L’Italia è uno dei paesi più belli al mondo. Ha la maggiore concentrazione di beni culturali e centri storici, le più famose città d’arte. Tutto questo è la nostra ricchezza. Rischiamo di perderla, per sempre.
Il PARTITO DEL CEMENTO avanza e non lo ferma più nessuno. Dal nord al sud la febbre del mattone coinvolge banchieri, cardinali, sindaci, deputati di destra e di sinistra. Tutti vogliono guadagnarci, a partire dai Comuni. Così la ricchezza degli italiani vola via. Pensate che tra il 1990 e il 2005 sono stati divorati 3,5 milioni di ettari, cioè una regione più grande di Lazio e Abruzzo messi insieme (la Liguria tra il 1990 e il 2005 si è mangiata quasi la metà del territorio ancora libero!). Il tutto a un ritmo di 244.000 ettari all’anno (in Germania 11.000 all’anno). Ciò nonostante troppi italiani sono senza casa perché mancano gli alloggi “sociali” (solo il 4 per cento sul totale contro il 18 per cento della Francia, il 21 per cento del Regno Unito). Intanto 5500 comuni su 8000 sono a rischio di dissesto idrogeologico. I soldi per il ponte di Messina ci sono, per le frane no.
Gli autori di questo libro sono andati a vedere l’ITALIA COM’È e la raccontano con nomi e cognomi di affaristi, banchieri, cardinali, sindaci e deputati: la SARDEGNA di nuovo in mano agli speculatori, le LANGHE trasformate in shopville, l’invasione di seconde case sulle ALPI (costruiscono persino sulla Marmolada!), il BRENTA violentato, gli affari della CHIESA nelle CITTÀ LIGURI, le grandi operazioni di Ligresti e dei soliti noti a MILANO, di Caltagirone e dei soliti noti a ROMA, la storia triste di BAGNOLI. Neanche SIENA e FIRENZE vengono risparmiate. E ritorna la febbre da stadi e autodromi, nuove occasioni per ulteriori speculazioni.
Ma cosa gliene viene agli italiani di tutto questo? Meno male che non tutti abbassano la testa. COMITATI DI CITTADINI si stanno formando in Veneto, Toscana, a Milano, in tanti centri grandi e piccoli. La legge del 1986 che stabilisce le norme per danno ambientale è dalla loro. Per questo adesso molti la vogliono cambiare.
“INDIGNATEVI, RAPIDAMENTE. NON LASCIATE CHE DETURPINO IL VOSTRO BENE PIÙ PREZIOSO, IL TERRITORIO... CHIAMATE A RACCOLTA TUTTI.”
Luca Mercalli
GLI AUTORI
Ferruccio Sansa, quarantuno anni, giornalista a “Il Messaggero”, “la Repubblica”, “La Stampa”, è ora inviato de “il Fatto Quotidiano”. Con Luigi Offeddu ha scritto i libri-inchiesta RAGAZZI DI SATANA (Rizzoli-Bur 2005) e MILANO DA MORIRE
(Rizzoli-Bur 2007). Con Marco Preve IL PARTITO DEL CEMENTO (Chiarelettere 2008).
Andrea Garibaldi, cinquantacinque anni, romano, ha lavorato per vent’anni a “Il Messaggero”. Dal 2004 è inviato speciale per il “Corriere della Sera” e si occupa prevalentemente di politica nazionale. Ha pubblicato QUI COMINCIA L’AVVENTURA DEL SIGNOR con Roberto Giannarelli e Guido Giusti (La Casa Usher 1984), la biografia di Enrico Lucherini e Matteo Spinola C’ERA QUESTO C’ERA QUELLO (Mondadori 1984) e PIOMBO E CARTA, CRONACHE DA SARAJEVO ASSEDIATA (Protagon 1994).
Marco Preve, quarantasei anni, è nato a Torino ma vive e lavora a Genova da quasi vent’anni come giornalista de “la Repubblica”. Cura quotidianamente su internet un blog dal titolo “Trenette e mattoni” all’indirizzo www.preve.blogautore.repubblica.it. Giuseppe Salvaggiulo, trentatré anni, pugliese, ha lavorato nelle redazioni di “Libero” e “Il Giornale”. Dal 2008 si è trasferito a Torino e lavora a “La Stampa”, dove si occupa di cronaca, politica
e società. Nel 2009 ha pubblicato FLOP. BREVE MA VERIDICA STORIA DEL PD (Aliberti Castelvecchi).
Antonio Massari, quarantuno anni, barese, scrive per “il Fatto Quotidiano” e ha collaborato con “la Repubblica”,“La Stampa”, “il manifesto”, “l’Unità”, “L’espresso”. Ha pubblicato IL CASO DE MAGISTRIS (Aliberti 2008) e CLEMENTINA FORLEO, UN GIUDICE CONTRO (Aliberti 2009).
La città e i suoi malesseri. La città e la sua storia. Le riflessioni si rincorrono e si scontrano, escono libri, e a Roma, dove si sono appena inaugurati il Maxxi (opera di Zaha Hadid) e il nuovo Macro (firmato da Odile Decq), si annuncia dal 9 al 12 giugno una Festa dell’architettura con quattro giorni di incontri e dibattiti. Titolo: «Mito. Realtà. Progetto. La città dell´architettura è tutta contemporanea, dai Fori alle periferie». Il curatore è Francesco Garofalo, inaugura Alvaro Siza e intervengono, fra gli altri, Eduardo Souto de Moura, Bernard Tschumi, Massimiliano Fuksas, Stefano Boeri, Giovanni Caudo, Franco Purini, Francesco Cellini, Carlo Olmo ed Eyal Weizman.
Tutto questo interesse si manifesta mentre si fa più acuta una contraddizione: chi vive in città - lo ha accertato l´Onu - è diventato maggioranza nel pianeta. Contemporaneamente la città è cambiata fin quasi a essere irriconoscibile. Al punto da indurre uno storico dell´architettura di grande esperienza e lungimiranza, come Leonardo Benevolo, a ipotizzare che si stia chiudendo un ciclo. «Mentre fino a qualche decennio fa distinguere la città dal territorio organizzato diversamente era alla portata di tutti», spiega, «oggi la differenza fra un dentro e un fuori della città è diventata più difficile da percepire. E abbiamo davanti la prospettiva di un’esperienza storica che volge al termine».
Le città si trasformano, eppure poche altre volte come in questi ultimi tempi, la città è stata oggetto di ricerche. Gli urbanisti dialogano con gli economisti. E, insieme, consultano antropologi e sociologi. Molto successo hanno anche in Italia le riflessioni dell’americana Sasskia Sassen, che studia le "città globali", quelle che intrecciano rapporti fra loro al di là degli stati nazionali. O, all´inverso, le indagini dello storico Mike Davis, che analizza gli slum sparsi fra Africa, Centro e Sud America e Asia.
Benevolo, dal canto suo, si produce in una perfetta e simmetrica periodizzazione: «Dietro di noi ci sono due fasi che durano entrambe, grosso modo, cinquemila anni: l’età neolitica e l’età che comincia, fra IV e III millennio a. C., con la nascita della città». Ora questo secondo ciclo sta arrivando a conclusione sotto i nostri occhi. E dopo? «Certo non c’è il vuoto, quel vuoto, per esempio, che si presentava al cospetto dell’uomo del Neolitico».
Una delle caratteristiche che segna per le città un passaggio di stato, è l’elemento della sua finitezza. Le città da alcuni decenni hanno perso il senso del limite. Non solo l’hanno spostato oltre, sempre più oltre, ma l’hanno scavalcato e ora l’ignorano. Fisicamente e concettualmente. Al posto della città c’è la "città diffusa" – un’espressione introdotta da Francesco Indovina negli anni Novanta del Novecento. Anche per un urbanista come Bernardo Secchi, che ha lavorato molto in Italia e poi ad Anversa, Rouen, Rennes e Ginevra e ora è impegnato a Parigi, «stiamo assistendo a un passaggio epocale». Ma la città non scompare, aggiunge Secchi. Inoltre la "città diffusa" è una formula che si riferisce «a situazioni molto differenti. Differentemente declinata nel Veneto, in Lombardia, nelle Marche o nel Salento, nelle Fiandre, in Bretagna o nel nord del Portogallo, a Taiwan o nelle aree interne della Cina».
Fra gli urbanisti le posizioni si divaricano. C’è chi, come Secchi, ritiene che la città diffusa non sia il male assoluto. «La nuova forma di città», spiega, «con la sua grana larga, con i suoi vasti spazi interclusi, inedificati e tuttora destinati all’agricoltura, offre grandi opportunità per politiche che si confrontino seriamente con i problemi ambientali». I danni della dispersione abitativa sono invece sottolineati da Vezio De Lucia, per cinque anni assessore a Napoli, autore di molti piani regolatori e di un libro appena pubblicato, Le mie città (Diabasis, pagg. 210, euro 18). Il prodotto della città diffusa è, a suo giudizio, soprattutto il consumo del suolo, bene irriproducibile. «In Italia il problema del contenimento dell’espansione disordinata della città è sconosciuto», sostiene l’urbanista. «La Germania», aggiunge, «ha elaborato un piano per la riduzione del consumo di suolo da 130 a 30 ettari giornalieri. La Gran Bretagna protegge con le sue green belt, le cinture verdi, un milione e mezzo di ettari - il 12 per cento dell’intero paese - e consente nuove edificazioni a patto di riutilizzare prevalentemente aree già urbanizzate e dismesse. In Francia si evita la dispersione urbana con leggi che impongono di costruire esclusivamente in continuità con le zone urbanizzate».
La città che supera i suoi limiti può farlo in modo regolato oppure affidandosi solo al mercato o, peggio, alla speculazione. Fra Emilia, Lombardia e Veneto la città invade la campagna senza trasmetterle qualità urbana e anzi disseminandola di case, stabilimenti e centri commerciali che le impediscono comunque di restare campagna. Stando ai dati contenuti nel libro curato da Paola Bonora e Pierluigi Cervellati, Per una nuova urbanità dopo l’alluvione immobiliarista (pubblicato da Diabasis) la superficie urbanizzata in Italia tra il 1956 e il 2001 è aumentata del 500 per cento.
Ma la questione, riportata all’Italia, viene condensata in un interrogativo: quanta consapevolezza di questo fenomeno c’è a livello politico? Giuseppe Campos Venuti, fra i più illustri urbanisti italiani, ha dovuto scorrere per tre volte l’elenco dei nuovi assessori della Regione Emilia Romagna per convincersi che non ce n’era nessuno incaricato all’urbanistica. Il racconto della sua stupefatta scoperta l’ha consegnato alle pagine bolognesi di Repubblica, definendo la scelta «sconcertante e incomprensibile». D´altronde, ricorda Campos Venuti, «la società non ama l’urbanistica». E questa espressione l´ha anche usata per intitolare un capitolo del libro-intervista che ha appena pubblicato, Città senza cultura (Laterza, pagg. 190, euro 12, a cura di Federico Oliva).
Non sono solo gli urbanisti a interrogarsi sulla questione urbana. L’economista Antonio Calafati, professore ad Ancona, sostiene che «in Italia non ci sono più città, ma sistemi urbani, nei quali le città storiche si sono dissolte». È accaduto al Nord, nelle zone industriali, aggiunge Calafati, ma persino in quelle marginali. A questo fenomeno, però, non ha corrisposto una integrazione istituzionale. Sono rimasti in piedi le competenze dei singoli comuni, poi della provincia, anzi delle province, infine delle regioni. Queste aree che si andavano formando, insiste Calafati, non hanno governo. Non hanno strategie né progetti. Non sono luoghi, a differenza di altre realtà europee, che agevolino sviluppo economico. Insomma, consumano suolo, ma non sono occasioni di crescita. Calafati ha da poco pubblicato un libro su questi argomenti, si intitola Economie in cerca di città (Donzelli, pagg. 147, euro 25). La questione urbana, sostiene, «dovrebbe essere affrontata con urgenza, in quanto costituisce una delle principali ragioni del declino economico del paese». E così le città, che nella storia sono sempre state il luogo dell’innovazione, ridotte in Italia a sistemi urbani senza governo, l’innovazione rischiano di frenarla.
A causa di un’interpretazione perversa, nichilista e schizofrenica della globalizzazione, l’architettura sta rinunciando a tre suoi storici principi: quello di modificare il contesto urbano con un disegno razionale e socialmente condiviso; quello di lavorare anche nella piccola dimensione e, infine, quello di intendere la costruzione come metafora di lunga durata. È quanto denuncia Vittorio Gregotti in Tre forme di architettura mancata (Einaudi).
Sono considerazioni veritiere, frutto di un’analisi attenta delle trasformazioni in atto nelle città del mondo.
La prima rinuncia riguarda il disegno, ovvero lo strumento di mediazione tra pensiero e azione costruttiva, «ridotto oggi a design», così come l’architettura è ridotta a immagine al servizio del consumo e del consenso. Tra le cause che hanno portato a questa condizione Gregotti ne evidenzia, in particolare, due. Una è l’estensione del termine «creatività» a qualunque fenomeno e la sua identificazione con la «diversità» o la «bizzarria». Aspetti, questi, che portano a privilegiare i progetti più mercificabili perché rispondenti ai criteri di spettacolarizzazione (come studiati da Guy Debord). Gregotti rivolge a questo atteggiamento la critica di Kristeller: «Nel mondo esistono molte idee originali, che però sono inutili o persino dannose». La seconda causa che ha portato alla prima rinuncia è la feticizzazione dei nuovi mezzi di rappresentazione. Gregotti ritiene che i nuovi mezzi messi a disposizione dalla rete e dal broadcast non abbiano ancora «trovato una relazione con i processi di costituzione del progetto».
La seconda rinuncia dell’architettura contemporanea, indotta dalla predilezione accordata oggi ai flussi immateriali e al consumo, è la negazione con la storia e con i luoghi come territori della memoria da trasformare nel dettaglio. In sostituzione a questa relazione assistiamo al trionfo del colossale, diventato quasi un’esibizione fallica del potere. Si tratta di una «bigness» architettonica (il grattacielo più alto, più storto, ruotante...) che nulla ha a che vedere con le cosiddette sette meraviglie, o colossi, del mondo antico, ma è espressione di «potere violento», come si mostra nei Paesi asiatici, dagli Emirati alla ex Unione sovietica. Solo rivalutando l’importanza del contesto, «proprio perché viviamo un’età di incertezza dei fondamenti e delle regole», e solo affidando la trasformazione al disegno al di fuori di un uso ideologico possiamo riassumere una «responsabilità di lunga durata». Accettando di essere solo rispecchiamento del nichilismo contemporaneo (quasi una nemesi per il pensiero di sinistra che aveva sostenuto la «teoria dell’arte come rispecchiamento» di Lukács, e questa è una possibile prima obiezione alle «tre rinunce») l’architettura si presenta come mera merce comunicativa, rinunciando a quel cammino di rischiaramento proposto dal Razionalismo così come va definendosi tra il 1910 e il 1933 e che trova la sua genesi già nel Settecento utopistico di Ledoux.
Infine, lo «scostamento» verso un’idea di arte come appagamento delle emozioni sottrae all’architettura una terza caratteristica sua propria: quella di essere una «metafora dell’eternità» come fu dalle origini, siano esse fissate nella capanna primitiva di Laugier o nel vitruviano radunarsi degli uomini intorno al fuoco.
L’architettura, dunque— come scrive Gregotti —, è diventata «landmark», oggetto di arredo urbano, «brand», packaging, mezzo per creare consenso politico (questo, che ora si chiama marketing urbano, non è però una novità) ecc. ecc. Ma perché oggi avviene questa triplice dissociazione tra l’architettura e la sua tradizione?
Credo non inopportuno provare a tracciare qualche risposta come avvio di un discorso sull’analisi di Gregotti.
Anzitutto perché l’attuale «società liquida» è dissociata, schizofrenica, giunta alla creazione di cellule artificiali, corpi transgenici, organizzazioni post famigliari, sistemi a obsolescenza rapidissima e molto altro ancora. L’architettura, che come diceva il filosofo progressista Enzo Paci in Relazioni e significati, deve ogni volta rifare i conti con la Lebenswelt, con «il mondo della vita», poteva o doveva restare impermeabile a tutto ciò (seconda obiezione alle «tre rinunce»)?
L’architettura, proprio perché opera su un territorio della memoria (la conservazione delle tracce materiali mi sembra una consapevolezza abbastanza raggiunta), è chiamata a lasciare una testimonianza formale anche di questa nostra stagione, per quanto perversa possa essere. Altri conserveranno o cancelleranno questi nostri segni.
Bene, ma l’architettura, ha detto altrove Gregotti, può assumersi però il compito di porsi come attività di critica operativa verso questa società, proprio partendo— con una ipotesi di lavoro che era un tempo patrimonio della destra conservatrice— dal rispetto per la propria tradizione. Questo è il coraggioso obiettivo di Gregotti. Ma come realizzarlo non solo a parole? Un muro dritto e spoglio, anziché storto e colorato, ci farà essere uomini migliori come pensava Rousseau nel 1747? «Lo sforzo progettuale — scrive come messaggio in bottiglia Gregotti — si dovrebbe concentrare sempre intorno alla ricerca di un principio insediativo che facesse spazio al nuovo come ragionevole dialettica nei confronti del contesto, si proponesse radicalmente diverso nei principi anziché nella morfologia decorativa... e al riparo dalla ridondanza... Un’architettura nobilmente semplice».
«Nobile semplicità», come obiettivo dell’arte: l’aveva già scritto Winckelmann nel 1746. Ma quanta alta ambizione c’è nell’affidare all’architettura un ruolo da protagonista nella trasformazione sociale, chiedendole di non cedere al soddisfacimento di desideri semplici (come invitava invece a fare il filosofo marxista Ernst Bloch in Il principio speranza, terza possibile obiezione alle «tre rinunce»)! In una civiltà che abbandona anche il «principio d’individuazione» del singolo individuo, l’architettura dovrebbe non mollare Alberti e Vitruvio e farsi quasi braccio operativo delle «scienze sociali». Rischiando di tornare ad essere persino una «istituzione totale», pericolo mostrato dal filosofo filo maoista Michel Foucault (quarta obiezione alle «tre rinunce»). In questa prospettiva c’è qualcosa di glorioso e nobile per l’architettura, che la rende autonoma nelle scelte rispetto alle altre discipline, ma anche eteronoma rispetto agli scopi da raggiungere.
Marco Ermentini, Architettura Timida. Piccola enciclopedia del dubbio, Nardini Editore, Firenze 2010, pp. 95, euro 18,00
Gli architetti razionalisti radunati attorno alla rivista «Quadrante» - diretta da Pier Maria Bardi e Massimo Bontempelli - definivano «arrogante» l’architettura diversa da quella, la loro, fondata sulla ragione, la chiarezza e la proprietà delle forme e dei contenuti, sul rifiuto di elementi decorativi superflui. Insomma, l’architettura razionalista. Arrogante era l’edilizia «del mercato immobiliare», diremmo ora, ma anche una parte dell’architettura del Novecento milanese d’autore, persino la Ca’ Brütta di Colonnese e Muzio, se, eretta in basi ad altissimi indici di sfruttamento fondiario, era costata la distruzione di «uno dei più romantici giardini della Milano ottocentesca» (Piero Bottoni). Ora, nel nostro tempo dai tanti valori morali perduti, l’arroganza e, come ci insegna l’incantevole libretto di Marco Ermentini, l’intolleranza e la violenza, spesso la stupidità, contraddistinguono buona parte dell’architettura e del restauro. Come comportarsi, da architetti, se non all’incontrario?
Ermentini ha fondato con il filosofo Andrea Bortolon e l’artista Aldo Spoldi nel 2000 all’Accademia di Brera la SAA (Shy Architecture Association), movimento per l’architettura timida che auspica «un modo più discreto di situarci nella realtà utilizzando la non violenza verso le cose» (p. 74). Gli architetti devono conoscere con amorevolezza gli edifici, essere pazienti, delicati, desistenti, lenti come Bartleby lo scrivano del racconto di Melville. «Preferisco di no» diceva di fronte a certi ordini che non corrispondevano al suo modo di stare al mondo in maniera silenziosa, riservata, nascosta. Il carattere del bravo architetto o restauratore si modelli non su quello di Sisifo, potente, astuto e fraudolento, ma su quello del coniglio, delicato, riflessivo e leale.
Un armamentario di cento lemmi, termini singoli o brevi titoli, ognuno dotato di un’immagine, illustrativa o traslata, ci guida lungo un’«enciclopedia del dubbio» che ci offre invece le basi di una serena certezza. Minime narrazioni, intelligenti contestazioni, amare e dolci ironie, fulminanti paradossi: tutto si tiene, come le stratificazioni dell’anti-restauro perorato da Ermentini, per approdare alla regola ultima della «rivoluzione timida»: applicare la «metanoia» e la «cairologia», ossia «convertirsi a un rapporto più cordiale e armonioso con i sistemi naturali» (p. 71), trovare la misura e il momento giusti, opportuni.
Limitare il consumo del suolo, opporsi all'urbanistica privatizzata, affermare il governo pubblico del territorio, tutelare il paesaggio e la sostenibilità delle città. Tutto questo senza dimenticare lo sviluppo e l'occupazione. Sono i pochi, ma essenziali e determinanti punti cardine, che hanno guidato l'intensa storia professionale di uno dei maggiori urbanisti italiani. Quella di Vezio De Lucia, che nel suo "Le mie città" (ed. Diabasis), libro a metà tra cronaca e biografia, racconta 50 anni di urbanistica e una carriera ricca di impegni istituzionali e politici (direttore generale dell'urbanistica al ministero dei Lavori pubblici, è stato consigliere regionale Pci nel Lazio, assessore nella prima giunta Bassolino, Consigliere nazionale di Italia Nostra) . Mezzo secolo che ha visto mutare i centri urbani, con i tentativi di governo del centrosinistra del ministro dei Lavori pubblici Giacomo Mancini, fino ai disastri del disegno di legge Lupi e del "pianificar facendo" o della "deroga come regola", vera disgrazia per una razionale pianificazione urbanistica.
Una storia che parte da lontano, quando De Lucia, giovane architetto alle prime esperienze, fu costretto ad assistere a una delle prime tragedie legate allo sfruttamento dissennato del territorio: era il 19 luglio 1966, e mentre in Inghilterra la nazionale italiana perdeva per 1 a 0 contro la Corea del nord, a Agrigento, una frana causata dal sovraccarico della speculazione edilizia, distruggeva centinaia di case. Fu proprio in quei giorni che De Lucia decise di lasciare l'Istituto romano dei beni stabili, ente che gestiva un enorme patrimonio edilizio, per entrare all'Istituto nazionale di urbanistica. «Capii che esisteva un altro modo lavorare per chi si occupa di edilizia e urbanistica, un modo nel quale gli architetti invece di piegarsi alla volontà dei privati, possono e devono contribuire alle scelte», scrive De Lucia. Un passo decisivo che lo ha portato, per conto di istituzione pubbliche, a occuparsi della redazione di piani strutturali di Pisa, Lastra a Signa, Gavorrano e dei Comuni della Val di Cornia; dei piani territoriali di coordinamento di Pisa e Lucca; dei piani strutturali coordinati di San Piero a Sieve e Scarperia.
Tra i primi impegni di De Lucia, c'è il Piano del comprensorio di Venezia con il quale, alla fine degli anni Settanta, si cercò di realizzare nuove abitazioni senza ricorrere a nuovo consumo di suolo ma recuperando lo spazio già incluso e male utilizzato nel perimetro cittadino. «Una soluzione agli antipodi rispetto al dissennato modello di sviluppo della Padania, già allora volto a eliminare ogni soluzione di continuità fra i centri urbani», scrive De Lucia. Un percorso che prosegue con la prima vera prova professionale: la ricostruzione del dopo terremoto a Napoli. Proprio in questo contesto, per evitare ogni genere di speculazione edilizia, nacque l'idea (che suscitò un acceso dibattito) «della preventiva acquisizione pubblica di notevoli estensioni di aree». «Il piano delle periferie - racconta De Lucia - formò il nocciolo centrale del programma per la ricostruzione con il completamento dei due grandi quartieri di edilizia pubblica di Ponchielli e Secondigliano, la realizzazione di 50 interventi di recupero con annessi servizi, spazi verdi per circa 100 ettari". Sempre a Napoli un altro grande impegno: l'assessorato all'urbanistica della prima giunta Bassolino (1993-1997). In questo caso, oltre alla gestione del G7, delle Vele e di Scampia, e di parcheggi, De Lucia, grazie agli Indirizzi urbanistici e alla Variante di salvaguardia, ha garantito la tutela delle aree verdi sopravvissute alla speculazione edilizia del dopoguerra: 3.500 ettari sugli oltre 11 del territorio comunale, porzioni di terreno in parte ancora coltivati che arrivano fino al centro cittadino.
Ma l'armonia con la città partenopea finisce presto e precisamente quando Bassolino decide di passare tra coloro che si sono fatti "irretire dalle sirene della scorciatoia e della disinvoltura urbanistica» (fine 1997). Una linea che ritroviamo a Roma, con l'approvazione, nel 2008, del piano strutturale. «Negli ultimi 15 anni il governo della capitale si è collocato in uno spazio politico e culturale ambiguo: non hai smesso di dichiarare l'adesione all'urbanistica d'iniziativa pubblica, ma contemporaneamente ha praticato con disinvoltura ogni forma di contrattazione promuovendo interventi edilizi in ogni angolo del territorio urbano. La conseguenza è stato lo stravolgimento dello scenario fisico che attornia Roma». E' la nuova strategia del "pianificar facendo" che il disegno di legge Lupi (oggi deputato Pdl, già assessore all'urbanistica nel comune di Milano) ha rischiato di diventare, oltre che una pratica molto diffusa, un "modello istituzionale". La norma poi bocciata nel 2005, ha tentato di «privatizzare l'urbanistica, lasciando il comando nella mani della rendita fondiaria e cancellando il principio stesso del governo pubblico del territorio nel quale l'interesse collettivo è solo uno degli attori in gioco».
Eppure, un altro modello è possibile. Lo dimostrano altri stati europei. La Germania ha elaborato un piano nazionale per la riduzione del consumo del suolo da 130 a 30 ettari giornalieri; la Gran Bretagna, che protegge da 70 anni le green belt il 12% del paese, ha scelto una strada differente fissando l'obiettivo di soddisfare, mediante riciclo delle aree urbanizzate, una quota di nuova edificazione, definita localmente, e comunque non inferiore al 50-60%; per evitare la dispersione urbana, in Francia, le leggi sul paesaggio rurale e le montagne impongono che le nuove edificazioni siano in continuità con i nuclei insediativi esistenti. Esempi virtuosi, che esistono, più come un'eccezione che come una regola, anche nel nostro Paese. E' il caso del piano strutturale di Lastra a Signa al quale ha collaborato De Lucia. «I problemi della crescita quantitativa pur prevista in misura certamente non trascurabile, sono stati risolti senza ricorrere a nuove urbanizzazioni. Vale a dire senza ridurre lo spazio dell'agricoltura e delle aree in condizioni naturali". Il metodo seguito nel Comune dell'area fiorentina, è consistito nel reperimento delle superfici necessarie per soddisfare i bisogni di spazio per la residenza, per le attività lavorative e per i servizi, per il turismo e il tempo libero, nell'ambito delle cosiddette "aree critiche", intendendo per tali gli immobili, le aree o gli edifici, degradati, dismessi o male utilizzati, oppure quelli che ospitano funzioni incongrue dal punto di vista della compatibilità ambientale, urbanistica o estetica o comunque meritevoli di trasformazione. "A conclusione dell'indagine sulle aree critiche - racconta De Lucia - la superficie disponibile è risultata addirittura superiore alle necessità». Un'esperienza simbolo, quella di Lastra a Signa, che dimostra come «è possibile lo sviluppo senza sciupare lo spazio».
Vezio De Lucia “ Le mie città. Mezzo secolo di urbanistica in Italia” Prefazione di Alberto Asor Rosa. Ediz. Diabasis Reggio Emilia 2010. Euro 18.
Quello di raccontare le città come se fossero “proprie” è privilegio concesso solo ad alcuni urbanisti. A chi affronta quel duro lavoro dispiegando sul tavolo la planimetria della città che si vuole “possedere”.
Guardare le città, dall’alto della loro più compiuta forma di rappresentazione, permette di farle proprie nella sola forma accettabile del desiderio: quella di riconoscere, nei segmenti di costruito sempre pronti a tracimare su elementi e spazi naturali, la possibilità di porre fine al consumo di suolo urbanizzato che, nel nostro paese, è avvenuto, in termini di quantità edificata nell’ultimo mezzo secolo, moltiplicando per nove quanto si era costruito nei precedenti duemila anni.
Vezio De Lucia, che ha fatto della lotta al consumo di suolo, il progetto della propria vita, a buon diritto, titola “le mie città” il libro in cui analizza la deriva della disciplina urbanistica. Odia i privilegi; così dichiara, subito, che la sua forma di possesso è la passione. Quella che prova e ha provato per quei luoghi in cui ha combattuto e combatte.
Che si sia trattato di battaglie è evidente solo pensando alla sua “cacciata” dal Ministero dei Lavori Pubblici da parte di un ministro star della stagione di tangentopoli.
Le città e i territori di Vezio sono quelli che ha attraversato da funzionario pubblico, amministratore, progettista, studioso, dove, sempre, ha cercato di far comprendere che “non sono le previsioni urbanistiche a determinare il successo delle previsioni economiche”. Che le radicali operazioni di trasformazione della città contemporanea potranno essere possibili solo intervenendo su proprietà pubblica delle aree e controllo pubblico delle decisioni.
Che, ancora, le sue città - ma anche il paese- non meritano quello che, in questo mezzo secolo di urbanistica, hanno subito come esito della disciplina urbanistica. Il libro territorializza e mette in fila questi snodi; presenta i progetti messi in campo per contrastarli.
Vezio continua a dirci che in urbanistica non esistono diritti acquisiti una volta per sempre. Che l’urbanistica serve: a ridefinire le forme politiche per non far svendere o riconquistare la ricchezza dell’abitare che ci deriva dal comprendere prima e valorizzare poi, proprio i beni comuni; che la città è costruzione collettiva per eccellenza.
Che i piani, quando riescono a motivarlo come vantaggio per i più, possono [ debbono] cancellare previsioni palesemente errate. Ed è qui che le cose si complicano.
Come è possibile cercare motivazioni per il bene dei più quando insieme con l’urbanistica è scomparsa proprio la grande narrazione urbana alla base dell’abitare; quando una strumentazione tecnica di chiaro stampo eversivo persegue la sola valorizzazione immobiliare? Quando i piani non sono pensati a dare sostanza alle cose sperate, ma a confinarci nella miseria dell’attuale nostro abitare?.
Con passione. “ Senza passione - dice Vezio - sono i pedanti”. Non esiste altro progetto possibile per conquistare quei dispositivi che, mutando la nostra condizione di abitanti della metropoli, ci facciano considerare anche le forme della produzione umana. E’ il lavoro, la creatività, le idee i pensieri, i saperi, le immagini, gli affetti, le relazioni sociali a qualificare il valore della vita come scala di valutazione dell’abitare. Per desiderare [possedere] le nostre città. Asor Rosa dice, introducendo il libro, addirittura per cambiare il mondo perché “per redimere la politica c’è bisogno dell’urbanistica e viceversa”.
Non è solo il governo del territorio, l’urbanistica. È politica, è parte di quel vivere civile che pure resiste, sopraffatto oggi dalla rapacità e dall’ignoranza dei potenti. Di questo parla «Le mie città» di Vezio De Lucia.
Facile dire: città. Non so lo pietre e mattoni, ma storia e cultura, politica e società. Provate a leggere Le mie città di Vezio De Lucia (Diabasis). Sono le sue, ma anche le nostre. Cinquanta anni da urbanista vissuti tra speranze e impegno con una bussola forte, l’interesse pubblico. Perché è questo che fa «città»: saper leggere tra le pieghe della comunità, riconoscere l’interesse di tutti e quello dei singoli. Andare oltre al sogno di una paperopoli di villettine in cui rinchiudersi con la tv accesa. Blob melassoso che sta invadendo alcuni dei paesaggi più belli del mondo, cancellando campi e boschi. E che crea insicurezza e paure profonde, tendenza resistibile. Diritti, rispetto, umanità, cultura; se un gruppo si fa comunità è questo il vivere civile. Ora che le città crescono in nome di interessi minuti se non di lobby e di apparati vischiosi, bisogna pur ricordarlo.
Non è un barricadero, De Lucia, né un rivoluzionario. Della stagione del riformismo ci racconta però lo sforzo tenace e controcorrente. E ci porta, pagina dopo pagina, a conoscere uomini a volte dimenticati a cui dobbia mo molto. Antonio Cederna e Italo In solera, Piero Della Seta e Antonio Ian nello, Adriano La Regina e Giovanni Astengo, Leonardo Benevolo e Danilo Dolci, Michele Martuscelli e Eddy Salzano.
L’Italia che lotta per il diritto alla casa ha trovato, a tratti, risposte nell’amministrazione pubblica. Le vittime dei terremoti in Sicilia e Campania hanno avuto ascolto e soluzioni, almeno finché i finanziamenti a pioggia gestiti con grettezza e rapacità non hanno edificato quel disastro, anche morale, che è l’Irpinia.
Il giovane architetto assunto ai Beni stabili colpito dalla tragedia di Agrigento, erano gli anni 60 rinunciò a una lucrosa carriera per fare il funzionario ministeriale. Ai Lavori pubblici lavorò alla legge sugli standard di verde pubblico utili a una miriade di comitati per frenare l’avidità dei costruttori all’equo canone, al Piano casa. Poi, espulso dall’intolleranza del non illuminato Prandini, fu assessore a Napoli, nella stagione del migliore Bassolino, prima del precipizio.
Eccole le «nostre» città. Venezia, Eboli. E poi Roma, Pisa, Formia, Lastra a Signa, la piccola città toscana che rifiuta di diventare hinterland e sceglie il «saldo zero», nessuna nuova costruzione né uso di nuovo territorio ma solo riuso di aree compro messe e parchi a verde. All’Aquila ha dato voce alla critica sulle new town, che hanno consumato il territorio dando una risposta provvisoria e nessun servizio (dove comprare il pane? Dove trovare il giornale?): e il centro storico è rimasto là, in macerie.
L’urbanistica è politica. La deregulation sancita per legge dichiara che la comunità non conta nulla, vince il più forte. Idea eversiva contrabbandata come modernizzazione. A far da argine non bastano ma per fortuna ci sono i comitati cittadini: «Il berlusconismo è diventato la filosofia po litica dominante, anche dove non governa il centrodestra. Sono davvero i peggiori anni della nostra vita». Sicuro. Ma a volte toccare il fondo dà lo slancio per la risalita. E l’orrore del buio dà il coraggio per cercare la fine del tunnel.
26 aprile 2010. Ieri, sessantacinquesimo anniversario della Liberazione, eravamo alla manifestazione milanese in Piazza Duomo, con i giovani. Milano, luogo topico della Resistenza, dell’antifascismo. Novara e la sua provincia non meno. Anzi. Le battaglie del ’43-’45 nelle valli dell’Ossola e in Val Sesia appartengono alla storia più intensa della guerra partigiana. Temo che si sia perso il ricordo della repubblica indipendente dell’Ossola instaurata dalle formazioni “ribelli” nel cuore del dominio tedesco e fascista.
Il comune di Novara e il Novarese, ora città e territorio sotto la cappa nera leghista e berlusconiana, noti come “provincia rossa” fin dal primo dopoguerra quando, nelle elezioni del 1921, le sinistre raccolsero il 54 per cento dei voti, furono protagonisti rivoluzionari nella storia d’Italia in tre fondamentali passaggi. Del primo, anche gli scolari ricordano l’avvenimento famoso: la battaglia del 23 marzo 1849, la sconfitta inflitta dall’esercito austriaco ai piemontesi presso il borgo della Bicocca a sud del capoluogo, l’armistizio firmato dal re Carlo Alberto a Vignale davanti al maresciallo Radetzky. Ma pochi conoscono l’appassionata adesione dei novaresi ai moti della sperata rivoluzione nazionale tra il 1848 e il 1849 (cfr. Alfonso Leonetti nella Prefazione alla prima edizione, p.19). Il terzo, in ordine di data, appunto la lotta armata contro i nazisti e i fascisti dopo il settembre 1943. Il secondo, la «guerra civile tra fascismo e classe operaia nel luglio 1922» (Leonetti, idem), oggetto di questo straordinario libro (versione riveduta e ampliata dell’edizione del 1972).
Che, mentre risolve in noi milanesi di adozione colpevoli vuoti culturali, suscita subito un sentimento quasi di orgoglio per essere vecchi novaresi, di nascita e tradizioni familiari, poi risveglia la memoria dei luoghi conosciuti teatro delle vicende, dei loro nomi: oltre a Novara, centro del territorio coinvolto, comuni e frazioni circostanti, Casalino, Lumellogno, Granozzo, Nibbiola, Trecate, Romentino… Barengo sotto la collina…, e i borghi urbani ubicati oltre i resti delle mura spagnole (i “Baluardi”), Sant’Andrea, Sant’Agabio, San Rocco…
Fu un’esplosione concertata quella della violenza fascista che gli operai e i salariati contrastarono rispondendo colpo su colpo. Diciamo violenza fascista ma apprendiamo che un altro tipo di violenza dobbiamo attribuire alle guardie regie. Benché non colpevoli di delitti gravi verso i manifestanti e scioperanti antifascisti, di fatto si schierarono in favore delle bande di camicie nere e ostacolarono o bloccarono le controffensive proletarie che pur si trovavano dalla parte, per così dire, della legalità nazionale malamente rappresentata dalle forze di sicurezza.
Come spesso nelle vicende storiche di guerre, battaglie, invasioni, stermini, scattò un pretesto, ossia un’auspicata ragione delle aggressioni fasciste, ben presto diventate feroce organizzazione di assalti prima ai luoghi della socializzazione, della resistenza e del contrattacco operaio, specie i Circoli e la Camera del Lavoro, poi ai siti delle istituzioni democratiche come i municipi, quelli governati dai rossi. Il pretesto fu l’uccisione il 9 luglio 1922 a Casalino (il piccolo comune agricolo a una dozzina di chilometri dal capoluogo in direzione di Vercelli) di un giovane, Angelo Ridoni, fascista e squadrista. Di qui comincerà quella che Cesare Bermani ha voluto chiamare «battaglia di Novara» intendendola, crediamo, come reductio ad unum di molteplici scontri nelle due settimane dal 9 al 24 luglio, durante le quali si fronteggeranno la barbarie fascista e l’eroica arditezza proletaria, socialcomunista. A cominciare dalla battaglia di Lumellogno (frazione del comune di Novara fra il centro e Casalino), durante la quale si ebbero sei morti e sette feriti tra i proletari, un morto e quattro feriti tra i fascisti, si combatterono così numerose battaglie nei centri della campagna e nella città che sarebbe possibile parlare di un’altra guerra dopo la grande guerra patriottica, quella degli antifascisti novaresi contro i distruttori della già debole democrazia.
Forse unico presupposto obbligato, vincendola, per evitare al paese la caduta nel gorgo della dittatura reazionaria e criminosa che lo porterà alla rovina. Forse, diciamo, perché il nodo della contesa storico-politica è questo: se, da un punto di vista della sinistra, la battaglia di Novara fu un’avventura già prima segnata dal destino che ebbe, oppure – è la posizione di Bermani nonché di Leonetti, la stessa che tenne allora “l’Ordine Nuovo” – fu la grande occasione mancata per estendere la lotta all’intero paese, quantomeno alle città e alle regioni che ne costituivano il cardine sociale, economico, culturale, in sintesi rappresentato dalla forza della classe operaia organizzata socialmente e politicamente. Questa possibilità, dimostra Bermani, poteva darsi solo grazie a una credibile gestione della crisi politica nazionale, a una forte consapevolezza politica dell’Alleanza del Lavoro, alla fiducia dei gruppi dirigenti della sinistra.
Invece: prevalse la diffidente debolezza dei socialisti riformisti sia a Roma sia a Novara (del resto il loro ideale negava la rivoluzione), a loro importava soprattutto la caduta del governo Facta; vinse, congiuntamente, la timorosa oscillazione di comportamento dell’Alleanza del Lavoro che non seppe o non volle decidere al momento giusto lo sciopero generale a sostegno degli scioperanti di Piemonte e Lombardia. Infatti, lo decretò solo il 31 luglio, cioè a battaglia di Novara chiusa da oltre una settimana sulle macerie dei Circoli operai, della Camera del Lavoro, dei municipi e cui corpi dei compagni caduti.
«Un libro di storia non è un romanzo. […] la storia è racconto ma lo è di fatti documentati e non ricostruiti con la fantasia, bensì con rigorosi strumenti di accertamento della verità». Così l’autore nell’Introduzione (p.7). Bermani, storico del movimento operaio e del mondo popolare, votato alla ricerca tenace delle fonti, al loro utilizzo scrupoloso, a non trascurare alcun indizio, inoltre a raccogliere personalmente i resoconti orali dei testimoni dei fatti, ci dà con questo volume una prova indubitabile della sua tesi sulla storia.
Il racconto è costruito facendo intervenire direttamente i documenti, fra i quali, autentica preziosità, le storie in dialetto novarese di persone presenti agli avvenimenti (si ricordi la data della prima pubblicazione, 1972), con traduzione in appendice, e concatenandoli con propri passaggi come fossero spinte in avanti della narrazione. Cesare Bermani lo ascoltiamo come un direttore che orchestra diverse partiture e le rende coerenti con propri tocchi di autore. Che infine nelle Conclusioni, come nella “ripresa” dopo l’”esposizione” e lo “sviluppo” (per proseguire nella metafora musicale), conferma con risoluta chiarezza la propria convinzione circa l’occasione perduta di una possibile ricacciata dei fascisti. Valse, scrive, «l’incapacità dei dirigenti socialisti riformisti, abbagliati dall’ottica parlamentare, di dare [nel momento dei fatti di Novara] un’analisi corretta della situazione […], di coglierne gli aspetti nuovi. […]. Sfuggiva ai riformisti che le cose erano cambiate, che la lotta ormai non poteva che essere condotta fronteggiando il fascismo nel paese» (pp. 225-226).
Gianni Biondillo, Michele Monina, Tangenziali. Due viandanti ai bordi della città, Milano, Guanda, 2010
È abbastanza noto che tradizionalmente al buffone di corte si consente un po’ di tutto, compreso dare allegramente dell’idiota al sovrano. Ci si diverte, il pazzerello col cappelluccio a sonagli poi andrà a rotolare ubriaco in un angolino, e il sovrano smaltita la bisboccia si ritroverà con ben altro spirito a parlare di cose serie. Credo che in gran parte il bel libro di cui mi occupo qui avrà un successo (più o meno assicurato, visti gli autori, la qualità della scrittura, la presumibile capacità promozionale) sostanzialmente in questa prospettiva. Meglio di niente, e forse meglio in generale, visto che avere successo in certi ambienti asfittici non è destino che augurerei tanto alla leggera. Ma passiamo oltre.
Michele Monina, se vi date la pena di inserire il nome in qualunque motore di ricerca, è un nome legato al giornalismo di costume, musicale, turistico. Fra i suoi lavori anche biografie di cantanti popolari, come Vasco Rossi o Laura Pausini. Gianni Biondillo è architetto, neanche urbanista in senso stretto, noto soprattutto come giallista: gialli metropolitani ma pur sempre gialli sono, mica studi sul territorio. Uno che quando scrive si legge molto volentieri, e lì già qualcosa non va bene, no? Per essere davvero profondi e suscitare rispetto, il lettore bisogna stenderlo in tre paragrafi secchi. Insomma, cosa vogliamo aspettarci da una coppia del genere? Luoghi comuni, se tutto va bene.
E i luoghi comuni sono esattamente quello che ci viene servito nei cento chilometri di scarpinata estiva lungo le Tangenziali di Milano, che i due raccontano per filo e per segno a voci alterne. Cronaca di tappe periferiche, semirurali, decisamente surreali, sotto l’opaco sole estivo padano, che cuoce la testa e sfuma contorni e distanze. Unico riferimento costante: la toponomastica ciclica e il muggito della ubiqua gran vacca autostradale. Semplice il piano dell’opera, qualche raffinato direbbe magari deviantemente “ lynchano”: guardare e riferire, in modo sistematico. Beh, sistematico si fa per dire. Loro si autodefiniscono seguaci di James Ballard o di quella pseudoscienza delle avanguardie artistiche detta psicogeografia. Riferimento bibliografico unico, ripetutamente dichiarato: London Orbital, di Iain Sinclair, libro culto per gli appassionati.
Anche il sottoscritto a modo suo aveva storto il naso aprendo il libro e sfogliando le cartine con le tappe del percorso. Elegantemente: e che cazzo! Nel senso che quei posti li conoscono a menadito tutti quelli che ci passano o ci stanno, che sono parecchi. I mitici pensionati degli orti più o meno abusivi, a cui vanno aggiunti d’ufficio i pisciatori di cani avventurosi di largo raggio, nonché i pisciatori diretti, i coltivatori diretti, le puttane, gli operatori multimodali della mobilità metropolitana incrociata (elenco troppo lungo, che può ad esempio iniziare col ciclismo amatoriale, e finire con le roulotte degli sgomberi trascinate da una piazzola all’altra). Però c’è una bella differenza tra essere stati in un posto, o aver percorso un tratto, magari sei mesi prima, poi rivederlo da sopra il cavalcavia, o magari stare tutto il giorno lì, ma solo lì e poco altro … e invece farsi tutto il giro di tutti i posti guardandosi attorno, e secondo una schema prefissato.
Lo schema prefissato è elementare. Milano ha un sistema di Tangenziali, irregolare ma in qualche modo continuo, che circonda la città centrale passando per i discontinui territori delle amministrazioni confinanti. Il modo apparentemente più ovvio di osservare questo tracciato, è quello di percorrerlo col mezzo per cui è stato concepito, ovvero in macchina. Un modo molto meno ovvio, è quello di seguirne i contorni (un po’ come il nazionalpopolare Claudio Baglioni, no? “ Seguire il tuo profilo con un dito …”) dall’esterno, e farlo rigorosamente a piedi.
Una faticaccia, anche se gli Autori la scaglionano su dieci tappe: da Cologno Monzese, giù parallelamente al corso dell’inquinato Lambro, poi di traverso nel Parco Sud fra odore di fieno e curtain wall all’orizzonte, e di nuovo verso il nord, le aree della futura Expo, fino all’ex Stalingrado d’Italia, ai confini di Mediaset.
Popolazione pochissima, reale o virtuale. Quella reale si compone al quasi cento per cento di sfuggenti silhouettes prostituzionali all’orizzonte di strade chiuse o lotti inedificati, più benzinai occasionali, e visi intravisti un istante dietro tendine di villette che tornano subito immobili mentre il cane si sloga le corde vocali dietro la polverosa siepe. La popolazione virtuale conta bestie vive che volano, scappano via, grattano pulci ecc. E soprattutto bestie morte, dalla piccola talpa alla inquietante nutria da sei chili in avanzato stato di decomposizione. Poi a questa popolazione virtuale vanno anche aggiunti i fantasmi di Giuseppe Di Vittorio e Enrico Fermi, grandi e immancabili protagonisti della toponomastica delle aree artigianali di quasi tutti i Comuni affollate vicino agli svincoli. Con l’aggiunta di nani da giardino assortiti, madonnine con grotta a stalattiti, e fra le lastre di marmo cimiteriali semilavorate in zona Ortica, una statua a grandezza naturale del Presidente Mao. Scusate se è poco!
Il resto, immancabile in questi modelli narrativi, sono le riflessioni e i dialoghi “a margine”. Un margine bello largo ovviamente, che copre le trasferte in autobus verso remoti capolinea, la pianificazione delle tappe, gli amici che si uniscono in qualche tratto per scattare foto, o fare semplicemente da terzo - o quarto - incomodo. Fine. Ma per chi preferisce il genere reverenziale, che stende il lettore al secondo paragrafo, naturalmente c’è a disposizione la letteratura specializzata. Per gli altri, che vogliono provare a leggerlo (e personalmente lo consiglio), una questione sottotraccia: come ne escono i politici locali? Quanta consapevolezza media dimostrano, di capire alla testa di cosa sono stati inopinatamente collocati? Beh, rispondete da soli, se ne avete voglia. A me pare che siano loro, ad essere partiti per la tangente.
Da: Consumo di suolo zero. Gli effetti del Piano Casa. E la possibile via d’uscita , a cura di Antonello Sotgia, Carta /edizioni Intra Moenia, Roma 2010, € 10. In calce l'indice
1. Raccogliendo l’allarme lanciato dal sito eddyburg a Carta, il 13 novembre 2009, nella Sala Pintor della redazione del settimanale, abbiamo, insieme a urbanisti e rappresentanti del protagonismo sociale in alcuni territori, cercato di capire cosa sarebbe potuto accadere da lì a poco – allora non tutte le Regioni avevano predisposto il proprio dispositivo d’attuazione‐ nelle città e nei territori con l’attuazione «regionale» del Piano Casa. In quella lunga giornata abbiamo raccolto storie. Man mano che notizie e racconti si sommavano gli uni sugli altri, è apparso chiaro che il Piano del governo Berlusconi aveva già vinto, avendo ricevuto e ricevendo la sostanziale adesione di molti Consigli e giunte regionali, inventando sorprendenti meccanismi di condivisione. In Sardegna, per esempio, avvertiva Sandro Roggio e ora racconta nel testo che pubblichiamo qui: «Resta da aggredire solo il cielo». Sentendolo parlare di quello che si stavano apprestando a pensare di fare, è parso chiarissimo che era in corso la sperimentazione di procedure utili in tutto il paese per fare, in via ordinaria, quello che alla Maddalena è stato brillantemente messo in scena in via «emergenziale». Ben presto la narrazione collettiva ha dimostrato come la presunta ricchezza sbandierata dai tanti cultori del Piano, il suo automatico tra‐ sformarsi in immediata ripresa economica con relativo, assicurato e for‐ te impulso occupazionale, in realtà si basava [si basa] sulla costruzione di una gigantesca illusione. Ai proprietari di casa si assicurava che quasi spontaneamente, attraverso piccoli incrementi – appiccicando muri, sollevando solai, eludendo soprattutto ogni «freno» urbanistico – si sarebbe incrementato il valore immobiliare della propria casa. Non la proposta di farsi «costruttore fai da te». Non si trattava, come in occasione dei precedenti condoni [sul fatto che questo Piano fosse un condono preventivo tutti si sono dichiarati concordi], premiare i tanti cittadini che magari, per il tempo di una notte, si erano fatti architetti, muratori e carpentieri. Questa volta, addirittura, tutti potevano, prima ancora di diventarlo realmente, «pensarsi» come imprenditori immobiliari e, anche se in piccola parte, permettersi così, come ogni immobiliarista che si rispetti, di lanciarsi in esercizi di rendita. Una proposta, il farsi immobiliarista, che, rivolta a chi la casa la possiede, vuol dire, essendo i proprietari nel nostro paese esattamente (dati Istat 2009) il 69,9 per cento della popolazione, parlare a circa sette milioni di famiglie e soprattutto a quel 13,4 per cento di nuclei che ancora non hanno estinto il gravoso mutuo per l’acquisto e che, ora, la crisi ha condannato a vivere questa condizione, a cui molti sono stati costretti in assenza di una reale politica dell’affitto, come dramma. Sono circa trecentomila, i mutui rinegoziati nel 2008. Nessuna pietà, da parte degli estensori del Piano Casa che, anzi, fa balenare a tutti la possibilità di darsi una qualche «allargatina».
Ecco un possibile disastro che non nasce oggi, ma che, già oggi, produrrà l’impossibilità di pensare all’abitare di domani. Il senso di quella giornata di studio sta proprio in questa considerazione. Per questa pubblicazione abbiamo deciso di partire da qui, per raccogliere alcuni di quegli interventi, proporne di nuovi e, soprattutto, porre la domanda su quale sarà la forma dell’abitare futura.
2. Leggendo alcuni degli interventi [lo spiega bene Alberto Ziparo] non potrà sfuggire come ognuno di noi, che abitiamo questo paese, abbia teoricamente a disposizione una quantità repellente di metri cubi e che un dato altrettanto repellente è quello rappresentato da come dal diritto alla casa siano escluse moltissime famiglie, umiliate dalla presenza insignificante di «abitazioni pubbliche», che in Italia non rag‐ giungono il 4 per cento del totale edilizio. Nel 2009 sono stati costruiti meno di duecento interventi da destinare a edilizia sovvenzionata, cioè a case popolari. Perché ancora non è assicurato il diritto alla casa a fasce molto consistenti della popolazione? E perché si continua a costruire, a bruciare territorio e incoraggiare ancora tutto ciò? Abbiamo posto questa domanda sul consumo del suolo per mezzo di un esempio preciso, l’esperienza del comune di Cassinetta di Lugagnano, in provincia di Milano. Abbiamo chiesto al Sindaco di raccontarci come sia stato possibile progettare un Piano regolatore a zero consumo di suolo. Ci ha risposto con il contributo che pubblichiamo che è un po’ il sussidiario che quell’amministrazione ha redatto per i propri cittadini e non solo per questi. Istruzioni per l’uso.
Allora è possibile invertire la rotta, passando dal costruire il nuovo al recupero del tanto costruito? Sembrerebbe di sì. Sono proprio i numeri di quanto abbiamo costruito a terrorizzarci. «Siamo stanchi dì inseguire quello che accade bisogna reagire», ha esortato nel seminario Vezio De Lucia. Per farci comprendere meglio, ci ha parlato di Caserta, uno tra i tanti possibili esempi, dove l’abusivismo «pesa» 12 mila ettari. Si abita – si fa per dire – in 70 mila ettari senza alcun servizio, mentre capannoni industriali si sommano, talvolta senza essere mai stati occupati, l’uno all’altro.
Loro, quelli che affidano la ripresa economica al mattone, intanto continuano a costruire. Perciò sono state cancellate le regole elementari. E la valanga non inizia oggi. In Lombardia, scrive Sergio Brenna, Piano Casa e deriva abitativa sono in corso almeno dal 1992. Già nel secolo passato, quando Lupi, la «mente» berlusconiana nel settore casa, si faceva le ossa come assessore all’urbanistica milanese, si è iniziato con l’attaccare ogni regola, e ridurre gli standard di verde e servizi. Ora si dice che sono inutili. Così si continuano a programmare nuove città. Nuove case e zero standard vuol dire non assicurare le condizioni neppure minime dell’abitare. In Toscana, ci ha raccontato nel seminario Eugenio Baronti, che della Regione era in quel momento l’assessore alla casa, si vuole che «il costruire non sia estraneo al come si vive». Il perché non sempre questo sia stato possibile, in particolare a Firenze, lo racconta lucidamente Maurizio De Zordo, spiegandoci l’indebolimento, nella legislazione complessiva toscana, del peso dell’intervento pubblico.
Eppure sarebbe sufficiente legare ogni dispositivo a un principio cardine: ogni intervento dovrà essere coerente con la disciplina urba‐ nistica. È quello che comitati, associazioni, centri sociali, urbanisti e cittadini si sono detti nel Lazio. Loro la legge hanno provato a farsela da soli, proponendone una d’iniziativa popolare che riportiamo nel libro e che significativamente hanno voluto chiamare «diritto alla casa e all’abitare». Degli effetti della legge ufficiale racconta Paolo Berdini, che, scrive, «istiga ad aumentare la dose di terreni sottratti alla naturalità». Eppure nel Lazio accadono molte cose. Alcune le racconta Anna Pizzo, la nostra «border line» istituzionale [è stata consigliera fino al marzo 2010], osservatrice dall’interno dei modi che ha la politica di decidere.
Di come viceversa i comitati di cittadini stiano provando a organizzare territori resistenti [dal Veneto, dalle Marche] scrive Paolo Cacciari: il mezzo è tenere insieme «tracce di buongoverno». Cacciari pone un problema fondamentale, quando avverte che «il problema è che questa moltitudine di comitati e movimenti locali stenta a riconoscersi come una galassia legata da un disegno comune. A volte, a causa di un localismo miope, altre volte a causa del doppio gioco della Lega nord (e, in genere degli amministratori locali), che irretisce e illude. Altre volte ancora a causa di un malinteso senso di autonomia che condanna all’isolamento i singoli comitati e le singole associazioni». Rossella Marchini sembra rispondergli riconoscendo che «non possiamo più scontare l’assenza di non aver saputo produrre un nuovo pensiero sull’urbano».
3. In attesa di riuscire in questa costruzione, Andrea Alzetta offre una possibilità, «l’essere capaci di ribaltare completamente l’agenda politica dominante, riformulando una nuova idea dei diritti delle persone e del ruolo del mercato nella società che vogliamo». Infatti, dal seminario è sembrato arrivare un suggerimento convincente: lavorare per ottenere una moratoria del consumo del territorio. Un programma che deve basarsi su un semplice ed evidente paradigma: organizziamo le cose da fare a partire dall’innovazione di ciò che c’è. Per la città e il territorio questo vuol dire recupero. È quello che succede a Corchiano [nella Tuscia Viterbese] dove il sindaco Battisti parla di «riscoperta di una comunità», tessuta giorno dopo giorno attraverso la costruzione di un percorso organizzato attraverso i momenti del quotidiano. Dove i vecchi tracciati delle strade «falische» pre‐romane vengono segnalati dai cacciatori. Dove sono i ragazzini a dichiarare guerra ai cassonetti e, trasformandosi in attivisti, a convincere i loro genitori alla raccolta differenziata. E si è passati dal 4 per cento iniziale all’attuale 84.
Non consumare territorio non vuol dire non costruire. Vuol dire solo passare dal nuovo al recupero. Vuol dire soprattutto progettare una cultura dell’abitare.
Non consumare territorio potrà servire inoltre, come avverte Giovanni Caudo, per “contrastare la deriva di un eventuale protagonismo degli operatori immobiliari che si presentano con la loro dotazione di aree per mettere in campo interventi edilizi del tutto tradizionali, ma ammantati da qualche novità”.
Per ritornare così alla casa e a una città in cui, gli spazi siano legati alle persone, e dove possano trovare posto le forme della produzione umana anche immateriali quali: la creatività, i saperi, gli affetti, le relazioni sociali. Per non “andar tutti dietro a Berlusconi e resistere al consumo di territorio provocato dalla corsa forsennata dalla valorizzazione immobiliare” come ci invita a fare Edoardo Salzano. Chiamiamole prove tecniche di resistenza.
Nota: alla discussione della giornata del 13 novembre hanno partecipato anche Daniele Iacovone, Paolo Di Vetta, Eugenio Baronti, Pierluigi Sullo, Alessandra Lombardi, Mario Di Carlo, che ringraziamo per il loro contributo.
Prove tecniche di resistenza, di Antonello Sotgia
Proprietario contro cittadino, di Edoardo Salzano
Il minimalismo dei massimalisti, di Vezio De Lucia
Pensiero urbano, di Rossella Marchini
Ai tempi di Alemanno, di Andrea Alzetta
Un pieno di case, di Giovanni Cauda
La breccia veltroniana, di Anna Pizzo
Gli indifferenti di Sardegna, di Sandro Roggio
La Lombardia è una cavia, di Sergio Brenna
Toscana infelix, di Maurizio De Zordo
La Calabria che ha detto no, di Alberto Ziparo
Il Lazio consumato, di Paolo Berdini
Cassinetta, il comune a crescita zero, di Domenico Finiguerra
Le cento Marche, di Carlo Brunelli
La Tuscia pulita, di Bengasi Battisti
La Rete dei comitati veneti, dì Paolo Cacciarì
«L´urbanistica? È ormai figlia dell´architettura. E l´architettura, ridotta a pura forma, assorbe tutto il dibattito culturale. Tutto lo spazio dell´informazione. Diventa il paradiso delle archistar. Si bada più al singolo progetto che non al disegno complessivo. Più al singolo manufatto che non alla città. Più all´individuo che non al collettivo. Occorre invece che l´urbanistica recuperi la sua linfa sociale». Italo Insolera ha ottantun anni, è uno dei padri della disciplina che regola o dovrebbe regolare la città, ma che spesso si limita a descrivere il suo formarsi e il suo divenire, lasciando che tutto lo spazio sia occupato dalle mirabolanti invenzioni di architetti-scultori. Si rigira fra le mani Roma, per esempio.La città e l´urbanista (Donzelli, pagg. 135, euro 25), un libro che raccoglie un gruppo di suoi saggi usciti negli ultimi cinquant´anni su varie riviste, da Il Veltro a Comunità. Lo sfoglia e dice: «Sono riflessioni sulle vicende romane, che poi sono esemplari di come negli ultimi cinquant´anni sono cresciute le città italiane. La storia di questo mezzo secolo è in gran parte il ripetersi degli stessi avvenimenti con una crescente carica polemica che rivela il persistere dei vecchi problemi».
In questo mezzo secolo le nostre città sono peggiorate?
«Dagli anni Ottanta, proprio mentre perdono residenti, le città crescono sprecando terreno e soldi. È saltata ogni forma di pianificazione, per cui si invade la campagna e gli insediamenti che sorgono sono agglomerati di case tirate su a prescindere da tutto, dai servizi, le scuole, i trasporti, il commercio. I beni comuni sono sempre residuali, sono il prodotto occasionale una volta realizzate tutte le parti private, quelle che danno rendita».
Per esempio?
«Per esempio Roma, appunto».
Alla quale lei dedicò nel 1962 uno dei libri fondamentali nell´ideale biblioteca dell´urbanistica italiana, Roma moderna, più volte aggiornato fino al 2002.
«In quel volume raccontavo cent´anni di storia urbana. Ma ora mi accorgo che la stagione delle speculazioni di cui fu protagonista la Società Generale Immobiliare, contro la quale si scagliarono Antonio Cederna e L´Espresso, non è mai finita. Anzi si è intensificata. A guardarle oggi le operazioni che al settimanale diretto da Arrigo Benedetti ispirarono il titolo "Capitale corrotta=nazione infetta" sembrano piccole rispetto alle cosiddette "centralità" o agli altri insediamenti nell´agro romano decisi dal nuovo piano regolatore, che in totale prevede 70 milioni di metri cubi in una città che perde 180 mila residenti. Sa cosa diceva Giulio Carlo Argan nel 1988?»
Che cosa diceva?
«"La storia urbanistica di Roma è tutta e soltanto la storia della rendita fondiaria, dei suoi eccessi speculativi, delle sue convenienze e complicità colpevoli". La scena non è cambiata».
Da che cosa dipende questa espansione senza limiti?
«Dal fatto che non si pianifica più, indipendentemente da chi governa le città. La pianificazione è l´attività specifica dell´urbanistica ed è insieme iniziativa sociale, economica, commerciale, investe tante componenti, non solo quella edilizia. E invece la trasformazione delle città non è affidata né all´urbanistica e neanche all´architettura, ma, appunto, all´edilizia. Però c´è anche un altro aspetto».
Quale?
«Negli anni Cinquanta e Sessanta i partiti, la Dc, il Pci, il Psi, il Pri, avevano idee sull´urbanistica. Ne discutevano al loro interno, organizzavano convegni e litigavano. Ora la politica ha smesso di avere un´opinione in materia urbanistica, lasciando spazio a una burocrazia che ha assunto funzioni esorbitanti e con la quale gli investitori privati, i costruttori, gli immobiliaristi intrattengono rapporti troppo discrezionali. Albert Einstein diceva nel 1937: "La burocrazia ucciderà la democrazia"».
È una malattia tipicamente italiana, sembra di capire.
«In tutta Europa ci si è mossi in questi decenni e ci si muove tuttora in altro modo. Le grandi trasformazioni delle città sono controllate, in maniera più o meno consistente, dalla mano pubblica. Il criterio prevalente continua a essere l´acquisto da parte delle amministrazioni dei terreni e la cessione ai privati del diritto a costruire. In questo modo urbanistica e architettura possono viaggiare di concerto. E anche le archistar si sottopongono a queste regole. Ma non mancano in Europa le eccezioni negative, basti vedere che orrori si sono compiuti sulle coste spagnole o francesi».
Ma complessivamente l´Italia resta un´eccezione.
«Direi di sì. Prenda il quartiere di Slotermeer, ad Amsterdam, una delle realizzazioni più celebri programmate a partire dalla metà degli anni Trenta del Novecento. Ho sempre pensato che la buona riuscita di un progetto urbanistico la si dovesse giudicare alla terza generazione. Ora che a Slotermeer chi andò ad abitarci è diventato nonno, si può verificare che il quartiere funziona perfettamente, com´era stato urbanisticamente immaginato, dalle strade alle fermate per i tram, dai laghi ai boschi».
Negli anni passati la sinistra che voleva prendere congedo dalle esperienze socialdemocratiche, comuniste del Novecento attingeva a piene mani a un insieme di idee raccolte nel contenitore chiamato neoliberismo, di cui sosteneva la capacità euristica di spiegare il funzionamento dell'economia e il potere di indicare la strada per costruire una «buona società». Da Toni Blair a Anthony Giddens, da Walter Veltroni a Bill Clinton, da Gerhard Schröder a Romano Prodi, sono stati molti i leader politici fulminati sulla via di Damasco del libero mercato. Poco importava che negli anni Trenta de Novecento un gentiluomo inglese, John Maynard Keynes, frequentatore di circoli intellettuali tanto esclusivi quanto poco convenzionali, aveva spiegato che il mercato lasciato a se stesso avrebbe portato alla rovina il capitalismo, invocando un intervento dello Stato per evitare che i rentiers continuassero a distruggere ciò che onesti imprenditori e infaticabili lavoratori costruivano giorno dopo giorno. E poco interessati erano verso il giudizio che aveva accompagnato le analisi dei liberisti Milton Friedman e Friedrich August von Hayek, considerate infatti per decenni poco più che fantasie. Con il passato, andava gettato alle ortiche quando di buono le politiche economiche keynesiane avevano prodotto. Ora dopo che la crisi ha messo a nudo la fragilità del neoliberismo, si può cominciare nuovamente a ragionare con serietà su come possa funzionare l'economia e la società.
È questa la tesi avanzata nel dissacrante saggio Liberista sarà lei! firmato da Emilio Carnevali e Pierfranco Pellizzetti avanzano (Codice edizione, pp. 131, euro 14). I due giornalisti/studiosi annotano con puntigliosa chiarezza tutti i passaggi che hanno portato gran parte della sinistra europea e il partito democratico statunitense a fare proprio il verbo neoliberista, magari mascherando le politiche sociali di dismissione del welfare state di cui sono stati protagonisti.
Dopo quasi tre decenni di neoliberismo non rimane in piedi quasi nulla dello stato sociale e la crisi dovrebbe almeno alimentare un ripensamento, ma la sinistra democratica continua invece a invocare le virtù del libero mercato che non si sono manifestate perché non sono state decise regole precise sulla libera concorrenza. Certo, un accenno di autocritica è venuto da parte di Romano Prodi, ma a cose fatte, cioè dopo che lo tsunami neoliberista ha privatizzato le imprese pubbliche, deregolamentato il mercato del lavoro, elevando la precarietà a norma universale nei rapporti di lavoro. Una pervicace adesione al neoliberismo alimentata da opinion makers - come Alberto Alesina e Francesco Giavazzi - che hanno pure scritto pamphlet per sostenere che il Liberismo è di sinistra. Ma se di fronte agli scritti di questi apprendisti stregoni si può tirare dritto, chiarezza va fatta sul fatto che la filosofia sociale e morale, ad esempio, di Adam Smith, ha ben poco a vedere con il mainstream liberista, visto che proprio il cantore del libero mercato nelle Teorie dei sentimenti morali invitava gli stati ottocenteschi a intraprendere politiche sociali a favore dei poveri, a tutelare il diritto dei lavoratori a un equo salario e a limitare il potere dei capitalisti.
Dunque, un libro utile, in particolar mondo laddove dissacra la volontà gregaria di molti esponenti politici della sinistra, che dopo la crisi, per contrappasso, devono ascoltare i sermoni di Giulio Tremonti contro gli ultras del libero mercato che mettono a rischio la convivenza civile.
Ciò che invece rimane da comprendere è come un insieme di idee fragili, intrise di pessima ideologia diffuse da personalità intellettuali mediocri sia riuscito a diventare il pensiero dominante per così tanti anni. Una risposta sta nel fiume di denaro che le grandi multinazionali statunitensi hanno dirottato verso i think thank conservatori che pazientemente hanno costruito l'egemonia culturale neoliberista. E tuttavia è indubbio che le guerre culturali condotte dalla destra statunitense prima e europea dopo sono state vincenti perché hanno prodotto un consenso alle loro teorie. Consenso limaccioso, le cui origini stanno nella reazione rabbiosa dell'establishment industriale e finanziario all'assalto al cielo del Sessantotto. Le fortune politiche del populismo di destra vanno quindi cercate nella sconfitta di quel movimento globale e dal rovesciamento di segno che l'ideologia neoliberista è riuscita a imprimere alla sua promessa di libertà dalla necessità. E nella capacità dei think thank neoliberisti di produrre una vision adeguata alle nuove condizioni sociali e produttive ancorata tuttavia alle nuove condizioni sociali, produttive e culturali prodotte da quel movimento mondiale, non a caso ritenuto il movimento che ha dato la spinta decisiva alla globalizzazione. La forza dirompente del populismo politico e l'ideologia neoliberista non stava quindi nella scientificità della sua concezione dell'economia o della società, ma nella loro capacità politica di innovare le forme politiche e l'organizzazione produttiva attraverso le quali il capitalismo voleva
Prendi un giovane urbanista alle prime armi, che ha la buona sorte di trovare un lavoro di responsabilità da dirigente di settore. Ma prendi anche l’amministrazione locale dove sta quel settore: un buco sperduto sulle montagne, dove quasi tutti gli impiegati sono “dirigenti” del proprio settore, impegnati a conservarsi sottovuoto il loro status quo, ottusamente ignari di quello che sta succedendo sopra le loro teste, davanti al loro naso, e che finirà per spazzarli via …
Ecco, se si prendono tutti questi elementi inizia la storia, divertente, inaspettata, autoironica, raccontata da Mike Tedesco nel suo City Boy – Urban Planning, Municipal Politics and Guerrilla Warfare (Sunstone Press 2009, 175 pp.).
| Lui vino. Gli altri birra |
Dove tanto per cominciare la “guerriglia” citata dal titolo, e che parrebbe evocare guerrieri della notte, si combatte a colpi di calici di rosso e pettegolezzi pomeridiani in qualche tinello o bar dietro alla pompa di benzina, mentre fuori cadono due metri di neve e l’associazione commercianti vorrebbe far fermare un po’ di turisti in più nella spoglia striscia della Main Street. Un invito a nozze per il pimpante urbanista e i suoi scatoloni di libri freschi freschi di Università e esame di abilitazione APA: ecco le risposte, pronte e confezionate nei casi studio delle varie scuole di progettazione, sviluppo economico, retail management e promozione commerciale. Ma poi ci sono gli scimmioni a cui queste facili ricette risultano sempre indigeste, e il nostro City Boy inizia a perdere entusiasmo, e a sgonfiarsi parecchio.
Tutto qui. Il libro copre solo l’inverno del primo scontento, ma di materiale per riflettere ne fornisce davvero molto. Una specie di romanzo di formazione, con l’adolescente/trentenne catapultato da un metabolismo urbano intriso di jazz, locali etnici, creative class, a una specie di versione Montagne Rocciose della saga di Peppone e Don Camillo, piena di pettegole, traffichini, scemi del villaggio sotto mentite spoglie, faide generazionali per siepe troppo alta o il box auto di dubbia legittimità nel cortile.
Che posto c’è, qui, per la socialità di quartiere e la mescolanza di ceti alla Jane Jacobs, o anche solo per l’efficienza economica tirata a lucido e con qualche fioriera del new urbanism? Nessuno, in un ambiente che guarda diffidente anche il pendolarismo in bicicletta del nuovo dirigente da casa alla sede comunale: “ 8:20, infilo l’orlo dei pantaloni nel calzino, salto in sella alla mountain bike, e pedalo fino al municipio; 8:22, scopro che al municipio manca una rastrelliera per le biciclette” (p. 50).
Il vero cuore del libro, però, in perfetto stile urbanistico terzo millennio, è la personalissima interpretazione che l’Autore dà del rapporto pubblico-privato: un vero ginepraio. E non solo per il motivo, facilmente intuibile, dei complicati rapporti fra assetto del territorio locale, diritti del singolo, della collettività, strategie di sviluppo delle attività economiche. C’è qualcosa di più e oltre, e riguarda il ruolo del tecnico all’interno della pubblica amministrazione: come può “servire” una comunità che spesso non sa proprio cosa le serve? Cercare obiettivi desiderabili che il governo locale per puro quieto vivere non desidera affatto? Tradurre e non (almeno del tutto) tradire l’idea di deontologia professionale che si è costruito all’Università e con la specializzazione?
La risposta è obliqua tanto quanto queste curiose ma assai realistiche prospettive di “pubblico” e di “privato” si mescolano nel racconto. Capitoli interamente dedicati alla vita privata che invece via via sfumano dalla pura convivialità a una descrizione, questa sì “alla Jacobs”, della società e degli spazi entro cui si muove. E brani di vita pubblica, al limite della noia, dell’intrigo burocratico, del confronto prepolitico fra maschi dominanti, anche di sesso femminile, in cui è assai difficile cogliere qualche pur vago senso dell’operare dentro e per la comunità. La tesi finale, abbastanza inattesa visto il tono tagliente di molti passaggi (luoghi e personaggi sono “inventati” giusto ad evitare querele), è che l’inadeguatezza a svolgere davvero il ruolo pubblico sancito dagli statuti, dell’amministrazione e professionale, si debba cercare proprio nella figura e nella formazione dell’urbanista.
Mike Tedesco, va da sé, riflette solo sulla propria piccola esperienza nel paesello fittizio di La Blanca Gente, acquattato lassù tra le nevi delle Montagne Rocciose come il mitico leopardo di Hemingway sulla cima del Kilimanjaro. Ma inevitabilmente quella riflessione entra in risonanza anche con altre sensibilità.
Scaricabile di seguito un'ottima "colonna sonora" per il contesto in cui è ambientato il libro (f.b.)
Molte storie, compresa la sua - Cifre e confronti con gli altri stati europei: il viaggio di Caterina Soffici rivela le nuove discriminazioni Con cinque idee per cambiare le cose
Tra i tanti primati indecorosi, l’Italia rischia di battere perfino quello del "paese più maschilista d’Europa". Se la donna-tangente ne è l’ultima medaglia - il corpo femminile trattato come benefit insieme alla boiserie o ai lavori di idraulica - ancor prima degli scandali la penisola offriva materia sufficiente per rivendicare la vergognosa supremazia, ora ben documentata dal libro di Caterina Soffici Ma le donne no (Feltrinelli, pagg. 208, euro 14, introduzione di Nadia Urbinati).
Per i più scettici, basterebbe srotolare una striscia di carta lunga due chilometri, più eloquente di un saggio antropologico. In quattromila fotografie è raccontato l’imbestiamento della donna nella pubblicità e dunque nella società italiana. Un fotografo ostinato, Ico Gasparri, s’è preso la briga di ritrarre i cartelloni pubblicitari affissi nelle strade di Milano nel corso degli ultimi due decenni. Attenzione: in spazi pubblici, non su giornali e riviste, dunque approvati dalla comunità, arredi urbani ormai famigliari come la kenzia nel pianerottolo. Vent’anni fa le donne avevano le gambe chiuse, poi gli è stato chiesto di aprirle. Più tardi hanno dovuto aprire anche la bocca, meglio se con le papille gustative in mostra. Progressivamente: vestita, poco vestita, quasi nuda. L’apogeo è il fashion sex, praticato da «donne eleganti ma inequivocabilmente zoccole», come suggerisce la Soffici, artefice di questo impressionante archivio della regressione femminile. Il documentarista Gasparri ha tentato lo stesso esperimento a Londra, ma senza successo. Per mancanza di nudi.
In Ma le donne no Caterina Soffici racconta un paese dove le donne sono ultime in tutto: in politica, negli uffici, nelle professioni, nei ruoli di potere, nei consigli di amministrazione. Lavoratrici discriminate. Mobbizzate. Sostanzialmente ricattate. Costrette a lasciare l’impiego se gravide. Donne schiacciate tra doppio e talvolta triplo lavoro, quasi mai riconosciuto. Donne che annuiscono, sorridono, hanno imparato a fingere. Donne che malinconicamente rinunciano a lottare. Per rassegnazione, stanchezza o, più semplicemente, per mancanza di tempo.
Storie, tabelle, cifre disegnano una drammatica minorità italiana rispetto al resto del mondo. A parità di lavoro, le donne italiane guadagnano il 26 per cento in meno dei colleghi maschi. Da noi è impensabile una Lilly Ledbetter che a sessant’anni sfida nell’Alabama una fabbrica di pneumatici come la Goodyear Tire & Rubber, colpevole di affibbiarle una busta-paga meno remunerativa di quella dei suoi colleghi maschi (alla caparbia Lilly è dedicata la prima legge firmata dal neoeletto presidente Obama). O non è immaginabile una Betty Dukes, donnone afroamericano, che per una vita ha combattuto il colosso della distribuzione Wal Mart, diventando il simbolo delle vessazioni e delle angherie riscattate. «All’estero», dice la Soffici, «alcune volte le donne vincono, altre perdono. Da noi le donne non vanno mai in tribunale. Al più si sfogano nei corridoi i davanti alla macchinetta del caffè». Le donne italiane hanno i diritti, ma non li sanno usare. Se si sceglie la strada del tribunale, lo si fa in punta di piedi. Quasi chiedendo scusa.
A mettere insieme le nostre anomalie, affiora un quadro inverosimile, tra arretratezza e modernizzazione distorta, forse solo un ritorno pur mascherato agli anni Cinquanta, che si rivela anche nella nuova fortuna di parole come "massaia" e "playboy" - frequenti nel lessico del nostro premier - e anche "vergine" e "illibata", tanto da essere catapultati ancora più indietro, nella Napoli a tinte livide di Curzio Malaparte. Il nostro è il paese delle "dimissioni in bianco", ossia contestualmente alla lettera di assunzione molte donne sono costretta firmare un foglio in bianco che sarà usato come "dimissioni volontarie" in caso di maternità o malattia prolungata. Il governo Prodi le aveva messe al bando, uno dei primi provvedimenti del governo Berlusconi è stata ripristinarle. Il nostro è anche il paese dove la rappresentanza femminile in Parlamento è tra le più basse d’Europa, inferiore anche al Rwanda. Il nostro è il paese dove una velina può diventare ministro, per giunta delle Pari Opportunità. «Nel mio piccolo», ha detto la Carfagna, «io sono la dimostrazione che le quote rosa non servono». Il nostro è un paese dove la "dittatura della bellezza" impera ovunque: in Parlamento come in tv, se è vero che bastano alcuni chili di troppo d’una popolare presentatrice per sollecitare la più densa spremitura di meningi dell’opinionismo contemporaneo. Anche qui, ci ricorda la Soffici, il confronto con altre realtà è mortificante. Esemplare è la storia di Rachel Maddow, laurea a Standford, specializzazione in Scienze Politiche a Oxford, decisamente bruttina, di sinistra, omosessuale. In America è una star della Tv. Da noi, scriverebbe i testi nel retropalco.
Quello della Soffici è un libro necessario, che ci mette di fronte al nostro ammutolito sbigottimento. Rispetto a conquiste legislative anche importanti, talvolta però ottenute con grave ritardo - fino al 1975 è esistita la potestà maritale, solo nel 1981 è stato abolito il diritto d’onore - appare molto ricca la fenomenologia di donne umiliate, discriminate, soprattutto piegate alla rinuncia ancora prima di mettersi alla prova. La storia che la Soffici non racconta, ma si legge costantemente sotto traccia, è la sua personale storia, la vicenda di una giornalista costretta a lasciare il mestiere che sapeva fare bene. A soli 31 anni, nel 1998, Caterina si ritrova alla guida delle pagine culturali del Giornale, incarico che svolge per diversi anni con inventiva e sostanziale libertà. Nella sua famiglia si riflettono due diverse Italie, quella del nonno Ardengo interprete delle avanguardie del primo Novecento poi però normalizzato dal fascismo, e quella dell’altro nonno Ascanio, un operaio socialista divenuto imprenditore illuminato. Si definisce un "cane sciolto", Caterina, forse inadatto alla chiamata alle armi. «In un giornale politicamente militarizzato, ho finito per rappresentare un’anomalia. Così hanno deciso di spostarmi in un altro ufficio della redazione, per il quale ero meno portata. Ho resistito per un po’, poi ho mollato». Ai due figli (maschi) e al marito è dedicato Ma le donne no, con un’avvertenza: «Senza di loro, questo libro sarebbe uscito almeno un anno prima». In poche scanzonate righe, il destino di molte donne.
Anticipiamo una parte della relazione che oggi terrà nell’ambito della seconda edizione delle "Settimane della Politica" organizzata dall’Università di Torino. La manifestazione sarà aperta da una Lectio magistralis di Aldo Schiavone dal titolo "Crisi e politica".
L’interpretazione corrente, la quale vede la politica sopraffatta dall’invasione dell’economia, e dunque costretta suo malgrado ad adeguarsi alle esigenze di questa, arriva sì a descrivere con una certa proprietà gli effetti dell’invasione, ma al prezzo di ignorarne le cause. Sono la cronaca e la storia degli ultimi decenni a mostrare che i confini tra economia e politica non sono stati attraversati dalla prima grazie esclusivamente alle proprie incontenibili forze, come sostiene la interpretazione delineata sopra. Piuttosto va constatato che, a partire dai primi anni 80 del secolo scorso, in numerosi paesi tali confini sono stati deliberatamente spalancati all’economia non da altri che dalla politica, dai suoi parlamenti, e dalle leggi da questi emanate.
L’attraversamento incontrollato dei confini tra politica ed economia non sarebbe potuto avvenire senza l’intervento di una ideologia che dopo esser giunta a pervadere l’intero sistema culturale ha promosso e legittimato tale attraversamento, e lo ha praticato essa stessa in forze riguardo ai suoi confini con tutti gli altri sotto-sistemi. Questa ideologia è il neo-liberalesimo. L’ideologia neo-liberale non è una continuazione alla nostra epoca della dottrina politica liberale: per molti aspetti ne rappresenta una perversione.
Il neo-liberalesimo incorpora nella società contemporanea ciò che, nel suo campo, la fisica ambisce da generazioni a raggiungere, senza però riuscirvi: nulla meno di una teoria del tutto. In primo luogo, comprensibilmente, il neo-liberalesimo è una teoria politica, la quale asserisce in modo categorico che la società tende spontaneamente verso un ordine naturale. Di conseguenza occorre impedire che lo stato, o il governo per esso, interferiscano con l’attuazione e il buon funzionamento di tale ordine. Si tratta di un argomento che viene da lontano, poiché fu usato almeno dal Seicento in poi per contrastare il potere monocratico del sovrano; applicato ad una società democraticamente costituita, esso si trasforma nella realtà in un argomento contro la democrazia.
Parallelamente, il neo-liberalesimo è una teoria economica, in conformità della quale le politiche economiche debbono fondarsi su un paio di assiomi e sulla credenza in tre processi perfetti. Gli assiomi stabiliscono che lo sviluppo continuativo del Pil per almeno 2-3 punti l’anno è indispensabile anche alle società che hanno raggiunto un discreto stato di benessere allo scopo di continuare ad assicurarselo; a tale scopo è pertanto necessario un proporzionale aumento annuo dei consumi, ottenuto producendo bisogni per mezzo di merci e comunicazioni di massa. I tre processi la cui esistenza ed i benefici effetti non ammettono discussione sono: i mercati si autoregolano; il capitale affluisce dove la sua utilità è massima; i rischi (quali che siano: di insolvenza, di caduta dei prezzi, di variazioni dei tassi di interesse ecc.) sono integralmente calcolabili.
Il neo-liberalesimo contiene anche una esauriente teoria dell’istruzione. Il fine ultimo e solo di questa in ogni suo grado e comparto, stabilisce tale teoria, risiede nel conferire all’individuo competenze professionali tali da renderlo produttivamente occupabile. Infine il neo-liberalesimo incorpora una teoria inversa dei beni pubblici: di qualsiasi bene l’individuo e la collettività abbiano bisogno ai fini della loro convivenza e protezione sociale, essa afferma, è più efficiente, dunque necessario, produrlo con mezzi privati.
In sintesi, l’ideologia neo-liberale non riconosce, né ha di fatto, alcun confine; appunto a questo deve la sua efficacia nel contribuire a riorganizzare il mondo sotto il profilo economico, politico e culturale in appena trent’anni. La riorganizzazione politica, economica e culturale del mondo operata dal neoliberalesimo è alla base della crisi economica dei primi anni 2000; di quella cominciata nel 2007; degli immensi costi già inflitti in precedenza a quattro quinti della popolazione mondiale e al pianeta, nonché dei costi umani che l’ultima crisi scaricherà per molti anni sugli strati più deboli della popolazione, sia nei paesi emergenti che in quelli sviluppati. E’ questo insieme di cause e di effetti in ogni ambito che induce a definire la crisi economica in atto una crisi di civiltà, una crisi generale della civiltà-mondo.
Per quanto favolosi, Bengodi e il Paese di Cuccagna non appagano pienamente le nostre fantasie sui luoghi immaginari. Ci serve qualcosa di più elettrico, nervoso. E quel qualcosa, forse, si può trovare in città. Per questo abbiamo ripreso in mano «Le città invisibili» di Italo Calvino: il libro in cui, a suo stesso giudizio, ha «detto più cose»; in cui sono confluiti tutti i ragionamenti, le osservazioni e le ansie riguardo alla sua idea di letteratura. Perché la città, suggerisce nelle «Lezioni americane», è il simbolo ideale della costante frizione tra il desiderio di un ordine razionale e geometrico della realtà e il caos pulviscolare che la sottende.
Per dare conto di questo doppio movimento, Calvino disegna un atlante metropolitano fantastico e noi lo seguiamo stupefatti.
Perché tutti quei luoghi, frutto dell´immaginazione, raccontano al contempo la nostra realtà quotidiana: raccontano la simultanea molteplicità di un mondo che ci illudiamo di conoscere e controllare per intero, mentre ci sfugge da tutte le parti, alimentando frustrazione e smarrimento. E´ come se fossimo chiamati a un compito che non riusciamo ad assolvere. E proprio la metropoli è il contrassegno più puntuale di questa fatica, un caleidoscopio continuamente cangiante e inafferrabile in cui si assommano e si elidono i segni più controversi, indecifrabili.
Calvino ci descrive cinquantacinque possibili prototipi urbani.
Che scorrono davanti ai nostri occhi grazie al mirabile dialogo tra Marco Polo, il viaggiatore per antonomasia, e Kublai Kan, l´imperatore che accoglie i suoi racconti.
Ogni città porta il nome di una donna, e ogni città è l´incrocio tra memoria e desiderio. Zaira, più che dai suoi edifici, è connotata dal rapporto tra lo spazio e gli eventi trascorsi. Anastasia «non fa che risvegliare i desideri uno per volta per obbligarti a soffocarli». Armilla è una foresta di condutture d´acqua, attraversando la quale è impossibile capire se debba ancora essere ultimata o se al contrario stia andando incontro alla rovina.
Valdrada è doppia: costruita sulla riva di un lago, si riflette nell´acqua in ogni minimo dettaglio. Anche Sofronia è doppia: metà permanente, l´altra transitoria. E pure Despina a suo modo lo è, perché «si presenta differente a chi viene da terra e a chi dal mare».
La duplicità, secondo Calvino, non è soltanto un tratto costitutivo di queste città; è qualità intrinseca all´idea di esattezza, che rappresenta uno dei suoi capisaldi letterari. E bene ce lo dimostra descrivendo l´approccio opposto dei due protagonisti del libro, Marco Polo e Kublai Kan. Entrambi cercano l´esattezza: ma mentre il primo lo fa descrivendo il tumultuoso assommarsi delle più diverse e contraddittorie sensazioni, il secondo rincorre una rigida tassonomia di tutti i luoghi dell´impero.
A tenere insieme questa visione antinomica dell´universo, c´è lui, l´autore. Che si dibatte in tale conflitto scrivendo non a caso un libro anfibio, indefinibile. Già, che cosa stiamo leggendo: un poema in prosa? un immaginifico portolano? un apologo della post-modernità urbana? Per certo un vertiginoso gioco combinatorio, che col trascorrere delle pagine si fa (anche) angoscioso. Perché via via che cresce la ragnatela che collega tutti gli elementi messi in campo, il lettore si ritrova in quello spazio non come se fosse il ragno che l´ha creato, ma piuttosto la preda che corre il rischio di lasciarci le penne. E bene se ne accorge proprio quando ‘raggiunge´ Ottavia, la città-ragnatela sospesa nel vuoto.
Incastonata tra due montagne, la si percorre grazie a un sistema di traversine e passerelle. Ma il suo cuore pulsante, «invece d´elevarsi sopra, sta appeso sotto»: in un groviglio senza fine di amache, girarrosti, docce, teleferiche. L´effetto di spiazzamento, peraltro, non si è ancora esaurito.
Perché Calvino aggiunge: «sospesa sull´abisso, la vita degli abitanti d´Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge». Ed evidentemente lo sa anche il suo novello Marco Polo, sospeso a sua volta - come noi tutti - a una vita sempre più aerea, nebulosa. Dove la dimensione mentale e immaginaria del viaggio finisce per prevalere su quella fisica, sensibile.
Non per caso egli si muove nel tempo, più che nello spazio. E va in cerca di un passato che non sapeva più di avere; o di un possibile futuro che scopre essersi trasformato «nel presente di qualcun altro». Del resto, tutto si incrocia e si scambia in questo favoloso pellegrinaggio congetturale, le cui prospettive sono sempre ingannevoli.
Ecco perché è così difficile stabilire l´ordine temporale in cui si consuma questa peregrinazione. Calvino ricorda che il modello di riferimento iniziale era «Il Milione». Ma assieme dichiara che il suo intento è quello di dedicare «un ultimo poema d´amore» alla metropoli contemporanea, di cui conosce alla perfezione falle, orrori e incombenti rischi di catastrofe. E ce li descrive con un´esattezza visionaria impressionante, che anticipa di quasi quarant´anni il nostro presente. Come nel caso di Leonia, che cercando di ripulirsi dalle sue impurità, crea attorno a sé una catena di montagne di immondizia. E dal momento che sta accadendo lo stesso nelle metropoli vicine, «i confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell´una e dell´altra si puntellano a vicenda». E ancora: che dire di Pentesilea, dove il visitatore, dopo ore e ore di vagabondaggio, non ha ancora capito se si trova al centro della città o non l´ha ancora raggiunta? Dunque Pentesilea altro non è che «la periferia di se stessa»? E se è così, siamo proprio sicuri che una volta entrati sia poi possibile uscirne?
Per accompagnarci in questo labirintico viaggio nell´invisibile - ecco il paradosso - lo scrittore privilegia, tra tutti i sensi, proprio la vista.
Punteggiando di immagini ogni pagina, ogni paragrafo, ogni giro di frase.
Invitando il lettore a vedere, o meglio ancora a stravedere, quanto gli viene raccontato.
E difatti, i primi accostamenti a cui viene naturale pensare, sono di tipo extraletterario: pittura, cinema. Ma è talmente vasto l´arco storico e concettuale di riferimento, che le interpretazioni possono essere le più diverse. E tutte ugualmente plausibili.
Il pittore spagnolo Pedro Cano, ad esempio, ha lavorato a lungo sulle «Citta invisibili» e ne ha offerto una fascinosa lettura ‘classica’, dove la fantasia ha la meglio sul terrore e il sogno sull´incubo. Se però, sempre leggendo Calvino, il pensiero corre a certi film di fantascienza, il quadro può rovesciarsi di colpo.
Forse che l´infernale Los Angeles del 2019 raffigurata nell´indimenticabile «Blade Runner» non potrebbe essere una parente stretta dell´Armilla calviniana?
Il vero prodigio delle «Città invisibili» è proprio questo: l´inesausto andirivieni che le avvolge e le accompagna. Non sarà allora che il tempo che meglio le contrassegna è il futuro anteriore? Una forma verbale quanto mai enigmatica, che indica un´esperienza a venire, come già consumata? E non è forse la nostra attuale condizione?
ESCE il nuovo libro di Franco Cordero. Si intitola Il brodo delle undici. L'Italia nel nodo scorsoio (Bollati Boringhieri, pagg. 194, euro 14). Sarà in libreria domani. Il giurista, maestro della disciplina procedurale, commenta tutte le distorsioni introdotte nelle norme a vantaggio di pochi e legge le vicende dell'oggi intrecciandole con quelle del passato.
Il Cavaliere in arcione deve le insegne a Bettino Craxi, sultano d'un allegro socialismo d'affari. L'altro nasceva nell'Urbe ancora mezza gotica, anno Domini 1313, aprile o maggio, tra i mulini del Tevere, sotto la Sinagoga, rione Regola, figlio d'un oste, Lorenzo: lo chiamano Nicola; la madre, Maddalena, lava i panni e porta acqua. Morta lei, cresce ad Anagni presso dei parenti e non dev'essere un'infanzia selvatica se, tornato sui vent'anni, apprende l' ars notaria sposando la figlia d'un notaio. Roma pullula d'epigrafi e lui è uno dei pochi lettori: coniuga le fonti giuridiche ai classici; ha sulla punta delle dita grammatica, retorica, dialettica, storie, poeti. L'anonimo autore d'una Cronica in volgare romano dal passo scultorio, databile 1357-58, lo descrive filologo: «deh, como e quanto era veloce lettore!»; racconta bellum gallicum et civile; «tutta die ... speculava nelli intagli de marmo»; solo lui decifra «li antiqui pataffii»; traducei testi, interpreta le figure, rivive i tempi. Chiamiamolo sogno petrarchesco (...) Il Senato è organo nobiliare: i due senatori formalmente investiti del potere esecutivo, con vari magnati ed esponenti delle couches borghesi, visitano Clemente VI, nuovo papa; tra i petita c'è un secondo giubileo, a metà secolo, che porti sollievo economico. In quest'interregno nasce un governo popolare, i tredecim boni viri, priori delle arti; e dobbiamo supporre che l'epigrafista avesse parte nel movimento se (autunno 1342) sale ad Avignone col mandato d'ottenere dal papa una ratifica del nuovo regime.
Sua Santità, benedettino ( in saeculo Pierre Roger) ma poco asceta, anzi incline al fasto, ha un passato accademico nonché politico (cancelliere sotto Filippo) e ama i discorsi ornati. L'emissario romano narra quanto patisca Roma sotto le soperchierie nobiliari (gli avevano ammazzato un fratello): la «diceria fu sì ... bella che subito abbe 'namorato papa Chimento»; il quale «molto concipèo ... contra li potienti». Ovvio risentimento dei baroni, influenti nel Collegio cardinalesco. L'Eminentissimo Giovanni Colonna lavora tra le quinte e Cola cade in disgrazia. Corre l'inverno 1343: povero, infermo, malvestito, sta «allo sole come biscia»; «poca defferenzia era de ire allo spedale» ma, cambiato l'umore (è congetturabile un'intercessione dal molto ascoltato Petrarca), lo stesso cardinale «lo remise davanti allo papa»; sa d'inflazione psichica la lettera in cui riferisce l'esito della missione, qualificandosi console romano, inviato dal popolo. Il soggiorno avignonese dura fin dopo Pasqua 1344. Dal Rodano torna con un buono stipendio, 5 fiorini d'oro al mese, notaio del Tesoro comunale. La penna d'oca non basta, ne usa una d'argento (...).
«Ora te voglio contare como fu fatto cavalieri». Martedì 31 luglio 1347 uno splendido corteo muove dal Campidoglio a San Giovanni; vi confluisce «tutta Roma, maschi e femine»; gran festa nel porticato, musiche, «buffoni senza fine», gare ippiche. In abito bianco, nel crepuscolo, dà l'annuncio al popolo: stanotte «me dego fare cavalieri»; domani udiranno meraviglie, cose che allietano Dio in cielo, gli uomini sulla terra. La gente sfolla. I preti dicono l'ufficio. Siamo al clou: entra nella vasca del battistero, dove Costantino aveva ricevuto il battesimo guarendo della lebbra; «stupore ène questo a dicere» (...). L'ospedaliero Monreale oggi non trova chi gli somigli: asceta della guerra masnadiera, nella cui etica, ferrea come l'armatura, incutere terrore è gesto onorevole; ha una Weltanschauung prossima alla mistica d'eremiti e penitenti, esposta nei manuali de contemptu mundi. Invincibile nelle partite d'armi, subisce l'inganno d'un grasso ciarlatano sull'orlo della fossa: contava d'intervenire al momento topico risolvendo l'affare con profitto; e calcola bene i tempi; l'errore dipende dal pregiudizio cavalleresco.
Non vede fin dove sia pericoloso un notaio codardo: va in Campidoglio e vi resta, colto a tradimento; se ne vergogna. Siamo nei quadri della shame culture: non piange né smaniao spende invettive; era stanco del mondo, sebbene non sia vecchio; regola i conti dell'anima senza pentirsi delle gesta violente (le considera ancora onorevoli), e vive un trapasso da signore, mentre Cola rimane plebeo sotto magniloquente maschera antiquaria.
Notiamo quanto poco gli somigli il Cavaliere regnante anno Domini 2010, soperchiatore fraudolento, piagnucoloso, commediante. C'è del simile nei due Cavalieri quando elaborano messinscene recitando se stessi, mossi dall'Io gonfio, abili comunicatori, maghi del plagio. Cola strega i due giovani occitani, fratelli del terribile Monreale, con la sola parola, avendo perso i carismi: viene senza titolo; il cardinale gli misura le provvigioni; sappiamo quanto poco valga in figura, tra ridicolo e repellente. Infine, sono entrambi plebei. La similitudine finisce qui. Il figlio del taverniere ha un ricco mondo psichico: latinista colto, archeologo, grammatico, retore, dialettico, viveva in trance evocando glorie romane da lapidi, monumenti, rovine, paesaggi lunari; così lavora i cervelli; popolani e baroni ignoranti ascoltano e imparano o almeno intravedono dei fantasmi. Il notaio megalomane modifica l'immaginario collettivo in senso ascendente. L'attuale incantatore non ha mondo psichico: ammesso che esista un'anima, misteriosamente combinata alla macchina corporea, l'Ingegnere cosmico s'era dimenticato d'infondergliela; sotto l'aspetto d'un giulivo imbonitore (quale appariva nella fase rampante) appartiene alla famiglia dei caimani, il cui modello Yahweh vanta allo sgomento Giobbe. O meglio, delle tre anime che san Tommaso mutua dallo scibile aristotelico, gli manca l'intellettiva: non pensa, nel senso complesso del fenomeno; al segnale percettivo rispondono riflessi infallibili e questa struttura assicura dei vantaggi sugli animali pensanti, perché il pensiero induce dubbi, stasi contemplative, conclusioni perplesse. Altrettanto utile è il vacuum morale: gli manca l'organo ossia i sentimenti definibili vergogna e colpa; quando mai gli alligatori soffrono nel ricordo delle prede divorate (...). Tale configurazione anomala spiega tante cose: vedi la sicumera con cui nega quel che ha appena detto (è caso raro scoprirlo veridico); o l'urlo belluino con cui assale chiunque pretenda d'applicargli le regole consuete. Insomma, è una macchina: accumula soldi, istupidisce l'audience, divora i concorrenti, tresca imbrogli, falsifica i conti, affattura le norme con l'automatismo delle ruote dentate; non avere coscienza, che risorsa.
Salta agli occhi quanto i due Cavalieri differiscano in carica agonistica. Al tribuno viene meno dopo sette mesi: era spento già nella grottesca mancata battaglia a Porta Tiberina (...); poche settimane dopo cede il campo chiudendosi nel Castello; atto gratuito, infatti i baroni aspettano tre giorni extra moenia. Felicemente privo della psiche, spesso molesta, il Caimano non patisce malinconie, né rischia cadute endogene, finché almeno sia biochimicamente in sesto. L'8 ottobre 1354 Cola subisce una fine squallida e orribile. Non è pensabile niente d'analogo, tanto diversi sono i contesti seicentocinquantasei anni dopo: era un povero diavolo nell'Urbe ingovernabile; costui dispone d'apparati formidabili, ricchissimo, sicuro della sua stella, fortunato sopraffattore dovunque s'avventuri, bienaimé, altro che Luigi XV; se non vanta exploits intellettuali, è solo perché li considera roba da poco ( risum tenebamus quando un almanacco elettorale raccontava che fosse familiare con l'Erasmo latino); e passa quasi incolume nel ridicolo. Trent'anni fa conniventi e profittatori gli aprivano le porte ritenendolo innocuo, divertente, utile: rampava; è arrivato; chi lo sloggia più? Il notaio romanista aveva un pericoloso daffare con i mercenari, esosi e infidi. Dominus Berlusco assolda quante barbute vuole: fischia e corrono; comanda un apparato letale dell'omicidio bianco e l'adopera; i suoi giornali rodono teschi, affinché ognuno sappia d'essere vulnerabile dai sicari.
Anticipiamo in questa pagina un estratto dalla prefazione inedita scritta da Luciano Canfora per il saggio L’uso politico dei paradigmi storici (pagine 125, € 16), che esce oggi in libreria per l’editore Laterza. Il volume riproduce, riveduto e ampliato con un’appendice e una conclusione nuove, un testo uscito nel 1982 presso Il Saggiatore con il titolo Analogia e storia. Fra i temi qui trattati da Canfora le caratteristiche «inquietanti» tipiche del mestiere dello storico, che a suo avviso «sussiste in relazione col potere: o perché suo antagonista o perché suo strumento».
Quando queste pagine furono scritte il mondo era ancora diviso saldamente in due campi (che la grande diplomazia kissingeriana era però riuscita a rendere tre, creando margini di manovra straordinari per il campo occidentale). E certo allora nessuno pensava che di lì a 7-8 anni uno dei due campi sarebbe scomparso liquefacendosi. Solo qualche oppositore che passava per visionario prevedeva quel crollo (Amalrik scriveva: “Sopravviverà l’Unione Sovietica fino al 1984?” con allusione all’utopia negativa di Orwell). Ma va ricordata anche l’intuizione di una studiosa francese di mentalità aristocratica, Hélène Carrère d’Encausse, la quale nell’Empire éclaté (trad. it. Esplosione di un impero?, edizioni e/o) additava, con ammirevole lungimiranza, nei conflitti interetnici da un lato e nel ritorno in forza del fattore religioso dall’altro gli elementi di una imminente crisi profondissima dell’Urss. Non so dire se questa illustre studiosa avesse anche previsto la rapida fine del Paese che così bene conosceva, ma certo ci andò molto vicino.
Peraltro, in quei medesimi anni, l’autorappresentazione retorica del «mondo libero» convinceva sempre meno. Mentre l’Urss teneva legati i suoi satelliti con la stessa durezza ed eventuale repressione che l’antica Atene adoperava coi suoi alleati, gli Usa proteggevano le dittature militari in tutto il mondo extra-europeo (ma in Grecia, nel 1967, estesero tale scelta a un importante Paese europeo!), dall’Indonesia all’America Latina, al Pakistan, all’Africa. Al punto che qualunque combattente per la libertà, laico o cattolico, religioso o marxista, in America Latina identificava negli Usa il grande protettore delle oligarchie militari e delle borghesie compradore. Era una scelta di campo ovvia. Helder Cámara e Romero non erano che la voce del buon senso oltre che i testimoni di una realtà feroce e sistematicamente occultata.
Ciò non impedì alla crisi del campo «socialista» di fare il suo corso. La storia non fa sconti e in politica non c’è un solo errore che non si paghi. Anzi fu proprio l’incapacità di autocorrezione del sistema sclerotizzato simboleggiato dall’Urss a rimettere in moto analogie latenti o esplicite, di varia capacità diagnostica. Ed è molto significativo che, proprio in quel torno di tempo in cui tale crisi esplodeva e si compiva, sia stata rimessa in discussione la lettura di quei 70 anni centrali del Novecento, retrocessi da tappa verso una ulteriore evoluzione, cioè verso il futuro, a parentesi, anzi a parentesi da archiviare, e da archiviare— si disse allora frettolosamente — come processo storico puramente in perdita. Maggior teorico di tale lettura estrema fu François Furet nel grosso libro Le passé d’une illusion (trad. it. Il passato di un’illusione, Mondadori), opera non a caso del maggiore incrinatore del mito — considerato fino ad allora ormai non scalfibile— dell’altra rivoluzione, quella del 1789.
Funzionava ancora una volta un procedimento mentale analogico: nel momento in cui il 1917-1989 diventava una parentesi negativa, a maggior ragione— e sia pure retroattivamente — la stessa sorte toccava al 1789-1794 (o se si preferisce 1789-1815), la cui brevità non doveva far perdere di vista che si trattava dello stesso processo.
L’analogia aveva funzionato positivamente per non piccola parte del Novecento. Era stato l’imprevisto 1917 che aveva fatto da volano al recupero della fase robespierrista: la Storia della Rivoluzione francese di Albert Mathiez, battistrada del recupero robespierrista, è del 1921-1923 e non si può comprendere senza il 1917-1918. Mathiez, che non fu mai accolto nell’empireo sorboniano, spostava in avanti, allargava il cerchio «positivo» della Rivoluzione, includendovi Robespierre e il Grande Terrore, perché la Rivoluzione era ricominciata vittoriosamente, e con analoghi metodi, a Pietroburgo. Senza tale premessa attuale (e analogica) l’allargamento non si sarebbe prodotto e l’orizzonte sarebbe rimasto quello «dantonista» del 1889, primo centenario della Rivoluzione «santificato» dalla creazione della cattedra sorboniana di Storia della Rivoluzione francese.
La durevole vitalità di quella analogia reciprocamente «salvifica » attraversò bufere, disillusioni, riprese di entusiasmo. E certo il ruolo salvifico dell’Urss nella seconda fase (1941-1945) della Seconda guerra mondiale fu parte essenziale di tale durevolezza, tanto da garantirne la vitalità anche dopo l’esplodere della «Guerra Fredda», che fu anche una sorta di guerra di religione. Significativamente si ancorò con convinzione a quella analogia tra le due rivoluzioni Pietro Nenni nel suo importante discorso alla Camera dei deputati, il 6 marzo 1953, in morte di Stalin. «Quando — disse egli —, trenta anni or sono, Stalin raccolse l’eredità di Lenin, dal cratere della rivoluzione socialista di ottobre la lava colava ancora per mille rivoli e tutti i problemi erano aperti, tutte le possibilità». Nenni proseguiva: «Il figlio del calzolaio di Gori (Stalin) si trovò di fronte al compito tremendo di unificare il corso della rivoluzione sovietica per sottrarla al destino che era toccato alla rivoluzione francese».
Qui c’era tutto: «unificare il corso della rivoluzione» era chiara allusione alla feroce lotta di frazione, allo scontro mortale col trotzkismo. Il paragone era con Robespierre, che alla fine soccombe alle fazioni e viene dichiarato fuori legge dalla Convenzione, e Stalin che «unifica il corso della Rivoluzione» e vince.
È la fine dell’Urss che ha posto le premesse per il capovolgimento del giudizio e per l’attacco frontale, e ormai finale, alla prima rivoluzione, al primo ’89. Se la liquidazione della seconda è stata affidata al Libro nero del comunismo, promosso, non del tutto a caso, in ambito francese da Stéphane Courtois e compagni, la liquidazione della prima ha prodotto emblematicamente un secondo libro nero: Le livre noir de la Révolution française (Éditions du Cerf, 2008).
Simul stabunt, dunque, e simul cadent, e la posta in gioco è il ripensamento radicale di due secoli di storia, ivi compreso l’ingombrante fenomeno del fascismo che non ha mai cessato di essere riproposto sotto luce «nuova» via via che veniva smantellato il «mito» delle due rivoluzioni. Ad entrambe, non va dimenticato, il fascismo si contrapponeva se solo si considera il duro e programmatico rifiuto dei «principi dell’89» in ogni testo teorico, a partire dalla celebre voce Fascismo, opera di Mussolini e Gentile collocata nel XIV volume dell’Enciclopedia italiana.
Loretta Napoleoni
Caro direttore, ho letto l´editoriale di Pirani dal titolo "Emma sì e subito e niente Loretta" e sono rimasta sorpresa dalla poca veridicità dei fatti raccontati dall´autore a mio riguardo. La Nuova Economia del Terrorismo (edizione Tropea) non è un romanzo ma un saggio che ho scritto in inglese e che è stato tradotto in 18 lingue, incluso l´arabo. Non si parla di nessuna alleanza tra Al Qaeda ed il capitalismo americano, né fa comparazioni tra il portafoglio di Al Qaeda ed il Pil americano. È a tutt´oggi uno dei testi più apprezzati nel mondo accademico e non sul finanziamento del terrorismo. La storia a cui si riferisce Pirani è ben diversa. Era stato chiamato dalla casa editrice a fare da relatore alla presentazione del mio libro, che ovviamente non aveva letto, cosa che è diventata subito evidente durante la presentazione. Giulietto Chiesa era anche lui uno dei relatori. Dopo aver insultato un giovane medio-orientale che riprendeva con la telecamera la discussione, Pirani si è scagliato contro Giulietto Chiesa, che come lui si presentava alle elezioni europee ed era in piena campagna elettorale. Tra i due si è accesa una feroce discussione, alla quale io non ho partecipato anche perché ero sbigottita dopo tanti anni all´estero di trovarmi in una situazione del genere, discussione che è terminata con il lancio del mio libro da parte di Pirani e la sua uscita teatrale dalla sala. Non voglio commentare il giudizio di Pirani sulla mia professionalità, fortunatamente i governi e le organizzazioni internazionali per cui lavoro non leggono i suoi editoriali e francamente anche se lo facessero non cambierebbe nulla. Mi meraviglio però che un giornale così serio come il suo dia spazio a ripicche di questo tipo.
Mario Pirani
Non ho mai scritto che il saggio su "La nuova economia del terrorismo" fosse un romanzo ma che L.N. aveva iniziato la sua carriera di esperta con un libro giallo sul terrorismo, "Dossier Baghdad", edito nel ´97 da Newton Compton. Il saggio è invece del 2004. Accettai l´invito dell´editore Tropea di presentarlo. Lo lessi come faccio sempre, riservandomi la libertà del recensore di lodare, criticare e se crede anche stroncare l´opera sottoposta al suo giudizio. Quanto al merito mi limito a citare testualmente alcune interviste dell´autrice rilasciate in occasione della presentazione: «L´economia terrorista è un bene per il capitalismo occidentale. Il fatturato di 15.000 miliardi di dollari viene immesso nelle economie occidentali… Il tasso di crescita del volume monetario terroristico è più alto di quello dell´economia americana… Se lo eliminassimo, l´Occidente si troverebbe automaticamente a dover fronteggiare una recessione… Il terrorismo è un così buon investimento che anche il governo degli Stati Uniti cercò di entrarvi… Il terrorismo è un business troppo lucroso per procedere all´arresto di Osama bin Laden? … Quando fu noto che Osama sarebbe andato in Afghanistan, la risposta americana fu "lasciatelo andare". Anche dopo l´11 settembre l´America rifiutò l´offerta pachistana (di consegnare bin Laden)».
Quanto alla discussione con Chiesa L.N. afferma che disputammo perché ambedue ci presentavamo alle elezioni europee. Non sono mai stato candidato ad alcuna elezione. (m.p.)
Negli Stati uniti non sanno ancora bene come chiamarli: «the aughts» o «the noughts», cioè gli (anni) zero, o anche «the 2000s», «the double zeros», «the double ohs». Ma intanto il decennio cominciato nel 2000 sta finendo, mancano solo due settimane. L'incertezza del nome corrisponde a un'incertezza della cosa? O risente di quel clima un po' da cabala un po' da fine del mondo che avvolse il pianeta per il capodanno del 2000? Come connotare, con o senza nome proprio, il decennio che ci ha traghettati nel terzo millennio? Parafrasando «Il secolo breve» di Hobsbawm, lo si potrebbe intanto definire il decennio brevissimo: sette anni e due mesi scarsi, è l'ipotesi di Carlo Antonelli e Massimo Coppola che aprono e chiudono «Gli Anni Zero», alias «almanacco del decennio condensato» pubblicato da Isbn Edizioni (a cura di Carlo Antonelli, 19 Euro, 330 compresa una ricca e preziosa cronologia). Sette anni e due mesi sono il tempo che passa fra l'attacco alle Torri gemelle l'11 settembre 2001 e l'elezione di Barack Obama il 4 novembre 2008: un altro decennio americano, tanto per cominciare, alla faccia delle diagnosi sulla fine del secolo americano poste a didascalia della voragine di Ground Zero. E prima di quella voragine? «Il più micidiale punto a capo che si sia mai visto sul periodo precedente, quella fase brevissima e dai caratteri unici che va dalla morte di Carlo Giuliani a Genova il 20 luglio 2001 all'opera mortale di New York», scrive Coppola, e racconta: «In quei due mesi, raccolti nel dolore, finalmente in grado di uscire dai nostri maledetti tic autoironici avevamo sperato, davvero, che la nostra generazione potesse diventare davvero una nota a piè di pagina della voce 'duemila' nei futuri sussidiari scolastici. Sembrava ci fosse davero la possibilità di impegnarsi di nuovo, di 'credere', di stare insieme e provare a riutilizzare un vocabolario che avevamo per troppo tempo usato solo tra virgolette nelle battute un po' ciniche e sbrigative dei disillusi. E invece sono arrivati gli anni zero, il ka-boom delle Torri gemelle che ha cancellato in un colpos olo l'inizio tragicamente promettente e quel poco di tempo presente che abbaimo vissuto in quei due mesi. Siamo rimasti come quel giorno, undicisettembre, undicisettembre, undicisettembre, a bocca aperta e occhi spalancati, paralizzati e senza idee, come animaletti tenuti in cattività dalla santissima trinità guerra, religione e paura». Diario di una generazione finalmente altra da quella dei sessantottini che fra Seattle e Genova aveva ritrovato il gusto della politica, per vederselo rubare subito dagli aerei sopra Manhattan e dalle bombe sopra Kabul e Baghdad. Un decennio troncato sul nascere? Nient'affatto, perché la storia, com'è noto, si vede meglio dalla fine. E se «il traumatico aperitivo» della violenza scatenatasi a Genova contro i no global era solo l'annuncio «dell'iradiddio che sarebbe venuta dopo», con la risposta di guerra al crollo delle Torri, gli attentati alle Costituzioni occidentali fatti in nome della lotta al terrorismo islamico, il revival della cultura della forma-campo a Guantanamo come a Lampedusa, il gusto della politica troncato sul nascere si prenderà la sua rivincita sette anni dopo, quando «l'elezione di Obama e lo spalancarsi di un grande, vertiginoso, forse perfino falso buco nero della finanza mondiale hanno riportato alla superficie psichica effetti e sentimenti del secolo precedente, con tanto di annessi e connessi sulla fine del machismo infantile di Bush e sulla debolezza della mascolinità testosteronica in assoluto, del resto minata dal trionfo della cultura gay, mai così dominante come in questi anni». Così Carlo Antonelli, che giustamente conclude: «Rendiamocene conto una volta per tutte: questa decade sarà ricordata nei libri come uno dei momenti più densi della storia dell'umanità, forse il più memorabile dopo i benedetti anni Sessanta che i babyboomers hanno incorporato fin dalle stringhe più nascoste delloro Dna». Un filo rosso fra i favolosi anni Sessanta del '900 e gli Zero del 2000? Non a caso è dai babyboomers che proviene il grosso degli autori scelti per l''almanacco del decennio condensato': Slavoj Zizek e Judith Butler, Mike Davis e Susan Faludi, Enrico Ghezzi e Anna Politkovskaja...Ma la generazione degli Zero è perfino più brava di quella dei Sessanta a intrecciare linguaggi e mezzi, la politica e il cinema, il rumore della guerra e i suoini della musica, la claustrofobia dei campi e lo spazio aperto di Internet, il richiamo alla materialità della natura venuto dagli tsunami e dai cicloni e le chance dell'immateriale che si aprono nei social network. Perciò non fermatevi ai primi, imperdibili saggi sul dopo-11 settembre di Faludi e Butler già entrati nella galleria dei classici, né sull'appassionata difesa degli entusiasti contro i cinici di Zizek di fronte all'elezione di Obama, né sui reportage dai paesi come la Cina e il Brasile che nel volgeredel decennio da emergenti sono diventati vincenti, e procedete nei diari dal mondo dell'arte, della musica, del calcio, della Rete. Scoprirete per esempio come cambia l'adulterio al tempo di Facebook (Matteo Bittanti), un modo come un altro per dire tutte le magnifiche sorti e gli oscuri tranelli di ciò che chiamiamo nuove tecnologie della comunicazione, niente di meno che una rivoluzione antropologica. E capirete perché tutti, ma proprio tutti, babyboomers e oughties, abbiamo sentito che con Michael Jackson moriva molto di più che una rockstar (Alberto Piccinini). Magnifica galoppata su uno dei decenni più turbinosi della nostra vita. «Gli anni Zero sono iniziati da dove doveva finire la storia, da quello strano interregno chiamato anni Novanta, che del resto da una dissoluzione, quella del 1989, era a sua volta cominciato», scrive ancora Carlo Antonelli. «L'identità sembrava allora uniformarsi tutta, pur nell'apparente diversità, diventare piatta e globale. E invece è esplosa, poco dopo. E così è successo a ogni campo della vita umana, non-umana e artificiale, nei dieci anni successivi. Al resto del secolo attuale il compito di ricomporre in disegni differenti ciò che sul terreno sarà rimasto di questi anni clamorosi». Buoni anni Dieci, ammesso che comincino questo capodanno e non il prossimo, stesso dilemma che ci colse esattamente dieci anni fa.
Se tutti fossero come il signor Franz Liebhard, Gian Antonio Stella non avrebbe potuto scrivere il suo libro Negri froci giudei & Co . L’eterna guerra contro l’altro , ma il mondo sarebbe più vivibile. Nel 1917, il signor Liebhard si chiamava ancora col suo vero nome — posto che ne esista per ognuno di noi uno «vero» — ossia Reiter Róbert e scriveva, in ungherese, ardue poesie sperimentali su riviste d’avanguardia. Alcuni anni dopo scriveva, firmandosi Robert Reiter — ossia alla tedesca e non più secondo l’uso magiaro di anteporre il cognome — liriche in tedesco, un po’ meno ardite. Dall’inizio degli anni Quaranta, ha cominciato a scrivere — assumendo il nome di un amico minatore morto in un incidente, Franz Liebhard — tradizionali poesie, sempre in tedesco e in rima, che parlano di boschi, fiori e cieli stellati ed è divenuto un poeta della minoranza tedesca del Banato, in Romania (dalla quale proviene Hertha Müller, premio Nobel di quest’anno), oggi pressoché scomparsa. Come dice lui stesso, ha imparato «a pensare e a sentire in più popoli».
Chissà come Franz Liebhard, Reiter Róbert e Robert Reiter si sopportavano a vicenda, se vivevano bene insieme o se si guardavano in cagnesco, come facevano, in quelle terre multietniche e multiculturali, ungheresi, tedeschi, romeni, serbi e così via, vicini di casa pronti a scannarsi alla prima occasione e convinti, ognuno, di essere l’unica nazionalità legittima di quei Paesi e in ogni caso la migliore. Ogni gruppo, ricorda Stella nel suo libro — che è un potente, ferocemente ilare e doloroso dizionario o prontuario universale di tutte le ingiurie, odi e pregiudizi nei confronti del diverso d’ogni genere — si ritiene superiore a tutti gli altri, che disprezza e respinge.
I barbari, egli ricorda, sono dappertutto e la loro presenza illecita comincia dovunque davanti alla porta di casa; per i vecchi di Rialto gli unici veneziani autentici sono loro, che si considerano il centro del mondo, mentre già oltre il Ponte de la Libertà che porta in terraferma ci sono «gli altri» e sarebbe meglio che non ci fossero. D’altronde pure la Cina si è sempre considerata il centro del mondo e non solo i nazisti o i bianchi in genere, ma pure i neri loro vittime hanno elaborato teorie e miti di superiorità razziale e culturale; tutto ciò ha portato a violenze inenarrabili sotto ogni cielo e in ogni tempo, inflitte certo generalmente dai più forti, ma anche dai più deboli quando ne hanno avuta la possibilità. Persecutori e perseguitati sono talora le stesse persone, in momenti diversi e in rapporto a persone diverse; quasi all’inizio del libro Stella pone, con uno di quei caustici colpi d'ala di cui è maestro, la persecuzione feroce subita, da parte degli inglesi, dai boeri, peraltro conosciuti quali feroci segregazionisti e persecutori dei neri.
Ogni popolo, ogni cultura, ogni angolo di rione, ogni chiesa si macchiano di queste turpitudini, in cui dalla comica stupidità all’efferata crudeltà il passo è talora breve; il diverso, deriso o anche massacrato, dimostra Stella, non è solo lo straniero ma può essere l’abitante della stessa provincia, che parla il medesimo dialetto ma con qualche sfumatura differente. Stella e Rizzo hanno scritto un celebre libro sulla casta dei politici; ogni gruppo si costituisce come una casta, chiusa alle altre.
In un acutissimo saggio José Angel Gonzalez Sainz ha analizzato i meccanismi e i dispositivi con cui si creano nella testa delle persone i sentimenti e i modi di percepire gli altri, gli estranei.
Lo stupidario del razzismo non basta; rischia di rendere il suo lettore compiaciuto della propria apertura di mente e della propria civiltà rispetto alle litanie dell’odio, della paura e della povertà di spirito e di non preoccuparsene troppo. Resta la domanda, posta dal titolo di un libro di Cernyševskij che era caro a Lenin: Che fare?
Anzitutto, per fare realmente i conti con questo dramma, occorre sapere che nessuno è immune da pregiudizi verso l’altro, anche se non lo sa. I razzisti dicono che i neri puzzano e i liberali sanno che anche i bianchi, per i neri, puzzano. È già qualcosa, ma non basta. Ognuno di noi ha dentro di sé, anche inconsapevolmente, il suo diverso da rifiutare o il momento in cui, magari per un attimo, rifiuta qualche diverso; occorre sapere che, almeno in qualche momento di caduta spirituale e intellettuale, anche noi riteniamo a priori qualcuno più puzzolente degli altri. È questo il peccato mortale che ci insidia e tranne qualche rarissimo santo — ma forse anche lui — ognuno è un peccatore.
Credo che i miei genitori mi abbiano dato un formidabile vaccino contro ogni razzismo, proprio perché non mi hanno mai detto che non bisogna essere razzisti, così come non mi hanno mai detto che non si pranza in gabinetto, ma semplicemente col loro modo di essere — di lavorare, divertirsi, volersi bene, litigare, parlare — creavano un mondo in cui era impensabile essere razzisti o portarsi gli spaghetti al cesso. Tutto ciò vale più di ogni predica. Ma non sono sicuro che, se fossi ripetutamente derubato da qualcuno appartenente a un determinato gruppo, non mi lascerei andare stupidamente a un’indistinta ira verso tutto il suo gruppo. Solo se mi rendo conto di correre anch’io il rischio di rientrare nello stupidario dei fanatici posso combatterlo realmente; altrimenti cadrei anch’io nella loro presunzione di incarnare la civiltà contro i barbari e ciò vale ovviamente per tutti.
Ogni convivenza, inoltre, è difficile; non a caso tanti matrimoni naufragano e non solo quelli fra bianchi e neri. Essa esige non solo il nostro rispetto dell’altro, del diverso arrivato fra noi (chi sono poi questi noi?), ma anche il suo rispetto nei nostri confronti. Se un mio vicino provenisse da una cultura in cui si passa la notte a far baccano, io avrei qualche problema e dovremmo fare entrambi uno sforzo, io di sopportare un po’ di più il chiasso e lui di farne un po’ meno. Ma soprattutto non si può ignorare la possibilità di conflitti reali tra sistemi di valori inconciliabili, fra i quali è inevitabile scegliere con decisione: rispetto a me, al mio sistema di valori, un nazista fautore della Shoah è indubbiamente un «diverso», ma in questo caso la sua diversità è inaccettabile e devo assumermi la dolorosa responsabilità di combatterla.
La diversità, ha scritto Predrag Matvejevic, non è di per sé ancora un valore, né la mia né quella dell’altro, ma il suo valore dipende dal rispetto che essa ha — o non ha — nei confronti della dignità di tutti gli uomini. Non c'è da vergognarsi ma neppure da inorgoglirsi di essere «diversi» (da chi?). Chi è stato ingiustamente perseguitato tende inoltre a considerarsi tale anche quando non lo è più, sentendosi gratificato da tale qualifica. Ma in tal modo, osserva Glissant — grande scrittore nero discendente di schiavi — si rimpicciolisce e perde signorilità nei rapporti col mondo.
L’uguaglianza, è stato spesso osservato, può essere pericolosa e totalitaria, può implicare il livellamento di tutte le civiltà, cultura e tradizioni costrette a uniformarsi a un unico modello, quello della società più forte; nel nostro caso, al modello occidentale. Ma proprio perché condanniamo le infamie commesse dall’Occidente — le guerre e le persecuzioni religiose, la tratta degli schiavi, il colonialismo, la Shoah perpetrata da una delle più grandi nazioni d'Europa — non possiamo abdicare a quei principi universali in base ai quali condanniamo quelle infamie. Ad esempio, nessuna cultura altra o diversa può farci deflettere dal principio della pari dignità di ogni essere umano a prescindere dalla sua identità etnica, culturale, sessuale o religiosa. Le minoranze, specie quelle nazionali, hanno bisogno di leggi che le tutelino ma senza ledere il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini. È sconcertante, ad esempio, che nel Québec, ha ricordato Charles Taylor, la legge 101 sulla scuola vieti sostanzialmente ai francofoni e agli immigrati di iscrivere i loro figli a scuole di lingua inglese, mentre lo consente ai canadesi anglofoni.
Per evitare l’eterna guerra contro l’altro, una politica responsabile deve cercare di evitare il crearsi di situazioni di conflitto che esasperino i pregiudizi, i risentimenti, le paure e le conseguenti violenze. Domani, ad esempio, il numero di immigrati — ossia di nostri concittadini del mondo giustamente desiderosi di sfuggire a un destino orribile — potrebbe divenire così grande da rendere materialmente impossibile l'accoglienza, al di là di ogni stolido e crudele pregiudizio; se tutti i dannati della terra arrivassero in Italia, non sarebbe fisicamente possibile accoglierli tutti e sarebbe una tragedia.
Sul nostro futuro — sul futuro dell’umanità — incombe la minaccia di questa tragedia. Nessuno, credo, è così geniale da sapere come stornarla. Nel frattempo, un modo di arginare l’eterna guerra contro l’altro sarebbe quella di considerare come «altri» tutti, compresi noi stessi. Potremmo prendere esempio da un’anziana donna del Banato di cui ho parlato in un mio libro, nonna Anka. Questa donna, figlia di quella terra multiculturale straziata dall’odio di tutti contro tutti, parlava male di tutte le nazionalità della sua terra, compresa quella che considerava più sua, la serba. Diceva peste e corna di tutti i diversi e di tutti gli altri, ma sapendo di essere anche lei una diversa, un’altra e di meritare alcune di quelle strapazzate. Aveva ragione, perché siamo tutti dei lazzaroni e in questo riconoscimento della comune miseria ci può essere più concreta fraternità che nei bei discorsi politicamente corretti in cui tutti, i diversi e i non diversi, vengono elogiati come brave persone.
Le metropoli come un regno di una creatività sociale che attende solo di essere utilizzata per migliorare le condizione di vita. È questa la proposta che lo studioso Charles Landry ha maturato in anni di esperienze nella progettazione urbanistica che lo hanno portato a lavorare non solo nella Nativa Inghilterra, ma anche negli Stati Uniti, Italia, Russia e Cina. L'uso di una categoria aperta a molteplici interpretazioni come quella della creatività non lo ha portato a una visione apologetica del «fare città» dominante. Anzi, la sua riflessione nasce dalla consapevolezza di una doppia crisi. Da una parte la difficoltà, meglio l'impossibilità per urbanisti e amministrazioni politiche di presentare progetti organici dello sviluppo metropolitano. Dall'altra, però, la consapevolezza che la gestione neoliberista delle metropoli più che risolvere i conflitti e il degrado metropolitani ha accentuato una privatizzazione dello spazio pubblico, fattore propedeutico a una feroce valorizzazione capitalistica del territorio.
Per Landry più che un ritorno ai fasti del Moderno da contrapporre al governo neoliberista delle metropoli occorre tuttavia puntare proprio a quella creatività diffusa che si manifesta nelle reti sociali, il vero, per usare le sue parole, software delle metropoli, cioè quell'elemento che rende possibile il funzionamento della città. Una tesi che accosta la sua riflessione a quella di un altro studioso, Richard Florida, che ha individuato nella creatività la linfa vitale a cui la produzione capitalistica deve attingere per garantire lo sviluppo economico. Ma con una sostanziale differenza. landry è interessato all'«Arte di fare la città», come recita il libro da poco pubblicato da Codice edizione. Dunque, non un'analisi della metropoli come atelier produttivo, bensì come habitat che consente una «buona vita» che sappia superare le miserie del presente per aprirsi a un futuro eco-compatibile. E non è dunque un caso che le sue tesi abbiano incontrato l'interesse della Banca mondiale, ma anche di movimenti ambientalisti, di architetti e urbanisti liberal.
L'intervista è avvenuta durante la sua presenza al Festival della Scienza di Genova, dove è stato chiamato a parlare del presente e del futuro delle metropoli.
Nel suo libro da poco tradotto, le città sono un crogiolo di stili di vita, di interessi confliggenti. Dunque, le metropoli come artefatti culturali?
Artefatti culturali è una buona approssimazione rispetto alla ricerca che ha caratterizzato il mio lavoro sul «fare la città». Questo però non significa che non esistano elementi «naturali», morfologici che spiegano il perché di alcune scelte di sviluppo urbanistico piuttosto che altre.
Decidere la costruzione di un centro commerciale, di una superstrada o di rendere alcune piazze strada zone off limits alle automobili dipende ovviamente dalla morfologia territoriale in cui è collocata la città. E tuttavia una città è l'esito di una negoziazione tra gli interessi sociali, economici e degli stili di vivere diversi e spesso confliggenti che in quella città si esprimono. La metropoli è sempre uno spazio pubblico popolato da formazioni sociali, classi e ceti tra loro eterogenei.
Prendiamo il continuum urbanistico che va da La Spezia e Imperia. Molti, e io concordo con loro, hanno parlato di un'unica metropoli, dove, però, si manifestano interessi specifici, locali che condizionano il lavoro degli architetti, degli urbanisti e dei decisori politici. Ci troviamo di fronte a siti urbanistici che hanno una lunga storia alle spalle, ma arrivano a fondersi senza per questo voler rinunciare, ognuno, alla sua specificità. Tutto cioè rende il governo del territorio un lavoro di negoziazione continua, di modifica incessante dei progetti urbanistici che annulla qualsiasi possibilità di un progetto organico di sviluppo urbanistico. Una negoziazione continua che non riguarda solo il territorio che va da La Spezia a Imperia, ma tutte le metropoli e che viene gestita da forme più o meno efficaci di governance. Per questo, il «fare città» contemporaneo è segnato dalla crisi del progetto moderno che pretendeva di orientare con coerenza lo sviluppo urbano. Faccio la mobilità.
Nel passato le città mettevano in contatto le persone, favorendo la crescita di relazioni sociali tra uomini e donne nati in contesti locali lontani o isolati l'uno con l'altro. La mobilità, meglio la possibilità di muoversi agilmente all'interno di uno spazio urbano è stato uno degli elementi costituitivi dello sviluppo urbano. Negli ultimi trent'anni invece questo diritto alla mobilità è stato messo in crisi da molti fattori. Per garantire questo diritto, i policy making hanno pensato che occorreva solo trovare delle soluzione tecniche. Si sono costruite superstrade, si sono demoliti interi quartieri, in una negoziazione continua tra gruppi, classi sociali diversi, che rendevano il progetto iniziale solo un decalogo di buone intenzioni. Ma in una metropoli c'è sempre asimmetria di potere. Alla fine vinceva chi aveva più potere, anche se le decisioni finali venivano presentate come soluzioni tecniche.
Con questo vuol sostenere che la valorizzazione economica dello spazio è diventato l'unico parametro che oriente le scelte delle amministrazioni politiche?
La risposta non può essere netta, perché chi punta a una valorizzazione economica dello spazio urbano incontra sempre resistenza da parte degli abitanti. Ho avuto il piacere di studiare e vivere per un periodo di tempo a Bologna, rimanendo affascinato dalla geometrica armonia della parte storica della città. La Bologna antica rifletteva un progetto di città che emergeva con facilità dall'organizzazione urbanistica dello spazio. Se però ci spostiamo nella parte nuova della città è difficile trovare traccia di un progetto urbanistico coerente. Non sono un nostalgico e non propongo certo di ritornare a quel modo antico, medievale di «fare città», ma sono propenso a a sostenere che è difficile un'idea di metropoli per il ventunesimo secolo.
Leggendo il suo libro, ho trovato molti echi della riflessione di Georg Simmel sullo spirito della metropoli o delle pagine di Walter Benjamin sulla «Parigi capitale del ventesimo secolo». Ma nella sua riflessione sull'«arte di fare la città» le forme di vita contemporanee sono un apriori immutabile nel tempo...
Non ho studiato approfonditamente Walter Benjamin, mentre conosco bene l'opera di Simmel e concordo con la sua tesi sul fatto che nelle metropoli si manifestano eterogenei gli stili di vita.
D'altronde, l'arcano del «fare città» consiste proprio nel trovare soluzioni su come organizzare uno spazio affinché si possono manifestare e al tempo stesso trasformare le relazioni sociali di una società. In una città è «naturale» demolire edifici, strade, piazze per costruirne altri. Finora gli urbanisti hanno ritenuto che il loro lavora finiva quando era stata trovata una soluzione appunto urbanistica. Ma una metropoli riflette forme di vita e, allo stesso tempo, favorisce la loro trasformazione. Il problema è come avviene questa trasformazione. Prendiamo, ad esempio, la città interculturale, concetto molto usato in anni recenti dagli urbanisti, architetti e policy making. Trovo il concetto interessante per un motivo che trascende dall'idea che nelle città contemporanee sono presenti «stranieri». Come dicevo prima, le città sono da sempre il luogo dove gli stranieri possono incontrarsi. La città interculturale deve però dare una risposta a un rovello logico: posso anche accettare le differenze, ma cosa accade se io sono diverso da quanto stabilito come codice culturale e norme dominanti? È questa la sfida del ventunesimo secolo. Purtroppo, quando si discute di metropoli lo si fa sempre e solamente da un punto di vista amministrativo per rispondere a difficoltà tecniche: qual è il percorso migliore per spostarsi da A a B, quale soluzione ottimale per costruire un grattacielo. Gli urbanisti, gli architetti e i policy making sono cioè interessati a migliorare l'hardware della città, ma non al software che la fa funzionare, crescere, trasformare. I luoghi diventano cioè dei vincoli dotati di una sacralità oggettiva che non si può infrangere, mentre gli uomini e le donne che vivono la città sono degli accessori.
Nei suoi testi le metropoli sono luoghi in cui si manifesta una creatività diffusa, che consente sia di innovare che migliorare le proprie condizioni di vita indipendentemente da quanto viene deciso politicamente. Gli uomini e le donne possono dunque autogovernarsi?
La «città creativa» è un concetto maturato negli anni Ottanta, quando molte metropoli sono state interessate da profonde trasformazioni urbanistiche. Ciò che emergeva era una sorta di capacità progettuale diffusa che prospettava soluzioni creative, cioè innovative del vivere metropolitano. Mi riferisco a città come Barcellona, Glasgow, Cracovia, Manchester. Venivo chiamato come consulente per prospettare soluzioni «creative» a seri problemi sociali, economici e ambientali. Ponevo sempre l'accento sulla necessità di una maggiore comprensione e conoscenza di quanto accadeva nei quartieri interessati dai progetti di qualificazione urbana, invitando a valorizzare la capacità degli abitanti a prospettare soluzioni ai loro problemi. Gli urbanisti o i decisori politici mi guardavano allibiti come se fossi un romantico utopista. Era molto frustrante, ma poi è accaduto che alcuni amministratori hanno accettato la sfida, definendo percorsi che prevedevano, nella progettazione urbanistica, il coinvolgimento di chi la città la abita. Abbiamo così scoperto che la creatività non è una prerogativa individuale, ma l'esito di dinamiche sociali molto dense, ricche. La metropoli non è solo un luogo in cui si consuma una vita segnata da insicurezza, fragilità, sofferenza, ma anche un contesto che può valorizzare le capacità collettiva di immaginarla come una realtà «amica».
Non può però negare che le metropoli siano anche luoghi di emarginazione, di diseguaglianze, di razzismo istituzionalizzato, di sfruttamento?
Le metropoli sono anche questo. Per affrontare e risolvere i problemi da lei indicati occorrono soluzioni radicali, ma soprattutto creative. L'idea di città creativa che ho elaborato risponde appunto alla capacità di favorire la partecipazione, come dite voi in Italia, popolare. Per fare questo, però, va ridefinito il rapporto tra governanti e governati, considerando quest'ultimi non accessori, ma una risorsa indispensabile per migliorare la vita nelle città. La «città creativa» è però solo una scintilla, ma poi la prateria può bruciare secondo dinamiche inizialmente non prevedibili. Le cito un esempio che conosco bene. La Ruhr è una delle regioni tedesche più inquinate. Quando il governo locale ha deciso di riqualificare città e siti industriali si è posto il problema dell'uso di energie rinnovabili e non inquinanti. Ma per fare questo doveva coinvolgere gli abitanti, in particolare modo i comitati ambientalisti che denunciavano il livello intollerante del degrado ambientale.
A anni dal lancio del programma si riqualificazione della Ruhr molte cose rimangono da fare, ma quel progetto è considerato una sorta di modello che ha avuto successo. L'architetto prospetta infatti soluzioni bio-compatibili; gli urbanisti si pongono il problema di come dotare le città, i quartieri di parchi pubblici e di come favorire la mobilità utilizzando ad esempio il trasporto collettivo. È di questo incendio che parlo quando sostengo che la città creativa è solo una scintilla.
Una proposta dolcemente in controtendenza con la logica neoliberista dello sviluppo metropolitano....
Negli Stati Uniti, ma non solo, la critica alla privatizzazione degli spazi pubblici ha dato vita a una vivace e importante discussione. Nonostante il fatto che il neoliberismo sembrasse l'unico orizzonte in cui collocare scelte politiche rispetto allo sviluppo urbanistico possiamo dire che ha subito una sconfitta sul campo. Questo non significa che non ci siano più metropoli gestite secondo quella logica. Più realisticamente il neoliberismo non ha mantenuto le sue promesse - sicurezza, maggiore benessere, riduzione dell'inquinamento. Inoltre, la mia esperienza mi ha portato a scoprire una grande competenza, passione, capacità tra i dipendenti pubblici nel poter prospettare buone soluzioni per le metropoli che amministrano. Occorre dunque recuperare questa bacino di conoscenza rimasto per anni silente. Infine, va rilegittimata, dopo anni di denigrazione da parte dei neoliberisti, la valorizzazione della città come spazio comune che va sottratto alle politiche di privatizzazione.
Sempre più spesso capita che la letteratura possa aiutare le analisi di urbanisti, i quali si spera possano integrarle presto di nuove citazioni da troppo tempo ferme a Calvino di «Le città invisibili».
Nel libro di Giorgio Falco «L’ubicazione del bene» (Einaudi, 141 pagine, 16 euro) la scena è importante, si svincola dal ruolo di sfondo e si prende la parte grande. L’abitato, con le sue fattezze, conta almeno quanto i protagonisti abitanti; irrompe continuamente con annotazioni tecniche puntigliose che attraversano i racconti: dall’inserzione allettante e palesemente ingannatrice dell’agenzia immobiliare alla perizia estimativa a supporto degli atti d’acquisto. Colpisce la doppia cifra del linguaggio. Già nel titolo che allude ambiguamente al bene, al valore dei valori - il bene opposto male - e insieme al bene immobiliare in terra, descritto con la prosa dei catasti e delle conservatorie dei registri. La casa, bene materiale per eccellenza, è l’obiettivo che nel libro di Falco si realizza a prezzo elevato, come sanno quelli che convivono con il mutuo di lungo corso: il bene, ubicato in qualche agognato luogo abitabile, nell’indistinta trama dell’extraurbano lombardo (ma potrebbe essere in tanti altri posti), è il presupposto di una vita migliore; un atto notarile può decidere la felicità di una famiglia che realizza il suo sogno «a un quarto d’ora dalla Tangenziale Ovest», come dice l’ingannevole pubblicità.
Cortesforza: nell’eden di villette dove s’intrecciano le angoscianti storie che racconta Falco, il bene non c’è. Forse non è rintracciabile neppure il male in quel groviglio di drammi che sottintendono la casa e la sua location, i debiti contratti nello sfondo che divorano parte consistente del reddito, il lavoro che tiene lontani dal bene finalmente in proprietà, mentre gli affetti evaporano, le ambizioni tutte si dissolvono gradualmente, le frustrazioni dominano ogni momento della vita dentro e fuori l’ambiente domestico, cioè vicino e lontano dal bene.
C’è soprattutto la coppia potsmoderna (?) che si affanna a tenere la famiglia unita, animali compresi: coniugi che non hanno la forza di lasciarsi e decidono di «mettere in cantiere un figlio», disavventure che sottintendono avventate intraprese, incomprensioni, una disfatta che si rispecchia a Cortesforza. Un topos letterario, ma tra Corsico e Vermezzo, qualcosa di simile c’è, tante volte, e non potrebbe essere molto lontano da lì o da un qualsiasi altro posto «avvantaggiato» da tangenziali e svincoli; accessibile in modo agevole (si fa per dire) solo in automobile, altro bene indispensabile per raggiungere la meta: la villetta monofamiliare con giardino, mito incontrastato dell’abitare sublimato dalle fictions televisive americane; sintesi individualista, identica a quelle a fianco; stesse abitudini: il centro commerciale più vicino il sabato, il tosaerba e il barbecue la domenica, di nuovo in auto nell’ingorgo interminabile del lunedì mattina.
Nel Paese delle mille città, diverso dall’America, la scelta antiurbana della villetta nel verde nei pressi di uno raccordo è stata alimentata dai messaggi televisivi e sostenuta dalla speculazione edilizia che da decenni produce periferie insensate che divorano il paesaggio agricolo superstite, e insieme storie di ceti medi avviliti dentro questi spazi socialmente contraddittori. Storie che appartengono in modo indistricabile a luoghi così e, chissà perché, non riesci a immaginarle nelle strade e nelle piazze dei vecchi centri.
Oltre i luoghi c’è la commedia umana nel racconto di Falco, impietoso e insieme distaccato; sarà il lettore, se ne avrà voglia, a immedesimarsi nei crucci dei protagonisti e a compatire lui o lei nelle disillusioni ricorrenti. «Il giorno del quinto compleanno di suo figlio, lui compra un camper usato. Lei preferirebbe una casa ma non possono permettersi una casa al mare o in montagna».
postilla
Con un paio di generazioni di ritardo (ma non rispetto al recente film con Di Caprio e Winslet) arriva anche la nostra Revolutionary Road , saga dell’alienazione suburbana dove la banalità diventa tragedia e viceversa. Un po’ meglio, e un po’ peggio, come ovvio, rispetto al modello originale, ma va anche tenuto conto che personaggi e ambienti di Falco sono quelli del terzo millennio, della globalizzazione, della precarietà. La cosa buffa, se così si può dire, è che Roggio è stato fin troppo buono nella sua recensione, forse anche oltre le intenzioni: chissà se Sandro è mai stato in quella striscia di ex campagna “tra Corsico e Vermezzo”, coi capannoni ammucchiati su una sponda del Naviglio, gli arredo bagno persi nei campi dall’altra, e le file di villette a fare da skyline a certi tramonti pieni di catarifrangenti. Perché Cortesforza non c’è, come non c’era ovviamente una Revolutionary Road fra i parcheggi delle balere e le rolling hills del suburbio newyorkese all’epoca delle Levittown. Cortesforza, lo scrittore se l’è inventata, non tanto per evitare le querele di qualche sindaco, villettaro, lottizzatore, ma molto probabilmente per licenza poetica, per poter introdurre qualche variante urbanistico-narrativa, qualche oscillazione nelle destinazioni d’uso dei personaggi e degli ambienti. Che lì “fra Corsico e Vermezzo” manca del tutto. Chi non l’avesse ancora letto lo legga, magari partendo dal piccolo estratto che ho riportato tempo fa su Mall (f.b.)
Giuseppe Chiarante, La fine del Pci , Carocci, pp. 211, Euro 22,50
Ben vengano le celebrazioni dettate dagli anniversari: nel ventennale della (non naturale) morte del Pci si torna infatti a ragionare sul comunismo italiano, argomento cancellato da decenni dal dibattito politico, anche se non, credo, dalla coscienza di tanti compagni. E forse l' interesse si rinnova per via di un altro dato luttuoso: la crisi, che molti giudicano irreversibile, della socialdemocrazia, abbattuta dall'ultimo voto tedesco, ma già prima, in Gran Bretagna, in Francia e persino nei paesi scandinavi, da un'interna implosione dei partiti che ad essa si sono ispirati. Non è certo un bene, ma almeno così si sbarazza il campo da una delle più stupide mistificazioni che accompagnarono lo scioglimento del Pci: che sarebbe bastato trasformarsi in una bella classica socialdemocrazia perché tutto fosse risolto e per avviarsi a sicure vittorie.
Uno stimolo a rinnovare la memoria - perduta persino da chi a quel simbolo tuttora si associa - su ciò che è stato il più grande partito comunista d'occidente è venuto da Lucio Magri, con il suo Il sarto di Ulm (recensito da Rossana Rossanda il 7 ottobre): una complessa e assai documentata ricostruzione storica che muove dalla rivoluzione d'ottobre e abbraccia il contesto sociopolitico in cui la vicenda si sviluppa. E ora un nuovo libro viene da Giuseppe Chiarante, che affronta solo l'ultimo scorcio di vita del Pci e ha invece un'impronta molto autobiografica. (La fine del Pci, Carocci 2009). E però si tratta di una biografia molto particolare e preziosa per capire gli ultimi anni di Botteghe Oscure, giacché l'autore ne è stato protagonista in qualità di membro della segreteria del partito.
In un'opera densa di fatti Chiarante spiega come alla Bolognina non si sia affatto arrivati all'improvviso, sull'onda delle emozioni provocate dal crollo del Muro, ma si sia trattato dello sbocco di un intenso dibattito che ha diviso il gruppo dirigente del Pci. Uno scontro che si era avviato in quella che è stata chiamata la fase del «secondo Berlinguer», quando - è il 1980 - il segretario del Pci, resosi conto del fallimento del compromesso storico di cui pure egli era stato il principale ispiratore, compie una vera e propria svolta. L'abbandono dell'ipotesi di governi di solidarietà nazionale, la elaborazione di una «terza via» per la sinistra europea e, in Italia, l'indicazione di puntare su un'alternativa che abbia al suo centro il Pci (non dunque un'alternativa qualsiasi), non è - scrive Chiarante (anche citando passaggi di grande interesse di ormai dimenticati scritti dell'epoca) - una mera indicazione di formula. Se così fosse stato, del resto, avrebbero avuto ragione coloro che nel gruppo dirigente del partito, la così detta «destra» di Napolitano, giudicavano l'ipotesi priva di senso, visto il giudizio pesantissimo che proprio Berlinguer avanzava nei confronti del Psi di Craxi con cui invece ci si sarebbe dovuti alleare. Ma Berlinguer, con la sua indicazione, intendeva prendersela proprio con una politica che si appiattisce sull'esistente, da cui è stata espunta la lotta per cambiare, nella società, i rapporti di forza, l'egemonia dominante. Della politica ristretta a schermaglia fra partiti, a «giochi». Questo è stato il senso del costante richiamo di Berlinguer in quegli anni al «rinnovamento della politica» dopo la bruciante esperienza degli anni '70: riconoscere l'importanza di quanto si muove nella società civile, la mobilitazione dei cervelli e delle coscienze, i movimenti.
Questa fu la «diversità» rivendicata per il partito da Berlinguer: non l'arrogante pretesa di essere i soli depositari della morale e della verità, bensì la denuncia - scrive Chiarante su Rinascita in morte del segretario del partito (articolo riportato in appendice) - «della riduzione della politica a scambio corporativo, a mediazione fra gli interessi in gioco, a mera amministrazione o governabilità». Con la morte improvvisa di Berlinguer nell'84 il gruppo dirigente berlingueriano non solo si spacca, si sfalda, perché prevale l'ossessivo «nuovismo», subalterno al mito craxiano della modernizzazione, avallato da un frettoloso e non selettivo rinnovo generazionale. Che seppure ammantando di parole nuove la propria linea, finisce per sposare fino in fondo l'idea della liquidazione del patrimonio comunista. Non della sua revisione critica, pur necessaria - del suo sotterramento. Fino al ripudio di tutto il passato, così disperdendo il patrimonio peculiarissimo del comunismo italiano.
Di quella storia, sia pure con ritardo rispetto ai tempi che sarebbero stati necessari, Berlinguer aveva detto, nel 1981, che si era «esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d'ottobre», ma aveva aggiunto che né la denuncia degli errori, né la condanna delle degenerazioni, «possono oscurare il ruolo che il grande movimento che ha preso avvio con la rivoluzione d'ottobre ha avuto nella storia di questo secolo». Questa seconda parte della frase è stata come si sa totalmente rimossa, assieme all'intero secolo ventesimo cui si riferisce.
Dalla morte di Berlinguer nell'84 alla Bolognina passano cinque anni. Pochissimo. Ma è in questo periodo che si iscrivono tappe fondamentali come il XVII congresso, a Firenze nel 1986, il XVIII, a Roma, nel 1988. Occasioni in cui si sarebbe potuto ancora evitare la deriva che poi ha portato alla liquidazione del Pci e operare un vero rinnovamento. Su questi passaggi Chiarante, pur molto coraggiosamente autocritico su tantissime cose, forse sorvola più di quanto io farei. Ma quando, nell'ottobre del '89, si arriva alla proposta di cambiare il nome al partito - che non è questione nominale, ma, ovviamente, simbolo di un profondo mutamento di linea e di collocazione - dopo che nella direzione del Pci Magri, Cazzaniga e io ci opponemmo, Chiarante stesso con Santostasi si astenne. E, nel successivo Comitato centrale, ben 79 compagni, fra cui una buona parte del gruppo dirigente berlingueriano (Natta compreso) dettero vita alla seconda mozione, quella che, così come la terza mozione di Cossutta, diceva no a Occhetto.
Chiarante racconta poi i due anni tumultuosi, dal XIX congresso di Bologna al XX di Rimini , alla battaglia condotta e perduta, alle altre occasioni lasciate cadere al seminario di Arco. Sono tutti momenti importanti da rivisitare, e il libro di Chiarante è di grande aiuto per ricordarli al meglio, perché ne è stato protagonista. Peccato che nell'economia del libro non sia entrata la narrazione di come il corpo del Pci visse quella fase drammaticamente lacerante. È un pezzo di storia di cui nessuno - salvo Nanni Moretti, con il suo documentario Il nome della cosa - ha dato conto. Ma questo è un altro libro, anzi un'inchiesta sul passato, che nessuno ha fatto perché abbiamo patito la congiura del silenzio: il Pci è tuttora un oggetto ingombrante.
Qui in eddyburg “ L’offensiva del pensiero unico”, alcune pagine del libro di Chiarante