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Quello di Ugo Mattei è ormai un nome familiare alle lettrici e ai lettori del manifesto. Firma autorevole del giornale, Mattei è intervenuto negli ultimi anni sulle questioni dirimenti del dibattito politico, segnalandosi tra l'altro per la straordinaria generosità con cui ha contribuito a costruire la battaglia referendaria sull'acqua, ed è stato una presenza fissa nelle pagine culturali di questo quotidiano. Giurista (civilista e comparatista per formazione) di grande finezza teorica e di prestigio internazionale, ha svolto soprattutto in quest'ultima veste un ruolo fondamentale nel proporre, dall'interno del diritto, una critica rigorosa degli sviluppi giuridici globali degli ultimi decenni. Soffermandosi su questioni solo apparentemente tecniche - dalla class action alla soft law, dalle trasformazioni dell'arbitrato alla differenza tra standard e regole - Mattei ha tracciato con pazienza e maestria un quadro davvero convincente di quell'interpenetrazione tra processi giuridici e dinamiche globali che costituisce uno dei tratti salienti del capitalismo contemporaneo. Ed è davvero riuscito a «fare uscire il diritto dalla sua torre d'avorio», anche grazie a una scrittura tanto chiara quanto efficace negli esempi portati a sostegno delle tesi più teoriche.

La plasticità della norma



La raccolta in un volume edito dalla manifestolibri degli articoli da lui scritti negli ultimi anni per il manifesto ( La legge del più forte, pp. 143, euro 22) rappresenta dunque un'ottima occasione per prendere visione del «quadro» nel suo insieme. E ripropone con forza i problemi politici di fondo che ne hanno guidato la composizione.

Al centro del lavoro di Mattei, in questo volume così come in quello da lui scritto con Laura Nader ( Il saccheggio, Bruno Mondadori; ne ha parlato su queste pagine Toni Negri il 4 maggio di quest'anno), è la rule of law, variamente tradotta in italiano come «principio di legalità», «Stato di diritto», «regime di legalità». Tradizione veneranda, quella della rule of law, le cui radici sono indicate da molti nientemeno che nella Magna Charta! Ma al tempo stesso «"nozione plastica", in cui ciascuno vede i valori in cui crede». Ecco, qui sta il punto: Mattei mostra come nel corso degli ultimi decenni gli sviluppi normativi e quelli della dottrina giuridica abbiano interpretato selettivamente la «plasticità» della rule of law, riorganizzandone significati e funzioni attorno alla protezione univoca della proprietà privata. E questo vale tanto all'interno dei paesi «occidentali» quanto - e soprattutto - nella proiezione giuridica all'interno dei Paesi «periferici» dell'operato delle grandi agenzie internazionali (dal Wto alla Banca mondiale e all'Unione Europea): quando cioè la rule of law è posta come condizione per l'accesso al credito o a programmi di cooperazione. O quando - per riprendere l'esempio fatto da Mattei nelle ultime pagine del libro - vengono rescissi i contratti stipulati dai precedenti governi afgani per le forniture energetiche in quanto «non si fondavano su basi giuridiche civili». E la Unocal, gigante energetico californiano per cui ha a lungo lavorato Amid Karzai, l'attuale presidente dell'Afghanistan, può finalmente rientrare nel grande affare dell'oleodotto del Mar Caspio.

Si diceva che una delle traduzioni italiane di rule of law è «principio di legalità». Domanda: non sarà che le trasformazioni indicate da Mattei si sono infiltrate anche in quella «legalità» che costituisce l'ossessivo riferimento, una sorta di totem, della sinistra nostrana in tutte le sue variegate e litigiose componenti? Mi pare una domanda che varrebbe almeno la pena di porre - e che tuttavia nessuno pone. Non mancano certo le voci dei giuristi - anche di grandi giuristi - nel dibattito pubblico italiano attorno ai temi della «legalità». E tuttavia a me pare che problemi come quelli discussi da Mattei restino in larga parte estranei a questo dibattito, dominato - per riprendere l'espressione del grande giurista sovietico Evgenij Pasukanis - da un vero e proprio «feticismo giuridico», dall'idea che il diritto non possa che avere funzioni «positive» di tutela e garanzia (in primo luogo degli interessi dei più deboli). È da questo punto di vista che la critica del diritto praticata da Mattei si rivela davvero preziosa.

Il feticismo giuridico

Due precisazioni sono a questo riguardo necessarie. La prima è che la critica del diritto, pur non potendo che essere al contempo critica del «feticismo giuridico», non è certo cieca di fronte alle funzioni «positive» del diritto stesso. Guarda tuttavia a quest'ultimo dal punto di vista dei rapporti sociali che regola - o, ancora più radicalmente e ancora con Pasukanis, intendendo «il diritto come rapporto sociale». E coglie nella sua materialità un insieme complesso di funzioni, tra cui rientrano senz'altro - ecco il vero rimosso del dibattito contemporaneo - l'organizzazione e l'articolazione giuridica di rapporti di dominio. La seconda precisazione necessaria è che la critica del diritto non è necessariamente patrimonio dei rivoluzionari. Basti pensare, in questo senso al celebre saggio di Franz L. Neumann, Mutamenti della funzione della legge nella società borghese (1937), in cui si mostrava - in uno spirito analogo a quello di Mattei - come nella Germania di Weimar il principio dell'uguaglianza di fronte alla legge fosse stato trasformato in un vero e proprio baluardo eretto a difesa della proprietà privata contro ogni estensione «sociale» della democrazia. A introdurre l'edizione italiana della raccolta di scritti di Neumann in cui quel saggio è stato pubblicato ( Lo Stato democratico e lo Stato autoritario, Il Mulino, 1973), e a celebrarne la «"realistica" utopia democratica», fu un maestro del liberalismo nostrano, Nicola Matteucci.

Ciò detto, è giusto riconoscere che la critica del diritto praticata e proposta da Mattei è radicale, non teme anzi di tornare a nominare la rivoluzione come proprio complessivo orizzonte. È un'opzione meramente ideologica, o retorica, quella di Mattei? Non pare. Il fatto è che quell'opzione è imposta al suo ragionamento dal procedere stesso dell'analisi, dal rigore con cui quest'ultima viene concentrandosi sulle trasformazioni dell'istituto in cui viene riconosciuta la filigrana della rule of law: ovvero della proprietà privata. La sintesi di Mattei è senz'appello: nella proprietà privata si deve identificare «l'istituto giuridico maggiormente responsabile del privativo, della disuguaglianza e della dominazione tipici del modello di sviluppo dominante». Sotto il profilo analitico, tuttavia, il giudizio è ben altrimenti articolato. Cerco di darne conto in poche righe: nata con un preciso riferimento «soggettivo» - l'individuo - e «oggettivo» - i beni «materiali», in primo luogo la terra - la proprietà privata moderna si trasforma radicalmente via via che la grande corporation si sostituisce all'individuo come soggetto proprietario e i beni appropriabili vengono «smaterializzandosi» (cosicché «immagini, informazione, strumenti finanziari complessi, idee innovative» si sostituiscono alla terra come paradigma su cui il diritto proprietario si ridefinisce). Non sono, né l'uno né l'altro, sviluppi recentissimi. Ma è indubbio che nel contesto della globalizzazione capitalistica si sia varcata anche da questo punto di vista una soglia qualitativamente decisiva: e oltre quella soglia, aggiunge Mattei, la proprietà privata torna paradossalmente a presentarsi, come alle origini della modernità, strutturalmente avvinta alle dinamiche dell'appropriazione - ovvero dello spossessamento di enormi moltitudini di donne e uomini attraverso l'uso di vecchie e nuove «recinzioni» (tanto «materiali» quanto «immateriali»).

Ma c'è di più. Seguendo analiticamente questo «processo apparentemente inarrestabile di espansione dell'appropriabilità privata», Mattei mostra come la proprietà privata sia giunta a rompere l'equilibrio con il pubblico, con quello Stato che storicamente ne ha garantito l'organizzazione e la vigenza mantenendo tuttavia una propria autonomia: il pubblico appare ora interamente «colonizzato» dalle logiche della proprietà privata, ne subisce la temporalità breve (il «fare cassa» che si presenta come la traduzione istituzionale del tempo breve dei bilanci trimestrali delle grandi società per azioni) e riorganizza i propri «servizi» in base a principi economici di mera efficienza e profittabilità (uno degli esempi paradigmatici su cui Mattei si sofferma è l'università).

Oltre la miseria del presente



Rotto l'equilibrio tra pubblico e privato, quali alternative si aprono per una prassi politica che sappia ricominciare a tessere la trama di una critica efficace dell'esistente? Non mancano nel volume di Mattei riferimenti alla possibilità di «invertire la rotta» (per riprendere il titolo di un importante volume da lui curato nel 2007 per i tipi del Mulino insieme a Edoardo Reviglio e Stefano Rodotà), di ripensare la proprietà pubblica in modo tale da restaurare l'equilibrio perduto tra privato e pubblico, nella prospettiva di un rinnovato «controllo democratico dell'economia». Molti sono in questo senso i rimandi a esperienze del passato (in Italia e altrove) che si potrebbero riprendere e adattare alle mutate circostanze. A me pare, tuttavia, che la logica stessa del ragionamento di Mattei lo conduca verso quella «rivoluzione copernicana» a cui fa pure più di un cenno, a investire cioè sulla spinta di nuovi movimenti sociali e politici che conducano «a rendere possibile ciò che oggi appare impossibile»: ovvero la produzione e la conquista di un comune sottratto alla specularità di pubblico e privato, inteso come base materiale di un'esistenza associata finalmente libera dallo sfruttamento. Si apre qui uno straordinario terreno di ricerca teorica e di sperimentazione pratica, in cui il lavoro del giurista può essere fondamentale. Non solo sotto il profilo critico, ma anche nei termini «positivi» dell'invenzione di un nuovo «diritto del comune»: e nel «mondo post-occidentale» in cui stiamo cominciando a vivere, potrà essere preziosa la ricostruzione - a cui Mattei dà alcuni contributi in La legge del più forte - degli «archivi giuridici» non occidentali. A questi ultimi si dovrà guardare non tanto per rinvenirvi «modelli» pre-confezionati, quanto esperienze e suggestioni da lasciare «risuonare» nel nostro presente globale.

È una posizione «rivoluzionaria», quella a cui si è fatto or ora riferimento? Certamente sì. Mi si permetta tuttavia di avanzare il dubbio che, finché non si comincerà a lavorare seriamente alla definizione di un orizzonte radicalmente alternativo alle miserie del presente (e dunque di un orizzonte rivoluzionario), anche le prospettive del «riformismo» rimarranno povera cosa. Non era Lenin del resto, era il vecchio e saggio Max Weber a ricordare che «il possibile non verrebbe mai raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l'impossibile». Chissà, forse anche Enrico Letta e il suo «pensatoio» potranno trovare utile la lettura del libro di Mattei. Anzi no, loro sicuramente no.

È da accogliere con estremo interesse la pubblicazione di Costituenti ombra. Altri luoghi e altre figure della cultura politica italiana (1943-48), curato da Andrea Buratti e Marco Fioravanti, per Carocci (pp. 505, euro 45), sotto la spinta di una ricerca promossa dalla Fondazione Adriano Olivetti (www.fondazioneadrianolivetti.it), nel cinquantenario della prematura scomparsa di quel grande intellettuale, imprenditore e operatore sociale che aveva scelto Ivrea come territorio di sperimentazione della sua scommessa imprenditoriale ed esistenziale, mentre la ricostruzione italica prendeva altre vie.

Lo studio ha coinvolto una pluralistica comunità (per utilizzare termini cari allo stesso Olivetti) di giovani ricercatori, solo in minoranza incardinati nell'Accademia e per lo più contrattisti, precari e flessibili, negli atenei del nostro strano Paese, che proprio questa generazione di lavoratori della conoscenza ha condannato a una oscura e illimitata insicurezza scientifica ed esistenziale. La maggior parte degli studiosi provengono dal diritto pubblico e costituzionale, ma in tutti gli interventi è presente una particolare predisposizione per la dimensione storico-sociale, che restituisce una sensibilità culturale per nulla scontata negli studi più tradizionali di quei settori scientifico-disciplinari.

Gli esclusi, i dimenticati, i rifiutati

C'è da dire che nel suo complesso il lavoro è immane: quasi quaranta saggi che scandagliano la storia intellettuale minoritaria della nostra «fase transitoria», tra il 1943 e l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Perciò Costituenti ombra è a volte da intendersi come personalità che sono state oscurate dalle maggioranze costituenti (la prima parte dello studio; e allora quasi verrebbe da chiamarli i Costituenti rifiutati ed uno su tutti, probabilmente: Silvio Trentin, lo stesso Adriano Olivetti, escluso dai lavori della Costituente, quindi Riccardo Bauer e Ursula Hirschmann, tra gli altri), altre volte come i poteri che si muovevano nell'oscurità dei meccanismi di governo transitori (quarta parte del lavoro: gli Alleati, i diversi «liberismi» all'opera, le magistrature,), altre ancora come intellettuali e operatori antagonisti alla Costituzione repubblicana (quinta parte: Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando, ma anche e soprattutto L'Uomo qualunque di Guglielmo Giannini e i monarchici, come Roberto Lucifero). Quindi la seconda e la terza parte della ricerca sono dedicate a «città, editori, riviste, università», come la Normale di Pisa, la Torino dell'Einaudi e la Bari di Laterza; e allo «sguardo dei giuristi»: da Arturo Carlo Jemolo a Salvatore Satta, passando per Vezio Crisafulli e Massimo Severo Giannini.

Come ha osservato Marco Filoni nella sua recensione su La Repubblica (6 agosto) questo lavoro testimonia della ricca produzione sociale intorno agli anni costituenti repubblicani: «di una società civile che partecipava alla vita del paese e al suo futuro». Perciò è una ricerca doppiamente importante: da una parte come scandaglio tra le pieghe intellettuali e sociali di un Paese in transizione e occasione per rilanciare, ripensare e aggiornare una nuova cultura costituzionale, dinanzi a un «patto costituente» in crisi da oltre un trentennio, tanto quanto la società si è affrancata dai valori, princìpi e ideali della Costituzione repubblicana. Dall'altra perché lascia sperare che ci sia una generazione di mezzo disposta a solcare in modo inedito i sentieri della ricerca e a mettere all'ordine del giorno la possibilità di coniugare lavoro culturale con nuovo impegno intellettuale, anche contro i paradigmi scientifici imposti dalla tradizione accademica; soprattutto nel delicato rapporto tra discipline giuspubblicistiche, trasformazioni sociali e cristallizzazione dei blocchi di potere, accademici e istituzionali.

Proprio in questo senso torna utile un'altra, lodevole, recente pubblicazione: Massimo Severo Giannini (Laterza, pp. 248, euro 24), in cui Sabino Cassese - attuale giudice costituzionale, allievo e poi successore del Maestro Giannini - ha curato la raccolta di scritti che vanno dagli anni '30 agli anni '90 di «uno dei maggiori giuristi del XX secolo». Infatti tra le pagine di molti dei saggi compresi in Costituenti ombra si intravede la consapevolezza di superare la critica che Massimo Severo Giannini muoveva alla dottrina giuspubblicista tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, esplicitata nell'ultimo saggio contenuto nel volume Laterza (con il provocatorio titolo scelto dal curatore: Il torpore della scienza giuridica negli anni Settanta): «senza voler offendere alcuno, occorre dire apertamente che una buona parte della letteratura nuova che sta venendo fuori è una letteratura di "raccontini", di gente che racconta cioè come è fatta una legge, che cosa c'è dentro una legge» (e verrebbe da aggiungere che nei decenni successivi questi «raccontini» si sono estesi alla giurisprudenza di ogni ordine e grado: da quella costituzionale a quella comunitaria). Era il monito di un Maestro del Novecento giuridico che esortava i «giuspubblicisti smarriti», dinanzi ai radicali sommovimenti sociali e alle parziali riforme istituzionali degli anni Sessanta e Settanta, a «interpretare il mondo reale»: quel mondo reale che Giannini già vedeva radicalmente trasformato dall'innovazione tecnologica e dalla globalizzazione. E possiamo dire che l'intera esperienza giuridica ed esistenziale di Massimo Severo Giannini sia stata dedicata alla ricerca di un legame virtuoso tra società e istituzioni, in cui la dimensione dello studioso incrociava quella dell'impegno civico, auspicando un protagonismo riformatore che uscì sempre sconfitto dal conservatorismo delle classi dirigenti. Fu così che dopo essere stato capo di gabinetto di Pietro Nenni al Ministero per la Costituente non venne candidato alle elezioni costituenti del 2 giugno 1946 (come racconta Marco Pastorelli nel saggio dedicato a Giannini in Costituenti ombra). Quindi nella breve e ostacolata esperienza ministeriale di fine anni Settanta fu tra i primi a prendere sul serio gli effetti dell'informatica giuridica nell'azione amministrativa, dinanzi all'indifferenza respingente della classe politica; e tutto questo mentre in Francia veniva redatto il celebre rapporto Minc-Nora, da cui partirà Lyotard per la sua analisi del postmoderno e Mitterand per la sua opera di innovazione nella società francese.



Tra autonomia e autogoverno

A dispetto di queste «sconfitte politiche» (cui si aggiunge la candidatura antipartitocratica di inizi anni '90) l'insegnamento di Giannini dispiega ancora effetti che possono essere rintracciati, forse in parte anche inavvertitamente, nel volume sui Costituenti ombra, soprattutto riguardo all'utilizzo di un metodo antiformalistico e ad una particolare attenzione per la storia, elementi che hanno sempre contraddistinto il rigore scientifico e la passione sociale del grande amministrativista. Quella attenzione al reale, che lo fece incontrare con lo stesso Adriano Olivetti nei mesi precedenti l'Assemblea costituente (ne scrive Buratti nel suo saggio in Costituenti ombra), ragionando sugli spazi dell'autonomia, tra comunità e autogoverno, nella necessaria riforma delle strutture amministrative, che tanto i costituenti, quanto i partiti politici nei decenni successivi si guardarono bene dal realizzare.

Il fortunato incrocio di queste due pubblicazioni nel mercato editoriale potrebbe allora essere un piccolo kairos in grado di auspicare un sommovimento. Da una parte, infatti, verrebbe da consigliare alla Fondazione Olivetti di proseguire questo cammino di ricerca indagando le lotte per i diritti, i fallimenti istituzionali e la risposta della riflessione giuspubblicista in quegli anni Settanta del Novecento in cui maturano i germi della lunga e infinita transizione italiana ad una «nuova» Repubblica. Dall'altra viene da esortare questi (giovani) ricercatori ad andare fino in fondo nel loro investimento in favore di quelli che, con Thomas Bernhard, potremmo chiamare gli Antichi maestri. Giannini e Olivetti sarebbero orgogliosi di vederli uscire dalle torri d'avorio accademiche per incontrare i soggetti reali e le forme delle trasformazioni sociali, giuridiche, culturali avvenute. E forse al di là e sicuramente contro le inutili riforme sull'università sarà possibile non rimanere omologhi e autoreferenziali a quelle istituzioni, ma piuttosto disponibili a praticare «altre» forme e dimensioni di elaborazione e condivisione della conoscenza.

Il lungo articolo di Enrico Pugliese dal titolo Napoli trasformista (il manifesto dell'11 luglio) prende le mosse dal recente libro di Vezio De Lucia Le mie città, di cui ci dà una sommaria ma ben calibrata recensione e che usa poi come filo conduttore per proseguire in una puntuale rassegna delle vicende vissute dalla più importante città del meridione italiano negli ultimi decenni, sotto il profilo urbanistico, politico-amministrativo e sociale. Sono amico ed estimatore di De Lucia da almeno trent'anni, trovo pertinente la descrizione delle varie "stagioni" vissute dall'amministrazione napoletana, mi associo a Pugliese nel giudizio positivo sul libro. Ma proprio per questo mi sembra necessaria qualche puntualizzazione.

Nel gennaio 1982, quando a Napoli "la ricostruzione" era nel suo pieno sviluppo, le cronache non parlavano d'altro. La struttura preposta alla gestione del Piano era il cosiddetto Commissariato straordinario di governo diretto da De Lucia; i funzionari erano i ben noti "Ragazzi del Piano", la figura politica di riferimento era il sindaco Maurizio Valenzi, sorretto da un'ampia maggioranza di sinistra. In quell'occasione fui invitato ad assumere l'incarico di architetto coordinatore di uno dei maggiori concessionari, il Consorzio Barra - San Giovanni - Pazzigno.

Il nitore morale che aleggiava nelle stanze del commissariato, l'interesse disciplinare per l'operazione urbanistica impostata con criteri innovativi, la presenza carismatica di Vezio mi conquistarono e accettai l'incarico, che durò per oltre dodici anni. I primi anni restano indimenticabili, dominati dalla figura di De Lucia, che avviò l'enorme programma urbanistico e costruttivo muovendosi con abilità in una scena turbolenta in cui tutti i numerosi operatori marciavano all'unisono solo grazie al clima di straordinaria partecipazione da lui creato. Proprio per questo trovo singolare e ingiusto che, a differenza dei politici, dei consulenti, dei funzionari, degli urbanisti, dei giornalisti che hanno partecipato alla creazione e all'avviamento del Piano, tutti citati e riveriti, Vezio ignori totalmente il gruppo dei progettisti. Faccio questo appunto non per quel che mi riguarda, dato che l'unica citazione che si concede sulle «centinaia di progettisti mobilitati» si riferisce alla «passione e alla qualità professionale e umana di Pietro Barucci».

Appena il Pci perse la maggioranza al Comune, cadde il sindaco Valenzi e Vezio De Lucia si dimise dalla direzione del Commissariato. Era l'ottobre 1983. Comprendo bene la legittimità di quella decisione, ma sono molto meravigliato del modo in cui Vezio ne tratta la descrizione. Poche pagine, un latente senso di colpa, una prosa elusiva, sfuggente, l'ammissione del sostanziale insuccesso del Piano. Una presa di distanza così vistosa e totale, trascurando l'importanza di quel tentativo che resta comunque grandioso sul piano culturale, politico e amministrativo, non solo appare fuori luogo dal punto di vista storico, ma suona come un vuoto improvviso, una pausa accidentale nella catena di esperienze e dei molti successi raccontata da Le mie città. A mio parere la Napoli della giunta Valenzi, per il complesso di opere impostate, avviate e parzialmente realizzate durante la gestione coordinata da Vezio De Lucia, è stata e resta a pieno titolo una delle sue città, a prescindere dai profondi stravolgimenti degli anni successivi e malgrado il suo svogliato resoconto attuale.

Vezio De Lucia risponde

Ma non è vero, caro Pietro, che prendo le distanze dalla ricostruzione di Napoli, né sono afflitto – e poi perché? – da sensi di colpa, né mi pare di aver fatto ricorso a una prosa elusiva e sfuggente. Nel mio libro scrivo che la ricostruzione ai tempi di Valenzi fu un’esperienza che ha avuto almeno il merito di aver dato una dozzina di parchi e giardini e qualche buon esempio di recupero alla città che nei primi trent’anni del dopoguerra aveva conosciuto solo asfalto e cemento. Forse è poco, hai ragione, e spero che il tuo intervento contribuisca ad avviare una riflessione più approfondita su quella vicenda.

E poi, Napoli non è una delle mie città, è la mia città. “Sta scritta nel palmo delle mie mani”.

Vezio De Lucia è un urbanista, l’urbanista pubblico per eccellenza. Nel corso della sua lunga carriera ha praticato questo mestiere da molte diverse postazioni: è stato funzionario, poi direttore generale dell’urbanistica (un santuario, all’epoca, dell’urbanistica in Italia) all’ex ministero dei lavori pubblici; ha diretto l’ufficio tecnico del pro-gramma di ricostruzione a Napoli, durante la gestione Valenzi; ha di-retto l’ufficio per il piano comprensoriale di Venezia; è stato editoriali-sta de il Messaggero, de l’Unità, de il Manifesto; è stato segretario nazionale dell’Inu (istituto nazionale di urbanistica) e consigliere di I-talia Nostra; è stato capogruppo del PCI alla regione Lazio; è stato assessore all’urbanistica della prima giunta Bassolino. Ha sempre condotto questa attività con grande passione, come lui stesso dichia-ra in chiusura del suo ultimo libro (Le mie città, mezzo secolo di ur-banistica il Italia, Diabasis 2010, pagg 210, 18 €) e con inesauribile curiosità, che è stata forse la molla per sperimentare tante strade di-verse.

L’urbanistica ha avuto –nel bene e nel male- un ruolo determinante nel processo di formazione dell’Italia contemporanea. De Lucia ne è protagonista da quasi 50 anni. Se a questo si somma una raffinata abilità da narratore, ecco che questo libro rappresenta una singolare e avvincente storia dell’Italia del dopoguerra.

De Lucia è napoletano, ha studiato a Napoli e qui è tornato, come si è detto, con importanti incarichi, agli inizi degli anni ’80 e a metà dei ’90. Il libro dedica molto spazio a queste vicende – dalle perizie tecni-che ai fabbricati danneggiati dal terremoto alla rottura con Bassolino - a testimonianza del legame intenso e appassionato che l’autore con-serva con la nostra città. Ma è proprio a Napoli che è nata e si è diffu-sa una incredibile opinione sull’efficacia del suo lavoro: egli sarebbe radicale a tal punto da essere astratto e inconcludente. Avere vissuto e condiviso con De Lucia quella storia mi consente di affermare che non potrebbe esservi tesi più infondata, essendo invece egli, per for-mazione e carattere, incapace di intendere il rigore dell’impostazione disgiunto dalla concretezza dei risultati. D’altra parte chiunque può accertarlo ripercorrendo le vicende che il libro racconta.

Qui se ne ricordano alcune. Per esempio l’impostazione del piano di ricostruzione, al fianco di Valenzi, sintesi esemplare di rigore urbani-stico e efficienza operativa: in 10 giorni furono affidati lavori per 1.500 miliardi di vecchie lire, in 10 anni sono stati realizzati 13 mila alloggi, di cui circa la metà di recupero, e oltre 200 attrezzature pub-bliche. E ancora, l’organizzazione dei lavori di riqualificazione urbana per lo svolgimento dell’incontro del G7, nel 2004, che De Lucia con-dusse su incarico di Bassolino: con pochi soldi e in tempi ristretti la città fu resa smagliante, sorprendendo il mondo intero. L’impressione è che – in tempi di appannamento delle coscienze - l’accusa di astrat-tezza nasconda in realtà un profondo fastidio nei confronti del rigore morale e del primato dell’interesse generale che De Lucia considera invece principi irrinunciabili.

Giorni fa un gruppo di imprenditori ha presentato alla città NaplEst, un complesso di circa 20 iniziative di ri-qualificazione urbanistica nella zona orientale di Napoli, in attuazione del piano regolatore di Napoli, che mobilitano investimenti privati per circa 2,5 miliardi di euri. Questo prova che le regole del nuovo stru-mento urbanistico –altro concreto risultato del lavoro di De Lucia a Napoli - sono, al tempo stesso, apprezzate da gran parte degli am-bientalisti e ritenute dagli imprenditori capaci di mobilitare investi-menti per conseguire legittimi guadagni. E’ una condizione inedita nel dopoguerra, che ci auguriamo consenta a Napoli di procedere con metodi moderni verso obiettivi rigorosi.

«Non si può fare degnamente l’urbanista, e nessun altro lavoro intellettuale, senza passione. Senza passione sono i pedanti». Finisce con questa frase, sigla di una vita, il libro insolito di Vezio De Lucia, Le mie città, prefazione di Alberto Asor Rosa, (Diabasis, pp. 210, € 18). Insolito perché non è una seriosa analisi di mezzo secolo di urbanistica in Italia, ma una pudica autobiografia e insieme una memoria, ricca di personaggi, di fatti documentati, di speranze il più delle volte fallite, di momenti felici (gli anni Settanta) in cui, senza pretendere di cambiare il mondo, si sperò di far sì che l’Italia potesse avere, nel campo della pianificazione urbanistica, del paesaggio e della sua tutela, del rispetto del territorio (parola di cui ora si fa un gran blaterare), leggi degne di un Paese civile e culturalmente avanzato.

Ferruccio Parri era solito dire di aver fatto nella vita il proprio dovere, ma senza speranza, per «tigna», espressione piemontese che significa cocciutaggine, testardaggine. De Lucia non ha quella civetteria, di passione e di speranza ne ha avute tante, nonostante i conflitti, le ambiguità della politica, le sconfitte. La sua ultima difesa è stata sempre quella di «evitare il peggio», uno dei pochi obiettivi ai quali — ha scritto — si può ragionevolmente tendere.

Architetto e urbanista di grande valore, ha lavorato per un quarto di secolo nella pubblica amministrazione fino a diventare direttore generale dell’urbanistica del ministero dei Lavori pubblici. Ha diretto l’ufficio tecnico del commissariato per la ricostruzione di Napoli dopo il terremoto del 1980, ma ha avuto anche, negli anni Novanta, incarichi politici: consigliere della Regione Lazio e assessore all’urbanistica del Comune di Napoli ai tempi del primo mandato di Bassolino sindaco. Ha progettato poi i piani territoriali delle province di Pisa, di Lucca, di altri comuni.

Ma è stato soprattutto uno dei protagonisti del dibattito politico-culturale più aggiornato che, più nel passato che nel presente, si è tenuto in Italia sui temi urbanistici. Un suo intervento, a Eboli nel 2003, esprime con chiarezza i convincimenti che ha tentato di attuare nella pratica: «Il condono edilizio premia i disonesti ed è un insulto per le persone perbene. Mortifica gli amministratori più coraggiosi (…) favorisce gli amministratori collusi con gli interessi illegali e insensibili al disordinato sviluppo del territorio. L’abusivismo di necessità è finito da un quarto di secolo. L’abusivismo recente è un’attività criminale gestita da imprese collegate alla malavita organizzata. (…) Il condono farà incassare allo Stato una cifra inferiore a quello che occorre per finanziare il ponte sullo stretto di Messina. Possiamo rinunciare a entrambi e immaginare un’Italia diversa. Senza ponte e senza premi per i disonesti».

Propositi di un’urbanistica moderna, persino elementari nella prospettiva europea, ma difficili da realizzare in una società come la nostra punteggiata da quotidiani crolli di palazzine, dove lo «sfasciume pendulo sul mare», denunziato da Giustino Fortunato un secolo fa, non riguarda solo la Calabria, ma l’intero Paese, dove le grandi opere sono diventate indecenti occasioni di corruzione, imbrogli e affari immobiliari fuorilegge.

Le mie città è anche uno specchio del sottosuolo politico-amministrativo e dei comportamenti di una classe dirigente inadeguata. (De Lucia, nel 1990, fu licenziato sui due piedi dal ministro democristiano Giovanni Prandini perché «il suo modo di pensare non era omogeneo a quello del governo»).

Dal libro escono anche i ritrattini di persone spesso dimenticate, maestri e compagni, che si sono battute per un Paese civile. I ministri Pietro Bucalossi, Giacomo Mancini, Fiorentino Sullo che operarono con moderno spirito di responsabilità, osteggiati dall’establishment più retrivo e più legato agli interessi dei proprietari dei suoli. E poi, più di tutti, Antonio Cederna, che per tutta la vita si batté per un’Italia pulita, contro i palazzinari, la cementificazione delle coste, le periferie disumane. E con lui, Luigi Scano, Edoardo Detti, Antonio Iannello, Edoardo Salzano. E ancora, Leonardo Benevolo, Pierluigi Cervellati, Italo Insolera, Giovanni Astengo, altri.

Vezio De Lucia non è un pessimista caratteriale, un realista, piuttosto, che scrive con pacatezza, alla costante ricerca delle energie positive che in questo Paese esistono, uomini e donne che seguitano a fare con la stessa «tigna» di Ferruccio Parri.

Che destino hanno avuto «i ragazzi del piano», gli allora giovani appassionati architetti che a Napoli lavorarono con De Lucia ai tempi della tragedia dell’Irpinia?

Salvare l’isola dal cemento selvaggio si può. Basterebbero una maggiore consapevolezza sulle bellezze naturali e il buon esempio che arriva dall’alto. A dirlo è Giulia Maria Crespi, presidente del Fai, il Fondo per l’ambiente italiano. Conosce benissimo la Sardegna: «La mia prima volta nell’isola risale a 51 anni fa».

Ieri Giulia Maria Crespi era a Porto Rotondo, all’hotel Sporting, per la presentazione del libro di Sandro Roggio «Paesaggi perduti», un viaggio in cui 14 tra scrittori, sociologi, registi e uomini di cultura isolani raccontano la loro Sardegna violata. «In questi anni - continua la presidente del Fai - ho assistito a numerosi cambiamenti, quasi sempre in peggio. Ho quasi pianto di fronte agli scempi ambientali. Io mi sento sarda malgrado non abbia un goccio di sangue sardo e non sopporto quello che viene fatto a questa terra. La gente non è cattiva, non capisce. Sarebbe sufficiente che avesse una maggiore consapevolezza della natura e delle sue ricchezze. Ma servirebbe anche il buon esempio dall’alto. Io nella mia proprietà non ho fatto né un anfiteatro né un vulcano. Ho preso una vecchia cascina e l’ho lasciata così com’è, non si vede neppure dalla spiaggia. All’inizio, a Palau, la gente era arrabbiata perché non avevo costruito villette o case, mentre ora mi ringrazia». Giulia Maria Crespi dice di non capire perché l’isola voglia uniformarsi al resto d’Italia: «All’inizio i sardi hanno venduto le loro coste ai continentali, accontentandosi delle briciole, poi anche loro si sono dati al cemento. Di Rimini o di Riviera del Levante ce ne sono diverse, la Sardegna è unica. La gente viene qui per la natura, le primizie, i cibi, i fiori, l’artigianato, l’agricoltura. Soru aveva cominciato a portare avanti un discorso di questo genere, ma ora Cappellacci vuole togliere i vincoli sulle coste, pregiudicando il valore aggiunto del turismo sardo».

Un plauso all’ex presidente della Regione arriva anche da Roggio. «Soru aveva provato a diffondere uno spirito nuovo, un alto livello di consapevolezza - ha detto l’architetto, introdotto da Giacomo Mameli -, mentre ora tutto è tornato come prima. Sul futuro non posso che essere pessimista. Purtroppo la natura non è come l’economia, dove quando si finisce in basso si può semrpe risalire la china. Dalle brutture ambientali non si può tornare indietro».

Un passo avanti sul disegno di legge delle intercettazioni e lo straordinario successo della raccolta di firme per i referendum sull'acqua. Apparentemente, due fatti sconnessi. A guardar meglio, la libertà di indagine e di informazione, come l'acqua pubblica sono battaglie, democratiche e radicali che o hanno scavalcato i partiti o li hanno costretti a guardare fuori di sé.

Accade quando si torna a interpellare il popolo sovrano su contenuti semplici ma cruciali (l'acqua bene comune), e quando l'informazione fa il suo mestiere contro il potere, tutelando l'altro bene comune, la libertà di espressione. Se la politica cambia strada, offre obiettivi, il paese risponde, si muove, c'è.

Nella vicenda della libertà di indagine e di informazione, lo schieramento parlamentare di centrosinistra (sostenuto dalla vigilanza del capo dello stato), è stato fortemente sospinto nel percorso istituzionale da una martellante campagna di stampa, a sua volta causa e effetto di una attenzione dell'opinione pubblica spontaneamente scesa in piazza con manifestazioni nazionali come non si ricordava da tempo (il 3 ottobre in piazza del Popolo, il 5 dicembre a S.Giovanni, per citare le più clamorose). E, alla fine, pur nelle nebbie del conflitto di interessi (eredità bipartisan) o tra le sirene dei governissimi, le notizie sulla ragnatela corruttiva che divora l'economia e le istituzioni italiane sono arrivate a (quasi) tutti. La questione immorale ha rotto il muro omertoso del sistema berlusconiano e il governo è stato costretto a ingoiare il bavaglio che avrebbe dovuto piegare i magistrati e zittire il paese.

Ancora non è chiaro l'approdo definitivo della legge (il Pdl fa buon viso, i finiani esultano, Berlusconi se ne lamenta), tuttavia l'impianto è stato sconnesso da un emendamento (l'udienza-filtro) che consente di tutelare la privacy e insieme di pubblicare le intercettazioni ritenute rilevanti da accusa e difesa. Ma colpi di coda e reazioni da caimano sono sempre nel conto.

Nel caso dei referendum sull'acqua la frattura tra centrosinistra e realtà sociale non poteva essere più profonda: Pd e Idv non solo non hanno sostenuto l'iniziativa referendaria, ma hanno (il caso di Di Pietro) indetto un loro referendum, oppure (il caso di Bersani) costituito un comitato "contro" insieme a esponenti del Pdl. Con una pulsione autolesionista notevole, testimoniata dalla plateale sconfessione del loro stesso mondo, militanti e elettori impegnati nei banchetti di raccolta delle firme per l'acqua pubblica.

Due buone notizie che aprono un varco. C'è un popolo e una sensibilità che si misura su contenuti di etica pubblica come di partecipazione sociale, scavalcando i vertici dei partiti, resuscitando associazioni e movimenti, aggiornando l'agenda.

Se il titolo, Bella e perduta, dell’ultimo saggio dello storico Lucio Villari (Editori Laterza, Euro 18), è accattivante - parla direttamente al cuore e alla ragione - il contenuto, oltre che di palpitante attualità, è di straordinario interesse. Non si tratta di una nuova storia del Risorgimento, ma di un viaggio nella sua «intrastoria», in quelle pieghe riposte e spesso, più che segrete, ignorate, nelle quali la politica come attività pubblica si coniuga col privato, fatto di lettere, pagine di diario, comunicazioni destinate a rimanere riservate.

Il primo merito del saggio è, non di aver sottratto al privato materiali di singolare interesse pubblico, ma di aver contribuito, attraverso la loro interpretazione /contestualizzazione, a collocare l’evento più importante per i destini dei popoli della Penisola, e non solo, nella corretta prospettiva storica.

Del Risorgimento sono state fornite ricostruzioni e interpretazioni niente affatto univoche, che non è il caso di riproporre in un articolo. I materiali assemblati da Villari contribuiscono a chiarirne alcuni aspetti rimasti troppo spesso in ombra. Spicca il ruolo del liberale Cavour,ma ad esso si intrecciano oltre quelli (noti) di Mazzini, di Garibaldi, di Cattaneo, di Gioberti, quelli di altri meno noti o meno fatti oggetto di attenzione, consiglieri privati, rappresentanti di interessi molteplici, personalità complesse, collocati in posti di alta responsabilità e spesso decisivi. Come quel Liborio Romano, Ministro dell’Interno dell’ultimo re Borbone il quale, consegnando Napoli e il napoletano a Garibaldi, evitò un possibile scontro fra le truppe di Vittorio Emanuele e quelle borboniche e però, anche del Dittatore e dei suoi Mille.

Un aspetto particolarmente interessante riguarda i rapporti per così dire, interni, fra i promotori dell’unificazione a cominciare dal «forcaiolo» Vittorio Emanuele I, e dal contraddittorio e ondivago Carlo Alberto, «aperturista» più che liberale, fino al più franco e determinato Vittorio Emanuele, protagonista dell’ultima guerra d’Indipendenza conclusasi nel 1859, poco più di un anno prima del fatidico 1861, che lo vide ascendere al trono non come V.E. I, re d’Italia,ma come II re di quel Regno Sardo destinato da quel momento a essere ridotto a oggetto di «storia locale».

Se vista dal lato giusto, cioè da quello dei patrioti unitaristi o federalisti che fossero, la conclusione del processo avviato con la concessione dello Statuto del 1848, è stato più che un’epopea, una esaltante, oltre che sanguinosa avventura; dal lato opposto, quello piemontese e sabaudo, fu per un verso un’astuta e ben condotta operazione diplomatica, per un altro, una campagna militare e di conquista, all’ombra dei «plebisciti».

A raccontare la prima, furono alcuni dei partecipanti. Oltre il Generale Garibaldi con le sue memorie, e quelle dei suoi più vicini collaboratori, due si distinsero per freschezza, ricchezza, entusiasmo: G. C. Abba, col suo Da Quarto al Volturno, e Ippolito Nievo, con le sue Confessioni di un italiano, poi « di un ottuagenario».

Opere entrambe di grande importanza, ancorché di diverso valore letterario. Più cronachistico il primo, indispensabile per la ricostruzione della spedizione dei Mille, romanzo autentico, il secondo, a metà strada fra il romanzo storico e la narrazione ricca di suggestioni liriche ed elegiache. Ma quella «meravigliosa avventura», che ebbe come protagonista una gioventù entusiasta ed «eroica», non è che una faccia della medaglia risorgimentale. L’altra è quella meno nota e ostentata dei politici, e dei militari, dei diplomatici e, per ciò stesso, non più giovani e, in molti casi, disincantati e qualche volta cinici. Villari enfatizza giustamente il «caso unico nella storia dell’Europa liberale», di un’unità nazionale «realizzata in Parlamento». E aggiunge: «In assoluto, l’idea di giustizia è stata la forza morale sommessa e il tormento intellettuale del Risorgimento...La componente religiosa del liberalismo...Fino a quando la borghesia liberale difese questa idea dai condizionamenti classisti dovuti agli interessi economici che rappresentava».

Ciò avvenne a unificazione compiuta quando quegli «interessi classisti» prevalsero. Si trattò di un tradimento, che purtroppo coinvolse anche le elites più illuminate. Se ciò accadde è perché non c’era nel paese nessuna forza in grado di impedirlo. La causa fu la mancata «nazionalizzazione» delle masse contadine della Penisola nella sua interezza. Al posto della quale si aprì quell’epopea del «posto fisso», che vide arruolarsi nella burocrazia centralista e anche nelle Forze armate, gli elementi «letterati» della piccola e media borghesia, in prevalenza del Mezzogiorno e delle Isole, alla ricerca di qualcosa che li risarcisse, anche a costo della perdita di identità, della frustrazione e del crescente disagio economico derivante dalla concentrazione al Centro e al Nord della spesa pubblica e della conseguente offerta di lavoro.

La burocrazia, sempre più inflazionata di meridionali, fu il luogo nel quale si consumò il tacito patto del conformismo e del trasformismo gattopardesco, gestito dai «poteri forti» che, se da un lato assicurava allo Stato una massa di dipendenti ossequiente ma anche dispensatrice di favori, dall’altra assegnava una quota del reddito nazionale a quei figli dei ceti medi della Bassa Italia, altrimenti privi di mezzi di sussistenza conseguenza di un’iniqua politica fiscale e dei dazi, aggravata dalla crisi dell’agricoltura dovuta alla fillossera che colpì la produzione vitivinicola.

Nel frattempo maturava la consapevolezza dell’esistenza di una «quistione meridionale», come «questione nazionale», che rendesse giustizia alle popolazioni del Mezzogiorno e delle Isole. Era un modo per presentare il conto agli autori di una «unificazione ineguale». Lo Stato unitario si guardò bene dal pagarlo. Al contrario, presentò il suo: Massaua, Somalia, Libia e, infine, la Grande Guerra. Superfluo aggiungere che a pagare quel conto furono soprattutto le masse contadine meridionali e delle Isole, finalmente «nazionalizzate», arruolate nelle Brigate regionali delle quali la Brigata Sassari fu il tragico emblema. Per saperne di più leggere Gramsci e l’Emilio Lussu di Un anno sull’Altipiano.

L’Italia era fatta. Restavano «da fare» gli italiani. Pur attraverso tante prove sanguinose e una dittatura che condusse il Paese oltre l’orlo dell’abisso, l’unità ha resistito. Ma oggi lo Stato repubblicano rischia lo sgretolamento sotto la pressione di egoismi, scandali, insufficienza della classe dirigente, delle mafie, ‘ndranghete e camorre che controllano spazi crescenti non più solo del Sud. La ‘ndrangheta è entrata in Parlamento.

Cos’è rimasto di «quell’idea di giustizia» che era stata «la forza morale sommessa e il tormento intellettuale » del Risorgimento...«della «componente religiosa del liberalismo»? Non è forse venuto il momento di una riscossa proprio del Mezzogiorno, che si proponga di superare quella «unificazione ineguale », attraverso la costruzione di una Repubblica federale egualitaria e solidale, quale quella auspicata da Carlo Rosselli, prima del suo assassinio per ordine di Mussolini, nell’ottobre del 1937? Sono queste alcune riflessioni suscitate dalla lettura del saggio di Villari, che si riconferma non solo come uno degli storici più acuti e sagaci di questi tormentati decenni, ma anche come uno scrittore appassionato e di non comune spessore letterario. A cominciare dalla scelta del titolo, Bella e perduta, che più che esprimere nostalgia di un passato luminoso, sembra adombrare l’accorato timore di un oscuro futuro.

Lo spazio del capitale, a cura di Giovanna Vertova, Editori Riuniti, Roma, pag 295, euro 15



Dopo l'orgia di «geografia post-moderna» che ha segnato gli ultimi anni, il libro di Giovanna Vertova riprende con un impianto teorico marxiano una riflessione sullo spazio del capitale oggi. Per rintracciare un testo complessivo di uguale impianto bisogna risalire al 1974, a Marxismo e geografia di Massimo Quaini. Da allora si sono prodotte analisi di dettaglio, ma il nesso profondo tra capitale e territorio si è sempre più vanificato. Nell'introduzione l'autrice segue un doppio percorso, attraverso la letteratura e attraverso la fenomenologia del cambiamento del rapporto tra spazio e capitale generato dalle trasformazioni di quest'ultimo (nuove tecnologie, globalizzazione e via dicendo). L'autrice costruisce una relazione dialettica tra lo spazio e il processo di produzione, che non dipende tanto dal fatto che la produzione si deve «concretizzare» in uno spazio, ma si fonda sulla necessità di creare un ambiente adatto all'accumulazione capitalistica, dove «le diversità spaziali giocano un ruolo importante quanto quelle sociali». Un'affermazione questa che potrebbe indurre qualche perplessità ove non si tenesse conto, come fa l'autrice, che lo spazio non è un dato di natura ma un prodotto dell'attività del capitale.

Le crisi, a cominciare da quella degli anni '80, servono non tanto a disegnare una nuova geografia del capitale, ma piuttosto ad accelerare il processo di trasformazione della geografia del capitale: per le ragioni sostenute dall'autrice, siamo di fronte a un processo di continua ridefinizione dello spazio operativo del capitale alla ricerca di occasioni che ne accrescano i vantaggi. In questo schema la frattura tra economia di carta e economia reale, come oggi si dice, complica la questione dello spazio del capitale, così che ne deriva una situazione di indeterminatezza a tutto scapito di chi il processo capitalistico subisce. A questo proposito il saggio di W. Hope Temporalità e conflitto contenuto nel volume fornisce alcune riflessioni di grande interesse.

Nel saggio che Vertova scrive con Riccardo Bellofiore (Alla ricerca dello spazio perduto), è messo in luce il nesso contraddittorio e integrato del processo di omogeneizzazione dei luoghi con quello della loro differenziazione. Due fenomeni che dinamicamente si combinano e si scombinano, proprio in virtù del fatto che lo spazio non è un assoluto, ma l'esito di un processo di costruzione, non «altro» rispetto alla società. Un processo tecnico, produttivo, sociale e culturale e in ultima istanza anche ideologico come insegna la Lega. Di notevole interesse la riflessione sullo spostamento del risparmio delle famiglie (direttamente o attraverso i fondi pensioni) dalla «sicurezza» alla speculazione finanziaria. Il tema avrebbe meritato una riflessione più ampia (Bellofiore lo ha affrontato in altra occasione con Halevi) proprio in ragione degli effetti territoriali. La crisi finanziaria ridisegna, ancora poco nel nostro paese, ma in modo consistente in Usa per esempio, la geografia delle famiglie, che convinte di essersi guadagnate livelli consistenti di libertà (localizzativa) si ritrovano nuovamente «obbligate».

Oltre ai saggi citati, il volume contiene altri tre testi, uno di D. Harvey (molto amato dalla curatrice, a mio modo di vedere senza un approccio critico) sulla Geopolitica del capitalismo, uno su Capitale e localizzazione industriale di R. Walker e M. Storper e, infine uno di R. Walter e D. Buck su La via cinese (che mette in evidenza le contraddizioni interpretative dello sviluppo di quel paese). Nel complesso il volume costituisce un apporto di notevole interesse (anche se forse sarebbe stata utile una maggiore attenzione alla produzione del nostro paese) e un contributo alla rinascita degli studi delle relazioni tra trasformazione capitalistica e trasformazione nell'uso e del territorio tale, si spera, da riaprire uno spazio di riflessione (senza la quale c'è solo assuefazione).

Quanto è vecchia una disciplina? Quando per riflettere sul suo statuto e il suo ruolo comincia a privilegiare lo strumento dell'autobiografia?

Giuseppe Campos Venuti, Edoardo Salzano e Vezio De Lucia sono tre tra i più noti urbanisti italiani. Il primo è nato nel 1926, il secondo nel 1930, il terzo nel 1938. Appartengono a una generazione di urbanisti che ha cominciato la propria carriera nel secondo dopoguerra: una generazione cresciuta sulle pagine dell'«Urbanistica» di Astengo, in un paese segnato dalle trasformazioni accelerate degli anni del boom.

Gli autori sono tre ma i libri si prestano a essere letti a coppie: due contro due. Da un lato vi sono Salzano e De Lucia: amici dichiarati, vicini per esperienze e convinzioni. Le loro autobiografie possono a essere lette quasi in sovrapposizione, con continui rimandi reciproci (accadeva già con i loro libri precedenti, per esempio Fondamenti di urbanistica e Se questa è una città). Sostenute da una qualità di scrittura non comune, associano un tono molto personale a un'impostazione del racconto che segue da vicino la successione delle loro esperienze formative e professionali; biografie pubbliche, più che private.

Quella di Campos non è un'autobiografia ma un'intervista, che s'inscrive pienamente dentro la tradizione illustre delle «interviste» laterziane. A condurla è uno tra i più influenti allievi dello stesso Campos, Federico Oliva, con un linguaggio asciutto e divulgativo che lascia spazio a un bilancio retrospettivo ma punta anche a portare in primo piano alcuni temi e proposte di stretta attualità. Ciò che accomuna Campos, Salzano e De Lucia è senz'altro più di ciò che li divide: tutti e tre hanno militato nel Pci, il che rende questi libri interessanti anche per una storia della sinistra italiana scritta dal punto di vista dei rapporti con il territorio e con la cultura amministrativa. Tutti e tre hanno avuto ruoli di rilievo all'interno dell'Inu. Tutti e tre credono da sempre nel valore del «piano» urbanistico, inteso come strumento principe per esercitare un controllo pubblico sulle trasformazioni del territorio. Tutti e tre ritengono che il mancato controllo della speculazione edilizia (e in particolare della rendita fondiaria) sia stato un problema cruciale per le trasformazioni territoriali dell'Italia contemporanea.

Oltre a questi punti comuni, vi sono alcune differenze. Campos (e Oliva) si presenta come il difensore di un'urbanistica «riformista», attenta alle norme ma anche ai valori del mercato e «pragmaticamente operativa», Interessata a strumenti negoziali come quelli della perequazione fondiaria. Salzano e De Lucia difendono un'idea più forte del ruolo del piano e dei poteri pubblici, del valore in primo luogo prescrittivo dei documenti urbanistici, visti spesso in contrapposizione con gli interessi privati.

Tutti e tre hanno avuto, in momenti diversi, incarichi di primo piano in altrettante città italiane di rilievo: Campos come assessore a Bologna tra il 1960 e il 1966 (e come consigliere comunale fino al 1970), Salzano come assessore a Venezia negli anni delle giunte rosse (1965-1975), De Lucia come assessore a Napoli con l'inizio della stagione dei sindaci e la prima giunta Bassolino (1993-1997). Sono esperienze che vengono raccon" tate nei volumi, con le loro luci e talvolta le loro ombre, spesso al" lo scopo di rivendicare il valore del lavoro quotidiano compiuto sul territorio; lavoro attraverso cui l'urbanista può influenzare il modo di progettare e trasforma" re lo spazio, contribuire a salva" guardare equilibri territoriali e sociali, costruire nel tempo una città più «bella».

È interessante anche, nelle tre biografie, il modo in cui viene raccontata l'articolazione e la contaminazione tra diversi livelli di pianificazione. Tutti i protagonisti hanno lavorato su piani e politiche a diverse scale, dal piccolo comune fino ai grandi organi statali di controllo e d'indirizzo, e i volumi contengono spunti utili per una discussione del rapporto reciproco tra queste esperienze. Particolarmente rilevante è l' attenzione riservata a un organismo di grande importanza come la Direzione generale dell'urbanistica, retta negli anni sessanta e settanta da Michele Martuscelli presso il ministero dei Lavori pubblici, dove sia De Lucia sia Salzano svolgono una parte significativa della propria carriera.

Non vi sono rivoluzioni, nelle interpretazioni della storia dell'urbanistica italiana che vengono proposte dai tre libri, ma qualche sfumatura interessante sì. Le riforme legislative, fatte o mancate, continuano a rappresentare altrettanti momenti chiave della scansione cronologica.

Eppure i pochi anni di differenza tra gli autori e i diversi percorsi individuali introducono lievi variazioni nei pesi e nei punti di vista. Campos dedica molto spazio al fallito tentativo di riforma Sullo del 1963, vedendo in quell'esperienza un'occasione storica perduta ma anche giudicando a posteriori alcune scelte, (per esempio quella d'insistere sulla questione del diritto di superficie, come un «grave errore tattico». De Lucia e Salzano tendono a insistere di più sui processi di riforma cui hanno potuto contribuire in prima persona, in particolare quelli di fine anni sessanta e inizio settanta, a cominciare dalla definizione degli standard urbanistici (1968).

Vi è un rischio dietro questi libri: quello di comunicare l'impressione che l'urbanistica, in Italia, sia qualcosa di cui si può parlare soprattutto al passato. Almeno Asor Rosa, nella prefazione a Le mie città, scrive che De Lucia è un «urbanista all'antica», forse senza sospettare quanto l'espressione rischi di suonare tautologica. Campos dedica l'intero ultimo capitolo del suo libro-intervista a una serie di proposte legislative e operative, ma aggiunge in un amaro poscritto che forse queste non sono «in sintonia con l'interesse prevalente dell'opinione pubblica».



Davvero, nell'Italia di questi anni, parlare d'interesse collettivo e di pianificazione del territorio può suonare terribilmente out of date. Eppure proprio questi tre libri, con la loro forza narrativa e la loro singolare lucidità e precisione, mostrano anche fino a che punto l'urbanistica, intesa come impegno sul campo e come insieme di strumenti intellettuali, abbia permesso a una generazione di coltivare uno sguardo complesso e raffinato sui cambiamenti in cui è stata coinvolta. Ed è ancora da dimostrare che l'età migliore, per gli urbanisti di questa generazione, non cominci intorno agli ottant'anni.

Si intitola «Il grande crollo» il volume a più mani, curato da Laura Bazzicalupo e Antonio Tursi e edito da Mimesis, che il Laboratorio Kelsen dedica ad un bilancio multidisciplinare (economia, politica, diritto, ma anche altri saperi e linguaggi che economia, politica e diritto solitamente non frequentano, come la psicoanalisi) della crisi che ha scosso negli ultimi due anni il capitalismo globale inficiandone la «grande narrazione» neoliberista che ne aveva sostenuto le magnifiche sorti progressive. Ormai la crisi, scrivono i curatori, «è ufficialmente dichiarata 'game over', passata, superata»; il peggio, come ministri e politici non cessano di dirci, sarebbe alle nostre spalle. Ma a parte l'ottimismo strumentale dei politici e dei ministri, tutto da verificare, restano comunque sul campo, tutti da analizzare, gli effetti economici e politici, i traumi sociali, i ridislocamenti della soggettività che la crisi ha prodotto. Nonché i suoi occultamenti, i suoi non detti, i suoi fantasmi: il suo lato osceno, fuori-scena, non rappresentato, taciuto e tacitato, perché irriducibile a quella lettura rassicurante che toglie alla crisi il suo carattere di evento dirompente e la riduce a una semplice e superabile incrinatura nel continuità del capitale.

Proprio a svelare questo lato osceno si dedica invece il contributo al volume di Laura Bazzicalupo, che qui segnalo in particolare non perché sia l'unico rilevante - al contrario -, ma perché il taglio che adotta per leggere la crisi, a cavallo fra l'andamento dei fatti, la loro rappresentazione nel discorso mediatico e politico, l'immaginario sociale mobilitato e il «reale spettrale» occultato, opera di per sé anche un taglio nel discorso economico mainstream, aprendo così punti di avvistamento per «un pensiero radicale della crisi stessa» che esulano dal già detto e dal già archiviato.

Ci sono i fatti, dunque, e i dati, troppo frettolosamente macinati dalla macchina dell'informazione: il primo round che colpisce il sistema bancario americano e internazionale, il secondo round che a ruota colpisce la crescita mondiale (dimostrando che economia reale ed economia finanziaria non si possono più separare né fattualmente né concettualmente), il terzo round che scopre la necessità di una qualche regolamentazione del capitalismo globale decretando la fine dell'ubriacatura trentennale neolib. Fatti e dati significano anche corpi e affetti: tre milioni di famiglie americane a rischio di insolvibilità, i manager che traslocano, il crollo della credenza nei fondi d'investimento, nei fondi pensione, nelle carte di credito e in tutta la costellazione di microcomportamenti quotidiani con cui la finanziarizzazione del capitale è entrata nelle nostre case e nelle nostre abitudini. Una catastrofe materiale, psicologica e ideologica, che come tale - entriamo nel livello della rappresentazione - viene nell'immediato percepita dai media in tutto il mondo, ma che il seguito del discorso economico-politico tenterà rapidamente di ricondurre a una fisiologica fluttuazione dell'economia capitalistica, riducendo altresì le responsabilità a mere trasgressioni da disciplinare per ripristinare il «corretto» funzionamento del modello. Un'operazione di normalizzazione, un racconto tranquillizzante che però sconta un resto: «Quali fattori vengono in rilievo e quale nucleo traumatico non viene detto - come osceno, pericoloso, non pertinente - oppure viene detto in modo dimidiato, alleggerito, quasi per neutralizzare l'apparizione spettrale che terrorizza, il fantasma che genera ansia e ossessiona?». E qual è questo spettro che si aggira fra noi dopo la crisi?

E' esattamente lo stesso spettro che l'immaginario del postfordismo trionfante (non senza continuità con quello del fordismo, argomenta l'autrice, a onta delle dichiarate discontinuità) aveva conculcato e forcluso: il rapporto sociale di dominio irrappresentabile nell'ideologia di mercato, il lato d'ansia, dipendenza e incertezza strutturale di un precariato a lungo spacciato per anticamera dell'intraprendenza imprenditoriale, il carattere servile delle relazioni di lavoro cresciute all'ombra della creatività geniale che doveva cambiare il mondo, i marginali esclusi dal 'socialismo dei fondi pensione' che conquistava i salariati al mercato finanziario, la disuguaglianza sociale che aumentava sotto le promesse della crescita illimitata, la violenza di cui quella crescita di avvaleva, l'alienazione e mercificazione delle relazioni umane nascoste sotto l'imperativo del godimento e del consumo. E la solitudine come risvolto innominato del capitalismo cognitivo che produce comunicando, nonché dell'immaginario «quasi-dionisiaco, quasi-ludico,quasi-artistico, emotivo e creativo» del lavoro autonomo - un immaginario potente perché radicato in un bisogno reale di personalizzazione, sburocratizzazione, de-disciplinamento del lavoro. Lo spettro è questo lato oscuro, questo rovescio non detto, della rivoluzione «liberticida e liberogena» postfordista. La rappresentazione mainstream della crisi ha fatto e farà di tutto per non farlo materializzare. E invece è proprio lui, lo spettro, che può spezzare «la danza immobile» degli allarmi economici senza conseguenze: guardandolo in faccia, «forse ci si può muovere davvero».

La storia di un triplice fallimento: delle norme urbanistiche, del regionalismo, della sinistra. Così il professor Salvatore Settis ha definito il nuovo libro di Vezio De Lucia intitolato “Le mie città”. Mezzo secolo di urbanistica in Italia” presentato venerdì sera a Venturina per iniziativa del Comune dei Cittadini. Una platea numerosa e attenta ha animato il dibattito, arricchito all’esperienza pratica di Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano (Mi) e promotore della campagna nazionale “Stop al consumo di suolo”: «molti sindaci - ha detto - non si sentono realizzati se non vedono nuove costruzioni». Invece l’esperienza del suo comune dimostra che si può fare a meno di nuove case, migliorando la gestione del territorio e la riduzione delle spese superflue.

Vezio De Lucia, uno dei più quotati urbanisti italiani, ha ripreso gli argomenti di Settis illustrando il declino dell’urbanistica e la perdita di ruolo delle istituzioni pubbliche, confermando - come scrive anche nel volume - che nel governo del territorio stiamo vivendo “i peggiori anni della nostra vita”. Ha solo citato, in chiave negativa, l’esperienza dei piani strutturali della Val di Cornia ai quali fu chiamato a lavorare nel 2004. «Ne parleremo un’altra volta» - ha detto. Ma nel suo libro la politica urbanistica della Val di Cornia viene descritta come vittima di un’idea di “modernità raccogliticcia” e di una “crescita qualunque”, illusa da un “facile sviluppo nautico e turistico”. Tutta l’Italia è colpita dal degrado della cultura urbanistica, ed anche la Toscana, che dovrebbe avere su questi temi una responsabilità nazionale sembra avere avuto dei cedimenti.

Massimo Zucconi, architetto e capogruppo del Comune dei Cittadini, dando voce alle preoccupazioni di molti agricoltori, ha lanciato un allarme per la dissennata diffusione di grandi impianti energetici nelle campagne.

Il libro di Vezio De Lucia, Le mie città, racconta, come recita il sottotitolo, mezzo secolo di urbanistica in Italia. È davvero una miniera di informazioni e di analisi sui punti nodali e le scelte che riguardato tutto il territorio nazionale e non solo le grandi città (dal «sacco di Agrigento» alle riforme e ai tentativi di riforma del primo centro sinistra, ai colpi di mano contro la tutela del territorio operati sistematicamente da politici corrotti o spregiudicati. È davvero avvincente l'analisi dello scontro continuo tra chi, nella società e nella politica, era (ed è) legato alla rendita e alla speculazione edilizia e chi per converso tenta e propone soluzioni nell'interesse collettivo di breve e lungo periodo.

Il libro, scritto in chiave autobiografica, ha un tono che definirei candido: senza reticenze, senza ammiccamenti, ma anche senza anatemi, dando insomma a ciascuno il suo. C'è la descrizione di personaggi chiave della storia urbanistica italiana, da quelli tragici come Fiorentino Sullo, che nessuno più ricorda («assassinato politicamente dalla Dc» per avere tentato di imporre una legge di governo dei suoli) da quelli complessi come Michele Martuscelli, il mitico direttore dei lavori pubblici (autorevole, e autoritario, garante del rispetto dell'interesse pubblico in materia edilizia) a personaggi squallidi e compromessi nella destra e - purtroppo - anche nelle file della sinistra.

Un libro piacevole da leggersi che affronta la storia di tante città, a partire da Roma e da Napoli, e che meriterebbe ben altra recensione che non questa dedicata sostanzialmente ai capitoli su Napoli. Anzi, per dirla tutta, questa mia non è neanche un recensione. E non per la storia della pipa di Magritte, ma perché dal libro colgo l'occasione per intervenire su alcuni nodi della recente storia urbanistica e politica di Napoli ancora non ben sciolti (e rispetto ai quali il libro fornisce importanti chiarimenti).

Un giudizio esagerato

De Lucia ha operato a Napoli come tecnico e come amministratore in più occasioni e per diversi anni: anni importanti nei quali la città è riuscita ad esprimere una sua forza interna, una capacità di ripresa e anche una certa carica di orgoglio civile, come nel caso della prima giunta Bassolino. E con questo arriviamo al dunque. Qualcuno ricorderà che proprio una quindicina di anni addietro si cominciò a parlare di 'Rinascimento' napoletano. Il termine e il giudizio su quel che stava avvenendo erano senza dubbio esagerati. Così come ora è esagerato ritenere che di quella esperienza non sia rimasto nulla (o che, anzi, non si sia fatto nulla di rilevante). Il periodo 'eroico' dell'amministrazione Bassolino e il suo lento declino vanno lette - come appunto fa De Lucia - dando il giusto peso alle cose, individuando cause, meriti e responsabilità.

Ma dare il giusto peso alle cose significa anche non sostenere l'unicità di quell'esperienza di rinascita cittadina. Ce n'è stata infatti anche in un'altra - forse meno importante ma di certo meno osannata e pertanto in seguito meno vituperata - che è quella della giunta Valenzi tra la seconda metà degli anni settanta e gli inizi degli anni ottanta. E anche in quel caso il ruolo di De Lucia fu determinante a partire dalla fine del 1980 per l'opera di ricostruzione della Campania in seguito al terremoto del 23 novembre.

È interessante riflettere sulle analogie e le differenze tra le due esperienze. La prima fu resa possibile dall'esaurirsi di un misero centro sinistra democristiano ormai incompatibile con la realtà di una città in piena trasformazione economica e sociale con il consolidamento della classe operaia e del sindacato, in un clima di crescita culturale e civile. E fu proprio questo a determinare all'ascesa di Maurizio Valenzi, sindaco comunista. Anche la seconda, e più importante, esperienza è frutto del crollo del sistema democristiano e socialista travolto da tangentopoli ma in un contesto già di crisi delle strutture produttive e di una generale crisi sociale. Non c'è più la forza della classe operaia perché la deindustrializzazione ha colpito duramente la città. Siamo nella Napoli della Dismissione: una Napoli per la quale non si riescono a vedere prospettive.

C'è forse un paradosso nel fatto che nella Napoli industriale e dinamica degli anni '70 la sinistra (il Pci) abbia scelto come suo rappresentante politico un intellettuale, mentre due decenni dopo il responsabile della commissione operaia del Pci «l'oscuro funzionario di partito» (come Antonio Bassolino, alla stregua di Petroselli veniva definito dagli oppositori interni ed esterni al partito) sia riuscito a imporsi come protagonista di quel «Rinascimento» napoletano che fece seguito alle macerie della realtà industriale cittadina, in una concezione dello sviluppo economico e civile tutta post-industriale. Comunque si è trattato delle due amministrazioni migliori che Napoli abbia mai avuto, a parte forse quelle brevi socialiste dell'immediato dopoguerra. E in entrambi i casi si riuscì a porre un freno alla speculazione edilizia e a contrastare il peso della rendita fondiaria.

Il trauma del terremoto

Nella stagione Valenzi, De Lucia entra in scena in concomitanza di un fatto traumatico, il terremoto. Ed è chiamato a Napoli come responsabile del piano di ricostruzione. La città era stata malamente ferita e la necessità di alloggi era impellente. Il Pci si impegna sostenere il programma di ricostruzione senza mezzi termini e invia un esponente di vasta esperienza, Alborghetti, a dare supporto politico. Non si realizzarono le grandi modifiche dell'impianto urbanistico - con il decongestionamento della città - che la costruzione di ventimila nuovi vani avrebbe imposto (e che era nelle speranze dei pianificatori illuminati). Ma si riuscirono a fissare dei parametri di costruzione accettabili. Furono costruiti con criteri antisismici un numero molto elevato di edifici e si riuscì a bloccare la speculazione.

E qui si innesta - come ponte tra la prima e la seconda esperienza - il ruolo del gruppo di giovani di diverse competenze, soprattutto architetti che, impegnati originariamente pel Piano per le periferie della grinta Valenzi, collaborarono con De Lucia in questa nuova impresa: «I ragazzi del piano» (oggetto di un libro con questo titolo edito da Donzelli che De Lucia cita con stima e riconoscenza). Inoltre lo scandalo dello spreco infinito di danaro per la ricostruzione in Campania non interessò Napoli se non per le giunte successive che diedero sfogo alla cementificazione e a inutili e mal fatte grandi opere (giunta Scotti etc.).

Nella seconda esperienza, De Lucia, chiamato da Bassolino a fare l' assessore all'urbanistica (l'assessorato si chiamava «alla vivibilità»), è ancora una volta personaggio chiave. La grande iniziativa di protezione e riqualificazione della città fu quella di un piano basato su alcune «varianti», soluzioni riguardanti specifiche aree della città, con indicazione delle funzioni prevalenti, delle prospettive e ovviamente della destinazione dei suoli. Anche in questo caso la destra - come all'epoca del terremoto - si scatenò fin dall'inizio aiutata anche da qualche interessato mormorio da ambiente cattolico. Si disse di tutto: troppo verde, poco verde, scarsa attenzione alle periferie e quant'altro.

Da questo punto di vista il caso di Bagnoli è emblematico. Nel bene e nel male la sorte dello stabilimento Italsider era già stata segnata. Lo scontro quindi riguardava ormai le prospettive di un'area non più industriale. I venti milioni di metri quadri resisi disponibili facevano gola a molti. I vincoli paesaggistici, di destinazione e di edificabilità imposti dalla variante di De Lucia erano (e sono) troppo difficili da digerire per i costruttori (non solo napoletani) che avevano fiutato l'affare. La posta in gioco era (e continua tutt'ora ad essere) alta: l'uso di un area tra le più belle e rinomate del mondo (il litorale flegreo) con l'alternativa tra interesse pubblico e speculazione privata. Questa non riuscì a mettere «le mani sulla città» - e questo è tutt'ora vero e molto importante - ma le amministrazioni successive alla prima giunta Bassolino che avrebbero dovuto attuare il piano (la «variante di Bagnoli») non sono riuscite affatto a realizzare l'utilizzazione prevista: attività produttive nei nuovi settori, strutture di ricerca etc. Resta solo «la città della scienza» - istituzione meritoria che però a me pare qualcosa a metà tra un museo della tecnologia e un centro convegni.

E questo stesso tipo di parabola vale più o meno per le altre «varianti». Nelle periferie si trattava di risanare le situazioni più difficili con la massima utilizzazione delle strutture esistenti, migliorando le condizioni di vivibilità a cominciare da sistema di trasporti e dalle funzioni del quartiere. A Scampia le Vele - belli e solidi edifici assolutamente inadeguati per le esigenze della popolazione insediata - erano diventate nel corso del tempo assolutamente invivibili. Con un accordo con l'Università e di altre istituzioni si era deciso di insediare in alcune di esse attività di servizio che avrebbero potuto allargare le funzioni del quartiere e articolarne la composizione sociale. Anche qui, dopo l'uscita di scena di De Lucia, ne se ne fece più nulla: i piani di riqualificazione restarono una speranza sempre più flebile. Nella retorica locale - alla maniera di Gomorra - le Vele (anzi Scampia in generale) furono presentate come una sorta del regno del male. Perciò, abbattendole, tutto si sarebbe risolto.

La Vela non si abbatte

Fu così che quando si decise di abbattere una prima Vela e si decise di farlo in pompa magna, avendo invitato stampa e quant'altro, la Vela non ne volle sapere di farsi abbattere. Si dovette faticare a lungo per averne ragione. Na' figura 'e nient, si disse a Napoli (o qualcosa di peggio). Quel giorno De Lucia aveva scritto per il manifesto un articolo dal titolo «Quella di oggi non è la mia festa» per sottolineare il carattere mistificatorio dell'operazione.

Il libro chiarisce finalmente anche in modo esplicito il perché De Lucia andò via da Napoli, perché egli prese le distanze dalla linea di Bassolino, rifiutando di entrare a far parte della seconda giunta dopo la nuova elezione plebiscitaria del sindaco. De Lucia spiega sia l'origine e la natura del suo dissenso, sia la sua riservatezza iniziale. Per quel che riguarda questo secondo aspetto - forse di scarso rilievo ora per i lettori del manifesto, ma non per chi seguiva le vicende di Napoli a quell'epoca - De Lucia scrive: «Si stabilì un tacito accordo: io avrei evitato di rendere pubbliche le ragioni per le quali avevo deciso di abbandonare la posizione, il sindaco si impegnava a non mettere in discussione il programma stabilito dalla sua prima amministrazione, soprattutto riguardo al piano regolatore». Passando invece al dissenso, c'è in primo luogo il ruolo delle cosiddette società miste, società a partecipazioni pubblica che avrebbero dovuto promuovere la vita economica della città.

Così ad esempio la società Napoli Est «avrebbe dovuto rilanciare lo sviluppo economico di San Giovanni a Teduccio e dintorni»: operazione che, man mano che andava avanti, «somigliava sempre di più a un pezzo della Neonapoli di Cirino Pomicino» (una spettacolare operazione di speculazione degli anni ottanta fortunatamente bloccata da Tangentopoli). Si trattava di una operazione fallimentare ma per la quale «senza pudore gli inventori della Napoli Est promisero diecimila nuovi posti di lavoro all'anno». A parte poi il caso specifico, il punto è che, dando inizio a queste imprese, non solo si modificavano alcuni principi di base dell'intervento urbanistico ma finiva anche per trasformarsi la base di supporto della giunta comunale con il ritorno in campo di personaggi che da tempo pareva stessero tramontando. Il caso della Napoli Est - ma se ne potrebbero citare altri analoghi - risulta dirimente: «Era evidente - conclude De Lucia - che non si trattava di un fatto episodico ma di una mutazione radicale. Leggevo in quell'atto, in nuce, l'involuzione di Bassolino».

Con il secondo mandato, Bassolino «non fu più capace di operare le scelte che avevano caratterizzato i primi tempi della nostra avventura. Aderì al pensiero unico della deregulation... e si trovò in compagnia degli scalzacani del tutto e subito». E io aggiungerei che la stessa politica dell'immagine, che tanto aveva contribuito al successo della prima fase dando entusiasmo e supporto popolare alle iniziative della giunta, finì per diventare fine e se stessa senza neanche riuscire nascondere l'enormità dei problemi non risolti. Infine la capacità innovativa, l'interesse per il nuovo e la disponibilità al cambiamento del personaggio Bassolino, secondo De Lucia, finirono per tradursi in un comportamento, antico e nefasto della sinistra meridionale: il trasformismo. E c'è poco altro da dire. Peccato.

Gli ultimi tre libri dello studioso francese della complessità Edgar Morin rivalutano il pensiero di Karl Marx in nome di una critica della realtà mondiale dopo il crollo del socialismo reale. Un ritorno alle origini del suo percorso intellettuale dettato inoltre dal degrado ambientale e dai conflitti sociali alimentati dalla crisi economica, ma anche dagli effetti totalitari di una ideologia del progresso che sta portando l'umanità all'autodistruzione



Una vita segnata da grandi passioni e da una profonda insofferenza verso qualsiasi prassi teorica che non accetti di aderire a quel principio di realtà da cui dovrebbe trarre linfa vitale. Un'attitudine che lo ha portato a uscire dal pratico comunista francese poco dopo la liberazione del suo paese e a fustigare per quasi un quarantennio la figura dell'intellettuale engagé incarnato da Jean Paul Sartre, colpevole di occultare il reale in nome di una teoria, quella comunista, che nell'Unione sovietica era diventata una religione di stato strenuamente difesa da istituzioni e personaggi che ricordavano più l'inquisizione che non esponenti di un partito che voleva cambiare il mondo. Uno strano destino ha però portato Edgar Morin, acclamato teorico della complessità, a ritornare alle sue origini intellettuali, mandando alle stampe, a pochi mesi di distanza, tre libri che hanno come asse portante il pensiero di Karl Marx, ritenuto, dopo una vita passata a marcare la distanza intellettuale e politica dalle sue posizioni, uno dei massimi filosofi dell'Ottocento e massimo interprete del capitalismo mondiale.

Certo, il Marx che propone Morin si discosta moltissimo da tutte le varie e spesso conflittuali interpretazioni che si sono accumulate nel corso degli anni. Sotto molti aspetti è un Marx vincolato alle nozioni di «individuo sociale» e di «essere generico», chiavi di accesso ai misteri della natura umana all'interno della quale la trasformazione e il cambiamento delle proprie condizioni di vita e di scambio con la natura impediscono, secondo Morin, il consolidamento di realtà politiche autoritarie. Il ritorno all'autore de «Il capitale» è inoltre fortemente raccomandato come antidoto all'ideologia di uno sviluppo economico che si fa beffe delle compatibilità ambientali e che vede il libero mercato come una «terra promessa»: ideologia che sta conducendo l'umanità sull'orlo dell'abisso. Marx, in quanto sofisticato interprete della «mondializzazione» capitalista, può dunque aiutare a fermare la folle marcia verso l'autodistruzione della civiltà.

L'antagonismo rimosso

Fin qui nulla di nuovo. Sono oramai alcuni anni che intellettuali e opinion makers sicuramente non marxisti rivalutano il barbone di Treviri come lo studioso che ha saputo cogliere il meccanismo profondo che porta il capitalismo a periodiche crisi. È questa, ad esempio, la tesi sviluppata da Jacques Attali in un pamphlet di successo incentrato sull'autore de Il capitale. Oppure Marx è stato evocato come il filosofo, e qui il riferimento d'obbligo è agli Spettri di Marx di Jacques Derrida, che ha colto quel principio ordinatore della realtà moderna che sono i rapporti di produzione. E, infine, in ordine di tempo va ricordato l'omaggio fatto alla sua critica dell'economia politica fatto da quella specie di bignami del libero mercato che è la rivista Economist, che ha indicato in Marx il teorico meglio attrezzato per comprendere il perché il crollo del castello dei subprime stava minacciando di coinvolgere non solo qualche economia nazionale, ma tutto il capitalismo mondiale. In ogni caso, sono tutti Marx che erano depurati della fortunata tesi che invitava a trasformare il mondo dopo averlo interpretato.

Dunque un filosofo o un economista che val bene agitare solo per segnalare che il capitalismo, o la modernità, non gode di buona salute. Edgar Morin, invece, e qui sta l'interesse del primo dei libri qui presi in esame ( Pro e contro Marx. Ritrovarlo sotto le macerie dei marxismi, Erickson edizioni, pp. 104, euro 10), vuole inserire Marx nel Pantheon dei teorici della complessità, in base alla quale, sostiene Morin, gli antagonismi della realtà contemporanea sono complementari l'uno all'altro e entrambi importanti per comprendere il mondo così come esso è. In questo caso, la teoria marxiana «scopre» che il conflitto tra capitale e lavoro nasce all'interno di rapporti di produzione che, a loro volte producono asimmetrie di potere e diseguaglianze sociali. È questo uno degli antagonismi presenti nella società capitalistica. Ma è lo stesso Marx che indica nella borghesia un fattore dinamico, progressivo della modernità. Da qui la necessità di una dialogica che metta in una relazione di complementarietà gli antagonismi del capitalismo.

Indubbiamente, un'interpretazione stravagante, quella di Edgar Morin. Che ritorna anche nel saggio Il gioco della verità e dell'errore (Erickson edizioni, pp. 174, euro 14), nel quale il richiamo a Marx è mitigato da una condanna senza appello del socialismo reale, che ha costituito la forma più brutale di autoritarismo politico perché ha costruito un sistema di potere fondato su un concetto di verità assoluto. Nel socialismo reale non era contemplata nessuna possibilità di errore da parte del partito al potere. E anche quando esso si manifestava, la superiorità del socialismo reale risiedeva nella pratica dell'autocritica, dispositivo attraverso il quale gli interpreti della verità correggevano le piccole deviazioni dalla strada maestra che gli «esecutori» dei piani del partito aveva intrapreso.

In questi due volumi ci sono molte pagine dedicate allo spirito gregario degli intellettuali, che hanno fatto di tutto per occultare il fatto che le società socialiste erano società fondate sulla sistematica menzogna da parte delle autorità su quanto accadeva nei singoli paesi. E di come abbiamo legittimato regimi politici che negavano i più elementari diritti civili e sociali di quella classe operaia che volevano «liberare» dalle catene dello sfruttamento. Allo stesso tempo Morin tesse elogi non segnati dal dubbio al pluralismo politico delle società democratiche, perché impedisce l'«errore ideologico» che ha contraddistinto tutti i marxismi.

Anche in questo caso l'aspetto interessante della riflessione di Morin non è la critica del socialismo reale, che spesso suona le corde della morale e poco dell'analisi su come un movimento che voleva la liberazione di uomini e donne si è trasformato nel suo opposto. Interessante è la proposizione di una figura dell'intellettuale in quanto «deviante minoritario», l'unico modo per essere davvero nel reale, visto che gli intellettuali organici diventano sempre complici del potere, impedendo così sia la comprensione che le possibilità di trasformare la realtà. Per Morin, gli intellettuali organici hanno legittimato il «rifiuto del reale» e confermato una visione dogmatica, religiosa del socialismo reale. Il «deviante minoritario» è invece la coscienza critica che sa cogliere gli antagonismi della realtà, ma anche la loro complementarietà, perché salvaguardia il momento della negatività, della critica, dell'opposizione che le minoranze hanno sempre rappresentato nelle società. Da qui alla affermazione apodittica che non ci sono principi normativi della realtà il passo è breve. Per Morin, infatti, assistiamo, talvolta paralizzati, altre volte entusiasti, a un continuo divenire che assume il reale e lo supera non cancellando nessuna delle sue caratteristiche.

La metamorfosi della civiltà

Gli studiosi di Hegel non avranno difficoltà a riconoscere in questa enfasi del divenire la categoria dell'aufhebung, che è sì sintesi tra una tesi e la sua antitesi, ma anche conservazione degli elementi di verità presenti tanto nella tesi che nell'antitesi. E Marx è stato il teorico che meglio di altri ha messo al lavoro la sintesi hegeliana, anche se per Morin questo consente di cancellare la centralità del conflitto tra capitale e lavoro nella riflessione marxiana. Non è infatti la classe operaia il soggetto del cambiamento, bensì il lavoro sotterraneo dei «devianti minoritari» che colgono appieno il complesso rapporto tra l'ideale e il reale e viralmente diffondono elementi di verità sul reale per attivare quella «metamorfosi della società-mondo» che si contrappone a qualsiasi idea di rivoluzione. Nel volume Oltre l'abisso (Armando editore, pp. 125, euro 15) Morin non ha infatti dubbi. Dopo la soffocante stagione del socialismo reale, l'umanità è entrata nella spirale distruttiva del libero mercato che mette in discussione la stessa esistenza della specie umana. Anche in questo caso Marx corre in aiuto il «deviante minoritario» perché la sua concezione della natura umana prevede che il singolo può essere homo sapiens, ma anche homo ludens, homo oeconomicus, homo mythologicus e homo demens, perché l'essere generico di cui scrive Marx nei Manoscritti economico-filosofici è propedeutico a quella unitas mulpiplex di cui l'umanità ha necessità per sfuggire alla sua possibile distruzione.

Il linguaggio di Edgar Morin talvolta è irritante per la continua evocazione di un fondo indicibile, perché «misteriosofico» dell'agire umano, che lo porta a un procedere poetico che poco facilita la lettura dei suoi testi. Ma non è questo che non convince della sua riflessione contenuta in questi tre volumi. Tutto quanto ruota, infatti, all'irruzione nel reale di un imprevisto, la crisi economica di questo plumbeo inizio di millennio. Come dal nulla irrompono di nuovo sulla scena conflitti di classe che la retorica del libero mercato aveva occultato. E questa volte non c'è solo una granitica classe operaia che afferma il suo desiderio di non essere ridotta merce. Nella «società-mondo» il conflitto di classe ha come posta in palio proprio quell'individuo sociale marxiano che vuole diventare unitas multiplex. Morin è consapevole di ciò e cerca di salvaguardare la sua difesa del pluralismo politico facendo leva proprio su Marx, cioè uno dei critici più radicale della finzione democratica. CONTINUA|PAGINA12 Non si vuole qui negare l'avversione al socialismo reale, né i limiti dei tanti marxismi. I punti che proprio non tornano della riflessione di Morin sono teorici e dunque politici. Il primo è il rapporto tra teoria e prassi. Per lo studioso francese c'è sempre contraddizione tra il pensare il mondo e la prassi per trasformarlo. Vale però la pena sottolineare che si può pensare il mondo per trasformalo, mentre la prassi è la condizione necessaria per poter pensare la realtà. Dunque tra teoria e prassi non c'è contraddizione, semmai una tensione fondamentale per sviluppare un punto di vista politico forte sulla realtà.

Per una umanità sull'orlo dell'abisso non serve però evocare l'alternativa tra socialismo o barbarie, quanto portare alla luce le potenzialità di riscatto, di rivolta, di trasformazione che si danno già nel reale. E gli antagonismi riportare al centro della scena dalla crisi economica, non mettono in evidenza solo generose resistenze destinate alla sconfitta, ma anche possibilità di ricombinare soggettività produttive disperse e annichilite dalla precarietà. In una situazione dove la fine della sinistra è continuamente rimossa da chi pensa di collegarsi a quella tradizione la riflessione di Morin aiuta però a sfuggire alla sirene che vogliono considerare definitivamente chiusa non quella storia, ma la possibilità stessa di poter cambiare il mondo.

Tra una teoria della complessità che pensa di poter superare gli antagonismi della realtà in nome della loro complementarietà e chi rimpiange la tradizione politica del movimento operaio va costruita tenacemente un'altra opzione. Quella appunto che guarda con interesse a un individuo sociale che, come scriveva Marx, riconosce la sua natura di animale sociale e al tempo stesso che vuol sfuggire al triste destino del regno della necessità. Un regno della necessità dove è vigente la finzione democratica, che certo aiuta, come scrive Edgar Morin, a sfuggire alla malattia dell'«errore ideologico», ma non aiuta certo l'esercizio della libertà.

UNA CASSETTA DEGLI ATTREZZI PER CAMBIARE LA REALTÀ

La semi scomparsa di Marx dalle librerie italiane è il risultato, tra le altre cose, della politica culturale della ex-sinistra che in questi ultimi vent'anni non ha fatto altro che annunciare la morte di Marx, salvo trovarsi oggi di fronte ad una crisi mondiale del capitale che, guarda caso, e come molti economisti e commentatori anche di area liberale e cattolica non mancano di rilevare, conferma le analisi dell'autore del Capitale. Molti intellettuali ex (comunisti, socialisti, nuova sinistra) trattano Marx nello stesso modo in cui i contemporanei del Moro definivano Hegel: «un cane morto». Guido Liguori di recente ha lamentato la scarsezza dei testi e le difficoltà a reperirli ogniqualvolta si vuole organizzare un percorso di studio su Marx o, semplicemente, si vuole leggere qualche suo testo. La necessità di dedicarsi ad attività di commento, traduzione e pubblicazione di testi antichi e moderni di e su Marx (e su importanti autori marxisti) è una necessità quindi impellente. D'altronde, come ricordava Engels in una lettera del 21 settembre 1890 allo studente berlinese e redattore di riviste socialiste Joseph Bloch, è più utile «studiare questa teoria sulle fonti originali e non di seconda mano».

Va tuttavia segnalato il fatto che da qualche anno sono riapparsi testi e commenti di e su Marx. Da qui la segnalazione, consapevole della parzialità e dell'incompletezza di questi essenziali suggerimenti bibliografici, i quali, comunque, possono rappresentare una prima «cassetta degli attrezzi» per comprendere il mondo contemporaneo.

Al di là della ristampa de «Il capitale» da parte della Newton Compton, l'annuncio della ristampa dei Grundrisse da parte della manifestolibri per il prossimo ottobre, vanno segnali i seguenti libri: Karl Marx, Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti, a cura di Vladimiro Giacché (Derive Approdi); Karl Marx, Quaderni antropologici, a cura di Politta Foraboschi (Unicopli); Karl Marx, Forme di produzione precapitalistiche, a cura di Diego Fusaro, (Bompiani); Karl Marx, L'alienazione, a cura di Marcello Musto (Donzelli).

Per quanto riguarda i saggi sul Moro vanno invece ricordati : Marx e Hegel. Contributi a una rilettura di Roberto Fineschi ( Carocci); Marx e l'etomismo greco. Alle radici del materialismo storico e Karl Marx e la schiavitù salariata. Uno studio sula lato cattivo della storia di Diego Fusaro, (Il Prato). Marx e l'educazione di Mario Alighiero Manacorda (Armando); , Lessico marxiano , Manifesto libri; La lunga accumulazione originaria. Politica e lavoro nel mercato mondiale, a cura di Devi Sacchetto e Massimiliano Tomba (Ombre corte); Pensare con Marx Ripensare Marx. Teorie per il nostro tempo, a cura di Cinzia Azzurra (Edizioni Alegre); L'ultimo Marx di Enrique Dussel (Manifestolibri), il volume collettivo Marx e la storia. Con un'antologia di testi (Unicopli); Marx di Stefano Petrucciani (Carocci) e Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario di Diego Fusaro (Bompiani).

Donatello Santarone

A metà degli anni ‘70, leggevo il quotidiano quando mio padre ritornava a casa, dopo il lavoro. Mi soffermavo sulle piccole inserzioni immobiliari di Milano e provincia. A otto anni vivevo il territorio urbano e suburbano come il luogo dell’inatteso. Immaginavo possibilità di vita fuori dall’appartamento. Leggevo inserzioni tipo Il tuo prossimo vicino di casa potrebbe essere un pioppo. Vivevo il mio momento narrativo attraverso l’urbanizzazione del capitale, ignoravo che la coscienza di classe era già stata sconfitta anche grazie alla dispersione residenziale, alla rasatura di cento metri quadrati di giardino e alla distanza, a volte notevole, tra l’abitazione e il luogo di lavoro. Ero euforico e turbato, sembrava ci fosse qualcosa di inquietante in quelle teoriche infinite possibilità abitative, spacciate per opportunità. Benché di fronte al condominio ci fosse un terreno edificabile, il pianeta non pareva così grande da contenere le nuove inserzioni immobiliari.

"Guai a voi che aggiungete case a case e poderi a poderi fino a che c’è spazio!". Con l’ammonimento di Isaia si apre Tristissimi giardini, di Vitaliano Trevisan (Laterza, pagg. 146, euro 10). L’autore vive e attraversa Vicenza e provincia, la periferia diffusa, il luogo abituale in cui viviamo e ci muoviamo. "Così stanno le cose. Più che stare fluiscono, qualsiasi sia la loro natura". Ma se "spostarsi è comunque un problema per tutti, anzi, è il problema", appare evidente la complessità delle nostre vite. E il transito che abbiamo trovato per risolvere le nostre esistenze é subito inibito, il capitale non può evitare di conservare e rassicurare - a parole - ma nei fatti trasforma, se il caso distrugge i luoghi stessi. Viviamo quotidianamente il paesaggio dell’incoerenza nel nostro affannoso adattamento. Le zone di resistenza all’evidenza sono la cifra della produzione letteraria di Trevisan, che si può intendere come un virtuosistico monologo. Il libro è una ricognizione nei luoghi delle opere precedenti, che hanno costruito la convincente voce narrante di Trevisan, fatta di omaggi letterari, a Bernhard, soprattutto; ma senza l’assimilazione di quel paesaggio dell’indistinto, la voce narrante di Trevisan resterebbe un omaggio vuoto allo scrittore austriaco; se Trevisan è Trevisan, è per il legame ossessivo e conflittuale con i luoghi vicentini, che premono lo spazio psichico come un’ombra.

Tristissimi giardini è a metà tra il diario e il saggio. L’autore non si sottrae anche stavolta alle consuete invettive contro l’ambiente teatrale, cinematografico, letterario; in particolare, è riconoscibile la polemica verso lo stile di Marco Paolini, a cui rimprovera una banalizzazione da macchietta veneta nel rappresentare Rigoni Stern. Ma le pur condivisibili "tirate" contro certi meccanismi, qui, forse per una questione di spazio, diventano meno insistenti rispetto ai libri precedenti. Trevisan è conscio di quanto anche l’ambiente letterario possa essere dannoso alla scrittura stessa. E così, nonostante gli abituali viaggi di lavoro a Roma, l’autore torna alla periferia diffusa vicentina e nell’incongrua ma ormai usuale visione di ulivi sradicati un migliaio di chilometri più a sud ed "esposti lungo una statale del cazzo come la Thiene-Bassano", trova la spinta per la parte migliore del libro, i capitoli Tristissimi giardini e Frammenti sulla vecchiaia. "I giardini non sono affatto tristi. Non sono nemmeno allegri, ma, a chi vuol guardare, dicono molto sugli esseri umani che li governano."

L’autore ritorna a vivere nella vecchia casa dei genitori ormai defunti. È una casa singola, con un piccolo giardino, ubicata in una delle infinite via Dante italiane, circondata da case simili, costruite negli anni ‘60 e abitate da ex operai ottantenni, da vedove che coltivano ancora un piccolo orto, accanto ai nuovi proprietari, famiglie di quarantenni con prole, che hanno ristrutturato le case e incarnano il sogno di una classe media anglosassone. Qui non ci sono progetti, aperitivi per ipotetici soggetti cinematografici, consolazioni cittadine, e neppure la tensione a una vita borghese. Esistono più nitidi i giorni, i segni sui giardini del tempo, e la non appartenenza, inconciliata pur nella vicinanza, diventa l’unica condivisione possibile, il destino della scrittura.

Nota: l'autore di questa recensione, Giorgio Falco, ha pubblicato alcuni mesi fa per Einaudi l'interessantissima raccolta di racconti L'ubicazione del bene , dedicata all città dispersa metropolitana milanese. Su Mall alcuni suggestivi estratti (f.b.)

È singolare constatare come un certo storicismo si sia trasmutato in disparati rivoli, conservando quella matrice di realismo politico che gli è proprio, senza disgiungerlo idealisticamente da un’inossidabile vocazione etica. È il caso di Vezio De Lucia, che ci propone la sua biografia professionale in Le mie città. Mezzo secolo di urbanistica in Italia (Reggio Emilia, Diabasis, 210 pagine, 18 euro), che in parte ripercorre la traccia di un altro suo libro fondamentale su Napoli, Se questa è una città. La professione è quella dell’urbanista. La sua fede incrollabile sta nel carattere «normativo» di quest’ultima.

L’Italia ha avuto nell’urbanistica una sua stagione, appunto normativa, con il primo centro-sinistra. Poi dalla seconda metà degli anni Settanta è iniziata una controriforma volta a rendere friabile e caotico quanto di cogente il tessuto precedente portava con sé. Ciò in base ad una propugnata esigenza operativa. Operativo vuol dire politico-amministrativo. Questo è il punto. Meno le amministrazioni funzionano, più sembra doversi imporre l’intervento politico «legibus solutus». In De Lucia, il culto della legge va di pari passo con quello dell’amministrazione. Ora l’amministrazione, se è tale, cura pressoché ogni giorno il territorio, in un «continuum» di decisioni volte ad eseguire, incentivare, promuovere e magari anche a modificare, se necessario.

Un piano regolatore, ad esempio, non è strumento inerte, da mettere nel cassetto. È il caso di quello di Napoli, concepito appunto da Vezio De Lucia. Non basta un piano, ma è necessaria anche una politica di attuazione del piano stesso. Dalla sua assenza nasce la pulsione inversa di prescindere da ogni piano. Napoli è una città povera, rischia nei prossimi anni di essere ancora più povera. La tentazione di mettere le mani su quello che rimane può di nuovo farsi sentire. Sarebbe uno spasimo per non avere poi più niente, quando bisognerebbe guardare altrove, alla ristrutturazione del suo porto, visto in una ottica metropolitana, un’area, questa, che richiede urbanizzazione e investimenti, ed oggi è in gran parte una topaia dalla quale è miracolo non esca soltanto malavita.

De Lucia mostra come la «deregulation» urbanistica abbia avuto fulgidi esempi nelle recenti amministrazioni di Roma e della Campania. Nel secondo Bassolino che abbandonava l’iniziale impostazione «normativa», preso dalla sindrome del potere, così connaturata alle classi dirigenti meridionali, e sceglieva la strada della possibile gestione fuori dalla legge, senza peraltro riuscirci, come la farsa di Alinghi dimostra.

Il film documentario "Il suolo minacciato" diretto da Nicola Dall'Olio e prodotto da Wwf e Legambiente di Parma, in collaborazione con Il Borgo, Lipu e Città invisibili, ha ottenuto una Menzione speciale al 13esimo Festival Cineambiente di Torino con la seguente motivazione: "Per la capacità di spiegare in modo chiaro ed efficace un problema quanto mai attuale come quello del consumo di suolo. Gli interessanti interventi hanno la capacità di coinvolgere lo spettatore grazie anche all'originalità della regia".

Per il regista Dall'Olio “si tratta di un riconoscimento inaspettato, se consideriamo che in concorso erano presenti molti documentari di alto livello tecnico. Credo si sia voluto premiare anche l’importanza di un tema, il consumo dei suoli agricoli, troppo a lungo sottovalutato nel nostro Paese”.

Con oltre sessanta film presentati e 20.000 spettatori alle proiezioni, il Festival organizzato dal Museo Nazionale del Cinema di Torino costituisce in Italia il principale appuntamento per il mondo della documentaristica ambientale, in costante crescita sia in termini di numeri, che di qualità. Il suolo minacciato era in concorso nella sezione Documentari italiani, che è stata vinta dal film Le White di Simona Risi, che narra la storia degli abitanti delle case popolari "White Houses" di Rogoredo (Milano) rivestite di amianto.

Le associazioni che hanno prodotto il film, interpellate sull’esito della manifestazione, non nascondono la loro soddisfazione. “La situazione della Food Valley è allarmante ma nello stesso tempo rivela la possibilità di uno scenario alternativo, perché, a differenza di altre aree padane, preserva paesaggi ancora non compromessi e ha testimoni consapevoli di quanto sta accadendo”, afferma Daniela Monteverdi, presidente WWF.

"Cominciamo ad avvertire una sensibilità nuova da parte delle Amministrazioni Pubbliche e delle imprese verso la preservazione del territorio. Ma non mancano i tentativi di mistificazione dove nuove pesanti cementificazioni sono imbellettate di verde al fine di renderle presentabili, come è il caso di recenti progetti urbanistici a Parma" dice Francesco Dradi, presidente Legambiente

Con Il suolo minacciato la pianura parmense sembra quindi destinata a diventare il caso nazionale di riferimento per i gruppi e le associazioni, sempre più numerosi, impegnati a difendere il suolo ed il paesaggio.

«Conosci la terra dei limoni in fiore, / dove le arance d’oro splendono tra le foglie scure, / dal cielo azzurro spira un mite vento, / quieto sta il mirto e l’alloro è eccelso, la conosci forse?», chiedeva estasiato Wolfgang Goethe. No, quell’Italia lì non la conosciamo più, rispondono gli autori di «La colata». Troppo cambiata, devastata, violentata. Dai grandi speculatori, dalla cialtroneria egoista di milioni di singoli individui decisi a fare ciascuno il proprio abuso nell’indifferenza per le regole, dal cinismo di migliaia di amministratori locali disposti a svendere anche il più bel paesaggio del pianeta in cambio di un pugno di voti.

Gela il sangue, la lettura de «La colata», il reportage collettivo edito da Chiarelettere da oggi in libreria e firmato da Andrea Garibaldi («Corriere della Sera»), Antonio Massari («Il Fatto»), Marco Preve («Republica»), Giuseppe Salvaggiulo («La Stampa») e Ferruccio Sansa, lui pure de «Il Fatto». Gela il sangue perché, certo, riconosce che certe aree sottoposte a tutela hanno faticosamente conservato la loro meravigliosa fisionomia e che qua e là si battono per «il bello» migliaia di comitati, associazioni, gruppi e singoli cittadini generosi e ostinati, ma dimostra anche un dato incontrovertibile. L’assalto forsennato, bulimico, insaziabile al la cui fetta più grossa, circa 830.000 metri cubi, se la mangia una variante per l’area industriale di Bellaria dove si trova lo stabilimento Novartis. Si, proprio quello del famoso vaccino contro l’influenza suina».

Dagli orrori (con risvolti camorristici) di Monterusciello, la prima e sgangherata «new town» italiana, tirata su a Pozzuoli dopo il bradisismo del 1983, alla Modena di stampo rosso-emiliano: «L’architetto ed ex dirigente comunale Ezio Righi ha denunciato che oltre un milione e mezzo di metri quadrati di territorio agricolo dislocati nella zona sud, fino all’autostrada, sarebbero passati di mano recentemente e a prezzi non rapportati all’attuale destinazione d’uso. I compratori — ha detto Righi durante un convegno di Italia Nostra— sarebbero imprese legate alla Lega delle cooperative, imprese collegate ai consorzi edili privati e singoli artigiani».

Tema: non è insensato esaltare tutti i giorni il fascino dell’Italia e insieme insistere sul cemento, sui condoni edilizi, sulla politica del «laissez-faire» lasciando distruggere quotidianamente un pezzo del nostro paese? Dicono i numeri che il turismo rappresentava non molto tempo fa quasi il 12° del Pil e dava lavoro a 2 milioni e mezzo di persone. Ma la nostra quota, che nel 1970 ci vedeva primi al mondo, è via via scesa sotto il 5% del mercato mondiale. La classifica dell’Organizzazione Mondiale del Turismo ci ha visti nel 2009 (annus horribilis) piazzati a 43,2 milioni di arrivi contro i 50,9 della Cina, i 52,2 della Spagna, i 54,9 degli Stati Uniti e i 74,2 della Francia.

C’è di peggio: secondo il Travel & Tourism Competitiveness Report 2009 del World Economic Forum, la nostra competitività turistica, rispetto dell’immenso patrimonio culturale, paesaggistico, enogastronomico, ci vede solo al 28° posto, dopo paesi come l’Estonia o Cipro che quel che hanno lo sanno sfruttare meglio. Sono gli altri che non ci capiscono o siamo noi che stiamo buttando via, anche esagerando col cemento (si pensi alla bella provincia vicentina nell’ultimo mezzo secolo: +32% gli abitanti, +324% la superficie urbanizzata) quelle ricchezze naturali e artistiche che ci eravamo ritrovati in dono?

Questo è l’allarme che lanciano Garibaldi, Massari, Preve, Salvaggiulo e Sansa: «Se non si ferma la colata di cemento l’Italia non sarà più il Belpaese. I danni saranno irreversibili». Un incubo eccessivo? Non pare, a leggere il capitolo dedicato alle interpretazioni del Piano casa da parte di tante Regioni italiane, di destra e di sinistra. O quello che ricostruisce una ad una le megalomanie di quelle amministrazioni disposte a sventrare anche la campagna più ricca per costruire un nuovo circuito automobilistico o motociclistico al quale agganciare una nuova speculazione edilizia. O ancora quello dove si racconta del modo in cui una notte, a Sanremo «una zona di 72 ettari che era stata classificata come "frana attiva" da Alfonso Bellini, uno dei geologi piu noti d’Italia, con un tratto di colore diventa edificabile» nonostante tutti avessero ancora «negli occhi le immagini di via Goethe, a due passi dal municipio, trasformata dalle piogge in un fiume di fango e pietre». Un solo voto contrario, di un leghista: «Per la redazione dei piani di bacino la Provincia si rivolge a professionisti privati. Bravi, bravissimi, per carità, ma sono gli stessi che poi magari progettano operazioni immobiliari o porti turistici...». Indimenticabile il commento dell’Udc Luigi Patrone: «Io voto sì, ma da quelle parti i bambini non ce li porto nemmeno a giocare». Ecco il nodo: l’aggressione non viene solo dall’abusivismo fuorilegge. Viene anche da politiche urbanistiche suicide votate a maggioranza, «regolari», con le «pezze d’appoggio».

Ne vale la pena? Ne vale davvero la pena? Prima di rispondere, merita di essere riletta la relazione della commissione incaricata nel 1966 dal Comune di Napoli di studiare il sottosuolo: «Una lava di case ha sommerso Napoli, incredibilmente. Le colline sono state aggredite, il verde distrutto, i luoghi sconvolti dalla speculazione edilizia. A chi viene dal mare la città si presenta ormai come un grottesco presepe di cemento, aggrappato a una brulla dorsale tufacea». Per quanti pezzi di Italia si potrebbero oggi scrivere le stesse parole?

Dalla frana di Agrigento della mattina del 19 luglio 1966, «lo stesso giorno in cui la nazionale italiana di calcio perse con la Corea del Nord», alla rovinosa ricostruzione de L’Aquila dopo il terremoto del 2009. Dai sogni del primo centrosinistra alle nefandezze del Piano Casa di Berlusconi. Dalla salvaguardia di Venezia all’impegno contro l’abusivismo nel Mezzogiorno. Nel suo ultimo libro, Le Mie Città. Mezzo secolo di urbanistica in Italia (Diabasis, pp.210 euro 18,00) l’urbanista Vezio De Lucia ripercorre cinquanta anni di storia della condizione urbana e del paesaggio in un perfetto mix tra battaglie per il rispetto della legalità e dell’interesse pubblico, ormai sacrificato sull’altare del “dio privato”. Così, Le Mie Città per alcune pagine può sembrare un libro di inchiesta urbanistica. Ma basta un inciso, un commento personale dell’autore, il racconto di un aneddoto, che si trasforma in un’appassionata autobiografia. Sempre molto documentata. Direttore generale dell’urbanistica al Ministero dei Lavori Pubblici; consigliere della Regione Lazio nelle fila del Pci; assessore all’urbanistica nella prima Giunta Bassolino; Consigliere nazionale di Italia Nostra. Vezio De Lucia è molto di più di un “semplice urbanista”: è politico, è funzionario, è attivista. Ma soprattutto ha attraversato cinquanta anni della storia urbanistica italiana, dai ministri dei Lavori Pubblici Fiorentino Sullo, Giacomo Mancini, Pietro Bucalossi, alla deriva dell’Italia berlusconiana. Da quando, con la legge del 1962 per l’acquisizione pubblica delle aree per l’edilizia popolare, gli standard urbanistici del 1968, la legge per la casa del 1971, la legge Bucalossi del 1977, era forte la «speranza che le cose potessero cambiare», fino ad arrivare ai disastri del disegno di legge Lupi in materia di governo del territorio e al “pianificar facendo”, colpo mortale per la pianificazione urbanistica, oggi trasformata nella “deroga come regola”. Oggi pomeriggio (ore 17) Le Mie Città verrà presentato alla Camera dei Deputati, nella Sala conferenza Mercede (via della Mercede 55). Con Vezio De Lucia discuteranno di cinquant’anni di urbanistica Walter Tocci, Adriano Labbucci, Enrico Pugliese, Francesco Erbani e Alberto Asor Rosa, che del libro ha scritto la prefazione e che abbiamo intervistato.

Professor Asor Rosa, quella raccontata da De Lucia ne Le Mie Città è una storia che parte da lontano e arriva alla “sua” Toscana e ai piani strutturali di Pisa, Lastra a Signa, Gavorrano e dei comuni della Val di Cornia, ai piani territoriali di coordinamento di Pisa e Lucca, ai piani strutturali coordinati di San Piero a Sieve e Scarperia. Che libro è quello di Vezio De Lucia?

Più che un libro, è uno squarcio nella vita civile italiana e nell’atteggiamento della politica e del suo modo di amministrare il territorio. Vezio racconta la sua esperienza professionale e, quasi senza accorgersene, traccia il percorso di cinquanta anni della nostra Repubblica. Cinquanta anni che, attraverso grandi illusioni e cocenti disillusioni, ci hanno portato allo stato attuale, in cui il territorio non è un luogo da amministrare e da tutelare ma il piano su cui poggiare enormi speculazioni.

Nella prefazione a Le Mie Città parla degli urbanisti come di un “segmento particolare” perché, mentre le altre categorie di intellettuali, letterati, scrittori, filosofi, «si danno da fare per persuadere altri a cambiare il mondo, loro lo cambiano perché il loro mestiere consiste nel cambiarlo»…

Volontariamente o involontariamente, nella mia vita mi sono molto spesso occupato della categoria degli “intellettuali” alla quale, volontariamente o involontariamente, appartengo. Prima di qualche anno fa, però, la categoria degli urbanisti non mi aveva mai sfiorato, in quanto tenuta ai margini della “storia degli intellettuali” del ‘900 perché i loro mestiere porta in una direzione diversa a quella degli intellettuali umanisti: gli urbanisti non possono permettersi di porsi solo il problema di criticare il mondo e il modo di cambiarlo. Dall’esperienza che sto facendo con la Rete dei Comitati per la progettazione di una “altra Toscana”, e dalla storia raccontata da Vezio, emerge come in questi cinquant’anni la componente critica relativa all’utilizzo che una certa politica ha fatto dei nostri territori è cresciuta negli anni rispetto alla componente costruttiva, relativa al fare, perché la politica ha reso impossibile il lavoro di un urbanista che non si riconosce nelle leggi di mercato. Ma Vezio descrive, oltre alla sua vita, una possibilità. Uno spazio in cui si può trovare, insieme a un’altra politica, un’altra urbanistica. È per questo che, scherzosamente, o proposto un mutamento del titolo del libro da “Le mie città” in “Le avventure di un urbanista”. O, ancor meglio, “Le fatiche di Sisifo” o “La lotta con Proteo”. Perché il libro di Vezio emana fatica.

Nel libro hanno molto risalto gli anni di De Lucia nella prima Giunta Bassolino come assessore “alla vivibilità” e ciò che lei ha definito nella prefazione «il racconto di quello che allora fu possibile sognare, progettare, realizzare e di quello che da un certo momento in poi non fu più possibile né sognare né progettare né realizzare».

Quando parlo di quegli anni, mi riferisco ai rapporti di Bassolino quando rappresentò una via di azione all’interno del Pci in fase di disgregazione. Erano gli anni di un confronto aperto, dialettico, senza nessun tentativo di rifugiarsi negli ideologismi del passato. Bassolino incarnava la speranza di un diverso modo di governare. Insieme ai cittadini e insieme agli urbanisti. È in questo scenario che De Lucia ha vissuto la sua esperienza centrale, anche con molti successi relativi al riassetto urbanistico di Napoli. A un certo punto, però, il bassolinismo si è trasformato in disillusione, è rientrato nella sfera della trattativa politica più banale, fino a scomparire del tutto in quanto, di quel tentativo di innovamento, non aveva più nulla. Da quel momento in poi, il racconto di De Lucia non può che essere il racconto della decadenza e del tramonto di una grande, solare stagione di possibile rinnovamento a opera di un centro-sinistra permeato di spinte al tempo stesso intellettuali e popolari. Stagione di cui, come ho scritto nella prefazione, Bassolino rappresenta la figura più esemplare sia dal punto di vista delle promesse e delle aspettative sia dal punto di vista delle promesse fallite e delle aspettativa disilluse e tradite. Nonostante questo, però, quegli anni furono un’esperienza comunque cruciale per molti. In questi stessi giorni è uscito un libro di un altro “grande vecchio” dell’urbanistica italiana, Edoardo Salzano, Memorie di un urbanista, che racconta di un’esperienza parallela a quella di De Lucia a Napoli, a Venezia. Un’esperienza fatta di speranze, illusioni e, purtroppo, disillusioni che arriva alle stesse conclusioni.

Oggi c’è qualche nuova “illusione” in cui provare a cambiare le cose?

Oggi non sono in atto esperienze di analoga natura. Ma una strada percorribile c’è, anche se molto ardua. Mi riferisco al nuovo assessorato all’urbanistica della Regione Toscana, guidato da Anna Marson, che qualche spiraglio lo sta aprendo soprattutto per quanto riguarda il confronto diretto con i cittadini che da anni sono in lotta per la difesa del territorio.

Parlando proprio della “sua” Toscana, nel libro, De Lucia, si riferisce direttamente a lei e a una sua significativa frase: «il centro storico di Firenze è asservito a un uso commerciale bastardo e degradante del flusso turistico». E, in riferimento a una Grande Opera, il Corridoio Tirrenico Nord che collegherà Civitavecchia con Livorno, lei denuncia come questo «potrebbe aprire le porte a una “piena di romani” con conseguenze devastanti per il territorio: porti turistici, strade a mare, residence a schiera»…

Sabato scorso, a Firenze, nella conferenza regionale della Rete dei comitati, abbiamo discusso per ore proprio di questo. Il punto nodale di tutto, come spiega perfettamente anche il libro di De Lucia, sono le scelte finali, la direzione che si vuole intraprendere, se quella del turismo, devastante, di massa a tutti i costi o quello della sostenibilità ambientale ma anche economica, visti i costi stratosferici di queste opere. O iniziamo un ripensamento di questo sistema, e il nuovo assessorato all’urbanistica toscano potrebbe aprire una speranza, o si assisterà a un’omologazione pesante della Toscana al modello speculativo senza limiti e senza freni del territorio “alla romana”. Per capire quali sarebbero le reali conseguenze per il territorio, basta chiedere a, o leggere i lavori di, urbanisti come Vezio De Lucia, Edoardo Salzano, Paolo Berdini…

È un tuffo nella cultura del Novecento, fra Karl Marx e economia classica liberale, la conversazione con Giuseppe Campos Venuti, che ha affidato Ad un libricino denso quanto agile, le riflessioni di un cinquantennio abbondante di urbanistica. Rendita, profitto, riformismo, massimalismo, sembra di cogliere un gusto ironico nell’uso di categorie considerate demodé ma niente affatto aride, come dimostrano le pagine su l’Aquila, precocissime, visto che materialmente l’intervista fu registrata nel maggio 2009: «Appena possibile la gente deve tornare nelle sue strade comprando nei negozi riaperti...vedere i monumenti sui quali sono cominciati i consolidamenti più facili, si devono riaprire gli edifici pubblici..Rendendo consapevoli che i lavori non saranno brevi ma che i cittadini si sono già riappropriati della loro città».

Campos Venuti critica le piattaforme anti-sismiche sovradimensionate delle new town di Berlusconi, «sono proporzionate a palazzi di otto piani» ma non risparmia critiche alla sua parte: «La politica in genere non ama l’urbanistica, forse perché impone regole, e la sinistra è lenta a capirla». Ora poi persino l’Emilia Romagna, dove Campos arrivò, mandato da Alicata, come giovane assessore nelle giunte di Dozza a Bologna, ha cancellato l’assessorato all’urbanistica.

Lei si definisce un “urbanista riformista”…

«Lo so, è un termine sputtanato...ma io uso un lessico storico, non berlusconiano e quelle che Berlusconi sta facendo sono controriforme enon riforme. Riformismo è produrre cambiamenti positivi, senza usare i metodi coercitivi o cruenti della rivoluzione. E nell’urbanistica è più facile: in Italia c’è una legge approvata quasi per caso, quando le truppe dell’Asse erano a El Alamein. Altri paesi hanno adeguato la legislazione, noi siamo fermi a 65 anni fa».

A proposito di riforme del governo: è stato votato il federalismo demaniale

«È una follia che spingerà i comuni alle peggiori mascalzonate. Un finto federalismo che costringerà i comuni virtuosi a sobbarcarsi costi insopportabili di manutenzione, e gli altri a creare un attivo perverso attraverso speculazioni e varianti. I comuni, d’altra parte, sono fra l’incudine e il martello perché, non solo gli è stata tolta integralmente l’Ici, che Prodi aveva abolito al 40% per ragioni sociali. C’è anche una legge di Berlusconi (purtroppo non cancellata da Prodi nel 2006) che autorizza ad usare gli oneri di urbanizzazione – già bassi in Italia - per le spese di bilancio ordinarie, dagli stipendi dei vigili urbani a quelli dei bidelli. Ma gli oneri di urbanizzazione non fanno parte del bilancio comunale, sono il contributo che il costruttore deve dare ai servizi urbani in cambio della autorizzazione a costruire. Se il quesito fosse sottoposto alla Corte costituzionale questo scippo non potrebbe che essere considerato incostituzionale».

Lei polemizza con quelli che chiama urbanisti massimalisti, sulla questione degli espropri.

«Io ho fatto gli espropri a Bologna, quando erano a prezzi bassi. Ma ora il prezzo è di mercato e, da quando è venuto meno l’elemento punitivo dell’esproprio, le città hanno cominciato a crescere male. Non riesco a capire che sinistra sia quella che vuole gli espropri: a prezzo di mercato si fa un favore alla rendita, tanto più che il comune è obbligato a costruire entro cinque anni mentre il diritto dei privati è sine die».



La sua impostazione, ovvero un piano programmatico più un piano operativo prescrittivo di 5 anni, fa cadere il diritto edificatorio acquisito dai privati con i vecchi Prg?

«Non lo cancella ma lo addormenta. Il programma a priori permette al comune di scegliere, fra le proposte dei privati che rientrano nelle norme già stabilite, quelle che danno di più come verde pubblico e servizi. Senza nessuna contrattazione, tutte le previsioni previste nel piano operativo valgono cinque anni passati i quali il diritto a costruire scade».

Però i suoi critici dicono che dietro questo metodo si nasconde la contrattazione

«No, se oggi Alemanno a Roma per costruire la linea C della metropolitana si sta mangiando altri pezzi di Agro romano, questo si deve anche alla legge regionale sbagliata, che fu voluta da Rifondazione ».

Nel suo libro insiste molto sui danni prodotti da una rendita eccessivamente alta

«La rendita è la cosa peggiore, perché sul profitto si possono fare delle battaglie, per redistribuirlo. La rendita, invece, viene in tasca senza far nulla. Al massimo si deve corrompere un assessore per ottenere una variante urbanistica. E in Italia la rendita è altissima. In Francia si aggira intorno al 14%, da noi è intorno al 50%. E’ uno dei motivi per cui ai costruttori non conviene fare case belle, guadagnano già abbastanza con la speculazione sulle aree. Bisognerebbe tassare la rendita urbana»

Perché?

« Noi che ci occupiamo di urbanistica e di opere che servono all’urbanistica, il significato del debito pubblici lo capiamo meglio di altri. Il debito alto in Italia è cominciato negli anni del Caf, contrastato da Ciampi e Prodi, si è aggravato pesantemente con Berlusconi e continua a penalizzare l’Italia. in venti anni a Madrid si sono realizzate sette linee metropolitane, a Roma una sola. E i valori immobiliari siano aumentati proprio negli anni Ottanta, in parallelo con il debito pubblico, non è una coincidenza ma la conseguenza di una situazione in cui crescono le rendite urbane e finanziarie».

Tornando alle”riforme” di Berlusconi, c’è anche il Piano case

«Bisognerebbe che il centro sinistra facesse capire che il Piano Casa danneggia il costruito, danneggia i vicini. Le faccio l’esempio di Molinella, un comune del bolognese di cui mi sono occupato nell’ultimo decennio. Lì non tutti hanno sfruttato al massimo la possibilità di costruire, c’è quindi una riserva legale che riguarda il 56% circa della popolazione. È chiaro che, se quel 44% che ha già esaurito la propria quota di costruito, utilizzerà il Piano case di Berlusconi, farà un danno agli altri, a quelli che pensavano di avere il verde davanti e invece si troveranno a poca distanza un muro. Alla violazione legalizzata dei piani urbanistici esistenti, e quindi al danno per la collettività, si aggiunge il danno ai privati. Ma la sinistra è lenta nelle cose urbanistiche, mentre io sono convinto che sia importante conoscere per governare. Non serve strillare, perché la gente, invece di ascoltare, si tappa le orecchie, serve conoscere e trovare soluzioni di buon senso. Il buon senso è rivoluzionario».

Negli ultimi anni c’è stato un proliferare di centri commerciali

«I centri commerciali non si possono imputare agli urbanisti, sono i politici a trattare queste cose direttamente. Io capisco che, per certi aspetti, la grande distribuzione ha un senso economico ma,dal punto di vista urbanistico, il presidio del negozio nel quartiere significa sicurezza e vivibilità ambientale. Però i piccoli commercianti non ce la fanno, gli affitti sono troppo onerosi, e bisognerebbe pensare come aiutarli. E pensare che quando ho cominciato, per gli operai il commerciante era la longa manus del capitalismo. La vita cambia ma non per colpa dell’urbanista».v

SCHEDA

«Quanto è brutta la città fra rendita, archistar e incultura» Si intitola « Città senza cultura, intervista sull’urbanistica» a cura di Federico Oliva, Laterza, 12 euro, il libro parte dall’interrogativo: perché sono brutte le città? Fra i bersagli polemici del libro la moda dei cosiddetti «archistar», perché, come nel caso di City life a Milano, «sono generalmente, magari in maniera inconsapevole, strumenti usati dal regime immobiliare quale copertura di operazioni francamente discutibili.

Giuseppe Campos Venuti è stato consigliere comunale e assessore all’urbanistica a Bologna, ha insegnato per 33 anni al Politecnico di Milano,è stato presidente dell’Inu e del Consiglio superiore dei Lavori pubblici. Ha 84 anni portati benissimo e non ha perso la passione politica: «Ora si parla della Lega radicata nel territorio. Non capisco, si tratta di un’attività normale: io ho fatto centinaia di assemblee, discutevo ma soprattutto annusavo l’aria e i problemi che tiravano fra la gente».

postilla

Campos Venuti continua a insistere sull'esistenza di "diritti edificatori", che il suo modo di pianificare "addormenterebbe". In realtà l'esistenza di "diritti edificatori" conferiti da un PRG e non rimovibili senza indennizzo è del tutto infondata. Si vedano in proposito la relazione di E. Salzano e - ciò che più conta - il parere pro veritate dell'insigne amministrativista Vincenzo Cerulli Irelli. Vero è che, basandosi sulla falsa teoria dei "diritti edificatori" Campos Venuti ha contribuito alla redazione di un PRG di Roma che ha consentito l'urbanizzazione di ulteriori 14mila ettari. Come spiega in modo diffuso anche questo ampio articolo di Paolo Berdini per la rivista Contesti (e.s.)

Qui una precisazione di Giuseppe Campos Venuti

Di rado le vicende personali di un singolo si intrecciano profondamente con un frammento della storia di un´intera città. Quando questo accade, è perché la sequenza dei fatti è inevitabilmente impregnata di passioni, idee scevre da ideologie, coraggio, rischio, capacità di sintesi e volontà caparbia di sfruttare favorevoli condizioni politiche, sociali e culturali di contesto.

Una di queste vicende, di tipo personale e professionale, che ha avuto Napoli come sfondo e campo di prova, è senz´altro quella di Vezio De Lucia e, in particolare, quella incardinata negli anni nei quali è stato assessore alla "vivibilità", come si diceva allora, della prima giunta Bassolino, dal 1993 al 1997. Questo rapporto tra l’urbanista De Lucia e quella che fu per quattro anni la "sua" città, è raccontato, assieme ad altre storie italiane paradigmatiche di gestione del territorio e vissute in prima persona, nel suo ultimo libro dal titolo "Le mie città. Mezzo secolo di urbanistica in Italia", edito da Diabasis. Un rapporto tra l’uomo e la città che, come scrive Alberto Asor Rosa nella prefazione, ha fatto emergere di volta in volta i suoi eroi e antieroi, le sue vicissitudini e peripezie, le sue sconfitte e i suoi risorgimenti.

Parte di quanto costruito in quegli anni si è certamente dissipata, un’altra parte appartiene alla cronaca di fatti non ancora conclusi e dei quali proprio in quegli anni furono gettate le basi (Bagnoli, Napoli Est). Infine, ci sono i risultati concreti, oramai sedimentati, come il piano regolatore vigente, caparbiamente messo a punto da De Lucia, la pianificazione della mobilità con il piano comunale dei trasporti, la coraggiosa pedonalizzazione di ampi spazi pubblici e simbolici, come piazza del Plebiscito, i primi concreti interventi di riqualificazione delle periferie. La parabola napoletana di De Lucia si concluse assieme al primo mandato di Bassolino, quando l’allora sindaco, che si accingeva a essere riconfermato con il 73 per cento delle preferenze, si lasciò irretire, secondo De Lucia, «dalle sirene della scorciatoia e della disinvoltura urbanistica», fatto che manifestò l’inizio dell’involuzione di Bassolino e del bassolinismo, che si avviò, non solo in campo urbanistico, verso tendenze deregolative nelle quali non erano più contemplate le scelte coraggiose e "progressiste" del periodo precedente.

Il rapporto "tecnico" tra De Lucia e Napoli, comunque, era cominciato già qualche decennio prima, ai tempi della cosiddetta "prima" ricostruzione post-terremoto quando, quale funzionario del ministero dei Lavori pubblici, si presentò nel napoletano e nell´Irpinia squassati dal sisma. Di quel periodo è il "Programma straordinario per la ricostruzione", il cui nocciolo, come si legge nel libro, fu «il completamento dei due grandi quartieri di edilizia pubblica di Ponticelli e Secondigliano, la realizzazione di 50 interventi di recupero e spazi verdi per circa 100 ettari, fra i quali tre parchi (a San Giovanni a Teduccio, a Ponticelli, a Scampia». Dopo poco, però, De Lucia dovette osservare da Roma, dov’era ritornato, la lucrosa "seconda ricostruzione", quella pilotata da Antonio Fantini ed Enzo Scotti e fatta di strade, autostrade, svincoli, "raddoppi", bretelle, fognature e opere di ogni genere: una "svolta infrastrutturale" che snaturò le soluzioni programmate per il post-terremoto trasformandole in una delle più grosse dissipazioni di danaro pubblico della storia repubblicana.

L’immagine dell’Italia e della gestione del suo territorio, che emerge da questo libro, è profondamente diversa da quella denunciata con i toni della sfida e della requisitoria alla gestione urbanistica lassista in "Se questa è una città", il libro con il quale De Lucia ha mostrato come il Bel Paese è stato continuamente manomesso dalla rendita parassitaria, dalla speculazione e, più semplicemente, dalla corruzione e dal disfacimento delle regole. Qui, infatti, a emergere sono la documentazione e la testimonianza, anche per evitare l´oblio dei fatti, soprattutto di quelli in apparenza marginali.

«Ho fatto quanto ho potuto per essere utile alla mia città», scrive De Lucia, facendo emergere i sentimenti e l´ostinazione messi nella sua opera di urbanista "condotto", ma forse soprattutto l’amarezza per quanto, di quell’opera, è andato perduto.

Vezio De Lucia è uno degli urbanisti italiani più autorevoli. Le sue memorie pubblicate da Diabasis, «Le mie città», si aggiungono a quelle di Edoardo Salzano (che ha da poco pubblicato le sue). Nel libro blocchi di ricordi incrociano le questioni cruciali dell’urbanistica con un ritmo intenso. Come per Salzano (è nota l’amicizia che li lega) è evidente il suo coinvolgimento in tanti ruoli, molto complementari e molto determinati: intellettuale militante, funzionario del ministero dei Lavori pubblici (con Michele Martuscelli e Fabrizio Giovenale), amministratore pubblico, scrittore e redattore di piani importanti. Passando per Napoli, Roma, Venezia, la Toscana, le esperienze di lavoro diventano, nel racconto, storie di vita.

Tappa dopo tappa lo sguardo al passato assume crescente disincanto: d’altra parte è chiaro come le vecchie questioni - rimaste in sospeso, in attesa di una soluzione - trascendano continuamente il loro tempo per riaffiorare continuamente. Con la senzazione della scalata di una montagna davvero molto ripida.

Chi vuole sapere dei meriti e delle colpe dell’urbanistica italiana (alcune luci, molte ombre e tanta penombra) dovrà leggere il libro di De Lucia, che siccome dice le cose come effettivamente stanno potrebbe essere additato presto come brutta pubblicità per l’Italia all’estero.

Impossibile interpretare correttamente la storia del governo delle trasformazioni urbane dell’ultimo mezzo secolo, non marginale aspetto della storia del Paese, senza una versione dei fatti oltre le apparenze, senza raccontare le buone teorie insieme alle versioni in prosa dell’agire politico che si rincorrono in modo circolare incontrandosi raramente. Le sue città sono paradigmi per spiegare questa ricerca e molto altro: in ogni vicenda che le riguarda sono contenute circostanze destinate a riproporsi in grande o in piccolo in altre realtà.

Non so se sia corretto dire che è un libro di politica urbanistica. Di sicuro non è un libro che elude gli intrecci, che sfugge alle domande sulle degenerazioni - come è spesso in testi astratti che inquinano le prove - che rinuncia al giudizio sulla responsabilità politica che conta enormemente nell’urbanistica. La negligenza protratta delle classi dirigenti riguardo ai temi del governo del territorio è lì nella bruttezza di moltissimi luoghi («In nessuna città olandese, inglese francese, o tedesca ci sono quartieri come Scampia», nota De Lucia). E quindi eccolo il nodo: il rapporto politica-affari che si rivela spesso tra le pieghe della cattiva amministrazione urbanistica oltre che nel «clima gelatinoso» che sta intorno alle opere pubbliche.

Si capisce insomma come il malgoverno sia stato e sia a svantaggio di qualsiasi tentativo di mettere ordine nelle città e di conservare la bellezza dei paesaggi italiani. E a vantaggio di pochissimi. Nell’azione di De Lucia, nel suo libro, è sottintesa la fatica immane che ci vuole a convincere pure la sinistra a impedire le aggressioni al Belpaese, quella sinistra che negli ultimi anni si è concessa troppe fughe trasversali. «Il berlusconismo - nota De Lucia nel libro - è diventata la politica dominante, anche dove non governa il centrodestra».

«Gli urbanisti cambiano il mondo, il loro mestiere consiste esattamente nel cambiarlo, e siccome hanno questo potere, che il loro mandato disciplinare gli assegna, possono fare, fanno, o molto meglio o molto peggio degli altri». Così Alberto Asor Rosa, nella prefazione a volume, delimita il campo disciplinare: un campo di massima responsabilità intellettuale e politica che ha a che fare con le previsioni di lungo periodo che non si possono lasciare ai progetti della rendita. Appunto nel libro si trovano i momenti più significativi del lavoro di Vezio De Lucia, nello sfondo i momenti in cui il desiderio di buona pianificazione sembrava condiviso e quindi realizzabile e le successive disillusioni, le sconfitte che spesso ha registrato nel suo lavoro (è la deriva di Bassolino che immagino lo abbia fatto penare più di quanto lascia immaginare). Si valuta il momento attuale della disciplina come uno dei più «tellurici» e incerti della sua storia: per questo rassicura la forza che il racconto assume quando lascia intravedere i motivi ispiratori. Il valore del «pubblico», il principio di tutela dei beni comuni, il filo conduttore o la lente che oggi più di allora rende evidenti la distanza fra una concezione lungimirante della società e il suo contrario negli sguardi interessati a prendere dal paesaggio senza restituire nulla.

Affrontando da diversi punti di vista - la letteratura, la sociologia, il cinema e l'urbanistica - il tema del rapporto tra spazi, media e politica nell'immaginario urbano degli Stati Uniti, Emiliano Ilardi definisce la frontiera come quel luogo all'interno del quale è possibile esprimere la propria individualità, esaudire i propri desideri e affrontare una nuova vita lasciandosi alle spalle il passato. Tale concetto assume maggior forza nel territorio americano che storicamente accoglie le diversità allontanandole dal centro, basti pensare alle sette religiose o alle comunità hippie che occupano i vuoti delle praterie. Mentre in Europa sembra non esserci via di uscita dalla città, in America la grande quantità di spazi di cui i cittadini dispongono offre all'immaginario un'alternativa potente, il palcoscenico su cui proiettare desideri di fuga o tensioni verso la libertà.

Anche la metropoli, tuttavia, può diventare una sorta di frontiera: definendo la figura sociale dell'arrivista come quella di un neo-pioniere, il cinema e la letteratura contribuiscono a individuare negli spazi urbani il luogo privilegiato per il raggiungimento del successo. D'altra parte, l'arrivista tende a usare la metropoli allontanandosene il più presto possibile: l'aspirazione, come scrive il romanziere Chuck Palahniuk, è quella di «diventare tanto ricco da poterti tirar fuori dalla marmaglia, da tutta quella gente in autostrada o, peggio, in autobus. No, il sogno è una grande casa, isolata in capo al mondo». Infatti, commenta Ilardi, «il mescolamento e la promiscuità non sono archetipi dell'immaginario metropolitano americano: troppi desideri concentrati in uno spazio troppo piccolo».

Se dunque in Europa la politica cerca di governare i conflitti, negli Stati Uniti la gestione della folla e delle sue diversità etniche, religiose ed economiche tende a tradursi sostanzialmente nell'offerta di spazio. Per disgregare la folla, si usa ogni sorta di mezzo, che si tratti delle nuove arterie autostradali grazie alle quali è possibile controllare i flussi di cittadini o delle gated communities tipiche della città-fortezza. Come simbolo dell'ingovernabilità del caos urbano Ilardi introduce la figura del super-eroe, espressa dai fumetti e dal cinema, l'unica capace di mettere ordine là dove si dimostrano impotenti i politici, i potenti, e perfino i malavitosi: una figura che incarna alla perfezione l'individualismo dell'American dream.

Per comprendere il futuro non abbiamo che il passato e la sua sublimazione nel presente. Per cercare di prevedere eventi futuri non possiamo avvalerci che della nostra conoscenza degli avvenimenti passati, magari legati a condizioni al contorno che siano, poco o tanto, diverse tra di loro. Questo vale per tutto, dal futuro di una lingua a quello della città europea, e la nostra previsione di ciò che accadrà sarà, generalmente parlando, tanto migliore — esatta mai, perché il futuro non è dato — quanto più intelligente e perspicua sarà la nostra analisi di ciò che è stato.

Marco Romano si occupa da sempre della città, dell’estetica della città, con specifico riguardo per la città europea «percepita come un corpo unitario » . Quali sono i caratteri essenziali di questa entità astratta eppure concretissima che si mantiene relativamente invariata da oltre mille anni, perfettamente individuata dall’analisi delle centomila città europee, e distinta, da una parte, dalla città della classicità e, dall’altra, dalla città che si incontra in altre civiltà e altri modi di essere? Questo tema caro all’autore, ritorna in Ascesa e declino della città europea (Raffaello Cortina), proiettato in una prospettiva futuribile: che ne sarà della città europea nel prossimo futuro, considerando l’insieme di spinte e controspinte che ne stanno oggi insidiando l’esistenza stessa? Romano, ovviamente, non lo sa e, sotto sotto, spera che nella sua essenza la città non cambierà, dal momento che la sua costanza non è legata, almeno finora, ad una stanca collocazione nella media delle medie, ma trae la sua forza dal contrasto, aspro contrasto, fra un certo numero di istanze di segno opposto, che lui chiama contraddizioni.

Negli ultimi mille anni, insomma, la città europea non è cambiata perché è stata ed è continuamente tirata da una parte e dall’altra da potenti forze contrastanti, che la tengono sul fondo di una specie di gigantesca «U» della quale tali forze costituiscono confini e bordi, a sinistra e destra.

A ben guardare, le diverse contraddizioni che il nostro autore individua possono essere ricondotte in ultima analisi tutte al dilemma efficienza-bellezza: da una parte la funzionalità della città e delle sue parti per la vita dei cittadini (che costituiscono la civitas), dall’altra la godibilità estetica dei palazzi e degli spazi vuoti (la urbs) che Romano individua come un tratto essenziale (e consapevole) della città europea. Perché esiste questa tensione (o contraddizione) di fondo? «Perché la sfera della tecnica è per sua natura soggetta all’intrinseca legge del progresso, dove ogni novità cancella la precedente, mentre l’aspirazione della bellezza è quella di durare in eterno».

E ancora «se l’ambizione della città di pietra sarà di durare in eterno non potremo fondarla sulle effimere convenienze della tecnica, economiche o produttive che siano». Si tratta insomma del contrasto secolare ma sempre più avvertibile al giorno d’oggi fra il bello, eterno, e il funzionale, che può cambiare in continuazione. Personalmente, ho qualche difficoltà a cogliere l’essenza di questa dicotomia, anche se so che utilità e bellezza hanno sue «sedi» cerebrali diverse, ma non posso non apprezzare il grande sforzo intellettuale compiuto dell’autore per chiarire la natura e il portato delle diverse contrapposizioni.

L’oggetto di questa opera non è un vaticinio, è ovvio, ma una ricognizione attenta e ispirata, frutto di un atto d’amore, l’ennesimo, per le piazze, le strade e le case del nostro risiedere. E Romano parte proprio da una rapida ed essenziale, ma efficacissima, rivisitazione dei caratteri fondamentali della città europea, i quali nel loro insieme costituiscono un po’ la definizione della dramatis persona del libro, e che verranno poi singolarmente seguiti nel quadro dei conflitti e dei contrasti generati dalle sette contraddizioni fondamentali da lui individuate.

Quali sono queste contraddizioni? Innanzitutto quella fra fruibilità e bellezza ( utilitas e decus), e poi fra città e stato, città e campagna, antico e moderno, egualitarismo e gerarchizzazione, effimero dell’individuo e perenne della collettività, per completarsi con il tema del giorno: noi e gli altri. Il prevalere di uno di questi termini, concomitante o meno con la dissoluzione del suo opposto, potrà portare, secondo Romano, alla perdita di identità, se non alla dissoluzione, della città che abbiamo vissuto fino a poco tempo fa.

Un messaggio finale all’amico Marco da parte di un cittadino del mondo: comunque andrà, andrà bene. Come nel caso della vicenda di Antigone, noi siamo portati a parteggiare per la physis piuttosto che per il nomos, ma quella che chiamiamo physis non è altro che un nomos, solo più vecchio. E familiare.

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