loader
menu
© 2024 Eddyburg

Diceva Peppino Impastato che “la mafia è una montagna di merda”, elegante accostamento però fuorviante almeno su un punto: l’una si può solo distruggere, l’altra si ricicla. Il problema della montagna si fa però particolarmente grave quando diventa urbana, intesa come rifiuto solido urbano, visto che ne muta radicalmente la composizione, ben diversa dalla puzzolente ma tutto sommato gestibile biomassa rurale. Ecco, proviamo a leggerlo così il futuro prossimo dell’umanità: sempre più urbana, e con quella montagna sempre più incombente, ingestibile, minacciosa, composita. Tradotto in cifre, il nostro stile di vita cittadino globale dieci anni fa voleva dire poco meno di tre miliardi di persone intente ad aggiungere ogni giorno su quel mucchio 640 grammi di schifezze composite ciascuno, dalle bucce alle pile scariche al giocattolo rotto (in totale, facendo un mucchio annuale unico, 680 milioni di tonnellate).

Ma il progresso, lo sappiamo tutti, è inarrestabile se sappiamo impegnarci. In questo caso l’impegno non è mancato di sicuro: oggi noi cittadini siamo un po’ più di tre miliardi, e orgogliosamente sforniamo ogni giorno un chilo e due etti di porcherie da smaltire (1,3 milardi di tonnellate l’anno). Ancora più luminoso il futuro della monnezza previsto per il 2025, quando i residenti urbani saranno 4,3 miliardi, alacremente intenti ad ammucchiare poco meno di un chilo e mezzo di rifiuti ciascuno al giorno, 2,2 miliardi di tonnellate l’anno. Per tornare alla mafia che si citava all’inizio, e ricordando certi interessi in certi metodi di gestione dei rifiuti, pare di vederli esultare davanti a cifre così: appalti truccati per gli inceneritori, una rete globale di discariche abusive, o magari eclatanti sinergie con le grandi opere pubbliche, basta pensare a quel tizio che usava l’autostrada Brescia-Milano in costruzione per stendere decine di chilometri di strato velenoso sotto l’asfalto, in eredità alle generazioni future.

Battutine un po’ sceme a parte, il tema è assai serio, come appare evidente accostando alcune immagini che di solito colpevolmente consideriamo separate. Sui giornali, alla televisione, o anche su questo sito, si parla spesso del rapporto fra urbanizzazione e progresso sociale in tutto il mondo, e la cosa appare abbastanza evidente nei casi di paesi emergenti come India o Cina. Dai villaggi rurali prima i lavoratori poi intere famiglie si trasferiscono nelle mega-città (o magari anche in centri intermedi) dove al minimo aumentano il reddito, le aspettative, iniziano a usufruire di qualche servizio e diritto. Cambiano anche stile di vita, come pure vediamo chiaramente anche solo guardando le immagini di slum e quartieri urbani: i loro rifiuti aumentano, e dalla semplice biomassa delle campagne diventano la composita e micidiale miscela delle città. Lo fanno intuire immagini e buon senso, lo confermano ahimè le cifre raccolte e elaborate dall’ultimissimo rapporto pubblicato per la serie Quaderni Urbani dalla Banca Mondiale, What a waste: a global review of solid waste management, dove in un centinaio di pagine con poche parole e molti dati si fotografa una tendenza. Come sempre al tempo stesso inquietante e ricca di potenzialità: la metropoli è una malattia che contiene storicamente in sé i principi della terapia.

Gli amici cinesi o indiani che respirando i fumi della propria motoretta o dei furgoni altrui si arrabattano giorno dopo giorno a migliorare il loro tenore di vita, iniziano ad ammucchiare sulla porta di casa qualcosa di sempre più simile a quanto sta davanti ai gradini del nostro ingresso la sera, e che l’amministrazione municipale si porta via nella notte. Noi nel frattempo, non paghi dei risultati ottenuti, ci diamo da fare per incrementare e diversificare quella quota pro-capite, e il problema monta, come sanno ormai abbastanza bene i cittadini napoletani, per esempio. Ecco: moltiplichiamo un caso Napoli per le quantità demografiche, territoriali, di consumi collettivi di qualche megacittà asiatica, e cominciamo a farci un’idea. Ma c’è anche qualcosa in più, raccontato nel rapporto What a waste, e che lega la montagna globale di monnezza urbana a un altro aspetto forse ancora più inquietante dei nostri tempi: la minaccia del cambiamento climatico.

Perché esiste un rapporto diretto, forte, immediato, fra la produzione di rifiuti solidi urbani e l’emissione di gas serra, le due curve crescono parallele. Le emissioni post-consumo vengono calcolate a circa il 5% di quelle globali, e in generale ne incorporano di fatto molte altre, ad esempio nel caso della carta (enorme componente della montagna di spazzatura urbana) le cui emissioni si verificano nel ciclo di produzione e distribuzione precedente lo scarto. In questo come in altri casi lavorare in modo integrato nella riduzione dei rifiuti solidi urbani significa anche risalire la corrente, per toccare i nostri modelli di sviluppo là dove si originano i problemi. Lavorare in modo integrato significa anche e soprattutto approccio generale: che tipo di esistenza urbana conduciamo, quali sono i suoi bisogni attuali e le risposte possibili, in quali tipi di spazi e contesti si svolge la nostra esistenza lavorativa, di consumo, di relazioni sociali, come abitiamo, come concepiamo la ricchezza e le sue manifestazioni esterne. Intervenire a partire dai rifiuti solidi urbani è anche una strada per verificare e rafforzare l’azione municipale in generale, sia programmatica che di erogazione dei servizi, e momento di verifica della macchina organizzativa.

Concludendo, al solito, con le raccomandazioni propositive, il rapporto indica alle città gli strumenti della

PARTECIPAZIONE e coinvolgimento dei cittadini attraverso programmi di informazione e educazione a comportamenti virtuosi (il riuso, riciclaggio ecc.)

MECCANISMI ECONOMICI per stimolare altri comportamenti virtuosi da parte di cittadini e imprese, dal differenziare le tariffe alla tassazione su alcuni prodotti particolarmente complessi da gestire nella loro vita

SENSIBILIZZAZIONE DIRETTA legando alcune azioni a momenti di vita della cittadinanza, per esempio il compost da rifiuti organici usato nei parchi pubblici, o negli orti di quartiere, o il decentramento di una parte del processo di riuso.

E c’è da stare sicuri almeno di una cosa: la capacità di adattamento dei cittadini, le loro potenzialità di migliorare le politiche urbane pubbliche con l’interazione, sapranno certamente nel giro di una generazione (basta vedere cosa sta accadendo nel campo della mobilità dolce) accelerare tantissimo i processi. Una ipotesi realistica: la montagna di spazzatura incombente forse non ci franerà sulla testa. Ma tocca darsi da fare da subito.

(il rapporto della Banca Mondiale è scaricabile qui in fondo)

Titolo originale: An Effort to Bury a Throwaway Culture One Repair at a Time - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

AMSTERDAM — Arrivano nell’ordine un disoccupato, un farmacista in pensione, un tappezziere, e prendono posto ai tavoli ricoperti di percalle rosso. A portata di mano cacciaviti e macchine da cucire. Non mancano caffè, tè e biscotti. Hilij Held, un’abitante del quartiere, trascina dentro una scatola a strisce su rotelle da cui estrae un ferro da stiro con l’aria vissuta. “Non funziona più” spiega. “Non esce il vapore”. La signorina Held ha scelto il posto giusto. Qui al primo Caffè delle Riparazioni di Amsterdam, una iniziativa partita dall’ingresso di un teatro, poi in una stanza di un ex albergo presa in affitto, e ora in un centro di quartiere due volte al mese, la gente può portare qualunque cosa per farsela sistemare gratis, da volontari che lo fanno per il gusto di aggiustare.

Pensato per aiutare chi vuole ridurre ciò che buttiamo, il Caffè della Riparazione ha funzionato bene da subito all'inizio un paio d’anni fa. La Repair Cafe Foundation ha ottenuto circa mezzo milione di euro dal governo olandese, oltre che da associazioni e offerte minori, che servono per il personale minimo, la promozione, e anche un Pulmino della Riparazione. Ci sono trenta gruppi diversi che hanno avviato dei Caffè della Riparazione in tutta l’Olanda, in cui i vicini uniscono competenze e disponibilità per offrire qualche ora al mese a ricucire strappi nella stoffa o ridar vita a qualche caffettiera, lampada, aspirapolvere o tostapane, praticamente qualunque apparecchiatura elettrica dalle lavatrici agli spremiagrumi.

“In Europa si buttano via tante cose” racconta Martine Postma, ex giornalista che ha ideato il concetto dopo la nascita del secondo figlio e qualche riflessione in più sull’ambiente. “È una vergogna, visto che si tratta di cose del tutto riutilizzabili. Al mondo c’è sempre più gente, e noi non possiamo continuare così. Volevo fare qualcosa di concreto, non solo scrivere”. E però la tormentava la domanda: “È possibile farlo come persona normale, nella vita quotidiana?” Ispirata da una mostra sui vantaggi culturali ed economici di riparazione e riciclaggio, ha deciso che per evitare sprechi inutili si potevano aiutare praticamente le persone a sistemare le cose. “Quando si parla di sostenibilità spesso ci si limita a prospettare degli ideali. Si fanno magari una serie di laboratori su come coltivarsi da soli i funghi, e la gente si stufa. Questo invece è un modo di impegnarsi molto immediato e concreto. Si fa qualcosa insieme, qui e ora”.

L’Olanda già contiene lo smaltimento in discarica a meno del 3% dei rifiuti urbani, ma si può fare anche di meglio secondo Joop Atsma, ministro delle infrastrutture e dell’ambiente. “Il Caffè della riparazione è un modo molto efficace di aumentare la consapevolezza del fatto che ci sono tante cose che buttiamo e invece funzionano benissimo” ha scritto Atsma in una e-mail. “La ritengo una ottima idea” aggiunge Han van Kasteren, professore all’Istituto di Tecnologia di Eindhoven specializzato nel settore rifiuti. “C’è anche un importante aspetto sociale. Quando si lavora insieme per l’ambiente si fa crescere la consapevolezza. Sistemare un aspirapolvere fa bene”. Di sicuro l’ha fatto alla signora che un giorno ha portato il suo aspirapolvere che aveva quarant’anni, comprato da sposina, qui al Caffè della Riparazione. “Sono contenta, tanto contenta” commenta mentre John Zuidema, 70 anni, sta eliminando il condotto spezzato. “Mio marito non c’è più, e restano in giro tutte queste cosec he un tempo lui riparava”.

Per qualcuno gli aspetti sociali vangono almeno tanto quanto quelli ambientali. “La cosa interessante è che si creano degli spazi di incontro, per chi magari abitava vicino da estraneo” commenta Nina Tellegen, direttrice della Fondazione DOEN che ha garantito dal progetto un finanziamento da più di 200.000 euro nel quadro dei programmi di “coesione sociale” iniziati dopo l’omicidio politico di Pim Fortuyn, nel 2002, e quello del regista Theo van Gogh, nel 2004. “Il fatto che si leghi anche alla sostenibilità lo rende ancora più interessante”. La Tellegen è convinta che serva soprattutto agli anziani. “Hanno delle conoscenze che stanno sparendo. Una volta si facevano tanti lavori manuali, mentre oggi c’è questa società dei servizi.”

Evelien H. Tonkens, professore di sociologia all’Università di Amsterdam, concorda. “È proprio un segno dei tempi”. Secondo Tonkens, il Caffè della Riparazione è anticonsumista, anti-mercato, propone un’etica del fai da te e si inserisce in una cultura in crescita nel paese, per migliorare la vita quotidiana a partire dal basso e dalla partecipazione. “Sicuramente non funziona come un’impresa” aggiunge la Postma. Ci si rivolge a chi considera costoso far riparare le proprie cose, non deve far concorrenza agli esercizi del genere che già esistono.La Repair Cafe Foundation dà informazioni per iniziare l’attività, gli strumenti necessari, dritte per i finanziamenti, la promozione. Sono arrivate richieste anche da Francia, Belgio, Germania, Polonia, Ucraina, Sud Africa e Australia.

Tijn Noordenbos, sessantaduenne artista di Delft, ha fondato un Caffè della Riparazione quattro mesi fa. “Mi piace aggiustare le cose” spiega, ricordando come i negozi del genere che c’erano un tempo siano tutti spariti. “Oggi se si rompe qualcosa e si prova a riportarlo al negozio, ti rispondono che va rispedito al fabbricante e costa cento euro solo il controllo, meglio comprarne uno nuovo”. L’architetto William McDonough continua “L’obsolescenza pianificata ha raggiunto un livello di pazzia, si deve buttar via tutto senza neppure pensarci”. Lui propone una filosofia progettuale “dalla culla alla culla” dove gli oggetti si possono anche smontare e riutilizzare per parti (o materie prime, non si deve per forza riparare ad nauseam), ed è servita a ispirare l’idea della signora Postma. “Col Caffè della Riparazione la gente capisce di avere un rapporto con quei materiali” conclude McDonough.

Come ad esempio la minigonna H&M di Sigrid Deters strappata. “Costa 5-10 euro” e lei è troppo goffa per provarci da sola a ricucirla. “Adesso non vale nulla, si potrebbe buttarla e comprarne una nuova. Ma se la riparano posso indossarla di nuovo”. Marjanne van der Rhee, volontaria in uno dei Caffè per far promozione e distribuire bevande calde, racconta: “Arriva tanta gente diversa. In qualche caso si può pensare che vengano perché sono davvero poveri. Altri hanno un aspetto più agiato, ma si preoccupano per l’ambiente. Altri ancora sembrano solo un po’ matti”.

Theo van den Akker, che normalmente fa il contabile, adesso deve occuparsi del ferro a vapore senza più vapore. Avvolto nella sua T-shirt con scritto “Mr. Repair Café”, van den Akker apre l’involucro di plastica, mettendo a nudo un intrico di fili elettrici colorati. Intanto la signora Held chiacchiera con la van der Rhee dei veli tradizionali del Suriname che lei, nata laggiù, vende. Una volta che van den Akker ha finito col ferro a vapore, avanzano due pezzi: magari non erano così importanti. Infila la spina, si accende una luce verde, gorgoglia dell’acqua rugginosa e finalmente inizia ad uscire il vapore.

La natura è un grande business contro la crisi. "Green Italy" porta un milione di posti di lavoro. Ecco la mappa dello sviluppo ecocompatibile

di Giovanni Valentini

Se è vero che il verde è il colore della speranza, proprio perché abbinato alla natura e alla sua rinascita, allora la "green economy" può rappresentare per l´Italia qualcosa di più concreto di un sogno collettivo: una nuova frontiera, cioè un´occasione di ripresa, un´opportunità di crescita, una leva contro la crisi. Per affrontare la recessione e accrescere la propria competitività sul mercato globale, le nostre imprese si stanno orientando decisamente in questa direzione. E nel segno dell´economia verde, investono sempre più in tecnologie, processi e prodotti ecocompatibili fino quasi a raddoppiare nel 2011, con effetti ricostituenti e benefici anche sull´occupazione, diretta o indiretta: tanto da far registrare solo nel 2009 circa 200 mila assunzioni e annunciare per i prossimi anni almeno un milione di posti di lavoro.

Dal 2010 a oggi, la percentuale delle piccole e medie imprese manifatturiere (dai 20 ai 499 dipendenti) impegnate finanziariamente nel maggior risparmio energetico o nel minor impatto ambientale, è passata dal 30,4 al 57,5. Una rivoluzione tecnologica e produttiva, destinata a incidere direttamente sulla qualità del "made in Italy" e quindi sulle assunzioni di personale qualificato.

Già nel 2011 la domanda di figure professionali orientate verso la "green economy" è arrivata a superare il 38% del totale: oltre 220 mila, di cui quasi la metà (97 mila) legate al settore delle energie rinnovabili, alla gestione delle acque e dei rifiuti o alla tutela dell´ambiente, su un totale di circa 600 mila. A questi ritmi si può ragionevolmente prevedere che nei prossimi anni, tra nuova occupazione e riqualificazione di quella esistente, la riconversione ecologica dell´economia alimenterà un boom di assunzioni tra "green jobs" in senso stretto e figure riconducibili alla "green economy". Le competenze richieste appartengono trasversalmente a diversi i settori, con picchi superiori al 50% fra gli esperti di diritto, ai dirigenti e agli imprenditori, ma ancor più fra artigiani, operai specializzati e agricoltori (60,4).

Contenuti in un Rapporto che verrà presentato a Milano lunedì prossimo, 14 novembre, presso l´Assolombarda, su iniziativa di Unioncamere e di Symbola, la fondazione presieduta da Ermete Realacci, questi dati delineano - appunto - uno scenario di crescita e di speranza per il futuro del Paese. Una via d´uscita, insomma, di fronte alla crisi strutturale che incombe drammaticamente sull´economia nazionale. "GreenItaly" è insieme un impegno e una sfida per modificare radicalmente il nostro modello di sviluppo, cercando una soluzione innovativa per superare la congiuntura.

Sono state soprattutto le medie imprese, in quest´ultimo anno, a investire su tecnologie e prodotti a maggior risparmio energetico o a minor impatto ambientale: il 68,5% contro il 37,3 del 2010, rispetto alle piccole imprese (tra i 20 e i 49 dipendenti) che sono passate a loro volta dal 29,1 al 55,1. La parte del leone la fanno le industrie manifatturiere (64,4%), seguite a ruota da quelle alimentari (61,3), da quelle meccaniche (58,6) e poi da quelle che producono beni per la persona e per la casa (50,1%). Quanto alla ripartizione geografica, è un segno confortante che l´incremento maggiore si registri proprio al Sud (64,5%), più in ritardo e perciò più propenso a guardare avanti per recuperare terreno, rispetto al 57,3 del Nord-Est, al 56,7 del Nord-Ovest e al 53,6 del Centro.

«Nel momento difficile che il Paese sta attraversando - osserva Realacci - è necessario riguadagnare credibilità e serietà sul terreno finanziario, ma anche indicare la strada per il futuro della nostra economia, mettendo in moto le migliori energie». E perciò commenta con soddisfazione il fatto che «nell´incrocio tra innovazione, qualità e bellezza, la green economy in salsa italiana è già ben presente nelle attività della parte più avanzata del nostro sistema imprenditoriale».

Nella relazione che accompagna il Rapporto "GreenItaly", il presidente di Symbola sostiene poi che «la crisi va colta come una grande occasione di cambiamento, un´opportunità per affrontare le questioni aperte da tempo». La "rivoluzione ecologica" può rappresentare la chiave di volta per favorire un´autentica modernizzazione del Paese nella prospettiva di uno sviluppo sostenibile, cioè compatibile con la difesa dell´ambiente e la tutela della salute collettiva. E in Italia, più che altrove, l´economia verde si incrocia con la "soft economy", vale a dire con la qualità, l´innovazione e la ricerca, con quella insomma che un grande storico dell´economia come Carlo Maria Cipolla definiva la capacità di "produrre all´ombra dei campanili cose che piacciono al mondo": dai settori più tradizionali a quelli più innovativi, dall´agroalimentare alle ceramiche, dalla nautica al turismo, fino alla "meccatronica" (il mix di meccanica, elettronica e informatica).

Si tratta, ovviamente, di una sfida su scala internazionale per il nostro Paese e per le nostre imprese, chiamate a confrontarsi su progetti ambiziosi e impegnativi: come, per esempio, quello denominato "Desertec" che prevede investimenti per 300 miliardi di euro sulla sponda sud del Mediterraneo, nel campo delle fonti rinnovabili e in particolare nel solare termico ad alta concentrazione. Né mancano opportunità rilevanti a livello nazionale, come quelle che interessano il settore edilizio per la ristrutturazione delle case e l´efficienza energetica: finora il credito d´imposta del 55% per cento a favore dei privati, per le spese sostenute in questo genere di interventi sulle proprie abitazioni, è stato utilizzato da circa 600 mila famiglie e ha prodotto investimenti per quasi 12 miliardi di euro, coinvolgendo decine di migliaia di occupati.

Crescita e sostenibilità ambientale, considerate fino a ieri in antitesi, si stanno rivelando quindi due facce di quella stessa medaglia che è la competitività di un "sistema Paese". L´Italia ha tutte le carte in regola per partecipare a pieno titolo a questa gara globale: le bellezze naturali; un patrimonio storico, artistico e culturale, unico al mondo; talento, fantasia, creatività. «Occorre - conclude Realacci - un´economia più a misura d´uomo, attenta alle comunità e ai territori. E proprio per questo più sostenibile e competitiva».

Jeremy Rifkin: è l´unica via allo sviluppo

"Quell´energia che sbaraglia il mercato"

intervista di Antonio Cianciullo

«La green economy è l´unico settore della nostra economia che ancora funziona perché è l´unico allineato al futuro. Gli altri segmenti sono in crisi e, ogni volta che hanno un momento di temporaneo recupero e il motore della produzione si rimette in moto con il vecchio sistema, i prezzi del petrolio e delle materie prime schizzano alle stelle facendo inceppare di nuovo il meccanismo: la seconda rivoluzione industriale è arrivata al capolinea perché non ha saputo calcolare i limiti fisici del pianeta». Jeremy Rifkin ha appena pubblicato La terza rivoluzione industriale, il manifesto della società che si sta formando attorno ai valori della green economy.

Partiamo dai numeri. Fino a ieri molti ritenevano l´economia verde utile ma secondaria, un attore di secondo piano sulla scena economica mondiale. Oggi la situazione è cambiata?

«Sì perché la Terza rivoluzione industriale si sta dimostrando un cambiamento epocale del nostro modo di produrre e di pensare. Alcune industrie chiuderanno, ma molte altre apriranno e verranno creati centinaia di milioni di posti di lavoro per l´energia rinnovabile distribuita nelle case, negli uffici, nelle campagne; per la realizzazione di un ciclo di immagazzinamento dell´energia basato sull´idrogeno; per la sostituzione del vecchio parco auto inquinante con veicoli elettrici; per la creazione di smart grid in grado di far viaggiare l´energia come le informazioni sul web».

Una rivoluzione solo al futuro?

«Al contrario, è un processo già iniziato. Le faccio solo un paio di esempi. Negli Stati Uniti l´efficienza energetica delle case è estremamente bassa: aumentarla costerebbe 100 miliardi di dollari l´anno ma permetterebbe di risparmiare energia per 163 miliardi di dollari l´anno. E la mobilità offre analoghe opportunità. Zipcar, la più importante società di car sharing, in un decennio di attività ha aperto migliaia di sedi per mettere le auto condivise a disposizione dei suoi clienti: cresce del 30 per cento l´anno e nel 2009 ha fatturato 130 milioni di dollari».

Non tutto il movimento ambientalista però appoggia la green economy. C´è una frangia che contesta gli impianti eolici, solari e a biomasse in nome del paesaggio.

«Mi sembra una contraddizione destinata a essere superata dall´evoluzione della green economy. In questo momento di transizione una quota significativa di energia rinnovabile viene prodotta dai grandi impianti perché siamo nella fase di sviluppo iniziale della filiera. Io non sono contrario per principio ai grandi impianti, e penso che in alcuni luoghi si possano realizzare, ma sono destinati ad essere superati dalla logica della Terza rivoluzione industriale. Una rivoluzione basata sullo sviluppo di milioni di mini e micro centrali di produzione energetica che troveranno posto sui tetti e sulle facciate di buona parte degli edifici».

Eppure la crisi economica ha fatto registrare in molti paesi una battuta di arresto della green economy.

«Si sono fermate le economie che non hanno puntato sul futuro. Ma per sapere dove va il mondo c´è un modo molto semplice: guardare cosa fanno i giovani. I loro valori sono quelli di Internet: il diritto all´accesso alle conoscenze, il rapporto paritario, lo scambio di informazioni e di musica, presto lo scambio di energia. La loro rivoluzione è l´attacco al sistema basato sull´autoritarismo, sul potere gerarchico, sull´accentramento. Vogliono una società che abbia come valori la trasparenza, il decentramento e l´accesso libero alle reti».

Una possibilità reale?

«Alcuni dei governi rimasti attaccati al vecchio modo di pensare, come i regimi dittatoriali dell´Africa mediterranea, sono già stati spazzati via perché il potere laterale costruito dalla generazione di internet ha battuto l´arroganza delle autocrazie. Lo sviluppo del movimento degli indignati mostra che una critica radicale alla vecchia logica industriale sta crescendo rapidamente anche nei paesi industrializzati: c´è bisogno di un concetto più avanzato e più largo di democrazia che includa gli atti della vita quotidiana e una redistribuzione della ricchezza».

Postilla

Martin Lutero sosteneva: «pecca fortiter sed crede fortius», pecca di più ma credi di più. Non vorremmo che l’enfasi posta sullo “sviluppo” determinato dagli investimenti nei settori del disnquinamento, della mitigazione ecc. significasse “inquina di più per disinquinare di più. Non è detto che la “green economy” coincida con la ristrutturzione economica dell’ecnomia.

Con la delibera di giunta siglata ieri, Napoli aderisce ufficialmente al network di città, al di qua e al di là dell'Atlantico, che applicano il protocollo «Rifiuti Zero». Sarà la città di maggiori dimensioni in Europa a strutturarsi intorno ai principi di riduzione alla fonte degli imballaggi, riciclo, riuso e compostaggio, trattamento meccanico manuale della frazione residua. Niente inceneritori quindi, ribadisce il sindaco Luigi de Magistris, né nuove discariche o ampliamento dell'invaso di Chiaiano. A ratificare l'impegno Paul Connett, professore emerito di chimica della statunitense St. Lawrence University, tra i maggiori teorici della strategia «Rifiuti Zero», già applicata in centri urbani come San Francisco, Oakland, Camberra o in regioni come la Nuova Scozia in Canada o in Galles, ma anche in Italia a Capannori, nel lucchese, e a La Spezia. Sarà lui a presiedere l'Osservatorio che avrà il compito di monitorare il percorso. All'interno della struttura rappresentanti dell'amministrazione, dell'azienda comunale Asia, addetta alla raccolta, e dei comitati di cittadini, i primi a credere e chiedere un piano alternativo per oltre sette anni, contro la politica istituzionale di destra e di sinistra e la grande stampa nazionale.

«La prima volta che ho conosciuto Connett - racconta il vicesindaco Tommaso Sodano - era il 2004, eravamo ad Acerra e la polizia caricava la popolazione che manifestava contro l'inceneritore in costruzione. Adesso è un onore averlo a Palazzo San Giacomo, sede del comune partenopeo. Già immagino l'ironia sui giornali perché con la delibera ci impegniamo ad abbattere la produzione di immondizia senza fosse e forni entro il 2020, quando il problema a Napoli non è ancora risolto. Ma noi stiamo lavorando a progettare un futuro sostenibile». In concreto, la delibera prevede: attrezzature negli esercizi commerciali per ridurre il volume degli imballaggi; prodotti alla spina nei punti vendita della grande distribuzione; l'introduzione del vuoto a rendere; incentivi all'uso di stoviglie biodegradabili, pannolini lavabili, imballaggi lavabili o biodegradabili; sistema tariffario basato sulla reale quantità di rifiuti prodotti; la realizzazione di un centro comunale per la riparazione e il riuso di beni durevoli e imballaggi. In settimana dovrebbe arrivare anche l'annuncio ufficiale della partenza della navi con i rifiuti verso l'Olanda, passo necessario per alleggerire gli impianti da riconvertire. Su tutto pesa la messa in mora da parte dell'Europa, per cui sarà necessario «lavorare con regione, provincia e governo per evitare che venga avviata la procedura d'infrazione e il blocco dei fondi», ha ribadito de Magistris. È stato lo stesso Connett ieri a spiegare che a Napoli si può applicare il modello utilizzato a San Francisco, una città con conformazione e popolazione simile. Quando si è cominciato, nel 2000, la raccolta differenziata era al 50%, quest'anno è al 77%. Come a Vedelago, in provincia di Treviso, si possono immaginare piattaforme dove separare l'immondizia (plastica, ferro, alluminio, carta, vetro...) da rivendere sul mercato di materie prime secondarie. Quello che avanza diventa un granulato plastico impiegato ad esempio in edilizia. L'umido negli Usa viene trattato in impianti di compostaggio vicini ai terreni agricoli, dove viene usato come fertilizzante. In tutta Italia stanno sorgendo catene che vendono solo prodotti alla spina per la casa, per il corpo e alimenti. «Quello che non si può riusare, riciclare o compostare - conclude Connett - non dovrebbe essere prodotto. Le imprese hanno una grande responsabilità». Un modello che chiedono anche i comitati del vesuviano, invece delle continue minacce di ampliare o aprire nuove discariche nel Parco nazionale.

Chi, per propria ammissione, fa una «porcata» è un porco (soprattutto se la porcata è una legge elettorale che priva il popolo della propria sovranità). Il ministro Calderoli sta dando attuazione al ruolo che si è autonomamente assunto bloccando il trasferimento dei rifiuti che ingombrano le strade di Napoli in altre regioni. Non tutte: mentre Toscana, Emilia e Puglia, che si sono dichiarate pronte ad accoglierli - temporaneamente, e per solidarietà - non possono riceverli, Padova, cioè il Veneto, che ovviamente è contrario, ma dove è in progetto, contro gli impegni dell'amministrazione e la volontà popolare, la costruzione di una quarta linea di un inceneritore che ne doveva avere solo due, accoglie e brucia da tempo parecchi rifiuti di provenienza campana a 200 euro la tonnellata.

Quello che il ministro Calderoli cerca di promuovere dal suo scranno romano, tenendo sotto tiro la mummia di Berlusconi, è il caos a Napoli e uno scacco del suo nuovo sindaco, per compensare gli smacchi subiti dalla Lega nei «territori» che considera suoi feudi. Non ci riuscirà. Intanto, i rifiuti bruciati nelle strade di Napoli sono a tutti gli effetti rifiuti «speciali»: quelli che possono viaggiare per tutta l'Italia senza accordi tra le regioni, come da tre decenni viaggiano i rifiuti industriali e ospedalieri con cui le regioni della «Padania» hanno riempito e devastato i suoli e i corsi d'acqua della Campania (e di molte altre regioni del Mezzogiorno). Qualcuno, al Tar del Lazio dovrà pur accorgersene. Poi De Magistris ha dalla sua, oltre a una straordinaria mobilitazione popolare, che lo aiuterà a venir a capo del problema, la voce di Napolitano.

Contro di lui ci sono, nell'immediato, Governo e camorra, impersonata, per l'occasione, dalle bande di ragazzi che impediscono la raccolta dei rifiuti e che li vanno a sparpagliare nelle strade e nelle piazze che sono state appena ripulite. Un po' più defilate, ci sono Regione e Provincia, che non fanno niente per trovare uno sfogo ai rifiuti raccolti, di cui hanno per legge la responsabilità; una responsabilità che il Comune di Napoli invece non ha e non può avere. Ma la fila dei beneficiari del caos è molto lunga, e non finisce né a Napoli né in Campania. Intanto c'è A2A, azienda di Milano e Brescia, che gestisce - controvoglia: glielo ha imposto Berlusconi - un ferravecchio: l'inceneritore di Acerra, che funziona a metà, e male, un giorno sì e l'altro no.

Poi c'è Impregilo - sede sociale a Sesto San Giovanni, provincia di Milano - che l'ha costruito e che ha riempito la Campagna con 8 o 10 milioni di tonnellate di ecoballe indistruttibili, con l'intento di lucrare sugli incentivi concessi all'incenerimento. Poi c'è la Protezione Civile del fu Bertolaso, che ha ereditato, insieme a quelle montagne di ecoballe e al «ferrovecchio», sette Stir (ex-Cdr) che avrebbero potuto liberare la regione dalla necessità di fare nuove discariche, più l'impegno a costruire altri tre - poi quattro - inceneritori oltre che undici discariche; e che ne ha realizzata invece una sola, quella di Chiaiano, controllata dalla camorra, dopo aver governato la regione per oltre due anni con l'aiuto dell'esercito e lasciato in eredità un disastro tre volte peggiore di quello che aveva trovato al suo arrivo. Ma permettendo per due anni - e ancora adesso - a Berlusconi di menar vanto di aver liberato la Campania dai rifiuti. Tutto questo Napoli e la Campania lo devono anche alla Lega.

Il programma di De Magistris non fa una piega. Se Salerno ha raggiunto il 75% di raccolta differenziata in meno di un anno, non si vede perché non lo possa fare anche Napoli, dove la nuova Giunta può contare su una straordinaria mobilitazione popolare, sul concorso di parrocchie, associazioni e comitati e sulla nausea per 16 anni di commissariamento trascorsi in mezzo ai rifiuti. Quanto agli inceneritori, se persino l'avv. Pecorella, Presidente della Commissione parlamentate sul crimine organizzato nel settore dei rifiuti, quando va in Germania scopre che gli inceneritori non si fanno più e sono una tecnologia del secolo scorso, i lamenti dei mille columnist che invocano nuovi inceneritori per risolvere un problema che è solo il frutto di una malagestione - che ha coinvolto, in misura gravissima, anche la società Asìa e la passata amministrazione comunale - sono un ennesimo esempio di ignoranza, disinformazione e malafede dei media italiani.

Ma come affrontare l'emergenza attuale? Dove sversare i rifiuti delle strade di Napoli in attesa che la raccolta differenziata li riduca di tre quarti e compostaggio, trattamento meccanico ed estrusione (un sistema che permette di recuperare fino all'ultimo grammo il residuo) realizzino un riciclo totale? In provincia di Caserta, a Parco Saurino, terreno riconducibile alla proprietà della famiglia Schiavone, c'è da anni - ne ha parlato anche Report - una discarica vuota da 300mila metri cubi (estensibile a 600mila) che nessuno osa toccare. Non l'ha fatto De Gennaro (ex capo della Polizia e futuro capo dei Servizi segreti, mandato a Napoli da Prodi), che ha preferito aprire due nuove discariche illegali, che stanno franando, nelle province di Benevento e di Avellino e trasformare in «depositi temporanei», ma perpetui come le ecoballe, numerosi edifici, tra cui un impianto di compostaggio nuovo di zecca nella vicina San Tammaro; che in questo modo è stato mandato in malora. Non lo ha fatto Bertolaso, che aveva a disposizione l'esercito, miliardi di euro, e che ha preferito aprire una nuova discarica - di 11 che ne aveva in programma - nel cuore di un'area urbana protetta, accanto a un ospedale e a un insediamento residenziale grande come una città. Non lo hanno fatto Bassolino, né Caldoro, né i quattro prefetti che si sono succeduti al comando del commissariato, né lo ha mai chiesto la Jervolino. Eppure, anche se la soluzione del decennale problema dei rifiuti campani non si risolve certo con una discarica, le molteplici «emergenze» che hanno tormentato la regione avrebbero potuto essere evitate utilizzandone una che esiste già. Perché nessuno ha mai proposto di usare quella discarica? E non è il caso che ora De Magistris ne chieda conto al Governo? E non è il caso di fare almeno una interrogazione parlamentare?

Berlusconi ha annunciato il quarto dei miracoli con i quali, nel giro di pochi giorni, libera dai rifiuti Napoli e la Campania. I precedenti tre sono andati male; la spazzatura non se ne è andata dalle strade, oppure è ricomparsa dopo qualche mese. Qualcuno - per esempio il manifesto - lo aveva previsto fin dai primi mesi del suo governo. Non era difficile: Bertolaso non stava facendo altro che accumulare i rifiuti in discariche - illegali - che presto si sarebbero riempite. Mentre venivano trascurate, ma anche ostacolate, le misure di un ciclo «virtuoso» dei rifiuti: riduzione alla fonte, promozione del riuso, raccolta differenziata spinta, compostaggio - domestico, in impianti o in fattoria - della frazione organica; impianti per il recupero degli imballaggi; revamping degli impianti per la separazione, il trattamento e il recupero della frazione indifferenziata; studi - perché nulla se ne sa; nemmeno quante sono realmente - per risolvere il problema delle ecoballe; bonifica delle zone - ma si tratta di due intere province! - devastate dai rifiuti tossici ad opera della camorra; misure per prevenire il ripetersi di quelle pratiche; ma, soprattutto, una collocazione alternativa per due terzi degli oltre 25mila addetti campani al ciclo dei rifiuti (almeno il triplo del necessario), assunti o abbindolati con l'idea che la gestione dei rifiuti fosse un pozzo senza fondo in cui sprofondare senza alcun progetto, oltre ai residui dei nostri consumi, anche gli scarti di una gestione dell'occupazione dissennata.

Unico obiettivo strategico del governo, come nei devastanti 14 (allora) anni di commissariamento (di cui quasi 6 sotto la diretta responsabilità dei precedenti governi Berlusconi), la corsa agli inceneritori: il deus ex machina a cui affidare una sparizione dei rifiuti di cui non si sa più come bloccare la crescita: quattro, o cinque, oppure tre, di nessuno dei quali sono stati ancora stabiliti progetto o localizzazione definitiva. E' solo stato messo in funzione, con fanfare, grancassa e passaggi di mano complessi e secretati, l'inceneritore di Acerra, il cui progetto è vecchio di 50 anni e che funziona un giorno sì e l'altro no.

Eppure, per oltre due anni, a Berlusconi è stato accreditato il «miracolo» della scomparsa dei rifiuti campani: non solo dai suoi supporter, ma anche da avversari che hanno preso per buona la propaganda del governo senza fare inchieste né avere un'idea del problema: dai maggiori quotidiani nazionali, che hanno più volte tributato ampi riconoscimenti al governo, ai dirigenti del Pd, che ha approvato tutti i disastri perpetrati da Bertolaso. E questo, nonostante che in Campania, nel 2008, fosse all'opera un forum rifiuti a cui partecipavano decine di organismi di base, di associazioni del volontariato, i sindacati, le associazioni imprenditoriali, le camere di commercio, che di idee e informazioni in proposito ne stava producendo a iosa.

Vediamo per esempio che cosa scriveva il 6 agosto 2008 su la Repubblica Tino Iannuzzi, segretario regionale del PD campano: «Abbiamo giudicato con favore la nomina da parte del governo, del sottosegretario Bertolaso, figura autorevole di dirigente dello stato e di uomo delle istituzioni. Il suo operato, in proficua e leale collaborazione con la regione e gli enti locali, è stato intenso e positivo con interventi emergenziali e urgenti, che hanno consentito il superamento della fase più acuta della crisi, con la rimozione dei rifiuti dalle strade». Nemmeno accorgersi che il grosso della rimozione dei rifiuti era stata già realizzata - con metodi più che discutibili - dal precedente commissario De Gennaro sotto il governo Prodi! E, prosegue Iannuzzi: «Abbiamo sostenuto con determinazione le scelte dei siti per la localizzazione di nuove discariche e degli impianti necessari per un ciclo moderno e completo di gestione dei rifiuti. Simbolicamente (sic!) abbiamo detto e ripetiamo che sindaci del Pd con la fascia tricolore non saranno mai alla testa di proteste popolari per contestare le decisioni... Ci siamo posti l' obiettivo di lavorare, nella conversione del decreto legge sui rifiuti». E' il decreto che oltre ai quattro inceneritori e alle dieci discariche - tre delle quali persino Berlusconi è stato costretto a annullare, perché contrarie alla legge, alla salute e al buon senso - autorizzava le discariche campane ad accogliere anche rifiuti tossici - quelli fino ad allora sversati nei Regi Lagni del Casertano - e gli impianti di depurazione degli scarichi civili ad accogliere anche reflui industriali; smantellava gli impianti di separazione del secco dall'umido e di trattamento di quest'ultimo, perché tutto potesse finire negli inceneritori, la cui capacità era sovradimensionata proprio per evitare la raccolta differenziata; non stanziava alcun fondo per questa - anche se fissava al 2010 (ormai trascorso!) l'obiettivo del 50 per cento - né per il compostaggio della frazione organica. E bravo Iannuzzi!

Che così continuava: «E' stato il Pd, con l'emendamento del sottoscritto approvato in commissione mmbiente della camera, a favorire la concessione degli incentivi Cip6 per i termovalorizzatori di Salerno, Napoli e Santa Maria La Fossa. Su questo tema ostico i parlamentari campani del Pd si sono battuti con coraggio e forza, nel partito e nella discussione in aula per la concessione, in via straordinaria ed eccezionale, di contributi indispensabili per superare le tante e rilevanti difficoltà che ostacolano da noi la costruzione dei termovalorizzatori». Due anni dopo è uno degli esponenti di punta del Pdl, Gaetano Pecorella, presidente della commissione parlamentare di indagine sulla presenza della malavita organizzata nel ciclo dei rifiuti, a spiegare che la partita degli inceneritori avrebbe dovuto essere chiusa da tempo: « residuale, perché si dovrà puntare sul riutilizzo dei materiali, sviluppando la fase del recupero. E' l'obiettivo, per esempio, che hanno in Germania: quello di arrivare al 90 per cento di riutilizzo. L'avvenire è questo». (Liberal, 20.10.2010).

Perché allora insistere sugli inceneritori? Per incassare la rendita degli incentivi Cip6, che l'Unione europea ha messo al bando. E chi se ne frega se i rifiuti restano per strada per qualche anno ancora. Sugli inceneritori passano anche, a volo radente sostanziose tangenti su cui in Campania la componente del Pdl più direttamente legata alla camorra sta mettendo le mani, con la loro assegnazione alle amministrazioni provinciali che controlla. Altro che mezzo per eliminare dalla gestione dei rifiuti la camorra, come hanno sempre sostenuto gli inceneritoristi ad oltranza! Leggere, per saperne di più, il libro La Peste di Tommaso Sodano. E per finire, Iannuzzi non fa una parola sugli «esuberi» del settore; il che, per un partito che dovrebbe occuparsi dei lavoratori, sembra una grave dimenticanza.

Dunque, se siamo arrivati a questo punto (discariche piene, impianti di compostaggio e di trattamento (Stir, ex Cdr) chiusi o fuori uso, raccolta differenziata, con poche significative eccezioni, a terra, consorzi e comuni indebitati fino al collo e impossibilitati ad avviare un ciclo virtuoso, migliaia di lavoratori a rischio di licenziamento) lo dobbiamo non solo a Berlusconi e Bertolaso, ma anche al Pd, che in materia (ma non solo) la pensa esattamente come loro.

Così, tra le scelte del Pd spicca anche la gestione dissennata dell'Asìa, l'azienda di igiene urbana di Napoli. Certo, la situazione ereditata dal management nominato dalla giunta Iervolino all'inizio del 2008 non era delle più rosee: raccolta differenziata quasi a zero, mezzi vecchi e non funzionali, personale anziano, in larga parte in subappalto, mancanza - come ovunque, in Campania - di impianti di compostaggio; scarsità di risorse liquide e forte indebitamento. Ma in due anni la raccolta differenziata su tutto il territorio cittadino avrebbe potuto venir organizzata. Decine e decine di comitati, di associazioni, di parrocchie e molte municipalità erano pronte a dare una mano (e avevano dimostrato una certa efficacia nei giorni più duri dell'emergenza). Salerno è riuscita in un anno a passare dal 14 al 70 per cento; Napoli è ancora sotto il 20, procede con passo da lumaca ed è anche tornata indietro. Perché Asìa ha puntato tutto su quello che chiama «chiusura del ciclo», cioè sull'inceneritore per bruciare tutto subito: prima cercando una partecipazione in quello di Acerra; poi aspettando quello di Napoli.

Nel frattempo non ha costruito nemmeno una stazione ecologica per i rifiuti ingombranti (li potete vedere per strada in tutte le «cartoline» televisive di Napoli; nemmeno un impianto di compostaggio (per cui c'erano due progetti già pronti); ha avuto in gestione gli impianti di separazione secco-umido di Tufino e Giugliano: il primo quasi nuovo e il secondo (dove c'è stata anche un infortunio mortale) appena ristrutturato; e li ha mandati in malora. Adesso utilizza parzialmente quello di Santa Maria Capuavetere, in provincia di Caserta, che funziona a pieno ritmo: il che significa che quegli impianti possono essere rimessi a nuovo. Ha gestito in modo demenziale, risparmiando sulle coperture in terra dei rifiuti sversati, la discarica Sari di Terzigno, che adesso le è stata giustamente sottratta. Così non sa più dove sversare; e quindi non può neanche raccogliere. Per i conferimenti dipende interamente dall'amministrazione provinciale in mano al PDL di Cesàro e Cosentino, che, in vista delle elezioni, hanno tutto l'interesse a far marcire la situazione per addossarne la responsabilità alla Giunta «di sinistra» di Napoli.

Poi c'è il problema delle ecoballe: nessuno ne parla, ma c'è quasi un miliardo di garanzie bancarie (con istituti di primaria rilevanza nazionale) affidati a quel mucchio di rifiuti come fossero altrettanti barili di petrolio (e lo diventeranno se si farà un numero sufficiente di inceneritori per smaltirle beneficiando degli incentivi CIP6). Ma se dovessero venir smaltite altrove, a pagamento, si trasformerebbero in un costo astronomico di almeno un paio di miliardi. Così, finché la cosa non sarà chiarita, a tenere in sospeso la vicenda dei rifiuti campani, oltre alla camorra e all'inettitudine di molte amministrazioni locali, ci sarà anche un pool di banche.

Infine c'è l'esercito, che continua a «presidiare» discariche e inceneritore. I militari in servizio vengono pagati (Ministero della Difesa) come se fossero in missione in Afghanistan a rischiare la vita. Ma, controllando le discariche, sanno dove portare i rifiuti che molti Comuni sono costretti a tenere per strada perché non hanno a disposizione impianti di conferimento. Così non è raro vedere squadre di decine di militari prelevare un cumulo di rifiuti stradali per cui basterebbero due addetti alla nettezza urbana. Anche per questo l'emergenza non finirà molto presto.

Nell'immediato, una soluzione per superare l'emergenza (e poi procedere subito su tutti gli altri punti) ci sarebbe: a Parco Saurino, in provincia di Caserta e in terra di camorra, c'è una discarica vuota da 300mila metri cubi (ampliabile fino a 600). C'è da anni e avrebbe potuto evitare anche l'emergenza del 2008, se fosse stata messa a disposizione. Invece è rimasta vuota per drammatizzare la situazione campana su cui Berlusconi stava conducendo la sua vittoriosa campagna elettorale. Adesso Berlusconi sostiene che qualcuno ostacola i suoi piani. Sa di che cosa parla. C'è qualcuno, nel suo stesso partito, molto interessato a mantenere le mani sui rifiuti. Costui non vuole levargli le castagne dal fuoco per fargli riuscire di nuovo il «miracolo»: fino a che, per lo meno, non gli saranno state consegnate le chiavi di tutto il ciclo dei rifiuti: cominciando dalle deroghe sulla tracciabilità dei rifiuti, che ha tanto fatto arrabbiare (per finta) lo pseudo ministro Prestigiacomo (www.guidoviale.blogspot.com)

La recente scoperta che alcune iniziative di edilizia residenziale e commerciale di Milano sono state previste su terreni che nascondevano nel sottosuolo discariche di rifiuti industriali, ripropone un grave problema ambientale sempre accantonato che, silenzioso e nocivo, riemerge continuamente.

L'industria, soprattutto chimica e metallurgica, è basata sulla trasformazione di materie prime naturali - petrolio, carbone, minerali, rocce, eccetera - nelle merci volute: plastica, acciaio, carbonato sodico, alluminio, gomma, eccetera. Inevitabilmente tale trasformazione è accompagnata dalla formazione di scorie e residui; quelli gassosi finiscono nell'atmosfera e lì si disperdono, ma quelli liquidi e quelli solidi finiscono nel terreno e spesso lì rimangono per tempi lunghi e lunghissimi. L'industria, nata nella metà dell'Ottocento, all'inizio si è insediata addirittura nel centro delle città: a Milano le prime fabbriche chimiche erano in pieno centro, lungo i canali che attraversavano la città; poi a poco a poco, soprattutto dall'inizio del Novecento, le fabbriche si sono spostate alle periferie, fuori dal centro storico.

Nella loro rapida diffusione alcune industrie sono sorte, poi fallite, poi sostituite da altre; sono cambiati i processi produttivi, le materie prime, le merci prodotte e sono cambiate e si sono stratificate nel sottosuolo le scorie.

Le scorie non sono corpi morti e inerti; alcune subiscono, a contatto con le acque sotterranee, trasformazioni e reazioni che ne modificano la pericolosità e ne aumentano la mobilità al punto che talvolta riemergono in superficie col loro carico di veleni.

Il caso più famoso e drammatico è quello della cittadina di Love Canal, vicino alle cascate del Niagara: un canale abbandonato fu utilizzato, negli anni cinquanta del secolo scorso, come discarica di rifiuti tossici di una vicina industria chimica. Il tutto fu ricoperto di terra e dimenticato; poi il terreno fu venduto al comune di Niagara Falls che vi costruì sopra un quartiere residenziale e una scuola. Nel 1976 le piogge intense hanno allagato la discarica e hanno portato in superficie molte sostanze velenose che hanno provocato malori e malattie negli abitanti e nei bambini. L'evento scandalizzò l'America; gli abitanti furono fatti sloggiare, le case e la scuola furono abbattute, e il governo si decise ad emanare leggi per la bonifica delle zone contaminate, con forti investimenti e costi pubblici. Poco dopo un caso simile di terreno contaminato da sostanze tossiche, portate in superficie da un'alluvione, colpì la cittadina americana di Times Beach.

Di fronte a questi e simili eventi i paesi europei si decisero ad emanare norme per la bonifica delle zone contaminate da rifiuti e scorie industriali pericolosi. In Italia si intervenne con tutta calma, dopo il 1998, e soltanto nel 2001 fu pubblicato un elenco delle zone contaminate di importanza nazionale, con l'indicazione delle sostanze nocive presenti; vi sono poi altre zone da bonificare indicate dalle Regioni e altre ancora; in tutto sono state stimate in 4400 le aree industriali contenenti nel sottosuolo rifiuti tossici e di queste soltanto il 10 percento risulta bonificata.

Un rapporto della Legambiente intitolato: "La chimera delle bonifiche", ha denunciato la lentezza delle operazioni di messa in sicurezza delle zone inquinate; le stesse operazioni di bonifica, tecnicamente complicate e costose, vengono rallentate da infiniti contenziosi con i proprietari dei suoli che sono poi spesso le imprese che vi hanno scaricato i propri rifiuti nocivi. Spesso i suoli abbandonati dalle industrie sono attraenti per le speculazioni edilizie e vengono venduti senza sapere, o facendo finta di non sapere, che cosa c'è sotto.

Eventi come quello ricordato, alla periferia di Milano, non sono rari; qualche tempo fa è stata denunciata la costruzione di edifici pubblici e privati sulla discarica di scorie industriali tossiche a Crotone in Calabria. Per evitare i danni e i relativi costi occorrono varie cose.

Prima di tutto occorre conoscere dove le industrie, che si sono succedute sul territorio italiano nel secolo e mezzo dell'industrializzazione italiana, hanno scaricato le proprie scorie e che cosa queste contengono; un compito difficile che richiederebbe una indagine sulla localizzazione delle vecchie fabbriche, sulla conoscenza delle materie prime utilizzate, delle merci prodotte e dei residui che ciascun ciclo produttivo ha generato. Di molte attività industriali si sono persi i documenti, perfino spesso si sono perse le tracce, e nessuno saprà mai quali materie prime sono state usate, senza contare che, nel corso della sua vita, una fabbrica, per lo stesso ciclo produttivo, usa materie prime differenti, provenienti da differenti paesi.

Spesso i caratteri delle materie prime e delle merci prodotte e delle relative scorie non era nota non solo alle pubbliche amministrazioni, che pure avrebbero dovuto vigilare su quello che avveniva nel loro territorio, ma alle stesse imprese e ai tecnici e ai lavoratori. Le cose si aggravano continuamente da quando si stanno diffondendo le industrie che "trattano" i rifiuti di altre industrie, residui e scorie di cui non sanno niente per cui finiscono nel sottosuolo i rifiuti tossici del trattamento di altri rifiuti tossici.

La più utile celebrazione dei 150 anni dell'Italia unitaria, che sono anche quelli dell'Italia industriale, consisterebbe nella mobilitazione di storici, chimici, ingegneri, merceologi, geografi per ricostruire la storia e la geografia delle fabbriche, dei processi produttivi e della localizzazione e natura dei loro rifiuti. Solo con una simile indagine si possono avviare delle serie operazioni di bonifica che richiederebbero il lavoro di specialisti di discipline che non si sono mai insegnate in nessuna università: la scienza e la tecnica dei rifiuti industriali e del loro trattamento. Solo così si evitano futuri costi e dolori.

Questo articolo è pubblicato contemporaneamente sulla Gazzetta del Mezzogiorno

Invece di dare risposte sensate, la consorteria che controlla il Pdl campano - e non solo campano - si sta scannando per accaparrarsi i milioni che Berlusconi ha promesso, con un decreto che il presidente Napolitano dovrebbe promulgare senza averlo ancora nemmeno visto. E comunque dobbiamo sapere che la soluzione non verrà certo da lì.

A sette mesi dalla visita della delegazione del parlamento europeo, che aveva constatato il disastro provocato da 14 anni di gestione commissariale dei rifiuti campani e dai due di gestione Bertolaso, è ora la volta di una delegazione della Commissione europea, il cui responso è molto più gravido di conseguenze; perché non potrà che confermare il blocco dei finanziamenti Ue determinato da una procedura di infrazione nei confronti dell'Italia. Il capodelegazione ha già dichiarato che rispetto a due anni fa niente è cambiato (il che non è esatto, perché la situazione si è ulteriormente aggravata) e presto la Commissione europea dovrà prendere atto di quello che si è finora rifiutata di ammettere: e cioè che le numerose denunce dei molti comitati che si sono rivolte a lei e al parlamento europeo sono pienamente fondate; e che le smentite del governo e di Bertolaso, secondo cui tutto era in via di riordino e l'emergenza era stata superata, erano sonore balle.

Il disastro è infatti completo, ma le strade per porvi rimedio sono ormai chiuse. Le province di Salerno, Benevento e Avellino stanno meglio; la raccolta differenziata ha fatto dei passi avanti; ma sono senza impianti di compostaggio e le loro discariche, riempite dai rifiuti della provincia di Napoli, sono quasi piene. La provincia di Benevento ha deciso di costruire a Casalduni una struttura che ricalca il centro riciclo di Vedelago, il che permetterà di riciclare tutto quanto residua dalla raccolta differenziata: un passo importante verso l'obiettivo "rifiuti zero". Ma le province di Napoli e Caserta sono al tracollo: i rifiuti si accumulano per strada; Asìa, l'azienda di igiene urbana di Napoli, ma come lei molti altri comuni, non hanno né i mezzi né il denaro per raccoglierli, per pagare i lavoratori, per mettere in campo raccolte differenziate di emergenza (Bertolaso ha lasciato le casse vuote e una montagna di debiti). Aspettavano i "termovalorizzatori", perché l'idea è sempre quella di buttare negli inceneritori il rifiuto tal quale, come si è fatto fino ad ora nelle discariche.

Berlusconi è stato costretto a cancellare le discariche su cui Bertolaso contava per continuare a nascondere il disastro che ha imbastito, e ora non c'è più impianto in grado di accogliere più rifiuti di quanti già non ne ingoi; i depositi "temporanei", aperti nei luoghi più contaminati dai sedici anni della passata gestione commissariale, rigurgitano e nessuno lascia più passare i camion della "munnezza".

Ma non la vogliono nemmeno le altre regioni (con l'eccezione della santa Toscana): è la terza volta che dalla Campania si invoca l'altrui solidarietà «per l'ultima volta». Gli Stir, già Cdr, i sette impianti di trattamento meccanico biologico che, se fossero stati fatti funzionare, avrebbero potuto evitare il disastro (hanno una capacità superiore a tutta la produzione di rifiuti urbani della regione) sono fermi: intasati dai rifiuti accumulati al loro interno: prima (gestione Impregilo) per produrre più ecoballe possibile, per lucrare gli incentivi CIP6 quando fossero stati pronti gli inceneritori; poi, a partire dalla prima gestione Bertolaso (2006), per incuria e per far credere che tutto fosse risolto. L'inceneritore di Acerra funziona male e a singhiozzo. Ma fino a quando saranno pronti i tre (o quattro) inceneritori che Bertolaso non è nemmeno riuscito a far progettare in due anni e mezzo di potere assoluto e incontrastato, dove andranno mai i rifiuti campani? All'estero? Mancano i soldi per pagare queste spedizioni, già costate all'erario di tutto il paese 500 milioni di euro (dei due miliardi sperperati dai 12 commissari in forza dal 1994).

Sarebbe ora di dare voce e poteri ai tanti comitati che si sono battuti e si battono contro questa gestione dissennata. La riconversione ambientale può partire da qui.

L'icona è tratta da http://img9.imageshack.us/img9/2039/1216224867992anastasia0.jpg

Le mamme vulcaniche hanno vinto: Berlusconi, Bertolaso e la loro corte dei miracoli hanno perso. Ha vinto la lotta dura. Cortei e manifestazioni a ripetizione non avevano ottenuto niente; quando sono bruciati i compattatori, Terzigno è balzata al centro dell'attenzione. Un brutto precedente per il Governo; una indicazione ineludibile per chi ha delle rivendicazioni da portare avanti.

Ora, oltre alla discarica Cava Vitiello, non si farà neppure quella di Serre: due siti su cui il governo Berlusconi si era impegnato addirittura con una legge (unico caso al mondo in cui i siti delle discariche vengono nominativamente indicati per legge). Per questo bisognerà tornare in Parlamento, abrogare la L. 213 (recepimento del DL. 90), o una parte di essa, e farne una nuova. Speriamo che questa volta la cosiddetta opposizione non dia carta bianca al governo come ha fatto nel 2008.

Ma dove porterà Berlusconi i rifiuti che non deve più sversare a Terzigno e a Serre? Poiché le discariche di Ariano Iripino e Savignano (aperte illegalmente da De Gennaro con Prodi), quella Chiaiano (aperta illegalmente da Bertolaso) e quella di Ferrandelle (già esistente, ma inutilizzata all'epoca dell'emergenza del 2008: serviva ad acutizzare la tensione per far vincere Berlusconi; infatti è in terra di camorra) sono quasi piene, bisognerebbe aprire quella del Piano del Formicoso (prevista anch'essa dalla L. 213), ancora da costruire, ma molto capiente; contro cui a suo tempo c'è già stata una mobilitazione popolare, con i sindaci e Vinicio Capossela, tanto da costringere Berlusconi a promettere (come ha cercato di fare anche a Terzigno): «Resta nella lista, ma sarà l'ultima!» Adesso torna a essere la prima.

Perché, al di fuori delle discariche, in venti mesi di poteri straordinari Bertolaso non ha fatto niente; e quello che aveva programmato è demenziale. Che cosa prescrive la L. 213/08? Politiche di riduzione: zero. Raccolta differenziata: al 50% entro il 2010 (il tempo scade!). Ma chi doveva farla? I Comuni. Con che cosa? Con fondi del commissario che non sono mai arrivati (tranne ad alcuni Comuni, che li hanno spesi bene: vedi Salerno, passato dal 7 al 70% in un anno). Ma poi, una volta che il Commissario avesse levato le tende, la palla passava alle Province, che in base alla legge regionale 40 e successive modifiche (in vigore dal marzo 2008) avrebbero dovuto gestire tutto il ciclo dei rifiuti, compreso il rilevamento del personale dei consorzi, addetti - dal 1998 - alla raccolta differenziata. In venti mesi un commissario avrebbe dovuto mettere le Province in grado di farla, la raccolta differenziata: fondi, organizzazione, impianti, personale selezionato in modo da assegnare alla gestione dei rifiuti solo quello adatto per condizioni psicofisiche ed età, destinando ad altre attività - da concordare con la Regione - gli esuberi. Invece, niente. Bertolaso se ne è andato - per poi tornare, con la sua felpa dai bordini tricolore, quattro giorni fa - lasciando dietro di sé il deserto. In compenso Maroni ha commissariato uno dei pochi (in realtà, molti) sindaci che la raccolta differenziata la facevano sul serio, perché si è rifiutato di trasferire le sue competenze a un consorzio assolutamente inefficiente.

Andiamo avanti: trattamento dei rifiuti raccolti. La legge 213 non prevede impianti di compostaggio pubblico: di quelli che già c'erano, uno, quasi pronto (S. Tammaro), era stato usato dal precedente commissario come «deposito temporaneo di rifiuti» e riempito di ecoballe che sono tutt'ora lì; gli altri due non erano mai stati collaudati e ancora oggi non sono in funzione (i comuni virtuosi nella raccolta differenziata dell'organico pagano 200 euro a tonnellata per spedire la frazione in Veneto o in Sicilia). La legge poi prevede la chiusura dei sette impianti ex CDR che dovrebbero dividere la frazione indifferenziata residua (al massimo il 50%, secondo la legge) in secco e umido, stabilizzare quest'ultimo per portarlo in discarica senza produrre odori e infestazioni di ratti, insetti e gabbiani; e avviare a «termovalolorizzazione» (cioè incenerimento) il resto: non più, quindi, di metà della metà dei rifiuti prodotti ogni giorno in Campania (che sono 7.500 tonnellate). Per legge, gli ex CDR (nuovi e costruiti con fondi Ue) avrebbero dovuto essere venduti come rottame, o trasformati in impianti di compostaggio, se un privato, dopo averli liberati dai rifiuti organici non trattati accumulati per anni sulle linee di stabilizzazione (nei cui miasmi erano costretti a lavorare gli addetti), se ne fosse assunto il rischio. Quindi?

Quindi l'intera produzione di rifiuti era destinata all'incenerimento senza selezione o pretrattamento. Per questo la legge 123 prevedeva la costruzione in Campania di ben quattro inceneritori (poi diventati cinque, quando Berlusconi si è reso conto che in un inceneritore «normale» le ecoballe non avrebbero mai potuto venir bruciate): con una capacità di incenerimento superiore a tutta la produzione di rifiuti della regione. L'incenerimento sarebbe stato finanziato dagli incentivi CIP6: quegli incentivi, già prorogati in violazione della normativa europea per l'inceneritore di Acerra (e per questo Impregilo, l'impresa costruttrice, aveva dato le sue ecoballe in pegno, come se fossero barili di petrolio, alle banche; che ora si aspettano il guadagno promesso); gli stessi incentivi che il Pd aveva poi proposto di estendere a tutti gli impianti campani (proposta subito accolta da Berlusconi).

Ma poiché gli inceneritori erano - e sono - ancora da costruire e quello di Acerra non era - e non è ancora - a norma, nel frattempo i rifiuti dovevano per forza andare in discarica; ovviamente indifferenziati, dato che gli impianti di trattamento dovevano essere chiusi. Quando si è finalmente accorto che il ferrovecchio di Acerra non avrebbe mai potuto smaltire i rifiuti giornalieri e i milioni di eco balle che gli erano destinati, Bertolaso, cambiando rotta senza cambiare la legge, ha ribattezzato «Stir» i Cdr, trasformandoli in tritattutto per sminuzzare - senza separazione - i rifiuti indifferenziati prima di mandarli in discarica o ad Acerra: «Merdaccia» chiamava questo materiale Marta Di Gennaro, la collaboratrice di Bertolaso, che li spacciava per rifiuti «stabilizzati» e che per questo era stata prima arrestata e poi salvata dalla Procura di Roma. È proprio il materiale contro cui sono insorti gli abitanti del Parco del Vesuvio.

Allora, siccome tutto sarebbe finito in discariche, la L. 213 ne prevedeva ben 11 (poi diventate 12), di cui: quattro in aree protette (cosa vietata da una precedente legge mai abrogata); due già costruite da De Gennaro, in aree geologicamente a rischio (infatti franano) e uno in area di camorra (famiglia Schiavone), dove avrebbe dovuto sorgere anche il quarto inceneritore. E poiché i rifiuti indifferenziati generano percolato (non «pergolato» come ha detto Berlusconi, che lo ha confuso con il compost), e la camorra ci infila dentro tutte le schifezze che vuole, la legge 213 prevede anche che il percolato possa essere trattato in impianti di depurazione degli scarichi civili (cosa vietata e pericolosissima) e che discariche e inceneritori potessero accogliere anche rifiuti tossici industriali: cosa che è effettivamente avvenuta. Insomma, la gestione Berlusconi-Bertolaso dell'emergenza rifiuti ha moltiplicato il disastro campano, lasciando poi la patata bollente alle Province, ormai governate in gran parte dai satrapi del «premier». E adesso, poveruomo, dove li metterà i rifiuti, per perpetrare il suo «miracolo»?

Poveri campani; altro che poveruomo! Adesso, in attesa degli inceneritori - che, parola di Berlusconi, verranno costruiti in 18 mesi, anche se non sono stati nemmeno progettati in 30 - i rifiuti non trattati e puzzolenti verranno sparpagliati in discariche esaurite - ma in cui si può sempre cercare di stipare qualcosa in più - o illegali (leggi Camorra); a partire da quella di Giugliano, adiacente al più grande deposito di ecoballe di tutta la Galassia. E Bertolaso, che è riuscito a farsi organizzare da Santoro un Anno Zero senza contraddittorio, riprenderà a devastare la Campania; come ha fatto alla Maddalena, all'Aquila, a Giampillieri e in mille altri posti. Fino a che altre mamme vulcaniche, o di pianura, non lo fermeranno: una volta per tutte.

“Abbiamo lavorato trent’anni per avere questo parco e adesso ce lo stanno distruggendo”. Pasquale Raia, responsabile Aree Protette di Legambiente Campania, sotto il Vesuvio ha combattuto la sua battaglia. Una battaglia che ha due martiri: i consiglieri comunali di Ottaviano, l’avvocato Pasquale Cappuccio, freddato nel settembre del ‘78 mentre era in auto con la moglie e Mimmo Beneventano, ammazzato nel novembre del 1980 davanti casa. Lottavano contro la speculazione edilizia che con la complicità della camorra di Ottaviano, quella di Raffaele Cutolo, stava cambiando faccia al territorio: costruzioni abusive che portavano cave; cave che, una volta svuotate dei materiali da costruzione, chiamavano rifiuti da interrare. Un ciclo della malavita che non accettava oppositori e che aveva modificato un’area dalle enormi bellezze naturali in una periferia malconcia della città di Napoli. “Dagli anni ‘60 e fino al 1994 in questo territorio si contavano quattro grandi discariche e diverse cave più o meno legali. Nel 1995, con l’istituzione del Parco Nazionale del Vesuvio, iniziarono gli abbattimenti dei manufatti abusivi, i divieti di cava, la chiusura degli sversatoi e il ritorno graduale alla normalità”.

Il parco ha un regolamento?

Nel 2008 il Consiglio regionale della Campania ha approvato il ‘piano del parco’ con le regole di tutela dell’ambiente e delle comunità che vi risiedono.

Che tipo di tutele ci sono?

L’area è divisa in quattro zone. Le prime due, quelle più prossime al cratere, godono di una ‘protezione integrale’. La terza ha una specializzazione agricola. La quarta prevede la possibilità di costruire piccole aree a servizio turistico.

Che succede se qualcuno costruisce in un’area tutelata come quella del parco?

Se si costruisce un muretto a secco arrivano le guardie forestali e fanno un verbale. Non si può costruire e non si può cavare. Ovviamente non si potrebbe neanche aprire una discarica.

Ma rispetto alle quattro zone di protezione dove si trova la cava Vitiello?

A cavallo tra la seconda e la terza area. Nella seconda, per intenderci, per norma non si possono fare neanche le visite guidate. Invece qui hanno costruito in poche settimane anche una strada asfaltata per permettere ai camion che trasportano i rifiuti di muoversi meglio. Non sappiamo chi l’abbia costruita, con che soldi, e a che titolo. Non ha ancora passato il collaudo, ma servirà a spostare i rifiuti nel parco nazionale.

Oltre che tutelare il paesaggio, il territorio ha delle produzioni di eccellenza...

Qui ci sono le cantine del Lacryma Christi e produzioni di qualità come il “piennolo”. Il produttore di questa varietà di pomodoro, oggi, ha inscenato anche una protesta a Terra Madre, al Salone Internazionale del Gusto di Torino, per dare pubblicità a questo scandalo che dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti.

Secondo lei perché si è scelto di portare i rifiuti nel Parco del Vesuvio?

Per due motivi. Il primo è che i “buchi” lasciati dalle cave andavano ripristati prima che qualcuno immaginasse di riportarci i rifiuti. Il secondo è che la cava è gestita da A2A e Asia, la società che raccoglie i rifiuti a Napoli, e per loro è molto meno costoso portare l’immondizia sul Vesuvio che fuori regione.

«Se teniamo al 40 per cento la soglia da raggiungere per la differenziata, la termovalorizzazione non la faremo mai... Quindi se è vostra intenzione, maggioranza e opposizione, dovete abbassare la quota della differenziata». Così, secondo Repubblica del 23 settembre, l'intercettazione di una telefonata tra il ras dei rifiuti dell'Abruzzo Rodolfo Di Zio e l'Assessore regionale all'ambiente, entrambi arrestati ed entrambi in combutta tanto con maggioranza che con l'opposizione della Regione, nonché con la società lombarda Ecodeco - ma anche con il comitato anti-discariche - per costruire nella regione uno o due inceneritori e garantirsi un quantitativo di rifiuti da bruciare sufficiente ad alimentarli. Da notare che il 40 per cento di raccolta differenziata è una prescrizione di legge valida su tutto il territorio nazionale da raggiungere entro l'anno in corso, mentre al 2012 questa percentuale dovrà salire al 65 per cento; anche se per chiedere l'abbassamento della soglia si è già mosso persino l'Anci, l'associazione dei Comuni italiani: anch'esso preoccupato, evidentemente, che gli inceneritori attivi o in programma nei rispettivi territori di riferimento restino "all'asciutto".

Quello che il signor Di Zio pretendeva era una modifica della legge regionale che abbassasse la raccolta differenziata rispetto agli standard regionali, senza preoccuparsi della normativa nazionale, consapevole del fatto che con il "federalismo" le regioni, delle leggi nazionali, se ne fottono. Non ci potrebbe essere smentita più chiara e sincera - perché proferita dalla viva voce di un affarista del settore - della tesi tante volte sostenuta su giornali, in Tv, in convegni "scientifici" e in mille e mille Consigli comunali, provinciali e regionali, secondo cui raccolta differenziata e incenerimento (ribattezzato "termovalorizzazione" per indorare la pillola) non sarebbero incompatibili ma complementari; né conferma più pregnante della tesi degli ambientalisti più seri - quindi, non di quelli, come Realacci, trasformatisi in sponsor dell'incenerimento - che hanno sempre sostenuto che o si fa l'una o si fa l'altro.

Ed eccoci di fronte alla spiegazione del disastro della Campania, dove da sedici anni la raccolta differenziata è al palo (con l'eccezione di alcuni comuni "virtuosi", uno dei quali è stato anche commissariato dal ministro dell'Interno Maroni perché il suo sindaco faceva "troppa" raccolta differenziata) in attesa degli inceneritori previsti dal "piano" regionale: prima quattordici, poi tre, poi uno, poi quattro, poi cinque, poi non si sa più: quello che c'è, inaugurato in pompa magna dal duo Berlusconi e Bertolaso un anno e mezzo fa, con tanto di pernacchio agli ambientalisti, non funziona e non funzionerà mai; ma è bastato a tener ferma la raccolta differenziata e ad accumulare dieci milioni di tonnellate di ecoballe nelle campagne più fertili della penisola, perché doveva fare ricca, con gli incentivi all'incenerimento, prima l'Impregilo (la società più amata da Berlusconi, dopo Mediaset), poi l'A2A, la multiservizi dei sindaci berlusconiani di Milano e di Brescia.

Ed ecco spiegato anche il disastro dei rifiuti siciliani, in attesa anch'essi da una decina di anni di quattro inceneritori (poi cancellati; per diventare subito dopo nove; uno per Provincia; per di più in una Regione che le Province si è impegnata ad abolirle). O eccoci di fronte alla spiegazione del perché in Emilia, regione una volta nota per la sua buona amministrazione, ma da tempo controllata dal colosso Hera e dai suoi inceneritori, la raccolta dei rifiuti porta a porta si fa con il contagocce e i cassonetti stradali - molto sporchi - dominano il paesaggio urbano. O, ancora, ecco spiegato il mistero di Argelato: l'unico comune italiano che ha respinto con un referendum promosso dalle destre la raccolta dei rifiuti porta a porta, costringendo alle dimissioni il sindaco del Pd che l'aveva fortemente voluta; e questo nonostante che il Pd vi abbia ancora qualcosa come il 70 per cento dei voti. Perché Hera, nel momento di assumere la gestione dei rifiuti ad Argelato, aveva mobilitato i quadri del Pd... per mettere sotto scacco loro il sindaco.

Il fatto è che la raccolta dei rifiuti, se è differenziata e soprattutto se è "spinta" con il porta a porta, è un servizio di vicinato: richiede un rapporto diretto, un colloquio permanente, un'interazione bidirezionale tra gli utenti e l'azienda (e con gli operatori dell'azienda): per promuovere l'adeguamento continuo del servizio, la qualificazione del personale (si tratta, in fin dei conti, di un servizio front-line) e la collaborazione della cittadinanza. Più la direzione e gli interessi dell'azienda si allontanano dal territorio, più evanescente - e inefficace - diventa questo rapporto.

Hera, che è ormai una multinazionale - ha intrecciato interessi e azionariato persino con una società inglese - è un buon esempio di questo processo. I suoi interessi centrali sono la finanza, la borsa, i grandi impianti (soprattutto gli inceneritori) mentre il servizio di raccolta è sempre più delegato in subappalto a cooperative dove si risparmia sui salari, non c'è formazione, il turnover è altissimo e il coinvolgimento del personale nullo. In queste condizioni la raccolta porta a porta è solo un onere e non promette niente di buono. Quello che vale per i rifiuti urbani vale per tutti i servizi pubblici locali: gestione delle acque, trasporto e mobilità, distribuzione di gas ed energia elettrica (più si risparmia o si installano fonti rinnovabili, meno l'azienda guadagna); ma poi anche cultura, assistenza sociale, ecc. Taglieggiando l'utenza, queste grandi aziende sono anche in grado di destinare ai comuni che ne sono azionisti una quota dei loro profitti. «Io sono contento perché Hera destina un milione all'anno di dividendi al mio Comune» mi ha detto una volta un militante del Pd. Sì, ma da dove li ha presi?

In questo modo è l'azienda che controlla il comune e non viceversa. L'inceneritore di Brescia (ex ASM; oggi di A2A), la gallina dalle uova d'oro della rifiutologia italiana, è un esempio da manuale. Se il comune di Capannori (in provincia di Lucca) è riuscito a diventare un campione italiano di raccolta differenziata (e il primo a puntare sull'obiettivo rifiuti zero) è perché ha mantenuto - insieme ad altri quattro comuni di media dimensione - il controllo di un'azienda di igiene urbana con il cento per cento di azionariato pubblico: cosa che la legislazione italiana ormai mette al bando, imponendo, sotto le false apparenze della "liberalizzazione", la privatizzazione dei servizi pubblici locali.

Se ad Argelato vince invece il ritorno alla raccolta dei rifiuti con i cassonetti stradali, è perché la multiservizi Hera ha ormai assunto il comando sulle vicende politiche a amministrative del territorio.

La monnezza in Campania stava tornando da mesi, ma parlarne era vietato quasi fosse una bestemmia. Ora si scopre che non si era risolto nulla, solamente tamponato: il più delle volte nascosto

"Perché gli abbiamo creduto a Berlusconi, e mo' come se ne uscirà?". "Lo sapevo che tornava la monnezza e che Berluscone non aveva risolto niente. Questa è la politica". Sono le prime due frasi che ascolto da una radio locale che lascia sfogare i napoletani, che qui chiamano il primo ministro rendendo al singolare il suo nome: Berluscone, che avevano considerato il risolutore dell'emergenza rifiuti.

Oggi tutto è tornato come prima, ad appena un anno dal decreto legge del 31 dicembre del 2009 che sanciva la fine dello stato di emergenza e del commissariamento straordinario.

In realtà da mesi stava lentamente tornando la spazzatura ovunque ma parlare di nuova emergenza rifiuti sembrava impossibile, era vietato come la peggiore delle bestemmie. Ma il centro di Napoli è tornato a puzzare come una discarica, la provincia di Caserta ha nuovamente le strade foderate di spazzatura, la popolazione è tornata a ribellarsi per l'apertura di nuove discariche, terrorizzata che queste raccolgano non solo i rifiuti leciti ma anche quelli illeciti, come sempre accaduto nelle discariche campane.

Non si era risolto nulla. Solo tamponato. Il più delle volte nascosto. In certi territori lontani dai riflettori, lontani dall'attenzione dei media, la spazzatura non è mai scomparsa dalle strade. Ora il grande bluff si è compiuto e mostra la sua essenza. Ed a pagarne il prezzo, come era prevedibile, è il territorio, la salute delle persone, l'immagine di Napoli nuovamente carica di spazzatura. Chi diffama Napoli, verrebbe da chiedere al primo ministro? Le foto, chi racconta lo scempio? O le strade sommerse di rifiuti? La città torna a sopportare la monnezza con i fazzoletti sui nasi quando l'odore è troppo acre perché il caldo fa marcire i sacchetti. I mercati rionali costruiscono le proprie bancarelle sulla spazzatura non raccolta del giorno prima, e le persone fanno la spesa camminando tra rifiuti. Per lo più le persone ormai fanno finta di niente. Sperano solo che le montagne non arrivino ai primi piani come successo l'ultima volta.

L'alba sul nascente governo Berlusconi si era levata liberando Napoli e la Campania dalle tonnellate di spazzatura; ora il tramonto cala su un governo meno coeso e che molti vedrebbero allo sbando, dietro le piramidi di spazzatura che tornano, identiche. L'emergenza rifiuti si fondava su un problema che sembrava insormontabile. Le discariche campane erano satolle e la magistratura, valutandole illegali, le chiudeva impedendo ulteriori conferimenti. Non c'era più spazio per i rifiuti, e le strade divenivano nuove discariche, che non avevano bisogno di approvazione e che non si poteva per decreto chiudere o riaprire. Le strade, tutte, dai quartieri più popolari del centro storico e delle periferie, a quelli collinari, costituivano le naturali valvole di sfogo. Si bruciava in campagna spazzatura per ridurla in cenere, cenere meno voluminosa e più comoda da smaltire, e così facendo si è avvelenata la terra. L'intervento del governo ha reso territorio militare le discariche: alla magistratura quindi è stato impedito di chiuderle e ai cittadini di avvicinarsi per controllare cosa accadesse a pochi metri dalle loro case. Questo provvedimento, accettato come un male inevitabile, doveva servire a dare ossigeno alle amministrazioni per costruire alternative che però non sono mai partite.

La raccolta differenziata è la vera vergogna della Campania e di Napoli. Non si riesce ad organizzarla al meglio nemmeno nei piccoli centri. Si pensi ai tanti comuni dell'Avellinese e del Beneventano che hanno le campagne invase dalla spazzatura, ma sono troppo periferici per fare notizia. Ad oggi Napoli ha solo poche aree in cui viene svolta la raccolta porta a porta, l'unica davvero efficace perché implica un controllo dal basso del cittadino sul cittadino. Raccolta che per legge avrebbe dovuto raggiungere già il 40% dei rifiuti conferiti mettendo in moto un circolo virtuoso che la città aspetta ormai che arrivi dal cielo, come fosse un miracolo. La stessa Asìa, in un volantino da poco distribuito nell'unico quartiere dove la differenziata porta a porta è attiva da due anni - i Colli Aminei - , si è detta preoccupata perché il quantitativo di rifiuti indifferenziati negli ultimi mesi è aumentato, come se quel quartiere che doveva essere la testa d'ariete, la punta di diamante di un'area devastata, si fosse reso conto che i suoi sforzi e il suo virtuosismo valgono quanto una goccia in un mare di disservizi. E a quel punto a che serve differenziare. 

Meglio buttare tutto nella solita montagna di monnezza. Si sa che i termovalorizzatori non sono mai realmente partiti. Non quello di Napoli, non quello di Salerno, non quello di Santa Maria la Fossa e quello di Acerra è partito solo in parte. Anche su questo piano quindi le cose non sono andate come il governo aveva promesso e il risultato è stato il totale fallimento di un processo che non poteva contare solo sul senso civico dei cittadini. Avevano promesso di non aprire più discariche ed invece ne stanno aprendo un'altra nel parco del Vesuvio, in un'area di interesse naturalistico rarissima. L'emergenza rifiuti è stata manna per la politica campana ed è stata utilizzata per costruire un meccanismo di consulenze e appalti emergenziali. Se hai intere provincie sommerse, devi necessariamente stanziare danaro straordinario. E quindi consulenti e imprese sui quali non può esserci controllo serrato.

L'equilibrio su cui si regge il ciclo dei rifiuti in Campania è estremamente fragile. Per mandare in tilt una macchina che è tutt'altro che oleata, basta bloccare il flusso di danaro che arriva nelle casse delle provincie e dei comuni. Basta far finire i soldi in un groviglio di appalti e subappalti. A Napoli l'Asìa, l'azienda che fornisce i servizi di igiene ambientale alla città, ha circa 3000 dipendenti e affida parte dei sevizi a Enerambiente, società veneta dedicata ai servizi ecologico-ambientali e alla gestione integrata dei rifiuti, che di dipendenti ne ha 470. A sua volta Enerambiente attinge per la gestione dei rifiuti alla cooperativa Davideco che ha 120 dipendenti e agli interinali che forniscono almeno altri 150 dipendenti. In questa catena infinita di appalti e subappalti lievitano i costi e le clientele e quest'anno trascorso dal decreto di fine emergenza non è servito a mettere in moto il circolo virtuoso di cui la città aveva bisogno, ma a oliare nuovamente la macchina dello spreco e del ricatto.

Dopo l'inchiesta che ha visto Nicola Cosentino accusato dall'Antimafia di Napoli di essere stato un riferimento politico della camorra attraverso il settore rifiuti, in queste ore, sembrerebbe realizzarsi di nuovo ciò di cui si è scritto: la centralità della monnezza in Campania che arriverebbe persino, attraverso Nicola Cosentino, a configurarsi come una pistola puntata alla tempia del governo. Ovvero, come tramite di ogni rapporto tra Berlusconi e il politico casalese ci sarebbe la gestione del ciclo dei rifiuti. Nel dibattito politico di questi ultimi mesi si è fatto riferimento a come Cosentino, leader indiscusso del Pdl in Campania, avesse dalla sua molti sindaci, i consorzi, la vicinanza di imprenditori e quindi potesse formalmente, se solo lo decidesse, bloccare il meccanismo di raccolta rifiuti. Il voto alla Camera, se si crede all'ipotesi di un Cosentino imperatore nel settore dei rifiuti, con il no all'utilizzo delle intercettazioni sembrerebbe essere un dono fattogli per cercare di riportare la nuova emergenza a una "normalità" di gestione consolidata. Ma questo può saperlo solo Cosentino stesso.

Quanto ai bassoliniani, che nel settore rifiuti hanno fatto incetta di voti e clientele, certamente non risulteranno in questa fase concilianti verso la situazione e anche dal loro versante ci sarà ostruzionismo e voglia di tornare ad avere prebende e potere attraverso la crisi. O si tratta con loro o tutto si ferma. Serve ricordare che l'emergenza rifiuti in Campania è costata 780 milioni di euro l'anno. Questa è la cifra quantificata dalla Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti nella scorsa legislatura che, moltiplicata per tre lustri (tanto è durata la crisi), equivale a un paio di leggi finanziarie. In tutto questo la camorra naturalmente continua il suo guadagno che cresce ad ogni passaggio. Nei camion che serviranno alla nuova emergenza, nel silenzio caduto sul ciclo rifiuti perché i roghi nelle campagne continuano a gestirli i clan, bruciando rifiuti, sino al business dei terreni dove chissà per quanti decenni verranno depositate le ecoballe ormai mummificate il cui fitto viene pagato direttamente nelle loro mani.

Non mi stancherò mai di dirlo: se i rifiuti illegali gestiti dai clan fossero accorpati, diverrebbero una montagna di 15.600 metri di altezza,

Le attività umane possono svolgersi soltanto utilizzando beni materiali la cui unica fonte è la natura: il cibo per mangiare, il cemento per la costruzione degli edifici, il gasolio per muoversi, i tessuti per difendersi dal freddo, i ventilatori per difendersi dal caldo: tutti richiedono materiali la cui vera fonte è la natura. Anche i servizi, beni apparentemente immateriali, richiedono delle cose fisiche, materiali. Per comunicare con una persona lontana occorre usare un telefono che è fatto di plastica e di semiconduttori e che funziona perché è rifornito di elettricità che scorre su fili di rame rivestiti di plastica e viene da una centrale fatta di acciaio e cemento e alimentata con carbone, prodotti petroliferi o gas, che arrivano alla centrale attraverso navi o tubazioni, provenendo da pozzi o gallerie che affondano la radici meccaniche "nella natura".

Lo stesso vale per l'acciaio e la gomma dei mezzi di trasporto, per la carta necessaria, per l'informazione, per l'istruzione e per tutti gli altri servizi. Anche altri "beni" come la felicità, la dignità, la libertà, possono essere "goduti" soltanto se si dispone di cose materiali: una casa, acqua pulita, un lavoro, le attrezzature per essere curati se malati, la possibilità di "conoscere" attraverso libri e televisori, tutti oggetti e materie che si possono ottenere soltanto usando e trasformando le risorse biologiche e minerali della natura. Si può ben dire che ogni bene o ogni servizio della nostra vita sociale ed economica si ottiene "mediante natura". 



Sfortunatamente la natura è dispettosa: a mano a mano che ci regala qualcuna delle sue ricchezze ci punisce perché, per usarle, dobbiamo trasformarle e alla fine ci resta fra le mani qualche residuo o scoria o rifiuto di cui possiamo liberarci soltanto rimettendolo nei corpi naturali con sgradevoli effetti: possono essere gas o polveri che finiscono nell'atmosfera e poi nei polmoni, o alterano il clima; possono essere liquami che sporcano i fiumi e ci impediscono di berne le acque o sporcano il mare e ci impediscono di fare il bagno; possono essere mucchi di rifiuti solidi puzzolenti difficili da smaltire. Per attenuare i danni e disturbi provocati dalle nocività ambientali, inevitabilmente associati al godimento delle merci, e dei servizi offerti dalle merci, ogni singola persona, le imprese, i governi devono affrontare dei costi monetari per filtri, depuratori, cambiamenti tecnologici.



Per sapere quanto costano gli inquinamenti provenienti dalla produzione e dall'uso delle merci e dei servizi e su chi ricadono tali costi occorre conoscere "abbastanza" esattamente quanti chili di polveri, gas, liquami e rifiuti solidi accompagnano la produzione e l'uso di ogni chilo di benzina o di acciaio o di patate, di tessuto o di gomma, di ogni chilowattora di elettricità, eccetera. Un bel lavoro che dovrebbe mobilitare chimici, merceologi, statistici, e che dovrebbe fornire ai governanti delle corrette informazioni, se vogliono migliorare per davvero l'ambiente, se vogliono far ricadere equamente i costi in proporzione all'inquinamento che ciascun soggetto economico provoca.



Queste indagini sono l'oggetto della contabilità ambientale, uno speciale capitolo delle discipline economiche e ambientali. Si tratta di integrare le statistiche monetarie, che riportano le quantità di denaro prodotto o richiesto dall'agricoltura, dall'industria, dai commerci, dai trasporti, dalle famiglie, con statistiche sulle rispettive emissioni ambientali. L'Istituto Nazionale di Statistica italiano (Istat) in questi ultimi anni ha pubblicato delle utili tavole (se ne è parlato anche in questo giornale) nelle quali sono indicate, a livello nazionale e regionale, le quantità, in tonnellate o migliaia o milioni di tonnellate, di acidi, polveri, gas, metalli tossici, eccetera, immesse nell'atmosfera, dalle varie attività "economiche".

Tali dati sarebbero in grado di indicare ai governanti, ma anche alle imprese, se è più utile filtrare i fumi di una acciaieria o quelli di un cementificio, o se è bene obbligare per legge l'uso di carburanti meno inquinanti, o se è meglio bruciare carbone o gas naturale nelle centrali, o se è meglio eliminare i rifiuti con discariche o inceneritori. Nelle tavole ricordate la quantità di agenti inquinanti è indicata al fianco della quantità di denaro associata a ciascun settore e, ancora più importante, a quante giornate di lavoro sono associate a ciascuna attività inquinante.



Proprio nelle scorse settimane l'Istat ha fornito ulteriori informazioni pubblicando il n. 2 del 2010 degli "Annali di Statistica", un grosso volume di 462 pagine (consultabile anche in Internet), che spiega come ampliare le statistiche ambientali sotto forma di tabelle dette PIOT (Physical Input-Output Tables). In tali tabelle è indicata, oltre alla quantità dei rifiuti generati da ciascun settore economico, anche il peso dei gas atmosferici e dell'acqua, dei minerali e dei prodotti vegetali e animali estratti dalla natura, che "circolano" attraverso i vari settori economici: dalla natura, alla produzione, al consumo, ai rifiuti che ritornano alla natura nell'aria, nelle acque, nelle discariche. Le tabelle PIOT indicano quanta materia, in innumerevoli forme, per centinaia di milioni di tonnellate di merci e di rifiuti, accompagna ciascuno degli innumerevoli scambi di denaro che hanno luogo ogni anno nell'economia italiana. Poiché tutta la materia che entra nei cicli economici non può sparire e da qualche parte si deve ritrovare, tali tabelle, fra l'altro, consentirebbero di svelare tutte le attività ambientali clandestine o fraudolente.



Per avere delle tabelle PIOT continuamente aggiornate c'è ancora molto da lavoro da svolgere nella pubblica amministrazione e nelle Università e fa piacere vedere citate dall'Istat le ricerche degli studiosi di Merceologia dell'Università di Bari, impegnati da molti anni in queste indagini. C'è da sperare che il nuovo volume dell'Istat finisca sul tavolo di ministri, presidenti di regione, sindaci e assessori: dovrebbe essere un successo editoriale ! Speriamo anche che lo leggano.

Il flop della gestione emergenziale

Il piano rifiuti del governo naufraga sotto i colpi della crisi economica. Ieri è stata bloccata la contestata costruzione di una seconda discarica nel Parco Nazionale del Vesuvio. E l'emergenza, passata la campagna elettorale, è dietro l'angolo

«Il Consiglio si impegna a proporre alle autorità competenti l'esclusione della Cava Vitiello dai siti destinati alla ubicazione di impianti di discarica», si legge nel documento approvato ieri dal Consiglio Provinciale di Napoli, una svolta ambientalista che si può comprendere a pieno solo se si legge il primo punto del testo approvato: «Coinvolgere la Regione Campania per un'ulteriore rifunzionalizzazione degli impianti Stir». Tradotto per i non addetti ai lavori, non ci sono i soldi per aprire un secondo sversatoio a Terzigno, in pieno Parco Nazionale del Vesuvio, dopo quello di cava Siri, che probabilmente costerà all'Italia una nuova procedura di infrazione della Comunità europea, che probabilmente ce ne comminerà anche una terza per i Cip6, la tassa che si paga sulla bolletta dell'energia elettrica per le rinnovabili e che invece finisce nelle tasche delle multinazionali dei termovalorizzatori. La prima condanna, arrivata a marzo, per aver messo in pericolo la salute dei cittadini campani ci sta già costando circa 500 milioni di euro di fondi comunitari congelati a Bruxelles. Di più, la provincia - a cui il governo ha affidato per decreto il ciclo rifiuti - si ritrova con le casse vuote e nessuna idea di come prendere in mano lo smaltimento dei rifiuti, ma a Roma, a Palazzo Santa Lucia e Palazzo Matteotti siedono esecutivi di destra e allora non si può gridare al disastro, meglio chiedere con cortesia al presidente Caldoro di riprendersi il problema utilizzando una formula gentile come «rifunzionalizzazione degli impianti» che si traduce nel fatto che il commissariato straordinario non ha messo in piedi nessun ciclo integrato dei rifiuti. È il miracolo dell'immondizia campana, problema risolto in tempo per far vincere le destre in campagna elettorale, ritornato a galla a urne chiuse.

Tra lanci di monete da parte dei comitati civici e primi cittadini che rivendicavano il diritto a scaricare per primi l'immondizia a Terzigno, come fosse una gara, o addirittura che chiedevano la gestione di sversatoi e termovalorizzatori, provocando la rumorosa protesta dei cittadini - «andate a informarvi», «ma chi vi ha eletto?» i commenti più gentili - sono venuti fuori alcuni dati. La cava Siri, attualmente in funzione ma prossima a esaurirsi, ha una capacità di 750mila metri cubi, cava Vitiello ha una capienza cinque volte più grande, 3.500.000 tonnellate, in grado da sola di ingoiare spazzatura per quattro anni, nascondendo ancora la portata del fallimento della politica a livello nazionale e locale. Per questo il sottosegretario Bertolaso non aveva esitato a schierare l'esercito contro le popolazioni per difendere la scelta dei dieci siti da mettere a discarica. Perché la raccolta differenziata in provincia di Napoli galleggia intorno al 16%, quando per legge dovrebbe raggiungere il 65% entro il 2012. I comuni virtuosi continuano a mandare il compost in Sicilia e in Veneto quando in regione sono già pronti 12 siti di compostaggio che, misteriosamente, non entrano in funzione. Non solo, la discarica di Chiaiano è già piena a metà e l'inceneritore di Acerra, inaugurato dall'ineffabile duo presidente del consiglio & l'uomo della protezione civile, continua a non funzionare, tra nuvoloni grigi che intossicano il paese e la linea 1 che dovrà rimare ferma fino a giugno per un misterioso guasto, l'ennesimo. Bertolaso però a dicembre scorso ha dichiarato vinta la battaglia della Campania e ha tolto le tende, lasciando oltre 20 milioni di debiti e le province con l'acqua alla gola. In quanto alle bonifiche, poi, è notte fonda. Nel Parco Nazionale del Vesuvio ci sono dieci discariche abusive e centinaia non censite ufficialmente.

Il miracolo proprio non funziona e allora il consiglio provinciale prova con le buone a bussare dal governatore proponendo di «modificare, unitamente alla Regione Campania, gli atti amministrativi relativi alla attuale programmazione del ciclo dei rifiuti, da trasmettersi al Governo Centrale e al Parlamento Europeo affinché possano essere riviste le posizioni sia economiche che legislative adottate da questi ultimi Enti» per consentire «la riduzione del volume di rifiuti conferiti nelle discariche, nonché la realizzazione di impianti ecocompatibili». Sarebbe bastato ascoltare i comitati.

I COMITATI

Cava Vitiello, la farsa della Provincia di Napoli

Stamane (ieri, ndr) si è tenuta la seduta monotematica del Consiglio Provinciale di Napoli sul tema dei rifiuti ed in particolare sull'apertura della seconda discarica nel Parco del Vesuvio, la Cava Vitiello. In presidio presso la sede del Consiglio in Piazza Santa Maria la Nova si sono radunati i cittadini dei comitati dell'area vesuviana e quelli di Chiaiano e Marano. I cittadini chiedono la chiusura delle discariche di Chiaiano (Cava del Poligono) e Terzigno (Cava Sari), il "no" deciso all'apertura della discarica di Cava Vitiello nel Parco Nazionale del Vesuvio, e un piano provinciale dei rifiuti fondato sul Tmb (trattamento meccanico biologico) e sulla differenziata porta a porta. Un piano, quello proposto dai comitati, che vedrebbe la chiusura delle discariche attuali ed una uscita dall'emergenza definitiva, senza più buchi da riempire e territori da devastare. Una delegazione di circa venti attivisti della zona vesuviana e di Chiaiano e Marano è stata autorizzata ad assistere alla seduta del consiglio.

La "farsa" messa a punto dalla giunta Cesaro è cominciata ben presto con le linee guida tracciate dall'assessore all'Ambiente Giuseppe Caliendo, che ha annunciato che la Provincia intende proseguire sulla strada delle discariche e degli inceneritori. Caliendo ha aggiunto il parere negativo dell'ente di Piazza Matteotti all'apertura della discarica di Cava Vitiello. Peccato che ben presto si è cominciato a comprendere le reali intenzioni della Provincia. L'ordine del giorno presentato dai capigruppo della maggioranza è stato ben presto destrutturato dai comitati presenti in aula.

La Provincia annuncia che le attuali discariche di Terzigno (Cava Sari) e Chiaiano (Cava del Poligono) hanno un'autonomia di ancora 12/16 mesi, dando però nel caso di Chiaiano dei dati di conferimento assolutamente sbagliati. La Provincia segnala in 800 tonnellate al giorno il conferimento che secondo gli enti locali è invece di 1300 tonnellate al giorno. Ciò ci racconterebbe dei tempi notevolmente minori. La Provincia non dice apertamente quando saranno chiuse le due discariche, e addirittura per la Cava Sari parla di un utilizzo prolungato «fino al raggiungimento degli obiettivi del piano provinciale». Non solo, ma i capigruppo di Cesaro annunciano il parere contrario all'utilizzo della nuova discarica di Cava Vitiello nel Parco del Vesuvio «a condizione che vengano raggiunti gli obiettivi del piano». La cosa assurda è che la Provincia si impegna a presentare il famoso piano di cui sopra entro il prossimo 31 dicembre. Insomma tutto sarebbe subordinato al raggiungimento degli obiettivi di un piano che non esiste nemmeno.

Il consigliere provinciale del Prc Tommaso Sodano, che ha presentato un suo ordine del giorno bocciato dal consiglio, ha specificato che «la Provincia dal primo gennaio è l'ente preposto alla gestione delle discariche del territorio provinciale, dunque non si può scaricare su altri enti responsabilità diretta dell'ente».

In questo modo la Provincia dimostra di non avere la benché minima idea di come si gestisca un piano rifiuti. Nell'ordine del giorno, la maggioranza di destra della Provincia fa continuo riferimento alla Regione che però ha competenze solo sugli inceneritori. I consiglieri provinciali delle destra hanno dimostrato ancora una volta di non voler decidere per non assumersi le responsabilità davanti ai cittadini.

LEGAMBIENTE

«Il sottosegretario ha lasciato una bomba a tempo»

Un gruppo di cittadini del vesuviano circonda Raffaele Del Giudice, direttore di Legambiente Campania, all'uscita dalla Sala del consiglio di Santa Maria La Nova. Non hanno potuto assistere alla seduta straordinaria sul caso Terzigno causa posti per il pubblico limitati, ma non sono andati via. Il loro interlocutore è un volto noto tra gli attivisti antidiscarica, tra i protagonisti della video inchiesta sui rifiuti Biùtiful cauntri di Esmeralda Calabria, Andrea D'Ambrosio e Peppe Ruggiero. «Nessuna buona notizia, cosa hanno detto? E che devono dire...» spiega, il no all'apertura della seconda discarica nel Parco Nazionale del Vesuvio è una notizia di quelle che non servono a rassicurare.

Del Giudice, l'assessore provinciale all'ambiente anche oggi ha rivendicato come giusta la decisione di aprire il primo sversatoio della cava Sari. Ma lì non vigono le leggi europee per le aree protette?

La motivazione è che si trattava di un'ex discarica legale, ma è una scusa che non regge. Era stata chiusa perché non a norma con l'impegno a bonificarla e invece si sono sommati carichi inquinanti a carichi inquinanti, rendendo il ripristino dei luoghi sempre più difficile. E poi non si considera il consumo di suolo in un luogo di pregio, dove per statuto l'ente parco dovrebbe proteggere la biodiversità.

Eppure ribadiscono che lo sversatoio è a norma e non produce danni per la popolazione e l'ambiente.

È impossibile stimarne l'impatto perché la provincia è la prima a non avere gli elementi. Non hanno volumi di conferimento certi e nemmeno la caratterizzazione dei rifiuti sversati, in questo modo non è possibile individuare l'entità dei danni. Il sottosegretario Guido Bertolaso è stato bravissimo a nascondere i dati fino all'ultimo, ha imposto una coltre di silenzio militarizzando le aree così come tutto il fumo mediatico è servito a nascondere il fatto che non avevano un reale piano per i rifiuti. La sola cosa certa che ha fatto è stata individuare le zone per le discariche in modo da prendere tempo, lasciando la bomba a tempo innescata, pronta a esplodere tra quattro anni.

Una parte dei sindaci del vesuviano però continua a difendere il piano Bertolaso.

Sì, sono gli stessi che nel loro intervento in consiglio hanno confuso una discarica con gli Stabilimenti di tritovagliatura e imballaggio (sono i vecchi Cdr rimodulati per triturare e impacchettare gli scarti di talquale, ndr), sono gli stessi che fingono di non vedere che gli impianti di compostaggio ci sono, sono dodici, e non si domandano come mai non entrano in funzione. La domanda vera è una: con chi ha contrattato il piano rifiuti Bertolaso? Non con le popolazioni, allora sorge il dubbio che la controparte siano state le banche, proprietarie delle ecoballe ricevute in garanzia dalla Impregilo in cambio dei finanziamenti, le stesse che spingono per mantenere questo modello fallimentare a base di rifiuti, discariche e inceneritori tenuti in vita con i Cip6.

“È finita l’emergenza rifiuti in Campania”, ha dichiarato in conferenza stampa il sottosegretario Guido Bertolaso il 17 dicembre scorso al termine del Consiglio dei ministri che ha emanato un decreto legge in materia. È vero, se fine dell’emergenza significa il formale passaggio delle competenze dal Commissario straordinario a Regione e Province, come prevede il decreto. Ma questi lunghi 15 anni hanno provocato un tale disastro al territorio campano cui difficilmente, Regione e Province, riusciranno a rimediare.

FORMAGGI E RIFIUTI.

Basta andare nelle campagne del casertano per capirlo. E nessuna storia lo chiarisce meglio di quella dell’azienda bufalina “Cesare e Giulio Iemma”, di Pastorano, provincia di Caserta, patria del caratteristico formaggio filante. La famiglia Iemma vanta due primati: quello di gestire il primo caseificio al mondo ad aver trasformato il latte di bufala in mozzarella, ricotta, provola e burro; e quello di prima azienda ad aver introdotto la mungitura meccanica. Un’azienda che esporta in tutto il mondo, con standard di qualità massimi certificati dall’americana Food & Drug Administration, e un fatturato di quasi 8 milioni di euro al 30 novembre 2009. Un’azienda che in altri Paesi e contesti verrebbe trattata con i riguardi che spettano all’eccellenza. Ma in Italia, e in Campania, invece di essere valorizzata e protetta, è costretta a sorvegliare pezzo pezzo il territorio confinante, per evitare che vi installino impianti di stoccaggio di rifiuti, anche speciali (e quindi più pericolosi) che possono inquinare il terreno, l’aria, l’acqua.

L’ASSEDIO.

Fra le tante battaglie intraprese, una dura ormai da un anno e mezzo. Da quando gli Iemma hanno scoperto che un sito per l’assemblaggio di pannelli fotovoltaici era stato trasformato in stoccaggio di rifiuti speciali con il beneplacito di Regione e Provincia e la benedizione della chiesa locale. La storia comincia nel 2000, quando su un terreno vicino, la Curia di Capua ottiene la concessione edilizia per realizzare i capannoni per i fotovoltaici, che nel 2005 cede alla società Esogest Ambienti srl, di Casapulla, che si occupa invece della gestione integrata dei rifiuti liquidi e solidi. La società chiede e ottiene senza tanto penare le autorizzazioni per convertire l’attività. Regione e Provincia infatti esprimono parere favorevole di compatibilità ambientale, senza compiere “alcun sopralluogo tecnico necessario per acquisire una più approfondita cognizione del contesto”.

Lo dice il Tribunale amministrativo regionale al quale diciotto mesi fa si sono rivolti gli Iemma insieme ad altri imprenditori bufalini della zona, una volta smascherato l’inganno, ben coperto. Il decreto regionale di autorizzazione dell’impianto, infatti, dopo mesi dall’adozione e fino al ricorso al Tar, non era stato ancora pubblicato nel Bollettino ufficiale della Regione. Il “contesto” di cui parla il tribunale è quello di “un territorio sin dall’antichità definito felix per la fertilità del terreno” spiega Giuseppe Messina, agronomo, funzionario del ministero dello Sviluppo economico, negli anni Novanta vicesindaco di Caserta.

Una zona che ospita più dell’80 per cento del patrimonio bufalino italiano, prima per la produzione di fragole, di nettarine, seconda per la produzione di ciliegie. Conta ben 13 prodotti fra Igp, Dop e Doc, tre marchi di acque minerali conosciute in tutto il mondo” dice Messina. Il Tar ha dato ragione agli imprenditori annullando i decreti istituzionali, ma per un anno e mezzo (la sentenza del tribunale è del 6 febbraio 2008) è rimasto tutto bloccato al Consiglio di stato che solo l’11 dicembre scorso ha ascoltato la Esogest che aveva proposto appello insieme alla Regione. “La nostra terra – dice Manuela Vigliotta – è preda di continui attacchi concentrici. Qui non è solo un fatto di camorra, ma anche di mala politica, di interessi industriali. Come si fa a competere?”.

QUINDICI CHILOMETRI.

L’obiettivo è scongiurare che si estenda anche a queste terre delicatissime quella invasione di ecoballe e di tonnellate di rifiuti sversati appena 15 chilometri più in là, nei vari impianti eredità del quindicennio dell’emergenza. Fino alle ultime discariche previste dal governo nel 2008 “per legge, quindi senza alcun accertamento tecnico preventivo – afferma Lorenzo Tessitore del Coordinamento regionale rifiuti (Co.re.ri) – per far fronte proprio all’emergenza, così ci è stato detto”. “Per capirsi – dice l’agronomo Messina – il tutto sta in due Comuni, San Tammaro e Santa Maria La Fossa. Si dice, in un Comune abbiamo fatto un impianto, poi faremo una discarica in un altro. Ma si presuppone che gli impianti distino fra loro centinaia di chilometri”. Invece sono appena 320 metri quelli che separano il sito di stoccaggio di Ferrandelle nel Comune di Santa Maria La Fossa, da quello di compostaggio di San Tammaro che è affiancato alla discarica “Maruzzella 1” e al sito di stoccaggio “Maruzzella 2”.

Alle spalle c’è la nuova discarica “Maruzzella 3”, da un milione 600mila metri cubi. È la più grande in regione, aperta con un’ordinanza del presidente del Consiglio nel 2008, la stessa che sempre a San Tammaro ha previsto anche un sito di stoccaggio delle ecoballe da bruciare nel costruendo inceneritore di Santa Maria La Fossa, su cui la magistratura avrebbe scoperto la longa manus del clan dei Casalesi. Un chilometro e mezzo più avanti ci sono altre due discariche, “Parco Saurino 1” e “2”, e la vasca di “Parco Saurino 3” mai utilizzata. Alle spalle, lo Stoccaggio di ecoballe di Pozzobianco. “Insomma, nel ventricolo sinistro della produzione di elezione dell’agricoltura casertana – afferma Messina - sono state allocate 6-7milioni di tonnellate di rifiuti che costituiscono un bubbone gravissimo per l’economia, il territorio e l’ambiente”. “È evidente - dice Tessitore - che l’emergenza non è stata affatto risolta, solo spostata dalle città alle campagne”.

L’emergenza mai risolta dell’immondizia campana

La crisi dei rifiuti in Campania è iniziata nel 1994 con la dichiarazione dello stato di emergenza e la nomina del primo commissario di governo con poteri straordinari a causa dello “stato di emergenza” relativo allo smaltimento ordinario dei rifiuti solidi urbani (Rsu). L’11 febbraio 1994 l’allora presidente del Consiglio dei ministri, Carlo Azeglio Ciampi, ha emanato un decreto. Con quel provvedimento il governo italiano prendeva atto dell’emergenza ambientale che si era venuta a creare nelle settimane precedenti in numerosi centri campani, a causa della saturazione di alcune discariche. Si individuava nel prefetto di Napoli l’organo di governo in grado di sostituirsi a livello territoriale a tutti gli altri enti locali coinvolti a vario titolo e, quindi, preposto a esercitare i poteri commissariali straordinari. Lo stato di emergenza in Campania è cessato ufficialmente, dopo oltre 15 anni, in conseguenza di un decreto legge approvato dal governo il 17 dicembre 2009, che ha fissato il 31 dicembre 2009 come il termine dello stato di emergenza e del commissariamento straordinario.

In fondo al mare italiano non ci sono solo centinaia di navi affondate. I nostri fondali hanno nascosto per almeno un ventennio verità che nessun governo vuole rivelare. È il nostro un paese non solo di navigatori, ma anche di trafficanti di rifiuti, di logge massoniche più o meno coperte che sulle scorie fanno campare generazioni di imprenditori senza scrupoli, di servizi molto segreti che pensano più alla copertura degli affari sporchi che alla difesa della democrazia. Di governi impegnati - ora come nel passato - ad appoggiare accordi inconfessabili con paesi lontani, per esportare il peggior made in Italy, i rifiuti mortali della nostra industria. La storia delle navi dei veleni non è finita a Cetraro. Il caso non è chiuso, anzi, si è arricchito di nuove storie da raccontare, da passare alle generazioni più giovani. È una sorta di testimone che viene dal passato, una staffetta mantenuta in piedi dalla libertà di stampa e da quelle forze sociali che non accettano le verità di comodo. Oggi sono due mesi esatti dal ritrovamento di un relitto di una nave al largo di Cetraro, in Calabria. Il ministro Stefania Prestigiacomo ha voluto chiudere la vicenda con un sorriso, quasi ironico: quanto siete ingenui - raccontava il suo volto - avete abboccato, era solo un piroscafo affondato nel 1917. Rapida, definitiva la sua risposta. Ma dal fondo del mare la verità, a volte, torna a galla.

Settanta nomi

Questi due mesi hanno avuto il pregio di recuperare l'intera storia delle navi a perdere e delle rotte dei veleni. Sono riapparsi elenchi dimenticati, pezzi di inchieste archiviate, indagini realizzate da straordinari investigatori, come il capitano di vascello Natale De Grazia. Occorre, dunque, ripartire da questo materiale che era stato abbandonato per anni, dai nomi delle tante navi affondate in maniera sospetta, spesso con un carico dichiarato - ovvero assolutamente ufficiale - di sostanze tossiche. La Athina R., colata a picco nel 1981, trasportava solventi chimici; la Scaleni, affondata nel 1991, con nitrato d'ammonio; la Agios Panteleimon, affondata nel 1998, carica di solfato di ammonio; la Kaptan Manolis I, finita in fondo al mare a ovest della Sicilia, con un carico di fertilizzanti. E tante altre, i cui carichi spesso non erano dichiarati, oppure in apparenza sembravano contenere merci senza valore. Settanta navi, settanta storie, che il manifesto ha ricostruito, per avere un quadro complessivo della storia delle navi a perdere. Storie che da oggi sono consultabili liberamente e da tutti su un sito pensato per mantenere la memoria storica dell'intera vicenda.

Perché le navi?

Siamo stati abituati a considerare il traffico di rifiuti una attività soprattutto terrestre. La vicenda dei rifiuti dei casalesi - che iniziano ad occuparsi dello smaltimento criminale delle scorie in maniera industriale dal 1989 in poi - ha fatto conoscere l'impatto degli scarti dell'industria in Terra di lavoro, come era chiamata anticamente la provincia di Caserta. Un traffico con coperture politiche di alto livello, che - secondo la Dda di Napoli - avrebbe coinvolto anche il vice ministro dell'economia Cosentino, il cui arresto è stato chiesto l'altro ieri anche per vicende collegate al traffico di rifiuti.

Il complesso sistema del traffico di rifiuti è flessibile, non lineare, capace di adattarsi ai cambiamenti delle normative, da una parte, e alle esigenze dell'industria dall'altra. Gli anni '80 hanno rappresentato la prima fase, dove l'esportazione verso l'Africa e l'America Latina era la soluzione a portata di mano, silenziosa e conveniente. La necessità di avere una rete di armatori pronti a trasportare oltre il Mediterraneo migliaia di fusti velenosi fu la fortuna dei primi broker organizzati, di società con capitale italiano in grado di avere il contatto giusto. Nascono le rotte dei veleni, percorsi che iniziano in piccoli porti poco conosciuti e che terminano sulle spiagge africane, dove se muore qualcuno intossicato nessuno, nel mondo occidentale, se ne accorge. Ma c'è un filo che inevitabilmente riporta la traccia di quei rifiuti verso chi lo ha spediti.

Le prime rotte dei trafficanti

Gibuti, Somalia, Venezuela e Romania. Poi Nigeria: sono queste le rotte preferite dai trafficanti di rifiuti tossici. Almeno fino al 1989, fino a quando una legislazione internazionale molto permissiva lo permetteva. È uno schema che si ripete come racconta la storia della Zanoobia: c'è un ammassatore autorizzato dalla regione di turno che raccoglie i rifiuti tossici; questa paga poi un'azienda che abbia accordi con un paese estero - un broker internazionale - per portare altrove i rifiuti. Passato il carico la prima azienda se ne può lavare le mani e soprattutto lo schema rende invisibili le industrie che avevano prodotto le scorie. Il broker a sua volta millanta impianti di depurazione all'estero che tutti sanno inesistenti. E così si riempiono campi, discariche, fiumi, deserti di paesi terzi.

Il grande business ha il suo cuore dal biennio 1986-1987 fino alla grande crisi di navi rifiutate qui e là, di cui però la dormiente Italia capisce qualcosa sono nell'88 quando esplode il grande caso delle "navi dei veleni". Migliaia di bidoni pieni di veleni iniziano a tornare nei nostri porti, rifiutati persino di paesi con regimi democratici precari. Si scatena un finimondo, la questione arriva in parlamento e l'allora ministro all'ambiente Giorgio Ruffolo riferiva serafico che la produzione di rifiuti tossici in Italia si aggirava probabilmente intorno ai 45 milioni di tonnellate, mentre i rifiuti tossici nocivi prodotti dalle industrie erano 5 milioni di tonnellate e «per quanto riguarda i rifiuti industriali noi valutiamo la capacità di smaltimento a meno di un quinto della quantità prodotta, cioè a circa il 15 per cento» di quei 5 milioni. L'esportazione, anche se Ruffolo non lo dice, diventava così un'ottima soluzione per tutti: per il governo, per le industrie, per i trafficanti e per quella rete di interessi indicibili che si andava creando.

I porti delle nebbie

Regola numero uno: cercare porti defilati, dove i controlli sono minori, dove si riesce a ungere qualche ruota e con pochi occhi indiscreti. Porti minori, come Chioggia o Marina di Carrara, da dove parte nel febbraio 1987 la Lynx - la nave che tenterà di far sparire i 10.500 fusti tornati poi in Italia con la Zanoobia. Porti che dovevano garantire discrezione e silenzio. Ma qualcosa all'inizio del 1987 s'inceppa.

Riccardo Canesi, Antonella Cappè e Alberto Giorgio Dell'Amico della Lista verde di Carrara inviano il 6 febbraio 1987 una denuncia al pretore della loro città, al procuratore della repubblica dell'ufficio circondariale marittimo di Marina di Carrara e al Ministero dell'ambiente: «Al porto di Marina di Carrara, nella banchina di sud-ovest del molo di ponente sono depositati fusti contenenti sostanze non precisate collocati in pallets che emanano odori pestilenziali. A quanto ci risulta tali fusti (dei quali una parte è già stata caricata) dovrebbero contenere rifiuti tossici e nocivi (spediti dalla presunta ditta Gellyfax) e dovrebbero essere caricati sulla motonave Lynx (della compagnia Cargo Ship) battente bandiera maltese, in rada presso il porto di Marina di Carrara, con destinazione Gibuti (ex Somalia francese)». Il 10 febbraio anche il presidente della Regione Toscana Sergio Bartolini chiede con un telex l'intervento dei magistrati di Massa, Carrara, Genova e della capitaneria di porto di Marina di Carrara. Nessuno interviene, le denunce finiscono in cassetti ancora oggi chiusi. La nave Lynx parte l'11 febbraio con 2.147 tonnellate contro una portata di almeno 5 mila.

«Avevamo delle dritte dall'ambiente del porto di Marina e da Legambiente lombarda - racconta oggi Canesi, che è stato anche capo della segreteria del ministro Edo Ronchi e ora è con gli ecologisti democratici - della Linx ricordo che i fusti erano piuttosto anonimi, risalimmo alla Jelly Wax perché era nelle polizze di carico e poi indagammo su Gibuti e Porto Cabello scoprendo che non c'era là nessun impianto di trattamento dei rifiuti». Impianti fantasma , esistenti solo sulla carta, che servivano a bypassare le pochissime norme internazionali esistenti. Bastava far risultare da qualche parte che in Africa c'era un impresa pronta a ricevere il carico e nessuno, in realtà, si metteva a controllare. «Chiamai anche il sostituto procuratore dell'epoca - continua Chianesi - che mi disse di lasciar perdere e far partire le navi. Se invece la magistratura avesse bloccato subito quelle partenza si sarebbero risparmiati miliardi di lire che servirono poi per far tornare quei carichi in Italia e bonificare quei rifiuti adeguatamente».

La Lista verde all'epoca presentò anche altri esposti il 6 aprile 1987 per la nave Akbay; il 12 giugno 1987 per la Radhost e il 13 luglio 1987 per la Baru Luch e nuovamente li mandò al pretore di Carrara, al procuratore della Repubblica di Massa, all'ufficio marittimo di Marina di Massa al ministero per l'ambiente e questa volta anche all'Usl di Massa Carrara, alla provincia e al comune di Carrara. Nulla accade. I veleni poi in parte tornano in Italia, dove il governo dovrà spendere oltre 250 miliardi di lire per uno smaltimento di cui oggi non sappiamo nulla. Perché la fine del percorso non è ancora nota, visto che la Protezione civile prima e il Ministero dell'ambiente poi non sono ancora stati in grado di rispondere ad una semplice domanda de il manifesto: dove sono finiti i fusti delle navi dei veleni?

L'elenco misterioso

Il 27 ottobre scorso, ventiquattro ore prima dell'annuncio sorridente del ministro Prestigiacomo, la direzione marittima di Reggio Calabria consegna alla commissione antimafia un elenco di quarantaquattro navi affondate nella zona di sua competenza. Ci sono nove affondamenti fantasma, con coordinate conosciute ma senza un nome della nave. Tra questi c'è anche il relitto di Cetraro, che il giorno dopo verrà identificato come Catania. Ma c'è qualcosa che non torna in quell'elenco. Nella lista mancano però molte navi, il cui affondamento è noto e certo. La Capraia, la Orsay e la Maria Pia, ad esempio, risultano essere affondamenti sospetti - o almeno da verificare - secondo i dati dei Lloyd's (le schede possono essere consultate sul sito infondoalmar.info). Altre navi potrebbero dunque mancare all'appello. E viene da chiedersi perché in commissione antimafia viene presentato un elenco incompleto? La nostra Marina non possiede tutti i dati? La vicenda di Cetraro e la gestione dell'informazione in questi ultimi mesi non fa che rilanciare i tantissimi dubbi e qualche legittimo sospetto.

Ripartire dal passato

Almeno settanta navi sospette sono sui fondali del mediterraneo, con coordinate note, con documentazione facilmente accessibile, con carichi spesso dichiaratamente tossici. Il ministro Prestigiacomo ha spiegato che non può seguire quello che raccontano i giornali, ma per andare a cercare una nave la notizia deve partire da una Procura. I dati che oggi presentiamo sulle settanta navi sono ufficiali, tratti dai registri navali, riscontrati uno per uno negli uffici dei Lloyd's di Londra. In alcuni casi si tratta delle stesse navi che apparivano nelle mappe del faccendiere Giorgio Comerio, sequestrate nella sua casa di Garlasco. Sono nomi che il capitano di vascello De Grazia stava verificando, uno per uno.

Le rotte dei veleni proseguono

Le tante archiviazioni e la mancata volontà di andare a verificare i casi sospetti hanno trasformato il nostro paese in una specie di zona franca per i traffici dei rifiuti. Non solo a terra, ma secondo i racconti che arrivano da Livorno anche nei mari protetti, nei santuari ecologici. Come il manifesto ha raccontato nei giorni scorsi, appartenenti alla Ong tedesca Green Ocean hanno denunciato di aver visto la nave cargo Toscana buttare differenti oggetti in mare il 5 luglio scorso, tra cui diversi container, mentre erano sulla nave Thales impegnata nel progetto di ricerca ambientale "Plastic From Sea". A sostegno della loro accusa, un container è stato poi ritrovato da una nave della Nato a 900 metri dalla posizione indicata dallo skipper della Thales, mentre i pescatori locali hanno trovato pesci morti nelle loro reti.

È una storia da approfondire prima di tutto per capire se i traffici clandestini coinvolgono ancora oggi il nostro paese. Anche in questo caso la documentazione in possesso dei Lloyds sulla nave oggetto della denuncia è il riferimento più certo da dove è possibile partire. Al momento del presunto scarico in mare la nave era in viaggio da Panama a Livorno. Prima di entrare nel Mediterraneo la nave aveva attraversato l'Atlantico dopo aver fatto tappa nei porti a Houston, in Cile e in Argentina.

Elemento sospetto sono le numerose ispezioni subite dalla nave - ben 10 tra 2008 e 2009, di cui una mentre era in transito a Gibilterra. Secondo un'analista dei Lloyds di Londra, che vuole mantenere l'anonimato, questo numero di ispezioni è la spia che questa nave sarebbe chiacchierata e «viene tenuta sott'occhio». Al telefono la compagnia tedesca Bertling Reederei, con sede ad Amburgo, non ha nessuna voglia di parlare della denuncia e ancor meno di rispondere alle domande dei giornalisti. E Paul Thomson responsabile della flotta, compagnia tedesca proprietaria della nave Toscana, si è limitato a dire che non ha «nulla da dire riguardo a una storia tanto assurda». Che cosa trasportava il Toscana durante il viaggio verso Livorno? «Non sono tenuto a rispondere». E cosa ne pensa del container trovato a 900 metri dal punto segnalato dalla Thales? «No comment», e ha buttato giù il telefono irritato. In fondo al mar i veleni sono segreti da tenere ben chiusi.

Un silenzio colpevole

Il manifesto ha iniziato a riprendere la storia delle rotte dei veleni il 5 settembre 2009, in un reportage sulla discarica di Borgo Montello, in provincia di Latina. Questa zona a pochi chilometri da Roma, dove secondo alcuni collaboratori di giustizia i casalesi hanno interrato per anni rifiuti pericolosi, ha una vocazione agricola. È una sorta di giardino dove vengono coltivati ortaggi, frutta, uva da vino. Pochi mesi fa l'Arpa Lazio (Agenzia regionale per la protezione ambientale), ha scritto che la falda acquifera è contaminata. Bene, il sospetto era - ed è - che qui siano finiti una parte di fusti con rifiuti pericolosi trasportati alla fine degli anni '80 da alcune navi dei veleni.

Il ritrovamento, ieri, di un container sul fondo del mare toscano aggiunge un altro tassello alla nostra ricostruzione. E, qualora fosse appurato che si tratti di rifiuti tossici, sarebbe la dimostrazione di quello che stiamo cercando di dimostrare: il «caso» non si ferma al relitto di Cetraro e quella che stiamo riprendendo non è solo una storia del passato, ma uno scempio che continua ancora oggi.

Il sistema delle rotte tossiche è stato utilizzato da almeno 140 "grandi marche", ovvero dal gotha del sistema industriale italiano, come abbiamo raccontato e documentato nei giorni scorsi. E quella stessa rete di connivenze, complicità criminali, dove accanto a pezzi dello stato vediamo all'opera le peggiori mafie - camorra e 'ndrangheta - si è poi allargata e specializzata nel corso degli ultimi anni. Ci sono almeno cinque questioni che aspettano una risposta.

Le cronache più recenti parlano di settori dell'Enea alleati con faccendieri come Flavio Carboni per gestire presunti traffici illeciti di amianto (inchiesta su discarica di Pomezia, 2009); abbiamo assistito alla gestione di immense discariche nel biutiful cauntri dei casalesi; abbiamo scritto di come società di grandi dimensioni bruciassero di tutto senza nessun controllo negli inceneritori. Sono pezzi della stessa storia, che prosegue dagli anni '80, da quando le navi italiane portavano in giro per il mondo gli scarti delle nostre industrie.

Per questo continueremo a parlare su queste pagine di navi dei veleni. Ci sono domande che da mesi aspettano una risposta dal governo. Tasselli di un unico disastro ancora avvolti da una fitta rete di reticenze politiche e istituzionali. Le elenchiamo, sperando che qualcuno un giorno riuscirà a sbrogliare la matassa e a dare qualche risposta. Eccole.

1)

Il 5 settembre abbiamo chiesto alla Protezione civile di sapere dove sono stati smaltiti i 10.500 fusti tossici riportati in Italia dalla nave Zanoobia nel maggio del 1988. La protezione civile fino ad ora non è stata in grado di rispondere. Chiediamo dunque al ministro dell'ambiente: il governo è in grado di spiegare come e dove sono stati smaltiti i rifiuti tossico-nocivi rientrati in Italia tra il 1988 e il 1989?

2)

Il ministro Carlo Giovanardi nel 2004 dichiarò in Parlamento: «Evidenti segnali di allarme si sono colti in alcune vicende giudiziarie da cui è emersa una chiara sovrapposizione tra queste attività illegali ed il traffico d'armi. (...) Numerosi elementi indicavano il coinvolgimento nel suddetto traffico di soggetti istituzionali di governi europei ed extraeuropei». Quali sono questi paesi che sono stati coinvolti nel traffico internazionale di rifiuti?

3)

Il 24 gennaio del 2006 l'allora sostituto procuratore della Repubblica di Paola Francesco Greco riferì davanti alla commissione bicamerale sui rifiuti che era stato individuato al largo di Cetraro un relitto della lunghezza di 126 metri circa. Dopo ulteriori informazioni acquisite dal Procuratore di Paola Bruno Giordano, l'assessore regionale della Calabria Silvio Greco ha scritto il 14 maggio 2009 al ministro dell'ambiente chiedendo un intervento per lo studio del relitto. Perché in questi quasi quattro anni il Ministero dell'ambiente non ha mai approfondito quanto comunicato dalla Procura di Paola fin dal gennaio 2006?

4)

Nella stessa seduta del gennaio 2006, il pubblico ministero Francesco Greco affermò che non era riuscito ad ottenere informazioni precise dalle Capitanerie di Porto sui relitti presenti al largo di Cetraro e che in alcuni casi era stato opposto il segreto militare. Risulta al ministro che esista un segreto di stato o militare sui relitti presenti sui fondali del mare della Calabria? E' stato mai apposto il segreto sulla vicenda delle navi dei veleni? E' vero che la Guardia Costiera non fornì le informazioni chieste dalla Procura di Paola, come sostiene il magistrato Francesco Greco?

5)

Nel maggio del 2007 un imprenditore di Fondi (Latina), Massimo Anastasio Di Fazio, poi arrestato con l'accusa di usura con modalità mafiose, annunciò di aver concluso un accordo con la Liberia per l'esportazione di rifiuti in Africa per un valore di 170 milioni di euro. Secondo quanto riportato dal sito dell'emittente locale canale sette, all'accordo avrebbe partecipato anche l'ex sindaco Luigi Parisella. Oggi riportiamo poi la storia dei container buttati in mare da navi tedesche, solo quattro mesi fa. Risulta al ministro dell'ambiente che esistono oggi accordi per l'esportazione di rifiuti pericolosi da parte di aziende italiane verso l'Africa? Quali procedure di controllo dei nostri mari vengono attuate per bloccare lo scarico di rifiuti da parte di navi mercantili?

Il container sommerso

Andrea Palladino

Mentre lo sguardo era rivolto sulle mappe nautiche di Cetraro, alla ricerca di verità che ancora oggi stentano ad uscire, dalla Toscana arriva la notizia, secca e incredibile, che conferma in pieno le rotte dei veleni. Una nave della Nato Alliance, nel corso di una perlustrazione delle acque al largo dell'Isola d'Elba, ha trovato un container sul fondo del mare. Container sospetto, molto sospetto, della dimensione di tre metri per sei, che - secondo una prima ricostruzione - sarebbe stato buttato dolosamente in acqua solo quattro mesi fa. È la conferma - che arriva da una fonte sicuramente attendibile, il Parco nazionale dell'Arcipelago Toscano - di una denuncia passata inosservata presentata da una associazione ambientalista tedesca, la Green Ocean, e da Legambiente l'estate scorsa. Un portacontainer, il Toscana, con bandiera maltese, appartenente ad un armatore tedesco, era stato sorpreso la sera del nove luglio scorso dalla nave Thales - utilizzata nel progetto di ricerca "plastic from the sea" - mentre azionava le gru per scaricare in mare container di 16 piedi. La Thales cercò di avvicinarsi per capire cosa stava accadendo. A luglio il sole cala molto tardi in mare e alle nove di sera la scena era chiaramente visibile.

«Ad una osservazione più vicina con l'aiuto di binocoli - racconta nel diario di bordo il capitano della Thales - abbiamo scoperto l'equipaggio della nave mentre lavorava sulle gru di bordo, gettando alcuni oggetti fuori bordo. Gli oggetti sembravano essere container da sedici piedi. Al momento dell'osservazione eravamo alla distanza di un miglio marino, dalla parte del porto rispetto alla Toscana». Il gruppo ambientalista tedesco riesce a fotografare velocemente quanto stava accadendo, mentre l'equipaggio della nave con bandiera maltese si accorge di essere stato scoperto. «Dopo poco tempo, circa due minuti, la nave "Toscana" ha aumentato la propria velocità - continua il diario di bordo - e preso una rotta di collisione con la nostra imbarcazione». I pirati non navigano solo in Somalia, ma scendono anche al largo delle nostre coste. «Abbiamo subito usato il Vhf, canale 16 e 13, per contattare la "Toscana" per capire le loro intenzioni. Le nostre chiamate non hanno avuto risposta». L'intenzione era chiara, la Thales andava speronata.

Il racconto dell'equipaggio continua con la descrizione dettagliata delle manovre difensive che la nave della Green Ocean ha dovuto fare. «La Toscana ha continuato sulla sua rotta di collisione, e la Thales - prosegue il diario di bordo - ha dovuto fare una manovra di emergenza girando di 45° ad est. Dopo alcuni minuti la "Toscana" ha cambiato nuovamente rotta ed era di nuovo in rotta di collisione. La MS Thales ha cambiato per una nuova rotta di 90° e così ha evitato una collisione diretta con la "Toscana"».

L'intera vicenda venne subito denunciata, allegando le fotografie e il diario di bordo, sottoscritto dall'intero equipaggio. È passata l'estate e la vicenda di Cetraro ha di fatto tolto l'attenzione da questo vero e proprio atto di pirateria al largo della Toscana. Fino a ieri, quando la nave della Nato ha individuato un primo container a novecento metri di distanza dalle coordinate fornite dalla Thales.

La richiesta d'intervento al Nato Undersea Research Center - Nurc - è arrivata dal Parco dell'arcipelago toscano, allarmato dal racconto dell'equipaggio del Thales. Il 2 e 3 novembre scorso la nave oceanografica Alliance ha scandagliato la zona indicata dalle coordinate registrate nel diario di bordo tenuto dal gruppo ambientalista tedesco. Per ora è stato individuato - grazie al Multi Beam e al Side Scan Sonar ad alta risoluzione - un primo contenitore, «un manufatto di 3 metri, per 3 per 6, di fattezze e dimensioni simili ad un container», per onore alla precisione. Le prime immagini sono state poi mostrate ieri sera durante il Tg 3 regionale della Toscana, che ha seguito l'operazione della Alliance.

La storia delle navi dei veleni è dunque aperta e tragicamente attuale. Se poi verrà confermato il nome dell'armatore della nave Toscana - che da una prima verifica risulta essere una importantissima azienda di logistica tedesca - sarà chiaro come il traffico internazionale di rifiuti non è una questione marginale. Rimane da stabilire con esattezza e con la massima chiarezza cosa contiene quel primo container individuato al largo della Toscana e recuperarlo immediatamente, prima che possa rilasciare eventuali scorie in una zona conosciuta come il santuario dei cetacei. E soprattutto occorrerà chiarire quali sono le organizzazioni nazionali ed internazionali che gestiscono gli attuali traffici velenosi.

Quasi tutte le inchieste che vennero aperte negli anni '80 e '90 sulle navi dei veleni finirono in archiviazione o in scandalose prescrizioni. Dietro c'erano vere e proprie reti di complicità ai massimi livelli, come lo stesso governo ammise nel 2004. Ora l'operazione trasparenza che le organizzazione ambientaliste chiedono dovrà coinvolgere l'intera costa italiana. Da Cetraro fino all'arcipelago toscano. 3 navi dei veleni

Sarebbero tanti i relitti sul fondo del mare di Cetraro, in Calabria, secondo l'avvocato del pentito Francesco Fonti

«Trovato per noi, ma per il ministro siamo un fastidio»

intervista a Mario Tozzi

«E' stato individuato in un'area a circa un chilometro dal punto indicato da Legambiente e da altre associazioni, e ha tutta l'aria di essere un container. Ora bisogna sapere cosa c'è dentro. Noi questo non lo sappiamo ancora. Certo è che se qualcuno si libera di un container in mare la preoccupazione c'è». Mario Tozzi è il presidente del parco dell'arcipelago toscano. E' lui che ha inviato la nave oceanografica della Nato a caccia del container trovato ieri al largo di Livorno e gettato probabilmente in mare a luglio da una nave maltese.

Dove si trova questo container?

E' stato individuato a 120 metri di profondità. Non sappiano cosa sia ma non promette nulla d buono.

Al largo di Livorno si sospetta sia stata affondata anche una delle cosiddette navi dei veleni.

Di questo io non so niente. Posso soltanto dire che il parco nazionale dell'arcipelago toscano, così come tutti i parchi, non tutela solo il suo ambiente naturale, ma anche quello che lo circonda. Quindi contribuisce con la ricerca scientifica a vigilare sugli avvelenamenti, gli inquinamenti e le ecomafie. E' un presidio di legalità non un fastidio, come invece il ministero dell'Ambiente sembra considerare i parchi.

Il ministero non l'aiuta in questo lavoro di tutela?

I fondi per la manutenzione ordinaria diminuiscono continuamente e noi siamo costretti a cercare finanziamenti da altre parti. I parchi sono davvero in una situazione disagiata.

Mancanza di fondi o scelta politica?

Tutte e due le cose. Certo mancano i soldi, ma a chi vogliamo dare quelli che ci sono? Al Ponte sullo Stretto di Messina, a cui il ministero dell'Ambiente si dice favorevole, oppure li vogliano usare per altre priorità? Non credo che ci sia una volontà malevola, ma di certo non ci si impegna. Abbiamo 23 parchi nazionali che sono altrettante perle, sono quelli che gratuitamente portano il nome dell'Italia in giro per tutto il mondo. Invece di essere favoriti, incrementati, ampliati nei loro territori, forniti di dotazioni straordinarie e ordinarie, di personale che vigili e salvaguardi che si fa? Si diminuiscono i soldi, il personale non si può aumentare, ci sono difficoltà di tutti i tipi. E adesso, come ultima cosa, sembra pure che i consigli direttivi debbano dimettersi. Si cerca di darne una caratterizzazione politica là dove c'è solo una caratterizzazione ambientale. Questo caso del container è emblematico. Il parco dell'arcipelago toscano non ha nemmeno giurisdizione a mare su quel tratto in cui è stato ritrovato, eppure si impegna in una ricerca che va a vantaggio di tutti. Francamente un minimo di riconoscimento bisogna darglielo. Invece non si sente niente.

La presenza del container dimostra che la pratica di buttare i rifiuti a mare non appartiene al passato.

Ma figuriamoci. Certo che continua anche oggi, ne siamo certi di questo. Il mare è la tomba per antonomasia.

Da anni la Campania è sottoposta al potere di un commissario straordinario per l'emergenza rifiuti di nomina governativa; una figura introdotta più o meno nello stesso lasso di anni anche in Calabria, Sicilia, Puglia e ultimamente in Lazio, per far fronte al problema dei rifiuti solidi urbani. A quindici anni dalla sua istituzione è ormai chiaro che questa figura non è stata la soluzione ma il problema. I commissari che si sono succeduti nel tempo non hanno fatto altro che ostacolare l'unica soluzione del problema dei rifiuti urbani, che è la raccolta differenziata domiciliare.

Basta pensare che in meno di un anno e mezzo la città di Salerno, sottrattasi ai diktat del commissario, è riuscita a portare la raccolta differenziata da pochi punti percentuali al 72 per cento, piazzandosi al primo posto tra i comuni ricicloni e sfatando definitivamente la calunnia razzista secondo cui il disastro della Campania sarebbe colpa delle cattive abitudini delle sua popolazioni.

Ma il guasto maggiore indotto dal commissariamento è stato focalizzare l'attenzione del pubblico, a livello locale, nazionale e planetario, sul problema dei rifiuti urbani, che è il minore dei mali. Tutto quel clamore è servito solo a coprire il vero disastro campano - e di tutte le altre regioni commissariate - che sono i milioni di tonnellate di rifiuti tossici, di origine industriale e ospedaliera, o addirittura nucleare, che sono stati sversati nelle campagne di queste regioni durante tutto il periodo del loro commissariamento, e che continuano a venir sversati tutt'oggi, di notte e di giorno, spesso sotto gli occhi dell'esercito che presidia tutti gli impianti di trattamento e smaltimento della Campania: non per difendere il territorio dai soprusi della camorra, ma per difendere gli impianti dalla popolazione che vorrebbe vederli chiusi o funzionare nel rispetto dei più elementari principi di tutela della salute.

Questo è il vero disastro dei rifiuti in tutte o quasi le regioni del Mezzogiorno; un disastro contro il quale commissari e sottosegretari non hanno mosso un dito, limitandosi, come nel caso della Campania, a sperperare in una gestione demente e criminale dei rifiuti urbani i fondi a suo tempo stanziati per le bonifiche di un territorio devastato dai rifiuti industriali. Il problema è che per porre mano a queste bonifiche sono necessari stanziamenti dell'ordine di decine e decine di miliardi di euro. Un programma da far impallidire i fondi destinati alle "Grandi opere", inutili e dannose, messe in cantiere o promesse dai governi che si sono succeduti nel tempo. Un programma fatto però in gran parte di migliaia e migliaia di interventi - circoscritti e mirati, zona per zona, sulla tipologia particolare del terreno, dei rifiuti riscontrati, della destinazione d'uso dei suoli - che non può essere messo in opera senza un attivo coinvolgimento delle amministrazioni locali, dell'imprenditoria, soprattutto quella agricola, del coinvolgimento di migliaia e migliaia di tecnici da impiegare in loco e della conoscenza del territorio di cui dispongono solo coloro che ci vivono e ci lavorano. Esattamente come succede nel contenimento del dissesto idrogeologico.

In queste condizioni non era difficile prevedere che quello che stava emergendo in Campania, grazie all'opera di denuncia di decine e decine di cittadini e di associazioni che hanno sfidato e continuano a sfidare una delle organizzazioni criminali più pericolose del mondo, sarebbe ben presto emerso anche nelle altre regioni del mezzogiorno. E tra queste la candidata numero uno era la Calabria.

L'intempestivo riemergere all'onor delle cronache della vicenda delle "navi dei veleni" dolosamente affondate al largo delle coste calabre (e pugliesi: si calcola che quelle affondate nei nostri mari non siano meno di trenta), già assurta all'onore delle cronache anni fa tra l'indifferenza generale delle autorità competenti, mette il paese di fronte alle dimensioni catastrofiche di un disastro non solo regionale, ma di portata nazionale e europea. Come nazionali ed europee sono le origini accertate o presunte sia dei rifiuti che delle operazioni che questi affondamenti hanno organizzato. Ma non c'è solo il mare: una situazione di per sé sufficiente ad ammazzare in poco tempo il turismo e ogni attività agroalimentare in tutte le regioni del Mezzogiorno, oltre a consumare negli anni salute, vite e vivibilità di interi insediamenti umani.

Il fatto è che anche la Calabria è stata per anni il recapito finale di migliaia e migliaia di convogli che sotto la protezione e grazie alla mediazione della malavita locale, hanno interrato in ogni angolo del territorio milioni di tonnellate di rifiuti tossici. Un'attività con alle spalle organizzazioni imprenditoriali che operavano alla luce del sole, con coperture governative, in grado di ricorrere a veri e propri sistemi industriali per occultare i loro carichi, come evidenzia anche la costruzione di veri e propri sarcofaghi in cemento armato per intombare i rifiuti radioattivi della Jolly Rosso. Nei loro confronti governi nazionali e locali hanno scientemente chiuso gli occhi per anni. In parte, perché le constiuencies elettorali dei partiti che si sono alternati al governo regionale e nazionale sono indissolubilmente intrecciate alle cosche della malavita locale che controllano il territorio. In parte - e la cosa non va sottovalutata, dato che volenti o nolenti, sarà uno dei temi politici di fondo dei prossimi anni - perché prendere atto del problema significa arrendersi alla necessità di un programma di risanamento del territorio capace di sovvertire completamente piani economici, criteri di spesa, rapporti tra centro e periferia, strutture produttive.

Oggi però, in Calabria come in Campania, la popolazione ha capito la gravità di quanto per anni è stato perpetrato alle sue spalle e ha deciso - nella sua parte più attiva, quella che oggi inizia il suo percorso con la manifestazione di Amantea - di riprendere in mano il suo destino. Una decisione che prelude a un lungo tragitto; perché non si tratta solo di ottenere l'individuazione e il perseguimento penale e civile dei responsabili, ma di promuovere, a partire da questa volontà, una bonifica del territorio che comporta la riconversione dell'intera politica economica nazionale.

Una cosa sola non ti tradisce mai nella Napoli dei disastri: ‘a munnezza. Non trovi più i sacchetti neri ammassati per le strade del centro come nei giorni dell'emergenza nera. Berlusconi "ha fatto 'o miracolo", ha ripulito la città. Ad Acerra ha inaugurato l'inceneritore sulle note di ‘O sole mio. I militari armati sorvegliano discariche e impianti. Nessuno protesta più. La Campania è pulita e Bassolino si avvia mestamente sul viale del tramonto. Ma davvero la monnezza di Napoli è scomparsa? Non proprio.

È nascosta nelle discariche disseminate su tutto il territorio della regione. Costruite nel mezzo di centri abitati, a ridosso di ospedali, sulle colline della Campania dell’"osso", o sulle terre di quella che prima della devastazione era la "Campania felix". Migliaia di tonnellate di monnezza, impacchettata in cubi enormi giacciono nei depositi degli stabilimenti che una volta chiamavano Cdr (combustibile da rifiuto) o nelle discariche a formare montagne di "ecoballe". Sorvegliate da militari armati. Vietato fare riprese, vietato fotografare, vietato porre domande. Vietato tutto. Ma non buttare rifiuti bidoni, copertoni, pezzi d'auto, materassi, medicine scadute, vecchi mobili ai bordi delle strade.

La periferia di Giugliano e le vie che portano alla grande discarica di Taverna del Re e dell'ex Cdr, sono un letamaio di veleni. "I camion della camorra li scaricano qui di notte - racconta Raffaele Del Giudice, il direttore di Legambiente Campania - è un traffico continuo". La tecnica per bruciare i rifiuti pericolosi per strada è collaudata. Si prepara prima un "letto di combustione", paglia e vecchi materassi, poi si appoggiano sopra bidoni, scarti di amianto, plastiche. Brucia tutto in questa enorme periferia che dall'Asse Mediano (la spina dorsale del diavolo, la chiamano) ci porta a Giugliano, Qualiano, e verso i comuni del Casertano. Le terre perse dove si può tutto. E nessuno vede.

Neppure i militari bardati come in zona di guerra che a poche centinaia di metri sorvegliano lo "Stir", un altro "miracolo" della gestione dell'emergenza rifiuti di Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso. Sono i sette vecchi impianti Cdr, quelli che dovevano trasformare la monnezza in combustibile da rifiuti, ora - e dopo una spesa di almeno 20 milioni di euro - sono stati trasformati in Stabilimenti per la triturazione e l'imbustamento dei rifiuti. Stir, basta la parola.

Ma è monnezza, ecoballe come prima, robaccia che difficilmente potrà essere bruciata ad Acerra, finora l'unico inceneritore esistente in Campania. Lo dicono gli esperti. "Cosa c'è in quelle balle, e lo scarto, la frazione organica, dove va?". Raffaele Del Giudice si pone mille domande. Le risposte non ci sono. Le ecoballe, o come si chiamano ora, sono danari. Centinaia di milioni di euro quando saranno incenerite e trasformate in energia. È scritto in una legge del 1992 che finanziava l'energia prodotta da fonti rinnovabili, o "assimilate".

Bastò quest'ultima parolina a trasformare la monnezza ufficiale in grande business per le grandi compagnie, un affare da 30 miliardi di euro. Miracolo "Cip6", soldi che pioveranno anche sulle grandi imprese che gestiscono l'inceneritore di Acerra (Impregilo e A2A, la società che fa funzionare i termovalorizzatori di Milano e Brescia), quello costruito dalla sola Impregilo e finito al centro dei vari scandali di munnezzopoli, e sugli altri inceneritori che saranno tirati su a Salerno, a Santa Maria La Fossa e a Napoli città. Trent'anni fa, analizzando un altro disastro della Campania, il terremoto del 1980, e la pioggia di 60mila miliardi che inondò la regione, la studiosa Ada Becchi Collidà parlò di "economia della catastrofe". Una manna per le grandi imprese del nord e per la camorra. Oggi Naomi Klein ci racconta la shock economy.

Due conclusioni simili: "Le grandi catastrofi sgretolano il tessuto sociale, non solo le case". E vista dalle terre perse di Giugliano e dintorni, ti accorgi che qui la teoria è già drammatica realtà. Ferite sulla carne viva delle gente che vive in questa immensa metropoli. Cemento, centri commerciali e business rifiuti. Non c'è altro.

Ci guadagna la camorra che continua ad importare scarti industriali pericolosi dal Nord. Tra Napoli e Caserta sono almeno nove le discariche abusive del clan dei Casalesi. Nessuno le ha bonificate. Affari, puliti, certificati per legge, anche per le grandi imprese che gestiscono gli inceneritori. Ad Acerra il miracolo si chiama Cip6. "Abbiamo fatto bandi di gara per due volte per il termovalorizzatore di Acerra e per due volte la gara è andata deserta perché non ci si poteva avvalere dei contributi Cip6. Se noi non consentiamo questo le prossime gare andranno deserte e allora possiamo prendere il decreto e metterlo nel cassetto''. Il 18 giugno 2008, Guido Bertolaso parlò alla Camera e convinse maggioranza e opposizione. Ma ad Acerra le cose non vanno. "Perché il collaudo della struttura viene fatto bruciando rifiuti tal quale, quelli dei cassonetti. Perché i dati dell'Arpac ci dicono che i limiti di emissione di Pm10 sono stati superati nella misura di 17 giorni su 60 e di ben 11 volte negli ultimi 14 giorni. Perché non c'è un adeguato sistema di monitoraggio delle emissioni e quindi non viene garantita una tempestiva e necessaria valutazione della quantità e qualità degli inquinanti emessi.

Perché una situazione di questo tipo determina una esposizione della popolazione alla inalazione, e comunque all'assunzione attraverso il ciclo alimentare di sostanze altamente tossiche e nocive per la salute". Il 1 giugno di quest'anno Tommaso Sodano, presidente della Commissione ambiente quando era senatore di Rifondazione comunista, ha presentato un dettagliato esposto alla Procura di Napoli. Guido Bertolaso si è offeso e ha annunciato una querela. Sodano la sta ancora aspettando.

Il progetto di gestione dei rifiuti in Campania doveva essere portato avanti «a tutti i costi», dunque se necessario anche «cercando in ogni modo di occultare» le inadempienze e le criticità che di volta in volta venivano rilevate. Una «logica scellerata», la definisce il giudice Aldo Esposito, che avrebbe non solo «caratterizzato in questi anni il lavoro del commissariato straordinario, ma anche «influenzato l’opera dei collaudatori, dei direttori dei lavori e dei responsabili di progetto» dei sette impianti di cdr realizzati nella regione. Da questa ipotesi d’accusa, e sul presupposto della ritenuta «assoluta inidoneità tecnica di quegli impianti», parte l’inchiesta sui collaudi sfociata ieri nella emissione di quindici ordinanze di custodia agli arresti domiciliari nei confronti di docenti universitari, tecnici e altri professionisti. A tutti è contestato il reato di falso ideologico. Fra i destinatari del provvedimento, il presidente della Provincia di Benevento, Aniello Cimitile, Pd, coinvolto nella qualità di presidente della commissione di collaudo dell’impianto di Casalduni.

Il suo arresto apre un nuovo fronte nel dibattito fra gli schieramenti a pochi giorni dal voto. «Non commento fatti che non conosco - dice il segretario del Pd Dario Franceschini - ho rispetto per la magistratura, spero che faccia bene e in fretta il suo lavoro. Io non penso mai ai complotti, altri lo fanno». Daniele Capezzone, del Pdl, afferma: «Non siamo giustizialisti, ci basta la valutazione politica. È stato il Pd a creare l’emergenza rifiuti che il governo Berlusconi sta risolvendo». Cimitile, difeso dall’avvocato Claudio Botti, potrebbe essere interrogato già nelle prossime ore. Il suo portavoce lo descrive «colpito da un provvedimento che ritiene ingiusto, errato e sproporzionato» ma anche «fermamente convinto che dal punto di vista tecnico il collaudo, peraltro solo tecnico-amministrativo, fu compiuto con rigore e professionalità».

L’indagine è stata condotta dagli agenti della Dia diretti dal capo centro Maurizio Vallone (ma non riguarda alcun episodio di criminalità organizzata) e dal nucleo di polizia tributaria della guardia di finanza. La richiesta di custodia, firmata dai pm Alessandro Milita, Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo, con il coordinamento del procuratore aggiunto Aldo De Chiara, è stata integrata anche con la documentazione acquisita il 20 maggio scorso dalla finanza presso il termovalorizzatore di Acerra. I fatti si riferiscono a un periodo compreso fra il 2001 e il 2006. Il giudice Aldo Esposito ha emesso la misura solo per gli episodi più recenti (anche se potenzialmente già coperti da indulto) rigettando la richiesta per gli altri. La procura ritiene che nei certificati di collaudo sia stata «falsamente attestato» il rispetto da parte di Fibe il rispetto del contratto d’appalto.

E sono considerati falsi anche gli atti del collaudo «nella parte in cui si è attestata la conformità degli impianti installati rispetto a quelli previsti dal progetto»: dalle indagini infatti è emersa la modifica di alcuni macchinari «senza autorizzazione della stazione appaltante e senza che i collaudatori abbiano constatato la accertata difformità». I fatti inducono il giudice a una «lettura ex post dell’emergenza rifiuti in Campania: la verifica dell’effettivo buon funzionamento degli impianti - si legge nell’ordinanza - avrebbe scongiurato l’entrata in vigore di un sistema di smaltimento frutto di una colossale truffa».

I sacchetti in strada ci sono, le foto a testimonianza anche e nel frattempo si aggira per i corridoi della procura di Napoli lo spettro di una nuova inchiesta sui rifiuti, e in particolare sulla gestione del termovalorizzatore di Acerra.

E' bastato questo a far saltare i nervi al sottosegretario Bertolaso che ha parlato di magistrati che intimidiscono i membri del suo staff con continui interrogatori, perfino i generali. Ieri in procura nessuno voleva confermare le nuove indagini, nonostante la perquisizione di qualche giorno fa proprio ad Acerra da parte della Guardia di finanza. Nell'aria sono rimaste le parole di Lepore a il Mattino: "Se ci fosse un inchiesta che coinvolge il primo ministro lo saprei". Se l'indagine c'è è in mano sua, come prevede la legge Berlusconi sui rifiuti, o al massimo in quelle del suo vice Aldo De Chiara. Quindi la smentita di Lepore dovrebbe chiudere gli equivoci.

E invece, i dubbi restano. Legati alle indagini sui rifiuti, che vanno dalla gestione Impregilo al caso "Rompiballe", l'inchiesta, in cui lo stesso Bertolaso è indagato e che ha rappresentato motivo di profonde divisioni all'interno del palazzo di giustizia. Culminate nella lettera che lo stesso De Chiara ha spedito al Csm affermando che Lepore avrebbe stralciato la posizione di Bertolaso, del prefetto Pansa e dell'ex commissario straordinario Catenacci per evitare un "putiferio" politico.

Nelle intercettazioni nate da quella inchiesta, il sottosegretario si lascia andare a commenti non proprio ortodossi con la sua vice Di Gennaro. Confidandole di voler "sputtanare" i tecnici di Pecoraro Scanio, all'epoca contrario all'apertura della discarica nell'oasi protetta dal Wwf a Serre. Ha fatto discutere anche la telefonata registrata il 30 maggio 2007, quando, in merito alla relazione sulle tonnellate da mandare alla discarica di Parapoti, Bertolaso ordina "e tu fai una relazione molto semplice, dici abbiamo portato 17mila tonnellate o quante cazzo ne avete portate, questa sera finisce tutto. Mi sono preso schiaffi prima da quelli di Parapoti poi da quelli di Acerra, alternative non ne abbiamo".

Bisognerà capire se qualcosa è andato storto anche nella gestione dell'inceneritore di Acerra che per il momento non è in funzione e che dai test risulterebbe altamente inquinante. Proprio ieri, Tommaso Sodano del Prc ha denunciato che i dati sui livelli di inquinamento registrati dall'Arpac sono stati cancellati dal sito dell'Osservatorio web che il governo ha messo a disposizione dei cittadini promettendo trasparenza assoluta. Fino a qualche giorno fa, quei documenti dicevano che in due mesi di test, Acerra ha superato ben nove volte i livelli di guardia.

Restano le perquisizioni con cui la Guardia di finanza ha ottenuto diversi documenti "tecnici" dalla direzione del termovalorizzatore. E infine le continue allusioni, in questi ultimi giorni, dello stesso Berlusconi che ha indicato lo spettro di un nuovo complotto dei magistrati contro di lui e sull'affare rifiuti.

«’a munnezza è oro». La sapeva lunga il boss Nunzio Perrella. Nel 1988 fu lui uno dei primi a rivelare all’Antimafia di Napoli gli «appetiti» della Camorra sui rifiuti urbani del centro nord Italia. Di tempo n’è passato da allora, l’Ecomafia ora è una holding capace di muovere in un anno montagne di scorie industriali illegali. Legambiente le mette una sopra l’altra nel suo ultimo rapporto sulla criminalità ambientale e il naso, necessariamente rivolto all’insù, tocca quota 3100 metri. Tutto nel solo 2008, «quasi quanto l’Etna» ma qui la vetta è in mano alle cosche. «Un business di 20,5 miliardi di euro», si legge nel dossier presentato ieri. La Campania guida la classifica dell’illegalità, poi Calabria, Sicilia e Puglia. Ma il Lazio preoccupa sempre più e Lombardia e Piemonte seguono troppo in fretta.

Se prima, sottolinea il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, «i rifiuti del nord finivano al sud, nei cosiddetti tombamenti», ora veri e propri crateri tossici sono stati scoperti nel milanese grazie all’operazione Star Wars: 178mila metri cubi di rifiuti industriali gestiti da esponenti della ‘ndrangheta compromettono 6 ettari e mezzo di terreno.

Gli affari «sporchi» nella «munnezza» certo, ma anche nel cemento, oltre al racket degli animali, alle agromafie e alle aggressioni ai danni del patrimonio culturale. L’abusivismo edilizio infatti dilaga. spuntano 28mila nuove case illegali. Il Lazio supera la Sicilia e conquista il terzo posto nel cemento selvaggio. «Il territorio è gestito in modo criminale» sottolineò la procura di Tivoli. Ma il caso più singolare arriva da Ischia dove gli abusivi, torna a denunciare Legambiente, «hanno incontrato un alleato d’eccezione nel vescovo che ha lanciato un appello alla procura perché si eviti il «legalismo esasperato». Se poi il cemento si unisce ai rifiuti, come sembra accadere a Crotone, meglio ancora. Lì, secondo un’inchiesta della procura, le scorie tossiche dell’ex Pertusola Sud miscelate alle polveri dell’Ilva di Taranto sarebbero state utilizzate non solo come fondi stradali ma anche per la realizzazione dell’aeroporto di Reggio Calabria, per l’acquedotto locale e i cortili di tre scuole della provincia. Di scuole parlano anche due boss della ndrangheta. È il 7 marzo di due anni fa. A Bova, nel reggino, si lavora alla costruzione di un liceo. Uno vuole sempre meno cemento e più sabbia nel calcestruzzo. L’altro si infastidisce, «Così si brucia una pompa idraulica da 300mila euro». Alla sicurezza del nuovo edificio non ci si pensa.

I controlli passano dai numeri della magistratura e delle forze dell’ordine: quasi 26mila ecoreati accertati nel 2008. Tre ogni ora, poco meno di 71 al giorno. E ancora: 221 arresti (più 13,3% rispetto al 2007), oltre 9600 sequestri. «Un risultato eccezionale data l’assenza di risorse e strumenti giuridici ma non basta» denuncia il procuratore nazionale antimafia. È preoccupato, Pietro Grasso. Il ddl sicurezza in discussione alla Camera «limitava gravemente le funzioni di impulso e coordinamento per le indagini patrimoniali in sede di Antimafia assegnate da un decreto legge poi ratificato». Il ministro Alfano corre ai ripari e promette un passo indietro sul punto, ma Grasso sbotta ugualmente. I poteri «o mi si danno tutti o mi si tolgono». «Oltre ai mafiosi - incalza - ci sono i tecnici di laboratorio, i trasportatori. Le procure ordinarie accertano i reati, ma non riescono a vedere cosa c’è dietro, dobbiamo aggredire il fenomeno».

Un business di 20,5 miliardi di euro per 25.776 ecoreati accertati: quasi 71 al giorno, tre ogni ora. Circa la metà dei reati (più del 48%) si è consumato nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa (Campania, Calabria, Sicilia e Puglia). L'Ecomafia, assicura Legambiente nel suo rapporto 2009, non conosce la crisi.

Le cifre fanno impressione. Sono 31 i milioni di tonnellate i rifiuti speciali svaniti nel nulla, in pratica una montagna alta quasi quanto l'Etna. Crescono pure le aggressioni al patrimonio culturale, il racket degli animali e le agromafie. Aumenta però anche la capacità di contrasto delle forze dell'ordine.

Abusivismo. L'abusivismo edilizio non conosce tregua: 28 mila nuove case illegali e moltissimi reati urbanistici, soprattutto nelle aree di maggior pregio. E poi il saccheggio del patrimonio culturale, boschivo, idrico, agricolo e faunistico. "Il cemento - si legge nel rapporto - è il luogo ideale per riciclare i proventi dalle attività criminose e nel caso campano si tratta di proventi ingenti che si traducono in interi quartieri abusivi. Basti pensare che il 67% dei comuni campani sciolti per infiltrazione mafiosa, dal 1991 a oggi, lo sono stati proprio per abusivismo edilizio". In testa c'è la Campania con 1.267 infrazioni accertate, 1.685 denucniati e 625 sequestri. Segue la Calabria con 900 infrazioni, 923 persone denunciate e 319 sequestri. Continua la salita del Lazio, che quest'anno si piazza al terzo posto superando la Sicilia.

Campania infelix. La Campania è in vetta anche nella classfica dello smaltimento illegale con 573 infrazioni accertate (il 14,7% sul totale nazionale) e 63 arresti. Negli ultimi tre anni, si ipotizza siano stati smaltiti illegalmente in tutta la regione circa 13 milioni di tonnellate di rifiuti di ogni genere. Ovvero 520 mila tir che hanno scaricato il loro contenuto nelle campagne napoletane, nell'entroterra salernitano, nelle discariche abusive del casertano, del beneventano e dell'avellinese. Al secondo posto c'è la Puglia con 355 infrazioni accertate, 416 denunce, 271 sequestri e 15 arresti. Terza la Calabria (293 infrazioni, 238 denunce, 567 sequestri), seguita dal Lazio con 291 reati, 358 denunce, 172 sequestri e ben 11 arresti. Al Nord il primato è del Piemonte.

Arresti. Dal dossier emerge la maggiore efficacia degli interventi repressivi da parte delle forze dell'ordine. Aumentano gli arresti, passati dai 195 del 2007 ai 221 del 2008 (+13,3%) e i sequestri, dai 9.074 del 2007 ai 9.676 dello scorso anno (+6,6%). Diminuisce il numero di reati ambientali (dai 30.124 del 2007 ai 25.766 del 2008). Nel dettaglio il comando per la tutela ambientale dell'Arma dei carabinieri, nel 2008, ha arrestato 130 persone, 115 delle quale per reati relativi al ciclo dei rifiuti. Il maggior numero di infrazioni in materia di ambiente (il 56%) viene accertato dal Corpo forestale dello Stato e "molto intensa" è anche l'attività delle Capitanerie di porto. Cresce poi l'azione della Guardia di finanza con un aumento del 24,8% delle infrazioni accertate rispetto al 2007, come quella della Polizia di Stato, +13%, e dei Corpi forestali delle regioni e province a statuto speciale, +9,9%. Di grande rilievo il lavoro svolto dall'Agenzia delle dogane con 4.800 tonnellate di rifiuti sequestrate, a fronte di un quantitativo accertato sei volte superiore.

Traffico animali. Tre miliardi di euro. E' questo il giro d'affari delle zoomafie. Diminuiscono i combattimenti tra cani, mentre restano stabili le corse clandestine di cavalli. Dal rapporto, emerge anche una crescita del traffico di cuccioli venduti in clandestinità, con grossi quantitativi provenienti dai paesi dall'est Europa per un mercato dei cani di razza del valore di 300 milioni di euro all'anno. Infine il 70% della fauna vertebrata risulta minacciata dal bracconaggio, situazione che rischia di aggravarsi con la nuova legge sulla caccia in discussione in Parlamento.

Napolitano. "Constato con soddisfazione che il quadro dei risultati delle attività di prevenzione e repressione evidenzia un crescente coinvolgimento di tutti i soggetti istituzionali impegnati nella tutela delle risorse ambientali, nonché la valenza di nuove e più incisive strategie di indagine e di intervento che consentono di rilevare la presenza nel sottosuolo delle immissioni dei diversi elementi inquinanti", commenta il capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Che definisce il rapporto "un prezioso strumento di approfondimento dei fenomeni della criminalità ambientale".

la Repubblica

Rifiuti, sigilli in discarica Roma a rischio-Campania

di Cecilia Gentile

ROMA - Sigilli al gassificatore di Malagrotta, alla periferia ovest della capitale. I carabinieri del Noe sono arrivati ieri mattina presto, a due giorni dall’inaugurazione, fissata per domani, e hanno chiuso l’impianto costruito per trasformare in energia 500 tonnellate di ecoballe al giorno, ricavate da 1500 tonnellate di rifiuti indifferenziati.

Per i carabinieri e per la Procura di Roma, che ha aperto un’inchiesta, quel gassificatore è l’ennesimo schiaffo ad un territorio già devastato da impianti inquinanti e ad alto rischio. A Malagrotta non c’è solo la discarica più grande d’Europa, che dal 1984 ha accumulato oltre 30 tonnellate di rifiuti perseguitando la popolazione della zona con i suoi miasmi. Nella stessa area ci sono una raffineria, un impianto per rifiuti tossici ospedalieri, un deposito di carburanti, una gigantesca cava. Il decreto legislativo 334/99, conosciuto come Seveso 2, vieta che nello stesso sito siano concentrati più impianti industriali ad alto rischio. Bisogna capire allora chi e perché ha rilasciato l’autorizzazione alla costruzione del gassificatore. Per questo i carabinieri hanno portato via dagli uffici della Regione Lazio tutti i documenti della pratica, iniziata con la precedente giunta Storace e proseguita con quella Marrazzo. Altra ragione del sequestro, l’impianto antincendio risultato non a norma.

«E’ un segno che lo Stato esiste», commenta soddisfatto il presidente del comitato dei residenti Sergio Apollonio, da sempre avverso al nuovo impianto. Per Guido Bertolaso, sottosegretario per l’emergenza rifiuti in Campania, invece, il sequestro del gassificatore di Malagrotta «non è un segnale positivo», perché riapre la strada allo spettro dell’emergenza proprio come in Campania. La fase del commissariamento nel Lazio è finita il 31 dicembre 2007. Ma il vero superamento dell’emergenza è tassativamente subordinato alla realizzazione del piano rifiuti, che prevede, in primis, la chiusura definitiva della discarica di Malagrotta, la raccolta differenziata al 50% nel 2011, l’attivazione di questo e di altri gassificatori, per un totale di quattro in tutta la regione.

«A Malagrotta la discarica è in esaurimento da molti anni - prosegue Bertolaso - ma si è succeduta una proroga dietro l’altra». Malagrotta ormai scoppia. Ma, per stessa ammissione del presidente Piero Marrazzo, Roma non potrà fare a meno di una discarica, specialmente nei prossimi due anni, che saranno di transizione. Dunque, o il Comune del sindaco Pdl Alemanno individua un nuovo sito, oppure la Regione governata dal Pd lascerà aperta quella di Malagrotta, decidendo ulteriori ampliamenti, come già fatto in precedenza. Finora la proposta per aree alternative è solo una: Monti dell’Ortaccio, a tre chilometri da Malagrotta, e viene dallo stesso proprietario della discarica e del gassificatore, Manlio Cerroni.

la Repubblica

L’urbanista Vezio De Lucia: una concentrazione smisurata

di Carlo Alberto Bucci

ROMA - «Una smisurata concentrazione, territoriale e imprenditoriale: ha due facce ma una medesima radice la natura della crisi dei rifiuti nella capitale», spiega l’architetto napoletano Vezio De Lucia, 70 anni, uno dei maggiori urbanisti italiani, dopo aver precisato: «Non intervengo però nel merito al sequestro giudiziario avvenuto a Roma».

Allora professore, troppi impianti a Malagrotta?

«Sì, non è possibile posizionare in un’area così limitata la più grande discarica d’Europa, una raffineria, un impianto di smaltimento di rifiuti tossici ospedalieri e, ora, anche un gassificatore».

Qual è l’altro aspetto negativo della concentrazione?

«Un intero sistema non può essere nelle mani solo dei privati. E a Roma, per giunta, di un solo privato».

Si rischia l’emergenza rifiuti come a Napoli?

«La situazione territoriale è diversa, nella capitale non esiste la congestione urbana che caratterizza l’hinterland della città del Golfo. Ma certo che il sistema rifiuti a Roma è in crisi e bisogna procedere celermente con provvedimenti ad hoc».

Ad esempio?

«Innanzitutto uscendo dalla logica dell’emergenza, perché è una condizione che mette i problemi in una spirale catastrofica. Bisogna lavorare per potenziare il Piano dei rifiuti».

Qualche consiglio?

«La raccolta differenziata al 19 per cento non è degna di una capitale europea».

A Napoli si finisce in galera se si abbandonano i rifiuti in strada. Lei approva? Ed estenderebbe la norma?

«È difettosa dal punto di vista del diritto, ma sta avendo un effetto positivo. A Napoli la situazione della "monnezza" è drammatica davvero».

il manifesto

Malagrotta alla campana

di Andrea Palladino

È stato un fulmine a cielo già poco sereno il sequestro degli impianti di incenerimento di rifiuti di Malagrotta, alle porte di Roma, disposto ieri dal Gip Marina Finiti. A pochi giorni dall'inaugurazione - prevista per domani - i carabinieri del Noe hanno messo i sigilli all'impianto ed hanno richiesto alcuni documenti alla Regione Lazio, contestando la mancata certificazione antincendio. Non un fatto da poco, visto che l'impianto si trova a pochi metri dai serbatoi di Gpl e da una raffineria. Il provvedimento è arrivato dopo pochi giorni dalla condanna dei gestori della discarica di Malagrotta - gli stessi che hanno costruito l'impianto sequestrato - per smaltimento abusivo di rifiuti speciali, emessa dal Tribunale di Roma il 3 novembre scorso. L'inceneritore che dovrà servire la capitale era stato duramente contestato dai comitati cittadini e dalle principali associazioni ambientaliste, che non credono alle garanzie sull'affidabilità della tecnologia scelta.

La storia dell'impianto ruota attorno ad un brevetto, che nasce in Svizzera alla fine degli anni '80, Thermoselect, acquistato negli anni scorsi dalla giapponese Jfe, partner tecnologico del gruppo Cerroni, gestore di Malagrotta. La tecnologia prevede la produzione di gas dai rifiuti solidi urbani, che viene poi bruciato per ottenere energia, finanziata con i contributi Cip6. Il nome Thermoselect è però accuratamente evitato dai tecnici del gruppo Cerroni. Meglio non raccontare la storia poco gloriosa del brevetto svizzero, meglio dimenticare l'inizio poco glorioso. Ma i cittadini di Malagrotta, un po' testardi, vogliono invece capire. Thermoselect è un nome svizzero per un impianto che viene sperimentato per la prima volta proprio in Italia, esattamente a Fondotoce, vicino Verbania. Era il giugno 1992 quando, dopo una mobilitazione degli ambientalisti, viene sequestrato l'impianto in Piemonte: gli scarichi emettevano cianuro e c'era un rischio serio di esplosione. La sperimentazione che doveva durare sei mesi fu interrotta e dopo alcuni anni i dirigenti della Thermoselect Gunter Kiss, Gugula Freytag e Franz Riegel furono condannati per aver scaricato abusivamente sostanze tossiche nei fiumi che defluivano nel lago Maggiore. Un altro troncone dell'inchiesta fu trasferita al Tribunale di Roma. Nel 1999 l'impianto chiuse definitivamente e oggi è uno dei tanti mostri industriali abbandonati che popola l'Italia.

Non andò meglio in Germania, dove un impianto simile, a Karlsruhe, fu spento nel 2004, dopo aver lasciato un buco di circa 500 milioni di dollari. Anche lì i problemi di sicurezza preoccuparono le autorità, tanto che la stampa locale chiamò la tecnologia Thermodefect. Potenza delle parole.

È il 2005 e il brevetto svizzero riappare in Giappone. «Siamo pienamente soddisfatti delle prestazioni degli impianti», raccontò il vicepresidente della Jfe Sumio Yamada annunciando di aver acquistato il brevetto, sperimentato «con successo» in Italia. Ed è Franz Riegel - lo stesso condannato per l'avvelenamento dei fiumi in Piemonte - a spiegare dal Giappone, dove nel frattempo si è trasferito, come il gassificatore Thermoselect possa risolvere anche i problemi italiani. «L'Italia vive da tempo una situazione di emergenza - disse nel 2005 - e la nostra tecnologia funziona, lo ha dimostrato l'impianto di Fondotoce». L'alleanza tra il gruppo guidato da Manlio Cerroni - vero dominus dei rifiuti nel Lazio - e la Thermoselect era allora già in atto. Nel 2004 - durante un'audizione in commissione bicamerale rifiuti - Manlio Cerroni faceva riferimento all'impianto di Karlsruhe come modello per Malagrotta. Impianto che dopo pochissimo veniva chiuso. Nello stesso periodo Mauro Zagaroli, direttore tecnico della Co.La.Ri. di Cerroni, divulgava in diversi seminari la tecnologia Thermoselect. Slides e presentazioni ancora disponibili su Internet, anche se il brevetto svizzero non viene oggi mai citato nei documenti ufficiali.

Dalla Regione spiegano che la tecnologia è ormai sicura, perché utilizza il Cdr che è un combustibile controllato, mentre a Fondotoce usavano il «tal quale». Chi produce il Cdr però è lo stesso Cerroni, che gestisce la discarica e il gassificatore. E basta una variazione della qualità del Cdr per avere problemi di stabilità nel processo, lo stesso «inconveniente» avuto in Piemonte negli anni '90 e in Germania fino al 2004. I cittadini e le associazioni hanno cercato inutilmente in questi anni di capire meglio come funziona l'impianto sequestrato ieri. «Quando abbiamo chiesto di avere dettagli sulla tecnologia dell'inceneritore di Malagrotta ci è stato opposto il segreto industriale», racconta Raniero Maggini, presidente del Wwf Lazio, «il punto poi è capire quanto sia affidabile il Cdr prodotto come combustibile per l'impianto, pensando anche al fatto che i responsabili sono appena stati condannati per aver introdotto abusivamente rifiuti pericolosi nella discarica di Malagrotta». Rifiuti che sarebbero potuti finire nel Cdr destinato all'impianto, mettendone a rischio la sicurezza. La Regione fa però sapere che tutti i documenti disponibili li ha sempre forniti ai cittadini ed alle associazioni e di aver sempre mantenuto la massima trasparenza.

La sensazione è che il sequestro possa essere solo il primo atto di una serie di iniziative giudiziarie. Con una spada di Damocle che pende sul Lazio, quella dell'emergenza e dei rifiuti nelle strade, che potrebbe essere usata per far digerire la tecnologia Thermoselect, tornata in Italia dopo un passaggio giapponese. E mentre a Malagrotta l'impianto scalda i motori, Cerroni insieme ad Acea e Ama sta riproponendo la stessa tecnologia anche per l'impianto di Albano, a sud di Roma. Anche qui con l'opposizione dei cittadini e dei partiti della sinistra, anche qui giurando che il gassificatore è sicuro e che Fondotoce e Karlsruhe sono brutti ricordi del passato, anche qui raccontando che l'alternativa è l'emergenza in pieno stile campano.

© 2024 Eddyburg