Basterebbe averlo visto almeno una volta il degrado del quartiere del Quartaccio per capire i motivi della violenza che ci circonda. I giardini pubblici che si affacciano sulla valle sottostante sono ricolmi di ogni genere di rifiuto urbano. I marciapiedi e gli stessi passaggi pubblici sotto gli edifici non invitano a percorrerli neppure di giorno. Figuriamoci in una notte d’inverno. La notte, al Quartaccio come in migliaia di luoghi simili sparsi in tutta la periferia romana, conviene stare in casa. Anche perché l’illuminazione è scarsa e fatiscente Se si torna dal lavoro, come l’altra sera è capitato alla donna scesa al capolinea del 916, si rischia di essere violentate.
Ormai di tragici episodi di violenza sessuale ne accadono in continuazione, dalla nuova fiera nella notte di capodanno all’episodio de La Storta sfruttato dalla destra in campagna elettorale. Che ci siano buoni livelli di illuminazione o meno –ed è ovviamente auspicabile che ci siano-, la caratteristica che accomuna tutti quei teatri di violenza è l’assoluta mancanza di città. Di un luogo che era in grado di difenderci dalle paure perché caratterizzato da elementi di convivenza e di vita sociale.
Questa città non esiste più. I luoghi in cui avvenivano incontri e osmosi sociale, dalle scuole ai centri civici, sopravvivono a stento dalla scure dei tagli alla spesa pubblica. I quartieri di edilizia pubblica, come il Quartaccio, versano in uno stato di abbandono vergognoso, non ci sono i soldi, rispondono ancora. I negozi di vicinato che rappresentano spesso gli unici luoghi di incontro o sono completamente chiusi o la sera abbassano presto la serranda. Stanno chiudendo uno dopo l’altro, perché la concezione liberista della città ha consentito che aprissero in otto anni ventotto giganteschi centri commerciali, oltre i quattro che già esistevano. Stime prudenti parlano della chiusura a breve termine di oltre tremila negozi di vicinato: ecco i motivi del deserto urbano. Che ci sia o meno l’illuminazione pubblica.
Chi dunque riduce anche questo ennesimo episodio di violenza ad un problema di illuminazione non è in grado di cogliere il dramma che sta vivendo la periferia romana. Invece di concentrare la opportunità di riqualificazione urbana all’interno della città costruita così da creare luoghi di aggregazione, si spendono fiumi di denaro per costruire urbanizzazioni e inseguire la folle strada dell’espansione senza fine. E come se non bastasse la cementificazione di nuovi quindicimila ettari di terreni agricoli (sei volte l’estensione del meraviglioso parco dell’Appia Antica!) previsti dal recente piano regolatore, la nuova amministrazione Alemanno vuole aggravare ancora la situazione.
Trecento ettari di terreno agricolo sono a rischio per la realizzazione del “parco tematico di roma imperiale” (sic!). Mille ettari serviranno per la costruzione di case a medio reddito che si potrebbero realizzare agevolmente dentro la città. Infine si vogliono costruire due nuovi stadi, uno per la Roma e uno per la Lazio. E, visto che quelli esistenti si riempiono una o due volte all’anno, le nuove realizzazioni serviranno soltanto per consentire nuove speculazioni: alberghi, uffici e, ovviamente, centri commerciali. Così faranno chiudere altri negozi in periferia, aggravando lo stato di disagio della città. Altro che illuminazione. Il problema sta nel fatto che il futuro della città è lasciato in mano alla speculazione fondiaria.
Caro direttore, ricordo la mia geografia notturna di Roma negli anni Sessanta: il Doc di via dell’Oca a parte, alle due di notte c’era Mario a via della Vite (dal vino bianco troppo chiaro) o lo Zaffiro al Corso; fino alle quattro era aperta la trattoria frequentata dai tipografi del "Tempo" e del "Popolo" a piazza Navona; il Settebello vicino al "Messaggero" ed il bar di Salita de’ Crescenzi fino all’alba. Oggi si tira mattino in dimensioni di massa, alla ricerca dello sballo uguale per tutti, senza individuali velleità di epifanie joyciane. Ma lo spazio pubblico, lo spazio di tutti, della polis, dei valori condivisi e della politica, sembra essersi improvvisamente ristretto. Le periferie tornate al tempo della Roma dei sette Sindaci democristiani. Dove c’è vita notturna, la vitalità dell’estate romana, dell’Auditorium, delle stesse Notti Bianche, si è trasformata in bulimia e ripetizione coatta. Scomparse assieme alle zone di pausa e di segretezza, sorpresa e meraviglioso urbano. La vita notturna romana rivela oggi, come ai tempi delle cantine e dei cineclub, identità in formazione, progetti, speranze di un futuro migliore? La città è più buia, l’illuminazione pubblica dimezzata dalla nuova Acea dei costruttori (mentre si costruiscono i primi enclaves residenziali recintati e sorvegliati). La Roma notturna degli anni settanta aveva sostituito piazza Navona col Pantheon, quella degli anni ottanta con piazza delle Coppelle e piazza della Pace. Oggi c’è l’asse delle bevute piazza Trilussa - ponte Sisto - Campo de’ Fiori, dove si parla più inglese che italiano.
Già Alessandro Manzoni ha chiuso i conti con la cultura delle grida, sanzioni che si sa non saranno applicate. A intervenire sugli effetti, si pesca l’acqua con le reti. Come ritrovare un’idea condivisa di spazio pubblico, d’interesse generale, di vita collettiva? Comprendendo che la democrazia si nutre di diversità. Non ha molto a che fare con ciò che è omologato. Bisogna imparare di nuovo a coltivare il pluralismo. C’è stato un momento in cui Roma è stata davvero un modello per il mondo. La città di Los Angeles mi ha invitato per capire come realizzare, partendo dall’sperienza romana, una Los Angeles after dark, dopo il tramonto.
Se l’obiettivo è una Roma attraente, competitiva in Europa, come Parigi o Barcellona, perché non usare l’urbanistica? Le effettive nuove centralità romane sono l’Auditorium, San Lorenzo, Testaccio, in parte l’Ostiense. Ahimè, tutte espansioni a macchia d’olio del centro già esistente. Perché non reintrodurre almeno - partendo da zone come Campo de’ Fiori - il controllo delle destinazioni d’uso sostenibili? Qualcosa di analogo ai vecchi piani del commercio, che Rutelli abolì negli anni Novanta, senza pensare di aprire la strada alla trasformazione del centro in uno shopping mall a cielo aperto, con bar e ristoranti.
L'architetta Gaia Remiddi, che sul defunto velodromo di Roma ha scritto un libro, ancora quasi non si rassegna e la butta lì: «Se volessero ricostruire il velodromo io ho tutti i dettagli. Pezzo dopo pezzo. Tutte le misure. La Sovrintendenza lo sa», dice. Ma è davvero troppo tardi, ragionevolmente. Come voluto dall'allora giunta Veltroni, il complesso architettonico hi-tech che andrà a rimpiazzare la famosa pista di ciclismo progettata dall'architetto Cesare Ligini ha ormai il suo progetto definitivo. A disegnarlo alcuni architetti e ingegneri italiani rappresentati dall'A.T.I., raggruppamento temporaneo di imprese, che hanno vinto un mese fa il bando di gara per realizzare il grandioso e lussuoso - e privato - centro dell'acqua e del benessere che riprodurrà esattamente, nella forma, quella ellissi perfetta scavata nella terra che era il famoso velodromo dell'Eur che ospitò i Giochi del '60, struttura in legno unica al mondo, così bella che una schiera di esperti - e pure, con un decreto di vincolo, la Sovrintendenza - non esitarono a definire monumento e a sollecitarne il restauro, invano.
La struttura olimpica il 24 luglio dello scorso anno, è implosa sotto le cariche di tritolo, che hanno seppellito speranze e diatribe culturali ma non il veleno dei sospetti, tant'è che su quella demolizione la Procura di Roma ha aperto un'inchiesta. Oggi si sa che quell'indagine potrebbe finire in un'archiviazione, mentre su presunte irregolarità amministrative potrebbe pronunciarsi soltanto il Tar. E' dunque forse questa l'ultima battaglia che resta ai cittadini che da sempre si dicono contro il nuovo complesso e per questo si sono costituiti in un comitato. Perché il progetto di ricostruzione dell'antica ellissi, che era e resterà grande 19.000 metri quadri ma sarà coperta, quasi totalmente - c'è una parte del tetto che si aprirà d'estate - da una volta autoreggente fatta di una rete di acciaio e vetro dalla forma evocativa di una goccia, che cadendo idealmente dal cielo si trasforma in piscine e fontane, porta con sé una delle ultime, e più spettacolari, varianti al piano regolatore di Roma, ovvero lo stravolgimento di tutta l'area circostante fino a oggi occupata da verde pubblico.
Escludendo l'impianto, parliamo di 44.500 metri quadri totali di superficie, che saranno riempiti da un albergo (6500 mq), da un centro di diagnostica e di riabilitazione (5000 mq), da uffici di gestione (500 mq), da un'area commerciale comprensiva di bar, ristoranti e negozi vari (4500 mq), da un'area destinata a servizi privati (2500 mq), da altri 21.000 metri quadri di palazzi che diventeranno uffici e, dulcis in fundo, da una piazza pubblica leggermente inclinata, in continuità architettonica con l'ellissi, più altri 5.500 mq in totale riservati a servizi pubblici, cioè un asilo nido, una scuola media, una ludoteca, uno spazio multimediale e pure un parco giochi, una pista ciclabile e percorsi per la pratica del fitness all'aperto.
Quanto al verde esistente, che diventerà meno della metà di quello attuale, dovrà essere «riqualificato», ovvero in parte smembrato e reimpiantato. Si salverà di certo il triplo filare di pini oggi esistente, che diventerà il viale di accesso pedonale. Saranno realizzati, inoltre, 61.740 metri quadri di parcheggi. Sono numeri che preoccupano i residenti di questa zona dell'Eur, già congestionata per via di un mastodontico centro commerciale che sorge a 500 metri di distanza.
La storia del defunto velodromo di Roma è una storia di malagestione e degrado. Quella del progetto di «riconversione» dell'impianto una storia di scambi e grandi affari. L'inizio della fine è l'anno 1968, l'ultima volta che il velodromo viene utilizzato per competizioni sportive, i mondiali di ciclismo. Dopo di allora il Coni, che aveva in gestione la struttura, vi effettua lavori di manutenzione, che tuttavia non ne ripristinano la funzionalità, parzialmente danneggiata (in particolare le gradinate di cemento, che seguivano l'andamento curvilineo grazie un pregevole studio dinamico) dai dissesti geologici. Così, dal '68 in poi, il velodromo serve per i soli allenamenti fino a diventare, negli ultimi suoi anni di vita, un luogo di bivacco per senza fissa dimora.
Uno studio svolto dall'università «La Sapienza» dimostra che è possibile restaurare il velodromo ma diversamente la pensano sia il Comune, proprietario di una parte dell'area che circonda l'impianto (meno di 6000 metri quadri), sia il proprietario del velodromo e dei restanti 58 mila mq di verde, l'Eur Spa, società privata a capitale interamente pubblico (90% ministero dell'Economia e delle Finanze, 10% Comune di Roma) nata sotto la giunta Rutelli dalle ceneri del vecchio Ente Eur. Così, nel 2003, Comune e Eur Spa stipulano l'accordo di programma che scaverà le fondamenta dell'avveniristico complesso architettonico: sì alla speculazione immobiliare, a patto che sull'area di proprietà del Comune (meno del dieci per cento del totale) sorgano una serie di servizi pubblici e a patto che resusciti l'antica ellissi della pista di Ligini, compresa la pensilina che un tempo copriva la gradinata principale e che ora diventerà un pannello per l'energia solare.
Il nuovo centro acquatico, a vedere il progetto, piuttosto che un impianto dedicato alla collettività appare destinato a un'elite facoltosa. Delle sei piscine coperte previste una sola è olimpionica - e dunque adatta ad ospitare competizioni sportive - mentre il resto dello spazio sarà occupato, oltre che da un bar e un ristorante, da una ultramoderna sala fitness, da una sala spinning, da un'area per l'attività cardiovascolare, da un sofisticato solarium comprensivo di «pioggia» e «nebbia» tropicali, da una sala dotata di sauna finlandese, sauna tirolese e bagno turco nonché di docce cosiddette a «secchio» e a «getto». Ci sono poi un'altra sala per massaggi e talassoterapia, un «calidarium», un «tepidarium» e un «frigidarium» . E anche una vasca per praticare nuoto contro corrente, ad altissimo consumo energetico. L'intera opera, secondo i progettisti, dovrebbe costare 104 milioni di euro e sarà realizzata in 29 mesi da una società nata ad hoc, «Acquadrom», costituita dal 51% da «Condotte», il colosso che ha già vinto l'appalto per il nuovo Palacongressi dell'Eur (la cosiddetta «Nuvola» di Fuksas) e per il 49% da Eur Spa. I soldi per la costruzione del centro acquatico, ha assicurato Eur Spa, arriveranno dalla vendita di quei 21mila mq di uffici che sorgeranno attorno all'ex velodromo e che saranno i primi ad essere edificati. I cantieri apriranno nel 2009.
Sulla discussa demolizione del velodromo di Cesare Ligini, v. anche su Italia Nostra.org
Settecentocinquanta ettari edificabili nelle campagne.
E sulla capitale
si prepara a cadere una nuova ondata di cemento
di Alberto Statera
Tor Pagnotta, Bufalotta, Malafede, Magliana, Casal Boccone, Castellaccio, Murate. Un arcano spregiativo segna nei nomi i confini dell’ormai smisurato impero palazzinaro del terzo millennio, che dalle rarissime e dolci denominazioni come Romanina e Madonnetta non può sperare riscatto. Mentre i nuovi re di Roma, come li ha chiamati Milena Gabanelli in una famosa puntata di stanno finendo in quei luoghi di accerchiare la capitale con una distesa di cemento pari a un’area grande come dieci volte quella di Parigi, accumulando ricchezze immense, il nuovo sindaco post-fascista Gianni Alemanno perfeziona il sacco prossimo venturo della capitale, che va sotto il nome di "housing sociale" e che si aggiungerà a quello già in corso. Venticinquemila nuovi appartamenti, 9 milioni di metri cubi, da costruire per cominciare su altri 750 ettari di quel che resta dell’Agro romano, dopo che 60 mila sono già stati cementati. I proprietari privati cedono terreni agricoli su aree vincolate per fare edilizia convenzionata a destinazione residenziale e in cambio ottengono l’autorizzazione a costruire su altri terreni per vendere a prezzi di mercato. L’"agricoltura d’attesa", come si definisce l’enorme estensione terreni tenuti lì incolti in attesa dell’edificabilità, torna a premiare gli astuti, pazienti palazzinari. Chi poi di pezzi di Agro ne aveva pochi, insediato Alemanno in Campidoglio, è corso a comprare con i soldi in bocca, pregustando lo skyline dei nuovi insediamenti, così fitti di palazzine che non ci passerà nemmeno un autobus.
Diceva Francesco Saverio Nitti: «Roma è l’unica città mediorientale senza un quartiere europeo». Cent’anni dopo nessun quartiere può dirsi europeo tra i dieci chiamati burocraticamente "centralità", sui 18 previsti, che soffocano Roma con una nuova città da 70 milioni di metri cubi, praticamente una nuova Napoli incistata sulla capitale. Né l’europeizzazione è garantita dal piano regolatore, che Alemanno si appresta a sbullonare, varato dal sindaco Walter Veltroni in articulo mortis, esattamente cento anni dopo quello di Ernesto Nathan, il massone di origine inglese che rifiutò di firmare la voce di bilancio "frattaglie per gatti". Da dove il detto romanesco "nun c’è trippa pe’ gatti".
Oggi di trippa ce ne è in abbondanza per i nuovi palazzinari, pudicamente diventati immobiliaristi, che non sono più gli zotici capomastri che nei primi anni Settanta accorrevano al salvataggio della papale "Immobiliare Roma", precettati dal cardinal Marcinkus e dal vicepresidente e amministratore delegato del Banco di Roma Ferdinando Ventriglia, il banchiere democristiano che con i suoi fidi li teneva prigionieri. Oggi sono loro a possedere banche, banchieri, finanza, giornali, giornalisti, partiti politici, ministri, arcivescovi, sindaci e architetti. Sono loro a condizionare, nella crisi dell’economia globalizzata, gli equilibri periclitanti del capitalismo nazionale.
Enrico Cuccia trafficò con la cosiddetta ala nobile del capitalismo ormai estinta, il suo successore in Mediobanca Cesare Geronzi curò soprattutto l’ala ignobile di quel capitalismo cementizio che di un pezzo preponderante dell’economia nazionale si è impossessato, partendo da Malafede e da altri agri romani dalle cupe denominazioni. Fatta salva naturalmente la Madonnetta. Vedere per credere. Ma chi, pur nato a Roma, potrebbe credere in quel che vede se imbocca oggi, poniamo, via della Bufalotta? A Nord Est della capitale, tra la Salaria e la Nomentana, entri in un budello che si snoda per chilometri e chilometri tappezzato di pizzerie, discariche di pezzi di ricambio, tombini saltati, pittoreschi cartelli pubblicitari fai-da-te, solarium, benzinai, effluvi d’incerta natura e improbabili centri estetici. Ti viene da pensare in fondo che soltanto provinciali esteti come Pier Paolo Pasolini potevano amare questa Roma. E persino che andrebbe eretto un monumento equestre a quel palazzinaro milanese che oggi siede a Palazzo Chigi e tanti anni fa edificò Milano-2 e Milano-3 ottenendo, con l’aiuto di Bettino Craxi, non solo le licenze edilizie, persino lo spostamento delle rotte aeree che col rumore avrebbero potuto disturbare i futuri residenti.
Ma non è lungo il serpentone della Bufalotta o nei centri commerciali che lo circondano, alcuni dei 28 che in pochi anni sono spuntati intorno a Roma, che trovi la misura di questa città sovrapposta alla città, grande più o meno come Padova, capace di contenere 200 mila persone. Devi inoltrarti a destra e a sinistra, verso la Nomentana e verso la Salaria, dove verdeggiava il dolce Agro romano, oggi punteggiato dagli uffici-vendite delle palazzine. È lì che comincia un singolare viaggio tra letteratura, cinema e poesia con i toponimi che le giunte comunali hanno scelto, incuranti della scissione tra i nomi e il panorama circostante. Non lontano da viale Ezra Pound impera Pietro Mezzaroma, palazzinaro sostenitore del neosindaco postfascista Gianni Alemanno, caso di convergenza con le simpatie mussoliniane del poeta del toponimo. "Mezzaroma e figli" hanno costruito palazzine larghissime da otto piani appoggiate nel nulla, tra strisce d’asfalto coperte di rifiuti e campi disseccati. Come? "Secondo Mezzaroma", dice un enorme cartello pubblicitario plastificato, in spregio a via Robert Musil. Basta spostarsi un po’ ai lati del budello - sarebbe meglio dire bordello, ci corregge un signore che si è indebitato per comprare un appartamento con terrazzo sul nulla - per aggirarsi tra via Adolfo Celi, via Gian Maria Volontè e via Mario Soldati. Alle spalle di Ikea troneggiano gli immensi parallelepipedi dall’incerto colore di Francesco Gaetano Caltagirone, detto Franco o Francuccio, il re dei re di Roma, l’uomo più liquido d’Italia, come dicono le cronache finanziarie, titolare di un patrimonio di incalcolati miliardi di euro (forse 23) che dalla Bufalotta e da altre location periferiche della capitale è approdato a Siena, Rocca Salimbeni, dove è vicepresidente del Monte dei Paschi, a piazza Unità d’Italia, Trieste, con le Generali, in laguna con Il Gazzettino, a Napoli con Il Mattino, oltre che a Roma, via del Tritone, dove la figlia Azzurra, moglie di Pierferdinando Casini, presidia Il Messaggero, primo giornale della capitale. Non è il solo a dilettarsi con i giornali. Domenico Bonifaci, quello che ha appena imprigionato l’ingresso a Roma dalla via Flaminia con lo scempio degli immensi palazzoni che lambiscono la stretta striscia d’asfalto, controlla l’altro giornale di Roma, Il Tempo, mentre i fratelli Toti sono tra gli azionisti della Rizzoli-Corriere della Sera.
I palazzoni residenziali targati Caltagirone hanno sette, otto, dieci piani, poggiati tra buche, erbacce, immondizia. Chi comprerà mai l’invenduto ora che i mutui sono cari e vengono erogati dalle banche con il contagocce? Passeggia per via Cesare Zavattini, pace all’anima dell’umorista che viveva nel verde dei Castelli Romani, una giovane signora con il pupo in carrozzina. Non abbiamo il coraggio di interrogarla, ma leggiamo nei suoi occhi la disperazione esistenziale. Un appartamento di 90 metri quadri pagato (anzi da pagare con mutuo indicizzato) 320 mila euro per scarrozzare il neonato in questa landa da pionieri del Far West, una favela che prometteva lusso con le sue terrazze a mezzo melone, con parapetti a intarsio e piscine condominiali vuote, senza collegamenti. Metrò, autobus, strade, asili, scuole, servizi? Un sogno perduto. Dov’è Roma? Dove San Pietro, il Colosseo, il Quirinale? Caltagirone è in ogni dove, ovunque ci siano ettari di Agro da edificare, ma a Bufalotta, dove vende con l’"Inter Media Group" i suoi cuboni a 4 o 5 mila euro al metro, condivide la cementificazione praticamente con l’intera genia dei nuovi palazzinari. Lui è liquido, molti altri costruiscono per farsi con le banche, come si dice, la "leva finanziaria". Scavalchi via Riccardo Bacchelli, l’autore del "Mulino del Po", e t’imbatti in via Olindo Guerrini il poeta scapigliato detto "lo Stecchetti", che poetava: «Quando schizzan le sorche innamorate/ Dalle tue fogne, o Roma».
Bufalotta non è l’unico cuore della speculazione immobiliare di Roma, che ha creato una nuova classe di padroni del capitalismo italiano, è solo uno dei luoghi dove s’incrociano gli interessi di quasi tutte le famiglie palazzinare. Oltre a Franco Caltagirone, capo di una dinastia di origine siciliana di cui fanno parte il fratello Leonardo, che ha costruito il "Parco Leonardo" vicino all’autostrada per Fiumicino, e Edoardo, ci sono i Caltagirone Bellavista, sopravvissuti ai tempi di Andreotti ("a Frà, che te serve", chiedeva Gaetano al factotum andreottiano Franco Evangelisti), impegnati in varie, discusse operazioni immobiliari. E poi Bonifaci, Scarpellini, Mezzaroma, Parnasi, Todini, Erasmo Cinque, Pulcini, Navarra e Toti. Spesso si dividono le torte, ma qualche volta si scannano. Ultimo caso: i fratelli Toti vendono un terreno a Franco Caltagirone e poi dalla giunta Veltroni, che sta per concludersi, cercano di farsi autorizzare una variante per trasformare in residenziali altre aree a Bufalotta vicine a quelle che il re palazzinaro ha pagato fior di quattrini. L’operazione salta. Claudio Toti, il fratello del capoclan Pierluigi, la prende sportivamente e dice che in fondo la sua aspirazione è di andare a fare mozzarelle in Uruguay. Caltagirone, invece, non la manda giù e, eletto Gianni Alemanno sindaco, attacca il centrosinistra che ha governato per quindici anni: «Con Veltroni - sibila - Roma è andata a picco». Ma non concede appoggio preventivo al nuovo sindaco: «Ristoranti e pizzerie con Veltroni, con Alemanno torneremo alla tessera del pane». Persino Erasmo Cinque, intimo di Gianfranco Fini, ha già avvertito Gianni Alemanno: «Il rodaggio è finito» e ha preso di petto il sindaco che ha nominato all’Acea Giancarlo Cremonesi, pur suo collega palazzinaro e antico sodale di destra. L’ala sociale postfascista costringerà i palazzinari a una stagione di digiuno con l’"housing"? Difficile, più probabile che capiti il contrario visto il tono "proprietario" con il quale i potentati del mattone si rivolgono alla nuova giunta capitolina. Alemanno dice di voler riscrivere il piano regolatore veltroniano, che l’urbanista Pietro Samperi, autore di "Mezzo secolo di politica urbanistica romana - Dalle illusioni degli anni ‘60 alle disillusioni degli anni 2000", definisce il viatico per un sacco di Roma "subdolo e strisciante". E ha già provato a mettere i piedi nel piatto, bocciando il progetto di Renzo Piano per le Torri del ministero delle Finanze da abbattere all’Eur per fare 170 mila nuovi metri cubi di Toti, Ligresti, Marchini, con 400 appartamenti di superlusso davanti alla "Nuvola", il centro congressi firmato da Fuksas. Un affronto stilistico al quartiere mussoliniano - dice il sindaco - uno stravolgimento della skyline di Piacentini.
Sorridono i Caltagirone di ogni ramo, sorridono i fratelli Toti della Lamaro con i Parnasi, i Mezzaroma, i Bonifaci. Pensano già ai profitti che metterà in moto la fine dell’attesa per l’"agricoltura d’attesa", a tutto il cemento che coprirà le ultime, dolci colline dell’Agro. Gianni è un ragazzo semplice e appassionato. Ma anche lui capirà. Capirà chi comanda a Roma. E in Italia.
Parla l’urbanista Vezio De Lucia
"I residenti calano crescono solo le case"
intervista di Francesco Erbani
«La dissipazione della campagna intorno a Roma è una delle pagine più tristi dell’urbanistica negli ultimi decenni. Fra quelle alture e quei fossi è custodita la più grande riserva archeologica del nostro pianeta e altissimi sono i pregi paesaggistici». Vezio De Lucia, urbanista, ha vasta conoscenza di come siano cresciute le città italiane negli ultimi cinquant’anni. Di come si stiano trasformando, anche in epoca di bolle immobiliari e di subprime. E di quanto sia stata anomala l’Italia a livello europeo. Ha lavorato a Napoli, il paradigma del sacco speculativo negli anni fra il Cinquanta e il Settanta. Ha studiato, fianco a fianco con Antonio Cederna, lo sviluppo di Roma "a macchia d’olio", lo sviluppo strattonato dagli interessi della Società generale immobiliare e di proprietari fondiari che si chiamavano Gerini, Vaselli, Torlonia. Al quale si è accompagnato l’abusivismo edilizio.
Sulla scorta di queste esperienze, De Lucia osserva come sta cambiando Roma. «L’idea di Gianni Alemanno di costruire circa trentamila appartamenti nell’agro romano senza rispettare alcun disegno complessivo, accentua i difetti che il piano regolatore di Rutelli e Veltroni non ha mai corretto ed anzi ha peggiorato».
Quali difetti?
«A Roma si è realizzata una condizione abitativa terribile. Gli insediamenti si disperdono, la città si sta spappolando. Si aggravano i disagi per gli spostamenti e si rende più onerosa la costruzione di un sistema di trasporto pubblico efficiente, costretto a inseguire i brandelli di città».
Ma perché la città non si espande in maniera più regolata?
«Intanto va detto che i residenti a Roma diminuiscono. Crescono solo le case. E solo le case a libero mercato. Si consuma suolo. Non si interviene dove ci sarebbe più bisogno, per esempio per rimettere in sesto le periferie, come si sta facendo largamente in Europa. Insomma, si costruisce dove vogliono i possessori delle aree: restano loro i veri regolatori della crescita di Roma e di altre città italiane».
Dunque si costruisce male?
«La gran parte dei 15 mila ettari su cui a Roma si è edificato e si sta edificando presentano densità bassissime: si spreca molto spazio. Ma la gente in questi nuovi insediamenti non ha servizi, non ha mezzi pubblici efficienti. Si stanno creando dormitori inospitali. Si perpetua il meccanismo della "macchia d’olio", si costruisce in tutte le direzioni e non si interrompe, se non in minima parte, l’anomalia per cui la gente va ad abitare nelle zone periferiche e ogni mattina va a lavorare, in macchina, nelle aree centrali e semicentrali della città, che a loro volta si svuotano di residenti. E così abbiamo strade intasate e inquinamento insopportabile».
Si accentua anche l’anomalia di Roma, e non solo di Roma, rispetto alle grandi città europee?
«In Germania, in Francia, in Inghilterra hanno conosciuto prima di noi il fenomeno della dispersione abitativa. Ma stanno cercando di porvi rimedio, con interventi che limitano, anche drasticamente, il consumo di suolo. Basti osservare la Catalogna. C’è però un’altra differenza: la diffusione degli insediamenti nel Nord Europa segue prevalentemente i tracciati dei trasporti pubblici su rotaia. Vengono prima i treni, le metropolitane e dopo le case. Da noi abbiamo sempre seguito la strada inversa».
qui in eddyburg riportato il testo integrale del servizio di Report
"Niente case nell´Agro romano" Dal Pd a Italia Nostra, un coro di no
Giovanna Vitale
«Giù le mani dall'Agro romano». Dal Pd ai Verdi, da Legambiente a Italia Nostra, dal Comitato per il verde urbano all'Unione inquilini, dall'IdV alla Destra di Storace, è unanime il coro di no allo schema di delibera messa a punto dal sindaco Alemanno per invitare chiunque sia in possesso di un terreno agricolo a offrirlo al Comune per realizzare 25mila case popolari. Il bando per il reperimento delle aree di riserva, che in cambio della cessione di suolo offre ai privati la possibilità di costruire altrove, sarà approvato in giunta mercoledì prossimo: la chiave per aprire alla modica del nuovo Prg e alla cementificazione della cinta naturale della capitale.
«La distruzione dell'Agro romano sarebbe non solo uno scempio, ma un danno gravissimo per i cittadini» tuona l´assessore regionale all´Agricoltura, Daniela Valentini. «Nel Lazio, negli ultimi dieci anni, sono già spariti 127mila ettari di campagna, un territorio pari a una città come Roma» denuncia. «E con il bando di Alemanno le cose non potranno che peggiorare: il nuovo Prg, infatti, ha dato certezze, stabilito quali fossero le destinazioni d'uso dei terreni, stoppato la cosiddetta agricoltura d'attesa, quella cioè praticata dai grandi costruttori che, sperando nella trasformazione delle loro proprietà in zone edificabili, le ha di fatto immobilizzate, rese improduttive». Il j'accuse della Valentini è durissimo: «Alemanno ha rimesso in moto la caccia di suolo agricolo da parte degli imprenditori romani, facendo tornare la città agli anni peggiori della speculazione edilizia. La campagna è vitale per una metropoli come la nostra: un polmone verde che può essere volano di sviluppo per un´altra economia, capace di produrre ricchezza e servizi».
E sebbene il sindaco si dica «sconcertato per le polemiche: noi cercheremo di non compromettere l'agro romano, ma abbiamo ereditato dalla precedente amministrazione una dotazione massima per 6mila alloggi che sono assolutamente insufficienti a dare una risposta adeguata all´emergenza», le associazioni ambientaliste sono sul piede di guerra. Persino Italia Nostra, da sempre vicina al primo cittadino: «Il bando non modifica certo in maniera positiva il nuovo Prg», fa sapere la sezione romana, «meglio procedere alla demolizione e ricostruzione in aree degradate o dismesse». Verificando insomma «tutte le possibili soluzioni prima di intaccare irrimediabilmente il nostro patrimonio», esorta il segretario dell'Idv, Roberto Soldà. Cominciando magari da «un serio censimento del fabbisogno abitativo reale», suggerisce Massimiliano di Gioia dei Verdi. Perché è vero che «l'emergenza abitativa deve avere risposte giuste», sostiene Annamaria Procacci del Comitato verde urbano, «ma risparmiando nuove colate di cemento su un territorio prezioso, ormai molto ridotto dall'avanzata della città».
Timore al quale si associa l'Unione Inquilini («Si avvicina una nuova cementificazione, tanto più che Alemanno fa confusione fra social housing, alloggi da affittare a canone agevolato, e case popolari»), mentre Legambiente fa il calcolo dei possibili danni. «Le aree da reperire rientrano nei circa 24mila ettari destinati ad Agro romano vincolato», spiega il responsabile Territorio, Mauro Veronesi: «Ebbene, edificare 25mila appartamenti significherebbe realizzare quasi 9 milioni di nuovi metri cubi. Ritornando così alla prima versione del Prg varato dalla giunta Veltroni nel 2002, che prevedeva 770 ettari di aree di riserva poi faticosamente ridotte a 385. Con gli attuali indici edificatori, quindi, occorrerebbero ben 750 ettari di nuovo suolo da consumare, pari a 9 volte Villa Borghese, Pincio compreso». Esplicito il sospetto di Vladimiro Rinaldi, consigliere regionale della Lista Storace: «Non vorremmo che dietro la promessa di nuove case popolari ci fosse già un piano per spianare la strada dell'Agro romano alle ruspe».
Parla l'assessore all'Urbanistica Marco Corsini "Prenderemo soltanto le aree che servono"
Giovanna Vitale
«Prenderemo tutte le aree che servono ma solo quelle che servono». È questo lo slogan coniato dall'assessore all'Urbanistica, Marco Corsini, per spiegare la ratio del bando, da lui materialmente confezionato, sulle aree di riserva.
Assessore Corsini, molti temono che con il pretesto delle case popolari si apra la strada alla cementificazione selvaggia dell'agro romano...
«La giunta ha delineato una manovra nella quale l'interpello pubblico ai proprietari costituisce uno dei passi, ma non l'unico, per individuare le aree da destinare all'housing sociale. È comunque nostra intenzione non intaccare le zone pregiate, ma solo quelle compromesse. Occorre accantonare l'ideologia della sacralità dell'Agro».
Quindi il polmone verde della città sarebbe un inutile orpello?
«L'Agro è sì patrimonio di Roma, ma quando la città ne ha bisogno per il suo sviluppo deve poterne usare con la dovuta parsimonia. Ovviamente uso non vuol dire abuso: la nostra stella polare sarà il fabbisogno reale».
Ma scusi, con l'attuale Prg si potrebbero costruire subito tra i 6 e i 7mila alloggi, fino ad arrivare a 20mila. Perché non seguire questa strada anziché quella del bando?
«Uno dei punti critici dell'attuale Prg è la scarsa flessibilità, la sua distanza dai reali bisogni dei cittadini. È vero che ha delle potenzialità edificatorie, ma richiedono i tempi lunghi della fase attuativa, incompatibili con l'attuale necessità di far fronte all'emergenza».
Insisto: anche modificare il Prg richiede tempi lunghi. Allora perché non dar corso subito all'attuazione, anziché rimettere mano alla pianificazione varata meno di otto mesi fa?
«Il Prg va corretto perché non dà sufficienti garanzie di usufruire di aree per l'edilizia popolare e per le compensazioni che servono a tutelare le zone verdi di pregio».
Ma i romani quando vedranno queste benedette case popolari?
«Intanto noi censiamo le aree, faremo una graduatoria e le lasceremo lì fin quando non sarà definito il fabbisogno. Nel frattempo speriamo di inserirci nelle procedure accelerate prevista dal governo per il Piano Casa e di ottenere i poteri speciali di Roma capitale».
Ma ci vorranno anni...
«Sono processi lunghi, certo non domani».
Intanto è partita la caccia alle aree agricole nella speranza che voi le prendiate dando in cambio nuove cubature... Una bella speculazione non le pare?
«Si chiama cessione compensativa: cubatura al posto dei soldi per l'esproprio che l'amministrazione non ha. Comprare le aree a prezzi di mercato è impensabile».
L'assessore regionale Di Carlo propone però di aumentare la densità abitativa anziché espandere la città sull'Agro...
«Significa realizzare palazzi di 6-7 piani in periferia. Roma modello Tokio a noi non piace. La bassa densità abitativa contribuisce ad aumentare la qualità della vita dei romani. E va salvaguardata».
Postilla
Come sanno i nostri lettori, eddyburg è stato fra i più rigorosi censori del recente prg capitolino a firma Veltroni-Morassut, ma in questo caso il rimedio è ancora peggiore del male. La filosofia urbanistica che traspare dalle parole dell'assessore Corsini è di tale desolante arcaicità palazzinara da meritare solo un commento lessicale: anni di battaglie per la salvezza di una delle aree più preziose e fragili dal punto di vista naturalistico, culturale, storico, liquidati come "ideologia" sorpassata. E l'Agro romano viene sacrificato in nome dei due moloch di vecchia conoscenza: "sviluppo" e "flessibilità". Non stupisce che il più convinto riconoscimento al prg veltroniano sia elargito dall'assessore alle "potenzialità edificatorie". Nomina nuda tenemus (m.p.g.)
Cinquecento milioni l’anno a Roma per ripianare i suoi debiti, più poteri alla Capitale, dalla valorizzazione dei beni storico-artistici alla pianificazione urbanistica, e, soprattutto, il passaggio dallo Stato al Campidoglio di un patrimonio miliardario tra cui le caserme di Prati e di Castro Pretorio.
L’emendamento del governo alla legge finanziaria è stato annunciato ieri dal sindaco Alemanno. Il Pd: "Hanno cambiato nome al consiglio comunale senza nemmeno consultarlo" Il consiglio comunale si chiamerà "Assemblea capitolina" Augello: "I beni del demanio produrranno un altro mezzo miliardo l’anno"
Le telecamere che ronzano nella Sala delle Bandiere. Gli spot delle luci accesi. E il sindaco Alemanno, completo scuro, che annuncia: "Dopo 30 anni Roma ora avrà uno statuto con poteri e finanziamenti degni di una città capitale". Cinquecento milioni l’anno alla città per ripianare i suoi debiti, più poteri, dalla valorizzazione dei beni storico-artistici alla pianificazione urbanistica, dalla protezione civile alla difesa dall’inquinamento, e, soprattutto, il passaggio dallo Stato al Campidoglio di un patrimonio miliardario: tutte quelle strutture, di proprietà del demanio, ora dismesse, tra cui terreni in periferia e le caserme di Prati e di Castro Pretorio. "In parte le venderemo» ha spiegato il sindaco «e in parte le utilizzeremo per i servizi della città».
Lui, Alemanno, di mattina presto era già davanti alla porta del Consiglio dei ministri, per attendere il provvedimento, un emendamento del governo alla legge sul federalismo fiscale. «Me lo ha portato Matteoli» racconta «E allora ho capito che i risultati erano stati raggiunti. Spero che adesso i presidenti della Provincia e della Regione Zingaretti e Marrazzo collaborino per mandare in porto l’operazione».
«I 500 milioni» aggiunge Alemanno «saranno erogati dal 2008 e serviranno per pagare le rate di ammortamento degli 8,6 miliardi di debiti accumulati». Poi non lesina stoccate all’opposizione: «Un miliardo e 800 milioni non erano emersi dal bilancio. E a maggio, quando sono arrivato, mi hanno detto che non c’erano i soldi per pagare gli stipendi ai dipendenti del Campidoglio. Ringrazio Berlusconi. Ora non si potrà più dire che il governo di Destra è contro Roma. Una svolta decisiva perché i provvedimenti per Roma capitale si attendevano fin dall’era Craxi. Anche Prodi e Veltroni avevano elaborato un protocollo, poi rimasto lettera morta».
Ma ecco l’emendamento al disegno di legge sul federalismo fiscale approvato ieri dal Consiglio del ministri, che attua l’articolo 114, comma 3 della Costituzione. Si prevede che Roma si trasformi da un normale comune in un ente territoriale, denominato, ‘Roma Capitale’ "con speciale autonomia statutaria, amministrativa e finanziaria, al fine di svolgere le funzioni di Capitale della Repubblica italiana e di sede di rappresentanza diplomatica di Stati esteri".
Il Consiglio comunale assumerà il nome di Assemblea capitolina e approverà il nuovo Statuto con particolare riguardo al decentramento municipale. Saranno trasferiti, a titolo gratuito, a Roma Capitale, i beni del patrimonio dello Stato non più funzionali alle esigenze dell’amministrazione centrale. Precisa Alemanno: «Inseriremo questo patrimonio nella revisione del piano urbanistico. Avremo così le risorse fondiarie per lanciare progetti adeguati». E secondo Andrea Augello, che lavora nello staff tecnico del sindaco «la valorizzazione di questo patrimonio potrebbe rendere al Comune altri 500 milioni l’anno».
Rimane irrisolto il problema della città metropolitana. L’emendamento approvato dal consiglio dei ministri prevede, infatti, che i confini di Roma capitale coincidano con quelli attuali del Comune di Roma. Tra le funzioni che l’emendamento attribuisce a Roma capitale, vi sono la tutela e la valorizzazione dei beni storici, artistici e ambientali; la difesa dell’inquinamento; lo sviluppo economico e sociale di Roma capitale, con particolare riferimento al settore produttivo e turistico; lo sviluppo urbano e la pianificazione territoriale; l’edilizia pubblica e privata; l’organizzazione dei servizi urbani e di collegamento con i comuni limitrofi. Le funzioni saranno disciplinate attraverso regolamenti adottati dall’assemblea capitolina e dai decreti legislativi che il Governo è delegato ad emanare entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge.
«Siamo favorevoli e disponibili ad allargare i poteri all’area metropolitana» ha concluso Alemanno «ma su questo tema il dibattito è controverso. Molti comuni dovrebbero cedere poteri a Roma e alcuni non vogliono farlo. Per il momento raggiungiamo l’obiettivo dei poteri al Comune capoluogo».
Sono rimasto stupefatto dalla lettura del libro di Walter Tocci, Italo Insolera, Domitilla Morandi, da pochi giorni in libreria (Avanti c’è posto. Storia e progetti del trasporto pubblico a Roma, Donzelli, € 29). È diviso in due parti, una di Tocci, l’altra di Insolera e Morandi, tutt’e due trattano di tram, ma sono profondamente diverse. Il testo di Insolera e Morandi è dedicato davvero al tram, e dà conto degli studi e dei progetti che i due autori hanno prodotto come consulenti del comune di Roma, in particolare: via Nazionale; il centro e il lungotevere; la via Aurelia; il cosiddetto Archeotram, cioè la linea, da Termini all’Appia Antica,che avrebbe dovuto connettere i più importanti punti di interesse storico archeologico della capitale. Ogni argomento è sviluppato con grande attenzione al profilo storico, ai confronti internazionali, ad aspetti anche minutamente tecnici. Nessuno dei progetti è stato realizzato, né credo lo sarà, ed è spontanea la riflessione su come sarebbe Roma se quelle idee avessero avuto seguito, e certamente diversi sarebbero stati gli esiti delle elezioni amministrative (e forse anche di quelle politiche). Su tutto ciò spero che ci sia occasione di tornare.
Del tutto diversa è la prima parte del libro, quella scritta da Tocci. Qui il tram è un pretesto. Un pretesto per affrontare le questioni cruciali della politica urbanistica romana, gli errori commessi, le occasioni perdute, la subordinazione agli interessi fondiari (“A Roma la forza unificante dell’economia del mattone ha sempre vinto sulle differenze degli ordinamenti politici” [p. 93]. Il terzo capitolo della prima parte del libro (La chiamiamo ancora Roma) è un’indagine critica dell’urbanistica romana contemporanea molto approfondita, rigorosa, lucida, convincente. Non è che Tocci vada fuori tema rispetto al tram. Il tram, sostiene Tocci, va visto come occasione di riorganizzazione della città, non come mero intervento ingegneristico [p. 9]. “Per contenere la città infinita – scrive Tocci – l’unica possibilità è la città del tram. Nei casi migliori è stata la risposta europea alla tendenza internazionale verso lo sprawl, sempre assecondata invece negli Usa, con la generalizzazione del modello Los Angeles, e nei paesi emergenti con la formazione delle megacittà. In Italia, a dispetto della tradizione di civiltà urbana, sembra prevalere il modello insediativo americano e Roma non è da meno” [p. 10]. A Roma, infatti, si è formato “uno dei più grandi esempi di sprawl in Italia e per certi versi anche in Europa. È paragonabile a quello dell’area milanese e a quello del Nord-est, ma prende gli aspetti peggiori di entrambi, la forte gravitazione del primo e la bassa densità del secondo. In verità il modello di riferimento non è né italiano né europeo, ma quello americano delle inner cities circondate da immense distese di villette, molto diverso dalla cultura urbana che abbiamo ricevuto in eredità”. [p. 105].
Il modello insediativo americano, cioè l’espansione senza fine, a Roma hanno tentato di camuffarlo chiamandolo “policentrismo”, all’uopo inventando le cosiddette nuove centralità. Ma se un episodio urbano si ripete una ventina di volte (tante sono le nuove centralità previste alla scala urbana) non si centralizza alcunché, commenta Tocci [p. 116]. Secondo lui, il nuovo piano regolatore di Roma non è neppure un nuovo piano, ma un’ennesima variante di quello del 1962, di cui si condivide la forte geometria espansiva. “Attuare oggi quelle previsioni urbanistiche è in un certo senso più grave che averle pianificate negli anni sessanta” [p. 118]: nessuno di noi, critici da sempre del piano di Roma, aveva osato arrivare a questa conclusione. Eppure le valutazioni di Tocci non sono mai pregiudiziali ma sempre espresse a conclusione di un’analisi puntualmente documentata, spesso facendo riferimento ai risultati dei modelli di simulazione. Dai quali risulta, per esempio, che “un quartiere realizzato nella periferia anulare, dopo massicci investimenti infrastrutturali, è in grado di offrire ai cittadini un’accessibilità su ferro tre volte più bassa della media cittadina e sei volte più bassa dell’area centrale” [p. 112].
Penso che i lettori condividano il mio stupore. Tocci è stato vicesindaco di Roma e assessore alla Mobilità dal 1993 al 2001, quando fu sindaco Francesco Rutelli. È inevitabile allora che ci si chieda se l’insostenibilità del nuovo piano regolatore, Tocci l’abbia fatta presente all’amministrazione di cui è stato autorevolissimo esponente. Nel libro non c’è risposta. Apprendiamo solo che nel 1996 presentò uno studio dell’assessorato alla Mobilità sotto forma di contributo alle discussioni sul nuovo Prg (come se fosse stato un consulente). E negli ultimi giorni del suo mandato curò una pubblicazione, che assume l’importanza di un testamento (“Se non si modificano le regole della trasformazione urbanistica non ci può essere nessuna politica della mobilità in grado di risolvere il problema. Anche i piani di traffico più ambiziosi sarebbero come il tentativo di svuotare il mare con un secchiello" [p. 113]). Il vicesindaco si domanda addirittura “perché in un lungo ciclo di buongoverno come quello dell’ultimo quindicennio, non sia stato possibile compiere una svolta nella politica urbanistica” [p. 124]. Anche noi vorremmo proprio saperlo.
Ma in fondo tutto ciò non è molto importante. Importante è che abbiamo recuperato Walter Tocci. Forse non tutti i frequentatori di eddyburg sanno che Tocci è stato, per anni, uno del nostro giro. È stato fra i fondatori – insieme a Gigi Scano, Antonio Cederna, Eddy Salzano, Maria Rosa Vittadini, Paolo Berdini e altri – dell’associazione Polis, capostipite di questo sito. È un intellettuale colto, cultore aggiornato dei fenomeni urbani, e in Avanti c’è posto torna la lucentezza e la passione dello studioso di una volta. Bentornato Walter.
Caro direttore, credo che sia giunto il tempo di portare a conclusione un dibattito, quello sulla costruzione del parcheggio del Pincio, che sta coinvolgendo e appassionando sempre più vasti strati della società civile. Il sindaco di Roma e la giunta comunale nel suo complesso dovranno esprimersi con una memoria di giunta fondata non solo sui nostri intendimenti politici ma anche sulla legittimità che discende dalla continuità dell'azione amministrativa.
Sono due aspetti diversi che non possono essere confusi da chi in buona fede vuole difendere gli interessi incomprimibili della nostra città.
Comincio dalla volontà politica del sottoscritto: io non ritengo che sia opportuno procedere alla costruzione di questo parcheggio. Questa convinzione discende da una corretta applicazione del "principio di precauzione" che deve sovrintendere a tutte le decisioni in materia di tutela ambientale, artistica e archeologica.
Questo principio ci insegna che quando si interviene su un luogo particolarmente delicato e prezioso come il Parco del Pincio bisogna tenere presente non soltanto le condizioni tecniche del progetto, ma anche gli impatti presenti e futuri che questo intervento produrrà nel contesto circostante. Facciamo un esempio: quando si costruì 30 anni fa il parcheggio del Galoppatoio fu garantito ai romani che tale opera non avrebbe intaccato in maniera significativa quel lato incantevole di Villa Borghese e indubbiamente ogni sforzo fu fatto in questo senso dai costruttori di allora.
Andate oggi a vedere come è ridotto il lato del Galoppatoio investito dall'intervento: una landa desolata in cui la presenza sotterranea del parcheggio è fin troppo manifesta non solo attraverso le prese d'aria ma anche dall'emersione dal sottosuolo della massa di calcestruzzo.
Trasliamo questa immagine su un contesto molto più delicato e prezioso come quello del Pincio: chi ci garantisce che fra 5, 10 o 20 anni assestamenti strutturali, carenze di manutenzione, cambi di destinazione d´uso non turbino in maniera irreversibile quel contesto? Neppure gli attuali accorgimenti tecnici annullano, nelle previsioni, gli "affioramenti" del parcheggio quali prese d´aria, griglie di emergenza e gallerie di accesso. Il Pincio è prima di tutto un giardino storico, un parco urbano e, come tale, è tutelato dalla Carta dei Giardini Storici (del 15 dicembre 1982) in cui si raccomanda che "ogni modificazione dell´ambiente fisico che possa essere dannosa per l´equilibrio ecologico deve essere proscritta". Al di là di sentimenti profondi di "sacralità" di molti luoghi romani che ci spingerebbero a desiderare che sotto la terrazza del Pincio ci sia l'antico tufo di quella collina e non un vero e proprio "palazzo" sotterraneo di 7 piani in calcestruzzo, nulla ci assicura che questa ingombrante presenza non riemerga nel tempo in tutta la sua estraneità ad un contesto ambientale come quello di un parco storico. In più, nel definire l'equilibrio del buonsenso e della precauzione, c'è la non indispensabilità dell'opera pubblica progettata: i 700 posti auto pertinenziali possono essere utili per diminuire il numero delle auto parcheggiate nel Tridente, ma la loro realizzazione non risulta risolutiva per la mobilità di questa zona di Roma, obbiettivo che può essere perseguito con soluzioni alternative forse ancora più efficaci come l'ampliamento del parcheggio del Galoppatoio di cui parlavamo prima.
Se correre rischi per un'opera pubblica indispensabile può essere comprensibile, non può certamente esserlo per qualcosa che indispensabile non è, in mancanza di uno studio organico sulla mobilità romana.
Quindi la scelta politica dovrebbe a nostro avviso andare sicuramente verso l'abbandono del progetto del Pincio e l'ampliamento del parcheggio già esistente al Galoppatoio, ottenendo tra l'altro una equivalente o addirittura maggiore redditività economica secondo quanto risulta dai primi approfondimenti dei nostri uffici tecnici. Tuttavia per perseguire questo obbiettivo politico dopo le scelte già compiute dall'amministrazione che ci ha preceduto è necessario un cambiamento forte sul versante delle autorizzazioni previste dall'iter amministrativo.
Dopo che il ministro dei Beni Culturali ha espresso le nostre stesse preoccupazioni, si ripropone la possibilità di una riconsiderazione da parte delle sovrintendenze dei pareri vincolanti che sono stati espressi non solo dal punto di vista archeologico ma soprattutto da quello ambientale e monumentale. Sono queste autorità, nella loro autonomia che ci devono dire se esistono condizioni sufficienti per revocare l'appalto senza incorrere nell'illecito amministrativo. Mentre i nostri uffici stanno completando tutte le istruttorie per valutare ogni aspetto di questa complessa questione, è necessario che ci sia un'attenta considerazione da parte di chi è chiamato più di ogni altro a tutelare il nostro patrimonio ambientale, monumentale ed archeologico.
Postilla
Molte delle considerazioni del sindaco di Roma sono sottoscrivibili e del resto già enunciate in altri interventi sul tema presenti in eddyburg in questa sezione ed è apprezzabile anche il tono generale non ideologico, ma improntato ad affermazioni di buon senso.
Un sorriso strappa però quel richiamo finale indirizzato agli organi preposti alla tutela ad una "attenta considerazione": quell'esortazione ad una "riconsiderazione da parte delle sovrintendenze dei pareri vincolanti", pare stridere con il concetto di autonomia citato en passant poco oltre e lascia un vago retro gusto di condizionamento che i molti milioni in ballo per la penale (annullati in presenza di vincoli Mibac), chiariscono, ma, in linea di principio, non giustificano. (m.p.g.)
Sul Corriere della Sera di ieri, Walter Veltroni, difendendo, ovviamente, il parcheggio del Pincio, sostiene che Roma ha bisogno «di un coraggioso programma per i parcheggi». Benissimo. Saremmo tutti molto grati all'ex sindaco se ci dicesse qual è il coraggioso programma che prevede il parcheggio del Pincio. Se esiste, la discussione finora asfitticamente limitata a una sola opera, potrebbe estendersi vantaggiosamente a tutte le soluzioni previste per l'accessibilità al centro storico, e sarebbe questa la scala giusta per valutare compiutamente la necessità dello scempio del Pincio, e per verificare eventuali altre soluzioni.
Qui ricordo solo che Walter Tocci, quando era vicesindaco e assessore alla mobilità, escluse proprio le aree del centro storico dal piano urbano dei parcheggi. Se è stato fatto un nuovo programma, cambiando la meritoria decisione di Tocci, allora discutiamone. Non dimenticando le disponibilità residue del vecchio parcheggio sotto al galoppatoio di villa Borghese e quelle del nuovo parcheggio in costruzione all'angolo fra ponte Margherita e via Arnaldo da Brescia, a poche decine di metri da piazza del Popolo. Veltroni afferma poi che il 90 per cento dei posti macchina previsti sono destinati ai residenti.
Ma egli certamente sa quant'è difficile garantire il rispetto di questi obiettivi. E com'è facile che nella categoria dei residenti, oltre alle famiglie, siano compresi anche quanti nell'area del Tridente esercitano professione o attività economica, siano proprietari degli immobili o vantino altri titoli che legittimano la titolarità a un posto macchina al Pincio. Servirebbero una severità e una determinazione nella tutela del centro e nel contrastare le destinazioni a parcheggio che a Roma non hanno mai avuto cittadinanza. Cito, per esempio, la repellente sistemazione intorno al Palazzo di giustizia di piazza Cavour, dove i marciapiedi e una porzione di strada sono stati sottratti ai pedoni e difesi da catenelle e squallide recinzioni per essere trasformati in parcheggi riservati ai funzionari degli uffici giudiziari.
Allo stesso uso è stato destinato lo spazio verso il lungotevere davanti all'ex Casa del mutilato. Non si capisce perché alcuni lavoratori - i magistrati, i dipendenti di Camera e Senato e altre categorie del pubblico impiego - debbano beneficiare di così vistosi favoritismi a spese degli altri cittadini e del decoro urbano. Eliminando ingiustificati privilegi si potrebbero recuperare centinaia di posti macchina da destinare agli abitanti e al miglior uso dello spazio pubblico. Ancora un'osservazione all'articolo di Veltroni, là dove sostiene che è stata ed è «sacra» l'area del Pincio, così come tutta villa Borghese. E ricorda che negli ultimi anni tutti gli edifici sono stati ristrutturati e riportati alla loro antica meraviglia. Non è esattamente così. Nell'ultimo libro di Paolo Berdini, La città in vendita , c'è la fotografia della Casina Valadier al Pincio, dove si vede che sono state sopraelevate arbitrariamente le terrazze di copertura. Si legge inoltre che un ettaro della villa è stato privatizzato e destinato all'uso esclusivo dei clienti della Casina.
Poi, ci informa sempre Berdini, in villa Borghese è stato addirittura costruito un teatro, con relativo parcheggio: un'iniziativa degli eredi per onorare la memoria del probabilmente benemerito costruttore Silvano Toti. Non sono precedenti confortanti.
Alla fine il botta e risposta fra il sindaco aennino Alemanno e il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro (forza Italia), condito da una fulminante battuta di Francesco Storace ha fatto capire gli schieramenti delle forze in campo sulla vessata questio della costruzione del parcheggio nel ventre della collina del Pincio.
La giornata, infatti, era cominciata molto diplomaticamente con un’agenzia che annunciava che il ministro dei Beni culturali aveva dato mandato al Capo di Gabinetto, Salvatore Nastasi, di acquisire tutta la documentazione per fornirgli ogni elemento utile per una valutazione complessiva della questione. Si veniva anche a sapere che fra ministro e sindaco c’era stata una telefonata e che Alemanno, fresco di un sopralluogo (venerdì) al cantiere, ringraziava il ministro di una collaborazione certamente capace di «dare una spinta per una soluzione positiva». A rompere il minuetto arrivava la dichiarazione da cater pillar del leader de La Destra: « Se entra in campo Bondi è evidente che il rischio che il parcheggio al Pincio si faccia cresce e di molto». E dal fioretto si è passati alle armi pesanti, infatti a quel punto è sceso in campo Francesco Giro, il sottosegretario ai beni culturali che ha appena lasciato il ruolo di coordinatore di FI nel Lazio, per il quale «se non verrà trovata una soluzione equilibrata per il parcheggio (occasione positiva per un punto di equilibrio ormai inderogabile e non più rinviabile fra sviluppo urbanistico e architettonico della capitale), allora temo che il confronto per la realizzazione della metro C sarà impervio e pieno di ostacoli penso insormontabili».
Frase piuttosto minacciosa che mette su un piatto della bilancia il parere positivo sulla continuazione dei lavori sotto la collina del Valadier e sull’altro quelli per la realizzazione di una infrastruttura fondamentale per la città. A questo punto anche Alemanno ha dovuto abbandonare il riserbo: «Ammiro le granitiche certezze di Giro ma solo nel caso della metropolitana è assolutamente evidente l’interesse pubblico dell’opera».
Intanto slittano ( e per chi non vuole il parcheggio il rinvio è una boccata di ossigeno) le decisioni, martedì la questione doveva andare in Giunta ma il confronto è stato rinviato perché nella stessa data si riunisce il comitato dei saggi che deve valutare i pro e i contro fra il definitivo via libera al parcheggio interrato di 700 posti o il blocco dei lavori, come chiesto da Italia Nostra che, proprio su questo aveva cercato, prima delle elezioni, un rapporto con l’attuale sindaco. Il progetto è infatti una eredità della giunta Veltroni, per il quale l’opera doveva servire a pedonalizzare completamente il Tridente.
Ancora, la precisazione: alla fine deciderà il Campidoglio, il ministero offre le sue competenze tecniche e tutto sarà risolto entro la fine della settimana.
Terreni, immobili, servizi: il grande affare è a terra
di Roberto Rossi
Ci sono i terreni di Pianabella a Fiumicino, una porzione di immobili a Sesto San Giovanni, tutti da vendere. Ci sono i terreni dell’Expo di Milano da sfruttare. C’è tanta terra al sole nei pressi di Linate da riconvertire. Ci sono gli investimenti negli aeroporti italiani, corposi, pesanti, da tutelare. Ci sono le società di handling da sviluppare. Chi crede che la partita Alitalia si giochi solo negli uffici di Air France o Lufthansa corre il rischio di guardare il dito e non la luna. Il grande affare sta altrove. E si chiama speculazione, riconversione, sfruttamento.
Soldi, tanti, difficilmente quantificabili se non parzialmente. D’altronde non è un caso se tra i sedici capitani coraggiosi pronti a sacrificare l’oro alla patria e salvare Alitalia dallo straniero sei sono immobiliaristi o costruttori: Salvatore Ligresti, Francesco Caltagirone Bellavista, la famiglia Benetton, Marco Tronchetti Provera, il gruppo Gavio, il gruppo Fratini. Tutti pronti ad assecondare i desiderata di Berlusconi a condizione che il loro sforzo renda, e non solo con la vendita della propria quota nella nuova Alitalia, fra qualche tempo.
Si prenda il caso Benetton. La famiglia di Ponzano Veneto entrerà in Alitalia con un investimento tra i 100 e i 150 milioni di euro. Lo farà attraverso la controllata Atlantia, società che controlla le autostrade, già beneficiata da una revisione delle tariffe. Ma i Benetton gestiscono anche Adr Aeroporti di Roma (Fiumicino e Ciampino), che controllano attraverso Gemina (di cui fa parte anche Ligresti e il fondo Clessidra, altro azionista Alitalia). Adr, da tempo, è in trattativa proprio con Alitalia per la cessione di circa 50 ettari di terreno in località Pianabella attorno all’aeroporto di Fiumicino. Lo scorso marzo Adr aveva valutato quei terreni 120 milioni di euro. Che fine faranno ora? A quanto venderà quei terreni Benetton azionista forte di Alitalia a Benetton azionista forte di Adr?
C’è da scommettere che in Alitalia i soci non faranno troppe resistenze. Quei terreni, non edificabili, serviranno poi allo sviluppo dell’aereoporto romano. Sul quale Adr ha fatto una scommessa di lungo periodo. Nel piano industriale 2007-2016 la società ha preventivato uno sviluppo del traffico che in un decennio dovrebbe raggiungere i 50 milioni di passeggeri (oggi fermi a 33 milioni). Per farlo ha messo in piedi un programma di investimenti decennali per due miliardi. Tanti soldi che, come si legge anche nella semestrale, corrono il rischio di non avere il ritorno sperato se Alitalia dovesse fallire.
La tutela dell’investimento preme anche agli altri azionisti di Gemina e quindi di Adr, come Ligresti per esempio. Che, per la verità, ha anche altre aspettative. Lui, attraverso la controllata Fonsai (assicurazioni), impegnerà non più di 30-50 milioni. Briciole per il costruttore amico di Berlusconi. Che, però, gli consentiranno di avere un posto in prima fila nel grande affare Expo Milano 2015. Sarà quella la grande scommessa per immobiliaristi e costruttori. La torta è enorme: 3,2 miliardi, infatti, saranno destinati per le infrastrutture altri 892 milioni saranno il budget dell’evento.
A tavola c’è posto per tutti, come per Marco Tronchetti Provera e la sua Pirelli Real Estate o Francesco Caltagirone Bellavista con la società Acqua Pia Antica Marcia. I due in Alitalia metteranno non più di 50 milioni a testa. E aspetteranno. E anche se non dovessero avere troppe soddisfazioni dall’Expo, c’è l’immobile Alitalia di Sesto San Giovanni da alienare (2mila metri quadri per una decina di milioni di euro), ma soprattutto c’è la partita Linate da giocare. Comunque andrà l’aeroporto milanese sarà ridimensionato e molti terreni saranno liberati. Si prospetta la possibilità di una grande speculazione. Quantificarla è ora impossibile, ma negli affari, alle volte, si va a fiuto.
Lo stesso che ha portato ancora Benetton e Caltagirone Bellavista a fare il loro ingresso nell’aeroporto di Bologna. Piccola quota azionaria, in vista della privatizzazione, e gestione della società di handling. E se va in porto l’idea del multihub, che prevede la presenza di Alitalia in diversi aeroporti oltre Roma e Milano, si brinda. Una volta di più.
Linate, Sea vola alto: salotto buono con vista lago
di Luigina Venturelli
RESTYLING Sea l’aveva già scritto nel piano industriale presentato poche settimane fa e riconfermato anche ieri: Linate diventerà «il salotto buono» del sistema aeroportuale lombardo, tagliato su misura per i voli d’affari e per la relativa clientela.
Negozi di lusso «alla Montenapoleone», bar e ristoranti forniti d’ogni golosità made in Italy, il più grande parcheggio di Milano (2600 posti auto) direttamente collegato all’aerostazione da una passerella pedonale coperta, servizi e infrastrutture di livello con tanto di vista sull’acqua.
Vale a dire sull’Idroscalo, il lago artificiale fatto costruire da Mussolini per l’atterraggio degli idrovolanti ed oggi luogo di svago per chi non dispone di seconda casa al lago per i fine settimana. Il progetto di Sea, infatti, prevede «la valorizzazione dell’area waterfront di Linate», come vengono chiamati i terreni ormai dismessi che venivano utilizzati per il traffico merci. Forse per richiamare l’immagine di più noti waterfront (il lungo Tamigi di Londra o il lungo mare di Valencia, tanto per citare i più famosi) riqualificati con ristoranti, alberghi, residenze e uffici con affacci prestigiosi.
Per questo, mentre il governo si dibatte tra cordate nazionali e compagnie straniere per sciogliere il rebus Alitalia, allo scopo sacrificando gran parte dei voli sullo scalo cittadino a favore di Malpensa, la società che gestisce i due aeroporti milanesi non sembra preoccuparsi più di tanto. «Fa fede il piano industriale» è il mantra che si sente ripetere al quartier generale del Forlanini.
Il che significa: tutto fermo fino al 2010, in attesa di vedere quel che succede, aspettando che passi il periodo di «contingency», così sono definiti i prossimi anni di magra, riduzione del volume di affari conseguita agli scossoni degli ultimi mesi e attenzione al riordino dei conti della sezione handling. Poi tutto potrà succedere: Malpensa forse tornerà alla sua vocazione di hub (tipo Zurigo e Monaco), forse si limiterà ad essere grande aeroporto internazionale (i modelli sono Barcellona e Berlino).
Tra due anni, infatti, sarà stato individuato il vettore di riferimento (Lufthansa è sempre in pole position, ma non è detto possano tornare in auge Airfrance o la nuova Alitalia a fare dello scalo varesino la propria base operativa). Sviluppata la rete degli aeroporti a livello infrastrutturale e rivista la gestione delle risorse - secondo le previsioni del presidente Sea Giuseppe Bonomi - si tornerà ai livelli di traffico del 2007 con 34 milioni di passeggeri contro i 28 previsti a chiusura del 2008. Quindi il trampolino dell’Esposizione universale dovrebbe fare il resto.
L’obiettivo numerico di passeggeri è 50 milioni, da raggiungere nel 2016 con lo scenario hub e nel 2025 con quello da grande aeroporto internazionale: per arrivarci sono necessari il preannunciato ampliamento del terminal 1 (nuove porte e check-in), restyling del terminal 2 che diventerà la casa delle low cost, sviluppo della cargo city (in crescita del 3,5 per cento fino al 2007 e che sta subendo un netto calo dopo il ridimesionamento di Alitalia), nuovi sistemi di volo e nuovi edifici, la tanto discussa terza pista e il primo lotto del terminal 3.
Gli scenari futuribili non possono peccare d’ottimismo. Di certo, per ora, c’è che Linate vedrà ridursi il traffico turistico a favore delle tratte business. Solo dopo il 2015 si compirà il destino dell’aeroporto che sorge tra due parchi verdi a soli 7 chilometri dal centro città e che, per quella data, sarà dotato di comoda linea metropolitana.
Benetton: Con Adr è da tempo in trattativa per l’acquisto di un’area Alitalia
Nella nuova Alitalia la famiglia di Ponzano Veneto investirà una somma che oscilla tra i 100 e i 150 milioni. Lo farà attraverso la controllata Atlantia, società che controlla le autostrade. I Benetton gestiscono anche Adr Aeroporti di Roma (Fiumicino e Ciampino), Adr, da tempo, è in trattativa con Alitalia per la cessione di circa 50 ettari di terreno in località Pianabella attorno all’aeroporto di Fiumicino. Terreni valutati circa 120 milioni di euro.
Ligresti: Pochi milioni per un posto in prima fila nell’affare Expo
Ligresti, attraverso la controllata Fonsai (assicurazioni), impegnerà non più di 30-50 milioni. Briciole per il costruttore amico di Berlusconi. Che, però, gli consentiranno di avere un posto in prima fila nel grande affare Expo Milano 2015. Sarà quella la grande scommessa per immobiliaristi e costruttori. La torta è enorme: 3,2 miliardi, infatti, saranno destinati per le infrastrutture altri 892 milioni saranno il budget dell’evento.
Caltagirone Bellavista: A Sesto San Giovanni in vendita un palazzo della compagnia
Francesco Caltagirone Bellavista con la società Acqua Pia Antica Marcia non investirà più di 30-50 milioni. Oltre alla partita Expo, c’è l’immobile Alitalia di Sesto San Giovanni da alienare (2mila metri quadri per una decina di milioni di euro) ma soprattutto c’è quella che riguarda Linate. Comunque andrà l’aeroporto milanese sarà ridimensionato e molti terreni saranno liberati. Si prospetta la possibilità di una grande speculazione.
postilla
Vale forse la pena ricordare come l’articolo (ovviamente) non faccia alcuna menzione degli enormi pasticci che si aprono per i territori del Parco Ticino, che con questa “soluzione” appaiono in balia di qualunque capriccio clientelare locale, e dove già si è sperimentato abbondantemente il modello della trasformazione e urbanizzazione irreversibile, con enormi e ancora incalcolabili danni ambientali, sulla sola base di progetti di sviluppo vaghi e poi non confermati dai fatti. Il tutto a ribadire come al centro delle preoccupazioni di chi governa, nonché delle forze economiche di riferimento, ci sia un modello a dir poco assai arretrato e arraffone di crescita, che unisce fiato corto (è assolutamente insostenibile anche su tempi non dilatati) ed effetti devastanti. E l’opposizione? (f.b.)
[si veda anche l'articolo di Luigina Venturelli da l'Unità del 27 agosto ]
Oggi ci s'interroga se Alemanno, a proposito del Pincio, considererà più impegnative le strizzate d'occhio ad Italia Nostra prima del ballottaggio, o gli interessi economici intrecciati alla «grande impresa» che stanno uscendo allo scoperto. Ha l'alibi di chi ha gridato ai conti in rosso, e dello sbandierato ammontare della penale. E soprattutto del fatto che il famigerato parcheggio non è una sua iniziativa, ma un'eredità della giunta Veltroni.
Nella mia lunga vita di assessore e consigliere comunale, ho avuto più di una volta la sensazione che l'approccio della «macchina comunale» al traffico romano non sia il più felice, pesante nelle soluzioni (il modo in cui è stata progettata la linea «8», più un monumento all'idea di tram che un funzionale tram veloce, che forse avrebbe potuto fare a meno, come ad Amsterdam, della banchina centrale e dei cordoli, appoggiandosi direttamente ai marciapiedi di viale Trastevere) quanto approssimativo nei dettagli (per restare sull'«8», basta guardare la foresta dei semafori davanti al ministero della Pubblica Istruzione).
A Roma sopravvivono tecniche consigliate dai peggiori manuali degli anni Cinquanta: le più datate sono la rotatoria come panacea universale, e l'idea di ricercare la «grande soluzione» anziché le più complesse soluzioni. L'idea che, per diminuire le auto parcheggiate per strada, occorrono più parcheggi ne è un corollario. Mentre sinora tutte le esperienze hanno dimostrato che è vero il contrario, che i nuovi parcheggi generano traffico. Oppure - a Roma - restano inutilizzati (basta visitare il famoso parcheggio del Gianicolo, ragione di una furibonda controversia giubilare di Rutelli contro il «signor no» La Regina) o sottoutilizzati (come lo stesso parcheggio - d'autore, firmato Luigi Moretti; e teatro di un evento culturale come Contemporanea di Porta Pinciana). In fondo, osserva qualcuno, non è tanto grande la distanza tra il progettato parcheggio del Pincio e quello esistente di Moretti... Aggiungo che considero un po' velleitaria l'idea, alla base del progetto, che i residenti del Tridente compreranno tutti un box nel nuovo parcheggio, in modo di poterlo liberare integralmente dalle macchine. E se non tutti facessero così? È il mercato, bellezza!
Dire di no al parcheggio potrebbe avere il valore liberatorio di rompere con l'illusione di risolvere una polmonite con l'aspirina. Ma Alemanno non sembra aver molta voglia di approfondire la questione, al punto di non trasmettere ai «cinque saggi della «sua» commissione i risultati degli scavi compiuti dalla Sopraintendenza. Preferisce pensare in grande: alla sua commissione Attali «de noantri», dove Venditti dovrebbe dialogare con Cipolletta e Portoghesi. Pensare che Tremonti si scaglia contro «il nullismo del '68»! Ma questo non è nullismo, è (berlusconiana) cura dell'immagine.
Nonostante l'indecisione dell'opposizione in Campidoglio, la questione del parcheggio del Pincio ha prodotto una divisione reale nella maggioranza di Alemanno. Non si scherza col simbolico, e in questo caso il simbolico si propone ben due volte. Il parcheggio va bloccato perché è uno dei simboli della Roma di Veltroni, le scoperte archeologiche vanno tutelate perché sono memoria del glorioso passato. E non l'ha appena detto Tremonti, che per andare avanti occorre guardare al passato?
Proprio queste fibrillazioni politiche mettono in evidenza una sostanziale indifferenza delle reazioni alle scoperte archeologiche appena pubblicate. La bellezza delle immagini è stata contraddetta dalla valutazione possibilista dello stesso sopraintendente. Purtroppo è qualcosa che appartiene più al ceto politico che al riflesso d'ordine della grande stampa. Anche del ceto politico del centro sinistra: a Napoli la Jervolino non ha saputo nascondere il suo disappunto per analoghi tesori portati in luce dai lavori della metropolitana. Haussmann, il demolitore» della vecchia Parigi per costruire la nuova, non rifiutò per caso un analogo incarico, che il Governo italiano gli offrì dopo la caduta di Napoleone III in quello stesso anno 1870 in cui Roma fu riunita all'Italia.
A Roma bisogna sapere intervenire con più delicatezza, quella per cui il «prefetto di ferro» non si sentiva giustamente portato. E soprattutto con idee più generali di singole grandi opere presunte, qui un parcheggio, lì una Nuvola, lì la «città della fitness acquatica» al posto del Velodromo di Ligini fatto esplodere dallo stesso prefetto che avrebbe dovuto tutelarlo. La capacità che abbiamo di comprendere il senso della città, della sua storia e dei suoi monumenti, non è altro che lo specchio della nostra capacità di essere moderni nell'intimo, che è altra cosa dalla sua esibizione spettacolare.
A Roma pensiamo a termine il maxi, il macro, la Nuvola di Fuksas la cui costruzione sta diventando una favola. Pensiamo a vere «nuove centralità» che sappiano competere col fascino del centro. Non è qualcosa d'impossibile, in fondo la stessa trasformazione del modo di vivere a Testaccio, all'Ostiense, a San Lorenzo lo dimostra. L'unico difetto è che finora si tratta di centralità cresciute «a macchia d'olio» intorno al centro esistente. E riprendiamo la «grande idea» di Petroselli per Roma - il centro archeologico e storico luogo della cultura - in forme meno banalmente tecniciste che far dipendere dal parcheggio del Pincio la pedonalizzazione del Tridente.
«Il rapporto sui ritrovamenti al Pincio ci è stato appena consegnato dalla Soprintendenza. Lo stiamo analizzando ed è mia intenzione sottoporlo al Comitato tecnico scientifico per i Beni archeologici. Mi farò accompagnare dal soprintendente Bottini e, avuto il loro parere, decideremo sul da farsi». Così il direttore generale per i beni archeologici del ministero Beni culturali, Stefano De Caro.
Mentre forze politiche, ambientalisti e archeologi si dividono sullo stop al cantiere per il parcheggio da 700 posti, e nel giorno in cui anche Ermete Realacci (Pd) si spende per il «sì» («Massimo rispetto per i ritrovamenti, ma la maniera migliore per rispettarli è farli essere un pezzo della vita della gente» ha detto il ministro ombra dell'Ambiente), al San Michele vengono chiamati i professori del comitato. L'opinione di Giuseppe Sassatelli, Andrea Augenti, Mario Torelli e Irene Berlingò servirà al ministero per dare l'ultima parola sul parking della discordia.
Professor De Caro, per legge è lei a decidere se e quale reperto deve essere smontato, spostato, o sacrificato. È il caso del Pincio?
«La relazione della Soprintendenza segnala che ci sarebbero da fare rimozioni di strutture antiche, cunicoli che rientrano nell´area del progetto per il parcheggio. Vedremo che decisione prendere».
Politici, amministratori e impresa dicono però che i resti saranno salvati modificando il progetto.
«Occorre una valutazione complessiva, non sempre basta spostare un pilastro di qualche metro per salvaguardare il bene».
Ma agli inizi di settembre la giunta Alemanno discuterà il caso in aula. E intanto i lavori vanno avanti.
«Ognuno fa il proprio mestiere. Io voglio ricordare che la Costituzione italiana attribuisce al patrimonio culturale valore fondativo dell'identità della Repubblica, a prescindere dagli interessi d'altra natura coinvolti».
E se sul piatto della bilancia ci sono un parcheggio e una domus?
«La Costituzione è chiara. La tutela non è subordinata alla valutazione di altri interessi».
Non teme così di passare per essere un talebano della tutela?
«No, io mi riferisco a ritrovamenti di interesse archeologico (e non basta un coccio a bloccare un cantiere ...) che devono uscire valorizzati, resi fruibili, dall'operazione architettonica. Ad esempio a Napoli, quando ero soprintendente, per la realizzazione della fermata della metro Duomo, decidemmo noi di smontare e rimontare il tempio di primo secolo a. C. venuto alla luce durante i sondaggi. E oggi tutti possono ammirare in mostra al museo di Napoli i risultati di questi ritrovamenti, anticipazione della stazione archeologica in corso di progettazione da Massimiliano Fuksas».
Il comitato di settore è composto da archeologi. Ma al Pincio il problema della tutela è anche di carattere monumentale e ambientale.
«Il direttore generale Roberto Cecchi valuterà se sottoporre la questione al comitato per i Beni architettonici e paesaggistici. In questo caso si avrà un parere congiunto dei comitati, come ad esempio è avvenuto per la stazione di piazza municipio a Napoli».
l’Unità, 21 agosto 2008
Il Pincio del futuro? Un belvedere per auto
di Adele Cambria
Sarà pure un ossessione, la mia, l’ossessione Pincio, chiamiamola così, ma per decenni, nella mia vita, come in quella di tanti altri, purché abitanti di Roma per un giorno o per sempre, il Pincio è stato una realtà indiscutibile: la bellezza a disposizione di tutti, il belvedere collettivo sulla città, le cupole, l’oro dei tramonti, una cartolina, se volete, ma che male c’è, vogliamo distruggerlo per questo?... Insomma era là e - lo pensavamo, noi gente comune, fino all’anno scorso - ci sarebbe rimasto «in eterno». Anche per i giochi dei bambini, la piccola giostra di legno già un po’ sverniciata di quando mio figlio aveva due anni, il teatrino di Pulcinella, l’uomo senza naso - c’è ancora, cominciando la salitella verso la Casina Valadier - e serviva a «minacciare» i bambini, se non mangi ti cade il naso, come a questo qui…
In quegli anni, la mia relazione col Pincio era di familiarità, privilegiata dal fatto di abitare «di sotto», al Babuino. E quindi il Giardino del Lago con la barchetta - la domenica sempre con i bambini, a spiegare chi era Esculapio, il dio barbuto sull’isoletta - e poi a maggio Piazza di Siena con il Concorso Ippico ed il Carosello dei carabinieri, e, nei pomeriggi di sole d’inverno, le automobiline rosse a pedali e, l’anno dopo, le biciclette con le rotelline supplementari per imparare ad andarci: dove se non sulla terrazza del Pincio? Nemmeno sapevo che fosse intitolata a Napoleone. La confessione deve essere piena: non sapevo nulla del Pincio, della sua storia, del perché si chiamasse così, me lo godevo, nei brevi anni dell’infanzia dei miei figli, come un privilegiatissimo parco giochi per i bambini - i miei avevano dato un nome ai quattro leoni di marmo del Valadier, disposti attorno all’obelisco egizio di Piazza del Popolo - ma fu proprio nella dimensione/bambino, e a suo vantaggio, che cominciai a studiare la storia di Villa Borghese, per raccontarla alla Tv dei Ragazzi, diretta da Paola De Benedetti, per cui lavoravo. Mi ero resa conto che c’erano tanti bambini di Roma che non avevano mai visto il Pincio, visitato un Museo, fatto un giro ai Fori. Cominciai dalla Galleria Borghese, conoscevo la meravigliosa soprintendente di quegli anni, Paola Della Pergola, diede il permesso per le riprese, del gruppo facevano parte ragazzini della scuola elementare Trento e Trieste di via dei Giubbonari, allora un rione molto popolare, e dello Chateubriand di Villa Strohl-Fern; li portai a vedere la Madonna dei Palafrenieri del Caravaggio, quella col bellissimo bambino nudo - il quadro fu rifiutato dai committenti per la sua impudicizia - li lasciai parlare, immaginare il bambino «vero» che aveva fatto da modello al pittore…
Ecco, io mi domando da tempo, senza osare di formulare la domanda a Walter Veltroni, come sia stato possibile, al Ministro dei Beni Culturali del primo governo Prodi, che riuscì nel miracolo di far riaprire, tempo un anno, nel 1997, la Galleria Borghese chiusa da quattordici anni per restauri, da Sindaco di Roma concepire invece il mega-parcheggio dentro il Pincio.
In questi giorni ferragostani sono andata a rileggermi i libri. A cominciare da una avvincente guida di Villa Borghese, in cui Alberta Campitelli, soprintendente alle Ville Storiche di Roma, racconta la storia della Villa: che il principe Francesco Borghese apriva spesso «a una folla di persone di ogni ceto», come accadde nell’ultima domenica dell’ottobre 1834; una festa, secondo il cronista della rivista L’Album, dove, «oltre alle amenità del luogo, si godevano i più acconci e squisiti diletti che si potesse…»
«Questo antico legame con il popolo romano - osserva puntualmente Campitelli - salvò la villa dalla lottizzazione che, alla fine dell’Ottocento, aveva già distrutto alcune tra le più belle residenze nobiliari romane». E insiste: «Agli appelli degli uomini di cultura si aggiunse, in quella occasione, la forza dell’opinione pubblica e così la villa fu acquistata dallo Stato Italiano, e il 12 luglio 1903 aperta al pubblico». E la soprintendente alle Ville storiche si rifà alla legge che ne permise l’acquisto, indicando come il Casino nobile (ribattezzato Galleria Borghese) fosse destinato a Museo pubblico di pertinenza dello Stato: «Mentre il parco con tutti gli edifici minori, le fontane e gli arredi, fu destinato al Comune di Roma che doveva però impegnarsi a mantenerne il carattere pubblico, a restituirne “il pristino splendore”, a collegare la villa alla pubblica Passeggiata del Pincio…».
Già, il Pincio. «Si estende dove sorgeva in antico uno dei gruppi di splendide ville che coronavano Roma… In questa zona avevano i loro horti Lucullo, gli Acili, i Domizi…». Gli horti erano un complesso architettonico di ville e giardini, e vi si inserivano anche piccole necropoli familiari: in quella dei Domizi fu ospitata l’urna con le ceneri di Nerone, interrata e lacrimata con lacrime sincere dalla liberta Atte che l’aveva per sempre amato… I Pinci furono l’ultima famiglia aristocratica che si insediò sul colle, e finì col dargli il nome.
Perché, mi chiedo, queste memorie devono far posto alle automobili? E alle moto, che già scorazzano a notte per viale Gabriele D’Annunzio, fino all’obelisco di Antinoo, e scendono e salgono a precipizio e rombanti lungo le rampe del Valadier?
Il giorno di Ferragosto, nell’afa del mezzogiorno, ho risalito anch’io le rampe, da piazza del Popolo, ma a piedi: il degrado del complesso disegnato dal Valadier, su suggerimento di Napoleone - ma l’architetto già ci lavorava dal 1793 - si arricchisce ogni giorno di nuove invenzioni: ho visto un sandalo infradito, di plastica nera, appeso al braccio di una delle statue neoclassiche che ornano l’emiciclo; staccionate di legno cadenti, transenne provvisorie, cartoni perfino, sostituiscono pezzi delle balaustre infrante da qualche bravata notturna, la Fama ancora resiste ed incorona i Geni delle Arti e del Commercio nel bassorilievo della Seconda Prospettiva, mi chiedo se da qui entreranno le automobili, e che ne sarà degli elmi romani che anticipano il liberty, nella composizione firmata da Achille Stocchi e Felice Baini (1831).
Il fatto è che ogni elemento della complessa architettura immaginata dal Valadier ha bisogno di restauri, e non di automobili.
L’appuntamento dato dalla sezione romana di Italia Nostra, in una ferragostana conferenza stampa tenuta da Carlo e Marina Ripa di Meana e dall’avvocata Vanessa Ranieri al Caffè Canova, è fissato per il prossimo 25 agosto. Si spiegherà allora al sindaco Alemanno che la rescissione del contratto con la ditta appaltatrice potrebbe essere accompagnata dalla richiesta alla ditta del risarcimento del danno prodotto da un cantiere per molti versi illegittimo.
«Di notte a Roma par di sentir ruggire i leoni», scriveva Carlo Levi nel bellissimo incipit del suo libro forse più politico e visionario a un tempo, L’orologio. Per il socio onorario di Italia Nostra, Sandro Bari (c’era anche lui alla conferenza stampa al Canova), oggi a Roma par invece di sentire «il rantolo del cementatore». Inutile precisare nome e cognome. Semmai, dubiterei del «rantolo»: visto che su un quotidiano storicamente della destra capitolina si rovescia tutta la questione del megaparcheggio in un gioco delle tre carte: sostenendo che il progetto fu portato in Campidoglio dal centrodestra.
Ma, rivolgendo un appello a tutti quanti: ditemi almeno perché non vi basta l’immenso parcheggio sotto il Galoppatoio - «dal 1960 desertificato - annota Alberta Campitelli - dalle griglie d’areazione»? Ora che ci hanno ritrovato la Bmw con cui sarebbe stata rapita Emanuela Orlandi, il fatto che quella lugubre automobile sia rimasta là sotto 13 anni, senza essere notata da nessuno - in quel vuoto di abitatori motorizzati - non persuade a riempirlo delle ormai celebri 726 auto da sgomberare, com’è giusto, dal Tridente, cui potrebbe essere agevolmente collegato da navette elettriche e più scale mobili?
l’Unità, 21 agosto 2008
E la relazione dei tecnici è stata insabbiata
di Adele Cambria
Il problema, sacrosanto, era come svuotare dalle auto parcheggiate le storiche strade del Tridente - da Piazza del Popolo si diramano infatti tre strade parallele, via del Babuino, via del Corso e via Ripetta, intercalate o concluse da piazze non meno preziose, a cominciare da Piazza di Spagna - e qualcuno pensò che scavando dentro il Pincio, ed installando nel suo ventre una struttura in cemento armato di sette piani, si sarebbero potuto ricoverare le automobili, e le moto, dei residenti e dei commercianti (ai quali si sarebbe venduto il posto macchina); mentre un terzo del megaparcheggio sarebbe stato riservato alle auto e alle moto di passaggio (parcheggio a ore). Ci si dimenticò, forse, dell’altro megaparcheggio scavato nel 1960 sotto il Galoppatoio di Villa Borghese e quasi sempre vuoto, e nel novembre scorso si aprì il cantiere sulla terrazza del Pincio - piazzale Napoleone I°- per quello che avrebbe dovuto essere soltanto uno scavo preliminare diretto ad analizzare che cosa «nascondeva» l’area, in fatto di preesistenze archeologiche. Nessun riguardo invece per il complesso architettonico magistrale realizzato negli anni ’30 del diciannovesimo secolo, sul progetto d’ispirazione napoleonica di Giuseppe Valadier, e che stabiliva una unità stilistica inviolabile tra Piazza del Popolo e il Pincio. All’apertura del cantiere, corredata peraltro da un parere molto critico e comunque non definitivo del Soprintendente dell’epoca, Adriano La Regina - parere improvvidamente promosso a nulla osta dal suo successore - si oppose soltanto la storica associazione ambientalista Italia Nostra, seguita, il I° dicembre del 2007, da una iniziativa presa, per la Provincia di Roma, dal Presidente del Consiglio Provinciale, Adriano Labucci. Intanto i lavori andavano avanti, del tutto vietati ai non-addetti ai lavori, giornalisti compresi, e del progetto si avevano notizie frammentarie: sicuramente vi sarebbe stata,al centro della terrazza del Pincio, una griglia d’areazione di 20 metri x 10, ma nessun dispositivo tecnico era stato proposto per evitare gli effetti dell’inquinamento, l’ingresso delle auto era previsto dalla rampa di destra del Valadier, e così il passaggio pedonale. Infine non si sapeva nulla di quanto era stato ritrovato nel ventre del Pincio, pur se da decenni le guide del Touring vi localizzavano ville aristocratiche dell’antica Roma. Soltanto il 7 agosto scorso la Soprintendenza archeologica di Roma ha inviato al Sindaco Gianni Alemanno la relazione sulle scoperte, accompagnandole con foto eloquenti - un criptoportico anteriore al IV sec. a.C. che attraversa l’intera area, il resto di un pavimento in mosaico su fondo nero, con tessere colorate, sedici vani di cui 6 ipogei del I°sec.a.C - ed avvertendo che «l’area in oggetto va tutelata integralmente». «Ma a noi della Commissione dei Saggi - dice il Professor Giorgio Muratore - non è arrivato nulla!» Ed il Presidente della Sezione romana di Italia Nostra, Carlo Ripa di Meana, si chiede chi ha insabbiato la relazione della Soprintendenza che i 5 Saggi nominati dal sindaco attendevano per esprimere un parere definitivo sulla questione.
Roma ieri, oggi, domani, 18 dicembre 1989
Un piano per i parcheggi
di Antonio Cederna
La congestione del traffico, è noto, dipende dalle malformazioni delle città, dal modo come sono state costruite a dispetto di ogni elementare norma urbanistica: così Roma, che si è sviluppata a macchia d’olio a misura della speculazione, con periferie inumane e il centro storico degradato a baricentro di tutti gli interessi e di tutto il traffico, e quindi intasato, soffocato, terziarizzato, inquinato e attraversato da chi va da una periferia all’altra. Preso a sé il problema del traffico è un falso problema: può essere avviato a soluzione solo se inquadrato in una nuova politica di pianificazione e se si adotta un piano della mobilità che sia globale e non settoriale. E invece, a parte l’inefficienza capitolina per cui negli ultimi anni sono stati commissionati, approvati e pagati sedici “piani” del traffico (buttando circa otto miliardi) e finiti tutti nel cassetto, ecco che adesso si è dato il via al piano settoriale dei parcheggi.
A gennaio saranno esaminati i progetti presentati dalle ditte che sono state ammesse al concorso: in base alla delibera adottata dal Consiglio Comunale nel dicembre dell’anno scorso, è decisa la costruzione di quindici parcheggi sotterranei e di cinque a livello stradale. Dei primi, almeno cinque sono a ridosso del centro storico: in piazza Risorgimento, piazza Mazzini, piazza Mastai, piazza Cavour, e in via Ferdinando di Savoia (a pochi passi da piazza del Popolo!), mentre non si parla più di quello previsto dalla delibera in piazza Cola di Rienzo. Non si è dunque tenuto nessun conto di quanto sostenuto due anni fa dall’assessorato alla cultura della regione, che escludeva la possibilità di costruire parcheggi sotterranei nel rione Prati (piazza Cavour, piazza Risorgimento) per elementari ragioni statiche, e quindi per i pericoli di dissesti negli edifici circostanti: il terreno, una volta acquitrinoso, è composto da uno strato di riporto di 5-6 metri e il sottosuolo da strati alluvionali di limo e sabbia, e lo sprofondamento del Palazzaccio (per il quale si sono spese decine e decine di miliardi) è eloquente in proposito. Ma non è solo questo per cui ci si deve opporre a questi parcheggi: infatti non farebbero che fungere da calamita al traffico privato, aumentando senza fine l’afflusso delle automobili in tutte le zone centrali, proprio l’opposto di quanto si vorrebbe ottenere. E poi ci sono i rischi della legge Tognoli approvata dal Parlamento nel marzo scorso, che consente nelle maggiori città ai comuni di cedere il diritto di superficie di aree pubbliche, strade e piazze, per parcheggi al servizio dei residenti, con la possibilità per chiunque di farsene uno a pochi metri da casa: anche nel centro storico, poiché nulla è detto in contrario. Quanto poi all’auspicato potenziamento del trasporto pubblico, basta considerare le deprimenti condizioni in cui versa l’ATAC. Negli ultimi quattro anni sono calati gli utenti (due milioni e mezzo in meno, il che vuol dire duecentomila auto circolanti in più), sono aumentati gli autobus fermi nei depositi (650 su 3200), calati della metà quelli nuovi acquistati: e la velocità media è di 6-13 chilometri all’ora. Dopo gli scempi degli anni passati (il raccordo anulare che ha tagliato selvaggiamente la via Appia Antica, la via Olimpica che ha tagliato in due villa Pamphili), i lavori per i Mondiali di calcio rischiano di praticare una radicale tonsura alle pendici di Monte Mario. Siamo davvero in alto mare.
Postilla
Sul parcheggio del Pincio si susseguono da mesi, con turbinosa accelerazione negli ultimi giorni, notizie, prese di posizione, dichiarazioni apodittiche e financo suppliche per lo spiegamento dei poteri metafisici del Papa (v. Marina di Ripa di Meana, la Repubblica , ed. Roma, 17 agosto 2008). Schieramenti trasversali che ripropongono, spesso con i consueti toni “urlati” e approssimativi, la contrapposizione fra chi è per una tutela integrale delle architetture storiche e dei resti archeologici e chi per un “ragionevole” compromesso che soddisfi le esigenze della modernità e del libero accesso ai centri urbani.
Oltre a ribadire in assoluto, come ci insegnava Cederna, l’inconciliabilità ontologica dei nostri centri storici con il traffico veicolare odierno e in attesa di un parere finalmente decisivo delle prudentissime Soprintendenze Architettonica e Archeologica, la prima latitante e la seconda financo bizantina nelle dichiarazioni (“non c’è una situazione tale che ne implichi l’assoluta esclusione”, la Repubblica , ed. Roma, 20 agosto 2008), si può intanto sottolineare come la logica del contrasto fra ragioni della tutela e ragioni di una pretesa modernità sia da respingere come distorsiva e frutto di un concetto del tutto provinciale di progresso che misura il proprio livello sulla base della potenza del parco macchine nazionale.
Al contrario, il nodo della questione è, da quarant’anni a questa parte, la mancanza di un piano complessivo della mobilità nella capitale (come in quasi tutte le nostre città principali), strumento decisivo per impostare una nuova strategia urbana e in particolare quei livelli di vivibilità che permetterebbero a Roma di sentirsi un po’ più vicina all’Europa.
Ripensando al PRG di recente approvazione, però, ben si comprende come l’attuale vicenda sia in realtà paradigmatica e del tutto consona rispetto ad una visione urbanistica incapace di ribaltare la deriva che attanaglia la capitale. (m.p.g.)
Gent.ma Guermandi, a proposito della trasmissione di Report sull'urbanistica romana, per amore del confronto le trasmetto questa lettera aperta scritta a Report, scritta a caldo, prima ancora che venissero pubblicate le reazioni di Morassut. spero che avrà tempo di leggerla.
Forse il diavolo è brutto proprio come l'ha dipinto Report e quindi alla malora tutto e tutti (a cominciare da Veltroni e Morassut). Può essere, anche se tanti dubbi ci sono.
Però credo che dalla trasmissione escano perdenti indiscutibilmente due cose che a tutti noi dovrebbero stare a cuore: l'informazione e l'urbanistica (noti bene, entrambe senza aggettivi).
L'informazione, perché è davvero incontestabile (se ha dei dubbi si riveda la registrazione video più che il resoconto scritto della puntata) che la trasmissione ha avuto un impianto tendenzioso volto soprattutto a colpire un soggetto (l'amministrazione uscente): usare le fotografie di veltroni che mangia le tartine con i costruttori è davvero squallido! e vogliamo parlare dei commenti musicali? siamo tutti abbastanza svezzati da vedere e capire certe cose...!
L'urbanistica, perché paradossalmente, nel rivendicare un immagine "pura" dell'urbanistica che dovrebbe librarsi al di sopra degli interessi dei costruttori, o delle questioni di bilancio, o dei rapporti di forza e di potere, la si uccide, la si uccide nella sua essenza vera che è molto "sporcarsi le mani" (come tutto quello che è politica e territorio) non nel senso ovviamente di prendere le mazzette ma nel senso di sedersi a dei tavoli dove le controparti hanno sempre molta più forza di te e sono numerose, mentre la parte pubblica è quasi sempre sola e debole, e sapere che comunque da quei tavoli bisogna alzarsi con delle scelte. Se lasciamo passare l'idea che la pianificazione (possiamo sostituirla anche con la parola "politica") alla fine è fatta solo di accordi sottobanco e di interessi privati, perché qualcuno dovrebbe ancora appassionarsi e crederci? crederà solo a quello che gli dice, lasciate fare a me che sono ricco di mio e sistemo tutto io...
con stima
Arch. Felice Cappelluti
Due brevi risposte a proposito di informazione e di urbanistica,
Che il servizio di Report abbia accortamente adoperato tutte le figure retoriche dell’allusione, del parallelo, della sineddoche e via elencando a servizio di una tesi, è innegabile, ma fa parte delle “armi del mestiere”: l’uso che se ne fa è deontologicamente scorretto laddove la tesi da dimostrare ne risulta distorta. Nessuna delle affannose repliche uscite a commento della trasmissione ha incrinato il quadro complessivo di una gestione del territorio più che disponibile nei confronti delle richieste dei costruttori e poco incline all’ascolto delle ragioni dei mille comitati civici sorti in questi anni. E l’unico argomento a discolpa nella sua lunga lettera è un disarmante “così fan tutti” che dalla nostra parte politica proprio pretendiamo di non sentire più, anche perché è esattamente una delle cause principali del dilagare qualunquistico che Report è accusata di incentivare (detto inter nos, si è domandato perché la trasmissione, pronta da almeno due mesi, sia uscita dopo il 27 aprile? Altro che tendenze suicide della sinistra…).
Le tesi del servizio televisivo sono peraltro freudianamente ribadite nella sua stesso commento alla postilla di eddyburg, laddove si parla con ironia dell’immagine “pura” dell’urbanistica e con pragmatismo operativo di “sporcarsi le mani”. Solo una considerazione al proposito: ma perché mai la parte pubblica dovrebbe essere per forza “sola e debole” di fronte al privato? In una democrazia degna di questo nome la parte pubblica è portatrice del volere della maggioranza dei cittadini e chiamata a rappresentare le esigenze superiori dell’interesse collettivo e ha armi politiche (nel senso migliore del termine) potenti per far pesare le proprie decisioni solo che le usi: una per tutte, la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali,. Questo non le impedisce di “sedersi a dei tavoli” e di contrattare, ma in piena trasparenza, in una casa di vetro. Il problema è che i vetri puliti sono a rischio, con le mani sporche…(m.p.g.)
La lettera di Felice Cappelluti sul forum del PD
In otto anni a Roma sono stati aperti ventotto giganteschi centri commerciali. Altri quattordici sono in corso di realizzazione. Nessuna altra città del mondo è stata sottoposta ad una così irresponsabile politica commerciale per numero e dimensione. Roma è stata colonizzata dai grandi monopoli della distribuzione internazionale, Panorama, Auchan, Mediaword, Ikea, Ipercoop e tanti altri. Questa follia è avvenuta soltanto a Roma perché la capitale ha decretato la morte dell’urbanistica e di ogni forma di programmazione. Si è affermato che la città doveva diventare nel suo complesso “offerta di mercato”. Coerentemente con questo assunto, i responsabili dell’urbanistica romana hanno spensieratamente frequentato in questi anni le maggiori fiere della speculazione immobiliare internazionale, affittando stand giganteschi rispetto alle altre capitali europee.
Oggi la città raccoglie i frutti di questa irresponsabile politica. I centri commerciali sono nati e nasceranno dovunque, sfruttando le infrastrutture stradali che esistono o che vengono finanziate con soldi pubblici proprio per mitigare gli effetti di quelle aperture. Lungo l’autostrada per Fiumicino per far funzionare i giganti del commercio nati nella zona di Ponte Galeria –oltre che la limitrofa nuova Fiera- sono stati realizzati chilometri di nuove autostrade, svincoli e cavalcavia. I soldi per realizzare quelle opere li ha messi la collettività. Lungo il tratto urbano dell’autostrada per L’Aquila i centri commerciali aperti –per collegare uno di questi sono state aperti svincoli in una curva autostradale!- si sta per realizzare una gigantesca viabilità complanare. I soldi li metterà la collettività.
E’ scontata, a questo punto, la rituale obiezione degli ex amministratori severamente puniti nella recente tornata elettorale comunale. Roma ha approvato un nuovo piano regolatore e fa dunque parte dei comuni virtuosi che programmano il territorio. Sono i quarantadue giganteschi centri commerciali a rappresentare la più clamorosa smentita di questa tesi: negli elaborati del nuovo piano non c’è una riga sul fatto che si voleva realizzare un così insostenibile numero di centri commerciali. Nessuno ha potuto mai vedere esplicitato questo folle disegno. Come sono stati dunque realizzati i grandi centri commerciali? E’ naturale: attraverso lo strumento dell’accordo di programma che, al riparo di ogni procedura trasparente, ha cambiato volta per volta le regole che il consiglio comunale tentava faticosamente di approvare.
Questo modo di procedere ha posto una incalcolabile ipoteca sul futuro della città. A vederli sulle foto satellitari, i centri commerciali realizzati sembrano infatti corpi alieni calati a forza sul tessuto della città. Non hanno alcuna relazione con i tessuti urbani circostanti e si caratterizzano per la enorme dimensione di fabbricati circondati da un mare di posti auto. Essi sono stati dunque pensati per l’automobile. Mentre il petrolio si avvia a superare il valore di 150 dollari al barile, a Roma si è disegnata la più insostenibile città dal punto di vista della mobilità. Anche questa prospettiva non era contenuta negli elaborati del piano regolatore, dove invece abbondava una vuota retorica sul “primato del trasporto su ferro”. Nei fatti si è invece condannata una città intera a dipendere dall’automobile per compiere anche le normali azioni quotidiane come fare la spesa.
Ma non basta, perché in tempi brevi si produrrà anche una seconda gravissima conseguenza. Se si aprono grandi superfici commerciali che possono, come è ampiamente noto, praticare prezzi minori rispetto ai “normali” negozi di quartiere, è evidente che tra poco tempo chiuderà qualche migliaio di piccole botteghe. Il presidente di Confcommercio ha lanciato un drammatico allarme proprio in questi giorni, stimando in diecimila il numero dei negozi di vicinato che a Roma chiuderanno tra breve tempo i battenti. E’ del tutto evidente che la fascia di popolazione anziana, quella che ha le maggiori difficoltà nell’uso dell’automobile, subirà le maggiori conseguenze di questo inevitabile fenomeno. I responsabili dell’urbanistica romana nel loro delirio mercatistico non avevano pensato a questa prevedibilissima conseguenza mentre parlavano diffusamente della riqualificazione dell’immensa periferia romana? Tra non molto avremo periferie sempre più povere di funzioni e di complessità urbana. Più insicure e tristi. Altro che recupero delle periferie.
E infine un ragionamento più generale che riguarda le caratteristiche delle derrate alimentari che arrivano sulla tavola dei romani. E’ nella logica delle imprese transnazionali privilegiare le produzioni provenienti dal proprio paese d’origine e da quelli con cui si sono instaurate convenienti relazioni economiche. La prevalenza dei colossi del settore commerciale romano è francese. Ovvio che molti prodotti vengano da quel paese a tutto detrimento di quelli italiani. Non ne faccio, ovviamente, una vuota questione di bandiera. Dietro a questo modello produttivo c’è un insostenibile modello di alimentazione: si privilegia la filiera lunga e si mettono in ginocchio le produzioni locali. Le derrate alimentari arrivano sulle nostre tavole dopo un impressionante tragitto che utilizza – anche in questo caso con costi sempre crescenti - il trasporto aereo. Seppure ricchi, siamo parte integrante della rapina che si sta perpetrando verso i paesi poveri del mondo spingendoli verso la fame.
La vicenda dei quarantadue giganti del commercio internazionale nati alla chetichella in questi anni sono la più evidente dimostrazione del fallimento del pensiero debole dell’urbanistica romana di questi anni. Mentre le altre città europee programmano .con tutti i limiti che ciò comporta- lo sviluppo del proprio territorio, a Roma con l’ossimoro del “pianificar facendo” si è tolto ogni freno alla speculazione fondiaria. Mentre nelle altre città europee il mondo sviluppato tenta di sostenere con adeguate politiche le produzioni alimentari di prossimità, tentando così di arginare i processi economici globalizzati, da noi il tanto “modello romano” ha guardato al passato ed ha prodotto un risultato di grave arretratezza culturale e urbana. E mentre nelle altre città d’Europa si tenta –sulla base di mirate politiche- di arginare il consumo di suolo agricolo, a Roma è stato compiuto il più grande sacco urbanistico della storia della città.
E non c’è all’orizzonte alcun barlume di ripensamento. I quartieri centrali di Roma sono tappezzati di manifesti del centro destra che parlano di una città più sicura. Tanto entusiasmo, spiega il manifesto, deriva dal fatto che non solo sono stati identificati molti pericolosi clandestini, ma sono state sequestrate merci contraffatte. Niente paura: potremo trovarle in offerta speciale nei quarantadue mostri di cemento.
CIRCA 200 professionisti hanno lavorato al sistema di regole che si chiama «piano regolatore». Molti fra i migliori d’Italia: archeologi, paesaggisti, geologi, dottori in agraria, trasportisti, giuristi hanno prodotto un grande apparato di conoscenze sulla città. Le sovrintendenze hanno collaborato alla sistematizzazione
La trasmissione di Report del 4 maggio scorso è un esempio di diffamazione per mezzo della televisione la cui portata va al di là dell'evento, apparentemente limitato nel tempo. La trasmissione ha mescolato artatamente vere e proprie false affermazioni, interviste tagliate, interventi faziosi senza contraltare, immagini di avvenimenti spacciati per altri avvenimenti, in un quadro complessivo di superficialità ed incompetenza, sotto la parvenza di giornalismo d'assalto.
Per le contestazioni puntuali, tutte documentate, si può fare riferimento al fascicolo di risposta prodotto sulla base dei testi della trasmissione, e consegnato ai giornalisti nella conferenza stampa del 6 giugno nella quale Roberto Morassut ha esposto le ragioni della sua querela.
Ma qui mi preme ricordare quale esempio di devastante inciviltà sia alla base della iniziativa.
Si afferma di parlare del nuovo piano regolatore di Roma, ma nella maggior parte della trasmissione si parla d'altro, facendo credere che si parli del piano.
Non si dice che il piano, come deve essere, è un sistema di regole che vale per tutti, ma si dice che è una coperta per le peggiori nefandezze. Guarda caso lo si dice appena il piano è approvato. Forse ai giornalisti autori del servizio o agli intervistati danno fastidio le regole uguali per tutti?
Roma, ha scelto da tempo di dotarsi di un nuovo piano regolatore. Ha dovuto produrre - senza il sostegno di alcuna moderna legislazione né nazionale né regionale, e a differenza di altre grandi città che hanno potuto far conto su leggi regionali più avanzate - un piano che affrontasse e risolvesse dall'interno i problemi di una metropoli contemporanea. Lo ha fatto dando un sostanziale contributo all'aggiornamento della disciplina urbanistica, trovando concrete soluzioni per i più spinosi problemi di governo del territorio. Il controllo pubblico di tutte le trasformazioni, la sostenibilità ambientale, l'equità di trattamento, il rapporto tra pubblico e privato con procedure di evidenza pubblica, il rinnovo dei tessuti edilizi esistenti, la regolamentazione delle innovazioni per il recupero ambientale ed il risparmio energetico.
Il piano di Roma ha prodotto un apparato di conoscenze di base che non ha eguali a livello nazionale. La classificazione dei tessuti della città esistente e la salvaguardia dei valori spaziali storici, architettonici ed ambientali sono garantiti da una quantità elevatissima di dati certi e documentati. Le soprintendenze di Stato, che hanno contribuito consistentemente alla raccolta ed alla sistematizzazione dei dati, sono ben lontane dall'avere nella sua interezza questo patrimonio, che raccoglie e valuta dati dalla protostoria ad oggi, su tutto il territorio comunale. E tutto questo in una visione dinamica che consente un costante aggiornamento.
Il sistema di regole che si chiama "nuovo piano regolatore" oggi finalmente approvato è il frutto di un impegno costante durato 14 anni: preceduto dalla conclusione di provvedimenti generali come la "variante di salvaguardia" e il "piano delle certezze", ispirati ai suoi stessi principi, è stato concretamente avviato nel 1998 ed è stato elaborato da circa duecento professionisti che, nel corso di dieci anni (1998-2008), hanno prestato la loro opera per ottenere questo risultato.
Molti sono tra i migliori professionisti d'Italia, professori universitari di chiara fama, urbanisti più giovani, esperti in ingegneria dei trasporti, paesaggisti, storici dell'arte, storici dell'architettura, archeologi, biologi vegetali, zoologi, geologi, dottori in agraria, esperti nelle discipline informatiche, esperti in economia urbana, demografi, esperti in valutazioni economiche, esperti in valutazioni ambientali, esperti giuristi.
Tra loro naturalmente la validissima squadra dei giovani e dei meno giovani delle strutture di supporto tecnico del Comune, la STA prima e Risorse per Roma poi. Sono tutti elencati con nomi e qualifiche negli atti pubblici prodotti e disponibili da molti anni sul sito del Comune di Roma.
Questa formidabile squadra di tecnici ha avuto il sostegno di tutta la amministrazione comunale, dai dirigenti dei vari settori a tutti i funzionari ed a tutti i dipendenti a vari livelli impiegati.
Senza naturalmente dire della dedizione e dell'impegno dei Sindaci, delle giunte, degli assessori e di tutti i consiglieri comunali e municipali, nelle assemblee elettive e nelle commissioni rinnovate per ben quattro volte durante il lavoro, che hanno sempre perseguito e raggiunto l'obiettivo con valutazioni largamente favorevoli.
Bisogna anche ricordare le centinaia di assemblee pubbliche, le settemila osservazioni scritte presentate. A tutti è stato dato ascolto ed a tutti è stata data risposta.
Alla fine il prodotto approvato dal Consiglio Comunale è stato valutato, in un consesso comune (la conferenza di copianificazione), con gli esperti urbanisti e giuristi della Provincia di Roma e della Regione Lazio.
Tutte queste persone hanno prestato la loro opera, che fossero dipendenti del Comune o di altri Enti, o che avessero incarichi specifici, con tutte le loro capacità ed energie, orgogliosi e convinti di partecipare ad un evento di alto valore civile.
Naturalmente non significa che il piano sia perfetto, perché tutto è sempre migliorabile, ma il lavoro, quando produce un patrimonio per tutti, merita rispetto. Un rispetto neppure lontanamente accennato nella trasmissione.
Tutti succubi dei nuovi re di Roma? Tutti ignoranti e deficienti?
Forse l'origine sta solo nell'ignoranza del tema trattato , nelle piccole ambizioni personali di alcuni giornalisti apologhi del "purché sia scoop", nutriti da un minuscolo gruppetto di vecchi oppositori del piano che hanno accumulato un astio sempre crescente, protetto da corazze di ideologie ormai corrose.
Resta il fatto che è stata offerta l'occasione di avvelenare uno dei più significativi risultati ottenuti dal ciclo dei governi cittadini di centrosinistra.
Un avvelenamento che ha dato un immediato sostegno a chi, per gli interessi derivati dai nuovi assetti politici, cerca di rimettere in discussione le regole introdotte con il nuovo Piano e, nel cavalcare l'onda, afferma che molto è sbagliato e che ora si dovranno sistemare le cose.
Il risultato ottenuto è una devastante opera di distruzione, qualunquista nella peggiore delle accezioni.
Come architetto ed urbanista, responsabile negli ultimi anni dell'ufficio che ha redatto il nuovo Piano, che ha firmato gli elaborati assumendone la responsabilità professionale, anche se mai citato, come nessuno degli altri protagonisti di questa battaglia di lungo periodo, mi ritengo oggettivamente coinvolto. Credo però di rappresentare un comune sentire, sulla base della straordinaria esperienza condivisa, di tutti coloro che, hanno contribuito alla redazione del piano.
Ognuno ha lavorato per costruire qualcosa di nuovo e di buono ed ha contribuito per la sua parte. Nascondersi più o meno vigliaccamente lasciando che il tema sia affrontato solo dal punto di vista politico, vuol dire avere paura della solidità e della correttezza delle tecniche e delle discipline. Non può esistere un risultato della portata del Piano di Roma senza il cosciente contributo di tutte le competenze professionali.
In questo senso ci sentiamo tutti diffamati. Per non essere stati neppure interpellati, sulla base del preconcetto che fosse inutile. Infatti saremmo tutti succubi dei "politici rapinatori". Ed ancora diffamati nel merito, perché le poche cose dette sul piano sono false, e falsamente rappresentate.
Riportiamo l’articolo del Direttore dell’Ufficio del Nuovo piano regolatore di Roma durante le giunte guidate dal sindaco Walter Veltroni per puro desiderio di completezza d’informazione. Non troviamo argomenti che meritino di essere contraddetti. Non ci sembra una garanzia della correttezza politica e sociale del piano il fatto che, nel corso di 14 anni, vi abbiano lavorato duecento esperti di varie discipline. Non ci sembra che l’ampiezza dei dati accatastati sia una prova della validità delle scelte del piano. Non ci sembra un merito di questo specifico PRG il fatto di essere, in teoria, un sistema di regole uguale per tutti (e vorrei vedere che le norme fossero “personalizzate”!).
Mentre l’Unità pubblicava questo articolo, eddyburg ne pubblicava uno di Paolo Berdini (il giorno dopo comparso su il manifesto ) che costituisce un’utile puntualizzazione di fatti che Modigliani si guarda bene dal contraddire.
Risale a quarant’anni fa il processo intentato dalla potentissima Società generale immobiliare contro l’Espresso di Arrigo Benedetti per la campagna di denuncie di Manlio Cancogni sul sacco di Roma. Qualche giorno fa, l’ex assessore all’urbanistica di Roma ha querelato Report di Milena Gabanelli per il servizio sull’urbanistica romana firmato da Paolo Mondani.
Nella lunga memoria che accompagna la querela si affrontano molte questioni con una singolare premessa. Si contesta nel metodo la trasmissione perché affermava esplicitamente di voler parlare del nuovo piano regolatore e ha fatto invece vedere vicende precedenti al 2006, anno di approvazione del nuovo piano. Eppure è lo stesso assessore ad affermare che il nuovo Prg “è stato già attuato al 77%”. Evitiamo in questa sede di chiedere attraverso quali misteriosi poteri un piano appena approvato sia già pressoché concluso. Stupisce però la contestazione: per quindici ininterrotti anni ci siamo sentiti ripetere che il pianificar facendo era la chiave di volta della nuova urbanistica romana, poiché ogni intervento anticipava il nuovo disegno urbano. E ora che una breve trasmissione fa vedere il disastro urbanistico della città ci si offende perché non si è parlato del futuro! E’ il presente, purtroppo, che spaventa.
Nella stessa memoria si continuano inoltre a citare come straordinari successi cose assolutamente inesistenti. Vediamo. Si dice che le cubature previste nelle centralità urbane sono state ridotte in modo drastico. Non c’è stato nessun regalo alla rendita fondiaria, dunque. Ma non è affatto vero. Le due più grandi centralità ancora da attuare, Romanina e Madonnetta, avevano una destinazione pubblica nel precedente piano regolatore. Servivano insomma per costruire un liceo o un ospedale. Il nuovo piano regolatore ha trasformato quelle cubature da pubbliche a private. Le volumetrie sono state diminuite ma era il minimo che si dovesse fare e comunque sono state garantite enormi fortune private. Del resto, è lo stesso proprietario di Romanina a confessare a Report di aver acquistato nel 1990 l’area per 160 miliardi e che essa ne vale oggi 5 o 6 volte di più. Analoga vicenda vale per la centralità della Bufalotta. Anche in questo caso si afferma che le cubature sono state ridotte senza pietà per la proprietà fondiaria. Grazie tante. In quell’area si potevano fare soltanto capannoni e magazzini. E’ solo con uno degli infiniti accordi di programma che quelle stesse cubature –diminuite di poco- sono diventate ben più remunerative destinazioni commerciali e residenziali. Il fatto è che a Roma ci sono stati in questi anni due assessori all’urbanistica. Uno è quello “ufficiale” che oggi si avventura in una temeraria querela. L’altro era addetto agli accordi di programma e ne ha concretizzati molte decine, sempre in variante e sempre con il consenso di tutta la giunte municipale.
Eppure, si continua ad affermare che in questi anni alla rendita immobiliare sono stati inferti colpi devastanti. Negli anni del sacco di Roma è invece avvenuta un’inedita affermazione dei costruttori e immobiliaristi romani. Francesco Gaetano Caltagirone oltre a possedere Il Messaggero e il Mattino di Napoli siede nel cda del Monte dei Paschi di Siena. Un esponente della famiglia Toti siede nel consiglio di amministrazione di Rcs. Bonifici ha rilanciato e potenziato il quotidiano Il Tempo. Un costruttore romano, infine, è a capo dell’associazione di categoria nazionale. La rendita ha dunque trionfato. E non poteva essere altrimenti, perché negli anni del precedente governo Berlusconi, Roma insieme all’Istituto nazionale di urbanistica ha appoggiato convintamene la devastante legge Lupi che consegnava alla proprietà immobiliare il destino delle città.
Ancora. Per giustificare il diluvio di cemento che è stato inflitto alla città (70 milioni di metri cubi per una città che non cresce demograficamente!) abbiamo ascoltato in questi anni fino all’ossessione che erano “stati vincolati per sempre 88 mila ettari di preziosa compagna romana”. Stavolta il falso era stato svelato dallo stesso comune di Roma. Fin dal 2002 l’assessorato ai lavori pubblici aveva infatti pubblicato uno studio sullo stato della città che certificava che erano rimasti liberi 80 mila ettari sui complessivi 129 mila. Eravamo in una data precedente all’approvazione del nuovo piano regolatore e dunque già si partiva da una quantità di campagna romana ben più piccola di quella sbandierata. A seguito della edificazione dei previsti 70 milioni di metri cubi di cemento verranno consumati non meno di 15.000 ettari di suolo. Resteranno vincolati a campagna romana 65.000 ettari di territorio: 23.000 in meno di quelli spudoratamente sbandierati.
Ma il cemento non vola via con i mantra, e i romani, mentre ascoltavano gli effetti annuncio di un futuro di verde, vedevano quotidianamente spuntare le gru del delirio di cemento armato che ci è stato propinato. Così hanno voltato le spalle a questa dissennata urbanistica. Molta parte della sconfitta elettorale sta qui. Basta guardare il voto in luoghi come Finocchio, dove a uno dei furbetti del quartierino è stato permesso di fare tutto ciò che voleva. O quello della Bufalotta, illusa di un meraviglioso destino e poi lasciata cinicamente nelle mani del mercato.
E infine. Nella periferia metropolitana di Roma, sono stati aperti in pochi anni ventotto giganteschi centri commerciali. Gran parte di essi sono sorti in deroga al piano regolatore utilizzando il grimaldello dell’accordo di programma. Sono dislocati per lo più lungo il grande raccordo anulare e impoveriscono le periferie perchè cancellano quel tessuto di piccolo commercio che è il principale connotato della vita urbana.
Pochi mesi fa, un gruppo di persone che attendeva lo scuolabus è stato investito da un’auto. E’ accaduto a Fiumicino, periferia abusiva metropolitana. Non c’era neppure un marciapiede di protezione e sono morti tre bambine e due mamme. A trecento metri brillano le vetrine del “Da Vinci”, uno dei più grandi centri commerciali d’Europa, nato, come ovvio, attraverso accordo di programma. Centinaia di ettari di terreno agricolo sono stati destinati ad edificazione. I proprietari dell’area hanno guadagnato in un solo colpo qualche centinaio di milioni di euro. Questa immensa fortuna privata non ha neppure prodotto il miracolo di realizzare un marciapiede che avrebbe potuto salvare cinque vite umane. Sono stati accesi tanti megastore e si è spenta una città intera.
Quarant’anni fa era la più potente società dei costruttori ad intimidire la stampa. Oggi è un personaggio della politica traghettato senza traumi dalla sinistra storica al centro che se la prende con una delle più libere e autorevoli espressioni del giornalismo nazionale. E’ un segno dei tempi su cui varrebbe la pena di riflettere: in entrambi i casi c’è di mezzo il sacco urbanistico di Roma.
L'articolo è uscito su il manifesto del 17 giugno 2008, col titolo Le gru del delirio del cemento armato a Roma
Per la più contestata delle opere volute dall'ex sindaco Walter Veltroni, il parking sotterraneo del Pincio — sette piani interrati nel colle, con ingresso delle auto dagli emicicli ottocenteschi del Valadier su piazza del Popolo — si profila un non-futuro. Nella migliore delle ipotesi, un ridimensionamento con varianti del progetto e riduzione dei posti auto previsti (circa 700) a causa dei recenti ritrovamenti archeologici che i responsabili della Soprintendenza definiscono «più estesi di quanto rivelato dai sondaggi » (una riunione tecnica decisiva è annunciata a giorni). In sintesi, si tratta di strutture murarie con quote di profondità ancora da capire a fondo e un criptoportico del I secolo avanti Cristo. Osteggiato in campagna elettorale dal sindaco Alemanno (An e Forza Italia votarono sempre contro l'opera quando erano all'opposizione), criticata da alcuni comitati cittadini, da molti celebri intellettuali, da «Italia Nostra», da esponenti dei Verdi, il parcheggio, secondo quanto detto dal neoassessore comunale alla Cultura Umberto Croppi, «semplicemente non si farà».
Addio al parcheggio voluto da Veltroni
Antiche strutture, muri e un criptoportico, non si sa bene ancora quanto profondi. La Soprintendenza archeologica: «I resti più estesi di quanto emerso nei sondaggi fatti quattro anni fa». Per il futuro del parking, lo stop o una considerevole riduzione del progetto
Prima ipotesi, tecnica, una variante di progetto, con «significativa riduzione dei posti auto». E a dirlo sono gli archeologi. Seconda ipotesi (ma è molto di più che un'ipotesi) uno stop definitivo del Comune all'opera più contestata — e spericolata secondo i suoi numerosi critici — dell'ex giunta Veltroni: il parcheggio sotterraneo del Pincio, 700 posti auto interrati in sette piani da scavare nel cuore del colle più famoso di Roma, con rampe di accesso per auto sugli eleganti emicicli ottocenteschi disegnati da Valadier e uscite pedonali, bocchettoni, prese d'aria ecc. sulla terrazza panoramica. Il «parking della vergogna», come recita un'enorme scritta vergata da qualche anonimo writer sulla palizzata che delimita il cantiere in corso.
Che alla nuova giunta guidata dal sindaco Alemanno non piacesse il progetto-Pincio è cosa nota. Lo stesso primo cittadino lo aveva più volte detto in campagna elettorale. Da ricordare, inoltre, che tra i più acerrimi nemici dell'opera, c'è sempre stata l'ex opposizione in Campidoglio, oggi maggioranza, compresa la pattuglia di An nel vecchio consiglio del primo Municipio, centro storico, di cui era capogruppo Federico Mollicone, oggi eletto consigliere comunale. E oggi è un assessore, Umberto Croppi, responsabile della Culturali, che in tutt'altro contesto, interpellato sul tema, a domanda ha risposto: «Il parcheggio del Pincio non si farà». Secco. La notizia non è da poco. La domanda, per sicurezza, viene riformulata. Stessa risposta: «Può tranquillamente attribuirmelo, nessun problema». Esulterà Italia Nostra, acerrima nemica di quel progetto. Esulteranno molti cittadini. E quei tanti intellettuali, urbanisti, storici dell'arte, ambientalisti, che nel corso degli anni hanno firmato petizioni e appelli (inascoltati, fino all'oggi): da Salvatore Settis a Italo Insolera, da Vezio De Lucia a Marisa Dalai Emiliani, da Anna Coliva a Fulco Pratesi. Ma a mettersi di traverso alle ruspe (operative solo dal novembre scorso) della Sac — società del costruttore Cerasi da sempre considerato vicinissimo al duo Rutelli Veltroni che vinse l'appalto — c'è anche l'archeologia.
Previsti, paventati, annunciati dalle tante «voces clamantes in deserto » (sempre minimizzate dalle istituzioni) i ritrovamenti ci sono, eccome. E oggi, a scavo avviato, risultano già «di entità ed estensione maggiore, indubbiamente, di quanto ipotizzato». Parola di archeologi. Sul tema, così interviene il soprintendente di Stato all'archeologia di Roma Angelo Bottini: «L'esito su una parte del sito è positivo. Grandissime novità non ce ne sono. Un criptoportico interrato, strutture di età imperiale, marginali per ora rispetto a un antico complesso sul Colle. Stiamo comunque approfondendo la questione, per fare un quadro completo e il punto della situazione ci sarà un incontro a giorni. Può parlare con la direttrice dello scavo per saperne di più».
La direttrice dello scavo è l'archeologa Maria Antonietta Tomei, che conferma quanto detto dal soprintendente, e soprattutto chiede che siano evitati inutili clamori e anticipate decisioni ancora da prendere: «Tra qualche giorno ne sapremo di più». Sullo stato attuale dello scavo (almeno quattro gli archeologi impegnati ogni giorno nel cantiere) qualcosa aggiunge. Alla lettera: «Strutture antiche di notevole estensione, primo secolo avanti Cristo, fine età repubblicana con vari rifacimenti più tardi, ora bisogna capire quanto sono profonde, quanto si estendono, siamo in fase di interpretazione. Esiste un criptoportico, ancora non scavato. Sì, i resti sono più estesi di quanto visto e constatato anni fa dai sondaggi. Ora occorre capire come queste strutture si collocano, il piano di profondità, le quote, per ora il tutto sembrerebbe ancora compatibile con i solettoni, ma si stanno facendo verifiche. Si può adeguare il progetto, con solettoni più bassi. Ciò comporterebbe una riduzione di posti auto. Ma ancora per qualche giorno è tutto prematuro».
Breve storia del parking più odiato
Storia travagliatissima, quella del parking nelle viscere della collina del Pincio, opera che nel 2004 — 29 luglio — l'allora sindaco Veltroni, parlando di «riconquista della parte più bella di Roma», annunciò «pronta nel 2007».
Cavallo di battaglia della maggioranza nella scorsa consiliatura, considerato opera propedeutica e necessaria per una pedonalizzazione del cosiddetto Tridente, il parking è sempre stato difeso da chi lo ha voluto e pensato nonostante una marea di critiche e un'opposizione che fu, anche politicamente, trasversale. Nel 2006, ad esempio, un ordine del giorno del primo municipio (consultivo e non vincolante) per la costruzione del parcheggio fu sì approvato, ma i no arrivarono, oltre che Forza Italia, An e Udc, anche dai Verdi. All'epoca, tra le prime e più tenaci oppositrici del progetto, la giovane consigliera municipale dei Verdi Francesca Santolini, oggi assessore nello stesso municipio a guida Orlando Corsetti, che «sparigliò» la maggioranza arrivando anche, e siamo al febbraio 2008, a scrivere una lettera aperta all'allora ministro per i Beni culturali Rutelli, in procinto di candidarsi di nuovo a sindaco, contro l'opera monstre.
Ricostruire lo «storico» di quest'opera, contro la quale nel tempo si sono schierati anche, oltre a Italia Nostra, vari comitati di cittadini, «Rosa nel Pugno» e l'ex presidente del Consiglio della Provincia Adriano Labbucci (Sinistra democratica) non è cosa facile. La primogenitura del progetto, stando alle cronache, è dell'allora presidente della Sta (società per la mobilità del Campidoglio poi fusa in Atac, che è il committente dell'opera) Chicco Testa (tramontarono presto le alternative Borghetto Flaminio e piazzale Flaminio, mentre si parlava anche di un analogo parcheggio sotto il Colle del Quirinale). Tra i grandi sostenitori del progetto anche Fulvio Vento, attuale presidente di Atac spa, ex sindacalista e manager comunale vicino a Rutelli e Veltroni.
I costruttori
Gara europea vinta dalla Sac
È una delle famiglie di imprenditori considerate più vicine al centrosinistra a gestire i lavori per il parcheggio del Pincio. La gara europea bandita dall'Atac era stata vinta infatti dalla Sac di Claudio Cerasi.
L'azienda è guidata da Emiliano Cerasi, figlio di Claudio, che peraltro siede nella giunta esecutiva dell'Associazione costruttori edili romani con la carica di presidente del Comitato promotori.
Esponenti della famiglia Cerasi in questi anni non sono mai mancati alle cene elettorali di Walter Veltroni e Francesco Rutelli. Fra i vari lavori hanno partecipato alla costruzione del Maxxi (insieme alla famiglia Navarra). A conferma del forte legame fra la vecchia amministrazione e la dinastia dei costruttori, il Comune di Roma, con Veltroni sindaco, qualche mese fa ha indicato come amministratore delegato della Fiera Ottavia Zanzi, moglie appunto di Emiliano Cerasi, nomina considerata in quota Margherita.
Recentemente la Sac ha vinto la gara per la realizzazione del nuovo auditorium di Firenze, opera da un centinaio di milioni di euro finanziata all'interno del programma di interventi infrastrutturali per i festeggiamenti dei 150 anni dell'Unità di Italia, programma avviato da un comitato presieduto dall'allora ministro per i Beni culturali, Francesco Rutelli.
Come diceva Deng Xiao Ping, non importa di che colore sia il gatto, l’importante è che prenda il topo. Siamo contenti che la giunta Alemanno abbia mangiato l’orrendo topo inventato dalla giunta di Veltroni (e dai suoi “ambientalisti del fare”). Ha avuto ragione il Corriere della sera a dare la notizia con ampiezza nella sua edizione romana, a partire dalla prima pagina. Non l’abbiamo trovata sull’edizione romana dell’altro grande quotidiano nazionale che frequentiamo,la Repubblica. L’adesione al leader del PD è così forte, nel quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, da indurlo a errori giornalistici così clamorosi? Nascondere sotto il tappeto gli errori dei propri amici non è cosa bella, né utile agli stessi che si vogliono coprire.
«Il Campidoglio ha venduto la città ai re del mattone? Falso. Ha barattato aree verdi con milioni di euro per i servizi? Falso. Ha autorizzato una "colata di cemento" sul territorio della metropoli? Falso. Ed infine: il nuovo piano regolatore è stato approvato con "un colpo di mano"? Falso».
Dietro ai microfoni della saletta stampa della Camera di via della Missione, affollata come non mai, l'ex responsabile dell'Urbanistica ora deputato del Pd, Roberto Morassut, snocciola i diciotto punti della denuncia-querela contro l'inchiesta "I re di Roma" della trasmissione Report condotta da Milena Gabanelli, che ha suscitato a sua volta un'inchiesta della magistratura. È mezzogiorno. Due ore prima aveva depositato in Procura le mille pagine del suo esposto.
Ad ascoltarlo ci sono gli ex assessori Silvio Di Francia, Giancarlo D'Alessandro, Lia Di Renzo, Jean Leonard Touadi, Gianni Borgna, Domenico Cecchini; il portavoce dell'allora sindaco Veltroni Walter Verini, il capogruppo del Pd Umberto Marroni, la deputata Marianna Madia, il senatore Lionello Cosentino; il portavoce romano del Pd Riccardo Milana, l'assessore regionale Daniela Valentini, Michele Meta. E anche il costruttore Claudio Toti.
«Da parte mia» dice Morassut sottolineando le parole «è un atto dovuto per difendere l'onore di un'intera amministrazione e di tanti tecnici, professionisti, consulenti, che hanno contribuito a redigere il nuovo piano regolatore con intelligenza e onestà». Al suo fianco l'architetto Daniel Modigliani, lo storico direttore del Piano regolatore, e Luca Petrucci, l'avvocato che sosterrà la causa.
«Il Prg - precisa l'ex assessore - non è stato un atto clandestino, è stato discusso per dieci anni, votato tre volte dal Consiglio Comunale, ha ricevuto 7000 osservazioni che hanno avuto risposta, è stato oggetto di discussione con cittadini, ambientalisti, imprenditori. Il risultato è uno strumento importante, criticabile, correggibile, ma che costituisce una svolta per la città e che Alemanno deve attuare».
Poi snocciola i punti. «Report parla di "colata di cemento? Noi abbiamo tagliato 60 milioni di metri cubi dalle previsioni del vecchio prg, tutelato a verde 87.800 ettari pari al 68% di tutto il territorio». Ma l'attacco più duro è all'accusa di aver scelto le nuove centralità in base ai terreni di proprietà dei grandi costruttori. «Noi non abbiamo mai trattato con i costruttori. Non solo. Dal 2001 al 2008 non è stata avviata nessuna centralità su terreni privati. Ma, soprattutto, nel 2000, quando sono state scelte, erano quasi tutte di proprietà pubblica, da Acilia a Magliana. Erano private solo Lunghezza, Eur Castellaccio e Bufalotta. Alcuni terreni, dopo, sono passati di mano. Ma questo è il mercato».
Ancora: «È falso che a Bufalotta trasformeremo in edilizia privata le cubature degli uffici. Abbiamo ritirato la delibera dal Consiglio. È falso che lì non c'è il verde: ci sono i 120 ettari dati al verde che si stanno cominciando ad allestire. È falso che Romanina era un'area verde: era destinata a servizi pubblici. Abbiamo tagliato a Scarpellini 700 mila metri cubi. È falso che ad Acilia non andrà il campus dell'università. E Ponte di Nona e Grottaperfetta erano state approvate prima della giunta Rutelli. A Tor Pagnotta abbiamo tagliato 4 milioni e mezzo di metri cubi». Morassut è un fiume in piena. Afferma di aver rifiutato «dieci minuti di replica offerti da Report». In sala c'è anche il cronista di Report Paolo Mondani: «Siamo tranquilli, ci vedremo in tribunale. Le nostre stesse tesi le hanno sostenute compagni di partito dell'ex assessore come Tocci e Pasetto» (Ma Tocci e Pasetto replicheranno: «Non condividiamo l'inchiesta di Report»). E poi: «Morassut voleva prima 15 minuti di replica fatta girare da lui con un service. Una soluzione bulgara che abbiamo rifiutato. Alla fine ha chiesto 30 minuti». «Dopo un'ora di diffamazioni» ribatte Morassut «mi sembrava il minimo». In sala anche uno dei "re del mattone di Roma", Claudio Toti. «Volevo capire» ha detto «come Morassut controbattesse alle inesattezze trasmesse da Report. In realtà non c'è stato nessun favoritismo».
Postilla
La reazione, più volte preannunciata, dell'ex assessore Morassut sottolinea ancora una volta che il prg rappresenta uno degli snodi non solo dell'urbanistica capitolina, ma dell'intero “Modello Roma” nel senso politico più ampio del termine. Alla presenza degli stati generali dell'establishment PD romano a far fronte comune, Morassut ha rivendicato ancora una volta “l'importanza” del suo prg. L'insieme delle repliche a difesa, in realtà, non pare affatto scalfire l'impianto dell'inchiesta di Report e ci si limita a limare cifre e percentuali per di più paragonandole alle previsioni di un piano regolatore di quarant'anni fa: è con la situazione della capitale così come si è venuta a costituire in questi ultimi lustri, nell'assenza di regole e di una visione complessiva della forma e dell'uso urbano che si doveva confrontare il nuovo piano. Invece di proporre un'inversione di tendenza rispetto a questa deriva che aveva condotto sia il centro storico che le periferie, con modalità diverse, ma ormai dirompenti in entrambi i casi, a livelli preoccupanti di degrado e di invivibilità, il prg di Morassut&C si è limitato a sancire tutte le linee di tendenza in atto al momento della redazione che, fatalmente, non potevano che rispecchiare le volontà speculative di lobby cresciute, in questi anni, in ricchezza, influenza e potere, senza che la mano pubblica pensasse minimamente di rivendicare per sé – e quindi per la collettività che l'aveva eletta – un ruolo di verifica, controllo e, si licet, contrasto.
L'elevatissimo numero delle osservazioni ricevuto dal suo prg, sbandierato da Morassut come elemento di democraticità, è il sintomo, al contrario, dell'ostilità diffusa dei cittadini ad un piano sentito in contrasto con aspirazioni ampiamente condivise e che, non avendo mai esercitato strumenti di partecipazione effettivi, si è limitato a calmierare alcune previsioni senza saper o poter correggere l'impianto complessivo.
E così, all'affermazione più volte ribadita dal giorno della trionfale approvazione, che si tratti di uno strumento di importanza storica, tautologicamente comprovata sulla base della semplice esistenza (“è bello perchè c'è”) ai cittadini non è rimasto che rispondere, sinteticamente, ma inequivocabilente, il 27 e 28 aprile. (m.p.g.)
La riflessione aperta su l’Unità da Walter Tocci e poi ripresa da Roberto Morassut, sullo sviluppo urbano e sul PRG di Roma, non mette certamente in dubbio i risultati ottenuti in questi anni dalle giunte di centro sinistra per una diffusa e ampia rete ecologica e ambientale e per la riqualificazione delle periferie. Così come non è messa in discussione l’onestà e la trasparenza dell’azione non certo facile portata avanti dall’assessore Roberto Morassut. Il nuovo Prg è un risultato indiscutibile del centro sinistra capitolino da difendere e da cui ripartire.
Tuttavia una riflessione critica è necessaria nella prospettiva di quanto occorre migliorare e resta da fare. La riflessione, a nostro avviso, deve riguardare, più che l’impostazione generale del piano, anche essa integrabile in alcuni punti, le modalità con cui negli ultimi tre anni, prima ancora che il piano fosse approvato, si è proceduto alla sua attuazione sotto la spinta di un attivismo talvolta più rispondente alle sollecitazioni degli operatori che alle attese dei cittadini.
Così le molte zone di espansione attivate nelle aree esterne al Gra, in parte eredità del vecchio piano, oltre a consumare estese parti dell’agro romano tutelato, rischiano di produrre nuove periferie isolate, prive di connotati urbani e di collegamenti adeguati. Inoltre, esse impegnano l’amministrazione in programmi infrastrutturali dispersi, difficilmente attuabili e sostenibili.
Ancora, l’ambizione di attivare subito tutte le 19 "centralità" previste dal piano, sembra condurre ad un declassamento di ruolo delle stesse, da luoghi di offerta di funzioni di eccellenza e di policentrismo, a cittadelle isolate di ulteriore residenza ed uffici ad alto costo intorno ad un ipercentro commerciale. Non sempre, inoltre, queste operazioni negoziate con gli operatori accrescono in modo rilevante la dotazione di spazi pubblici, verde e infrastrutture.
È da queste valutazioni che deve muovere la riflessione critica. Un piano generale con la previsione di un forte incremento dell’offerta residenziale e di sedi di attività in una prospettiva segue più che decennale deve seguire una precisa strategia attuativa partecipata: a partire dai problemi pregressi e delle domande più urgenti dei cittadini, assicurando con la fattibilità la coerenza progressiva degli interventi tra di loro e con gli obiettivi ed i requisiti di qualità e funzionalità previsti dal piano. Occorre formulare un programma attuativo del piano a partire dalla riqualificazione della città esistente e delle sue periferie, scegliere le priorità, rinviando le scelte che risultano premature per l’assenza di infrastrutture o per eccesso di decentramento o non coerenti con la domanda.
La tutela dell’agro romano per essere reale richiede una politica urbanistica finalizzata alla ricompattazione urbana ed interventi di sostegno alle attività agricole e del tempo libero.
La coerenza dei nuovi interventi (residenziali e non) nei contesti preesistenti può essere assicurata da una programmazione urbanistica di livello intermedio, partecipata, affidata ai municipi ed estesa ai territori degli stessi.
Occorre accentuare la differente caratterizzazione delle centralità, tra quelle urbane con funzione di aggregazione dei municipi e dei territori locali e quelle metropolitane. Queste ultime sono da attivare solo dopo aver assicurato l’effettiva possibilità d’impianto o trasferimento di funzioni di eccellenza e servizi di alto livello e rappresentanza (ministeri, università, centri di ricerca, ecc.), in condizioni di accessibilità garantite.
Soprattutto due temi di carattere generale richiedono una più esplicita definizione. Il primo riguarda le regole generali della negoziazione nel rapporto pubblico-privato. È necessario recuperare al pubblico, con regole certe, una quota più elevata dell’incremento di valore indotto dalle previsioni di piano, in modo da coprire non solo costi e dotazioni di servizi, verde ed infrastrutture interne all’intervento ma anche una quota parte di quelli indirettamente indotti nei contesti di margine e sull’intera città.
Il secondo riguarda l’assenza di una visione metropolitana.
La città non può essere organizzata in modo isolato rispetto al suo territorio, né amministrata in modo autonomo rispetto alla provincia metropolitana. Né questo rapporto può essere inteso come conquista di territorio da parte di Roma. Va riproposto il doppio policentrismo fra municipi urbani ricompattati e sistemi intercomunali o comuni metropolitani, componenti distinte di un sistema metropolitano integrato sotto il profilo funzionale, ambientale ed economico, linea recentemente ripresa dal nuovo piano territoriale della provincia.
Si tratta di promuovere un processo di crescita culturale che, prima di sperimentare nuove soluzioni istituzionali, va praticato attraverso tavoli di copianificazione e consuetudine alla collaborazione tra enti locali e tra livelli istituzionali nella nuova dimensione della provincia metropolitana.
Infine "la riflessione" non può che investire anche il processo di rinnovamento che è indispensabile aprire nel Pd Romano, a partire dai problemi di fondo della città, dalle sue problematicità, e da quanto queste possono aver inciso soprattutto sul disagio dei cittadini delle periferie, e conseguentemente sul recente risultato per l’elezione del Sindaco di Roma.
Se è vero che occorre non fermarci e "guardare avanti", è pur vero che occorre dispiegare il massimo dell’impegno nel promuovere nuovi e competenti dirigenti, così come è giunto il momento di collocare questo dibattito guardando alla costituzione della provincia metropolitana ed alla soggettività delle future municipalità che segneranno per Roma il vero punto di forza istituzionale democratico dal quale ripartire.
Pronti i primi sequestri, testimoni in Procura
Lavinia Di Gianvito – Corriere della Sera, ed. Roma, 24 maggio 2008
Piano regolatore nel mirino della procura. La magistratura indaga sugli accordi di programma, cioè su quelle intese fra Comune e costruttori che consentono di cambiare cubature e destinazioni d'uso. L'inchiesta vuole accertare se, nello stipulare gli accordi, si sia tenuto conto dell'interesse pubblico e capire per quale motivo i 70 milioni di metri cubi previsti sono tutti su aree private. Già pronti i primi sequestri. Il reato ipotizzato è la violazione delle norme urbanistiche, a cui presto si potrebbero aggiungere l'abuso d'ufficio o la corruzione. Acquisita la puntata di Report «I re di Roma», in onda il 4 maggio. Settanta milioni di metri cubi di cemento in dieci anni. Le gru che già da qualche anno divorano l'Agro romano per far posto a palazzoni e centri commerciali. Le centralità, micro-città di periferia, che rischiano di fare la fine dei quartieri dormitorio.
C'è il futuro di Roma nel piano regolatore approvato all'ultimo momento dalla giunta di Walter Veltroni. Un futuro lodato da alcuni, criticato da molti e che adesso minaccia di provocare un terremoto tra i politici e i costruttori più noti. La procura infatti ha aperto un'inchiesta sul progetto urbanistico grazie a cui si sta tirando su, di quartiere in quartiere, una città grande come Napoli. Solo su aree private.
All'attenzione dei magistrati sono finiti, in particolare, gli accordi di programma, che permettono di aumentare cubature e cambiar destinazioni d'uso attraverso intese tra i costruttori e il Campidoglio. Un'impresa vuole più case e meno uffici di quelli previsti? È facile: il Comune dà il via libera in cambio di una cifra che sarà destinata, per esempio, al prolungamento del metrò. Sulla carta sembra tutto in regola, sembra esserci quell'interesse pubblico richiesto dalle norme. Ma i dubbi nascono quando vengono accettate somme di 50-80 milioni a fronte di una spesa che sarà di centinaia di milioni.
L'inchiesta è coordinata dai pm Delia Cardia e Sergio Colaiocco, che avrebbero già chiesto il sequestro di alcune aree, tutte di proprietà dei big dell'edilizia. Per ora non ci sono indagati e l'unico reato ipotizzato è la violazione delle norme urbanistiche, ma non è da escludere che, al termine di alcuni accertamenti, verranno contestati illeciti più gravi, dall'abuso d'ufficio alla corruzione.
Nei giorni scorsi la procura ha acquisito dalla Rai la puntata di Report in onda il 4 maggio, dal titolo «I re di Roma ». La trasmissione di Rai3 ha suscitato molta attenzione e non è passata inosservata neppure a piazzale Clodio. Ma su alcuni accordi di programma raccontati da Milena Gabanelli i magistrati avevano già iniziato a indagare. Ora, però, i singoli fascicoli confluiranno nell'unica inchiesta aperta in questi giorni.
A palazzo di giustizia non hanno ancora deciso, ma non è escluso che vengano convocati come testimoni i costruttori che hanno siglato con il Comune gli accordi di programma.
Sul fronte opposto ci sono cittadini e associazioni infuriati per aver comprato case in quartieri che avrebbero dovuto avere servizi, verde e trasporti e che invece restano, almeno per ora, cattedrali nel deserto. Del resto, quello che è successo e che succederà l'ha spiegato a Report un consulente dei costruttori, Giovanni Mazza: «Il piano regolatore dice prevalentemente la verità, poi in alcune parti questa verità è una mezza bugia che va corretta».
«Illegalità? Aspettiamo i magistrati»
(redazionale) – Corriere della Sera, ed. Roma, 25 maggio 2008 (m.p.g.)
Piano regolatore sotto inchiesta. Su quanto scritto dal Corriere della Sera, interviene Gianni Alemanno: «Abbiamo appreso - afferma il sindaco - che la Procura ha aperto un fascicolo sul Piano regolatore e sulle operazioni urbanistiche avviate negli scorsi anni. Abbiamo contestato da un punto di vista amministrativo e politico le scelte operate sul piano regolatore e sugli accordi di programma. Senza alcun intento strumentale - aggiunge - attendiamo adesso l'esito del lavoro della magistratura per sapere se tali decisioni, oltre che contestabili politicamente, hanno avuto anche un profilo di illegalità». Per l'Acer, l'associazione dei costruttori romani, il presidente Giancarlo Cremonesi si augura che «l'intera vicenda possa essere chiarita al più presto per il bene della città. Il Prg - afferma Cremonesi - anche se suscettibile di interventi migliorativi, rappresenta un elemento fondamentale per lo sviluppo e deve presentare soluzioni idonee sul piano infrastrutturale, abitativo e urbanistico. E da questo punto di vista - conclude - ci tranquillizza la scelta dell'attuale amministrazione che ha affidato ad una figura esterna, ma di alto profilo professionale, l'urbanistica».
Una «sanatoria a posteriori». Così definisce il Piano regolatore Marco Marsilio, deputato Pdl, che quando fu approvato era capogruppo di An in aula Giulio Cesare. Che «a Roma - aggiunge ci sia bisogno di una stagione di chiarezza e di rispetto delle regole nella gestione del territorio è una necessità che abbiamo sollevato da oltre 10 anni, denunciando da sempre che il "pianificar facendo", scelto da Rutelli e poi ereditato da Veltroni, apriva il campo a scelte arbitrarie». «Sono sempre stato perplesso su questa stagione dell'urbanistica contrattata - aggiunge Fabio Rampelli, anche lui deputato di An - perché mi sono messo nei panni del cittadino che aveva un pezzo di terra non edificabile. Così non capisco perché alcuni possono rendere edificabile il loro terreno che non lo era e altri no: in questo caso le persone molto ricche hanno avuto un trattamento di favore».
E con una «lettera aperta» a Gianni Alemanno, alla giunta e ai consiglieri comunali, i comitati e le associazioni, con Italia Nostra, chiedono che «in occasione dell'insediamento venga fermato subito il nuovo piano regolatore, l'attuazione dei bandi sulle aree dismesse e specialmente tutti gli accordi di programma compresi quelli del commissario prefettizio».
L’articolo di Walter Tocci pubblicato da l’Unità e dedicato all’urbanistica di Roma negli ultimi quindici anni merita una replica puntuale e articolata. Soprattutto ora, dopo la sconfitta elettorale, in un momento in cui, approvato il nuovo Piano regolatore (Prg), è già iniziato da destra e da sinistra un attacco concentrico al suo impianto riformista. Un attacco che riproduce gli astrattismi del vecchio dibattito urbanistico romano.
Il nuovo Prg e le sue regole innovative sconvolgono il campo. Impongono uno sforzo teorico nuovo a tutti e spingono a superare le vecchie pigrizie intellettuali, i vecchi codici stanchi. Paradossalmente, invece, per molti censori di destra e di sinistra, sembra più comodo indossare le vecchie lenti. La destra si lancia all’attacco, invocando maggiori quantità edificatorie e senza alcun riguardo al fatto che il mercato chiede oggi invece più qualità. Da sinistra ci si rifugia nel demone rassicurante della “rendita” che “tutto muove” per salvarsi la coscienza, senza però affrontare le sfide “reali” della trasformazione urbana, senza sporcarsi le mani nella storia “vera” e nei fatti.
Intanto ribadisco una cosa. La puntata di «Report» sul nuovo Prg era colma di inesattezze e bugie. Quella trasmissione non era informazione pubblica ma un programma mirato solo a fare ascolto, senza lo scrupolo doveroso della verifica. Non ho accettato di replicare in quella sede perché non ho avuto la garanzia di poterlo fare esaustivamente e con il tempo adeguato. Le repliche le valuteranno i legali ai quali ho consegnato una denuncia.
Torno alle cose dette da Tocci. Trovo nelle argomentazioni molta astrattezza e deficit d’informazione. Lo dico perché sarebbe utile, invece, parlare anche criticamente di questi quindici anni ma guardando avanti. Per esempio penso che, nonostante tutto, il nuovo Prg sconti dei limiti che le inevitabili mediazioni politiche in Consiglio Comunale hanno imposto ad alcune sue novità rivoluzionarie. Limiti che devono essere superati.
Invece si guarda indietro confondendo e sovrapponendo tante cose. Tocci confonde le trasformazioni in corso con il nuovo Piano. Errore clamoroso, lo stesso che fa «Report» il quale addebita alle Giunte Rutelli e Veltroni decisioni di costruire nuovi quartieri che non appartengono loro e che risalgono a prima del 1992.
Voglio ricordare un dato che spazza via ogni equivoco: il 70% delle costruzioni private realizzate o in corso di realizzazione tra 1993 e il 2008 non sono state approvate da Rutelli o Veltroni. Tranne Bufalotta - risalente al 1997 e comunque interna al Gra - e rari altri casi. Insomma, quando si parla della città trasformata «collocata a ridosso e oltre il Grande Raccordo Anulare in un territorio già devastato dall’abusivismo» e dei problemi che sconta, per favore non si tiri in ballo il nuovo Prg che, semmai, farà vedere i suoi effetti reali nei prossimi cinque, dieci anni. (Dalla approvazione definitiva di un intervento urbanistico alla sua integrale realizzazione e quindi al suo impatto reale urbanistico e sociale passano mediamente dieci-quindici anni).
Quelli che descrive Tocci sono semmai gli effetti delle ultime “code” delle giunte Carraro e Giubilo e delle decisioni dei Commissari Prefettizi pre-Rutelli. Questa banale constatazione cambia tutto il quadro.
Pigramente si cerca nel nuovo Piano con discorsi complessi quello che non c’è. Qualche esempio? Eccoli: Ponte di Nona, Grottaperfetta, Giardini di Roma, Lunghezza, Castelluccia, Casal Monastero, Torraccia, Cecchignola Ovest,Tor Carbone e potrei continuare. Queste parti di città con il nuovo Prg e con la nuova programmazione urbanistica non c’entrano nulla, perché erano già deliberate.
Tocci sostiene che lo strumento della compensazione è stato male utilizzato e che si sono portate cubature all’esterno, trascurando le aree interne e magari pubbliche in prossimità delle stazioni. Sono considerazioni completamente sbagliate e spiego perché. Tutte le compensazioni decise dal Consiglio Comunale e comunque non ancora attuate - e che sono elencate nelle Norme Tecniche di Attuazione - spostano pesi dall’esterno della città al suo interno e, grazie al criterio dell’equo valore immobiliare, ne riducono la quantità (mediamente per un metro cubo compensato ne viene attribuito circa 0.80).
L’unica eccezione, grave, è Tormarancia. Caro Walter, ricordo che chi con te si oppose alla lottizzazione di Tormarancia nel ’99 - tu eri vicesindaco ed io capogruppo Ds ed avevamo posizioni opposte - non volle capire che la conseguenza della cancellazione sarebbe stata una onerosissima compensazione. Cosa che avvenne, anche perché il Consiglio Comunale aveva confermato tre volte quella previsione, dando ai proprietari armi fortissime per ricorrere in giudizio. Oggi tu invochi l’importanza di edificare nelle zone compatte con i servizi e i trasporti anziché andare all’esterno. Tormarancia era questo. Tuttavia quel che è stato è stato e lo ricordo solo perché la storia ha sempre un ruolo nelle decisioni politiche. Non dimentichiamocelo.
Secondo. In vari casi il Piano localizza centralità a ridosso delle stazioni accorpando cubature del Prg del ’62 esterne e sparse nell’agro e trasformandone a servizi le precedenti destinazioni residenziali. È il caso di Massimina, la Storta, Muratella, Ostiense, Ostia Centro. Al tempo stesso il nuovo Piano “carica” volumi destinati a servizi in corrispondenza di tutte le stazioni disponibili con aree di proprietà pubblica. Tutte, nessuna esclusa. Esempi? Ponte Mammolo, Pietralata, Cesano, Polo Tecnologico Tiburtino, Anagnina, Stazione di Ostia.
Mi spiace che non si ricordino queste cose. Non si ricordi, ad esempio, quanto sta avvenendo a Pietralata, a Torvergata, a Valco di San Paolo, al Santa Maria della Pietà, dove stanno sorgendo i campus internazionali pubblici voluti da Veltroni, con i cantieri in corso delle residenze, degli impianti sportivi, delle facoltà. Tutto su aree pubbliche comunali o statali già servite dal trasporto su ferro. Si vada a vedere i cantieri di queste realizzazioni che dimostrano come oggi a Roma sia la mano pubblica a guidare la trasformazione urbana della città consolidata, della prima periferia e di quella più esterna, grazie alle decisioni del nuovo Prg
Terzo. Quando si parla di compensazioni non ci si riferisce ad un gioco di domino di semplici cubetti. Spostare cubature «da una area all’altra» è un procedimento amministrativo carico di implicazioni ambientali, amministrative, giuridiche, economiche e fiscali. Non si può dire astrattamente «andava usato meglio». Le aree di «atterraggio» delle compensazioni non sono quasi mai pubbliche perché il Comune di Roma è poverissimo di aree. Pertanto si è cercato di costituire una riserva pubblica di aree per attuare, tra le altre cose, le compensazioni dall’esterno all’interno. Queste aree sono state localizzate con una procedura di evidenza pubblica per non creare favoritismi di nessun tipo e ponendo come requisito la distanza massima di 1000 metri dai «nodi del ferro». Il bando è dell’8 agosto 2002 e lo si può recuperare.
Quando si parla del nuovo Piano lo si legga concretamente e non in modo astratto e generico.
Ancora. L’idea di una compattazione urbana nelle aree interne al Gra - ammesso che questo limite simbolico valga ancora qualche cosa - è una idea seria, ma alla prova dei fatti insegue astrattamente un modello parigino del tutto sganciato dalla storia reale di Roma e dai conflitti che hanno segnato tante lotte sociali nel cuore della città. Ricordo come alcune scelte del nuovo Piano di rilocalizzazione di volumetrie all’interno della città siano state fieramente ostacolate nei territori interessati: Collina Fleming, Tor Tre Teste, Colle delle Strega, Casal Grottini, via delle Acacie, Gregna, Prampolini e varie altre.
D’altra parte, la sinistra ha fortemente lottato in questi ultimi trent’anni per restituire alla città consolidata aree libere, in grado di recuperare parte delle quantità di standard di verde negati dalla speculazione edilizia degli anni 50-70, figlia del Prg del 1931. Abbiamo vincolato e acquisito al Comune del tutto o quasi, grazie al nuovo Prg, i parchi di Aguzzano, delle Valli, di Volusia, porzioni della Valle dei Casali e della Tenuta dei Massimi, di Veio, dell’Appia e del Litorale Romano.
Abbiamo raggiunto l’obiettivo di Cederna e Petroselli di avere squarci di campagna romana che entrano nel cuore della città, creando un modello urbano unico al mondo ed ora inseguiamo un non meglio specificato «consolidamento»?
Se invece ci si riferisce ai margini di trasformazione dentro la città che possono offrire programmi di riqualificazione urbanistica ed edilizia su aree dismesse e degradate o della brutta città degli anni 50, nel nuovo Piano vi sono gli strumenti dei “Print” (Programmi Integrati) per farlo. Sono ambiti perimetrati e normati con un sistema di incentivi e alcuni sono avviati. Esempi? Il programma - in corso - di demolizione e ricostruzione di Viale Giustiniano Imperatore, i programmi di ristrutturazione banditi per Alessandrino, Pietralata Vecchia, Centocelle Vecchia, Dragona, Torsapienza. Questi programmi sono il cuore della politica di riqualificazione della periferia intermedia del nuovo Prg. I loro frutti verranno se il nuovo Piano verrà attuato correttamente e se la legislazione nazionale lo aiuterà a sviluppare la sua forza innovativa affrontando il tema della aggregazione della proprietà diffusa e parcellizzata.
Non si cada nell’errore di considerare la pianificazione generale il momento in cui i diritti edificatori si possono cancellare dirigisticamente. È sbagliato. Questo è vero solo nelle raffigurazioni di una urbanistica astratta. La realtà è un’altra. Il nuovo Prg cancella 60 milioni di metri cubi prevalentemente residenziali e il Comune sta combattendo in giudizio contro i ricorsi dei proprietari delle aree. Sono vertenze difficili con il rischio di sentenze definitive che premino ancora di più la rendita
Perché? Perché la vecchia legge 1150/42, tanto invocata come un totem dall’urbanistica pubblicista che non tratta con i privati, in realtà rende eterni i loro diritti e si somma alle sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo che negli anni ha integralmente ricostruito il diritto della proprietà privata dei suoli.
Questo fatto non può essere messo tra parentesi perché è il centro del problema.
In Italia occorre al più presto una moderna legge nazionale sui suoli, che fissi le regole generali all’interno delle quali i Comuni possano muoversi per contrattare con i privati e che ristabilisca parità di durata tra i diritti edificatori privati (oggi di fatto eterni) e le aree a destinazione pubblica (vincolate per cinque o massimo dieci anni). Perciò ritengo illusoria l’idea che si potesse ignorare il trascinamento del residuo del Prg del ’62 e realistica l’operazione di ridisegno e riequilibrio sancita dal nuovo Piano.
In conclusione. La sconfitta elettorale e la giusta revisione critica del nostro operato non deve ricacciarci in un dibattito vecchio che sbaglia bersaglio attaccando il nuovo Piano per cose che non lo riguardano. Il nuovo Prg ha ridotto l’espansione e ha tutelato due terzi del territorio a verde e suolo libero. Questo dato è incontrovertibile. Impone obblighi e oneri pubblici altissimi ai proprietari delle aree.
Il nuovo Piano va attuato. Da lì verrà la città nuova. Guardiamo avanti, allora, e spingiamo la nuova giunta a non interrompere il cambiamento. Demolire astrattamente il grande risultato del nuovo Prg senza conoscerlo rischia di riaprire i giochi.
Attenzione. Molti sperano che alla fine si dica “tutto da rifare”. Ma a “rifare”, caro Walter, nei prossimi cinque anni non saremmo noi.
L'ex assessore Morassut dice che si rivolgerà a dei giuristi per replicare alla denuncia di Report. Speriamo proprio che i giuristi interpellati spieghino finalmente all'ex assessore Morassut che le previsioni dei PRG non concedono affatto "diritti edificatori", che quindi la cancellazione di previsioni del vecchio PRG (1962!!!) non comportava nessuna "compensazione" nè per Tormarancia nè per nessuna altra previsione che si fosse voluta cancellare. Rilasciare o autorizzare atti abilitativi basati su vecchie previsioni di PRG non era quindi necessario nè alla giunta Rutelli nè alla giunta Veltroni.
SI può convenire con Morassut che la rendita non muova tutto, ma certamente ha mosso la politica urbanistica che egli vuole ancora difendere.
E così si può convenire quando sostiene che "Il nuovo Prg e le sue regole innovative sconvolgono il campo": in effetti sconvolgono l'Agro romano. E purtroppo, dato il carattere di esempio che la pianificazione romana ha spesso avuto, ha sconvolto anche il campo della buona urbanistica accreditando l'idea, assolutamente falsa, che il PRG attribuisca "diritti edificatori".
Sui "diritti edificatori" rinviamo ancora una volta a una nota di E. Salzano e a una lettera del prof. Vincenzo Cerulli Irelli
L'inchiesta di Report sul Piano Regolatore di Roma da conto, più di tante elucubrazioni, di una parte rilevante delle ragioni della sconfitta elettorale a Roma e dell'esito disastroso per la sinistra.
Certo c'è da ragionare sul candidato, sulla riproposizione dell'ex sindaco, sulla improvvisazione della lista Arcobaleno; ma è necessario indagare le cause strutturali del crollo e gli errori della sinistra che a queste cause sono collegate.
Il "modello Roma" scaturito dal PRG era un modello che separava nettamente la crescita urbana dai suoi presupposti sociali fondamentali: il censimento dei fabbisogni abitativi reali e non solo quelli indotti dall'offerta, il fabbisogno di infrastrutture e di servizi, dalle scuole materne agli asili nido, dai centri per i giovani o gli anziani agli uffici pubblici, ai trasporti rapidi e di massa su ferro. Per questo la dimensione della crescita, la sua qualità concentrata nei centri commerciali e nell'edilizia residenziale privata oltre che nelle cosiddette grandi opere, per quanto enorme e capace di determinare tassi significativi di incremento del PIL, non ha dato alcuna risposta alla domanda di abitazioni per i ceti deboli, ha accresciuto i problemi di vivibilità e di mobilità della città, non ha innalzato la qualità della vita nelle periferie. Anzi queste hanno visto peggiorare notevolmente la propria condizione sia per il crescente affollamento, anche multietnico, che ha aggravato pure i problemi di concorrenza sul mercato del lavoro oltre a rompere gli equilibri delicati delle comunità delle borgate, sia per il più marcato isolamento legato alla inadeguatezza del trasporto pubblico. Un PRG che avesse voluto esprimere l'idea della città accogliente, per tutte e tutti, avrebbe dovuto assumere questa condizione come motivazione fondamentale e il suo radicale cambiamento come obiettivo. Non è stato così.
Quel "modello Roma" e quel PRG, al contrario, sono la rappresentazione di una cultura di governo strutturalmente subalterna ai poteri forti della rendita finanziaria ed edilizia, alimentata da un obiettivo di mercantilizzazione e finanziarizzazione dell'uso della città. Il tutto sorretto da una impressionante capacità mediatica, tale da far credere che "mentre a Milano si contesta persino la utilità del Prg, Roma definisce la sua crescita attraverso il Piano Regolatore". Non era vero. Solo che a Roma mentre si costruivano milioni di metri cubi attraverso accordi di programma in deroga, sostanzialmente come a Milano, un gruppo di architetti, con la supervisione e la relativa copertura di autorevolezza accademica di Giuseppe Campos Venuti,presidente emerito dell'Istituto Nazionale di Urbanistica, convertitosi al riformismo liberista, elaborava un Piano che veniva, di fatto, componendosi con le decisioni scaturite dai programmi dei costruttori contrattati con l'Amministrazione Comunale. Di questa contrattazione fanno organicamente parte lo strumento della perequazione al posto dell'esproprio, e quindi la marginalità dei progetti sociali pubblici rispetto a quelli privati, e la "compensazione", strumento inventato per riconoscere diritti edificatori inesistenti, presunti derivati da antiche previsioni di piani precedenti mai concretizzate in concessioni edilizie.
Report ha mostrato, opportunamente, la differenza con la pianificazione urbanistica di Madrid o di Parigi; ma anche la legge urbanistica regionale, la 38/99, prevedeva la possibile costituzione di Società per la Trasformazione Urbana come strumento misto, pubblico privato, per realizzare grandi progetti che fossero previsti dal Piano in base ai fabbisogni e all'idea di città da perseguire. Quella dell'accoglienza e del diritto all'abitare o quello della massimizzazione della rendita privata a scapito dell'interesse pubblico.
Il modo di procedere adottato a Roma venne battezzato con la definizione accademica altisonante del "pianificar facendo". Chi, come me, per fortuna in buona compagnia di illustri urbanisti e docenti di diritto urbanistico, non accettava questo,veniva tacciato di essere un "conservatore massimalista incapace di comprendere la nuova Urbanistica Riformista". Devo arguire che questa mia scarsa attitudine al riformismo urbanistico, nella misura in cui interferiva con le intese politiche nella giunta e nella maggioranza capitolina, consigliò il Partito a chiedermi di non occuparmi più dell'Urbanistica e specialmente a Roma!
Vezio De Lucia, oltre che maestro, coautore della proposta di legge sul "governo del territorio" presentata dai nostri gruppi parlamentari, finchè ci sono stati, alla Camera e al Senato, aveva definito "eversiva" quella proposta di PRG; ma la inveterata abitudine di separare, malgrado le affermazioni contrarie sempre ripetute, la teoria dalla prassi, ha consentito alla sinistra tutta di dialogare con Vezio nei giorni di festa dei convegni e smentirlo in quelli dell'ordinario operare come dirigenti ed amministratori.
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L'inchiesta di Report , anche per le acute ed informate critiche di Paolo Berdini, illustra in modo puntuale i meccanismi e i sistemi di relazioni ambigui che si determinano nel mercato immobiliare e negli accordi tra i proprietari delle aree e l'amministrazione; l'ambiguità dei ruoli giocati da figure a cavallo tra la professione libera e la funzione pubblica. Così come mostra la debolezza strutturale e la subalternità in cui la logica del "pianificar facendo" mette la pubblica amministrazione.
Infatti, accettata questa logica dell'urbanistica per progetti proposti dagli imprenditori, non solo viene a mancare il quadro organico di scelte responsabili a monte che danno l'idea della città che si intende realizzare, ma è necessario, perché i progetti possano realizzarsi nelle aree dei proponenti, rimuovere tutte le norme che regolano la pianificazione urbanistica, stravolgere quelle che sovrintendono la tutela ambientale e paesaggistica, svuotare i Piani Territoriali Paesistici previsti dalla Legge Galasso.
Campos Venuti e la giunta Rutelli, quando impostavano il Piano, hanno operato perché non venisse alla luce quella legge urbanistica regionale da me voluta e prodotta da un gruppo di studiosi e di tecnici coordinato da un maestro dell'urbanistica come Edoardo Salzano; poi l'hanno definita massimalista e rigida perché obbligava i Comuni a fare i piani prima di dare il via alle concessioni edilizie ed impediva che le varianti si facessero su richiesta privata, a trattativa diretta e con accordo di programma. La giunta Veltroni ha proseguito su questa strada di "riformismo urbanistico", demolitorio delle regole e delle tutele, concordando con la Regione, allora governata da Storace, un sostanziale stravolgimento della legge sulla tutela ambientale in modo che i vincoli di salvaguardia paesaggistica e ambientale, dovessero cedere il passo alle scelte urbanistiche.
È sempre il trito discorso dei vincoli che impediscono lo sviluppo delle magnifiche sorti e progressive dello sviluppo e della crescita urbana!
In ragione di ciò, e per consentire la localizzazione dei 70 milioni di metri cubi del PRG di Roma, il nuovo Piano Paesistico Regionale è uno strumento talmente labile e a "maglie larghe" da risultare sostanzialmente inefficace al fine di salvaguardare il patrimonio paesistico ed ambientale della regione e, nello specifico, dell'Agro Romano.
Non contenti di ciò, al fine di accelerare l'approvazione del Piano da esibire nella celebrazione dei fasti Veltroniani, la Regione, stavolta quella di Marrazzo con la partecipazione della sinistra, sostanzialmente abroga la procedura di approvazione dei Piani Regolatori prevista dalla legge e la sostituisce con una procedura di valutazione sostanzialmente politica, e quindi discrezionale, che si manifesta in una generica Conferenza di Copianificazione tra Comune, Provincia e Regione.
A sostegno culturale, si fa per dire!, di questa impostazione "riformista", rivendicata con orgoglio da Veltroni e da Campos Venuti, sta la impostazione della proposta di legge urbanistica avanzata nella passata legislatura berlusconiana dal forzista Lupi, ex Assessore al Comune di Milano, e fatta propria da DS e Margherita dell'epoca.
Report ci ha mostrato come sono andate le cose e ha dato conto dei risultati; le urne hanno manifestato il giudizio dei romani su questo "modello" costruito col Piano Regolatore. Nei 70 milioni di metri cubi del piano non trovano posto quelli che servono per le case popolari, per l'edilizia sociale. Hanno visto, i romani, la città crescere senza e contro di loro, l'edilizia sociale solennemente promessa con delibere "monstre" e quella privata solidamente realizzata a suon di varianti e accordi di programma, e hanno giudicato. È tutto qui? Certamente no! Ma se si salta questo dato di analisi si rischia di non essere in grado di ristabilire un rapporto con quelle periferie, peraltro assegnate per competenza assessorile alla sinistra, che hanno votato la destra e Alemanno.
Quel sistema di potere che si era costruito attorno al sindaco e che aveva alimentato quel modello crolla di schianto perché non ha dato risposte alla città, ma anche perché, non essendo fondato sul diritto positivo ed oggettivo ma su un sistema negoziale mercantile, ha lasciato crepe vistose e contraddizioni aperte tra gli interessi dei diversi gruppi economici in campo. E questi interessi si sono messi alla ricerca di altri interlocutori dopo aver preso tutto quanto il veltronismo poteva dare. Anche per questo non mi appassiona la casistica dei singoli immobiliaristi e l'approccio moralistico che giudica l'effetto e non indaga le cause di un processo gigantesco di arricchimento privato e di impoverimento sociale. L'analisi di questi interessi edilizi e il loro rapporto con la struttura dell'informazione e della comunicazione, la commistione/compenetrazione di interesse privato e funzioni direttamente o indirettamente pubbliche, sociali e di servizio, danno conto sia del meccanismo che ha alimentato il grande consenso e sia della dislocazione dei poteri che ha indotto la frana.
Purtroppo, quando la sinistra arcobaleno ha cominciato ad interrogarsi su cosa succedeva in città i danni erano stati compiuti. E come il Pasquino della tradizione si è trovata al "ne ho prese tante…ma quante glie ne ho dette!".
La sinistra, e Rifondazione in primo luogo, è stata investita dal crollo perché non ha impedito che quel blocco di potere si formasse; ha accettato che venissero stravolte le norme urbanistiche e paesaggistiche che la stessa sinistra aveva conquistato a livello regionale con la giunta Badaloni e che un insigne tecnico del diritto urbanistico come Sergio Brenna considera tra le migliori e più avanzate nel panorama delle legislazioni regionali. Norme che difendo e rivendico non solo perché le avevo promosse ma, soprattutto, perché rappresentano la cultura che la sinistra ha prodotto in materia di governo del territorio e tutela ambientale.
Oportet ut Report eveniat , si potrebbe dire parafrasando il detto evangelico che invita a muovere dallo scandalo; se questo può servire per avviare il percorso di costruzione del nuovo patto tra la sinistra e la società che ha bisogno di un modello diverso di città.