dei diritti a costruire. Ad edificare. Si ricorre così - meglio: si ricorreva - alla «compensazione »: i titolari delle zone in questione rinunciano alle loro pretese, in cambio della possibilità di costruire altrove.

Una pratica che ha permesso di governare l’emergenza urbanistica, che ha anche permesso di garantire una crescita della qualità abitativa ma che certo non può essere il metodo del futuro. Proprio per questo, la discusssione partecipata del piano regolatore ha imposto lo stop alla logica della «compensazione ». Si disse che da allora in poi a quello scambio non si sarebbe più fatto ricorso. Qualora fosse stato necessario si sarebbero utilizzati i normali strumenti previsti dalle leggi, a cominciare dall’esproprio. Fu questo l’impegno preso da tutte le forze della coalizione. Si fissò un tetto (e non piccolo): sessanta milioni di metri cubi. Oltre quella cifra, non si sarebbe più potuto edificare nulla nella capitale: nè una casa, nè un hotel, nè un garage.

Qualcuno - nella città di Caltagirone - la prese a male. E non si rassegnò. E si arriva così a qualche settimana fa. Quando l’assessore all’urbanistica, e vice presidente della giunta regionale, Massimo Pompili, diessino, annuncia in una conferenza stampa, che sarà reintrodotto il metodo della «compensazione ». Quello scambio, insomma, che offre ai palazzinari la possibilità di continuare a costruire. Il tutto, viene presentato dentro un pacchetto di norme che un po’ pomposamente viene chiamato «poteri speciali per Roma ». Ma che in realtà si occupa quasi solo di urbanistica, di leggi urbanistiche. E dentro questo progetto, fatto precedere da un lungo ragionamento sulla necessità di velocizzare le procedure per la discussione e l’applicazione dei piani regolatori, ecco quello che ormai tutti conoscono come il «famigerato articolo 3». Nè più, nè meno che ciò che la consultazione popolare era riuscito a cacciare: la possibilità per i costruttori di accedere alla «compensazione». Attenzione anche alla scelta dei tempi. Il Comune proprio in queste settimane sta discutendo delle «controdeduzioni» - come si chiamano - delle varie critiche e controproposte al piano regolatore della città (lo prevede l’iter per la definitiva approvazione). E un progetto come quello del vice di Marrazzo ha subito riaperto il cuore alla speranza di chi vuole continuare ad edificare. Perché quell’articolo si tradurrebbe concretamente nella possibilità di costruire altri milioni di metri cubi.

Il tutto, lo si diceva, presentato in conferenza stampa. Senza che Pompili ne avesse informato i partiti alleati. Sicuramente non Rifondazione. Da qui, i toni duri, aspri dei giorni scorsi. Che comunque, un risultato l’hanno raggiunto. Chi sa delle vicende amministrative di Roma e dintorni dice che gli stessi diessini sono alla ricerca di una via d’uscita e che comunque quel testo non sarà presentato così alla giunta regionale.

Ma resta lo «strappo». «E sia chiaro - dice Patrizia Sentinelli, capogruppo di Rifondazione in Campidoglio - ci possiamo anche trovare d’accordo sulla necessità di snellire le procedure. Ma altra storia è quell’articolo 3. Quello riaprirebbe la corsa alla stagione dell’urbanistica “contrattata” che negli anni scorsi ha favorito solo le speculazioni edilizie e le rendite finanziarie». Che è esattamente lo stesso obiettivo che, su più larga scala, si è proposta la destra al governo del paese, con l’altrettanto famigerata legge Lupi. E vanno fermate l’una e l’altra.

s. b.

Postilla

Nell’articolo si afferma, riportando un’opinione corrente, che i proprietari vincolati “potrebbero però vantare dei diritti a costruire” se il precedente PRG glielo avesse consentito. E’ una balla, diffusa dai redattori e dai propagandisti del PRG. Qualunque giurista serio (o solo informato) sa che non è vero. A meno che non siano stati rilasciati atti abilitativi (concessioni edilizie o simili) nessuna previsione di edificabilità prevista da un piano regolatore generale, e perfino da un piaino di lottizzazione già convenzionato, comporta oneri per il comune in caso che, motivatamente, la modifichi con un piano successivo. Proprio in occasione del PRG di Roma feci una piccola ricerca, che autorevoli giuristi hano convalidato e che nessuno ha contestato: eccola qui.

Qui il documento che ha aperto le critiche (e le correzioni) al PRG di Roma. E qui altri documenti sul recente PRG di Roma

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