Chiedono il condono per lavori fatti dentro l’area vincolata del parco dell’Appia antica. E, senza aspettare risposta, propongono e mettono in atto un progetto di ampliamento: con tanto di piscina panoramica così che i nuotatori di "Roma 2009" s’allenino davanti alle tombe di via Latina e sul parco della Caffarella. Tra le varie proposte di impianti per gli iridati di nuoto, illustrate ieri nella conferenza dei servizi convocata dal commissario Angelo Balducci, c’è anche il progetto, presentato dalla società Sporting Palace, per la gestione di un impianto la cui realizzazione (sulla struttura di un palazzo in via Appia Nuova 700) è stata inoltrata da un consorzio di tre società. «Qui viene tutto nuovo, e ci sarà anche una grande piscina» spiega un operaio al lavoro sui ponteggi montati intorno all’edificio che ha ospitato un’impresa di imbottigliamento dell’acqua, il Giornale d’Italia e la società "Tecno holding", il cui nome compare sulla cassetta postale. «Sono gli intestatari della richiesta di concessione di nuovi lavori, di cambio d’uso e di condono edilizio, che ci è arrivata più di due mesi fa» racconta Rita Paris, della Soprintendenza archeologica, responsabile dell´Appia. «E adesso, senza il nostro ok, propongono un ampliamento. Io proporrei piuttosto la demolizione dell’edificio, di nessun valore architettonico. Fu costruito nel 1956 con i permessi, ma oscura i magnifici resti romani».
L’ente parco dell’Appia, in cui rientra il palazzetto, non è stato nemmeno convocato nella riunione di ieri. Ma il presidente, Adriano La Regina, è categorico: «È inaccettabile che si aggiungano carichi aumentando l’erosione di questa area archeologica». L’assessore all’Urbanistica, Roberto Morassut, prende atto dello stop: «Sono 30 le richieste di impianti giunte al commissario Balducci. Le sta analizzando con estremo rigore, tenendo conto della delibera comunale che chiede di valutare se i centri sportivi sono utili ai Mondiali di nuoto (ne servono 6 o 7) e, soprattutto, se rispettano i vincoli».
«La burocrazia ucciderà la democrazia. Albert Einstein lo andava ripetendo fin dagli anni Trenta. Era una profezia che avevamo sottovalutato e che diverrà evidente proprio negli anni Cinquanta». Mezzo secolo è, più o meno, la distanza temporale che separa la storia dalla cronaca, la memoria orale ancora calda di emozioni dalle ricostruzioni filtrate dal tempo. Italo Insolera è l´autore di un libro - «Roma moderna» - pubblicato nel 1962 e considerato da un´intera generazione un testo fondamentale per capire lo sviluppo della Capitale, dall´Unità d´Italia agli anni Cinquanta. Che pensa oggi l´architetto quando rilegge, col senno del poi, le vicende urbanistiche di quel decennio? «Certo, bisognerebbe rivedere diversi avvenimenti. Fatti ai quali, magari, avevamo dato troppa importanza si sono poi rivelati secondari. O, viceversa, altri fatti che avevamo sottovalutato alla lunga si sono dimostrati carichi di conseguenze. Tra questi ultimi metterei senz´altro, in prima fila, la nascita di una burocrazia capitolina, poco appariscente ma in grado di esercitare un suo potere autonomo e indipendente".
«Lo sviluppo della città, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, era stato un fenomeno senza precedenti. Quello che colpisce, però, non è solo la quantità, la bassa qualità o la dimensione di quegli interventi, quanto il metodo con il quale quell´espansione fu indirizzata. C´è un piano delle grandi chiacchiere, discusso ufficialmente e puntualmente disatteso. E c´è un piano ombra, sostenuto dai vecchi, grandi interessi e veicolato dalla burocrazia capitolina. Apparentemente è il consiglio comunale che decide. Ma nella pratica c´è un potere autonomo e indipendente che ora insabbia, ora tira fuori dai cassetti le soluzioni che poi vengono adottate. I giochi erano stati decisi anni prima. E le linee guida erano addirittura esplicite. Basta rileggere quello che sembrava una delle tante scartoffie abbandonate e dimenticate nei cassetti del Comune e, invece, si è rivelato il vero piano regolatore di Roma: sono delle varianti, datate 1942, apportate al precedente piano regolatore. Programmi decisi sotto il fascismo; tutti regolarmente attuati, tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Perché, mentre in consiglio comunale si discuteva del nuovo piano regolatore, nei corridoi e negli uffici c´era chi, zitto zitto, continuava a mandare avanti i progetti dei grandi proprietari».
Lo studio di Insolera è in un palazzo piazzato sull´orlo di Monteverde. Sotto le finestre, dall´alto, si vedono i palazzi di viale Trastevere. «Proprio lì sotto c´era la vecchia stazione di Trastevere, che poi è stata spostata più in là. E accanto c´era il grande spiazzo dove, quando ero bambino, si accampavano i circhi che arrivavano a Roma». Ora, al posto di quegli spazi, c´è la fila, ininterrotta, degli edifici costruiti negli anni Sessanta: una delle tante, possibili immagini di una città che cambiava volto e che oggi quasi stentiamo a riconoscere e datare. A dieci anni dalla fine della guerra, nel 1955, nel resto d´Italia si era dato l´avvio a un piano di ricostruzione rimasto fino ad allora sulla carta. Nella Capitale non ci sono state grandi distruzioni. Ma quello della casa è un problema vero, impellente. «A metà degli anni Cinquanta a Roma ci sono 55 mila persone che ancora vivono in grotte e baracche; un quinto delle famiglie romane vive in coabitazione». Non si va tanto per il sottile. E la costruzione dei nuovi quartieri - una volta sistemati gli interessi degli speculatori - trascura spesso anche i servizi più elementari. «Senza nemmeno tenere conto di altre esigenze nate in quel periodo. Si pensi alla motorizzazione di massa, che pure è un fenomeno ormai emergente, tanto che in molte strade del centro vengono adottati per la prima volta i sensi unici. Anche il sistema dei trasporti pubblici rimane quello di una volta. Basti dire che ci sono ben 25 borgate collegate alla città solo dai mezzi di una società privata. E l´espansione non penalizza solo i poveri. Si pensi al caso dei Parioli, un quartiere di livello, che triplica la densità abitativa, ma senza aggiungere nuovi servizi».
«L´inizio e la fine degli anni Cinquanta sono abbastanza definiti; anche perché, simbolicamente, il decennio si apre e si chiude con due eventi precisi: l´Anno santo del 1950 e le Olimpiadi del 1960. Il primo avvenimento urbanistico del Dopoguerra a Roma è l´apertura di via della Conciliazione. E´ come vedere la città che recita se stessa. E che, sempre attorno al 1950, comincia a trasformarsi con altre importanti realizzazioni: la Cristoforo Colombo arriva all´Eur... si inaugura ponte Flaminio... apre la nuova stazione Termini. E poi si costruiscono una serie di palazzi al Tiburtino, San Basilio, San Paolo... sulla Tuscolana, al Laurentino, a Spinaceto... Si andava veloci allora. Bisognava consegnare nei tempi. Non c´erano scuse. A Roma, del resto, esisteva un vasto proletariato edile e artigiano. E ogni palazzinaro aveva le sue squadre fidate. A suo modo il sistema funzionava. E anche la politica, con la sua logica delle spartizioni, era accorta: le opere dell´Anno santo, ad esempio, erano state affidate ai tradizionalisti, agli accademici; le realizzazioni delle Olimpiadi erano andate ai progressisti razionalisti; le case popolari agli architetti di sinistra. L´idea guida che condiziona anche i grandi interventi per le Olimpiadi del Sessanta rimane però sempre la stessa: realizzare una serie di opere che obbligheranno qualsiasi successivo piano regolatore a riprendere le linee decise nel 1942, orientandolo verso i grandi patrimoni fondiari».
«Il problema non è solo urbanistico. C´entra, per l´appunto, come diceva Einstein, la democrazia. Le denunce di quanto stava accadendo non mancavano. Ricordiamo, una per tutte, la campagna dell´Espresso: «Capitale corrotta, nazione infetta». I progetti, anche se corretti, venivano però regolarmente disattesi e affossati sotto una montagna di varianti e di modifiche. E questo, alla fine, ha determinato come un senso di impotenza. E´ vero che all´epoca c´erano meno cose da seguire; ma fino agli anni Cinquanta i dibattiti che si svolgono nel consiglio comunale vengono regolarmente riportati dai giornali. La gente legge, discute. C´è un diverso rapporto tra cittadino e istituzioni. Se in consiglio si discuteva della borgata Gordiani e si scopriva che quell´intervento nascondeva una speculazione per favorire questo o quello, il giorno dopo se ne parlava. Negli anni Sessanta questa attenzione si spegne. E si perde definitivamente quello che era un clima davvero diverso, dove, tanto per cominciare, era facile fare le cose normali. Ti sentivi con un amico e ti davi appuntamenti oggi impensabili: ci vediamo tra mezz´ora a piazza Navona. E c´era un modo diverso di lavorare. Non solo perché non c´era il computer e si disegnava a matita e inchiostro di china e si usavano ancora le cianografie. C´era più confronto, più dibattito. Quando bisognava presentare un progetto per qualche concorso era assolutamente normale che, il giorno prima della consegna, ci si vedesse con molti dei colleghi che partecipavano allo stesso concorso e si confrontassero i rispettivi progetti. Ci si aiutava, ci si consigliava: attento a questa tavola. Si migliorava e ci si arricchiva a vicenda, anche perché, in fondo, ci si conosceva tutti. Io mi sono laureato - la mia laurea è firmata da Piacentini - nel 1953. Sa in quanti siamo usciti, quell´anno, dalla facoltà di Architettura? In 23».
Sul Parco di Tormarancia incombe una colata di cemento di 400 mila metri cubi. La conferenza dei servizi che deve decidere è convocata per martedì 19. «Se passa sarà come stare a Copacabana...», scherza un abitante dei palazzoni costruiti già a Grotta Perfetta, sul versante sud dei duecento ettari del parco. Il residente si riferisce a una sfilata davvero sconcertante di ben undici palazzoni che devono sorgere accanto a via di Grottaperfetta, a sette metri di distanza (tanto è larga la strada) dal limite del parco: undici palazzi alti sette piani (due si fermano a sei), per uno sviluppo complessivo di 27 metri in altezza. Copacabana, appunto.
Sembrano una vendetta, per tutta la storia di Tor Marancia: non è stato possibile «colare» quattro milioni di metri cubi di cemento com'era previsto dieci anni fa nel progetto della giunta Rutelli e dell'assessorato Cecchini, quel piano è stato bloccato e al suo posto è nato un parco di 200 ettari che ancora non è stato però minimamente messo a punto e che giace lì abbandonato a sé stesso, ma ora ecco la beffa. Per fare Tormarancia sono state concesse «compensazioni» edilizie ai proprietari dei terreni e ai costruttori che sono state spalmate su tutta Roma e che sommate superano la cifra iniziale di metri cubi previst, sfondando ora il tetto di 4,1 milioni. Di questi metri cubi ben 400 mila sono state piazzati però a Grotta Perfetta, a ridosso del Parco, talmente a ridosso che di più non si poteva. E sono stati sistemati in modo molto forte ed evidente, tra ciò che resta del Forte Ardeatino e via Ballarin dove preesisteva la recente urbanizzazione con palazzi residenziali consistenti. La «colata» prevede anche un'area centrale destinata a un centro civico.
Lì dunque, dove finora c'era un'area a verde con alcune «sussistenze» di epoca romana (sono stati trovate alcune tombe romane durante gli scavi preventivi, vicine a un tratto dell'antica via Laurentina e ai resti di un mausoleo in laterizi), insomma una fetta di agro ancora incontaminata e suggestivamente ricca di memorie, ma già destinata fin dal piano regolatore degli anni sessanta ad edificabilità, sorgerà un insediamento abitativo per tremila abitanti che prevede 280 mila metri cubi di immobili residenziali e 120 mila metri cubi di immobili non residenziali. In tutto 400 mila metri cubi che rappresentano un decimo di quanto inizialmente previsto, una quota che si farà vedere come un vero pugno nell'occhio.
«Siamo tutt'altro che contenti - spiega Annalisa Cipriani di Italia Nostra che con altre associazioni ha partecipato alla lunga discussione sulla «compensazione» in questione - . Nel percorso di mediazione abbiamo tentato di far slittare indietro quel waterfront di cemento così pesante che incombe sul verde del Parco. Ma forse non abbiamo fatto tutto quello che dovevamo...».
Tutta l'operazione è stata seguita in prima persona dall'assessore all'urbanistica Roberto Morassut, la soluzione delle «compensazioni» rischia però di comportare non solo a Grotta Perfetta ma in tutta la cintura uno scotto molto duro da pagare. Pe Tormarancia alla Magliana sorgeranno 650 mila metri cubi, a Prato Smeraldo 340 mila, a Muratella 645 mila, a Massimina 618 mila, a Colle delle Gensole 221 mila, a Torrino sud 59 mila, sulla Pontina 70 mila, al km 13 dell'Aurelia 248 mila, a Prima Porta 100 mila, a Tenuta Rubbia 180 mila, all'Olgiata 120 mila, alla Bufalotta 99 mila, al Divino Amore 142 mila e a Fontana Candida 200 mila. Tutto per un parco che ancora non c'è...
«Invece di spendere tanti di quei soldi per ripavimentare via dei Fori Imperiali, così da renderla ancora più scorrevole, quasi fosse una autostrada urbana, perché non approfittiamo della cantierizzazione per chiuderla definitivamente al traffico automobilistico?». A lanciare la provocazione, è il presidente del Municipio X, Sandro Medici. «È davvero desolante - prosegue la nota - che una amministrazione così intelligente come la nostra non trovi il coraggio e la lungimiranza per realizzare il semplice ma straordinario progetto dì restituire al Parco archeologico dell'Appia Antica la sua sorgente naturale che è il Colle del Campidoglio. Ci si inorgoglisce per il ritrovato prestigio internazionale di Roma, per la capacità attrattiva di flussi sempre maggiori di turismo, e poi si resta inchiodati a una mentalità provinciale e politicamente modesta, che assegna al modello automobilistico la sua intoccabile centralità». La questione se chiudere o meno al traffico via dei Fori Imperiali è del resto cavalcata da anni da Legambiente Lazio. «Via dei Fori Imperiali andrebbe chiusa al traffico. Noi lo andiamo dicendo da almeno 10 anni - ricorda il presidente Lorenzo Parlati - D'altronde è ormai noto il grande successo che riscuotono le domeniche ecologiche proprio su via dei Fori».
Postilla
Ai più fedeli lettori di eddyburg , l’appello di Sandro Medici per la chiusura di via dei Fori Imperiali apparirà fin quasi scontato e la buona fede del suo autore lo è altrettanto. Quasi una “non-notizia”, degna della penuria mediatica ferragostana, se non fosse per la fonte giornalistica che, ospitando la proposta in forma asseverativa, ne sposa le tesi.
Fu sempre d’agosto, ma di qualche anno fa - il 1979 - che Il Tempo cominciò una campagna stampa dai toni violenti e non aliena da attacchi ad personam contro quello che si andava configurando come il progetto Fori, ovvero sia l’idea di un grande parco archeologico che da Piazza Venezia si allargasse a comprendere i fori imperiali e, oltre il Colosseo, tutta l’Appia Antica incuneando, nel centro storico capitolino, un’oasi di natura e cultura. Snodo del progetto lanciato da Leonardo Benevolo e ripreso, fra gli altri, da Adriano La Regina, allora neosoprintendente archeologico a Roma, Italo Insolera e soprattutto Antonio Cederna, doveva essere, appunto, la rimozione di via dei Fori Imperiali. In un articolo de Il Tempo dell’11/8/1979 a firma di Bruno Palma il progetto è definito via via “utopia”, “ipotesi bizzarra”, “amabile sciocchezza”: sarà l’inizio di un’opposizione durissima che vedrà succedersi, con livelli a volte di scarsa eleganza (Antonio Cederna denominato A. Sedere, in un articolo del 15/2/1981, a firma Alcindoro), sulle colonne del quotidiano romano, non solo giornalisti della testata, ma molti accademici e soci del circolo dei Romanisti, fra i quali Ettore Paratore e Massimo Pallottino.
Il progetto che troverà nel sindaco Luigi Petroselli il suo più entusiasta e tenace protagonista politico, raggiungerà l’acme del consenso popolare probabilmente con le chiusure domenicali di via dei Fori Imperiali, inaugurate il 1° febbraio 1981 (e quindi qualche anno prima dell’attivismo oggi rivendicato da Legambiente…) per arenarsi gradatamente ma inesorabilmente una volta scomparso Petroselli, il 7 ottobre 1981.
Gli anni passano, le mamme invecchiano, le opinioni mutano. Da qualche mese è stata istituita la commissione mista Stato- Comune che dovrebbe elaborare una proposta per il “riassetto dell’area archeologica centrale”: ai suoi componenti eddyburg , in questo periodo di sosta vacanziera per convenzione dedicato alle letture, propone una selezione di documenti su quelle vicende, perché in tempi di svagata memoria e storia flessibile, qualche testo, seppur dichiaratamente e appassionatamente di parte, può non essere inutile. (m.p.g.)
Sul tema, in eddyburg gli articoli diMauro Baioni, 07/07/2006 , di Vezio De Lucia, 26/08/2006 - 17/06/2007 e di Maria Pia Guermandi, 23/05/2005 - 29/03/2007
A margine della polemica sulle “Valentiniadi”, ecco un commento per eddyburg. Fra i tanti guai che affliggono il nostro patrimonio culturale questa vicenda dell'allestimento bolliwoodiano del tempio di Venere e dell'invasione dell'Ara Pacis per le “Valentiniadi”, non sembrerebbe, a prima vista, fra le più pericolose e urgenti. In fondo che male c'è ad integrare gli asfittici bilanci di un Ministero economicamente esangue con qualche introito aggiuntivo lucrato a privati ben provvisti? Non è davvero tempo di purismi sdegnosi, questo.
E infatti non è questo il punto. La concessione a pagamento di spazi pubblici a privati avviene da anni ed è stata regolamentata dalla legge Ronchey, seppur molto parzialmente. E in moltissimi casi questa pratica è servita a tamponare reali emergenze (anche primarie) nella gestione di sedi culturali prestigiose, senza che i monumenti interessati ne subissero danno alcuno, neanche di immagine.
Ma che questa iniziativa sia contrabbandata non come un'integrazione di bilancio, ma come vera e propria operazione culturale, è strategia mediatica non priva di pericolosità culturale in quanto indizio di quel progressivo e ipocrita slittamento semantico cui è condotto il parallelismo “bene culturale come risorsa” reiteratamente espresso, nelle sue varianti sinonimiche (volano, asset, incentivo, ecc.), sulle cronache degli ultimi mesi/anni.
E speriamo davvero che siano imputabili al caldo e alle stanchezze estive i peana unanimi dei nostri più alti rappresentanti politici arrivati a dichiarare che “la moda è il nostro più alto punto di riferimento” (sic! la Repubblica, ed. Roma, 7 luglio 2007, omissis dell'autore per carità di parte).
Quanto a Valentino, con questo accorto mélange di haute couture, scenografi hollywoodiani (Dante Ferretti) e frammenti d'antico, si accredita esso stesso come creatore di beni culturali del 3° millennio con un ritorno di immagine a livello mondiale (dalle tv nazionali al Wall Street Journal) che decuplica, a dir poco, il valore mediatico dell'iniziativa rispetto all'investimento di 200.000 euro, per di più, parrebbe, devoluti in rate dilatate nel tempo e per un allestimento, nelle due sedi del tempio di Venere e dell'Ara Pacis, che si prolungherà, complessivamente, per parecchi mesi.
Che poi simili carnevalate possano in qualche modo attirare un'attenzione “virtuosa” sul tempio preso “a nolo”, e quindi provocare di riflesso contraccolpi positivi, è negato dall'evidenza dei media che hanno riservato tutte le loro attenzioni all'esatta enumerazione dei vip presenti e non certo ad una seppur corsiva illustrazione del monumento antico.
E viene da sorridere ripensando allo spirito stesso del recente Codice dei beni culturali, infarcito in ogni rigo, in ogni virgola, di cautele e di paletti nei confronti degli enti pubblici altri (Regioni in primis) sospettati, a prescindere, di saper organizzare solo operazioni di valorizzazione culturalmente lacunose laddove non indirizzate e sorvegliate dalla competenza ex machina del Ministero. Ci piacerebbe davvero risalire alle “linee guide” che hanno guidato l'auctoritas ministeriale nel concedere (e propagandare come fatto culturale per bocca del suo più alto rappresentante...) l'allestimento di un duplice colonnato di vetroresina e di una statua di 6 metri 6 nel tempio di Venere e della selva di manichini che incombe quale “processione pagana” (sic!) a ridosso dell'Ara Pacis. Quest'ultima divenuta ormai un mero accessorio per iniziative di ogni tipo che si trovano così accostate, nell'involucro di Meier, ad un logo di lusso che conferisce ad oggetti ed eventi una patina culturale.
Un Ministero che, nello stesso tempo, mentre si dibatte in una perenne paralisi (dis)organizzativa, frutto dell'ennesima riforma combattuta proprio in queste settimane nei corridoi del Collegio Romano, fra scambi di casacche e sibilar di coltelli, è pronto a stroncare o a lasciar cadere qualsiasi operazione di cooperazione Stato-Regione-privati ove leda, anche tangenzialmente, interessi di consorterie assortite e consolidate nel tempo da una ignavia politica i cui risultati stanno diventando sempre più evidenti in termini di smagliature del nostro sistema complessivo della tutela.
Nonostante questo, occorre sottolinearlo, i risultati faticosamente conseguiti da tanti operatori “sul campo” non mancano, sia in termini di salvaguardia del patrimonio (si veda la battaglia per l'Appia cui eddyburg dedicherà una sezione apposita), sia di valorizzazione dello stesso patrimonio: per rimanere in ambito archeologico e in questi stessi giorni, basta ricordare la straordinaria mostra sui Balkani del rinnovato Museo di Adria, dedicata al periodo di Halstatt e l'inaugurazione del bellissimo ed evocativo Museo narrante dell'Heraion alla foce del Sele. Eppure non ci risulta che il Ministero abbia profuso grandi energie per propagandare simili eventi, organizzati, fra mille difficoltà, dalle sedi "periferiche". Forse dipende dalla loro location, mediaticamente poco spendibile. E poi si sa, le nostre romane antichità hanno sempre goduto di un'attenzione particolare, sin dai tempi dell'oratore di Palazzo Venezia.
Così, alla fine, in questa nostra postmodernità liquida e virtuale, non è più Las Vegas che riproduce attraverso factices approssimativi i monumenti della romanità, ma, nel cuore del Palatino, l'archeologia romana che si traveste da Las Vegas. E, anche in questo caso, si compie quello che Jean Baudrillard, nella sua inquietante analisi, aveva anticipato e definito come “il delitto perfetto”.
E pensare che, in fin dei conti, stiamo parlando dei prodotti commerciali, seppur fascinosi ancorchè costosissimi, di un sarto neanche particolarmente innovativo nel suo settore.
Ai responsabili ministeriali che hanno avvallato l'operazione, compreso il privatissimo convivio per celebrities mondane di recente conio organizzato nella cella del tempio, sarebbe stata sufficiente una adeguata dose di buon gusto, così come avrebbe sentenziato Oriane de Guermantes, che di glamour se ne intendeva.
Un perdente di successo
Giuseppe Pullara – Corriere della Sera, ed. Roma, 25 luglio 2007
In questi giorni il Vittoriano è più bello che mai. Il colonnato è ricoperto di plastica bianca, per i lavori di restauro. E l'intero monumento ha subito una trasformazione. Ha fatto un balzo nella modernità, ha dimostrato come un linguaggio architettonico possa accettare la contaminazione di un intervento di altissima qualità. Perché quell'immensa telata bianca leggermente concava, che sulla destra presenta perfino una lacerazione verticale alla Burri o alla Fontana, sembra pensata da un genio. Il monumento meno amato dai romani si è fatto più semplice, ha fatto diventare il cavaliere sabaudo un vero eroe metafisico.
Bello come non mai, ma al centro di polemiche come sempre. Quando fu fatto, si cominciò col colore troppo bianco del suo botticino, il marmo che veniva dal Nord come volle la politica. Bruno Zevi, più recentemente, chiese al neo-sindaco Rutelli di farlo smontare nottetempo. Pezzo a pezzo. L'illuminazione, l'apertura al pubblico, il bar sul terrazzo lo hanno avvicinato alla gente, che ha cominciato ad apprezzarlo. Gli architetti no. Lo hanno sempre osteggiato. Ora il Vittoriano, con quella sua aria da perenne sconfitto, subisce un nuovo assalto. A torto o a ragione, qualsiasi cosa nuova che appaia nel prezioso contesto storico di Roma viene criticata. Ne sa qualcosa l'Ara Pacis, opera di grande architettura ancorché sopradimensionata.
In genere ogni polemica riguarda la coerenza, la contestualizzazione, la continuità e si articola su argomenti più specifici quali i materiali, le proporzioni, gli aggetti. L'ascensore di vetro che corre sulla schiena del Perdente spunta oltre il profilo ed è un nuovo guaio. È avviata una nuova battaglia sull'architettura romana: se non altro, un pezzo dell'intellighenzia di questa città si desterà dal sonno. Architetti critici sono già in campo, altri presto difenderanno l'elevator caro come i Musei Vaticani. Cento fiori fioriranno, studiosi e progettisti a cercare il bandolo della matassa: è accettabile o no questo nuovo segno di architettura?
Dal Gianicolo Roma si mostra bellissima, con le sue stratificazioni stilistiche e le sue contraddizioni, con le sue antichità che furono moderne e le sue classicità che furono rivoluzionarie. Con le sue distonie, i suoi contrasti, le sue coerenze Roma si specchia vanitosa, del tutto indifferente al bandolo della matassa.
«E' orribile, da rimuovere subito» Vittoriano, rivolta anti-ascensore
Edoardo Sassi – Corriere della Sera, ed. Roma, 25 luglio 2007
Tra i primi a fare «outing» era stato una archeologo dei Musei capitolini, Francesco Paolo Arata, con un intervento intitolato, senza giri di parole, «Vittoriano, l'ascensore più brutto del mondo». La visuale dal Campidoglio è infatti una delle più compromesse, stando ai detrattori dei nuovi elevatori panoramici che dal 2 giugno portano sulla terrazza dell'Altare della Patria.
Inaugurati il 2 giugno scorso dal ministro Francesco Rutelli, dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e dal sindaco Walter Veltroni, gli ascensori infatti non a tutti piacciono. Anzi, in molti li trovano «orrendi». È di pochi giorni fa la presa di posizione anti-ascensori (e anti- progetto ristorante) dell'associazione Italia Nostra, con il presidente della sezione romana Carlo Ripa di Meana, che ha definito gli ascensori «orrende superfetazioni esterne», e il ristorante sulla terrazza «uno sfregio insopportabile di un luogo sacro».
Ieri, a tuonare di nuovo contro «una simile bruttura che altera in maniera criminale l'Altare della Patria» è stato il segretario della Uil Beni Culturali Gianfranco Cerasoli, che è anche membro del Consiglio superiore dei Beni culturali, organo consultivo di cui fanno parte (oltre ai segretari di settore dei due maggiori sindacalisti) anche eminenti personalità della cultura. Lo stesso Cerasoli ha annunciato ieri «un ordine del giorno che censura gli ascensori da parte proprio del Consiglio » (di cui è membro) di lunedì: «Affinché il Ministero faccia chiarezza e soprattutto indichi con trasparenza le responsabilità di quanto è stato realizzato e metta in moto le iniziative urgenti e necessarie per l'eliminazione e/o modifica degli attuali ascensori».
«L'odg — ha aggiunto Cerasoli — a partire dal Presidente Salvatore Settis, è stato approvato all'unanimità e ora sarà trasmesso al ministro Rutelli affinché le strutture ministeriali mettano a disposizione del Consiglio Superiore tutti gli atti e i provvedimenti assunti che peraltro non sono mai stati sottoposti al parere del Comitato Tecnico Scientifico per i Beni Architettonici nonché dello stesso Consiglio Superiore. In più con l'odg si è chiesto di acquisire informazioni in merito a ipotesi alternative pregresse, dal momento che da ambienti ministeriali sembra ve ne fossero almeno altre due, che non avevano alcun impatto» (di certo esisteva un progetto elaborato dall'ex soprintendente e direttore regionale Ruggero Martines, che prevedeva in sostanza l'accesso alle terrazze, sì, ma potenziando gli ascensori già esistenti all'interno del monumento).
Intanto il «partito» anti-ascensori annovera di ora in ora nuovi adepti, compreso il sito internet «Patrimonio sos», cha ha da poco lanciato la petizione on line intitolata «L'Archimostro degli ascensori al Vittoriano». Ma a criticare gli ascensore sono molti architetti e storici dell'arte di fama. Paolo Portoghesi: «Progetto inammissibile. Si vede sporgere la tettoia già da largo Chigi. Non è certo colpa del ministro, né di Ciampi, i quali volevano l'agibilità della terrazza. Ma è colpa del progetto. Rutelli disse che l'opera è reversibile. Bene, prendiamolo in parola». Cesare De Seta, anche lui membro del Consiglio superiore: «Alla riunione di lunedì ho partecipato ma sono andato via mezz'ora prima del termine. Di un ordine del giorno a dire il vero non so nulla e mi pare strano. Comunque, a titolo personale, e non certo a nome del Consiglio, posso tranquillamente esprimere la mia opinione sugli ascensori. Non mi piacciono proprio. Trovo soprattutto la tettoia che sporge dalla terrazza una soluzione infelicissima, si vede anche da via del Corso. Siamo di fronte a una vera alterazione del monumento. Il risultato tecnico-estetico dell'intervento è davvero deludente».
«Davvero un odg del Consiglio contro gli ascensori? Era ora. Alè, champagne, mi pare davvero un'ottima notizia», esordisce scherzando Giorgio Muratore, architetto, ordinario di cattedra e storico dell'architettura di fama. Che poi si fa serio e aggiunge: «Stavo preparando anche io un documento di protesta. È un progetto volgare, nel segno di una deriva merceologica da tour operator che ormai ci affligge e affligge Roma. Si pensa solo alla redditività, ai numeri. E così si avallano cose che fanno schifo. Quegli ascensori sono uno dei progetti più indecenti che si siano mai prodotti».
Vittoriano, interviene il Ministero
Edoardo Sassi – Corriere della Sera, ed. Roma, 26 luglio 2007
Il Vittoriano e quegli ascensori che una parte significativa del mondo della cultura giudica «orrendi», «indecenti», una «bruttura criminale». Il giorno dopo il j'accuse di storici dell'arte, architetti e urbanisti di fama, e a 48 ore dalla «censura» espressa dal Consiglio superiore dei Beni culturali presieduto da Salvatore Settis, arriva la replica del ministero dei Beni Culturali, che quegli ascensori panoramici ha voluto.
Una replica che, un po' a sorpresa, implicitamente ammette che qualcosa non va nell'opera che svetta sopra il monumento, visibile anche da molto lontano. Fin dagli inizi a dire il vero, oltre un anno fa, lo stesso ministro Francesco Rutelli aveva sempre sottolineato come gli ascensori fossero opera «reversibile» (se non piace, si disse nella prima conferenza stampa di presentazione dei lavori, si toglieranno). E nella nota diffusa ieri in serata il Ministero dei Beni culturali informa che un gruppo di lavoro, voluto dal ministro, è insediato «da diverse settimane » per «valutare la realizzazione del progetto » e «stabilire possibili miglioramenti all'impatto della struttura». La nota è della direzione regionale del Lazio per i beni culturali e paesaggistici, alla cui guida è l'ingegner Luciano Marchetti, «responsabile — come ricorda un intervento di Gianfranco Cerasoli, segretario della Uil Beni Culturali, uno delle voci più critiche nei confronti dei nuovi ascensori ascensori — del procedimento che ha validato e autorizzato il lavoro della commissione che ha scelto il progetto ». «La scelta del progetto — ha scritto il sindacalista — fu fatta da una commissione composta da Antonio Giovannucci, direttore Regionale della Basilicata, Giovanni Belardi, architetto della Soprintendenza di Roma, e Corrado Bozzani, docente universitario. Il Direttore dei lavori fu l'architetto Federica Galloni, attuale soprintendente di Roma per i beni architettonici, una delle nomine più contestate a Rutelli».
Ora, del gruppo di lavoro «insediato praticamente dall'apertura dei nuovi ascensori », fanno parte, oltre al capo di gabinetto del ministero Guido Improta e al segretario generale Giuseppe Proietti, appunto il direttore regionale Luciano Marchetti e la soprintendente Federica Galloni, con il sovrintendente capitolino Eugenio La Rocca. Obiettivo, precisa la nota del Mibac, «valutare la realizzazione del progetto presentato da Paolo Rocchi, vincitore della gara d'appalto, e stabilire possibili miglioramenti all'impatto della struttura, anche nella prospettiva della rimozione dell'impalcatura che attualmente ricopre tutto il Vittoriano e che rimarrà in sede fino ai primi mesi del 2008». Il gruppo di lavoro - conclude la nota - «darà presto gli esiti delle sue riunioni ». La nota della Direzione regionale sottolinea inoltre come i nuovi ascensori panoramici siano un successo, «con 32 mila visite alle terrazze nel mese di giugno e un incasso di 137 mila euro».
E sull'affaire Vittoriano, da ieri, soffia anche il vento della polemica politica, con il centrodestra che si aggiunge a Italia Nostra e agli intellettuali: «Deturpano irrimediabilmente uno dei monumenti più significativi della Repubblica», ha detto l'ex sottosegretario ai Beni culturali Nicola Bono (An), che sul tema ha presentato un'interrogazione a Rutelli. Di «ennesimo scempio» parla Davide Bordoni, consigliere capitolino di Fi. Mentre per il capogruppo di An nel I municipio Federico Mollicone, si tratta di un «monumento all'orrendo urbano. Unica soluzione, abbatterli».
Vittoriano, lascia che sia kitsch!
l’Unità, 26 luglio 2007
Il Vittoriano? Ma non era inteso, per decenni e decenni, specie nella seconda metà del Novecento, via via che s'andava scolorendo la retorica del Risorgimento, che fosse, quella mastodontica «macchina da scrivere» in marmo botticino, «piazzata» a fare da quinta abnorme a Piazza Venezia, regno e dominio del kitsch? Se ne stava lì, quel povero monumentone snobbato, per la sua invadenza e per le sue «colpe» urbanistiche (lo spostamento di Palazzetto Venezia), e anche per un inconfessabile superstizioso timore di quell'aria perenne di celebrazione funebre che lo circondava - la fiamma che arde sul sacrario dell'Altare della Patria: che non si poteva contestare apertamente, ma… (E, del resto, ben due militari di guardia non si sono suicidati)? Fino a quando il sindaco Francesco Rutelli, forse per la circostanza «genetica» di avere avuto un bisnonno scultore risorgimentale senza complessi (vedi la Fontana dell'Esedra, con lo svettare di bronzei seni e fianchi femminili), decise di illuminarlo a festa come si trattasse di un meraviglioso Circo della Belle Epoque… E se kitsch deve essere, che lo sia alla grande! Fu il principio della resurrezione: il bar-ristorante (discreto), le ascensioni ansimanti - senza ascensore - di masse di turisti innamorati della vista, minuziosamente descritta, per singoli monumenti, cupole, Fori e magnificenti rovine, dalle vecchie guide del Touring… E che sia davvero uno spettacolo chi potrebbe negarlo? Perciò gli ascensori di cristallo e acciaio, sottili e longilinei, che ora ti portano in un lampo ad 81 metri d'altezza, fino alle aeree terrazze sorvolate dalle quadrighe di bronzo (risparmiandoti i 196 gradini che per una società ad anzianità crescente non sono poi il massimo) non mi scandalizzano affatto: consumismo? Marketing dei monumenti? Ma non l'avevate sempre disprezzato il povero Vittoriano? Almeno ora sappiamo che il suo autore, il tanto biasimato Giuseppe Sacconi, aveva una cultura antiquaria nutrita di modelli archeologici e che forse per la sua «patria di marmo» si ispirò all'Ara di Pergamo appena scoperta... E le terrazze delle quadrighe lui le immaginò gremite di visitatrici e visitatori… In quanto a me, da quelle terrazze ho assistito - e non scherzo - al concerto dei Genesis al Circo Massimo. (Mai avrei potuto affrontare quel volume sonoro a distanza più ravvicinata). Dopo aver contemplato il tramonto su una Roma «morena e fulva… con trecce di miele… sorgente dal fiume, colle dopo colle, tra giardini e fontane, tra colonne ed archi…». Così come la descrisse, e chi sa che non l'abbia guardata da quassù, Cecilia Meirels: la bellissima poeta brasiliana, considerata la più grande di lingua portoghese del Novecento.
Parla Vittorio Emiliani: Lo scempio del Vittoriano è figlio di un deficit culturale
Riccardo Paradisi - L'indipendente, 27 luglio 2007
Alle radici degli ascensori sull’Altare della Patria c’è un deficit culturale». Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la bellezza, direttore del Messaggero negli anni Ottanta, è indignato per lo sfregio inferto al Vittoriano. Denuncia da settimane lo scempio. Quasi isolato. Soprattutto inascoltato. «Fino quando, e finalmente, il Consiglio superiore dei Beni culturali, sollecitato da Gianfranco Cerasoli, uno dei componenti – racconta Emiliani – ha preso una posizione chiedendo spiegazioni al ministro Rutelli». Proprio per quella gobba verde sul marmo bianco dell’Altare della Patria. «È una cosa da ingegneri quella struttura, così brutta, così pesante. Viene da chiedersi come sia potuto avvenire. Evidentemente non ci sono più storici dell’arte al ministero dei Beni culturali. E se ci sono non contano più nulla». Prima dello scempio del Vittoriano per Emiliani, c’è una visione sbagliata. «Come si fa a non capire, a non vedere che si deturpa tutta l’area con quell’archimostro, dall’orizzonte dell’Ara Coeli fino a largo Chigi?». La sensazione è che sia tutto sbagliato. Tanto più, ricorda ancora Emiliani, che «l’idea di due ascensori laterali esistono dai tempi di Sacconi, dal 1908. E su quel progetto originario aveva lavorato Ruggero Martines. L’idea era quella di potenziare i due ascensori laterali curandosi di non farli sbucare dalla struttura monumentale e prevedendo che scendessero sottoterra anche per collegarsi alla linea C della metropolitana. Un progetto molto interessante e molto funzionale. Ma Martines è stato mandato dall’ex ministro Giuliano Urbani a fare il direttore regionale in Puglia e adesso sul Vittoriano svetta quell’escrescenza verde». Il progettista dell’escrescenza verde, come la chiama Emiliani, è Paolo Rocchi «che è un bravo strutturista», riconosce il presidente del Comitato per la bellezza, «chissà come gli è venuta in mente però quella struttura così orribile, questa canna d’acciaio così poderosa, così intrusiva». Ma ci sarebbe da domandarsi anche chi e perché ha consentito la realizzazione della bruttura. «Sa qual’è il problema vero? Che i sovrintendenti di settore non contano più nulla. Sono spiazzati e disorientati, umiliati dai diktat di direttori generali regionali di nomina politica. E questo grazie alla legge Bassanini, da cancellare. È anche così che vengono al mondo gli archimostri». Ma prima ancora c’è il deficit culturale. Emiliani ci ritorna: «C’è questa idea della cultura come consumismo di massa. Spettacolo mediatico. È così ormai in tutta Italia anche se Roma sembra la città pilota di questa deriva». Una deriva che confonde lo sguardo, smarrisce la memoria. «L’Altare della Patria», nota Emiliani «è il monumento del nostro Risorgimento, è un sacrario. Come si fa a non avere il minimo senso della sua funzione simbolica. Ormai si passeggia e si pasteggia sulla tomba del Milite Ignoto. Ma io mi chiedo: sarebbe stato possibile al Campidoglio di Washington o a Les Invalides di Parigi una cosa simile?». Domanda retorica, risposta scontata:no. «Ecco, io temo che la cultura del consumismo di massa distruggerà l’anima di questa città e il patrimonio italiano». Il tutto nella più pingue indifferenza mediatica: «I giornali hanno cominciato a parlare dello scempio con un mese di ritardo, e ancora non c’è stato un servizio di un Tg nazionale che faccia vedere come hanno ridotto il Vittoriano».
Sono stata su quell’ascensore, a occhi chiusi, aggrappata al solido braccio del mio accompagnatore perché soffro di vertigini, ma volevo arrivare lassù, sulla terrazza delle quadrighe dove davvero Roma che si srotola intorno a 360° è un panorama di fenomenale impatto visivo in cui ancora prevale la percezione del molto che si è salvato rispetto al moltissimo che potrebbe cambiare a breve. Come ci ha insegnato il grande Johnny Hart, con tenera ironia, è la visione “da urbanista”, dall’alto, che procura al nostro sguardo un’indulgenza speciale e aiuta ad annegare l’incongruo, il difforme, la banalità del brutto, nella sinfonia di storia che ogni pietra di questa città ha contribuito a costruire.
In quel momento ho pensato che era un buon modo per viverlo, quel monumento così discusso, quell’immenso, ingombrante vespasiano che da oltre un secolo incombe su uno degli ombelichi del mondo e al quale l'universo culturale al quale mi richiamo ha sempre guardato con un misto di sdegnoso fastidio e ironia (da Cederna a Zevi, fino al Nanni Moretti di palombella rossa). E mi sembra frutto di una sensibilità appartenente ad altre concezioni ideologiche, il lamento per la dissacrazione di una struttura da sempre giudicata pessima dal punto di vista architettonico e dei valori che rappresenterebbe, che non possono certo essere messi in discussione da una più libera fruibilità. In fondo, facilitare l’accesso agli ambienti del Vittoriano è un modo per renderlo finalmente meno isolato e anodino e con finalità d’uso che, in sé, si apparentano caso mai alle siepi leopardiane piuttosto che a godimenti sbracati o escamotage modaioli così come è avvenuto recentissimamente per altre iniziative e altri monumenti.
Ma fin qui rimaniamo nel campo di un relativismo di giudizi che a qualcuno oltre Tevere appare pernicioso, ma che ad eddyburg piace sottolineare. Questa vicenda dell’ascensore ci sembra invece signum esemplare, in negativo, di una deriva evidente che connota la gestione del nostro patrimonio culturale ai più alti livelli. Qualunque sia il giudizio estetico e di impatto visivo-paesaggistico che se ne voglia dare, è un fatto che l’idea, l’elaborazione del progetto e la sua costruzione hanno avuto un iter che, per quanto rapido, ha richiesto molti mesi. Tempo durante il quale sono stati altresì rispettati tutti i passaggi di tutela prescritti per legge: tutto si può dire dell’ascensore, tranne che sia privo di legittimità in senso giuridico. Certo più di un mugugno ci sarà anche stato nei corridoi del Collegio Romano: alternative al progetto realizzato ce ne erano sul tappeto, ma assumersi i rischi delle scelte, all’interno di un sistema di regole, è, di questi tempi, persino un titolo di merito.
Appunto.
E’ di qualche giorno fa la “conciliante” affermazione del Ministro Rutelli sulla reversibilità dell’opera (oltre un milione di euro di costi), quasi fosse “un panno steso al sole del mattino che si può ritirare alla sera” (cit. orizzontale).
Adesso che le polemiche sull’impatto visivo della struttura, da alcuni critici ed associazioni giudicato eccessivo, stanno riempiendo le cronache dei giornali e che il Consiglio superiore dei beni culturali, peraltro interpellato con tempistiche incongrue, ha espresso la sua censura sull’opera, i rappresentanti del Ministero, ai più alti livelli, si sono avventurati nelle prime imbarazzate dichiarazioni di “aggiustatura”.
Imbarazzate e imbarazzanti, nei contenuti e nei metodi. Che dire della “trasparenza” di tutta l’operazione in cui 2 dei 5 membri del gruppo di lavoro frettolosamente allestito in queste settimane per “valutare la realizzazione del progetto” e “stabilire possibili miglioramenti all’impatto della struttura” (nota della Direzione Regionale del Lazio per i beni culturali e paesaggistici diffusa il 25 luglio u.s.) hanno avuto ruoli di primo piano nell’autorizzazione e realizzazione dell’opera essendone direttore dei lavori l’una (Federica Galloni) e responsabile dell’intero procedimento il secondo. Che altri non è, nella fattispecie, se non il Direttore regionale del Lazio, l’ingegner Luciano Marchetti, alle cui competenze, in ogni caso, il Ministero è ben deciso di fare il più ampio ricorso visto che si tratta di uno dei pochissimi direttori (3 su 17) per i quali il ministro non ha richiesto l’avvicendamento (vicenda che si snoda in questi caldi giorni estivi con modalità da corte di Bisanzio e sulla quale eddyburg ritornerà nei prossimi tempi).
Quanto ai contenuti, come commentare la nonchalance autodifensiva con cui, nella stessa nota della Direzione regionale con la quale si fornisce notizia del gruppo di lavoro, si sottolinea il successo economico e turistico dell’iniziativa a suggerire, neppur tanto velatamente, che il tintinnar di cassa è pur sempre il migliore dei make-up.
Che poi in epoca di sofisticatissimi software di simulazione virtuale fosse necessario aspettare non solo la costruzione, ma alcuni mesi di attivazione, per accorgersi degli effetti visivi dell’opera sul contesto monumentale e prospettico che la circonda, rende più pungente un sospetto: che poche colonne di piombo possiedano poteri straordinari per schiarire la visione di insieme. Come direbbe Bogey: “è la stampa, bellezza” (m.p.g.)
Il sindaco di Roma, in barba al piano regolatore, ha permesso l’edificazione selvaggia della città. Affari d’oro per i palazzinari. Aveva promesso case a poveri e disoccupati, ha invece favorito la costruzione di 20 milioni di metri cubi di edilizia privata. E i dati ufficiosi parlano di 60 milioni. A beneficiarne, i soliti noti tra cui la Lamaro appalti
Roma - Mattone su mattone, casa per casa. Il sindaco di Roma, Walter Veltroni, il suo potere l’ha cementato anche così: in barba al tanto pubblicizzato Piano Regolatore Generale, approvato nel 2003 ma mai entrato in funzione, ha permesso l’edificazione selvaggia della Città Eterna ricorrendo a escamotage urbanistici - come varianti e compensazioni edificatorie - che altrove (ad esempio Salerno) sono state foriere di guai per sindaci, assessori, consulenti, imprenditori.
I dati ufficiali, sbandierati con orgoglio dal responsabile capitolino all’Urbanistica, Roberto Morassut, parlano di «20 milioni di metri cubi di edilizia privata attivati in questi anni». Quelli ufficiosi triplicano invece la cifra cristallizzandola oltre i 60 con molti dei programmi edilizi ancora da concludere. Una cifra impressionante. Senza precedenti. Finanziariamente sconvolgente se si pensa che a calcolare per difetto il valore sul mercato immobiliare della colata di cemento sin qui realizzata (in base ai numeri dati da Morassut) si arriva a circa 18 miliardi di euro, una cifra a livello di una manovra finanziaria. A beneficiare di questo business i soliti 4-5 grossi gruppi imprenditoriali, tra cui spicca la «Lamaro Appalti» dei fratelli Toti, nota al grande pubblico romano per la realizzazione del Globe Theatre di Villa Borghese, della Nuova Fiera di Roma, della chiesa «a tre vele» dell’architetto Richard Meier. Nessuna notizia dei progetti solidali di edilizia economica e commerciale, ovverosia dell’idea molto veltroniana di assicurare un tetto a poveri, bisognosi, disoccupati. S’è preferita l’edilizia privata, rende di più.
Per capire come funziona il «Sistema» occorre tornare al 2003, a quando cioè il nuovo Prg vede la luce dopo quarant’anni d’attesa. In Comune sono fuochi d’artificio, conferenze stampa, lenzuolate sui giornali, applausi. Poi passano le settimane, i mesi. Nessuno s’interroga sul perché la macchina non parte, e quando qualcuno solleva il problema Veltroni se la prende con Storace che, a suo dire, fa ostruzionismo con il «Piano di sviluppo regionale». Quando alle regionali 2005 Storace perde con Marrazzo, il sindaco annuncia che «grazie al nuovo clima di collaborazione tra Comune e Regione lo strumento urbanistico sarebbe stato applicato entro l’anno». Siamo al secondo semestre 2007 e il Prg ancora non trova applicazione mancando i piani paesaggistici di tutti i Comuni, Roma inclusa.
Nella Capitale, intanto, si costruisce a più non posso ricorrendo a «varianti» e «modifiche» al Prg col risultato che qualcuno, anche a sinistra, inizia a storcere il naso. Per smarcarsi dalle polemiche il Campidoglio s’inventa la «Variante delle Certezze», una sorta di norma-quadro del settore urbanistico per dare certezze e punti fermi agli investitori. Il risultato è disarmante perché i palazzi crescono come funghi al di fuori, e talvolta addirittura contro, il «nuovo» Prg. Tra i tanti, un caso che grida vendetta è quello della compensazione di Monti della Caccia in un’area sottoposta a vincolo paesaggistico e archeologico, collocata dal Piano in «zona N», dunque da destinarsi a verde pubblico e impianti sportivi.
Per continuare a costruire nell’impasse del Prg il sindaco ha detto sì, ma a due condizioni. Che ricorra l’«emergenza abitativa» e che si dia seguito alla «compensazione edificatoria» per risarcire chi è stato scippato di un terreno ricaduto in zone non edificabili come oasi, parchi etc. Nel primo caso soprattutto - si dice - tutti i complessi costruiti grazie alle varianti devono prevedere un tot di appartamenti a «canone concordato» per otto anni da destinare al Comune, che poi penserà a chi dare la casa. Un’operazione di facciata che non risolve il problema, perché la percentuale immobiliare prevista è minima (appena il 3 per cento delle case costruite) e perché alla scadenza del contratto il poveraccio torna in mezzo alla strada. Oltre a questo metteteci che contemporaneamente il Campidoglio consente e tollera che un esterno, tipo l’associazione dei no global-disobbedienti «Action», possa gestire a proprio piacimento il mercato degli appartamenti pubblici che di volta in volta si liberano in città, di fatto infischiandosene di chi in graduatoria era avanti avendo più titoli.
La non adozione del Prg, e il ricorso selvaggio a varianti d’ogni genere, ad oggi ha prodotto effetti indecenti sulla vita della Capitale anche perché Veltroni ha dato il via ai nuovi insediamenti al di fuori dei limiti imposti dal Piano Generale del Commercio e da quello del Traffico: soprattutto per quanto riguarda i nuovi centri della grande distribuzione, si doveva tener conto della loro localizzazione territoriale e delle infrastrutture necessarie (svincoli, grandi parcheggi di scambio) a garantire una adeguata viabilità. Non c’è bisogno di fare esempi, il Sindaco (e il cittadino romano) sa bene di cosa stiamo parlando.
Chi frequenta eddyburg conosce bene le critiche che oggi il giornale berlusconiano rivolge alla politica urbanistica romana dell’ultimo decennio: esse sono state puntualmente avanzate e documentate su queste pagine. Il Giornale ovviamente, dato il suo carattere partigiano, non accenna al fatto che il torto di Veltroni (e di Rutelli che lo ha preceduto) è di aver applicato a Roma i metodi e le attenzioni che sono stati proposti, predicati e praticati dalla destra a Milano e in Lombardia, e che la medesima destra ha tentato di applicare all’Italia con la cosiddetta Legge Lupi. Almeno a Roma non si è arrivati a casi così scandalosi come quelli raggiunti in Lombardia, con la "borsa del cemento" di Milano o con le squallide iniziative sostenute da leggi ad personam alla Cascinazza di Monza.
La speranza è che le critiche si siano fatte strada nella intelligenza del probabile futuro leader del Partito democratico, e che nel suo nuovo probabile ruolo si affidi a consiglieri migliori di quelli che lo hanno assistito a Roma.
L'intervento è stato tenuto in occasione del convegno: “Politiche culturali e tutela: dieci anni dopo Antonio Cederna”. Sull'iniziativa, che si è svolta a Roma, nella sede del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme, il 6 giugno 2007, occasione di ricordo di Antonio Cederna, ma anche di discussione sugli attuali problemi della difesa del patrimonio culturale e paesaggistico e sulla situazione dell'urbanistica italiana ed in particolare romana, v. su eddyburg
Il bel volume sulla figura di Antonio Cederna non solo ci restituisce un profilo di grande interesse, ma contiene anche un’indicazione di metodo che ritengo oggi particolarmente importante. Afferma infatti Maria Pia Guermandi nella sua introduzione che “ Sull’attualità di Cederna non tutti convengono…..Eppure il dibattito politico di questi ultimi mesi ha riproposto il tema del bene pubblico, dell’interesse generale …”.
La città appartiene certamente ai beni comuni. La storia delle città, il loro fascino e la loro bellezza è inscindibilmente legata al perseguimento del bene comune, ma dalla morte di Cederna ad oggi, il quadro delle culture e delle regole che sovrintendono alla trasformazione delle città è completamente mutato: è dunque importante prenderne atto criticamente per poter essere in grado di recuperare strumenti di lettura della realtà e di intervento adeguati ai tempi.
Il cambiamento epocale riguarda l’affermazione della cultura economicista nel governo delle città. Gli interventi urbani non vengono misurati in relazione degli effetti che provocano, ma esclusivamente riguardati sotto il profilo dell’aumento del reddito. Non era mai accaduto nella storia delle città. Gli interventi erano certo valutati anche sotto il profilo economico, ma senza mai dimenticare il contesto, le relazioni urbane e le più generali esigenze di benessere sociale. Le città appartenevano al “bene comune”.
Oggi questo orizzonte non esiste più e per rendersene conto basta fare pochi passi da qui ed arrivare a piazza Esedra. In uno dei rari concorsi per architettura che si sono svolti nella città (oggi vige la prassi dell’affidamento diretto alla star più in voga del mondo dell’architettura) Gaetano Koch vinse nel 1888 con il progetto che prevedeva due edifici simmetrici che riprendono il sedime delle terme di Diocleziano e che vennero coronati con due balaustre di travertino a chiusura delle terrazze praticabili.
Uno dei più importanti gruppi italiani del turismo internazionale, Boscolo, e non la classica figura dell’abusivo tanto diffusa a Roma, non ha trovato di meglio che chiudere la terrazza con una struttura in metallo e rivestimento plastico per ricavarne una piscina e dei locali. Un edificio storico è stato manomesso per ricavarne ricchezza. Aumentano gli utili del gruppo, il Pil nazionale aumenta ma la città, la ricchezza collettiva, perde di valore.
A nulla sono valse proteste e richieste di intervento dell’autorità comunale. La risposta era sempre la stessa: era un edificio degradato (cosa vera) e se si trova un imprenditore che se ne fa carico non bisogna guardare tanto per il sottile. C’era bisogno insomma di un “aiutino”, di poter aumentare la rendita immobiliare anche a scapito dell’integrità della memoria storica della città.
Questo fatto ci indica i tre elementi di novità con il periodo in cui Antonio Cederna denunciava le malefatte degli “energumeni del cemento”. Il primo è relativo alla cancellazione delle regole urbanistiche. Oggi le trasformazioni si attuano attraverso l’accordo di programma. Se prima con le procedure pubblicistiche dei piani regolatori si poteva conoscere in anticipo quanto sarebbe accaduto, svelarne gli effetti e denunciarne i pericoli, oggi con la nuova prassi veniamo a conoscenza dei nuovi intervento soltanto quando iniziano i cantieri edilizi. L’accordo di programma prevede soltanto la procedura di ratifica da parte dei consigli comunali. E la ratifica arriva in un momento in cui non è quasi più possibile opporsi o cambiare i progetti: prima di quel voto, infatti, si sono consolidati interessi e attività progettuali che è difficile contrastare in fase conclusiva.
Il primo impegno che deve essere dunque perseguito è quello del ristabilimento delle regole liberali, dei piani regolatori e della parallela abolizione dell’uso dell’accordo di programma come strumento per variare i piani urbanistici. Va in questa direzione la proposta di legge elaborata dagli amici di Eddyburg che sta iniziando l’iter parlamentare e che trovate nello straordinario sito di Edoardo Salzano ( www.eddyburg.it).
La seconda novità riguarda il mutamento dei caratteri dei bilanci comunali. A partire dal 1993, non solo i trasferimenti dello Stato verso le autonomie locali si sono ridotti in maniera consistente, ma si può affermare che oggi i comuni traggano le possibilità di vita dal comparto dell’edilizia. Pochi mesi fa la Provincia di Roma nel quadro delle elaborazioni per redigere il piano provinciale di coordinamento, ha diffuso i dati ufficiali sulle caratteristiche dei bilanci comunali. La tassa sugli immobili (ICI) rappresenta in media il 41% dei bilanci comunali con punte massime fino al 76% per i comuni minori.
Va sottolineato che queste somme servono esclusivamente per il normale funzionamento della macchina amministrativa, e cioè per il pagamento degli stipendi del personale e per i servizi. Quando i comuni devono investire in infrastrutture o per la realizzazione dei servizi –e l’arretratezza delle strutture comunali sta lì a ricordarci quanto sia importante questa esigenza- non possono oggi far altro che incrementare l’edificazione, promuovendo la serie interminabile dei programmi complessi che si fondano proprio sullo scambio ineguale tra pubblico e privato.
In buona sostanza, nuovi servizi e nuove infrastrutture si possono realizzare soltanto con i proventi derivanti dall’edilizia: un meccanismo perverso che deve essere invertito al più presto. Il secondo obiettivo dell’azione di chi ha a cuore i destini delle città e dei territori è dunque quello di tornare a bilanci comunali svincolati dalla rendita immobiliare e in grado di consentire ai comuni di risparmiare la risorsa suolo. Il terzo elemento che segna una novità rispetto al periodo di Cederna riguarda la progressiva opera di depotenziamento delle funzioni degli organi dello Stato preposti alla tutela, in primo luogo le soprintendenze. Si tratta di un’azione ben nota che ha riguardato provvedimenti legislativi e ostacoli al funzionamento della struttura. Francesco Scoppola ha scritto spesso su quest’ultimo tema: posso dunque limitarmi a ricordare che se non interverranno inversioni di tendenza -e non si vedono elementi che vadano in questa direzione- le soprintendenze si avviano verso una inarrestabile marginalizzazione.
Per quanto riguarda le difficoltà all’azione di tutela poste dal susseguirsi della legislazione, ricordo che l’ultima battaglia condotta da Cederna fu quella per la salvaguardia del comprensorio di Tormarancia. L’azione di denuncia da lui svolta sulla stampa e quella scientifica svolta per conto della soprintendenza archeologica da Carlo Blasi, Vezio De Lucia e Italo Insolera non avrebbe avuto successo se non fosse intervenuta l’apposizione del vincolo da parte della medesima soprintendenza. Oggi, con i mutamenti introdotti nella legislazione ciò non sarebbe più possibile. Emerge così la terza linea di azione che riguarda la ricostruzione delle funzione pubblica nel campo della tutela.
Ricostruzione delle regole urbanistiche, restituzione ai comuni della capacità di intervento sulle città, restituzione del ruolo alle strutture preposte alla tutela sono i tre grandi obiettivi per recuperare un’azione efficace di governo delle città e dei territori nella chiave della salvaguardia della memoria storica dei luoghi, come affermava Cederna.
E proprio a Roma, dove una sciagurata politica urbanistica sta portando alla cancellazione dell’agro romano, e cioè di quei luoghi di straordinaria stratificazone storica e archeologica, si può tentare di invertire la china. All’inizio degli anni ’90, l’allora soprintendente Adriano La Regina propose di costruire un provvedimento legislativo che consentisse la tutela della campagna romana, vista sotto l’inscindibile connubio di storia natura e archeologia. Credo che oggi dobbiamo riprendere quella proposta per arrestare la dilagante cementificazione. Dei 70 milioni di metri cubi di cemento che prevedeva il piano regolatore, almeno 50 sono stati realizzati o sono in corso di realizzazione attraverso l’uso dell’accordo di programma, nonostante il fatto che il piano non è stato ancora approvato. Altri 15 mila ettari di territorio agricolo sono stati cancellati e ormai la meta dell’immensa estensione della città (129.000 ettari) è occupata da asfalto e cemento. La campagna romana sta scomparendo: Cederna ne aveva fato una ragione di vita e dobbiamo oggi, nelle mutate condizioni, portare avanti la sua battaglia.
Che le grandi firme garantiscano la qualità della città futura, è un'idea che comincia a mostrare le prime crepe. Alberoni, tra gli altri, sul Corriere, annotava la stanchezza del pubblico per il protagonismo di architetture imposte dalla fama del progettista, nate per essere ammirate ma, spesso, inutili. La forma bella perché «necessaria» non ha bisogno di griffe: ammiriamo ancora oggi il disegno perfetto della bottiglietta del Campari pur avendo dimenticato che l'autore è il grande Depero.
Si potrebbe osservare, peraltro, che anche il progetto «dal basso» e democratico, vecchio mito della sinistra mai realizzato e forse irrealizzabile, non è una soluzione. E dunque, che fare? Forse, vale la pena di riflettere, con sano realismo, su alcuni esperimenti romani di coinvolgere nel disegno della città almeno alcune delle forze in gioco: tecnici, istituzioni, rappresentanze dei cittadini, imprenditori.
Nei concorsi, ad esempio, per il riuso delle aree delle ex rimesse Atac a piazza Bainsizza e a Porta Maggiore, le università hanno eseguito gli studi preliminari, un buon numero di progettisti proporrà le linee guida dell'intervento, mentre il progetto finale sarà scelto attraverso una competizione alla quale parteciperanno, insieme, architetti ed imprese. Le quali saranno costrette, in qualche modo, ad innalzare la qualità dei loro cantieri, rimasta spesso ferma agli anni '70. Una strada difficile, fatta di successivi contributi, dove la sintesi artistica non è generata da folgoranti intuizioni, ma è l'esito di un processo, l'incontro del molteplice. E i primi risultati sembrano dimostrare la validità del metodo. Lo testimonia l'esperimento di maggior respiro fino ad ora tentato in questa direzione: i progetti «partecipati» eseguiti dai dipartimenti della Sapienza per le proprie sedi, che saranno in mostra da domani nelle sale del Rettorato. Il disegno della nuova sede per facoltà umanistiche nel futuro campus di Pietralata, progettata dal Dipartimento di Architettura e Costruzione, ne è un campione significativo. Raccolta intorno ad una grande piazza coperta, dominata dal monolite della biblioteca attorno a cui si avvolge la luce che scende dalla copertura vetrata, l'opera trasmette il messaggio di una comunità scientifica moderna e vitale. Un'immagine immediata che pure deriva dal paziente raccordo tra bisogni e interessi diversi, lunghi incontri con i rappresentanti del V Municipio, confronti tra progettisti di disparate tendenze che non impediscono al disegno di arrivare ad una propria, serena identità espressiva. I valori civili che il progetto trasmette, la vita che s'immagina nell'edificio, per una volta sono più importanti della personalità dell'autore. Roma sembra riscoprire che, anche in architettura, la vita, quella vera, non è una sfilata di moda.
Nota: sul tema, notoriamente più ampio e complesso, della partecipazione, qui su Eddyburg una completa Visita Guidata a cura di Carla Maria Carlini (f.b.)
C’È UN DISPERATO bisogno di casa a Roma e nel Lazio. Le cifre appena comunicate dalla Regione al governo ne fotografano l’effettiva dimensione oggettiva. Par-
lano di un fabbisogno regionale di oltre 45mila alloggi. Una vera e propria emergenza sociale che ogni giorno produce storie di nuova marginalità e il cui epicentro è a Roma e provincia, dove il fabbisogno è di oltre 42mila case.
Per invertire la rotta, il governo dovrà varare - secondo la Regione - un piano casa nazionale che per il Lazio preveda un investimento di circa 4,5 miliardi di euro. Così si legge nella delibera approvata ieri per definire il fabbisogno regionale che sarà ora trasmesso ai ministeri delle Infrastrutture, della Solidarietà Sociale e delle Politiche per la Famiglia.
A quella cifra si arriva prendendo il costo medio di una casa poplare e moltiplicandolo per il bisogno di case indicato da ciascuno dei 79 comuni del Lazio. Solo l’area romana, tenendo conto anche dei Comuni della provincia, ha indicato un fabbisogno di 42.369 alloggi, A cui si aggiungono i 3.439 necessari a far fronte all’emergenza abitativa anche nei comuni delle province di Frosinone, Latina, Rieti, Viterbo.
Era stato lo stesso governo Prodi, all’indomani del varo della legge 9, a chiedere a Comuni e Regioni una stima esatta del fabbisogno abitativo, in base al quale elaborare un nuovo Piano casa nazionale dopo quello definito da Fanfani alla fine degli anni Cinquant.a
Perciò, in Regione si sottolinea l’importanza di questo primo passo che il presidente Piero Marrazzo saluta come un «ritorno alla politica di concertazione».
Al di là delle cifre indicate dai singoli comuni, «il dato è politico», spiega l’assessore ai Lavori Pubblici e alle Politiche abitative Bruno Astorre: «Se non si fa un poderoso programma di interventi a livello nazionale, gli interventi decisi a livello locale rischiano di essere solo un tampone». Astorre li elenca: 100 milioni destinati alla realizzazione di nuove case popolari, 100 per le ristruttrazioni, 220 milioni per l’edilizia sovvenzionata.
«La delibera estituisce una fotografia realistica della situazione del dramma casa nella nostra regione», osserva il presidente della competente commissione regionale Giovanni Carapella: «Per il 93% la richieste viene dal Comune di Roma e dai comuni della sua Provincia. La tracimazione della popolazione romana oltre il Gra verso e dentro i Comuni della Provincia registrata negli andamenti demografici degli ultimi 5 anni, giustifica e conferma questi dati».
Intanto è stato approvato dalla giunta capitolina il programma di realizzazione di 35 piani di zona. Prevede la realizzazione di più di seimila nuove abitazioni, di cui almeno il 30 per cento in affitto, seguite da servizi e infrastrutture viarie in dieci diversi municipi della città. Una prima attuazione del piano che si propone di realizzare a Roma 20mila alloggi entro il 2011. «Un contributo importante per calmierare i costi, aumentare l'offerta degli alloggi in affitto e realizzare nuovi quartieri puntando sulla qualità», osserva l’assessore ai Lavori Pubblici Giancarlo D’Alessandro.
L’agro romano è a rischio di estinzione, si legge in un documento sottoscritto da un centinaio di archeologi, architetti e funzionari della Sovrintendenza archeologica di Roma. Quel documento è una lettera-appello al ministro per i Beni e le attività culturali Francesco Rutelli e trae spunto proprio dalle prese di posizione del ministro in favore di una tutela del paesaggio italiano in quanto deposito di valori non solo naturali, ma anche storici, cioè prodotti dall’uomo.
Accade spesso di sentir parlare del paesaggio come pura categoria ideale, anzi come semplice effetto della percezione, come se i suoi valori fossero puramente immateriali, per cui ognuno si costruisce il proprio paesaggio, con un’operazione mentale. E invece il paesaggio ha una sua concreta rappresentazione nella struttura del territorio. E l’elemento che caratterizza il paesaggio italiano in genere, e che rappresenta il suo vero valore è proprio il fatto di essere un paesaggio fortemente antropizzato, cioè segnato dalla mano dell’uomo. E a seconda delle zone d’Italia la mano dell’uomo ha definito assetti del territorio che rendono riconoscibili i luoghi, perché li fanno uno diverso dall’altro. La campagna toscana è diversa da quella siciliana non solo per la conformazione del terreno, ma anche per le tradizioni colturali, perché in Toscana prevale la coltivazione dei vigneti o dell’ulivo e gli appezzamenti di terreno sono (purtroppo forse erano) di dimensioni ridotte e quindi il paesaggio ne è condizionato e perché, invece, in Sicilia prevale la grande estensione coltivata a grano, con queste immense distese pianeggianti.
Anche l’agro romano ha le sue specificità, e naturali e definite invece da secoli di attività umane. Una delle caratteristiche fondamentali che lo rendono riconoscibile è questo intersecarsi diffuso di natura e di storia antica, di qualità della vegetazione e di evidenze archeologiche che trovano forse la loro esemplarità nei tremilacinquecento ettari del Parco dell’Appia Antica. L’agro romano non è solo la cornice che avvolge Roma, quasi lo sfondo neutro in cui si situa la città. E’ invece un contesto che attribuisce alla città un di più di significati. Non sarebbe pienamente riconoscibile la città di Roma senza l’interazione costante fra l’edificato e l’inedificato.
Ecco questo patrimonio è a rischio. Basta gettare lo sguardo su qualche cifra. Nel 1951 Roma era edificata su 6 mila ettari, per arrivare a questa dimensione la città ha impiegato grosso modo duemilacinquecento anni. Gli abitanti erano un milione e seicentomila. Nel 2001, cinquant’anni dopo, si è arrivati a più di 41 mila ettari, sette volte di più del 1951. Ma la popolazione si è assestata sui 2 milioni e mezzo. Non è neanche raddoppiata. E inoltre, mentre dal 1951 la popolazione è cresciuta molto arrivando a toccare nel 1981 i 2 milioni e ottocentomila, dall’81 in poi è sempre calata.
E’ un evidente paradosso. L’edificato di una città cresce quasi indipendentemente dalla crescita della popolazione. E’ vero che una città si sviluppa anche perché si moltiplicano le esigenze di lavoro e quindi nascono fabbriche, stabilimenti e altre strutture produttive; oppure aumentano le esigenze di spazi per lo svago, la cultura: ma è questo il caso di Roma? E poi proviamo a vedere se le cose negli ultimi tempi si sono modificate. Dal 1991 al 2001, stando ai dati del censimento, Roma ha perso 180 mila residenti. Ma il Piano regolatore della città, recentemente approvato, prevede altri 65 milioni di metri cubi di costruzioni - case, stabilimenti, uffici, ma soprattutto case in cui dovrebbero andare ad abitare circa 300 mila persone. Se si dovessero attuare le previsioni del Piano regolatore, si legge sempre in quel documento dei funzionari della Sovrintendenza, Roma passerebbe da 41 mila ettari di edificato a 56 mila. Cosa vuol dire? Vuol dire che altri 15 mila ettari di agro romano andranno perduti. E’ vero che il territorio comunale di Roma è il più grande d’Italia e arriva a 129 mila ettari, ma è vero anche che il ritmo dell’espansione non si è arrestato e non si arresta. E poi, passando dalle cifre all’osservazione empirica, basta fare un giro per vedere come sono combinati queste decine di migliaia di ettari che teoricamente dovrebbero essere integri per osservare una miriade di piccoli insediamenti diffusi, case sparpagliate, attività economiche e commerciali ecc.
La verità è che a Roma si costruisce a ritmo forsennato. D’altronde sono le stesse autorità cittadine a sostenere con una punta d’orgoglio che i tassi di crescita dell’economia romana sono superiori a quelli medi italiani, quasi del doppio. E di questo ovviamente non è possibile non rallegrarsi. Poi si va a verificare qual è la natura di questa crescita e si scopre che i tre cardini di essa sono l’edilizia, il commercio e il turismo.
L’edilizia cresce in tutta Italia. Stando ai dati citati recentemente da Vittorio Emiliani, ogni anno si perdono in Italia 380 mila ettari di suolo agricolo. Noi produciamo una quantità di cemento pro-capite che è più del doppio di quella tedesca. E Roma è all’avanguardia di questo processo: proviamo a fare un giro sul raccordo anulare, partendo dalla Bufalotta, estremo nord della città, passando per la Tiburtina, la Magliana, Fiumicino e poi tornando alla Bufalotta per rendersi conto che uno degli elementi cospicui del paesaggio dell’agro romano sono le gru, che hanno ormai trasformato lo sky-line della città.
L’agro romano rischia e rischia di brutto. Rischiano i suoi luoghi di pregio e rischia in generale tutto il suo tessuto. Ma oltre a questo incombe un altro pericolo: quello di costruire una città che sarà sempre più faticosa da vivere, che produrrà sempre più affanno e stress. Si parla molto del ritorno a Roma degli architetti, si legge di questa o di quell’altra archistar che ristrutturerà uno stabilimento dismesso, che allestirà un museo o che costruirà una piscina olimpionica (poi si scopre che le per le olimpiadi si tornerà a usare il vecchio e glorioso Foro Italico, sperando di lasciarlo integro). Nessuna avversione per l’architettura moderna. Antonio Cederna non ne aveva nessuna, a patto che non mettesse le mani nei centri storici e che invece si cimentasse con la costruzione di una vera città moderna, senza rincorrere le direttrici speculative, come si faceva in molte capitali d’Europa, da Londra a Stoccolma, da Copenhagen ad Amsterdam, che potevano sfoggiare quartieri di edilizia pubblica che Cederna ammirava come capolavori di qualità urbana. Il problema è che a Roma si costruisce in luoghi dove non arriveranno mai i servizi pubblici su rotaia, in luoghi che le pubblicità descrivono come immerse nel verde, silenziose, sfruttando proprio quelle qualità della campagna romana che nel frattempo si distruggono. Sviluppandola in questo modo la città si disarticola, si spappola sul territorio e si trasforma in un organismo sempre più a misura di auto privata: non è per caso che a Roma siano immatricolate quasi 80 macchine ogni cento abitanti, comprendendo fra i cento abitanti anche i neonati e i ragazzi fino a diciott’anni. La macchina diventa il mezzo di trasporto privilegiato, provoca congestione e inquinamento. Serve ad andare in centro oppure a spostarsi da una periferia all’altra. Mentre il centro storico si svuota sempre più di residenti e si avvia a diventare solo un luogo che attrae per lavoro o per divertimento, un luogo per ministeri, uffici, studi professionali e un luogo solo per masse incontrollate di turisti, che producono una mutazione irrimediabile del suo aspetto fisico. I dati di questo esodo li ha più volte citati Paolo Berdini, che ha dimostrato come ad essere svuotati non sono solo i quartieri dentro le Mura, ma anche i quartieri novecenteschi e persino quelli del secondo dopoguerra. Tutta gente che va a vivere nelle Roma 2, Roma 3 e Roma 4 e che ogni giorno prende la macchina per venire in centro e la riprende la sera per tornarsene a casa.
Ben vengano gli architetti a progettare spazi pubblici e luoghi di cultura. Ma intanto a Roma ci sono già 22 grandi centri commerciali e, stando alle denunce delle associazioni dei commercianti, se ne autorizzano ben 4 ogni anno. Non vorrei che Roma scontasse il paradosso di chiamare grandi progettisti, ritrovandosi però con una selva di ipermercati. Inoltre, accusano sempre le associazioni dei commercianti, i centri commerciali proliferano anche grazie alle norme adottate per la riqualificazione delle periferie, in particolare delle aree dove sono sorti insediamenti pubblici, gli articoli 11. Provvedimento sacrosanto in teoria, perché si portano servizi laddove non ci sono mai stati e si ricollegano questi quartieri alla città. Il problema è che si costruiranno asili o centri per gli anziani non sfruttando le aree già espropriate che sono in quei quartieri, dove tantissimo è lo spazio sprecato (centinaia e centinaia di ettari, stando ai calcoli di Giovanni Caudo), ma in cambio della concessione a privati di licenze per costruire a loro volta altre case. Nasce così la tortuosa vicenda di Colle della Strega.
Le domande che sorgono a questo punto sono: ma perché si costruisce tanto? per chi si costruisce tanto? Ho citato Cederna: in effetti se si vanno a leggere le sue pagine, sebbene risalgano anche a cinquant’anni fa, una risposta la si trova. Cederna ebbe la fortuna (per un giornalista questa è una fortuna) di raccontare l’Italia proprio a partire da quel 1951 in cui prendeva il via quella spaventosa trasformazione che avrebbe sfigurato i suoi connotati. Ed ebbe la bravura di non limitarsi a raccontare l’Italia che vedeva modificarsi sotto i suoi occhi, ma di cercare le cause. Rispondendo a quelle domande: perché si costruisce tanto e per chi?
Il meccanismo che agli occhi di Cederna regola questa trasformazione devastante è di diversa natura. Culturale, intanto: l'Italia è un paese in cui la consapevolezza della qualità del proprio patrimonio non è adeguata all'entità e alle valenze di esso. Economica, in secondo luogo: in Italia la rendita pesa moltissimo, e la rendita fondiaria e immobiliare, in particolare, assorbono tante risorse che altrimenti sarebbero destinate a un più corretto sviluppo (non è difficile leggere le denunce di Cederna sul Mondo contro la Società Generale Immobiliare, che a Roma possiede milioni di metri quadrati, incrociandole con gli interventi che sullo stesso settimanale pubblica Ernesto Rossi contro i monopoli). Politica, infine: una buona parte della politica non intende né progettare né regolare l'assetto di un territorio, è come inibita dalla forza che esprimono il mondo dell'edilizia e della rendita e si adegua ai suoi desideri, convinta che nel possesso di un suolo sia in qualche modo iscritta la possibilità di una sua trasformazione in senso cementizio e che questa possibilità vada al massimo contrattata, mitigata, ma non condizionata dalla tutela di interessi generali. Negli anni Cinquanta, scrive Cederna, si costruisce dove e come si vuole purché lo esiga chi possiede un suolo. Non si costruisce perché c'è bisogno, o almeno non solo per questo, ma perché c'è qualcuno che ha la forza di imporlo.
Queste tre condizioni restano sostanzialmente inalterate nella storia italiana dagli anni Cinquanta a oggi. Vi sono stati periodi in cui, anche a Roma, si è tentato di regolare l’attività edilizia, legandola alla necessità vera di costruire case e a quella di far crescere la città in maniera corretta, tutelando il centro storico e governando rigorosamente lo sviluppo dei nuovi quartieri. Ma sono state delle parentesi, come quella controversa quanto si vuole, ma almeno sostenuta da un’idea forte, dell’edilizia popolare, una parentesi che sembra chiusa per sempre. Sappiamo quante case invadono l’agro romano, deturpandolo e consumando suolo pregiato. Sono case costruite da privati su suoli privati, che costano anche sei, settemila euro a metro quadrato. Le case si costruiscono, ma il problema dei senzacasa resta inalterato e anzi va aggravandosi sempre di più: nella città che dilaga con il suo cemento sui paesaggi raccontati da Goethe e da Chateaubriand sono censite ben trentamila famiglie che una casa non ce l’hanno e non se la possono permettere.
Duecentomila anziani in condizione di fragilità economica o sociale. Quarantamila di loro ormai non sono più, in parte o del tutto, autosufficienti. Più di quattromila minori stranieri non accompagnati censiti tra il 2004 e il 2006. Decine di migliaia di persone che vivono sotto l’incubo dell’emergenza abitativa: tredicimila quelli accolti in residence o strutture del Comune, 4.290 in villaggi rom attrezzati, 42.500 destinatari di un sostegno all’abitare. E centinaia di migliaia di immigrati, di cui 230 mila solo quelli regolarmente residenti nel Comune di Roma. Numeri di una grande città, che «come e più di altre aree metropolitane» si trova «ad affrontare problematiche sociali che si manifestano spesso in modalità e dimensioni particolari», racconta il sindaco Veltroni nella sua lettera ai ministri. Inviata a nove ministri per proporre, a partire da Roma, un «patto sulle questioni sociali simile a quello concordato, sui temi della legalità, con il Ministro dell’Interno». A suggerirla le emergenze del paese riflesse nei problemi quotidiani di una città in cui i servizi del Comune raggiungono 150 mila anziani, ma che conta 577.973 abitanti sopra ai 65 anni e almeno 200 mila in condizioni di fragilità. Affetti da alzheimer o da forme di demenza - circa 22 mila -, in condizioni di precarietà abitativa - 3 mila, secondo le stime del Comune, sono sotto sfratto o convivono forzatamente con altri familiari -, circa 30 mila vivono con una pensione minima. Mentre 36 mila sono i minori che hanno bisogno di sostegno e che sono stati raggiunti in qualche modo dal Comune.
A Roma in dieci anni sono state emesse 40 mila sentenze di sfratto per morosità. Un numero che dà l’idea di quanti non riescono a pagare l’affitto. Molti di loro però non hanno accesso alla graduatoria per le case popolari che conta tra i 31 mila in attesa 2.787 già sfrattati e 3.379 con sfratto esecutivo, tutti con un reddito inferiore ai 20 mila euro. Solo nel 2005, le richieste di esecuzione di sfratto sono state più di 10 mila e gli sfratti eseguiti con la forza pubblica 2.872.
Numeri che Caritas e Comunità di Sant’Egidio conoscono bene. E per questo appoggiano la proposta del «patto sociale» che piace anche alla sinistra radicale. «Ora spetta al governo rispondere adeguatamente a questa sollecitazione», plaude a Veltroni anche il segretario cittadino del Prc, Smeriglio.
Durerà un po' più dello spazio d'un mattino le denuncia/proposta del Sindaco di Roma e candidato alla leadership dell'Ulivo? Speriamo di si. E speriamo magari che qualcuno si ricordi del modo e delle ragioni per cui furono smantellati gli strumenti costiituiti quando al welfare state nella città e nel territorio ci si credeva, quando il ruolo dello stato (della Repubblica, Res Publica) era ritenuto essenziale e centrale per risolvere i problemi che il mercato continuava ad aggravare, quando si formò (certo faticosamente, certo incompletamente, certo drammaticamente, tra scioperi generali e iniziative legislative a sinistra e bombe a destra) quel complessso di strumenti per la costruzione di alloggi nuovi depurati dalla rendita (il Peep), per il recupero guidato del patrimonio abitativo esistente, per il controllo dell'offerta privata con l'equo canone. Strumenti che avvicinavano alla realtà il principio della "casa come servizio sociale" o, come meglio diremmo oggi, come diritto comune che a tutti deve essere garantito.
Non ha probabilmente senso oggi riproporre quegli strumenti. Ma certo ha senso riproporre i principi che erano alla loro base: principi che l'egemonia del neoliberismo ha incrinato dove non ha potuto distruggere. E ha senso domandarsi quanto siano compatibili con quei principi le politiche di favore alla rendita immobiliare che la stragrande maggiorabza delle città italiane stanno allegramente praticando . A cominciare - non possiamo tacerlo - dalla Capitale.
Qui alla postilla.
Corriere della Sera, ed. Roma, 3 maggio 2007
«Troppa ostilità verso i Verdi» Bonelli contro il Pd regionale
di Alessandro Capponi
La vicenda di Colle della Strega s'è risolta - articolo 11 di Laurentino 38 approvato con una memoria di Giunta che impegna Marrazzo a trovare una delocalizzazione per i settantamila metri cubi previsti in quell'area che sarà inserita nell'ampliamento del Parco dell'Appia Antica - ma l'«insofferenza» rimane. I Verdi, per voce di Angelo Bonelli, capogruppo alla Camera ed ex assessore all'Ambiente del Lazio, adesso dicono chiaramente che «Marrazzo e la sua Giunta devono recuperare il ruolo di sintesi che avevano all'inizio, noi Verdi siamo stati sempre responsabili ma non possono chiederci di modificare il nostro dna, di rinunciare alla nostra identità». Manda messaggi a Marrazzo, al nascente Partito democratico, a quelle forze di governo regionale che hanno i numeri per governare «solo grazie al trasformismo politico, ai tanti che dal centrodestra sono passati di qua». In sintesi: in regione, «c'è un problema politico serio».
Bonelli, cosa c'è che non va nella coalizione che sostiene Marrazzo?
«L'impressione è che quello che possiamo ormai chiamare Partito democratico abbia come strategia la marginalizzazione della coscienza critica ambientalista. Anche se, ufficialemente, il Pd si dice ambientalista...Nei fatti, però, come nel caso di Colle della Strega, sembra il contrario. Anche se arrivasse al 28 per cento dei voti, l'altro 22 come lo ottiene?
Ecco, il Partito democratico farebbe bene ad avere un atteggiamento meno egemonico e più attento».
C'è un presidente a garanzia della sintesi della coalizione, no?
«Questo Marrazzo e la sua Giunta l'hanno fatto all'inizio, adesso devono recuperare quello spirito, appunto: quel ruolo di sintesi. Non si può chiedere ai Verdi di rinunciare a tutto, anche perché sui temi e sui valori che noi difendiamo altre forze politico si mettono continuamente di traverso...».
Bonelli: quali forze? A quali provvedimenti si oppongono?
«Solo per fare un esempio: la Margherita sulla legge per difendersi dall'Elettrosmog. Anzi, registriamo l'ostilità, diciamo così, di ampie aree del Partito democratico. Si tratta di provvedimenti ambientali che sono lì, in giacenza, in commissione. Per non parlare dell'allargamento del Parco dell'Appia Antica, che è stata una vicenda inaccettabile e quasi incomprensibile. Per non parlare dei riufiuti, tema del quale ci limiteremo a dire che l'interesse economico è molto forte. Ecco, il punto è che noi Verdi non abbiamo poltrone o posti o interessi da difendere: noi difendiamo solo valori, non ci chiedano di rinnegarli, perché noi ci consideriamo sì i migliori alleati di Marrazzo e l'abbiamo dimostrato con un atteggiamento responsabile, però...».
Però siete pronti a uscire dalla Giunta?
«Sono formule, quelle minacciose, che non ci appartengono. Noi diciamo una cosa più semplice: se sarà rispettata la nostra identità, faremo ancora molta strada con questa coalizione..In Regione è possibile fare a meno di noi e Rc solo grazie al trasformismo politico di tanti che dal centrodestra sono passati di qua»
Corriere della Sera, ed. Roma, 4 maggio 2007
Milana ai Verdi: «I vostri no fanno crescere il cemento»
di Alessandro Capponi
«I Verdi dei Municipi, quelli al Comune e quelli alla Regione dicono tre cose diverse sullo stesso argomento. E ovviamente i Verdi del Lazio dicono anche cose diverse dai Verdi della Toscana. Il loro ambientalismo serve a fare favori agli amici ma poi moltiplica le cubature in giro per la città. Scaricano sulla coalizione l'impossibilità di fare sintesi delle loro diverse posizioni, e la paralizzano. Ma su questioni come l'urbanistica, Marrazzo deve tenere la barra a dritta». Il segretario romano della Margherita, Riccardo Milana, torna sull'intervista al capogruppo dei Verdi alla Camera, Angelo Bonelli, pubblicata ieri dal Corriere. Dl e Verdi si sono ritrovati distanti sulla vicenda di Colle della Strega, e da quella, ieri, Bonelli è partito per criticare l'atteggiamento «che mira all'egemonia del Pd, della Margherita che blocca alcuni provvedimenti ambientalisti».
Alleati, dunque, almeno ufficialmente, perché a sentirli parlare non si direbbe.
Milana, Bonelli ha parlato espressamente della Margherita, dice che bloccate alcuni provvedimenti ambientalisti.
«Oltre che fuori luogo, le sue dichiarazioni mi sono sembrate incomprensibili. Su Colle della Strega, per cominciare: la Regione, ieri, ha di fatto votato l'edificazione di quei settantamila metri cubi; poi, sempre la Regione, ha votato un atto di indirizzo politico con il quale si impegna Marrazzo a delocalizzarli. Sapete cosa significa? Che quei metri cubi diventeranno duecentomila, in un'altra zona. Evidentemente, c'era qualche amico dei Verdi che non gradiva quelle edificazioni, e così adesso, in nome di questa politica pseudoambientalista, lo spazio per i costruttori sarà triplicato in un altro quartiere. È stato così anche in passato: invece di costruire un milione di metri cubi a Tor Marancia, ne costruiremo tre e mezzo altro. E questo sarebbe il loro ambientalismo?».
Veniamo a ciò che diceva Bonelli: la Margherita alla Regione lascia in giacenza la legge contro l'elettrosmog.
«Non mi risulta, ma siamo disponibili a parlarne. Il punto, però, è che discutere con i Verdi non è semplice: nei Municipi dicono una cosa, al Comune un'altra, in Regione un'altra ancora. Il problema è che sono preda di spinte localistiche, di amici e comitati ora di un quartiere ora di un altro: e così non hanno una linea comune. Ma in politica non bisogna salvare il proprio orticello...».
In verità, Milana, Bonelli sostiene che è il Partito democratico a puntare all'egemonia, a voler marginalizzare i Verdi e le altre forze non espressione del riformismo.
«I Verdi non fanno bene né a loro stessi, né al centrosinistra, né alla città né alla Regione: sono attenti agli amici invece che agli interessi generali. E siccome il Pd è il partito del fare, dell'agire, non rimanda questioni per decenni, allora, guardandola da questo punto di vista, è normale che i Verdi siano preoccupati».
Ma è vero o no che in ambito regionale i Verdi rischiano di essere marginalizzati?
«No, è falso. Anzi, su questioni importanti come l'urbanistica, invito Marrazzo e l'assessore Pompili a tenere la barra a dritta».
Vuol dire: non ascoltare le spinte ambientaliste?
«Ma quale ambientalismo è quello che triplica le cubature ad ogni delocalizzazione? Un ambientalismo che sta consegnando pezzi di città alla speculazione, questo è. Noi ci atteniamo a ciò che è scritto, preferiamo fare settantamila metri cubi a Colle della Strega piuttosto che duecentomila chissà dove. Ma una cosa è certa: quando sarà individuata l'area dove costruire, arriverà un altro comitato di quartiere dei Verdi che chiederà di spostare tutto un'altra volta. Ecco, voglio dirlo chiaramente: basta con questo finto ambientalismo, i Verdi siano una forza coerente, si sporchino le mani, e siano, come noi, attenti agli interessi generali e non a quelli degli amici...».
Il breve botta e risposta tra gli onorevoli Bonelli e Milana sopra riportato evidenzia meglio di tanti ragionamenti il baratro in cui è caduta l’urbanistica (si fa per dire) romana. L’argomentazione con cui Milana risponde alle sacrosante esigenze di tutela del territorio e dell’ambiente di Bonelli, è infatti inoppugnabile. “Delocalizzare settantamila metri cubi a Colle della Strega significa che diventeranno duecentomila in altre zone”.
E’ vero, lo stiamo inutilmente denunciando da anni, la “compensazione urbanistica” è un istituto che incrementa la dissipazione del territorio. Triplica le cubature da realizzare perché avviene sulla base di una sotterranea trattativa rigorosamente privata. Il fatto scandaloso è che si vuol far credere che siano le ragioni della tutela a provocare la devastazione del territorio. E’ chi resiste agli energumeni del cemento a causare scempi!
Come si è arrivati a questa vergognoso ribaltamento della realtà è presto detto: l’urbanistica romana ha stabilito che esistono “diritti edificatori” a prescindere dalle leggi e di una prassi pluridecennale. Qualsiasi previsione di piano, anche la più immotivata e arbitraria come quella di Colle della Strega diventa un “diritto” da trasferire nel caso che non venga realizzata.
E proprio il caso di Colle della Strega è la più scandalosa denuncia a carico dell’involuzione culturale dell’urbanistica capitolina. Lo straordinario comitato di quartiere ha infatti dimostrato con atti inoppugnabili che la previsione edificatoria introdotta con uno dei tanti strumenti dell’urbanistica contrattata -formalizzata ovviamente attraverso accordo di programma- ricadeva su aree vincolate ai sensi della tutela paesistica.
Anche gli azzecacarbugli sanno che le previsioni edificatorie su aree vincolate non danno luogo ad alcun diritto. Ma a Roma vige un’altra legge e quelle previsioni illegittime diventano tre volte più grandi. E’ il sacco urbanistico.(P.B.)
Gli archeologi della Soprintendenza al Ministro Rutelli: "salviamo la campagna romana"
Francesco Erbani – la Repubblica, 24 aprile 2007
Un appello a Francesco Rutelli perché sia tutelato il paesaggio dell´agro romano. In una lunga lettera al ministro dei Beni culturali, un centinaio di funzionari della Soprintendenza archeologica della capitale chiede che sia salvaguardato il patrimonio storico illustrato da schiere di vedutisti e celebrato da Goethe, Stendhal e Chateaubriand. Quel paesaggio, che racchiude ricchissime testimonianze antiche, è ora oggetto di «appetiti speculativi», scrivono archeologi come Rita Paris, che dirige Palazzo Massimo e tutta l´Appia antica, Maria Antonietta Tomei, che ha la responsabilità del Museo delle Terme, Matilde De Angelis e Alessandra Capodiferro, che guidano Palazzo Altemps, Livia Irene Iacopi, cui spetta la tutela dei Fori e del Palatino, e Roberto Egidi, che cura il Suburbio. Nell´appello, sottoscritto anche da architetti e assistenti di scavo, si sostiene che la campagna intorno a Roma «appare oggi quasi completamente cancellata nei suoi originari caratteri, deturpata e svilita da un´urbanizzazione incontrollata e sparsa a macchia d´olio».
Il nuovo Piano regolatore della città, scrivono i funzionari della Soprintendenza, poteva essere un´occasione per porre rimedio a questo consumo di suolo pregiato. E invece esso «riduce ulteriormente l´agro romano e porta la superficie urbanizzata da 41 mila a 56 mila ettari circa». A Rutelli si chiede di intervenire «per rafforzare la competenza dello Stato per la tutela del paesaggio e in particolare del paesaggio archeologico, rendendo obbligatorio e vincolante il parere delle Soprintendenze».
Un allarme sulla sorte della campagna romana (un territorio vastissimo: il Comune di Roma è grande 129 mila ettari) viene anche da un convegno di Italia Nostra dedicato ad Antonio Cederna. L´associazione chiede che si crei «un fondo nazionale per l´acquisizione al demanio indisponibile delle aree della campagna romana a rischio». Al convegno è intervenuto Walter Veltroni, che ha difeso l´operato della sua giunta. «Roma», ha detto il sindaco, «è una città che cresce ma non stravolge se stessa. In questi anni la capitale si è trasformata da città semi-morta dei ministeri a città viva. Tutto questo investendo sul bello, sul ritorno dell´architettura contemporanea e insieme mantenendo l´intensità che le deriva dalla sua storia».
Pincio, Veltroni al contrattacco "Il parcheggio verrà realizzato"
Carlo Alberto Bucci - la Repubblica, ed. Roma, 24 aprile 2007
In nome di Antonio Cederna, non un dibattito accademico a dieci anni dalla morte del grande ambientalista che combatté contro il sacco di Roma. Ma - ieri, ai musei Capitolini - uno confronto schietto, uno scontro aperto, tra "Italia nostra" e il sindaco Walter Veltroni. Il parcheggio del Pincio e il Museo del giocattolo a villa Ada, i punti caldi del contendere. Con la cronaca della lotta dei cittadini di Colle della Strega per fermare il via alla cementificazione che irrompe nella sala Pietro da Cortona. E con, come corollario al dibattito, le richieste del Comune al governo di finanziare il proseguimento della Metro C sulla Cassia e fino al Gra; e l´appello, per voce di Oreste Rutigliano, vicepresidente dell´associazione ambientalista fondata nel 1955 da Cederna e altri, di creare un fondo nazionale per salvare torri, ponti, casali in rovina dell´Agro romano.
«Seguire l´insegnamento di Antonio Cederna vuol dire anche essere scomodi» ha rivendicato Annalisa Cipriani aprendo i lavori della giornata su La legge per Roma Capitale, l´articolo 1, organizzata da "Italia nostra". Che, nel presentare il documento d´intenti in cui si punta a rivitalizzare la legge del 1990, ha ribadito il suo «no» sul Pincio, a causa delle «alterazioni che sicuramente quel sito storico subirà per i lavori del parcheggio sotterraneo». Immediata la replica di Veltroni, secondo relatore del convegno, che, dopo aver tratteggiato il profilo di Cederna «ambientalista moderno perché capace di coniugare tutela e crescita economica», ha bollato come «conservatrici» le richieste di stop al progetto sul Pincio. «È l´operazione più importante della storia urbanistica di Roma perché consentirà di togliere le auto dal Tridente e da Villa Borghese. Certe posizioni conservatrici - ha sottolineato - finiscono per condurre la città al degrado e io le contesterò». Decisa anche la difesa di Veltroni dell´ipotesi di un museo nelle «scuderie abbandonate di Villa Ada», dalle critiche di chi «vorrebbe restasse tutto così» (ma secondo Adriana Spera, capogruppo di Prc in Campidoglio, «il primo progetto si limitava giustamente a recuperare le scuderie mentre quello attuale prevede la grave costruzione di nuove cubature nella villa storica»).
La richiesta del sindaco al governo «di finanziare la Metro C sotto la Cassia» (un costo, in 10 anni, di 1230 milioni, 4 dei quali messi dal Comune), ha trovato d´accordo il deputato diessino Walter Tocci: «Ci si deve pensare assolutamente, fin dalla prossima Finanziaria». Più scettico il viceministro all´Economia, Vincenzo Visco («i fondi sono pochi, le richieste tante, il problema è decidere le priorità ...»), interessato soprattutto alle potenzialità delle dismesse caserme romane: «Castro Pretorio potrebbe diventare il campus della Sapienza».
Infine, Colle della Strega. Lo sciopero della fame dei residenti è stato applaudito da "Italia nostra". E in serata è arrivato l´appello dei Verdi. La senatrice Loredana De Petris e il portavoce alla Camera Angelo Bonelli hanno chiesto di stralciare l´edificazione dell´area verde dal piano di recupero urbano del Laurentino, oggi in approvazione alla Regione.
Con questo slogan beffardo si è scelto d'inaugurare lo scorso 31 marzo uno dei più grandi shopping center d'Italia. Una nuova cattedrale del consumo innalzata per ospitare 220 negozi, un cinema multisala, vari punti ristoro delle più famose catene multinazionali, un ipermercato e 7.000 parcheggi.
Nel disegno urbanistico concepito dall'amministrazione Veltroni esso dovrebbe svolgere una funzione di centralità metropolitana finalizzata alla riqualificazione della periferia, analogamente a quanto accadrebbe o starebbe per accadere in decine di aree disseminate nell'hinterland cittadino. Nel caso specifico la riqualificazione passa attraverso il consumo di 136.000 metri quadri di suolo sottratto al proprio contesto storico-culturale ed alla biodiversità, nonché attraverso la polarizzazione quotidiana di circa 40.000 persone, che si sposteranno lungo direttrici di traffico sprovviste di adeguato trasporto pubblico su ferro, quindi quasi esclusivamente sull'automobile.
Che cosa ci sia di ri-qualificante rispetto alla condizione precedente non è dato saperlo, ma tale è la mistificazione lessicale con cui il Comune di Roma conferisce pubblico decoro a scelte urbanistiche rispondenti solo a mere speculazioni private. Evidentemente in questi anni chi ha amministrato la città deve aver capito che il marketing pubblicitario applicato alla comunicazione politica può condizionare a lungo le opinioni ed il consenso della cittadinanza. E allora mediante un'instancabile opera di persuasione appoggiata dalle grandi testate giornalistiche della Capitale (di destra e di sinistra), si è creata un'immagine istituzionale idilliaca e buonista in cui concetti antitetici come crescita e solidarietà vanno a braccetto, dove la cultura è dispensata dai grandi eventi benedetti dalla Camera di Commercio, dove si approva un piano regolatore che si dice tuteli l'ambiente, mentre 15.000 ettari di territorio comunale vengono ricoperti di cemento. Un laboratorio politico ove si formano coalizioni vincenti che annoverano tra le loro fila ex fascisti fuoriusciti da An e Forza Italia (riuniti nella lista "moderati per Veltroni") insieme a tutto il centro sinistra fino a Rifondazione Comunista e ai movimentisti della lista Arcobaleno.
Un idillio che comincia a mostrare le sue falle man mano che, pezzo dopo pezzo, si porta a compimento l'espansione della città. Città il cui dissenso è stato finora confinato in sacche marginali prive di risonanza mediatica e di rappresentanza politica, costituite da associazioni e comitati di cittadini che resistono per difendere gli spazi verdi ad uso pubblico dalla cementificazione. Dove le periferie si dilatano consolidandosi come "non luoghi" i cui conflitti, privi di attenzioni istituzionali e giornalistiche, sfociano in vandalismo piromane e per dirla con Joseph Rickwert (urbanista polacco), in "violenza non mirata, generica, contro la noia della condizione suburbana".
Quali strade dunque portano a Roma Est? Se lo cominciano a chiedere schernite le decine di migliaia di cittadini andati a resiedere nei quartieri sorti accanto alle "centralità periferiche" dei mega store e rimasti intrappolati a causa dell'invasione automobilistica destinata a perpetuarsi ogni fine settimana. Coloro che stanno tempestando di mail le redazioni dei giornali, i quali li hanno prima sedotti con le pubblicità immobiliari, invitanti all'acquisto in complessi periferici "immersi nel verde", e poi abbandonati con la mancata realizzazione delle opere minime di urbanizzazione e mobilità da parte degli editori e finanziatori degli stessi (come prevede l'ubanistica contrattata tra Comune e costruttori).
Se lo è chiesto addirittura il sindacato dei vigili urbani che ha denunciato pubblicamente di esser stato costretto ad un lavoro improbo, sorvolando per un giorno intero con gli elicotteri il collasso automobilistico in cui si è trovato un intero quadrante urbano. Perfino il Consiglio del municipio ove ricade l'opera (l'ottavo) si è rammentato, ancorché una settimana prima dell'inaugurazione, di chiedere alla Giunta Comunale un rinvio dell'evento fino alla realizzazione di una dozzina di opere stradali (previste per un migliore e massiccio utilizzo dell'automobile) ancora non iniziate. La Giunta ha rassicurato che quei rimedi previsti dal piano regolatore e giustamente invocati dal consiglio municipale sarebbero stati in parte operativi per la data stabilita.
Così non è stato, ma si dovrà pur riconoscere alla classe politica capitolina di essersi dimostrata coerentemente inadeguata tanto nell'elaborazione, quanto nella realizzazione pratica delle proprie ricette.
Nota: qui il sito ufficiale dello shopping center Roma Est (f.b.)
Il progetto del parcheggio sotto al colle del Pincio solleva diversi motivi di dissenso: basterebbe uno solo di essi per motivare la bocciatura.
Ecco i principali dati: 719 posti auto, 70% in vendita, 20% in affitto, 10% a rotazione d’uso, 7 piani interrati.
Da un punto di vista urbanistico generale occorre tenere presente che ogni investimento – pubblico o privato – in una determinata area urbana comporta un aumento della appetibilità dell’area stessa rispetto alle altre aree urbane. Il centro storico ha, come è noto, la massima appetibilità e non si vede la necessità di accrescerla, visto che gli effetti negativi ( aumento incontrollabile dei valori fondiari, espulsione di abitanti ed attività consone con la struttura urbana antica, condizioni di vita al limite della sopportabilità) sono unanimamente lamentati, senza che sorga la minima preoccupazione di come eliminarli o ridurli.
Il Pincio e la piazza del Popolo costituiscono un esempio di architettura urbana compiuta, unitariae di eccezionale valore: il solo intervento possibile è quello del restauro. E’ ridicolo pensare che l’intervento “sotterraneo” non comporti modificazioni all’esterno, e comunque occorre anche smettere di pensare che sottoterra si può fare tutto quello che si vuole.
Riguardo l’utilità per l’eliminazione della sosta in superficie, l’intervento non risolverà il problema, ma condurrà ad un intensificazione del traffico privato verso il centro storico. Infatti i 500 posti macchina destinati alla vendita saranno acquistati dagli operatori economici che possono fare a meno di portare l’auto in centro (commercianti, professionisti, ecc.) più che dai residenti, visto l’elevato prezzo che verrà fissato: a piazza Cavour un posto macchina ha raggiunto 100.000 euro, e sarebbe interessante sapere chi sono stati gli acquirenti. Inoltre non c’è (o non stato reso noto) un qualsivoglia studio sul traffico nel centro storico, in particolare per quanto riguarda l’origine-destinazione dei flussi privati, che sono in larga misura insopprimibili allo stato attuale delle cose. Infine, anche nella ipotesi, assolutamente irrealistica, che siano i residenti ad occupare i posti macchina come pertinenze della loro abitazione, si risponderebbe al 2-3 % della domanda.di posti macchina dell’intero centro storico.
La decisione assunta è priva di fondatezza giuridica: non vi è piano urbanistico che motivi la scelta, contradditoria rispetto alle finalità indicate dal piano del 1962 e dal piano 2003: quella della salvaguardia del centro storico. I piani possono essere modificati, integrati ecc., ma si deve operare nella stessa ottica dei piani stessi, e, pertanto, è necessario ontrollare gli effetti delle variazioni nel quadro urbano generale. Da questo punto di vista, la città non è venuta a conoscenza di nessuna verifica, e la pretesa pedonalizzazione del tridente è ancora di là da venire, così che, in definitiva, la decisione sembra calata dall’alto, senza nessuna motivazione di carattere o interesse generale, in ossequio forse allo sciagurato connubio che accompagna la tutela con la valorizzazione.
Parte l´operazione Fori: non più una pigra questione accademica, dibattito da tenersi intorno ad un tavolo con tempi epici immaginando soluzioni avveniristiche. Adesso che sul cuore dell´area archeologica centrale sta per arrivare il ciclone metropolitana, i tempi per un assetto definitivo sono nelle cose, accelerati, imposti, scanditi da progetti e inaugurazioni scritte nei contratti. Secondo gli impegni sottoscritti dal Comune, la linea C della metropolitana sarà funzionante nelle fermate Colosseo e Piazza Venezia nel 2015. Quel che i passeggeri della metropolitana di Roma troveranno emergendo in superficie dovrà essere un parco archeologico attrezzato, comprensibile, unificato, ordinato.
La soluzione Fuksas - via dei Fori come una passerella sulla storia, il traffico limitato al massimo, aree sosta e accoglienza per turisti e visitatori - progetto esposto nel 2004 al Colosseo e rilanciato dall´architetto in questi giorni, è considerato dal Campidoglio un utile suggerimento, un contributo interessante al dibattito, alla discussione in corso. L´assessore alla Cultura Silvio Di Francia precisa: «L´architetto Fuksas coglie soprattutto un punto. È questo il momento di intervenire, di cambiare e pensare a come definire l´area archeologica centrale. Non è possibile ancora dire se si realizzerà precisamente quel progetto ma sicuramente Fuksas stesso sarà un interlocutore e il suo lavoro uno stimolo ma anche una sfida». L´architetto parla anche di una spesa per la realizzazione del suo lavoro pari a circa duecento milioni di euro: «Non siamo ancora al punto di valutare i costi - commenta Di Francia - è prima necessario stabilire come riorganizzare l´area che non si limita soltanto alla zona dei Fori ma include anche zone circostanti, Colle Oppio e Celio, Palatino e Circo Massimo». Come dire: è il cuore storico di Roma e va ripensato urbanisticamente in maniera armonica. Prematuro al momento parlare di un concorso internazionale di architettura, per concedere ad altre star dell´architettura di esprimere il proprio punto di vista sull´appassionante tema del centro di Roma.
Quella dei Fori è comunque una priorità che è nell´agenda del Campidoglio: torna al lavoro proprio in queste settimane anche la commissione Stato-Comune proprio sulla risistemazione dell´area archeologica centrale, la discussione a quanto pare è entrata nel vivo. Ne fanno parte gli assessori Di Francia e Roberto Morassut, all´Urbanistica insieme ai tecnici La Rocca, soprintendente e Modigliani, direttore del piano regolatore e al soprintendente archeologico Angelo Bottini. Inevitabile che si torni a parlare ancora delle sorti di via dei Fori. Ancora Di Francia: «Ho sempre considerato che si trattasse di una strada sovradimensionata dal punto di vista della carreggiata, del traffico. Ma oggi capisco che sia necessario arrivare a una mediazione».
Altri lavori sono in corso, e non secondari per importanza. In ottobre saranno infatti chiusi i cantieri di restauro in corso ai Mercati di Traiano e si potrà passare finalmente all´allestimento del sospirato Museo dei Fori imperiali, il luogo per eccellenza deputato ad offrire ai visitatori, turisti e anche agli appassionati di storia antica e archeologia una visione unitaria dei Fori imperiali, senza tralasciare la storicizzazione, di quella via realizzata in epoca fascista per unire piazza Venezia al Colosseo, prossime modernissime fermate della metropolitana, al centro di una città che cambia.
Sul tema, in eddyburg, con riferimenti documentari
«Per il ponte sui Fori è il momento giusto»: sono i lavori per la metropolitana a far tornare di attualità il progetto elaborato da Massimiliano Fuksas, a riportare all´ordine del giorno uno studio completo che rende vivibile e moderna la strada che taglia l´area archeologica senza cancellarla né isolarla dal contesto urbano. Accade quindi che un cambiamento importante come quello avviato dai cantieri della metropolitana, premessa a una trasformazione epocale nel cuore della città antica, imponga un adeguamento urbanistico, un cambiamento di assetto ulteriore, riguardante proprio la via che unisce piazza Venezia e il Colosseo. Far diventare la strada come un lungo ponte sospeso sulla storia, arricchirlo di passerelle leggere e moderne e percorsi aperti al pubblico, ai turisti può essere la soluzione.
Cosa fare di via dei Fori imperiali è stata annosa questione che negli anni ha diviso e infiammato archeologi e urbanisti, assessori e ministri, soprintendenti e ambientalisti. Ora l´architetto che ha portato a termine la nuova Fiera di Milano, impegnato in cantieri in mezzo mondo ma sinceramente romano nel cuore, spiega: «Siamo arrivati al dunque. A Roma avremo la metropolitana più bella del mondo che tocca, per così dire, "la testa e la coda" di via dei Fori. Allora, io dico, è il momento di metterci mano. E il punto adesso non è più se togliere la strada o lasciarla ma farla vivere tutti i giorni e non soltanto una volta ogni tanto la domenica».
Il progetto dello studio Fuksas, firmato con Doriana Mandrelli già al centro della mostra «Forma» allestita al Colosseo nell´estate 2004, prevede che via dei Fori non venga modificata ma «riportata alla geometria d´origine». «La strada resta, è ormai storia di Roma» ma «la trasformiamo in modo da farne il collegamento tra i fori». Nei Fori di Fuksas, nati lavorando insieme all´allora soprintendente Adriano La Regina, la pedonalizzazione garantisce comunque l´uso pubblico e di emergenza della strada mentre dalle due corsie pedonali si collegano passerelle in legno sollevate dall´area archeologica dalle quali saranno accessibili piattaforme che potranno ospitare spettacoli all´aperto, caffè, libreria, mediateca, piccoli ristoranti. Questi percorsi sono pensati rispettando i percorsi storici e «sono tutti interamente reversibili».
L´operazione, rilanciata da Fuksas presentando un convegno sulle procedure urbanistiche che si svolgerà venerdì 30 alla Casa dell´architettura, ha costi stimati intorno ai duecento milioni di euro. Conclude Fuksas: «Adesso che finalmente si sta intervenendo con progetti architettonici importanti che trasformeranno e renderanno moderne le zone di Tor Vergata, dell´Ostiense, della Flaminia e dell´Eur non si può correre il rischio di dimenticarsi del cuore del cuore del problema, del centro storico di Roma e di trasformazioni importanti e urgenti».
Postilla
Il progetto Fori, che infiammò il dibattito capitolino a partire dalla fine degli anni ’70, era in realtà problema urbanistico un po’ più complesso della proposta di rivitalizzazione di una strada cui, in sostanza, si limita il progetto di Fuksas. Nell’idea dei protagonisti di allora, fra gli altri soprattutto il sindaco Petroselli e Antonio Cederna, si trattava di rivoluzionare il centro storico di Roma eliminando lo stradone fascista e recuperando l’unitarietà dei fori quale cuspide archeologica di un cuneo verde che si stendeva da Piazza Venezia ampliandosi a comprendere l’Appia antica fino ai piedi dei colli romani. Non solo quindi operazione di recupero archeologico, ma di innovazione urbanistica e culturale in senso ampio, ottenuta invertendo la gerarchia del primato selvaggio della mobilità privata a favore di uno spazio pubblico di natura e cultura.
La proposta Fuksas ci pare attestata su orizzonti non solo molto più limitati, ma anche di dubbia efficacia oltre che di oscure modalità di fruizione complessive. Solleva qualche dubbio, ad esempio, l’obiettivo del “riportare alla geometria d’origine” via dei Fori Imperiali senza peraltro modificarla in nome della sua asserita storicizzazione. Se occorre far ‘vivere’ la strada tutti giorni e non solo qualche domenica, il primo passo obbligato non può che essere la chiusura al traffico immediata ed illimitata temporalmente.
Logicamente non ineccepibile sembra quindi nel complesso una proposta che a partire dalla constatazione di una modifica in atto di grande rilevanza, come è a tutti gli effetti la costruzione della metropolitana, ne trae come conseguenza l’intangibilità spaziale dell’asse viario lungo il quale viene a collocarsi il percorso sotterraneo su ferro. E’ storicamente dimostrato, infine, che soluzioni di compromesso ispirate a restrizioni e limitazioni parziali del traffico sono destinate a soffrire di smagliature via via sempre più sbracate.
Quanto poi alla soluzione prescelta delle passerelle pensili immancabilmente dotate dei consueti imprescindibili gadgets di caffè, ristorantini e mediateche, e sospese su un panorama di asfalto, ruderi ed anidride carbonica, siamo pressoché certi che avrebbe scatenato la più feroce ironia lessicale di Antonio Cederna: forse non gli sarebbe dispiaciuta una definizione tipo “sadismo futurista”.(m.p.g.)
In eddyburg:
Sul progetto fori:
Antonio Cederna, Luigi Petroselli, il progetto Fori, di Vezio De Lucia
Sul progetto Fuksas:
De foris, etiam,di Maria Pia Guermandi
Dal Casilino alla Serpentara, case dalle forme gratuite non a misura d'uomo.
Viste dall'aereo le case dell'Iacp al Casilino sembrano formare un'allegra, disordinata raggiera, come bastoncini dello shangai gettati casualmente al suolo. Da terra, invece, appaiono come casermoni che convergono verso il nulla, governati da direzioni astratte. I progettisti ne spiegarono le ragioni con argomenti bizzarri: l'analogia con la forma del Colosseo, l'affinità con i tessuti urbani antichi. Spiegazioni che oggi, percorrendo questi spazi che sembrano vivere in una dimensione irreale, fanno sorridere.
In realtà, per comprenderne il senso, occorre collocare il Casilino (e molti quartieri Iacp contemporanei) all'interno della crisi profonda che percorre l'architettura degli anni '60. Un decennio in cui tutto sembra precipitare, che si apre con le Olimpiadi di Roma e si chiude con la strage di piazza Fontana. E in mezzo i primi simboli della società dei consumi (gli elettrodomestici, le utilitarie), la corsa allo spazio, la rapina del territorio, la ribellione studentesca, il Vietnam.
È il periodo in cui appaiono, con drammatica evidenza, le prime crepe dell'ideologia del moderno mentre gli strumenti dell'architetto, i suoi linguaggi, il suo stesso ruolo, mostrano tutta la propria inadeguatezza di fronte ad un mondo in vorticosa trasformazione.
Scompaiono, intanto, i maestri: Le Corbusier, Gropius, Mies van der Rohe.
Un libro di Marcello Pazzaglini («Architettura italiana degli anni '60 e seconda avanguardia», Mancosu editore) presentato nei giorni scorsi alla Casa dell'Architettura, fornisce l'occasione per riflettere su questo intricato, e poco indagato nodo di questioni.
Dalle architetture disegnate come ordigni meccanici di Sacripanti alle labirintiche strutture del gruppo Grau, viene descritta l'ansia di cambiamento che si manifestava, in quegli anni, attraverso intuizioni improvvise e spesso utopiche che sembravano tradurre la ricerca dell'arte informale in tormentate geometrie e inquieti spazi architettonici. Una lacerante rottura tra forma e contenuto che non fu certo solo italiana e che, consolidatasi nel tempo, ha prodotto opere di grande successo come il museo Guggenheim costruito da Gehry a Bilbao, edificio-scultura estremo dove la pelle è indipendente dallo spazio interno.
Forse l'abbaglio di quegli anni è stato tentare di estendere criteri estetici impiegati per teatri, padiglioni, monumenti al tema dell'edilizia pubblica.
Pazzaglini, va detto, non è uno storico ma un architetto militante che ha partecipato in modo appassionato alle vicende di quegli anni. È giusto, dunque, che veda il mondo dal proprio punto di vista.
E, tuttavia, alcuni esempi indicati quale positiva ricaduta di quel clima culturale, (la raggiera del Casilino, le «vele» di Secondigliano) ci fanno domandare se non sia arrivato il momento di guardare a molti interventi d'edilizia pubblica con occhi nuovi, se la loro fortuna critica non rispecchi un equivoco di fondo che rischia di creare nuove catastrofi.
Perché le stesse ragioni che hanno prodotto il disegno del Casilino hanno generato, anche nei decenni successivi, una danza sfrenata di linee spezzate, sinusoidali, circolari come a Vigne Nuove, Spinaceto, Tor de' Cenci, Serpentara, Tiburtino Sud. Figure astratte, d'inverificabile coerenza, calate sul territorio come meteore che mostrano, a viverci dentro, tutti i limiti degli intensivi più banali. E che fanno rimpiangere la familiarità corale dell'edilizia popolare degli anni '50, come le case Ina al Tuscolano.
Questi fallimenti andrebbero riconosciuti senza il pregiudizio delle firme illustri che li nobilitano. E dovrebbero far riflettere su quale significato profondo possieda il modo in cui gli abitanti immaginano la forma del loro spazio domestico, sull'arroganza con cui sono stati costretti a vivere entro forme gratuite, che sembrano annunciare novità inesistenti, dove ogni individuo è straniero. In nome di un'originalità di facciata che andrebbe, invece, cercata pazientemente nell'origine delle cose: partendo di nuovo, come agli albori dell'architettura moderna, dai problemi concreti dell'abitare, mettendo l'uomo e i suoi bisogni al centro del progetto.
Sembra che gliel'abbiano fatto apposta, ad Antonio Cederna. Il giornalista- archeologo-parlamentare paladino della difesa ambientale si è battuto per anni, anche quando ricoprì la carica di consigliere comunale, per l'eliminazione del vialone dei Fori Imperiali considerato una «ferita» nell'area archeologica più preziosa d'Europa. Il guru ecologista si era scagliato contro la politica mussoliniana delle demolizioni nel tessuto storico della Capitale e al tempo stesso chiedeva la demolizione di ciò che era stato costruito sopra le antiche rovine di Roma.
E il Comune, qualche anno dopo la sua morte, che cosa gli fa? Gli dedica un luogo, «Belvedere Antonio Cederna, giornalista, saggista, ambientalista» che guarda trionfalmente proprio l'inizio dello stradone fascista. Come dire: fissatelo bene in testa, quello resta lì. Naturalmente le intenzioni del Campidoglio sono state diverse, piene di rispetto e forse un po' nostalgiche perché di gente battagliera come Cederna, sempre in campo nell'interesse della città, non se ne trova spesso. Ma piazzare la targa in quello spiazzo che domina il Colosseo ha avuto obbiettivamente il senso di un affronto.
La prova che l'interpretazione giusta è quella non ufficiale sta nei fatti. Il Belvedere è un luogo degradato, un vero e proprio pernacchio all'ambientalismo e al suo tanto amato storico rappresentante. Ingombranti e volgari graffiti da una parte, un barbone infagottato nel suo misero giaciglio dall'altra, un palo della luce spaccato alla base, un altro con il «cappello» sulle ventitrè, a regalare al sito un'aria scanzonata e malandrina. Benvenuti turisti, accomodatevi ad ammirare il Colosseo. Ma non chiedete chi è questo «Antonio Cederna», perché è meglio non dirvelo. Altrimenti, osservate le condizioni del Malvedere, da un americano non potrebbe che uscire un commento divertito che nota il contrappasso tra il dire e il fare: «It's so amazing!», che cosa bizzarra.
Il caso del Belvedere diventato un Malvedere è emblematico della difficoltà del Comune di far seguire alle inaugurazioni la manutenzione. Si può citare l'esempio dei giardini di piazza Vittorio: a due soli mesi dall'inaugurazione, qualche anno fa, risultavano rinsecchiti e malmessi. In diverse piazze e piazzette riqualificate con aiuole e panchine si possono registrare segni di abbandono. Spesso un Municipio si limita a perimetrare con il nastro un sedile spezzato senza poi provvedere a sostituirlo. Quando il servizio giardini insedia un nuovo albero, il lavoro viene considerato concluso: d'inverno l'acqua piovana può aiutare, negli altri mesi spesso i nuovi impianti seccano in poco tempo per mancanza di innaffiamento.
E se nella vicenda che riguarda il ricordo di Cederna non c'è un pizzico di malafede, il Comune può dimostrarlo facilmente: se non togliendo di mezzo via dei Fori Imperiali, ormai «storicizzata», almeno rimettendo a posto il Belvedere.
Il debutto della Ztl nel rione Monti è stato controverso. Troppo poche le ore per i residenti. Danno gravi, invece, per gli esercenti. Il presidente del Primo Municipio, Giuseppe Lobefaro, promette che andrà avanti, includendo pure Testaccio, di notte quasi impraticabile. Piano piano va riprendendo quota l'idea che non si può ridurre la città storica — la più grande (e la più bella) del mondo — a semplice «Divertimentificio» e che far diminuire la sua popolazione ancora, sotto le 100 mila unità, sarebbe la morte stessa del tessuto connettivo che la mantiene viva.
Dal 1951 al 2001 gli abitanti di Monti sono precipitati da 46.630 a 13.751 (-70,5 per cento, un po' più della media del centro).
Ancora un po' e resteranno solo dei «panda».
La Consulta delle associazioni di tutela, con grande fatica, raccoglie dati, denunce, proposte.
Dal I˚Municipio e dal Campidoglio vengono segnali di ascolto e alcune decisioni positive. Chi passa per la disastrata zona di Tor Millina, può constatare che la «mangiatoia» continua è stata rimessa un po' in riga, le file di tavolini sono state (quasi tutte) assottigliate e non riducono più le strade ad un budello. Dovere di un critico del disordine urbano è anche quello di riconoscerlo.
Lobefaro ha anche spedito ai gestori di locali affacciati sulle piazze storiche la lettera di disdetta per evitare l'automatico rinnovo delle concessioni di suolo pubblico e per riportare i tavolini nei limiti dei piani di quella «massima occupabilità».
Risposta immediata dei gestori: una diffida allo stesso Lobefaro per 18 milioni di euro di danni e la minaccia di licenziare centinaia di dipendenti.
Questa è la «cultura» contro la quale si scontra ogni iniziativa volta a restituire un minimo di ordine nell'uso della città e dei suoi spazi. Si badi bene: nell'interesse dei gestori stessi i quali non capiscono che la «mangiatoia» ininterrotta trasforma Roma in un indecente bazar e allontana il turismo che spende e soggiorna, favorendo invece quello mordi-e-fuggi. A questa logica negativa sembra volersi sottrarre la Confesercenti la quale, per bocca del responsabile nazionale Centri storici, Cesare Campopiano, propone un «patto sul decoro», e quindi sull'uso dei quartieri centrali, alle associazioni dei residenti. Sin qui tutto ciò che è pubblico è stato considerato a disposizione del primo privato che se ne impossessa. Piazza delle Coppelle è stata per anni un allegro e utile mercato al mattino e nelle altre ore un'area silenziosa di sosta, di passeggio, di attraversamento. Da qualche anno, ormai, appena i banchi vengono smontati, l'intera piazza sparisce e diventa, in toto, ristorante all'aperto.
Gli abitanti e i passanti non hanno più un centimetro di suolo che sia loro. Se si indulge nel «lasciar fare», è difficile, dopo, riportare le cose a civili convivenze e compatibilità. Gli arrivi negli alberghi romani sono stati nel 2005 quasi 8,3 milioni (più stranieri che italiani), con 19,8 milioni di presenze, e quindi 2,6 giorni di permanenza media. Un patrimonio che esige più attenzione, pubblica e privata, servizi migliori, e non caos e trasandatezza.
Tutto male o tutto bene! La città di Roma o è una cosa o è l'altra: ovvero è «male» quando la guida della capitale è stata gestita dai governi centristi o neocentristi (democristiani e socialisti), viceversa è «bene» quando le chiavi della città sono in mano alle amministrazioni di sinistra. In parte questo è vero, la differenza si sente e si nota. Tuttavia, esiste una questione romana, anzi «La questione romana» come hanno ricordato gli organizzatori del «Discorso pubblico sulla città e il suo governo», ossia la rivista Carta, i Cantieri sociali e la Riva sinistra, l'altro ieri all'Alpheus. Roma è un buon luogo di accoglienza «per studenti e turisti - ricorda Pierluigi Sullo - però ha tante contraddizioni che non si possono nascondere, ad esempio la piaga dei trasporti o della casa». Lo stesso Sandro Medici, presidente del X Municipio (autore insieme a Carta e Riva sinistra del numero mensile di novembre sulla capitale) non nasconde nulla: «Si rischia il collasso. Con la crescita del 4% del pil sono aumentati anche i poveri e le periferie si sono imbarbarite; il decentramento e la democrazia partecipativa non sono stati realizzati (non sono stati dati soldi in gestione ai singoli municipi) e il nuovo Piano regolatore è un regalo ai poteri forti (immobiliari)». L'urbanista Giovanni Caudo sottolinea come «nel 2005 sono stati cancellati dall'anagrafe ben 21 mila residenti; non solo gli strati più poveri ed emarginati sono stati allontanati, ma anche coloro che devono destinare il 40% e a volte il 70% della proprie entrate per pagare l'affitto». A questa realtà potremmo aggiungere i 15 mila che vivono sotto i ponti oppure i 30 mila (spesso anziani o disabili) «sotto sfratto» (dice Sandro Medici). Roma assume la caratteristica di una città moderna, competitiva come sono tutte le altre metropoli, «neoliberista», ma, aggiunge Caudo, «il centro e la periferia hanno uno sviluppo distorto e diseguale».
Le periferie che alcuni - come il sottosegretario, Patrizia Sentinelli o il segretario romano di Rc, Massimiliano Smeriglio - continuano a identificare con la «città di sotto» che si contrappone «a quella di sopra». Per altri sono terreno quotidiano di scontro (la lotta per il diritto alla casa) o d'impegno culturale. Nunzio D'Erme, difende la tesi «che Action ha l'obiettivo di considerare Roma un bene comune», di lottare «per un reddito salariale» e di organizzare «l'autogestione come momento di socializzazione». E così lancia la proposta di «una manifestazione nel mese di dicembre per il diritto all'abitare».
Non bisogna stancarsi
di Paolo Fallai
Non bisogna stancarsi. Sì, c'è un aspetto psicologico da non sottovalutare nella battaglia «eterna» contro l'invasione di camion bar, per difendere le aree archeologiche dall'assalto di ogni sorta di paccottiglia ambulante, quasi sempre abusiva.
Non bisogna stancarsi perché l'impegno - e lo sdegno - per la tutela viaggia con i ritmi umani dell'entusiasmo e della depressione: è una ciclotimia che alterna euforiche campagne per liberarci dalla condanna delle pizzette a mortificanti silenzi di fronte all'avanzare delle lattine. Ma il dilagare di questi chioschetti, invece, ha la determinata e silenziosa pignoleria dell'ossessione. Pensateci bene, ogni volta che l'attenzione della pubblica opinione è scesa, il panorama che ci scorre sotto gli occhi si è arricchito di un puntino in più. E ci vuole la lente d'ingrandimento, spesso, per accorgersi che quel puntino sta su quattro ruote, ha delle tendine sfrangiate e vende una bottiglietta d'acqua da mezzo litro a 2 euro. Le rare volte che il manifestarsi di quel puntino viene colto subito, come ha fatto questo giornale segnalando il camion bar che si era materializzato davanti all'Ara Pacis un minuto dopo la conclusione dei lavori, si ottiene qualche risultato. Ma se l'attenzione non è sempre all'erta, quel primo sintomo diventa una malattia, si cronicizza e non riesci più a liberartene.
Per questo, oggi, salutiamo con favore l'iniziativa del sindaco Walter Veltroni. Non tanto perché confidiamo che si possa risolvere l'incolonnamento di camion bar sui Fori imperiali, con un colpo di bacchetta magica. Ma perché è una spinta, ciclotimica ma positiva, a tenere alta l'attenzione di tutti: uffici comunali, uffici municipali, soprintendenze.
Per questo ci sentiamo di chiedere scusa ai nostri lettori. Sì, quel titolo: «Via i camion bar» l'avete già letto infinite volte. Ma non è la coazione a ripetere di un giornalismo stanco e senza memoria. Anzi, per continuare a occuparci di questo tema, per continuare a prendere sul serio le serissime intenzioni dell'amministrazione comunale, dobbiamo reprimere il nostro scetticismo e la sensazione latente di essere stati così tante volte sconfitti.
Quindi, dichiaratamente, noi continuiamo a crederci. Vogliamo pensare che questa città sia destinata a vincere la battaglia per il decoro delle proprie aree di pregio. Proprio come un giardiniere non deve mai smettere di tenere pulito il prato, se non vuole essere sommerso dalle erbacce. Non possiamo stancarci.
Veltroni: "Via i camion bar dai Fori Imperiali"
«Basta con i camion bar ai Fori imperiali». La richiesta del sindaco Walter Veltroni è chiara e perentoria. E l'ha espressa senza troppi giri di parole ai due sovrintendenti: quello archeologico Angelo Bottini e quello alle Antichità e belle arti di Roma, Eugenio La Rocca. «È vero. Questa amministrazione e il sindaco in particolare ci tiene molto a risolvere l'annoso problema dei camion bar che oscurano la visuale dei monumenti», conferma l'assessore al Commercio, Gaetano Rizzo. E che stavolta il Campidoglio voglia uscire dal rito delle buone intenzioni, fin troppe volte annunciate, per interventi concreti lo testimonia proprio l'iniziativa di Rizzo: «Sto già predisponendo una rivisitazione di tutte le postazioni e procederò poi con i municipi, soprattutto con quello del centro storico, ad una ottimizzazione delle loro localizzazioni». Il titolare del Commercio annuncia anche che le nuove collocazioni saranno precise al centimetro. Come? «Con la "georeferenziazione" - spiega Gaetano Rizzo - ovvero la collocazione su pianta dello spazio assegnato. Metteremo un "pallino" sulle carte stradali per indicare il luogo che sarà loro assegnato, faremo le strisce sul terreno per delimitare i metri quadri che potranno occupare ed un cartello che segnalerà la postazione». Non solo. Per attuare al più presto la richiesta di Walter Veltroni si è mosso anche Luciano Marchetti, il sovrintendente regionale ai Beni culturali, forte della legge Galasso che tutela piazze e monumenti. «Nelle zone vincolate - spiega Luciano Marchetti - i camion bar non possono sostare se non hanno l'autorizzazione della sovrintendenza. E io un parere per via dei Fori Imperiali non l'ho dato di sicuro». Ma il principio stabilito dalla legge Galasso «vale non solo per i Fori Imperiali, ma un po' per tutto il centro storico - aggiunge il sovrintendete regionale - Per questo va fatto un riesame di tutte le autorizzazioni date, ho già chiesto al Campidoglio di fare una ricognizione. Abbiamo dunque iniziato a discutere della questione».
L'ingombrante presenza della rivendita di bibite e pizzette nei luoghi più belli della capitale è una lunga battaglia dell'amministrazione capitolina. Finora mai vinta. «Io non voglio assetare o affamare i turisti - ironizza Lucano Marchetti - Ritengo, però, che queste strutture vadano regolamentate e collocate nei luoghi dove danno meno fastidio alla visuale dei monumenti. E non bisogna neppure fare troppe rilevazioni, quelli che non hanno l'autorizzazione possono essere levati o spostati».
Il censimento dei camion-bar è stato fatto più volte: in tutto sono circa una sessantina. Ma tutti collocati in posti super-prestigiosi. «Troveremo sicuramente un accordo per delle nuove localizzazioni che non turbino la visione dei monumenti - aggiunge Gaetano Rizzo - E che siano adeguate alle loro richieste. Con la nuova ricognizione che attueremo verrà sicuramente migliorato il decoro urbano».
Il titolare del Commercio ha anche un altro asso nella manica: «Abbiamo già predisposto un concorso per la realizzazione del "banco tipo" romano per quel che riguarda gli ambulanti - spiega - che comprende anche un nuovo stile per i camion bar. Già dall'anno prossimo dovremmo poter far entrare in vigore anche questo nuovo aspetto che fa parte del decoro, migliorando e unificando il loro aspetto estetico».
Benvenuti al «Fori Imperiali Village»
di Ilaria Sacchettoni
Benvenuti al «Fori Imperiali Village». Parco urbano domenicale, con commercio etnico- abusivo, promozione di surrogati mesoamericani, flauto di pan e vendita non autorizzata di cd per gli appassionati sullo sfondo di reperti archeologici perimetrali e monumenti simbolo.
Ma soprattutto, grande showroom dell'abusivismo come nella maggior parte del centro storico. Con punte massime ai piedi di Castel Sant'Angelo e naturalmente proprio qui, lungo la passeggiata dei Fori: dalla borsetta taroccata al nome scritto in cinese, dal treppiede fasullo all'occhiale copiato, dal braccialetto pseudoindiano alla pashmina autentico Guangdong.
Ecco a voi, nel vuoto festivo delle autorità vigilanti, e nel viavai domenicale della città turistica, la Roma «pop» dei Fori Imperiali. Ristorazione, etnico musicale e commercio improvvisato, secondo un canovaccio da sagra di paese anziché da passerella archeologica. L'icona Colosseo in prospettiva e l'effetto «trash» dell'esibizione improvvisata e non autorizzata del giovane peruviano e dell'altro messicano che suonano amplificati in prossimità di largo (playa?) Corrado Ricci. Undici camion bar. Nove banchi di souvenir. Otto mimi (tre dei quali raffiguranti la mummia egiziana). Un numero imprecisato di lenzuola con merce contraffatta.
Ecco il camion bar numero uno che apre la passeggiata al «Fori Village». Parcheggiato vicino alla Colonna di Traiano, in compagnia di un banco di souvenir, tra cui parecchie Veneri di Milo (al Louvre). Pochi metri più avanti, altro camioncino «Roma City Food» color beigiolino, in sosta al Foro di Traiano con bottigliette (costosissime) di acqua minerale e vecchie pizzette rosse schiacciate dal vetro. Accanto, uno stand di berretti «Rome» e maglie della nazionale in gradazione dal celestino al blu. In sottofondo il suono triste e carico di affanno di un flauto pan. Lontano anni luce, l'Anfiteatro Flavio.
«Mato Grosso Band» dice la copertina del cd (in vendita su strada) mentre l'uomo di sangue atzeco, incurante, esegue vecchie glorie di Simon e Garfunkel. Ed ecco, superati i lavori in corso della metro «C», ad altri due limitrofi camioncini bar. «Ristorazione Paradise» più un altro dalle caratteristiche simili.
Se poi non dovesse bastare, ecco allora, oltre le strisce pedonali, proprio sotto al Colosseo, un altro mini furgoncino carico di prodotti delle multinazionali del dolciume ma anche, sorprendentemente, di ciambelle fritte «hand made». Era il furgone numero cinque ed è passato assieme al mimo numero quattro. Il quinto si esibisce come cavaliere di bronzo sotto via in Miranda. Non desta particolare ammirazione ma sempre meglio del ripetutissimo sarcofago egiziano.
Lungo tratto di vendita abusiva tradizionale e poi, nuovo furgoncino della ristorazione. Altri abusivi ed ennesimi camion bar. Bibite e frutta fresca. (Una «scheggia» di cocco costa anche tre euro. Per le mele si va da un euro e cinquanta in su. Il grappolo d'uva è solo per i giapponesi). Nuovi flautati canti sudamericani. Stavolta è un ragazzo giovane con capelli nerissimi, occhi sottili e un repertorio vario (molto eseguita la famosa melodia tratta dal kolossal shakespeariano di Zeffirelli «Giulietta e Romeo»). Ultimo camion bar. Siamo ai piedi di piazza Venezia. La passeggiata è finita. Il Colosseo è alle spalle, sepolto da atmosfere atzeche. Incongruo.
Postilla
La lotta, pur apprezzabile, contro i camion bar e i mille esercizi abusivi che intasano i nostri centri storici, appare in realtà non solo difficile, ma superficialmente attardata. Il degrado e la congestione che, soprattutto in talune ore del giorno, caratterizzano le zone centrali delle nostre città sono il sintomo di modificazioni dell’uso urbano che si sono incentivate senza una chiara analisi delle conseguenze, per calmierare le quali si propongono oggi ricette effimere e inadeguate. Città nelle quali è difficilissimo non solo “godere” dei panorami delle aree monumentali, ma financo muoversi senza complicati slalom provocati dagli ingombri sempre più invadenti di dehors e ‘allestimenti’ su via che, anche se legalmente autorizzati, finiscono per configurare un vero e proprio esproprio dello spazio pubblico. Intere aree delle nostre città sono state di fatto regalate alle attività commerciali e finalizzate all’attrazione di flussi turistici endogeni ed esogeni: i ritorni economici, subito mediaticamente sfruttati, sono stati rapidissimi e consistenti, come le conseguenze negative. Di fronte alle proteste odierne, incentrate peraltro solo su uno degli elementi deteriori, torna alla mente l’immagine del grande parco urbano che Cederna e Petroselli, fra gli altri, avevano pensato per Roma, come spazio pubblico per i cittadini e come riappropriazione della città in un contesto di natura e cultura.
Anche Cederna non si stancava mai di ripeterlo.
La porta di accesso è rimasta la stessa ma, all’interno, l’alloggio di 72 mq è ora diviso in due, uno di 34 e l’altro di 35 mq, ognuno con cucina e bagno. Siamo a Monteverde in una palazzina costruita intorno agli anni ’60, quando la zona era ancora periferia e dove Pasolini vi ambientò l’inizio di Ragazzi di Vita. Lui 34 anni e lei 33, entrambi lavoratori precari e con il desiderio di mettere su casa. I genitori di lui sfrattati dalla loro casa in seguito alle cartolarizzazioni: il padre con la pensione sociale e la madre in attesa di riceverla. Un mutuo di durata trentennale che costa 1.100 euro al mese, come un affitto che, se a pagarlo sono due famiglie, sembra essere la soluzione ideale per avere una casa. A Roma torna la coabitazione, torna perché era già consuetudine negli anni ’60, quando le case mancavano. Oggi però le case ci sono: tra il 2001 e il 2005 le abitazioni in più rispetto al numero delle famiglie sono passate da 199 mila a 249 mila. Tornano dunque le coabitazioni per una ragione diversa: l’insostenibile pesantezza del canone di affitto. Una storia come molte altre di frazionamento di un appartamento che fa luce su un vasto fenomeno di contrazione dello spazio fisico domestico. Ma anche una storia emblematica dell’arte di arrangiarsi per assicurarsi il diritto a restare nella città, a non essere espulsi lontano, in provincia.
Il Macao è il quartiere compreso tra la stazione Termini e il Castro Pretorio; costruito dopo l’Unità d’Italia come zona residenziale è composto da villini e da edifici a blocco con alloggi anche di ampie dimensioni. La linea B della metropolitana e la vicinanza con la stazione Termini lo rendono facilmente accessibile. E’ qui che nel 2003 un giovane imprenditore (29 anni) proveniente da una città del Sud compra, da una famiglia, un alloggio di 170 mq. L’idea era di farci un piccolo residence per i turisti e i pellegrini. L’alloggio fu suddiviso in 5 monolocali (4 di 22 mq e 1 di 25 mq) e in un bilocale (56 mq). Ogni monolocale è arredato, non c’è la cucina ma una piastra elettrica e c’è il frigorifero, il letto è sul soppalco. Gli spazi comuni sono ridotti al minimo: il corridoio è dotato di una postazione internet.
La clientela di turisti che si fermavano per pochi giorni (3-7 giorni) venne sostituita ben presto da utenti sempre temporanei ma che restavano per un periodo di tempo più lungo. I contratti sono quelli transitori della durata di tre mesi e i clienti sono dipendenti di società, lavoratori autonomi e piccoli imprenditori, turisti, liberi professionisti, studenti. La domanda in crescita è quella dei lavoratori autonomi in trasferta, dei piccoli imprenditori e dirigenti di società. Al momento dell’indagine risultavano occupati tre monolocali su cinque, rispettivamente da: un ristoratore che risiede fuori Roma e che usa il monolocale soprattutto nei fine settimana; da una coppia di giovani, lui studente e lei lavoratrice di origine irlandese; da una signora russa, una cliente fissa che ogni due-tre mesi occupa il monolocale per circa un mese. I costi di gestione sono ridotti al minimo, un factotum di origine rumena è a disposizione degli inquilini. Il canone di ogni monolocale è di 900 euro al mese a cui si aggiungono le spese per internet, riscaldamento, ecc… circa 60-80 euro: in totale si arriva a poco meno di 1.000 euro al mese.
Quattro trentenni, laureati, tre ragazzi e una ragazza. In quattro si suddividono un quadrilocale di circa 120 mq nella zona a Sud Ovest di Roma. Un profilo caratterizzato da flessibilità lavorativa, dalla disponibilità alla mobilità (alcuni di loro hanno cambiato già più volte città e lavoro), e da un’alta qualificazione. Uno di loro lavora per una multinazionale di cosmetici. Non si conoscevano prima di coabitare. Niente contratto, ognuno paga la sua quota di affitto, 350 euro a camera, direttamente e in contanti al proprietario e risponde solo per se stesso. L’incidenza del canone di affitto sui redditi varia da circa il 15% del reddito più alto a circa il 30% di quello più basso. In totale, il proprietario percepisce un canone di 1.400 euro al mese. L’organizzazione della convivenza prevede l’assunzione delle spese comuni (la signora delle pulizie quattro ore a settimana) che ammontano a circa 400 euro al mese, ma anche la ricerca di una maggiore integrazione: ad esempio, il rito di fare la spesa e di svolgere la cena insieme, quando è possibile.
Ricerca di integrazione che si proietta anche alla scala più ampia, quella della città e che incrocia il desiderio di vivere, di partecipare, di essere nella città. Non solo quindi coabitazione di necessità.
Le storie riportate costituiscono solo una parte di una indagine svolta presso il Dipartimento di Studi Urbani dell’Università di Roma Tre dal titolo “Itinerari dell’abitare a Roma”. Il quadro che emerge lungo questi itinerari è che nel corpo della città si stanno affermando forme che testimoniano del mutamento sostanziale cui è soggetto il sentimento dell’abitare. Mutamenti che hanno a che fare con il bisogno (la necessità) di “condividere” i costi per renderli sostenibili e quindi con la costruzione di forme di associazione; con la crescente mobilità delle persone e quindi con la temporaneità e, infine, con la riduzione dello spazio domestico.
Nuove forme di associazione. L’abitare si accompagna a forme di associazione con altri individui. Abitare, affermare il diritto alla città, vuol dire incontrare gli altri, condividere con loro non solo lo spazio, ma allargare questa condivisione alla possibilità di costruire una rete sociale che allontani il rischio della solitudine e della perdita di senso dell’abitare. In alcuni casi lo stare insieme si limita ai valori di buon vicinato, ma frequenti sono i casi nei quali questo “essere con” nasce e allo stesso tempo coltiva valori che combinano la dimensione individuale e la costruzione di piccole e concettualmente non molto elaborate forme di comunità. L’incontro, in qualche misura artificiale, porta alla costruzione intenzionale di un rapporto con gli altri che comporta anche l’attivazione di forme di coinvolgimento emotivo di identificazione e di condivisione di un comune fine morale.
La temporaneità. La crescente mobilità delle persone cambia il sentimento dell’abitare, intanto per il fattore tempo (la durata) ma ancora di più per la “voglia” di abitare. Le città sono attraversate da flussi di individui che hanno intrapreso un viaggio alla ricerca di nuovi stimoli, di nuovi e differenti modi di vita. Sono i nomadi urbani ai quali le città dovranno costruire nuovi porti per trasformare in opportunità il loro perdersi. Non si tratta dei turisti con i loro riti di massa ma ci riferiamo alla popolazione dei fluttuanti, alcuni per necessità molti per scelta, tutti comunque alla ricerca di una possibile svolta nella loro esistenza. Rappresentano un capitale di energia e di innovazione vitale per le città. Sono espressione di quella mobilitazione universale nella quale sembra destinata ad evolversi ormai la condizione del cittadino.
Questa popolazione esprime valori differenti come, ad esempio, l’uso del bene casa e non più la sua proprietà.
All’abitare temporaneo si accompagna anche la costruzione (immateriale) del sentimento dell’abitare. E’ la ricerca di una familiarità. Alla città spetta il compito di costruire i luoghi per la formazione di questo sentimento. Il carattere nomade con cui abitiamo la contemporaneità della città ci precipita in una condizione di disagio per l’assenza di quelle forme connaturate all’abitare e che sono normalmente esperite nel luogo in cui si nasce e si vive. Da questa assenza, percepita in un altrove, nasce il desiderio, la voglia che ci porta ad una ricerca ostinata dell’abitare.
I luoghi per abitare sono allora identificati con quelli dove si può consumare la città, riconoscerne e viverne le diverse identità. La vita è nella città, è per la strada: si vuole mantenere la vicinanza con i luoghi della scoperta e delle possibilità. Il rapporto dell’abitante con la città cambia, diventa un rapporto del tipo consumatore-città. La città diviene erogatrice di beni (servizi) da consumare: non la curo, la uso e mi aspetto che sia efficiente, vivibile e facile da usare.
Riduzione dello spazio domestico. Per affermare il diritto alla città e per mantenere la prossimità con i luoghi centrali si riduce lo spazio domestico. Negli aspetti più materiali queste forme dell’abitare attivano processi di coabitazione, di partizione e di parcellizzazione dell’immobile. E’ così che la città è attraversata da un processo di espansione che riguarda il capitale fisico esistente. La città sembra così destinata a vivere una fase di contrazione. Con essa si è soliti indicare fenomeni di riduzione, di ridimensionamento, ma la contrazione è invece una dinamica che comporta sempre un plus, un di più. La contrazione non è in opposizione alla crescita è solo una stagione diversa nell’evoluzione della città e rappresenta una nuova chance.
Nella comprensione di questi mutamenti e di questi nuovi caratteri, Roma si gioca la sua scommessa di futuro. Le città non sono fatte solo di case ciò nonostante la disattenzione sull’abitare, l’assenza di un pensiero e di una strategia su questo aspetto, oggi può risultare fatale per la stessa possibilità di tenere insieme la città, di assicurargli coesione sociale e prospettiva di sviluppo economico reale e diffuso. A Roma, purtroppo, i dati e la realtà testimoniano di questo rischio.
Nel primo semestre del 2005, nel Lazio, sono stati eseguiti 1.753 sfratti (+4,7% rispetto allo stesso periodo del 2004); di questi, 1.523 riguardano il comune di Roma, con un incremento del 7,9%. Tra le motivazioni, gli sfratti per morosità rappresentano il 60%. A Roma, dove il mercato immobiliare si colloca ai vertici per intensità di crescita, l’effetto di schiacciamento verso il basso delle fasce sociali cosiddette medie ha una incidenza più alta di quanto avviene a livello nazionale. Nel 2004 per una famiglia del centro di Roma con un reddito pari a 30 mila €/anno l’incidenza del rapporto canone/reddito era il 70%, il 46% per una famiglia che vive in semiperiferia e il 37% per una che vive in periferia. Per un reddito di 15 mila €/anno (il caso ad esempio di una famiglia monoreddito, o di giovani con lavori precari,…) l’incidenza diventa proibitiva anche per sostenere l’affitto di un’abitazione, fosse anche in estrema periferia.
Negli ultimi anni il tasso medio annuo che misura l’incremento delle nuove abitazioni a Roma è stato dell’1,4%, a Milano dello 0,7%, a Torino dello 0,6%, a Napoli dell’1% e a Palermo dello 0,5%. Cresce il numero delle case e cresce il disagio abitativo. Un paradosso? Questi dati confermano i timori di quanti avvertivano che la crescita, anche consistente, delle nuove costruzioni non avrebbe contribuito a ridurre il disagio abitativo (su questo si veda l’articolo sul mensile di Carta del maggio scorso).
L’Agenzia del territorio ha pubblicato il grafico “la piramide dei valori immobiliari” di Roma e della provincia dal quale risulta che i valori degli immobili nelle aree del centro storico sono 8 volte quelle del comune della provincia che ha i prezzi più bassi (Rocca Canterano) e sono 5 volte più alti di quelli delle zone periferiche prossime al grande raccordo anulare. La piramide ha in realtà la forma di una colonna con un fusto stretto e ben slanciato, coincidente con le aree del centro storico, e con una base molto ampia coincidente con i quartieri dentro e fuori dal grande raccordo. Una rappresentazione che chiarisce come a poter salire sul fusto della colonna è ormai solo una elitè di ultra milionari. Si tratta di un mercato offerto agli scambi economici alla scala globale e dal quale i residenti sono per lo più esclusi, quando non espulsi.
Il diritto alla città è uno di quei diritti non negoziabili, ma oggi a Roma questo è un diritto negato a molti. Per riaffermare il diritto alla città è necessario sperimentare politiche abitative coraggiose ed innovative. In altre parole, costruita la città degli eventi, occorre ridefinire la città dell’abitare con l’obiettivo di aumentare la coesione sociale e di contribuire all’economia reale della città.
E’ questa la sfida per la città di Roma.
(La ricerca “Itinerari dell’abitare a Roma” è stata condotta da: Sandra Annunziata, Walter Barberis, Alessandro Calabrò, Alessandro Coppola, Claudia Gatti, Clara Musacchio, Sofia Sebastianelli; il coordinamento della ricerca è di Giovanni Caudo)