«In 13 anni di emergenza mai un opuscolo per spiegare a cosa serve la raccolta differenziata e che vantaggi dà. Mai un accordo tra tutti i Comuni per costruire un sistema unico ed efficiente di raccolta di carta, vetro, plastica e metalli evitando gli sprechi. Mai un´informazione vera e completa ai cittadini. Tanti siti per lo stoccaggio dei rifiuti scelti senza criteri trasparenti di scelta. E poi ci si meraviglia se la gente protesta?». Umberto Arena, come docente di ingegneria chimica a Napoli e consulente per il piano rifiuti in Campania del 1997, è un tecnico. Ma come abitante del Vomero è anche uno dei napoletani che, pur producendo meno spazzatura dell´italiano medio (1,32 chili al giorno pro capite contro 1,47), si trovano sul banco degli accusati per una follia economica senza uguali: la paralisi del sistema rifiuti porta a spendere 20-30 volte di più per esportare il pattume sui treni speciali.
In Campania l´emergenza, almeno finora, si è limitata a proseguire la vecchia politica in una nuova forma. L´inceneritore regionale per i rifiuti ospedalieri non esiste. La piattaforma regionale per i rifiuti industriali non esiste. L´unico grande progetto per sottrarre alimento ai ratti che proliferano nelle strade, nato alla fine Novanta, è stato sepolto sotto un insuccesso su cui indaga la magistratura. Abbondano invece le discariche abusive: un primo, parziale conteggio, ne ha censite oltre mille, per la maggior parte piazzate lungo le strade che costeggiano i terreni agricoli. E abbondano le ecoballe, nome profetico utilizzato per indicare un assemblaggio di materiali che in teoria avrebbero dovuto avere le caratteristiche del combustibile, ma che in pratica continuano a somigliare pericolosamente a un rifiuto.
In pochi anni sono stati accumulati 4,3 milioni di tonnellate di ecoballe, una fila infinita che salda due Comuni, Giuliano e Villa Literno, in un solo conglomerato unificato dalla spazzatura. Queste ecoballe basterebbero a riempire sei discariche come quella che si vuole realizzare a Serre Persano. Così come i rifiuti confinati in cumuli provvisori la colmerebbero una volta e mezza. E la spazzatura regionale urbana di routine in tre mesi. Senza tener conto dei rifiuti speciali, cioè principalmente industriali, che sono quasi il doppio degli urbani anche se, secondo i dati ufficiali, risultano curiosamente dimezzati rispetto alla media nazionale.
«Eppure cambiare rotta è possibile e conveniente», continua Arena. «In alcune zone del Salernitano la raccolta differenziata è sopra il 20 per cento, il doppio della media regionale. Ci sono Comuni in testa alla classifica nazionale. E quando il Comieco, il Consorzio per la raccolta degli imballaggi di carta, ha messo piccoli contenitori nei palazzi di Napoli i numeri del recupero sono triplicati».
Ma la raccolta differenziata è ancora insufficiente ad alimentare le aziende nate in Campania puntando sul circuito virtuoso del riciclo. E così si registra l´ennesimo paradosso: mentre la spazzatura parte verso Nord, a caro prezzo, i materiali della raccolta differenziata scendono, a caro prezzo, verso Sud.
Il mercato avanzato del rifiuto è in sofferenza mentre il business dell´ecomafia continua a prosperare. «I camorristi che alle fine degli anni Ottanta gestivano le discariche abusive sono diventati imprenditori», ricorda Enrico Fontana, responsabile dell´Osservatorio ambiente e legalità della Legambiente. «In Campania la criminalità organizzata ha speculato sui terreni acquistati per realizzare impianti di stoccaggio provvisorio e si è infiltrata pesantemente nelle società di gestione dei rifiuti. La torta su cui ha messo gli occhi è robusta: 800 milioni di fatturato illegale per i rifiuti urbani nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa e un miliardo di euro di gestione della struttura emergenziale in Campania. Senza contare il traffico illecito di rifiuti industriali provenienti da altre regioni italiane».
I dati dei rapporti di Legambiente, quello nazionale e il fascicolo presentato ieri a Napoli nell'Istituto filosofico, confermano che in Campania si continua a perpetuare un massacro ambientale. La triade di rifiuti, veleni e cemento firma un patto d'acciaio contro un territorio maltrattato da trafficanti, camorristi, imprenditori, tecnici e amministratori pubblici conniventi.
In cifre significa che la regione, in Italia, dal secondo posto del 2005 passa al primo per i reati ambientali commessi: solo nel 2006 ci sono stati 3.169 illeciti accertati, otto reati al giorno, uno ogni tre ore; con 2.861 persone denunciate o arrestate e 1.362 sequestri effettuati. Nei fatti significa che esiste un sistema di 64 clan camorristici con a disposizione un giro di 6 miliardi di euro, tra fatturato legale e illegale. Affari che arrivano dalla tratta dei rifiuti tossici, ma anche da quelli «puliti», nonché dall'edilizia abusiva. Uno scempio.
Un'emergenza ancora più pericolosa se unita all'incapacità di gestione istituzionale, negli ultimi 13 anni, del ciclo integrato dell'immondizia. Due mondi che si guardano proprio per le connivenze tra la criminalità organizzata, enti e strutture preposte alla raccolta e allo smaltimento. E' di lunedì l'ultima protesta dei cittadini dell'agro aversano, il regno dei Casalesi. A Gricignano, Casal di Principe e San Cipriano le popolazioni sono scese in strada e hanno gettato davanti alle caserme dei carabinieri cumuli di rifiuti. La contraddizione è che in quei comuni attualmente non c'è nessuna crisi in atto. E' verosimile dunque che le tensioni siano fomentate in prospettiva. La discarica di Villaricca, che da ottobre per accordi presi con l'amministrazione comunale, accoglie i sacchetti di mezza Campania ora è giunta a saturazione. Nel frattempo però non sono stati ancora individuati siti di sversamento alternativi, (i cittadini di Serre e Lo Uttaro si oppongono a diventare la pattumiera della regione). Con l'estate alle porte si avvicinano le cicliche emergenze regionali, la camorra lo sa e preme per soluzioni d'urgenza in cui infiltrare i propri uomini (siano questi imprenditori o proprietari di terre).
Rischi reali, basta andare a leggere il rapporto di Legambiente: anche nel ciclo dei rifiuti la Campania detiene il primato negativo. Sono 448 le infrazioni accertate, 453 le persone denunciate e arrestate e 175 i sequestri. Quanto alle ecomafie il quadro è ancor più disperante: è di oltre 600 milioni di euro il giro d'affari annuo, con oltre 10 milioni di tonnellate di veleni sversati negli ultimi due anni. «Sappiamo che ormai operare effettivamente per lo smantellamento del controllo dei rifiuti dobbiamo fare di più - ha detto il ministro Alfonso Pecoraio Scanio - dobbiamo cioè utilizzare quelle tecnologie avanzate e coinvolgere tutti i settori per contrastare i crimini dell'ecomafia». Ma il senatore Tommaso Sodano, presidente della commissione ambiente è critico: «Il rapporto di Legambiente è come al solito impressionante ma non ci coglie di sorpresa». Ma se era già noto cosa è stato fatto dal governo in un anno? «Per il momento - dice Sodano - non vedo provvedimenti forti e al contrario, solo tentennamenti nell'imboccare la strada delle energie rinnovabili». Quindi ha ricordato che «il ddl governativo per l'abolizione dei finanziamenti pubblici a petrolieri, inceneritori e carbone non è ancora stato incardinato». Un'altra buona notizia.
Perfino sul fronte dell'abusivismo edilizio la Campania sbaraglia i concorrenti: con 1.166 infrazioni, 1509 persone denunciate e 470 sequestri. A febbraio l'ultima «scoperta»: un quartiere completamente abusivo (centinaia di appartamenti) sorto dalla sera alla mattina a Casalnuovo (Na). Secondo Legambiente in Campania vivono i migliori maestri del cemento fai-da-te. Sono circa 6000 le costruzioni abusive realizzate nel 2006. Nove giorni e nove notti, 227 ore di lavoro per mettere in piedi una villetta monofamiliare. Ogni giorno sono all'opera circa 100 operai, capaci di scavare anche decine di piscine, tutte orientate verso il mare. Solo la guardia di finanza negli ultimi due anni ha sequestrato 100 cantieri per un valore di 98 milioni di euro. «Davanti a questi numeri - spiega Michele Buonomo, presidente Legambiente Campania - nella nostra regione l'abusivismo fa più paura del Vesuvio».
Per raccontare gli ultimi capitoli dell’odissea dei rifiuti in Campania è impossibile sfuggire alle trappole del gergo. La novità non è tanto quella di un’intera regione oramai preda del NIMBY: le proteste contro la decisione del supercommissario Bertolaso di localizzare una nuova discarica a Serre di Persano pongono l’ulteriore dilemma se sia preferibile il criterio “dirt on dirt ”, localizzando la discarica in un sito già inquinato, piuttosto che quello “dirt on clean”, piazzandola cioè in aree “pulite” o addirittura, nel caso di Serre, di conclamato pregio ambientale, a due passi dall’oasi naturalistica che ospita gli ultimi esemplari di lontra in Campania.
D’altro canto, la trattativa diretta che si è instaurata tra ministero dell’ambiente, commissariato e comitato di opposizione locale, il cui risultato è per ora il ridimensionamento della discarica da 2 milioni a 700 mila tonnellate, certifica una volta di più il deficit di credibilità della Regione, incapace di trovare il bandolo di un’emergenza (?) che dura da tredici anni, e che ha coinvolto tre diverse amministrazioni e ben cinque commissari straordinari (Rastrelli, Losco, Bassolino, Catenacci, Bertolaso).
Ad appesantire ulteriormente il quadro, la brutta notizia di stamane, dell’arresto del vice di Bertolaso per presunte collusioni camorristiche. Piove sul bagnato.
Tornando alla Regione, l’occasione per una tardiva correzione di rotta l’ha pure avuta, con la recente approvazione di una legge sui rifiuti, che definisce i paletti del nuovo piano regionale, in sostituzione di quello strampalato che l’emergenza l’ha alimentata ed amplificata, e che era di fatto basato sull’impacchettamento della monnezza tal quale e l’incenerimento nei due mega impianti di Acerra e S. Maria la Fossa, realizzati in project financing dal gruppo Impregilo di Cesare Romiti.
Occasione mancata, se la maggioranza con un autoemendamento ha cassato in extremis uno degli articoli politicamente più impegnativi della legge, quello che imponeva alle cinque province di segnalare tempestivante al commissario straordinario due siti ciascuna per la localizzazione delle discariche.
Evidentemente, il tempo delle assunzioni di responsabilità non è ancora giunto per la politica campana, e l’ombrello commissariale, seppur ridotto a colabrodo, fa ancora comodo.
A testimoniare il disagio, la significativa astensione di Gerardo Rosania, uno dei consiglieri campani maggiormente avvertiti in materia territoriale: uno di quelli che le responsabilità istituzionali non le ha mai schivate, lui che da sindaco di Eboli ha demolito centinaia di villette abusive sulla duna demaniale, in una regione nella quale un altro sindaco, quello di Casalnuovo, non si era accorto della nascita di un intero rione abusivo finanziato da Gomorra spa perché “nascosto dai cespugli” (sic!).
La lezione per il centrosinistra campano, al termine di un ciclo politico iniziato nel ’93, è amara assai, ed è quella che non esistono scorciatoie: la strada per la rinascita del Mezzogiorno d’Italia non può essere quella di una modernizzazione perseguita a botta di deregolamentazioni, privatizzazioni, esternalizzazioni dei processi decisionali, deroghe alle valutazioni preventive e ai controlli, perché “altrimenti si perdono i fondi”. La cosa da fare è meno suggestiva e immaginifica: restituire dignità e credibilità alle istituzioni, capacità alla pubblica amministrazione, nel rispetto delle procedure ordinarie, nel rispetto della legge, recuperando il passo riformista di Rossi-Doria, dei “…cavalli dal fiato lungo”.
In questi giorni si sta decidendo in Parlamento l'importante partita degli inceneritori. Oggi, i rifiuti bruciati negli inceneritori sono considerati una fonte d'energia assimilata alle rinnovabili, e per questo chi li brucia incassa un sacco di soldi, prelevati dalle nostre bollette dell'elettricità. Succede dal 1992. La Finanziaria di quest'anno doveva porre fine a questo scempio della salute e del portafoglio dei cittadini: nessun inceneritore costruito dopo il 31 dicembre 2006 avrebbe più beneficiato dei finanziamenti.
Ma c'è un emendamento che vuol cambiare le cose all'ultimo momento sostituendo il termine “costruiti” col termine “autorizzati”. Un inceneritore non lo si costruisce in una settimana, ma lo si può benissimo autorizzare. I lobbisti della cosiddetta “termovalorizzazione” (altra presa in giro linguistica) l'avranno così spuntata di nuovo.
Qui dal Trentino dove abito questa faccenda assume un sapore di beffa. Da anni si parla della costruzione di un inceneritore che dovrà bruciare tutti i rifiuti indifferenziati della Provincia. Ma non si era mai arrivati al dunque. Senonché, in questi ultimi giorni, in maniera tempisticamente sospetta, sono arrivate le prime autorizzazioni alla costruzione. Così, gli amministratori provinciali si assicurerebbero per il rotto della cuffia quei finanziamenti all'incenerimento che hanno sempre detto di non tenere in alcun conto. “L'unica nostra preoccupazione – hanno sempre sostenuto – è di evitare la discarica a quel 20-30% di rifiuto residuo che avanza anche coi migliori sistemi di raccolta differenziata”.
Ma la soluzione al problema dei rifiuti passa non solo dalla loro differenziazione, ma anche (soprattutto) dalla loro riduzione. La frazione di residuo secco che in effetti non può che rimanere anche coi migliori sistemi di differenziazione – su questo hanno ragione i lobbisti dell'incenerimento – si può infatti ridurre solo facendo un ulteriore passo. La soluzione è cambiare gli attuali sistemi di produzione e consumo. Il ‘ bad industrial design' di cui parla il padre della strategia Rifiuti Zero ( http://www.zerowaste.org) , lo statunitense professor Paul Connett, deve diventare un ‘good industrial design', capace di garantire la totale riciclabilità dei prodotti.
Questo cambiamento può accadere solo se produttori e consumatori si accordano per andare con decisione verso questa direzione. E' in genere a questo punto che il dibattito si avvita su se stesso senza portare da nessuna parte. Il primo passo spetta ai consumatori! No, spetta ai produttori! Io produttore vorrei, ma poi il consumatore non compra… No, sono io consumatore che vorrei, ma poi il prodotto sullo scaffale del supermercato non ce lo trovo… E avanti così, mentre i rifiuti si ammucchiano e le discariche si esauriscono…
La cosa triste è che tecnologie produttive e tecniche di distribuzione per uscire da questa impasse ci sarebbero, se solo le si volesse davvero impiegare. Lo dimostrano i nuovi modi di produrre e consumare che, nella logica della riduzione dei rifiuti, vengono messi in pratica qua e là in maniera sporadica, nell'ambito delle realtà più evolute nella gestione sostenibile dei rifiuti. L'acquisto del latte fresco dai distributori automatici, i detersivi alla spina, il vuoto a rendere, i prodotti sfusi: sono tutte soluzioni praticabili.
In Trentino, dove l'opposizione all'inceneritore è forte, esperienze di questo genere non mancano, ma restano fortemente minoritarie. Gli amministratori provinciali fingono di incentivarle, ma la loro idea è un'altra: “Il cambiamento dei sistemi produttivi e dei criteri di progettazione – mi ha fatto notare l'assessore all'Ambiente della Provincia Autonoma di Trento – contrasta con logiche di mercato che rendono impossibile il recupero. Ad esempio un'automobile è costruita con materiale recuperabile per oltre il 90% ma i costi per smontarla completamente sono insostenibili. L'esperienza di altre realtà, in particolare estere, di imporre con legge divieti o obblighi ha aperto una lunga serie di contenziosi perchè, comunque la si guardi, cambiamenti rilevanti nell'attività produttiva comportano notevoli investimenti”. Ma il punto non è tanto quello di imporre il cambiamento al sistema produttivo, quanto di indurlo, ad esempio cominciando dall'evidenziare la cosiddetta verità dei costi, che tiene conto anche di quelli ambientali, ed è in grado di rendere economicamente sostenibile, come insegna il citato professor Connett, persino lo smontaggio di un'automobile.
Proprio in questi giorni Nimby trentino ( http://ww.eccetera.org ), l'associazione che da tre anni guida l'opposizione all'inceneritore, ha celebrato il millesimo giorno di digiuno di protesta portato avanti a catena dai cittadini. Il coordinatore Adriano Rizzoli critica le scelte di facciata di un'amministrazione che punta sulla differenziata, ma poi trascura completamente la strategia della riduzione e del “ good industrial design”. “A causa di quale tipologia di rifiuti – si domanda Rizzoli – si prendono le dissennate decisioni di costruire gli inceneritori? Quanti rifiuti non riciclabili si potrebbe fare a meno di produrre? Quanti di essi si potrebbero rimpiazzare con del materiale riciclabile grazie a un'appropriata progettazione?”
Se si va a mettere le mani nel rifiuto residuo si scoprono cose molto interessanti. Rizzoli l'ha fatto, scoprendo che nel 2005, ben oltre la metà del residuo secco prodotto in Trentino, e che in futuro brucerà nell'inceneritore, era in realtà materiale riciclabile. E la parte non riciclabile? In essa è molto consistente la presenza dei poliaccoppiati, tipo tetrapak, per intenderci. “Allora non si potrebbe spingere per la totale sostituzione dei contenitori in tetrapak con contenitori di materiale riciclabile?”. Un'altra frazione importante del residuo secco non riciclabile è quella dei tessili sanitari. “E chi sa che anche i pannolini, se prodotti in un certo modo, si possono riciclare?”.
Il buon senso suggerirebbe innanzitutto di riflettere bene sui dati dell'analisi merceologica del residuo secco, e poi di fare il massimo sforzo per ridurre quanto non si può riciclare. Solo dopo si dovrebbe decidere se vale la pena di pianificare o meno un inceneritore, che rappresenterebbe una soluzione rigida e irreversibile. “Invece – prosegue Rizzoli – da noi in Trentino s'è fatto esattamente il contrario: prima s'è frettolosamente previsto un mega-inceneritore da 400.000 tonnellate l'anno, poi s'è aggiustato il tiro rimpicciolendolo di volta in volta man mano che si sono constatati i frutti della differenziazione. Se si avesse la pazienza e l'onestà di aspettare anche gli effetti di decise azioni di riduzione, alla fine non si potrebbe che decidere di abbandonare per sempre l'idea di costruirlo”.
A meno che quell'idea la si abbia per intascare i soldi pubblici che finanziano l'incenerimento. Il subdolo tentativo di questi giorni di far rientrare dalla finestra tali finanziamenti sembrerebbe indicare che le cose stanno purtroppo così.
Le questioni poste da Giovanni Valentini con il suo articolo su “Repubblica” del 29 agosto a proposito del Piano per la gestione dei rifiuti in Sicilia (o meglio, del piano degli inceneritori di Cuffaro) meriterebbero risposte puntuali che non è facile riassumere.
Tra le tante cose sagge che dice, Valentini incappa però in qualche inesattezza:
Il Consiglio di Stato, intanto, non ha dato alcun via libera (tant’è che i lavori di sbancamento nei siti sono tuttora sospesi) ma ha riformato l’ordinanza del TAR Catania laddove questo sospendeva anche i lavori preparatori che non comportano la modifica dei luoghi (e quindi progettazioni, piani finanziari, ecc.).
Per evitare poi che dalla lettura dell’intervento di Valentini si tragga l’impressione che in Sicilia – se pur con qualche contraddizione – il commissario-presidente Totò Cuffaro stia operando per il meglio e che sono gli ambientalisti e le popolazioni colpite dalla “sindrome Nymby” ad ostacolare una corretta gestione della problematica dei rifiuti, provo a riportare sinteticamente i motivi dell’opposizione di Legambiente e di altre associazioni, motivi esposti in decine di documenti, denunce, ricorsi.
Il piano regionale, palesemente, non è conforme né alla normativa nazionale né a quella europea. Se questa affermazione è fondata lo dirà, speriamo presto, la Commissione Europea a cui Legambiente e WWF hanno presentato una denuncia d’infrazione. Intanto l’ha detto con chiarezza l’ex ministro Edo Ronchi, intervenendo a Palermo ad un convegno organizzato da Legambiente.
Per affrontare il problema dello smaltimento dei rifiuti l’Europa s’è dotata di una politica detta delle 4 R: riduzione (della produzione di rifiuti), raccolta differenziata, riciclaggio, recupero di energia. Non si tratta d’una disorganica elencazione di obiettivi, né di fattori il cui ordine può essere cambiato arbitrariamente, quanto piuttosto dei punti essenziali d’una strategia costruita su precise priorità. Bisogna dare prevalenza alle politiche di riduzione dei rifiuti e contestualmente riciclare il maggior numero di materie, sempre con l’obiettivo di risparmiare risorse (materie prime ed energia necessarie per produrre beni che poi si trasformerebbero in rifiuti). Il recupero di energia dai rifiuti (attraverso la combustione) è solo l’ultimo dei sistemi in ordine di priorità e deve riguardare esclusivamente quella frazione dei rifiuti che sfugge alla raccolta differenziata o che non può essere riciclata.
Il piano regionale inverte le priorità indicate dalla UE dando precedenza e centralità al sistema della termovalorizzazione che dovrebbe smaltire almeno il 60% dei rifiuti prodotti dai siciliani, mentre il conseguimento della quota del 35% di raccolta differenziata – obiettivo obbligatorio per tutti dal maggio 2003 e già raggiunto nel 2002 da quelle regioni italiane che, come la Sicilia, erano in emergenza negli anni ‘90 – viene rimandato al 2008 senza, fra l’altro, prevedere alcuna misura che ne assicuri il rispetto. Se poi si confronta il piano con l’ordinanza n° 333 che ha dato il via libera al sistema della termovalorizzazione, ci si trova davanti ad una realtà ancora peggiore: le quantità che la Regione s’è impegnata a conferire alle quattro Associazioni Temporanee di Imprese che dovranno trattare i rifiuti sono praticamente pari al totale di quelli prodotti in Sicilia, con l’esclusione della piccola quota di raccolta differenziata che attuano i comuni e che, notoriamente, non supera il 6%. La capacità d’incenerimento degli impianti è addirittura superiore al totale dei rifiuti prodotti in Sicilia. Per essere ancora più chiari, il sistema è stato studiato per consegnare nelle mani delle imprese per i prossimi vent’anni, a partire dal 31 marzo 2004 o da quella data in cui verranno superate tutte le difficoltà insorte nel frattempo, l’intero settore dello smaltimento – dal trasporto alla discarica e all’incenerimento. E tutto ciò prevedendo a favore delle imprese garanzie più che straordinarie. Per esempio:
a) la tariffa viene ritoccata al rialzo anche se diminuisce il quantitativo dei rifiuti conferiti – paradossalmente, più differenziata fai e più ti aumenta la tariffa;
b) un impegno della Regione assolutamente acritico affinché “ le aree di interesse dell’Operatore Industriale siano rese disponibili, unitamente a tutte le autorizzazioni e permessi necessari alla realizzazione del Sistema e permettere il corretto svolgimento delle attività su tali aree senza impedimenti ed entro i termini previsti”. Un impegno che già faceva presagire il rigetto di qualunque fondata obiezione dei cittadini e delle collettività locali sulla scelta dei siti già fatta in splendida solitudine dall’Operatore Industriale e che ha prodotto pareri favorevoli a difettose Valutazioni d’Impatto Ambientale;
c) nessuna penalità per il fermo impianti (basterà dire che si tratta di manutenzione), neppure a seguito di un eventuale sequestro della Magistratura;
d) la promessa che quando l’Operatore si sarà stufato di continuare l’attività o (solitamente dopo dieci anni) non troverà conveniente rinnovare il termovalorizzatore, la Regione subentrerà nella proprietà degli impianti acquistando i ferrivecchi o pagando il canone di locazione;
e) un organismo di vigilanza nominato dal Commissario delegato ma pagato dall’Operatore Industriale.
È forse per farci dimenticare tutto ciò – compreso il fatto che sembra si sia decretata la fine di ogni programma per una decente raccolta differenziata – che la struttura commissariale si è data ad una frenetica ricerca di un’impossibile legittimazione ed ha promosso una massiccia campagna volta a convincere i siciliani che il problema dei rifiuti è ormai risolto con la realizzazione di quattro mega-inceneritori? Si assicura che così spariranno le discariche ma si omette di dire che comunque bisognerà smaltire, in discarica, quel famoso 37% di umido (circa un milione di tonnellate l’anno) che non sarà mai un compost di qualità, come dimostra l’analogo sistema di selezione meccanica in funzione in Campania per produrre le ingestibili eco-balle. E sempre in discarica dovranno finire 400mila tonnellate l’anno di rifiuti speciali (ceneri e residui di combustione) prodotti dagli inceneritori.
A proposito di “scelte di civiltà”, inoltre, bisognerebbe ricordare che a Copenhagen, a Vienna, a Parigi – ed in tutte le città straniere che ci vengono portate come moderno esempio di compatibilità tra inceneritori e centri urbani – la raccolta differenziata è ben oltre il 50%; si brucia meno roba e molto ben selezionata. La scelta fatta in Sicilia dal commissario-presidente Cuffaro, in violazione delle leggi nazionali e comunitarie, è invece quella di bruciare la maggior parte dei rifiuti “tal quale” (si leggano i decreti autorizzativi), direttamente dal cassonetto al forno. Sul piano etico, ambientale e sanitario una decisione barbara e inaccettabile; sul piano economico una manna per chi gestirà gli impianti incassando almeno 80 euro per ogni tonnellata di rifiuti che gli verranno consegnati, oltre al lauto contributo CIP6 per ogni chilowattora prodotto. È un affare grosso quanto quello per il famigerato Ponte sullo Stretto che si tenta di far passare nel silenzio. Per quale ragione non si rendono pubbliche le convenzioni che sono state stipulate con le A.T.I. e non si dice chiaramente quanto costerà a ciascuno questo sistema?
Non meno grave infine che tutti gli impianti siano ubicati in prossimità o addirittura all’interno di aree SIC e ZPS. Paradossalmente l’inceneritore di Augusta verrebbe costruito sulla stessa area della centrale Enel già contaminata da diossina, accanto al sito archeologico di Megara Iblea. La scelta dei siti non è stata fatta dalla struttura commissariale o da organi istituzionali, bensì lasciata agli stessi operatori industriali ai quali è stato affidato l’appalto. La Commissione Europea ha poi avviato una procedura d’infrazione, tramutatasi in deferimento alla Corte, nei confronti dell’Italia per come in Sicilia si è affidato il settore ai privati in violazione delle norme sugli appalti.
Sul versate della salubrità, al di là del ruolo di testimonial affidato al prof. Veronesi, il danno sanitario accertato, per esempio ad Augusta, è già fin troppo noto ed i continui dati forniti dall’Istituto Superiore di Sanità non sono però finora serviti a modificare la scelta dei siti.
Ci sembra urgente comprendere la portata, sul piano della tutela dell’ambiente e del rispetto della legalità, di ciò che si sta mettendo in moto in Sicilia. E cioè:
1) Di fatto, si affida il delicatissimo settore dei rifiuti a quattro A.T.I., le quali si serviranno di altre aziende private che – da troppo tempo e con molte ombre – gestiscono la raccolta e le discariche in Sicilia. Avete sentito qualcuno protestare per essere stato escluso dal business?
2) Alle imprese vengono garantite per vent’anni condizioni e tariffe vantaggiosissime per loro ma estremamente sfavorevoli per i cittadini utenti, un introito certo di alcune centinaia di milioni di euro l’anno per lo smaltimento e altrettanti dall’energia elettrica prodotta dagli inceneritori e pagata dagli utenti con la tariffa CIP6.
3) Pur di accontentare tutti, i rifiuti viaggeranno da un capo all’altro dell’isola. Per esempio quelli di Catania, Siracusa, Enna e Ragusa ad Augusta; quelli di Messina a Catania. Il biglietto, ovviamente, lo pagheremo noi.
A ben pensarci tornano in mente le pagine di storia siciliana che parlano delle esattorie: si esigeva male per il pubblico ma i privati incassavano aggi favolosi. Che il servizio fosse efficiente non importava a nessuno, tutto però era funzionale al mantenimento del potere.
Spero sia chiaro a tutti che queste questioni, o altre ancora su chi sono mai i soci locali della Falck (può a aiutare a capirlo l’articolo di Gian Antonio Stella sul “Corriere della Sera” del 24.11.04), non possono essere tenute dietro la cortina (fumogena, è il caso di dire) degli edifici disegnati dalla buonanima di Kenzo Tange.
Enzo Parisi / Legambiente Sicilia
A un anno dalla rivolta popolare contro l’inceneritore di Acerra, guidata congiuntamente dal sindaco comunista e dal vescovo, nella cittadina ai piedi del Vesuvio le ruspe si sono fermate perché - a forza di scavare nel terreno - una falda freatica ha allagato il cantiere. Tra la Campania e la Puglia, intanto, è in corso una disputa sulla collocazione di un nuovo impianto di smaltimento al confine tra le due regioni che è arrivata a contrapporre i rispettivi governatori di centrosinistra, Antonio Bassolino e Nichi Vendola. E in Sicilia, il progetto della Regione per la costruzione di quattro termovalorizzatori, bloccato da un ricorso al Tar e sospeso all’unanimità dalla stessa assemblea regionale fino al 30 settembre, ha appena ricevuto un via libera dal Consiglio di Stato: il "valore politico" di quella decisione, secondo l’ordinanza, "non incide direttamente sugli atti amministrativi e sulla loro efficacia".
Sullo sfondo di un Sud che aggiunge ai suoi mali storici la malagestione dei rifiuti, sotto la minaccia delle discariche abusive e l’ombra della criminalità organizzata che si allunga su quest’ultimo business, il caso siciliano rischia di diventare un paradigma nazionale. Con buona pace del glorioso generale Garibaldi, le due Italie continuano a dividersi perfino sulla spazzatura. E il nostro povero Mezzogiorno, in ritardo anche sulla raccolta differenziata rispetto al resto del Paese, rimane pericolosamente in bilico tra un degrado urbano e ambientale che è sotto gli occhi di tutti e una possibile modernizzazione civile, irta però di ostacoli e ambiguità.
Da quando nel ‘99 fu dichiarata l’emergenza rifiuti nell’isola, la Regione Sicilia ha avviato un piano d’intervento ispirato, almeno sulla carta, ai principi della sostenibilità. Il ciclo completo - come si fa già altrove - prevede innanzitutto la raccolta differenziata, presupposto indispensabile per separare il secco dall’umido, la carta, la plastica, il legno, il vetro e i metalli; poi la produzione di compost, un fertilizzante per usi agricoli; quindi la selezione e il riutilizzo dei rifiuti non riciclabili; e infine la produzione di energia attraverso una rete di termovalorizzatori, gli impianti nei quali si bruciano ad altissime temperature i materiali dotati di sufficiente potere calorifico.
In questi cinque anni, dopo la nomina dello stesso presidente della Regione Salvatore Cuffaro a Commissario straordinario per l’emergenza, la situazione è andata gradatamente migliorando con una tendenza verso gli standard nazionali: la raccolta differenziata è aumentata, mentre le discariche su tutto il territorio regionale si sono ridotte dalle 357 iniziali a 114. Ma c’è ancora molto da fare per allineare la Sicilia agli obiettivi del "decreto Ronchi" che nel ‘97 fissò il tasso di raccolta differenziata al 35% sul totale della produzione di rifiuti urbani: tanto più che il Nord ha già superato il 30%, il Centro è intorno al 15, mentre il Sud e le isole sono ancora sotto il 6.
Il piano della Regione Sicilia prevede la realizzazione di quattro termovalorizzatori: uno a Bellolampo, alle porte di Palermo; gli altri ad Augusta (Siracusa), Casteltermini (Agrigento) e Paternò (Catania), per servire altrettante aree omogenee a cavallo di nove province. I primi tre impianti sono stati appaltati al gruppo Falck con alcuni partner locali, il quarto sarà realizzato da un altro gruppo. L’investimento complessivo ammonta a circa un miliardo di euro, con 1.500 occupati nella fase di costruzione e altrettanti in quella di gestione.
Ma è soprattutto sul doppio vantaggio, ambientale ed energetico, che punta il consorzio Actelios per superare le resistenze delle popolazioni locali e del fronte ecologista che hanno prodotto lo stop bipartisan dell’assemblea regionale contro il piano del presidente-commissario. Con l’installazione dei termovalorizzatori, da una parte verrebbe trattato e smaltito circa il 70% dell’attuale produzione regionale di rifiuti; dall’altra, verrebbe installata una potenza di 150 megawatt per una produzione di energia elettrica sufficiente a soddisfare il 20% del fabbisogno della popolazione siciliana. E così le discariche si ridurrebbero a 8 in tutta l’isola, con una diminuzione della massa dei rifiuti pari all’80%.
Per sostenere il piano, e difendere naturalmente i propri interessi aziendali, il gruppo Falck ha affidato il progetto degli impianti allo studio dell’architetto giapponese Kenzo Tange (scomparso recentemente), con l’intento dichiarato di trasformarli in altrettanti monumenti industriali e renderli così esteticamente più accettabili. Ma, per vincere l’ostilità degli ambientalisti, è soprattutto sul nome di Umberto Veronesi che il consorzio fa ora affidamento: l’ex ministro della Sanità ha accettato la presidenza di un comitato a cui spetterà il compito di monitorare la salubrità dei territori dove verranno installati i termovalorizzatori. Un oncologo di fama mondiale, insomma, come testimonial di tutta l’operazione.
Al di là delle motivazioni ideologiche e politiche, dunque, il caso siciliano riassume emblematicamente tutte le contraddizioni che qui o altrove alimentano la "guerra dei rifiuti". Gli ambientalisti hanno senz’altro ragione a insistere sull’esigenza prioritaria di ridurne innanzitutto il volume complessivo, con l’uso di materiali biodegradabili al posto delle buste o bottiglie di plastica e delle lattine, per incrementare quindi la raccolta differenziata ed evitare il sovradimensionamento degli impianti. Sta di fatto però che in tutto il Sud (e a dirlo qui è un meridionale, immune da qualsiasi tentazione di razzismo) la spazzatura è ancora una questione di abitudini o di cattive abitudini, di educazione o maleducazione civica, di igiene pubblica che spesso diventa emergenza sanitaria, diciamo pure di cultura: basta osservare le montagne di sacchetti, scatole e scatoloni ammassati abitualmente intorno ai cassonetti o agli angoli delle strade, per rendersene conto. E allora, proprio in difesa delle popolazioni interessate e dell’ambiente in cui vivono, occorre procedere realisticamente per fermare il degrado e impedire guasti maggiori.
In Sicilia, come in Campania, in Puglia o altrove, tutti abbiamo il problema dei rifiuti da smaltire, ma nessuno vorrebbe farlo nel proprio paese, nella propria città, provincia o regione. Gli inglesi, cultori del pragmatismo, la chiamano con un acronimo "sindrome Nimby": not in my backyard, non nel mio cortile ovvero nel mio giardino, insomma non a casa mia. Con tutte le garanzie necessarie, a cominciare da quelle sulla separazione dei materiali per finire al controllo delle emissioni, si tratta perciò di decidere la collocazione degli impianti di smaltimento nel modo più trasparente possibile, sulla base di valutazioni oggettive e ragionevoli.
Il termovalorizzatore, come raccontammo un anno fa da Brescia in un’inchiesta sull’Italia dei rifiuti, può rappresentare una risposta moderna a un problema antico e sempre più grave. Non è un mostro e non deve diventare un tabù. Sono oltre trecento, del resto, gli impianti di questo genere già attivi nel resto d’Europa. E se in un’ottica di "ambientalismo sostenibile", compatibile cioè con lo sviluppo e con la tutela della salute, si riesce a smaltire i rifiuti, a ricavarne energia e a ridurre l’inquinamento, vuol dire che avremo trovato la quadratura del cerchio.
Si veda anche l'intervento di Antonio di Gennaro
Fingiamo che l’annegamento dei cittadini campani in un mare di rifiuti non sia anche un problema di ordine pubblico e di malavita organizzata e che dipenda, come altrove in Italia, solo dall’ingente quantità di pattume che riusciamo a produrre, qualcosa come oltre 650 kg per persona ogni anno. Cosa dovremmo fare operativamente per avviare a una soluzione definitiva la questione? Una discarica non è mai la soluzione globale del problema rifiuti, sebbene quello di gettare gli avanzi attorno sia uno dei gesti più antichi dell’uomo. Una discarica è solo un buco per gettare soprattutto materia organica - la cosiddetta «frazione umida» - che copre circa il 30% del complesso dei rifiuti solidi urbani (Rsu), cioè resti di frutta e verdura, avanzi di cibo, ossa, bucce e quant’altro. Poi c’è la carta (28%), la plastica (16%), il legno e i tessuti (4%), il vetro (8%) e i metalli (4%), insieme con gli altri rifiuti che compongono la «frazione secca». E la frazione umida puzza, pure se, paradossalmente, l’aria di una discarica è certamente più salubre di quella del centro storico di Napoli, strangolato dal traffico. La puzza dei rifiuti non è gradevole, ma non intossica, come invece le diossine dei cassonetti incendiati per le strade.
Le discariche poi sono pericolose perché, a lungo termine, comunque inquinano: per quanto isolate artificialmente e poste in luoghi geologicamente adatti, sono soggette a perdere liquidi con probabile contaminazione di falde idriche, suoli e gas. Le discariche mangiano territorio e spazi comuni, alterano il paesaggio, richiamano gabbiani, topi, cornacchie, piccioni. Insomma i buchi non funzionano, perché dovremmo ancora sorbirceli magari per sempre? Non è nemmeno una soluzione bruciare i rifiuti, come si suggerisce a gran voce, non tanto per i problemi di carattere ambientale legati alle ceneri solide o ai fumi emessi al camino, carichi di diossine e polveri sottili anche quando restano nei limiti di legge. Da questo punto di vista un inceneritore non è più malefico del traffico cittadino responsabile di centinaia di migliaia di morti l’anno solo in Italia. Piuttosto è il bilancio energetico a essere in difetto perché si ottiene molta meno energia da un oggetto bruciato rispetto a quella che si è dovuta impiegare per costruirlo. Bruciare i rifiuti non conviene.
Due sono le soluzioni e le conosciamo bene: primo, produrre meno rifiuti, cioè ridurre di peso e volume gli imballaggi, cosa che aziende e ditte non hanno ancora cominciato significativamente a fare. Secondo, raccogliere i rifiuti in maniera differenziata e riciclarli, operazione che porta quattro vantaggi: allunga la vita delle materie prime, riduce gli inquinamenti, fa risparmiare energia e tutela il paesaggio dall’apertura di nuove cave e miniere. È un’operazione vecchia, che già si faceva nel nostro Paese negli Anni 60, quando i netturbini venivano a raccogliere fino davanti la porta di casa il contenuto dei secchi zincati foderati di fogli di giornale. Anzi, fino dalla Napoli del Settecento, le cui strade erano pulitissime, perché tutto veniva portato agli orti della campagna per ammendare il terreno e coltivare.
Si dice: però in Campania c’è un’emergenza. Ma che emergenza è quando se ne parla da almeno quindici anni e non si sono fatti passi in avanti di un qualche rilievo? Forse la via per uscire dall’emergenza è quella di considerarla cronicizzata e di comportarsi come il buon senso vorrebbe prendendo il tempo che ci vuole: campagne di educazione sul problema, partenza di una seria strategia per la raccolta differenziata e riciclaggio, seguendo l’esempio di comuni più piccoli, ma oculati che hanno capito - prima della camorra - che i rifuti possono diventare un affare (pulito) quando non li si considera più scarti, ma risorse. Almeno fino a quando non si arriverà al sospirato (ma forse utopistico) azzeramento dei rifiuti. Nell’ormai mitologico comune di Peccioli (Pi) arrivano oltre 600 tonnellate al giorno di rifiuti solidi urbani che qui vengono trattati e producono oltre tre milioni di euro l’anno con i quali l’amministrazione provvede alle spese correnti e anche a quelle straordinarie. Non contenti, a Peccioli hanno costituito un azionariato popolare per cui i cittadini si dividono i guadagni dello smaltimento controllato che gestiscono: 5 mila azionisti per un affare che non prevede speculazioni di Borsa e che non può conoscere crisi. Proprio quindici anni fa a Peccioli i rifuti erano un’emergenza, oggi sono una risorsa, converrebbe rifletterci.
«Devo tornare al mare, al solitario mare e al cielo...». Da quand'ero studente, questi versi di John Masefield non hanno mai smesso di emozionarmi. La nostra relazione d'amore con l'acqua salata è una strana faccenda. I greci veneravano l'Egeo «scuro come il vino», ma le popolazioni atlantiche erano più timorose che innamorate del mare, fino a non molto tempo fa. Solo nel XIX secolo il mare è diventato una meta desiderabile. I romantici hanno esaltato tutta la natura selvaggia ma delle icone romantiche solo il mare ha veramente resistito.
D'estate andiamo al mare in massa per nuotare, navigare, pescare. Ce ne stiamo, con l'acqua alle ginocchia, anche solo a guardarlo incantati. È come se l'umanità, i cui lontani antenati sono usciti dagli oceani, inconsciamente desiderasse ritornare a ciò che W.H. Auden chiamava «l'alfa dell'esistenza».
Il richiamo del mare è così forte che sempre più gente decide di andarci a vivere in permanenza. Sorprende sapere che oggi due terzi della popolazione mondiale risiede a meno di 80 chilometri dal mare. Le 16 maggiori città del mondo, con tre sole eccezioni, si trovano sul mare. Negli Usa circa la metà di tutte le nuove case vengono costruite vicino all'uno o all'altro «scintillante oceano»; una ricerca della fine degli anni Novanta diceva che gli americani si trasferivano sulle coste al ritmo di 3600 al giorno. Ma, nonostante il nostro professato amore, trattiamo il mare con sommo disprezzo. Masefield vedeva solo una «grigia foschia sul volto del mare». Oggi la superficie del mare è lordata da una spaventosa quantità di spazzatura. Ci piace andare al mare, ma quando ci arriviamo, inspiegabilmente, lo copriamo di plastica. Da una recente verifica è emerso che sulle 269 spiagge inglesi prese in considerazione si trovava una qualche spazzatura mediamente ogni 50 centimetri; un aumento di più dell'80% rispetto al decennio passato.
I colpevoli sono, in parte, quei tipi insopportabili che non possono andare a contemplare un panorama senza lasciarsi dietro un sacchetto vuoto di patatine e una lattina di birra (i malfattori più incalliti lasciano venti mozziconi di sigaretta e un pannolino sporco). Tuttavia questi sudicioni inveterati, per quanto odiosi, non sono il problema maggiore. Dappertutto si possono vedere orrendi residui di bottiglie di plastica. E la plastica, di sicuro il prodotto più detestabile della nostra età dell'idrocarburo, galleggia. Non è biodegradabile. Fa rumore quando ci si cammina sopra. E luccica nei giorni di sole, come per farsi ancor più notare.
I rifiuti di plastica sono ormai un problema mondiale. Quando il naturalista Tim Benton si è recato, non molto tempo fa, sull'atollo disabitato di Ducie Island, la più lontana delle Isole Pitcairn, a 5 mila miglia a est dell'Australia, ha trovato sulle sue coste 953 oggetti portati dal mare; e tra di essi c'erano 268 pezzi di plastica, 71 bottiglie di plastica, 29 pezzi di tubi di plastica e la testa di due bambole di plastica. E questi relitti sono solo la parte più evidente del torrente di spazzatura che la nostra specie getta in mare ogni giorno. Solo New York scarica 500 tonnellate di liquami di fogna. Il totale giornaliero di olii proveniente da fonti umane è poco meno di un milione di galloni. Il Mare del Nord contiene una quantità di fosfati 8 volte superiore a quella di 20 anni fa. Il mare sarà sempre profondo, ma è ancora blu?
In teoria ci sarebbero modi per far cessare tutto questo, per far rispettare i divieti di gettare rifiuti in mare. Tutte le navi mercantili, per esempio, potrebbero essere munite dei compressori di spazzatura realizzati dalla marina degli Usa. Ma ho il sospetto che anche così i marinai non smetterebbero di gettare in mare le loro bottiglie di Coca Cola. In fondo non vedono mai le spiagge in cui quelle poi finiscono.
Oppure le autorità locali potrebbero sorvegliare le spiagge, dare multe esemplari a coloro che le sporcano e organizzare regolarmente pulizie su vasta scala. Tuttavia non ho abbastanza fiducia nelle autorità locali: se le si tirano in ballo si finirà probabilmente per veder interdire del tutto alla gente l'accesso al mare.
Che cosa fare, allora? Questo pensiero mi ha tormentato per tutte le ore passate quest'estate in Galles a riempire sacchi con i rifiuti altrui. E sono arrivato a una risposta piacevolmente semplice. La soluzione è quel che sto facendo — con i volontari che si sono uniti a me, alla mia famiglia e ai nostri amici della vicina Nature Reserve in uno sforzo collettivo per pulire la nostra costa. In breve, è sempre la stessa storia. Se vuoi che qualcosa sia fatto, in questo mondo, fallo tu. Masefield ha intitolato la sua poesia «Febbre del mare». Ma ora è il mare, non il poeta, ad avere la febbre. Solo noi, che amiamo sinceramente il mare, possiamo curarlo.
(Traduzione di Maria Sepa)
Da Italo Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972, p. 119.
La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello d’apparecchio.
Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali d’imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana: più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità. Certo è che gli spazzaturai sono accolti come angeli, e il loro compito di rimuovere il resto dell’esistenza di ieri è circondato da un rispetto silenzioso, come un rito che ispira devozione, o forse solo perché una volta portata via la roba nessuno vuole più averci da pensare.
Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede: fuori della città, certo; ma ogni anno la città s’espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano; l’imponenza del gettito aumenta e le cataste s’innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto. Aggiungi che più l’arte di Leonia eccelle nel fabbricare nuovi materiali, più la spazzatura migliora la sua sostanza, resiste al tempo, alle intemperie, a fermentazioni e combustioni. E’ una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne.
Il risultato è questo: che più Leonia espelle roba più ne accumula; le squame del suo passato si saldano in una corazza che non si può togliere; rinnovandosi ogni giorno la città conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d’ieri che s’ammucchiano sulle spazzature dell’altro ieri e di tutti i suoi giorni e anni e lustri.
Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città, che anch’esse respingono lontano da sè montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano.
Più ne cresce l’altezza, più incombe il pericolo delle frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una valanga di scarpe spaiate, calendari d’anni trascorsi, fiori secchi sommergerà la città nel proprio passato che invano tentava di respingere, mescolato con quello delle città limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo. Già dalle città vicine sono pronti coi rulli compressori: per spianare il suolo, estendersi nel nuovo territorio, ingrandire se stesse, allontanare i nuovi immondezzai.
Poche letture aiutano a interpretare le controverse vicende del governo dell’ambiente in Campania più dell’aureo libricino di Giorgio Agamben sullo stato di eccezione: la sospensione, giustificata con l’esigenza di tutelare i poteri pubblici di fronte a rischi e minacce eccezionali, di norme, garanzie e procedure che regolano l’ordinario funzionamento dello stato. All’approssimarsi per alcuni di essi del primo decennale dall’istituzione, è al concetto di stato di eccezione, più che a quello di emergenza che si deve oramai ricorrere per giustificare in Campania l’esistenza dei commissariati di governo di lungo corso, cui è demandata pressoché per intero la gestione di settori ambientali cruciali: rifiuti, emergenza idrogeologica, sottosuolo di Napoli, bonifiche, tutela delle acque, disinquinamento del fiume Sarno.
Perché lo stato di eccezione ha questa caratteristica: come nel caso della guerra al terrorismo internazionale, è più semplice decretarne l’inizio che programmarne la scadenza, dichiarando preventivamente con chiarezza gli obiettivi da perseguire, oltre i quali lo stato di eccezione non ha più ragion d’essere. Può allora succedere che la sospensione del regime ordinario possa dilatarsi indefinitamente, ben al di là delle motivazioni iniziali, inducendo testimoni avvertiti come Donato Ceglie a considerare i commissariati di governo campani come una “riforma istituzionale non dichiarata”.
In realtà, l’irresistibile propensione ai commissariamenti è una delle eredità della prima repubblica, con alcune differenze: mentre quella rispolverava i commissari soprattutto in occasione dei grandi hazard, sciagure naturali, terremoti, alluvioni, la seconda tende a farvi ricorso per gestire i rischi tecnologici – rifiuti, inquinamento, degrado ambientale – le conseguenze indesiderate della modernizzazione che caratterizzano la società del rischio descritta da Ulrich Beck.
I commissariamenti campani come stato di eccezione dunque, estremo tentativo di difesa dello stato dall’endemica inadeguatezza delle sue articolazioni locali, troppo esposte all’influenza di una criminalità organizzata in grado di muovere da sola un fatturato che, secondo i dati de Il Sole 24 Ore, equivale al 32% del pil regionale. Con un controllo ferreo, come evidenziato nel Rapporto Ecomafia 2005 di Legambiente, proprio di settori chiave tra cui il ciclo del cemento e degli inerti, il traffico di rifiuti, l’edilizia abusiva.
Ad ogni modo, quali che siano le buone ragioni per loro istituzione, è la durata stessa dei commissariati che impone oggi una serena valutazione del loro operato, con riferimento a tre aspetti tra di loro strettamente connessi: efficacia, sostenibilità politica, coerenza con gli obblighi assunti in sede comunitaria.
Riguardo al primo aspetto il giudizio non può che essere problematico. A dieci anni dall’istituzione del commissariato, la Campania è ancora in piena emergenza rifiuti mentre a Sarno, dopo le frane del ’98, le opere per la messa in sicurezza progettate dal commissario per l’emergenza idrogeologica sollevano perplessità crescenti, legate al loro impatto sull’ambiente ed alla effettiva capacità di mitigazione del rischio, come documenta in maniera convincente il libro che Antonio Vallario ha dedicato alla vicenda (Sarno, sei anni dalla catastrofe, Alfredo Guida editore)
Al di là del valore dei risultati conseguiti, c’è poi un problema di sostenibilità politica. In particolare, ci si chiede quanto sia giusto che le competenze delle amministrazioni ordinarie siano così vistosamente erose, mutilate dalle gestioni commissariali, in settori chiave che toccano capillarmente l’esistenza quotidiana dei cittadini e gli assetti territoriali, proprio mentre è in atto un processo che, attraverso l’elezione diretta e la redistribuzione costituzionale delle competenze, mira a dotare presidenti regionali, provinciali e sindaci di maggiore visibilità, poteri, autonomia e, in ultima analisi, responsabilità nei confronti degli elettori.
C’è infine un ultimo aspetto: lo stato di eccezione decretato con i commissariamenti straordinari in Campania, comporta una sostanziale sospensione delle direttive comunitarie in materia ambientale, insieme a tutti i meccanismi di controllo, valutazione e partecipazione pubblica che esse prevedono. Al di là di ogni facile ironia sugli eurocrati di Bruxelles, è utile ricordare come tutte queste procedure non costituiscano un’inutile farragine burocratica, quanto piuttosto l’unica, perfettibile strada che le democrazie liberali hanno sino ad ora escogitato per creare intorno a questioni contraddittorie e complesse, quali quelle ambientali, due condizioni indispensabili per una governance efficace: la responsabilizzazione di cittadini e portatori di interessi, la legittimazione del potere pubblico.
A chiunque è consentito utilizzare questo articolo alla condizione di citarne la fonte
Il mondo in scatola
Gabriele Polo
A guardarli in televisione, i rifiuti di Napoli sembrano un terrifico blob pronto a uscire dallo schermo per invadere le italiche case. Pur essendo una condizione vantaggiosa rispetto a chi ce li ha sotto casa, non è un belvedere. Né un belsentire, perché, mentre la politica si ingegna in soluzioni d'emergenza, llustrissimi esperti, via Tg e talk show, ci offrono le ricette per non rimanerne fisicamente sommersi: differenziare, riciclare, bruciare. Solo qualcuno va a monte del problema e invita a limitare la produzione del rifiuto. Abbastanza inascoltato. Non tanto per una frenesia consumistica in evidente contrazione, quanto per ciò che la «circonda».
Provate a guardare le merci esposte in un supermercato, spesso racchiuse da inutili confezioni. Gli esperti ci dicono che il 40% del volume dei rifiuti è rappresentato da quest'insieme di carte, cartoni, plastiche, gancetti d'alluminio. Tutto pesantemente inutile. E dannoso.
La riprova del trionfo dell'involucro ci si è materializzata davanti ieri, nelle forma di un ritardatario omaggio natalizio, spedito - a centinaia di indirizzi, crediamo - da una grande banca: una palla di Natale, bruttina in sé, con il solo pregio della coerenza tra mittente (la banca) e oggetto (la palla), ma soprattutto circondata da un assurdo contenitore. Una spropositata scatola di cartone (40 centrimetri di lunghezza, 25 di larghezza, 20 d'altezza) per veicolare gli 8 centimetri di diametro del «regalo», con centinaia di cubetti di polistirolo per «sostenerlo» e non farlo sentire solo come la particella di sodio della pubblicità di un'acqua minerale. L'elogio dello spreco. Il guaio aggiuntivo è che adesso ci sentiamo in colpa al solo pensiero di gettare in un cestino tutta quell'inutile roba. Non resta che chiedere al supercommissario De Gennaro. Magari ci manda in soccorso un reparto mobile.
Due sacchetti per uscire subito dall'emergenza
Paolo Cacciari
Proviamo a superare il grumo di sentimenti, «un misto di vergogna» e di rabbia che ci provocano le troppe parole sprecate sul caso dei rifiuti di Napoli.
In nome dell'«emergenza» mettiamo un attimo da parte le analisi delle cause e la ricerca dei responsabili. Ogni cosa a suo tempo; chi vorrà potrà sempre dire: «è stata colpa sua», oppure: «io lo avevo detto».
Muoviamoci invece con puro spirito umanitario e compassionevole per evitare ancora troppe sofferenze alla popolazione napoletana: sia quella che vive nell'immondizia, sia quella che difende il territorio.
Tutti coloro che si occupano seriamente del problema sanno che i rifiuti solidi urbani, domestici, si riescono a smaltire tanto meglio (provocando meno inquinamenti e con meno costi) quanto più vengono differenziati a monte per frazione di materiale e tipologia merceologica.
E' la logica esattamente contraria alla cosiddetta «filiera industriale», proposta in continuazione dalle lobby dei produttori, che prescrive: cassonetti indifferenziati lungo le strade, autocompattatori sempre più grandi, inceneritori di rifiuti «tal quali» (muniti di foglia di fico per il recupero di modestissime quantità di energia elettrica) e infine trattamenti vari per sistemare le ceneri e le polveri tossiche prodotte dalla combustione che costituiscono dal 20 al 30 per cento in peso dei rifiuti iniziali bruciati.
Viceversa, un piccolo gesto individuale, un modesto atto di assunzione di responsabilità collettiva sociale, potrebbe innescare un circuito virtuoso, rigenerativo, economico (anche se probabilmente meno profittevole) che si chiama raccolta differenziata.
Come ci dicono le centinaia di buone pratiche italiane e straniere, per iniziare basta separare i rifiuti solo per due componenti: in un sacchetto scuro (meglio se biodegradabile, in materiale biologico) si conferiscono gli scarti da cucina e tutti i residui umidi e putrescibili, nell'altro (meglio se trasparente, in modo che sia controllabile il contenuto) i rifiuti domestici solidi. Fatto questo tutto il resto viene da sé. I servizi di raccolta si possono organizzare a giorni alterni (ad esempio: i giorni dispari l'umido, i pari il secco).
Al posto degli inceneritori, che nessuno vuole, si possono costruire semplici impianti di compostaggio (biocelle che accelerano la stabilizzazione del materiale riutilizzabile in agricoltura), mentre gli impianti per il confezionamento delle famose ecoballe dovrebbero essere riconvertiti in separatori di materiali: plastiche, metalli, carta, ecc. I sovvalli e i materiali di scarto non recuperabili inizialmente, realisticamente, saranno molti, potranno essere conferiti in discariche per soli materiali secchi.
Ma nessuno avrà più di tanto da preoccuparsi, poiché non contenendo materiali putrescibili non si formeranno percolati pericolosi per le falde acquifere, né biogas puzzolenti.
Troppo semplice? Una riorganizzazione dei servizi sulla base della separazione umido/secco può richiedere un paio di giorni per l'informazione alla utenza e un altro paio per riorganizzare i servizi di raccolta. In attesa del potenziamento dei centri di compostaggio campani si potrebbe «esportare» fuori regione solo questa tipologia di rifiuti. Nel giro di un mese nelle discariche andranno solo rifiuti secchi non putrescibili.
Con grande beneficio per le popolazioni.
Per una volta, un'emergenza si risolverebbe in una diminuzione degli impatti ambientali, in una decrescita dei costi e degli sprechi. Viceversa Naomi Klein potrà trarre dalle vicende dei rifiuti napoletani un nuovo capitolo al suo Shock economy.
Il capitalismo crea disastri ambientali per trasformarli in opportunità. Più grandi sono le distruzioni, più finanziamenti, più spesa pubblica, più profitti privati potranno essere lucrati. Le grandi imprese, al pari delle amministrazioni statali, hanno bisogno di momenti di trauma collettivo (shock and awe, shock e sgomento, fisico e psicologico) per dedicarsi a misure radicali di «ricostruzione».
Basteranno tre o quattro inceneritori a salvare Impregilo e Bassolino?
Crisi aperta in Regione, maggioranza spaccata e tilt della linea ferroviaria che collega il Nord e il Sud dell'Italia. Questo il bilancio della lunga giornata di protesta dei cittadini acerrani, a Napoli per contestare nuovamente la costruzione del megaincenritore dell'immondizia campana nel comune partenopeo. Un corteo di 5.000 persone che ha sfilato in mattinata per le vie del centro; presidi a macchia di leopardo che hanno ostruito per ore il traffico napoletano; il blocco dei binari di treni e metropolitane alla stazione Garibaldi iniziato nel pomeriggio - proprio in concomitanza con l'avvio della sessione dedicata alla questione Acerra del consiglio regionale - e proseguito fino a sera; il secco no all'impianto del sindaco Espedito Marletta, sostenuto pienamente da Prc, Pdci e Verdi e sbattuto in faccia al commissario straordinario Corrado Catenacci durante un summit pomeridiano in prefettura. Sono stati tutti ingredienti della miscela che ieri sera è esplosa nella seduta fiume del consiglio. Risultato? Riaperta la partita sulla possibilità di impiantare il termovalorizzatore della Fibe di Cesare Romiti in località Pantano, con governo e commissariato in forte difficoltà. La seduta monotematica sul piano di smaltimento dei rifiuti campana aperta dall'intervento di Vittorio Nolli capogruppo del Pdci - che ha parlato per oltre 45 minuti accusando pesantemente l'operato del presidente Antonio Bassolino - ha infatti rimescolato le carte con conseguenze politiche che nei prossimi giorni metteranno in discussione la maggioranza Ds. A partire dalla posizione di Rifondazione che ha lanciato per la prima volta un ultimatum alla giunta: «Se il Consiglio regionale, il governo regionale - hanno detto Peppe De Cristofaro e Vito Nocera, rispettivamente segretari del Prc di Napoli e della Campania - non prenderà una chiara posizione, esprimendosia favore della richiesta di sospensione dei lavori per la costruzione del termovalorizzatore di Acerra (in attesa dellaVerifica d'impatto ambientale), il Prc aprirà la crisi nelle istituzioni». Dichiarazione questa che fa tremare la coalizione, considerata la presenza del partito di Bertinotti in tutte le amministrazioni locali disseminate per la Campania.
Infine, a sorpresa, anche Alleanza nazionale si è schierata a favore della sospensione dei lavori ad Acerra in attesa della nuova Via.
Insomma una seduta fiume iniziata in sordina con soli 31 consiglieri su 60 presenti in aula, ma con un crescendo di interventi e ribaltoni, tanti che in tarda serata Bassolino non era ancora riuscito a prendere la parola.
Ma se è stato caos in politica, non è andata meglio alla Stazione di Napoli centrale. Centinaia di manifestanti del comitato di Acerra esasperati dalla posizione della giunta, hanno completamente bloccato le linee ferroviarie. Già dopo alcune ore dal blitz Trenitalia è stata costretta ad adottare un piano di emergenza dirottando i treni a lunga percorrenza provenienti da Roma lungo la linea Cancello-Caserta mentre i viaggiatori diretti al Nord hanno dovuto raggiungere, con i convogli del servizio metropolitano, la stazione di Villa Literno e salire sui treni in partenza per Roma. I ritardi sulle partenze e gli arrivi sono stati calcolati in termini di svariate ore perché sulle linee ferrate intasate si è viaggiato quasi a passo d'uomo. Solo alle 21.00 i manifestanti insieme al senatore del Prc Tommaso Sodano hanno lasciato la stazione per dirigersi al Centro Direzionale, dove continuava la seduta del consiglio. Qui un gruppo ha disteso lo striscione portato come un trofeo: «Se il termovalorizzatore è bello e fa bene, allora fatevelo con vista sul mare».
Le ragioni di Acerra nell'articolo di Antonio Di Gennaro
L'inceneritore è una macchina due volte tossica. In primo luogo è tossica perché rilascia scorie pericolose che vanno sotterrate in discariche ad hoc, mentre il resto (quattro quinti) se ne va in fumo. Non sparisce, ma si disperde nell'aria e poi ricade sui nostri polmoni, sulle cose che mangiamo, sul terreno dove passeggiamo o giochiamo. È vero che un inceneritore ben gestito produce meno inquinanti di uno svincolo autostradale o di un ingorgo automobilistico. Ma i rifiuti sono un materiale poco omogeneo, con grandi variazioni di potere calorifico: basta uno sbalzo di temperatura e l'abbattimento degli inquinanti va in tilt. Sempre nella speranza che nel materiale conferito non siano state nascoste sostanze tossiche, cosa ormai verificata per le «ecoballe» della Campania.
Affidereste voi il funzionamento di una macchina così pericolosa a chi ha gestito i rifiuti campani negli ultimi decenni? Ma l'inceneritore è tossico soprattutto perché inquina il cervello di molti amministratori locali e governanti nazionali, che aspettano da quella macchina, e non dalla riorganizzazione del ciclo dei rifiuti attraverso la partecipazione e il coinvolgimento diretto dei cittadini - cioè di coloro che i rifiuti li producono - una miracolosa soluzione del problema. Dal Presidente della Repubblica a quello della Giunta regionale, dai nove commissari straordinari che si sono succeduti in quattordici anni al posto di comando dei rifiuti campani agli opinionisti di tutti gli organi di informazione, fino ai politici che intasano i tg, è tutto un sol coro: il problema si risolverà quando entrerà in funzione il cosiddetto «termovalorizzatore», cioè l'inceneritore. Come si fa nei paesi «moderni». Per il momento beccatevi la munnezza e guai a chi, dimostrando incompetenza e mancanza di spirito civico, protesta.
E' quindici anni che il commissario straordinario da una parte dilapida i soldi (due miliardi di euro!) e dall'altra cerca buchi, o spiazzi, o cave, possibilmente controllate dalla camorra, per sistemare i rifiuti che continuano a venir prodotti. Aspettando Godot: cioè l'inceneritore. Anzi, gli inceneritori. Nel primo piano regionale di gestione dei rifiuti campani del 1994, gli inceneritori dovevano essere tredici; poi sono stati ridotti a tre; poi a due, poi a uno, quello di Acerra, ancora in costruzione nel territorio più inquinato di tutta l'Europa. Un altro ne dovrebbe sorgere, tanto per non sbagliarsi, a quindici chilometri di distanza. I siti dove costruirli, come quelli dove collocare i cosiddetti Cdr e dove stoccare le ecoballe sono stati scelti - lo prevedeva il capitolato di gara indetta dalla giunta di Rastelli - dalla ditta vincitrice della gara: la Fibe (leggi Impregilo; cioè famiglia Romiti: nel periodo in cui costui dettava ancora legge alla Fiat) che ha comprato i terreni agricoli più degradati e per questo poco costosi, e poi ha messo a carico del Commissario i fitti mostruosi dei terreni dove si accumulano le ecoballe; terreni preventivamente acquistati a prezzi stracciati dalla camorra.
La Fibe aveva presentato il progetto tecnico peggiore, ma si era aggiudicata l'appalto - in pratica la gestione di tutti i rifiuti campani - garantendo di realizzare l'inceneritore in meno di un anno: una cosa che anche uno studente della terza geometri sa che è tecnicamente impossibile. Ma il commissario aveva fretta di avere l'inceneritore per risolvere finalmente il problema. Ed ecco il risultato. Un mese dopo l'aggiudicazione aveva già concesso la prima proroga. Oggi la Fibe, dopo 10 anni, è stata esautorata dal suo incarico - una cosa che Bassolino avrebbe dovuto fare otto anni fa - e le è stato vietato di occuparsi dei rifiuti per i prossimi anni. Ma la prima gara per sostituirla è andata deserta. Così, a completare l'opera è sempre la Fibe, e la seconda gara verrà verosimilmente vinta dall'Asm di Brescia: quella che ha costruito il più grande inceneritore d'Europa (dopo quello di Acerra) in violazione della normativa europea sulla valutazione d'impatto ambientale (Via).
E' questa la modernità che tutti aspettano? Nel frattempo era cominciata la farsa della raccolta differenziata (Rd): una manna per creare clientele con finti lavori. La Rd dei rifiuti urbani non è una cosa che si aggiunge alla raccolta ordinaria; così come un commissario straordinario per la gestione dei rifiuti non può aggiungersi ai molti organismi che già se ne occupano. O li sostituisce esautorandoli, e coinvolgendo invece la popolazione servita, così come la Rd investe tutta la produzione di rifiuti e richiede il coinvolgimento di tutti; oppure non serve a niente; fa solo danno e si risolve in puro spreco. Invece, a «disputarsi» la raccolta dei rifiuti in Campania per molti anni ci sono state alcune migliaia di lavoratori socialmente utili (Lsu) in carico alla Regione (molti erano gli eredi dei comitati dei disoccupati organizzati degli anni '70, gente costretta a fare il disoccupato organizzato di mestiere per una vita intera): alcuni ingaggiati dalla giunta di destra; altri da quella di centrosinistra; eri un Lsu di Rastelli oppure un Lsu di Bassolino; poi c'erano gli Lsu dei consorzi (istituiti dal Piano regionale del '94) che non hanno mai funzionato; poi c'erano gli Lsu in carico ai comuni, i quali, però, spesso avevano alle proprie dipendenze anche dei netturbini e/o avevano appaltato la raccolta a ditte esterne. Si era così arrivati ad avere fino a 20mila addetti in aggiunta a quelli ordinari.
Nessuno voleva cedere ad altri una fetta del proprio potere: cioè delle proprie clientele e per raccogliere i rifiuti ai lavoratori ingaggiati in via straordinaria non venivano dati, nonché camion e bidoni, nemmeno secchielli e palette. Per molti il lavoro era andare nelle scuole a spiegare agli studenti che cos'è la Rd che non si faceva. Così la Campania è rimasta per molti anni al 3 per cento di Rd e se oggi ha raggiunto il 15 (20 punti percentuali sotto l'obiettivo minimo previsto dalla legge, in attesa del 65 per cento prescritto per il 2012), il merito è solo dei sindaci di centocinquanta comuni campani che si sono rimboccati le maniche. C'è da stupirsi che in tutto questo bailamme, con camion che spariscono (non uno, ma una cinquantina) sotto gli occhi dei commissari, che sono stati anche dei Prefetti, cioè degli uomini d'ordine, senza che questi battessero ciglio; con remunerazioni per il governatore-commissario che, se abbiamo letto bene, hanno superato il milione di euro all'anno; con consulenze e finti lavori che hanno incistato l'ufficio del commissario nei gangli del potere locale al punto che oggi, per smantellarlo, si è ritenuta necessaria la nomina di un secondo commissario che si occupi solo della sua liquidazione; c'è da meravigliarsi se in tutto questo anche la camorra ha reclamato la sua parte?
Non è la malavita organizzata che corrompe l'amministrazione, ma è la cattiva amministrazione che richiama la camorra come il miele le mosche. Perché ormai cambiare gli amministratori è quasi impossibile: il sistema è bloccato. Cacciare Bassolino per tornare a Rastelli o a qualche suo sostituto? Cacciare la Jervolino per avere Martusciello? O viceversa? «A che pro?», si chiede qualsiasi persona di buon senso. E i napoletani di buon senso ne hanno da vendere.
Il problema che non entrerà mai nella testa dei governanti fino a quando non glielo faranno capire i cittadini, a cui però si fa di tutto per confondere le idee, è che i rifiuti sono un flusso: tante cose entrano nelle nostre case o nella nostra vita sotto forma di consumi; tante ne devono uscire, e in tempi sempre più brevi, sotto forma di rifiuti. Se mi si allaga la casa, prima di decidere dove strizzare i panni con cui cerco di asciugare il pavimento vado a chiudere i rubinetti. Lo stesso dovrebbe succedere con i rifiuti. Non è una cosa difficile da capire. L'inceneritore di Acerra (il più grande d'Europa) se mai entrerà in funzione nel 2009, e se mai i cittadini di Acerra o l'Unione europea gli permetteranno di bruciarle, ci metterà cinque-sette anni a smaltire i cinque milioni di ecoballe accumulati finora; nel frattempo se niente cambia se ne saranno accumulate altrettante che l'inceneritore di Santa Maria La Fossa, se mai sarà fatto, potrà cominciare a smaltire tra non meno di quattro anni; mentre il nuovo commissario, o chi per lui, continuerà a girare per la Campania alla ricerca di nuovi buchi dove sotterrare i rifiuti delle nuove emergenze.
Si chiede l'intervento dell'esercito (quasi una guerra: contro i rifiuti. O contro gli abitanti della Campania?) e non si ha il coraggio, e nemmeno l'idea, di proibire, almeno temporaneamente, la distribuzione di prodotti usa e getta e di merci imballate in contenitori inutili, a partire dall'acqua cosiddetta minerale che molte volte è più inquinata di quella del rubinetto. Ci si chiede come una persona intelligente e osannata come Bassolino possa essersi fatto sopraffare da un problema che ingigantiva giorno per giorno in quel modo davanti al suo naso. Ma è nella natura del potere chiudere gli occhi di fronte all'evidenza. Un altro personaggio altrettanto potente e osannato sta rimettendo in piedi la produzione italiana di automobili senza voler vedere che il prezzo del petrolio e il suo esaurimento metterà in ginocchio tutto il settore proprio quando lui penserà di aver risolto i problemi della sua azienda.
BARI - La rinomata "ruota" di Altamura - il pane casereccio di grano duro che si fa sulla Murgia, a cavallo tra la Puglia e la Basilicata, mille e cinquecento quintali al giorno destinati per la maggior parte al mercato nazionale, un euro e 55 centesimi al chilo - non è a rischio. Il frumento contaminato dal cadmio non finisce nei forni dei produttori locali e loro giurano che non l´hanno mai usato. Gli stessi magistrati assicurano che dalle analisi di laboratorio "il grano è risultato del tutto regolare e comunque conforme ai parametri stabiliti dalla vigente legislazione".
Ma l´inchiesta sui veleni dell´Alta Murgia che nel giugno scorso ha portato a tre arresti per gestione e traffico illecito di rifiuti, ha individuato una colossale discarica a cielo aperto che insieme all´ambiente e alla salute minaccia anche tutta l´economia della zona. Oltre trecento ettari di terreno sono risultati inquinati dalla presenza di cromo, stagno, mercurio e antimonio, con in più cospicue quantità di salmonella. Per quattro anni, dal 1999 al 2003, sarebbero state sparse su questi campi di pietra e di erba 176.700 tonnellate di sostanze contenenti plastica e metalli pesanti, inquinando le falde freatiche, l´acqua, il fieno e quindi il latte che poi viene trasformato in formaggi, ricotte e mozzarelle.
Le tre persone mandate agli arresti domiciliari, e poi rimesse in libertà, sono Silvestro Delle Foglie, 63 anni, titolare della Tersan di Modugno, un dinamico centro industriale nell´hinterland barese; il proprietario dei terreni Giuseppe Quintano e l´autotrasportatore Giovanni Loporcaro. In base alle deposizioni di alcuni testimoni, un paio di volte al giorno due camion scaricavano qui rifiuti anche pericolosi, mescolati ai fanghi prodotti dagli impianti di depurazione delle concerie toscane.
La sede della Tersan si trova alle porte di Modugno e i fumi maleodoranti dello stabilimento invadono spesso le strade del paese. Dall´ottobre ?99, nonostante lo status giuridico di "fallita", l´amministratore unico della società è la signora Sabina Cirone, moglie di Delle Foglie. E nello scandalo si ritrova coinvolto perfino il direttore scientifico dell´Arpa (l´Agenzia regionale Prevenzione e Ambiente), Onofrio Lattarulo, sospettato dagli inquirenti di aver omesso o alterato alcuni parametri nelle analisi di laboratorio aiutando così l´imputato a "eludere le investigazioni della Procura della Repubblica", ma poi rimasto tranquillamente al suo posto.
Ora, sulla stessa statale 96 che collega Bari e Altamura, ai confini di quello che sarà il Parco naturale dell´Alta Murgia, è stato appena sequestrato dalla magistratura un mega-impianto per la lavorazione dei rifiuti, costruito dalla Tersan-Prometeo in violazione dei vincoli paesaggistici e urbanistici. A detta dei proprietari, dovrebbe essere uno stabilimento all´avanguardia per la produzione di "compost", il materiale di riciclo che poi viene utilizzato come terriccio e fertilizzante. Ma in realtà, con le sue 800 tonnellate al giorno di rifiuti che potrebbero arrivare a 1000, compresi magari le plastiche e i fanghi al cromo che hanno già contaminato la zona, questa rischia di diventare una micidiale "bomba ecologica", come denuncia da tempo - insieme a tutto il fronte ambientalista - l´associazione culturale "SenzaReti" che ha promosso la raccolta di cinquemila firme di cittadini per un referendum comunale contro il progetto.
E´ proprio la Puglia, secondo il Corpo forestale dello Stato, la Vandea dei rifiuti, il regno delle discariche abusive, la regione italiana che ne nasconde il maggior numero: 600, di cui una gran parte ancora attive, pari al 12 per cento del totale. Ma in tutto il Mezzogiorno questo è ormai un business diffuso e redditizio, intorno a cui prospera la cosiddetta ecomafia. Altro che raccolta differenziata, recupero e riciclaggio dei contenitori; altro che inceneritori o termovalorizzatori per bruciare i rifiuti e ricavarne energia. Al Sud siamo ancora alla preistoria, all´età della pietra, al traffico clandestino in mano alla criminalità più o meno organizzata. E il peggio è che i rifiuti di ogni genere, compresi quelli tossici, arrivano qui da tutt´Italia e perfino da tutta Europa.
In Campania, in Puglia, in Calabria e in Sicilia, opera a pieno regime quella che Legambiente chiama la "Rifiuti SpA", una grande centrale che tratta e smaltisce abusivamente i rifiuti cosiddetti speciali, meglio ancora se pericolosi, inquinando così l´ambiente e anche il mercato. Ormai è diventato un tema ricorrente nelle denunce dei magistrati che operano in prima linea nelle regioni meridionali. «Il fenomeno delle ecomafie - avverte il procuratore generale di Bari, Riccardo Di Bitonto, nella Relazione con cui ha inaugurato lo scorso anno giudiziario - costituisce un paradigma della strategia della moderna criminalità organizzata. La presenza delle organizzazioni delinquenziali non si manifesta più unicamente attraverso il compimento di delitti di sangue. I crimini strutturali di queste organizzazioni sono quelli silenziosi della penetrazione nell´economia e nel ciclo dei rifiuti».
In un Mezzogiorno che dovrebbe vivere principalmente di agricoltura e turismo, la montagna di immondizia smaltita illegalmente non è neppure quantificabile con esattezza. Per approssimazione, ammonta a qualche milione di tonnellate di residui, spesso altamente pericolosi, che hanno finito per contaminare aree anche molto vaste. Lungo le rotte dei traffici illeciti, da Nord a Sud, viaggia davvero di tutto: scorie derivanti dalla metallurgia termica dell´alluminio; fanghi prodotti dalle concerie; polveri di abbattimento fumi, derivanti spesso da industrie siderurgiche; trasformatori con oli contaminati da Pcb (i famigerati policlorobifenili); reflui liquidi contaminati, come quelli al mercurio dell´Enichem di Priolo; ma anche rifiuti e terre provenienti da attività di bonifica. Si sta verificando, purtroppo, quello che Legambiente aveva già segnalato: le attività illecite della "Rifiuti S. p. A." rischiano di pregiudicare le stesse attività di risanamento dei siti contaminati.
Oltre alla varietà e alla pericolosità dei rifiuti illeciti, a preoccupare ancora di più gli ambientalisti è la grande fantasia delle attività di smaltimento illegale: fanghi industriali altamente contaminati sono utilizzati come fertilizzanti in aziende agricole; polveri per l´abbattimento dei fumi, particolarmente tossiche, finiscono nelle fornaci in cui si producono laterizi oppure nei cementifici; residui di fonderia vengono smaltiti nelle fondamenta di cantieri edili; rifiuti speciali e pericolosi sono trasformati in rifiuti urbani, apparentemente innocui, da avviare agli impianti di incenerimento; rifiuti prodotti in Campania vengono smistati ufficialmente in impianti autorizzati allo smaltimento in Abruzzo, ma in realtà finiscono in discariche abusive della stessa Campania, con relative compensazioni economiche in nero tra le società coinvolte nei traffici; rifiuti pericolosi vengono miscelati illegalmente oppure occultati sul fondo di fusti che contengono sostanze apparentemente innocue, come nel caso di Priolo.
Il Mezzogiorno, insomma, grande "pattumiera d´Italia". Come se già non bastassero la disoccupazione, la povertà, l´immigrazione clandestina, il contrabbando, la criminalità organizzata e quant´altro. O forse, proprio a causa di tutto questo.
Giovan Battista de’ Medici
«Folle farla qui, è zona vulcanica. Sono gli affari a guidare le scelte»
Il geologo all’università Federico II ed ex consulente del commissariato ai tempi di Bertolaso: le mie proposte? Cestinate
Professor de’ Medici parliamo della discarica di Pianura. «Per carità, è un scelta folle». Giovan Battista de’ Medici, geologo applicato e idreogeologo, professore alla Federico II di Napoli. Per due mesi ha collaborato con il Commissariato straordinario all’emergenza rifiuti ai tempi di Bertolaso. Il suo compito era quello di individuare siti per lo stoccaggio dei rifiuti, cosa che ha puntualmente fatto. Le sue proposte evidentemente non erano gradite e, come si dice, qualcuno ha deciso di fare a meno della sua collaborazione.
Professore, perché giudica la discarica di Pianura una scelta folle?
«Innanzitutto siamo in una zona protetta, un parco naturale. E non è possibile che lo Stato costruisca discariche proprio qui. Lo vietano la normativa e il buon senso. Ma il problema più grave è che siamo in una zona vulcanica attiva, dove il rischio di bradisismo è fortissimo. C’è poi un pericolo concreto di inquinamento delle falde acquifere, e stiamo parlando di falde idrotermali, anche se nessuno lo dice».
Che fine hanno fatto i siti alternativi che lei proponeva?
«Non lo so, ho presentato una relazione dettagliata corredata da un dvd con tutte le proposte».
Lo hanno cestinato?
«È un mistero. I siti che proponevo rispondevano ad una serie di requisiti: lontananza dai centri abitati, raggiungibilità, terreni che non fossero di grande pregio paesaggistico o economico e che fossero soprattutto impermeabili».
Dov’erano questi siti?
«In provincia di Avellino, Alta Irpinia e Baronia, si tratta di luoghi che sono stati sempre valutati idonei per attività di questo tipo ma che nessuno ha mai voluto utilizzare».
Perché, secondo lei?
«Guardi che dietro i terreni da impiegare come discariche ci sono fortissimi interessi economici. Dissi a Bertolaso di intervenire, gli ricordai che come commissario aveva poteri decisionali straordinari. Non lo fece».
Il 27 luglio scorso lei è stato ascoltato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Cosa ha detto?
«Ho portato anche lì la mia proposta».
La sua audizione è stata secretata, perché?
«Questa è una novità che apprendo adesso».
Torniamo a Pianura.
«Che è l’ultimo esempio di scelte sbagliate. Pensi che tra le località indicate come siti per stoccare i rifiuti ce n’era uno a Carinola, in provincia di Caserta. Si tratta di un’area ad altissima produttività agro-alimentare, questa è la zona della mozzarella di bufala, un’attività che dà lavoro a 20mila persone. Una follia. Non so quali interessi ci siano dietro proposte di questo genere».
Professore, qualcuno propone l’utilizzo delle cave sottratte alla camorra.
«Sono contrario. Primo perché si tratta di terreni di natura calcarea e per impermeabilizzarli occorrono investimenti fortissimi. Secondo perché così lo Stato di fatto condona i proprietari che non hanno provveduto, come per legge, a bonificare le cave».
Dopo 14 anni di gestione commissariale siamo ancora in emergenza, qual è il suo giudizio?
«Sono indignato e allarmato. Allarmato perché per risanare i siti di stoccaggio delle ecoballe ci vorranno anni. I terreni sono inquinati dal percolato che rilascia nel terreno sostanze altamente tossiche. Indignato perché sono stati sprecati miliardi e ci siamo ridotti a questo punto. Se tutto andrà bene ci vorranno almeno cinque anni per tornare alla normalità».
Francesco Forgione
«Il sistema dei commissari è criminogeno»
Il presidente della commissione Antimafia: sui rifiuti la politica ha fallito
«Il ciclo dei rifiuti ha sostituito nell’economia criminale il ciclo del cemento che si era invece imposto dopo il terremoto dell’Irpinia. La tragica modernità della camorra sta anche in questo. I rifiuti oggi sono il grande affare che fa da collante fra la criminalità organizzata, ambienti politici collusi e imprese». Il presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Francesco Forgione sa bene quanto gli affari milionari dello smaltimento dedi rifiuti stiano a cuore alla criminalità organizzata. Ma sa bene quanto questa situazione sia figlia di errori politici, di sottovalutazioni e cattive gestioni che oggi rischiano di condannare la politica campana.
Presidente, sembra ormai appurato che accanto alle proteste popolari ci sia chi soffia sul fuoco in nome degli affari camorristici.
«Purtroppo sì. La camorra è forse il soggetto più interessato al ciclo dei rifiuti in quanto parte di un sistema di interessi a cavallo fra la politica, l’economia e le istituzioni che si è radicato in Campania crescendo e lucrando sul business dell’immondizia. Anche grazie alla miopia della politica, in Campania e non solo».
In queste ore lei ha ripetuto spesso che è arrivato il momento di abbandonare la strada della gestione commissariale. Come mai?
«Perché contiene in sè fattori criminogeni. Quando in nome dell’emergenza si possono spezzettare gli appalti, quando per operare non è più necessaria la certificazione antimafia in un territorio in un cui la criminalità la fa da padrone, è chiaro che sussistono tutte le condizioni perché la camorra si muova per avere la sua parte in un immenso giro di denaro. È un dato ineludibile. E la camorra in questi anni, ha gestito interamente il ciclo dei rifiuti: dalla raccolta, all’individuazione dei siti necessari fino alla smaltimento. Il commissariamento ha fatto in modo che questo sistema si consolidasse senza contrastare i fattori criminogeni: oggi la politica campana paga questa incapacità di mettere in discussione l’intero sistema, la sua illusione di poterlo gestire senza ripensarlo totalmente».
Senza parlare di quella politica che invece si è messa da tempo a disposizione degli interessi criminali.
«In Provincia di Napoli sono più i consigli comunali sciolti per infiltrazioni mafiose che quelli sopravvissuti, siano essi di centrosinistra che di centrodestra. Questo significa che la politica in Campania non è più in grado di offrire una visione alternativa della gestione dei programmi, dei contenuti e dell’intero sistema della relazioni sociali. Ed è un problema che riguarda l’intero Mezzogiorno, non soltanto la Campania: è l’incapacità di dare risposte pubbliche. È arrivato il momento che il centrosinistra affronti una riflessione radicale sulla funzione di governo nel sud Italia. Non basta la sostituzione delle classi dirigenti se restano immutate le dinamiche di potere, per questo credo sia arrivato il momento di scelte di rottura. Forse siamo ancora in tempo per recuperare il rapporto di fiducia fra la funzione di governo e le popolazioni».
NAPOLI - Intorno alla culla del "mostro" che deve nascere, un cordone di trecento poliziotti distribuiti in piccoli drappelli presidia tutte le vie di accesso giorno e notte, ventiquattr´ore su ventiquattro. E il travaglio rischia di continuare, in queste condizioni, almeno per un paio d´anni.
Il "mostro" è l´inceneritore di Acerra, alle porte di Napoli, teatro della sommossa popolare che a metà agosto ha provocato una guerriglia fra dimostranti e forze dell´ordine, con numerosi feriti da una parte e dall´altra. La culla è un quadrato di trecento metri per trecento, circa dieci ettari di terreno una volta agricolo, dove è aperto il cantiere per il termovalorizzatore della discordia, l´impianto che dovrebbe bruciare i rifiuti e trasformarli in energia.
Basta girare per le strade del paese per capire che la rivolta cova sotto le ceneri, pronta a riesplodere da un momento all´altro. Le scritte sui muri, perfino quelli davanti al Municipio, o sulle lenzuola appese ai balconi, sono perentorie e minacciose. "No all´inceneritore"; "No alla diossina"; "Termovalorizzatore = tumore"; "Non ci arrenderemo mai"; "Pagherete caro, pagherete tutto". E così via, con accuse di racket e di mafia all´indirizzo dell´azienda costruttrice, del governo e del commissario straordinario per l´emergenza rifiuti, un´emergenza che in Campania dura ormai da dieci anni.
Sono i soliti "terroni" - brutti, sporchi e cattivi - che non vogliono l´inceneritore e preferiscono tenersi l´immondizia per strada? Sono gli ambientalisti che alimentano l´allarmismo e il panico tra la popolazione ignorante? E´ la camorra che soffia sul fuoco per difendere il business delle discariche abusive? Oppure c´è dell´altro, un´altra verità più complicata e nascosta che può essere utile anche lontano da qui, fuori da questa regione, per mettere a fuoco la questione rifiuti su scala nazionale?
Per quanto il caso di Acerra abbia certamente caratteristiche e aspetti del tutto specifici, è in realtà il paradigma di un degrado che ancora una volta spacca in due l´Italia e contrappone un Nord più ricco ed evoluto, dotato già di 34 inceneritori, a un Sud più povero e arretrato dove ne funzionano al momento soltanto 4, mentre il Centro ne ha 10. Il fatto è che questo ritaglio della "Campania felix", compreso fra Nola, Marigliano e appunto Acerra, destinato dalla natura alla coltivazione dei pomodori, delle patate e dei carciofi, s´è trasformato ormai da tempo in un "triangolo della morte": una landa infelice soffocata dai veleni della diossina, con una crescita dei tassi mortalità per tumori più alta di quella nazionale, tra discariche abusive, falde acquifere inquinate, pozzi chiusi per ordine della magistratura e pascoli proibiti per ragioni cautelative. E´ più che comprensibile, perciò, che lo spettro dell´inceneritore più grande d´Europa, con la tipologia più vecchia e inquinante, provochi da queste parti l´effetto di una miccia in una santabarbara, accendendo le paure degli abitanti, per lo più contadini e commercianti.
"Il nostro è un territorio già malato che avrebbe bisogno di una grande bonifica", spiega con una fermezza pari alla moderazione Giovanni La Montagna, professore di Lettere e filosofia al liceo, consigliere comunale della Margherita ed esponente di punta del Comitato cittadino contro l´inceneritore. Proprio intorno a questo movimento popolare, s´è saldata la "santa alleanza" catto-comunista fra il Comune "rosso" e la Curia locale: da una parte il sindaco di Rifondazione, Espedito Marletta, a capo di una giunta anomala di centro-sinistra, con il trattino, senza i Ds e i socialisti; dall´altra, il vescovo Giovanni Rinaldi. Verrebbe da pensare a un remake di "Peppone e don Camillo", se non fosse che il sindaco è un tranquillo funzionario dell´Ufficio delle Entrate di Napoli, con un fratello sacerdote; mentre monsignor Rinaldi ha l´aria paciosa e rassicurante di un parroco di campagna.
Impegnato in prima linea contro l´inceneritore, come tanti altri vescovi del Mezzogiorno sul fronte della criminalità organizzata, della droga o dell´immigrazione clandestina, a chi gli ricorda il suo ruolo di "pastore d´anime" lui risponde senza scomporsi: "L´uomo è fatto di anima e corpo. Se si ammala l´una, soffre anche l´altra e viceversa". Sebbene i richiami della Conferenza episcopale l´abbiano indotto a una maggiore prudenza, dopo le violenze e gli scontri di metà agosto, monsignor Rinaldi non sembra intenzionato a rinunciare però alla sua "testimonianza cristiana in favore della vita, della salute e dell´ambiente".
Se quello di Acerra è diventato dunque un caso-limite, per le condizioni particolari di questa zona che precedono di gran lunga le polemiche sull´inceneritore, la colpa non è certamente del vescovo, del sindaco né tantomeno della popolazione. Si legge in un appello diffuso congiuntamente dalle maggiori associazioni ecologiste e sottoscritto da Andrea Masullo per il Wwf, Ciro Pesacane per il Forum ambientalista e Maurizio Gubbiotti per Legambiente: "Accade a volte che per un interesse generale fondamentale una comunità locale debba sobbarcarsi oneri e rischi particolari, ospitando sul proprio territorio impianti nocivi all´ambiente e alla salute. Ma quando ciò accade le argomentazioni oggettive e serie dei proponenti usualmente vengono spese per creare quel consenso senza il quale in una democrazia non si possono imporre rischi o vincoli a nessuno".
Qui, invece, dopo dieci anni di emergenza rifiuti e di allarme diossina, di tumori e di malattie respiratorie, di proteste e di mobilitazione popolare, il cantiere per il mega-inceneritore è stato aperto all´indomani di Ferragosto con l´intervento della forza pubblica. La collocazione dell´impianto, come sostiene un documento dell´ufficio stampa della Diocesi di Acerra, "è stata decisa dalla ditta vincitrice dell´appalto (mandataria la Fisia Italimpianti, mandante l´Impregilo del Gruppo Fiat - ndr) e non dagli organismi democraticamente eletti per il governo del territorio". E infine, il parere della Commissione Via (valutazione di impatto ambientale) risale al dicembre ?99; "non appare chiaramente positivo"; ed è stato espresso in una relazione "scandalosa e piena di contraddizioni": tanto che il 6 luglio 2000 l´allora ministro dell´Ambiente, Willer Bordon, ha "convenuto sulla contraddittorietà del parere espresso dalla Commissione", riconoscendo anche che "la tecnologia proposta dalla Fisia non è particolarmente innovativa e la documentazione presentata è in parte lacunosa e sommaria".
Se esistono al Nord o altrove termovalorizzatori che funzionano, producono energia e non inquinano, come vedremo nel corso di questa inchiesta, ciò non significa dunque che - a parte le violenze o le strumentalizzazioni della camorra - la rivolta popolare di Acerra sia infondata e illegittima. In attuazione delle direttive europee, il decreto Ronchi del 5 febbraio ?97 prescrive tre fasi nella gestione dei rifiuti: prevenzione della loro produzione, cioè riduzione delle quantità; poi recupero, reimpiego e riciclaggio dei contenitori o degli imballaggi; e quindi da ultimo lo smaltimento. L´intero processo, però, si basa necessariamente sulla raccolta differenziata, per separare i diversi materiali e in particolare la plastica, i rifiuti industriali e quelli chimici. Altrimenti, buttando tutto insieme nello stesso forno, si rischia di produrre - oltre al combustibile - anche altra diossina e altri veleni. Solo che per legge la raccolta differenziata dovrebbe arrivare almeno al 35 per cento del totale, mentre in Campania raggiunge appena il dieci per cento.
(1. continua)
A proposito del termovalorizzatore di Acerra ecco un articolo di Antonio Di Gennaro
Ho ricevuto nei mesi scorsi diverse sollecitazioni a intervenire sulla questione dei rifiuti a Napoli e in Campania. Ho sistematicamente declinato l'invito per il fatto di non riuscire a capire cosa succedesse esattamente. Come mai le autorità locali (responsabili dei governi regionale, provinciale e comunale) non sono mai stati seriamente contestati (fino a ieri) dalla popolazione per la loro incapacità o mancanza di volontà di affrontare il problema? I risultati elettorali delle ultime elezioni hanno premiato alla grande Antonio Bassolino e Rosa Iervolino per loro indubbi meriti, ma nonostante la assoluta inanizione rispetto alla questione dei rifiuti. E ancora non trovo una riposta. O, forse, la risposta sta proprio nella confusione, nel fatto che i diretti interessati concorrono a rendere la situazione poco chiara.
Non parliamo poi degli opinionisti: Dio ce ne scampi. Chi rivela al Tg1 che le responsabilità vanno individuate nelle regioni del Nord che si accordano con la camorra per portare a Napoli e in Campania i rifiuti tossici. Chi trova la soluzione affidando la gestione di Napoli a governanti stranieri (come un giovane autore intervistato con larghezza da Repubblica). Chi se la prende con la tolleranza dei napoletani. Chi - tanto per cambiare - richiede l'intervento dell'esercito.
Sulla prima spiegazione - nota da una decina di anni grazie al lavoro dei magistrati - c'è da obiettare che ciò non riguarda le cento mila tonnellate di rifiuti da smaltire ora. Il fatto stato è terribile e bisogna ancora indagare sul fenomeno e soprattutto sui suoi potenziali effetti. Ma c'entra poco o niente con le montagne di rifiuti, certo schifose, ma meno pericolose e certamente evidenti e alla luce del sole. Segue il solito gusto napoletano per l'autodenigrazione collettiva che non porta da alcuna parte. C'è poi sempre la trovata dell'esercito, sistematicamente ricorrente quando ci sono guai a Napoli, invocata questa volta non a caso anche dalla Lega.
Il grande protagonista nelle spiegazioni è la Camorra. Tutti sanno e dicono che è colpa della camorra: dalla casalinga di Voghera a Bassolino. Questa è la spiegazione vincente. Peccato che non sia una spiegazione. La camorra - ovviamente - c'è e fa affari. E c'era anche quando insieme ai politici tangentisti lucrava sulle discariche (tanto a chilo al politico di turno). Ma il riferimento alla camorra finisce per essere generico e mitico. Sarebbe utile capire cosa fa esattamente e quali sono gli intrecci e con quali politici opera e come. Se ne invoca invece il ruolo per spiegare sia la gestione dei rifiuti che le rivolte. Nel vederla dappertutto si finisce per non vederla dov'è.
Tra l'altro la spiegazione pan-camorrista fa assolutamente comodo ai politici perché così non devono spiegare la loro incapacità o mancanza di volontà. Il governatore Bassolino ha dichiarato di voler restare al suo posto per portare avanti l'impegno nella lotta alla camorra. Viene da chiedersi cosa ha fatto da quando è governatore in materia di rapporto camorra/rifiuti. Sarebbe stato utile per la Regione se avesse condotto anche la lotta contro il ruolo dell'Impregilo (che tanta parte ha nella mancata volontà o possibilità di affrontare la questione dei rifiuti in Campania). E mi chiedo perché non se ne parli quasi mai. Mistero napoletano.
Un altro pezzo di mistero sta nei messaggi che inviano i politici. Le vuote dichiarazioni del ministro Nicolais che, dopo aver cenato con il Presidente della Repubblica a Capri, si dichiara «molto dispiaciuto per la situazione» mi hanno lasciato più stupefatto che indignato. Ma poi ho capito che sono le meno gravi. Ben più preoccupanti mi sembrano le allusioni e i messaggi in codice che si inviano i politici locali (il presidente di questa o quella provincia che si lamenta «per non aver avuto risposta alla sua offerta» per la soluzione del problema) Rosa Iervolino, sindaco di Napoli, poi se la prende con chi ha scelto il sito di Pianura e appoggia i rivoltosi. Certo, si tratta di uno dei posti più belli del paese (il parco degli Astroni) per altro già distrutto dalla speculazione edilizia (con o senza camorra). Anche lei ci poteva pensare prima. Mistero.
Quando poi la televisione - inquadrando Villa Rosbery (la residenza napoletana del Presidente della Repubblica a Posillipo) - fa sapere alla nazione che il Presidente ha preferito stare a Capri a per marcare la distanza da Napoli, ho pensato che si è raggiunto il colmo. E ancora non c'è stata alcuna smentita da parte del Quirinale.
Questa è Napoli. O forse no: forse c'è anche dell'altro. Ma in questo momento il peggio domina. Domina nella realtà e domina anche nell'immaginario. Il successo delle descrizioni orribili di Napoli (piene di creazioni anche immaginifiche, come quelle dei container pieni dei cadaveri sfusi di cinesi) hanno un successo strepitoso. Le specifiche responsabilità vengono annegate nel mare delle spiegazioni antropologiche. E tutto va avanti come prima. Ma questa è un'altra storia, anche se forse vale la pena di ritornarci sopra.
Io resto con le mie domande senza risposta in questo mistero napoletano. Continuo a chiedermi perché non si è dato un calcio a Romiti e all'Impregilo. Non conosco benissimo i fatti. Ma se ho capito, la storia nasce con un presidente fascista della Regione che fa un accordo capestro e poco credibile con Romiti (Impregilo) - ne accenna l'intervista di Ganapini sul Manifesto di Venerdì. Poi arriva il grande governatore democratico e ci resta intrappolato. Perché non si è denunciato l'accordo, mobilitando la gente, perché non si è fatto chiarezza subito sulla questione di Acerra? Mistero. Altro mistero è la mancata scelta dei comuni di procedere effettivamente alla raccolta differenziata. Andava fatta e si poteva fare comunque e in ogni caso.
E' stata la camorra a impedire a Rosa Iervolino, sindaco di Napoli, di far funzionare effettivamente la raccolta differenziata a Napoli? O c'è dell'altro? Mistero napoletano anche qui. E perché non è stata fatta - che so - a San Giorgio a Cremano che ha la palma della invasione della spazzatura? Anche qui è stata la Camorra a ordinarlo? Non lo escludo, ma sarei curioso di sapere come ha fatto, con chi si è accordata. Per ora è un mistero.
C'è invece un fatto per nulla misterioso che riguarda una errore politico gravissimo, che si aggiunge a quello della mancata pratica della raccolta differenziata, esso riguarda l'assenza di partecipazione democratica. Fin dai tempi del regalo a Romiti si poteva stabilire (oltre che forme diverse di uso) un rapporto diverso con la popolazione contrattando qualità, dimensioni e ruolo dell'impianto. E ad Acerra, come in ogni altro luogo, distruzione o deposito della spazzatura (per l'emergenza ma soprattutto per la prospettiva di stoccaggio e distruzione di spazzatura meno pericolosa) andavano, e vanno, offerte contropartite per la popolazione, da negoziare e discutere con essa.
Speriamo che tutto il pandemonio di questi giorni porti almeno a questo esito.
Sullo scandalo dell'affidamento all'Impregilo vedi l'articolo di Antonio di Gennaro per eddyburg Privatizzare i rifiuti è sbagliato (6.7.2004)
Prima il Maggio dei monumenti, con le televisioni e la stampa internazionale che rimandano a scala planetaria l’immagine di Napoli umiliata dai rifiuti; ora la protesta degli abitanti di Montecorvino che per alcuni giorni ha tagliato in due la nazione. Perché tanti problemi in Campania, nonostante una gestione commissariale dei rifiuti che dura da più di dieci anni?
Secondo Donato Ceglie, il magistrato che da anni si occupa di crimini ambientali nell’area casertana, il commissariamento di lungo corso in Campania non solo dei rifiuti, ma anche di settori cruciali quali le cave, le acque e il dissesto idrogeologico, deve essere considerato come una vera e propria riforma istituzionale strisciante, non dichiarata, che ha esautorato l’amministrazione ordinaria di ogni voce in capitolo e potere di controllo, allontanando in molti casi la soluzione dei problemi, anziché facilitarla.
Ad ogni modo, le premesse dell’attuale crisi dei rifiuti vanno ricercate nella scelta della giunta regionale Rastrelli, che ha preceduto quella attuale presieduta da Antonio Bassolino, di privatizzare l’intero ciclo regionale dei rifiuti con il meccanismo della finanza di progetto, sulla base di un capitolato che demandava alla progettualità privata ogni aspetto, compreso il dimensionamento e la localizzazione degli impianti di trattamento e termodistruzione. Il progetto prescelto prevedeva la realizzazione nella piana campana di due mega inceneritori, di cui uno proprio nel bel mezzo degli orti di Acerra, una delle pianure più fertili del globo terracqueo.
Il resto è storia nota. Ad Acerra si organizzano prontamente i comitati di protesta, con i blocchi, i picchetti e le processioni, che hanno sino ad ora impedito l’avvio dei lavori di costruzione. Nel frattempo la raccolta differenziata, senza la quale i termodistruttori non potrebbero nemmeno funzionare, non decolla come dovrebbe. I privati, in project financing, continuano ad imballare spazzatura, con i siti di trattamento che si saturano progressivamente di “ecoballe”. Sino al punto che, anche nell’ipotesi che il termodistruttore per miracolo entrasse in funzione domattina, occorrerebbero oltre 40 anni per bruciarle tutte. Intanto, con annunci solenni, vengono chiuse, una dopo l’altra, tutte le grandi discariche regionali che, come dimostrato dalle indagini di Donato Ceglie, hanno funzionato per vent’anni come pattumiera d’Italia e d’Europa, alimentando un lucrosissimo traffico di rifiuti di ogni tipo gestito da un comitato d’affari comprendente la camorra, la massoneria deviata, imprenditori locali. Grandi discariche, proprio come quella di Parapoti, che il super commissario Catenacci è costretto ora temporaneamente a riaprire, nell’impossibilità di trasferire in altre regioni o sui treni per la Germania, per intero, le 7.500 tonnellate di rifiuti che le città campane quotidianamente producono.
Insomma, l’esperimento campano dimostra una volta per tutte come problemi socialmente ed ambientalmente complessi, quale quello dei rifiuti, siano difficilmente gestibili con il solo ricorso a metodi privatistici, quale è quello della finanza di progetto. Questo perché ci sono aspetti critici, legati alla localizzazione degli impianti, alla perequazione territoriale dei costi e dei benefici, alla costruzione di un consapevole consenso, al controllo dell’efficienza dei processi di trattamento ed al monitoraggio della qualità dell’ambiente, che non possono essere esclusivamente demandati all’azione privata.
In questa vicenda, l’errore di Bassolino è stato quello di non poter (o, peggio, di non voler) rinegoziare il contratto con la società aggiudicataria, ristabilendo le prerogative dei pubblici poteri, quando ormai era chiaro che la strada prescelta non portava da nessuna parte.
Ad ogni modo, c’è un’altra considerazione da fare: al di là degli aspetti settoriali e di processo, l’emergenza rifiuti rappresenta una delle manifestazioni dello squilibrio patologico che affligge il territorio campano. L’epicentro della crisi - la provincia di Napoli e la Terra di Lavoro - rappresenta circa il 12% del territorio campano, ma ospita più di tre quinti della popolazione regionale complessiva. E’ il territorio della Campania Felix, mortificato da cinquant’anni di sviluppo dissennato. Dalla fine degli anni ’50 ad oggi una irrefrenabile spinta speculativa ha quintuplicato le aree urbane, nonostante l’incremento demografico sia stato inferiore al 25%. Il territorio rurale si è così progressivamente trasformato, in assenza di un minimo di pianificazione, in una sorta di terra di nessuno, non più campagna ma non ancora città. Uno spazio ritenuto erroneamente privo di valori ambientali, sociali e produttivi intrinseci: una discarica urbanistica all’interno della quale si è inteso via via localizzare le attività che la città respinge, di natura sia legale che illecita. Attività il più delle volte incompatibili con l’utilizzo agricolo, perché capaci di degradare irreversibilmente la salubrità e l’integrità delle risorse ambientali, portando inaccettabili minacce alla salute degli abitanti, come testimoniano le impressionanti statistiche sull’anomala incidenza di malattie tumorali in alcune aree del casertano.
E’ in questi territori che ora la gestione commissariale intende far atterrare i pur necessari inceneritori, le discariche, gli impianti di trattamento.
Senza pensare che, in contesti così martoriati, è solo all’interno di un progetto credibile di riequilibrio e recupero del territorio, dei suoi valori e delle sue qualità, che la pubblica amministrazione può richiedere alle comunità locali l’accettazione responsabile di eventuali, ulteriori sacrifici necessari per il superamento delle condizioni di emergenza.
Altro che project financing. La parola giusta era pianificazione.