La democrazia ha sempre cercato di fare i conti con questo sentimento che muove gli spossessati contro il potere. Nella modernità è però prevalso l'invito a cercare una politica del giusto mezzo che tenga ai margini chi dissente. Oggi si preferisce addomesticarlo con la gestione del capitale umano e la meritocrazia. Ma dopo il fallimento del socialismo reale occorre di nuovo partire da questa passione per pensare la rivoluzione
«Ormai hanno già sfasciato tutto, cassette delle lettere, porte e scale. Il policlinico, dove curano gratis i loro fratelli e sorelle più piccoli, lo hanno demolito». Lucido nel suo sconcerto rispetto alle prospettive della guerra civile che da trent'anni va in scena nelle banlieue francesi, Hans Magnus Enzensberger riportava in un libro pubblicato agli inizi degli anni Novanta (Prospettive sulla guerra civile, Einaudi) i commenti di un assistente sociale davanti alla violenza autistica degli immigrati di seconda generazione di origine araba o africana contro le strutture di primo soccorso che governano la marginalità sociale.
In queste cupe ammissioni di impotenza si riconosce un'«internazionale dei misantropi», sarcastica definizione con la quale Peter Sloterdijk ha descritto in Ira e tempo (Meltemi, pp. 283, euro 21,50) la muta degli uomini nauseati che sopravvive ai margini e nelle pieghe delle società del precariato di massa. Notte dopo notte, e di insorgenza in insorgenza, questi misantropi declassati si disgregano in isolati stordimenti, colpiscono l'ordine costituito con rigurgiti di rabbia il cui unico effetto è quello di rafforzare l'alienazione quotidiana. Nelle scuole, negli uffici, nelle attività illegali necessarie alla sopravvivenza, ecco spalancarsi una terra di mezzo dove la pauperizzazione della classe media s'intreccia con la disperazione del sottoproletariato metropolitano.
Da quando è fallita quella che Sloderijk chiama la «banca dell'ira» del comunismo, il magnete che ha attratto per più di un secolo le energie timotiche mondiali contro il capitalismo (dal greco thymos, l'ira o furore degli eroi omerici), le energie sembrano disperdersi in riti collettivi poco più che simbolici. Nessun ideale canalizza il furore distruttivo delle masse spossessate in una violenza civilizzata. Una volta estinto il dispositivo che ha trasformato la guerra sociale in guerra di classe, sembra che non ci sia più limite alla psicopatologia delle passioni tristi che svuota come un tarlo l'anima, trasformando l'ira in risentimento o recriminazione.
La marea dell'umor nero
Gli unici che per Sloterdijk avrebbero accarezzato il pelo della bestia sono gli islamici fondamentalisti i quali, dopo l'11 settembre, hanno inaugurato una «banca dell'ira regionale» capace di ricondurre i furiosi al culto della trascendenza teologica. Una previsione di corto respiro, smentita dalle rivoluzioni tunisine e egiziane che hanno sospeso l'ipoteca fondamentalista sull'ira, canalizzandola verso una domanda di libertà e democrazia. In questa ed altre ricostruzioni è molto forte la tentazione di declinare l'ira come un veleno iniettato da un genio maligno in un organismo che tende naturalmente ad un equilibrato governo dell'umor nero. È la posizione di Sofocle per il quale l'ira è la ragione dell'accecamento di Edipo che uccide il padre in un quadrivio per una questione di precedenza tra carri.
Ma la passione furente è qualcosa in più della rabbia che si prova ad un semaforo. È una passione civile ed è il «nervo dell'anima», scrive Platone che distingue l'ira giusta da quella ingiusta. L'animo irascibile è thymos gennaios, è nobile quando lotta contro l'ingiustizia. Esso non è prerogativa esclusiva dei «Re-filosofi», ma investe quella parte della città popolata dalla classe dei guardiani. Solo quando entra nel ristretto perimetro dei governanti (e degli intellettuali), l'ira diventa degna e civile. Colui che più di ogni altro è riuscito in questa impresa è stato Aristotele. Nell'Etica nicomachea l'ira è il desiderio di vendetta accompagnata dal dolore per una palese offesa arrecata alla propria persona o a qualcuno a noi legato. Non vendicarsi dell'offesa ricevuta crea vergogna. Sopportare l'oltraggio è un atteggiamento da schiavi.
L'ira è inoltre un fattore di equilibrio tra il governo di sé e quello degli altri, scrive Remo Bodei (Ira. La passione furente, Il Mulino, pp. 135, euro 14). Le correnti cristiane che si sono riconosciute in Paolo e in Agostino, fino alla Scolastica e a Dante, vedono nella «santa ira» di Gesù contro i mercanti nel Tempio il tentativo di costringere gli uomini ad entrare in contatto con se stessi, sollevandosi da una peccaminosa indegnità. «Adiratevi e non peccate - ha scritto Paolo - il sole non tramonti sul vostro sdegno». Perché questo sia possibile è necessario un lungo addestramento come si fa per i cavalli imbizzarriti. Si inizia da piccoli, con l'educazione al linguaggio, l'imposizione di una postura corporea, accedendo infine all'obbedienza ad un principio morale o teologico.
Anche in questo modello resta tuttavia un non-detto. L'ira è una passione fisiologica ed individuale che facilita la meditazione sulla trasformazione del mondo, e non solo di se stessi, ma resta una prerogativa riservata all'uomo (maschio e bianco) che coltiva la mitezza come ideologia della medietà tra la furia e la depressione. La marea iraconda viene drenata dalla diga del giusto mezzo, cioè dall'innata moderazione delle istituzioni democratiche che devono sedare l'ingiustizia. Non si contano, infatti, gli alambicchi psicologici, sociali e giuridici attraverso i quali la democrazia corregge i propri errori e redistribuisce una quota minima di giustizia agli scontenti. Ma cosa succede quando sono queste stesse istituzioni ad incarnare il torto sulla terra? Chi può dare voce al dissenso quando è la stessa democrazia ad essere ingiusta?
L'odio della democrazia
È difficile trovare una risposta visto che sin da Platone il popolo, gli schiavi e i diversi, gli stranieri si sono visti negare il diritto alla partecipazione agli affari della polis. Persino Spinoza ha negato la dignità dell'ira alle donne. Gli esclusi dalla democrazia sono tutti come Medea, la donna posseduta dagli immansueta ingenia dei popoli incolti dotati di temperamento selvaggio e intrattabile. In un perverso gioco di specchi, la democrazia preferisce non dare voce al suo indocile ingegno imponendo al contrario una rigida disciplina che la rende mite in superficie e crudelmente diseguale nel sottosuolo.
Davanti all'odio feroce per il popolo, come per tutti i soggetti che la democrazia bandisce incurante dei diritti fondamentali che dovrebbe garantire, sono ancora in molti a coltivare la fede in un galateo delle passioni capace di bruciare il risentimento in attesa che le porte della città si aprano per tutti. Il conato che strozza il misantropo, l'odio che zittisce i declassati, l'ira degli esclusi e dei banditi non troveranno mai pace attorno al banchetto delle buone maniere, della valorizzazione del capitale umano e dell'ineffabile meritocrazia che viene ammannita nella scuola e nell'università italiane.
Le rivoluzioni moderne hanno dato una forma alla grandiosa indignazione contro questa follia. Non di bestiale competitività, o di ipocrita comprensione, hanno bisogno per vivere gli immansueta ingenia, ma di una vigorosa redistribuzione della ricchezza e di innovazione intellettuale e produttiva. Ma, in tutta evidenza, queste rivoluzioni non sono riuscite a tirare le briglie al veleno del risentimento, né alla burocrazia della violenza. La principale vittima è stato il comunismo, l'ultimo vascello che ha navigato nell'oceano dell'ira. Per seguire la direzione della sua deriva è senz'altro preferibile seguire l'analisi che Ètienne Balibar ha sviluppato nel recente Violence et civilité (Gallimard, pp. 417, euro 35). Il comunismo, per il filosofo francese, è stato il tentativo di «civilizzare» l'ira del popolo e la sua violenza.
Walter Benjamin e Rosa Luxemburg, vittime anch'essi di un'atroce violenza, hanno forgiato un'attitudine che non riduce l'ira ad una forma logica o, peggio, biografica. Essa è stata considerata invece il dispositivo politico attorno al quale costruire una più ampia dialettica tra la violenza dei dominanti e l'anti-violenza delle pratiche rivoluzionarie. Lo Stato e il mercato non sono gli unici agenti della violenza contro la quale il popolo moltiplica mimeticamente i suoi effetti distruttivi. È piuttosto il popolo a creare un contro-veleno attraverso una serie di strategie di emancipazione indipendenti dalle strutture istituzionali in cui anch'esso vive.
L'appetito della bestia
«Prima di sognare di fare educare il popolo dallo Stato - ha scritto Marx nella Critica del programma di Gotha del 1875 - non converrebbe pensare al modo in cui il popolo potrebbe rieducare vigorosamente lo Stato?». Ispirandosi alla sottigliezza di questo rovesciamento dialettico, Antonio Gramsci - e con lui il marxismo contemporaneo da Ernesto Laclau sino a Antonio Negri - ha chiarito che una politica rivoluzionaria non è semplicemente l'esercizio di una contro-violenza di classe, ma l'invenzione di una nuova «civiltà» nella quale il dissidio politico viene affrontato partendo «dal basso», cioè dal pluralismo costitutivo della società.
È vero, nessuna di queste soluzioni sembra avere soddisfatto l'appetito della bestia. Chi ha a cuore una nuova «civiltà dell'ira» dovrebbe quindi invitare tanto gli uomini, quanto le donne, a fare personalmente esperienza dei suoi effetti ambivalenti. Se così fosse, l'ira non verrebbe più considerata uno strumento politicamente neutro che gli oppressi scagliano contro lo Stato, come credeva anche Lenin. Al contrario, entrerebbe a far parte di una politica che permette agli oppressi di ribellarsi contro la «servitù volontaria» e la «barbarie» di cui sono i principali attori.
Per questa ragione non bastano le insurrezioni popolari per fare una rivoluzione. Serve una riflessione di secondo grado sulle aporie del programma di emancipazione universale. Ed è proprio sulla rottura tra rivolta e rivoluzione che la tradizione marxista ha perso colpi. Estinta questa tradizione non è tuttavia detto, conclude Balibar, che le sue premesse politiche non valgano ancora oggi. Rivoluzione è sottrarsi alle antinomie del potere e, di conseguenza, a quella tradizione sacrificale che risponde alla violenza con un'analoga contro-violenza. Per farlo, però, non bisogna accettare di restare nella posizione sociale imposta dal potere. Meglio allora cambiare posizione con gli altri che condividono lo stesso desiderio. Diventare attivi quando invece ci vorrebbero passivi e, viceversa, sottraendosi ad un futuro già scritto. Chi ha detto che non stia accadendo proprio questo nell'area euro-mediterranea, a due anni dall'inizio della crisi?
Nella raccolta di scritti su come rigenerare la speranza e in un saggio sul valore politico dell'indignazione, il filosofo e sociologo Edgar Morin pone la necessità di una politica della trasformazione dopo il crollo del socialismo reale, la crisi ambientale e finanziaria che stanno mettendo in discussione l'egemonia dell'economia di mercato. Un appassionato percorso teorico che prende atto anche dell'incapacità della sinistra reale di fornire risposte adeguate ai conflitti nel capitalismo contemporaneo
Strano percorso intellettuale, quello di Edgar Morin. Comunista negli anni Quaranta del Novecento, come molti altri intellettuali di quel periodo perché vedevano nel partito comunista la forza politica più adatta per combattere il fascismo e il nazismo, prese rapidamente le distanze dal partito appena finita la guerra. Continuò la sua militanza politica in piccoli gruppi libertari a sinistra del Pcf, fino a quando considerò inadeguato anche il marxismo per sviluppare una filosofia della storia e una concezione di rapporti sociali propedeutici alla liberazione dallo stato di necessità rappresentato dal capitalismo. Cominciò da allora un percorso intellettuale che lo portò ad interessarsi del rapporto tra scienza e società, di psicoanalisi, di teoria della complessità.
Eclettico, questo è l'aggettivo più usato per indicare la sua erranza da un tema all'altro. Eppure Edgar Morin è uno studioso rigoroso. Si può dissentire dalle sue tesi, ma è indubbio che il suo percorso intellettuale è segnato da una ferrea coerenza. Coerenza nel sostenere che non sono i rapporti sociali di produzione il punto di partenza per una analisi critica della realtà; rigore nel denunciare le condizioni di illibertà, assoggettamento a un potere che aliena le possibilità di una vita al riparo dalle costrizioni imposte dalla ragione economica. Due sentimenti e uno stile teorico che, nonostante la progressiva presa di distanza da qualsiasi filosofia politica «totalizzante», non hanno mai impedito a Morin di rivendicare, certo con leggerezza e disincanto, il fatto che lui è sempre rimasto un uomo di sinistra, perché ritiene le parole d'ordine della rivoluzione francese - libertà, eguaglianza e fraternità - intimamente legate l'una all'altra. Ci può essere libertà, ma solo se ci sono eguaglianza e fraternità, ha spesso ripetuto nelle sue interviste. Un filo rosso, quello della triade repubblicana francese, con cui ha sempre intessuto le sue analisi, fino a quando, provocatoriamente, ha invitato a compiere un gesto ritenuto, chissà perché, inattuale: tornare, cioè, a studiare Marx, perché la teoria della natura umana del filosofo di Treviri è ritenuta un forte antidoto e un indispensabile strumento per contrastare la riduzione dell'essere umano a merce.
Un riformismo d'altri tempi
Quando sarà tempo di fare una storia delle idee che hanno segnato la presenza degli intellettuali nella scena pubblica tra gli anni Ottanta del Novecento e il primo decennio del nuovo millennio sarà interessante capire il perché molti studiosi sono stati a un certo punto considerati radicali, sebbene radicali non lo siano mai stati. Edgar Morin è uno di loro (lo stesso, in Italia, lo si potrebbe dire per Luciano Gallino), sebbene la sua opera abbia continuamente perseguito il tentativo di coniugare efficacemente democrazia e mercato. Ed è su questo crinale che Morin ha sviluppato spesso molte critiche alla sinistra politica francese e non solo. In questa raccolta di scritti da poco pubblicata - La mia sinistra, Erickson Editore, pp. 252, euro 18,50 con una presentazione di Nichi Vendola e una postfazione di Mario Ceruti - la sua insofferenza verso le scelte del partito socialista francese emerge con molta evidenza, così come è forte il richiamo a qualificare con una forte tensione utopica qualsiasi programma politico di riforma della società. Senza irriverenza, si può infatti dire che Morin è un riformista d'altri tempi, ma questo non significa una sua mancanza di attenzione ai conflitti del presente. E quando scrive che l'inizio del nuovo millennio coincide con la rivolta di Seattle, non lo fa perché ritiene che il movimento cosiddetto altermondialista possa essere ritenuto una riedizione del comunismo, ma perché quel movimento ha ripreso nel fango le bandiere che portano le scritte «liberté, egalité, fraternité», dando ad esse però non una costrizione nazionale, bensì una dimensione globale, planetaria.
Ed è allora interessante seguire la riflessione politica di Edgar Morin, in quanto espressione di un'attitudine critica che prende atto del fallimento del socialismo reale - società peggiori di quelle contro cui si ergevano, sostiene Morin - e che invece riprende filoni minoritari della sinistra novecentesca, come ad esempio l'antiutilitarismo, la riflessione di Karl Polany o il socialismo municipalista francese. È dunque importante individuare le ripetizioni e i détournements che emergono dagli scritti di Morin rispetto a queste teorie politiche che attirano rinnovata attenzione dai movimenti sociali. In primo luogo, il filosofo francese ritiene che un consolidato giudizio negativo sul socialismo reale non inibisca, ma anzi rafforzi progetti politici di riforma del capitalismo. Soggetti centrali di questi progetti politici sono i delusi del «comunismo» e del Sessantotto. Uomini e donne non pacificati rispetto alle ingiustizie che caratterizzano il capitalismo. Accanto a loro, le tante esperienze di solidarietà dal basso che puntano a rafforzare legami sociali incentrati su chiari e forti principi. Da qui, la necessità di difendere lo stato sociale, contrastando il razzismo e il sessismo.
L'ecologia che verrà
Elemento fondante della sinistra auspicata da Morin è però la sua concezione della natura umana, che fa leva su una lettura «umanistica» della nozione marxiana di individuo sociale. L'unicità di un singolo, sostiene Morin, è data solo se si riconosce l'interdipendenza degli uni con gli altri. E in questa interdipendenza trova radice un cosmopolitismo che rifiuta il richiamo al suolo, al sangue e alla specificità culturale, cioè i virus letali del nazionalismo etnicista, della xenofobia e del populismo. Allo stesso tempo, l'«individuo sociale» di Morin non può che constatare gli effetti distruttivi dello sviluppo economico e industriale sull'ambiente. L'ecologismo del filosofo francese non si nutre di decrescita, ma della convinzione che il potere della tecnostruttura sia sfuggito al controllo umano. Il problema è dunque quello di ricondurre la scienza e la tecnologia a finalità compatibili con l'ambiente e alla necessaria ridistribuzione della ricchezza, sia a livello locale che globale.
Dentro il mondialismo
Un ecologismo, dunque, non normativo né prescrittivo, perché sorretto da una visione della democrazia intesa come presa di parola di visioni del mondo e interessi divergenti con eguale legittimità. Nessun amore, quindi, per astratte procedure, ma adesione a una concezione «processuale» della democrazia, che assume tratti radicali, data l'incapacità della storica cultura politica del movimento operaio di fornire risposte all'insieme di problemi che il «mondialismo» pone. La crisi dello stato-nazione, certo, ma anche lo svuotamento del welfare state in nome di un individuo proprietario, figura idealtipica egemone del capitalismo contemporaneo. Una radicalità, quella di Morin, che corre il rischio di dissolversi in una semplice testimonianza di una alterità che non riesce a trasformarsi in un agire politico perché disincarna l'individuo sociale dalla materialità dei rapporti sociali dominanti. Morin indica cioè un metodo per affrontare la realtà contemporanea - un pensiero multidimensionale che mette sempre in discussione ciò che ha acquisito - ma rispetto alla risposta sul «che fare» si limita a una tassonomia delle esperienze di resistenza. Manca cioè quel doppio movimento dove l'interpretazione della realtà è già un atto per trasformarla.
“La ricerca interdisciplinare tra antropologia urbana e urbanistica. Seminario sperimentale di formazione” a cura di Costanza Caniglia Rispoli e Amalia Signorelli, ed Scientifica Guerini, Milano, 2008.
Questa è una segnalazione tardiva se si guarda la data di edizione, argomento urgente se si bada al contenuto. Si tratta di un corso che le due autrici e curatrici, docenti alla Università Federico II di Napoli, la prima in urbanistica, l’altra in antropologia urbana, tengono da circa dieci anni agli studenti di architettura e ingegneria e di sociologia.
Lo scopo del corso è di addestrare i partecipanti al lavoro di gruppo interdisciplinare su temi di comune interesse concernenti la città, la sua formazione, l’uso che ne fanno gli abitanti, le risposte che essa offre ai loro bisogni e alle loro aspettative. E’ come riprendere in termini attuali (che diciamo di “vivibilità”) quello che un tempo fu detta “questione delle abitazioni”. I problemi che ne vengono fuori sono sempre tanti, anche se altri da allora, da affrontare su un piano diverso, squisitamente culturale (e pur sempre politico) ma non meno pressanti per l’urbanistica e per la politica.
Il libro riporta anche i contributi di altri docenti al corso seminariale: A. Dal Piaz, F.Rispoli, A.Baldi, P. Ferone, C.Caputo, D. Mello, E. Petroncelli, A. Miranda; e, riflettendone la struttura, si divide in cinque parti. Inizia col ricordare i principi le finalità e i metodi delle due dottrine che si confrontano nel corso, e si diffonde poi sui vari temi trattati e sulle esperienze effettuate, particolarmente nella città di Napoli. Ne segnalo, in breve, alcuni punti più significativi e le principali questioni trattate.
Anzitutto, il fine dell’impegno interdisciplinare è quello di indagare le relazioni esistenti tra gli abitanti e i luoghi, le quali ( detto con le parole del libro) sono “relazioni dotate di senso, significanti di significati e orientate secondo valori”. Perciò, si avverte, occorre non tanto “guardare” le cose con gli occhi, ma “vedere” con la mente la sostanza umana vitale che le anima.
Il che, mi sembra di poter dire, comporta di allargare l’interesse su altre dottrine oltre quelle considerate nel seminario (per esempio la psicologia della percezione e in genere quelle di ambito semiologico), nonché di affrontare problemi non nuovi per noi, ma forse non ben afferrati e risolti.
La questione principalmente trattata nel libro è, naturalmente, quella del lavoro interdisciplinare, la quale, a ben vedere, è connaturata al nostro mestiere di urbanisti, applicato a una materia di per sé multidisciplinare.
A questo proposito vale la pena ricordare come non sia mai stato facile
definire con sicurezza quale sia il ruolo proprio dell’urbanista, in bilico tra la tentazione demiurgica e l’ansia di dover praticare cose che altri, meglio di lui, sono deputati a fare. Ruolo che, se si intende la interdisciplinarietà non quale mero incontro di competenze a più voci ma, come è detto nel libro, “quale pratica comunicativa tra campi disciplinari distinti… che consenta il riconoscimento condiviso di problemi in vista di soluzioni possibili”, comporta per l’urbanista di saper cogliere l’essenziale contenuto (obiettivi e metodi) delle varie dottrine, e per parte sua dare la forma appropriata alle cose che esse suggeriscono di fare (nello spazio e nel tempo). Ruolo afferente alla disciplina estetica, che il nostro amico Vezio De Lucia più di una volta non ha esitato a riconoscere nel perseguimento della bellezza.
Altro problema, tutt’altro che secondario, e quasi conseguente al primo, è quello della “partecipazione”. A questo proposito, diversamente da come si pensa e si procede abitualmente nella produzione urbanistica ed edilizia specialmente ma non solo pubblica, vanno tenuti in considerazione e debbono essere presenti non solo i due abituali soggetti operativi: da una parte i politici amministratori, i quali avendo il potere decidono di fare i piani urbanistici ed edilizi, dall’altra gli urbanisti architetti e ingegneri che, in qualità di esperti, propongono come farli. In verità c’è un terzo essenziale soggetto: i cittadini utenti (“assegnatari” è la significativa parola escogitata per indicarli) i quali nel prodotto astratto di quei piani devono vivere e conferire concreta vitalità.
Ci sono voluti anni di esperienze sconfortanti per accorgersi di questo soggetto centrale nel processo di produzione della città (in latino: urbs e civitas) ma in realtà non si è fatto né si fa gran che per attivarlo al meglio. Qualche illustre urbanista ha avvertito(non del tutto a torto) dei rischi che si possono correre, se lo si stuzzica più che tanto. Se è lecito chiudere l’argomento sul faceto, possiamo ricordare il vecchio proverbio sul padrone di casa, che è bene stia sempre dietro alla casa che si fa costruire; proverbio sempre valido in tempi democratici per i molti cittadini, come lo era per pochi privilegiati in quelli signorili.
Ce n’è, mi pare, quanto basta per presentare il libro certamente utile ai colleghi urbanisti architetti e ingegneri che vorranno leggerlo, e spero gradito a te, cui faccio pervenire una copia.
Nel saggio «Geografia politica urbana» (Laterza) Ugo Rossi e Alberto Vanolola sostengono che la critica dell'ideologia neoliberale sulla metropoli si arricchisce se fa suo il punto di vista dei movimenti sociali urbani. Come d'altronde emerge nel pionieristico saggio su Las Vegas di Robert Venturi, Denise Scott Brown, Steven Izenour e nel recente «Singapore Songlines» di Rem Koolhaase che la casa editrice Quodlibet ha da poco pubblicato.
«Negli ultimi decenni - scriveva nel 2006 Agostino Petrillo (Villaggi, città, megalopoli, Carocci) - la città si è fatta mondo con una potenza che non conosce precedenti nella storia dell'umanità». Soltanto negli ultimi dieci anni del Novecento il numero di uomini e donne che vivono in città è cresciuto di oltre un miliardo, mentre nei primi anni del nuovo secolo la popolazione urbana ha superato la fatidica soglia del 51% della popolazione mondiale. «Sono nate metropoli - proseguiva Petrillo - lì dove c'erano giungle, e l'urbanesimo è diventato la maniera di vivere per la maggioranza dell'umanità, non solo per quella che vive nei paesi sviluppati. Proprio nei paesi meno sviluppati la crescita è stata anzi vertiginosa».
Avveniristici grattacieli e sconfinati slum sono le effigi complementari di questi inauditi processi di urbanizzazione, che coinvolgono in particolare quelle che un tempo l'Occidente viveva come le sue periferie. E mentre nuove metropoli emergenti, soprattutto in Asia, scalano le graduatorie delle «città globali», nei modelli prevalenti di sviluppo urbano vengono messi in discussione sia i rapporti tra il «centro» e la «periferia» sia quelli tra la metropoli e il suo hinterland, fino a configurare sconfinate regioni metropolitane: inedite sfide ne derivano, tanto sotto il profilo urbanistico quanto sotto il profilo sociale, economico e politico.
A questi mutamenti di scala che hanno investito la dimensione urbana negli ultimi decenni vanno del resto sommate le trasformazioni qualitative che hanno rimodellato la città, facendone - anche nei paesi in cui la produzione industriale ha contemporaneamente conosciuto un'enorme crescita - una sorta di icona del capitalismo «post-industriale», forgiata dall'operare congiunto della finanza e della «cultura», della rendita immobiliare e delle «industrie creative». È la «città neoliberale», la cui ascesa ha accompagnato il tumultuoso dispiegarsi dei processi di globalizzazione, prescrivendo nuovi paradigmi di governance e determinando la circolazione planetaria di nuove retoriche e nuove ideologie dell'urbano (da quelle accattivanti della creatività a quelle feroci della tolleranza zero). Comprendere il funzionamento di questi paradigmi e di queste retoriche, portare alla luce il tessuto di conflitti e antagonismi su cui si distendono e individuarne i limiti è un compito tanto più urgente oggi, quando da molti segni sembrerebbe che la crisi globale in cui stiamo vivendo da ormai tre anni sia destinata a scuotere dalle fondamenta lo stesso modello della città neoliberale.
Un libro appena pubblicato da Ugo Rossi e Alberto Vanolo (Geografia politica urbana, prefazione di Ola Söderström, Laterza, pp. 226, euro 20) offre a questo proposito una serie di strumenti davvero preziosi, combinati all'interno di una griglia analitica di grande efficacia. Pensato come un manuale, che dà conto in modo esauriente degli sviluppi più recenti dei dibattiti sulle trasformazioni urbane soprattutto tra i geografi critici di lingua inglese, il volume di Rossi e Vanolo presenta tuttavia motivi di interesse che vanno ben oltre il «genere» del manuale.
La geometria variabile della governance
«La città - dichiarano fin dall'introduzione i due autori - rappresenta un terreno cruciale nel quale il processo di globalizzazione assume modalità concrete e riconoscibili di realizzazione, ma al tempo stesso anche conflittuali e basate su rapporti di forza tra spazi e gruppi sociali in costante evoluzione». Questa enfasi sui conflitti (che costituisce anche l'esito di una opportuna rivisitazione della sociologia urbana degli anni Settanta, e in particolare dei lavori di Henri Lefebvre sul «diritto alla città» e sulle lotte per la «giustizia sociale urbana») assume nel libro un rilievo di metodo, distinguendolo da molte analisi critiche del neoliberalismo anche al di fuori dell'ambito strettamente urbano: i temi fondamentali attorno a cui si snoda l'analisi dei due autori - la trasformazione delle tecniche di governo urbano, il ruolo di «cultura» e «creatività» nello sviluppo delle città contemporanee, il ricorso alla forza e la sua spettacolarizzazione come modalità ordinarie ed eccezionali di organizzazione delle relazioni sociali urbane - vengono presentati una prima volta seguendo il filo conduttore dei paradigmi di governance e delle retoriche dominanti. Ma subito dopo (ed è quasi superfluo aggiungere che i due momenti sono raramente distinti con questa nettezza) vengono «letti e reinterpretati nel loro "rovescio"», dal punto di vista delle lotte e dei movimenti che mettono in questione il «contenuto di giustizia sociale presente nell'esperienza urbana contemporanea».
La nozione di giustizia e di lotte per la giustizia è in particolare al centro della terza parte del volume («La politica come contestazione»), dove - sullo sfondo di una ricostruzione dei dibattiti teorici più generali sui temi della giustizia e della cittadinanza - è presentata una mappa, necessariamente parziale, dei più significativi movimenti sociali urbani degli ultimi anni su scala globale: da quelli contro le privatizzazioni di aziende municipali a quelli contro i processi di gentrification, da quelli negli slum e nelle banlieues a quelli di minoranze discriminate su basi «razziali» o «sessuali» per fare qualche esempio.
Ma il principio di metodo che si è indicato sostiene l'analisi di Rossi e Vanolo anche nelle altre due parti del libro. La prima è dedicata a «La politica come rappresentazione», e propone un'analisi delle retoriche neoliberali che va ben oltre il piano di una semplice critica dell'ideologia, per porre il problema della funzione e del ruolo «performativi» dei discorsi e delle rappresentazioni della città: per richiamare cioè l'attenzione sui loro effetti immediatamente materiali, nella misura in cui assecondano e impongono trasformazioni degli assetti di potere e della distribuzione della ricchezza che vanno indagate nei diversi contesti locali (l'esempio portato a questo proposito è quello della retorica della «città culturale e creativa» e del cosiddetto «marketing territoriale», che assume come criterio di riferimento le graduatorie che classificano le città in base alla loro capacità competitiva). La seconda parte è infine dedicata a «La politica come governo», e studia - in una prospettiva foucaultiana - i molteplici processi attraverso cui la «razionalità governamentale» neoliberale si è imposta ed è stata tradotta in diversi contesti urbani, chiamando le città a costituirsi in attori collettivi operanti secondo una logica imprenditoriale di competizione e cooperazione con altre città e rimodellando in questo senso la propria immagine, il proprio territorio e le relazioni sociali prevalenti al proprio interno (e un'attenzione particolare è qui prestata alla «politica della paura» nonché ai processi di auto-segregazione e zoning a cui essa fornisce alimento).
Indagata secondo le tre dimensioni della rappresentazione, del governo e della contestazione, la politica urbana emerge dal libro di Rossi e Vanolo nella sua intera complessità, nel suo dritto e nel suo rovescio per riprendere l'immagine utilizzata dagli autori. L'esplosione della bolla immobiliare nel 2008, vero e proprio elemento di congiunzione tra i processi di finanziarizzazione dell'economia e lo sviluppo urbano su scala globale, segna indubbiamente un punto di non ritorno e di crisi per la città neoliberale.
Riprendersi la città
D'altro canto, è giusto rilevare, con Rossi e Vanolo, che se il campo urbano si configura come carico di potenzialità in un'ottica di trasformazione sociale e di «democrazia assoluta», tre decenni di politiche e retoriche neoliberali ne hanno fatto «uno spazio governato in profondità, e in modo sempre più sofisticato, mediante l'attribuzione selettiva di libertà e facoltà di agire». Reinventare il «diritto alla città», la «cittadinanza come luogo comune», significa fare i conti con questi processi di governo, ma soprattutto - approfondendo l'analisi del loro «rovescio» - individuare i soggetti, le filiere di cooperazione sociale, gli istituti politici e giuridici che possono materialmente rendere effettivo quel diritto e incarnare quella cittadinanza.
L´individualismo è il fondamento politico e ideale della democrazia e non è identico né a egoismo antisociale né a indifferenza verso gli altri e la politica. Questo rende la distinzione tra forme di individualismo un esercizio tutt´altro che scolastico e inutile. Secondo i critici e gli storici del costume, la massima del «me ne frego» rifletterebbe la componente più longeva del nostro «carattere nazionale», quella che resiste ai mutamenti di regime e sopravvive inossidata alle più diverse stagioni politiche.
L´individualismo che in questi anni recenti si è ripresentato con una prepotenza e una volgarità che non cessano di stupire è proprio di una società moderna che è strutturalmente individualista, fatta di cittadini che sottostanno a regole sociali e politiche basate sul principio delle eguali libertà e opportunità, che cioè condividono la cultura dei diritti. Questo individualismo possessivo e conformista, litigioso e docile, facilmente disposto a manipolare le norme e subire il dominio dispotico della logica consumistica, si interseca con l´immagine di una società priva di un centro di valori etici che fungano da forza di gravità, come il rispetto per gli altri, siano essi cittadini e non; l´eguaglianza di cittadinanza ma anche di umanità; la solidarietà come amicizia tra cittadini, ma anche come empatia tra esseri umani. Senza queste forze etiche a un tempo dell´individuo e del cittadino, la libertà individuale che i diritti civili garantiscono ed esaltano può trovarsi di fronte a due rischi: essere sentita come normalità dai molti, poiché avere diritti significa anche poter vivere il proprio quotidiano con una certa sicurezza e senza quasi accorgersi di essi; e diventare un privilegio di alcuni, così da essere erroneamente identificata con i particolari diritti goduti da chi è maggioranza su un territorio per voto, opinione o tradizione.
Questa inversione di significato, che ha spesso effetti nella pratica quotidiana e perfino amministrativa, segnala un´incrinatura del legame tra eguaglianza e libertà. È lo specchio di una profonda trasformazione della cultura etica e dell´educazione dei sentimenti che ha facilitato una torsione dell´individualismo democratico in individualismo antisociale e tirannico, oppure apatico e indifferente verso i destini della comunità umana più larga, nazionale o universale. Studiare l´individualismo è importante per vedere e comprendere criticamente questo inquietante fenomeno di ridefinizione della libertà secondo la logica del possesso (individuale e/o collettivo), e di rilettura della democrazia in chiave di regime della maggioranza.
La strada che propongo di seguire è quella suggerita dall´analisi sociopolitica di Alexis de Tocqueville nel suo libro-indagine La democrazia in America (1835-1840). Tocqueville proponeva di trattare l´individualismo come una categoria politica, non morale; come un «sentimento ragionato» di cittadini che vivono insieme secondo regole e principi democratici, e di individui che operano in un´economia di mercato secondo calcoli di interesse. Di qui occorre partire quando lo si voglia analizzare criticamente. Perché è importante procedere da questa premessa politica? Lo è per due ragioni tra loro legate: innanzitutto perché avendo chiaro il carattere dell´individualismo democratico è possibile sottoporre l´individualismo ad una analisi critica coerente; e in secondo luogo per impedire che la critica dell´ideologia individualista si traduca in soluzioni antindividualiste, esterne o contrarie all´ordine democratico. Ora, se ci soffermiamo sui fenomeni che più colpiscono la nostra immaginazione – quello dell´apatia, dell´individualismo tirannico e possessivo – vediamo che, benché estreme, queste forme non sono eccentriche rispetto alla società e alla cultura liberaldemocratica. Per anticipare in poche battute il tema ispiratore di questo libro possiamo dire che la relazione tra libertà ed eguaglianza è il nodo tematico cruciale per intendere e valorizzare il significato dell´individualismo nella società democratica, ma anche per vederne e criticarne le torsioni e le aberrazioni; per distinguere, cioè, tra forme di individualismo.
Prima di tutto vorrei parlare del mio amico Vezio. Le mie città è, infatti, il primo libro in cui egli si rivela in una dimensione più autobiografica. E ci consente di entrare anche negli ambiti più personali della sua opera di urbanista e di politico. Vorrei seguire un'analogia tra l'autore e il contenuto del libro. Le città sono costituite dai grandi viali che tutti conoscono e poi dalle viuzze più interne che rivelano il proprio fascino solo ai cittadini più affezionati. Vi propongo, come si fa quando si visita una città sconosciuta, una guida insolita a Vezio De Lucia, nel senso di un'interpretazione più ramificata del suo percorso culturale, lasciando i viali più noti e spesso contrassegnati dagli stereotipi che gli sono stati attribuiti nel dibattito pubblico.
I critici hanno sempre descritto De Lucia come un cartesiano e nei tempi che corrono questa è un’accusa molto dura. Dopo aver letto il libro, però, torna in mente un aspetto dimenticato della filosofia cartesiana come pensiero sorretto da una geometria della passioni. Io credo che dietro il rigore di De Lucia ci sia un gusto per la meraviglia, intesa come passione dell'intelligenza. La meraviglia è uno strumento conoscitivo poiché promuove l'immaginazione di soluzioni radicalmente diverse rispetto all'andamento consueto delle cose. E' il come se dell'invenzione progettuale. Spesso nella sua pratica urbanistica ricorre alla meraviglia per aprire una fase nuova. Basta leggere il racconto del suo incipit a Napoli con la pedonalizzazione di Piazza Plebiscito, dai più considerata una follia, ma che proprio per il suo fattore sorpresa costituisce un programma di governo immediatamente percepibile dai cittadini. La stessa funzione di spiazzamento agisce anche nella dinamica politica quando l'intero consiglio comunale partenopeo rimane incantato nel seguire la presentazione del nuovo piano regolatore che diventa una lezione di cultura urbana.
Nella sua geometria delle passioni c'è una feconda ortogonalità tra il rigore metodologico e gli ideali morali. Questo è il punto di intersezione tra la dimensione personale e il discorso pubblico, tra la necessità e la volontà, tra il metodo e l'invenzione. Queste sono le tensioni creative che animano il racconto di una vita.
Al centro della dicotomia
tra tecnica e politica
Per comprendere il libro, a mio avviso, bisogna collocarsi al centro delle sue dicotomie. Una delle più esplicative è forse quella tra tecnica e politica. Questa tensione guida non solo l'autobiografia personale, ma, in una certa misura, anche l'interpretazione della storia repubblicana.
Vezio ha svolto con orgoglio il ruolo di funzionario dello Stato. Oggi egli porta avanti egregiamente l’attività libero-professionale, però, nel testo emerge tutta la predilezione per la funzione pubblica dell'urbanista, secondo una concezione weberiana del funzio-nario statale come sintesi alta tra tecnica e politica.
Tutto ciò è chiaro già nei primi capitoli che costituiscono una sorta di romanzo di formazione del giovane urbanista, in cui campeggia la figura di un maestro come Michele Martuscelli, grande direttore del Ministero dei Lavori Pubblici, un uomo all'antica, un carattere ruvido, un funzionario integerrimo e dotato di alto senso dello Stato. Nell'amministrazione pubblica allora si potevano trovare, in mezzo a burocrati inefficienti e funzionari felloni, figure di alto profilo morale e professionale per le quali valeva il motto il mio capo è il mio maestro. In esse la funzione gerarchica corrispondeva alla leadership tecnica, il ruolo di capo si accompagnava ad una costante attività di formazione dei propri collaboratori. Oggi è difficile che nella pubblica amministrazione qualcuno possa dire il mio capo è il mio maestro, perché quasi sempre la figura del capo è ridotta alla mera funzione gerarchica, non solo a causa della decadenza dell'amministrazione, ma spesso anche per una malintesa modernizzazione manageriale che ha privilegiato la tuttologia arrogante rispetto alla saggezza professionale. Entrando nel ministero di Porta Pia, il giovane urbanista incontra una statualità di alto profilo, che legittimava la propria funzione a partire da una presa di distanza dalla sfera sociale. Nella burocrazia come corpo separato – secondo un'espressione allora in voga - convergevano elementi di segno molto diverso. Da una parte certamente un atteggiamento reazionario di prerogativa castale - in parte rafforzato dal fascismo - ma allo stesso tempo un orgoglio del proprio ruolo di tutela dell'interesse generale e quindi di indipendenza rispetto ai condizionamenti esterni sia di natura economica sia di carattere politico.
Successivamente il movimento democratico ha condotto una battaglia contro l'elemento reazionario, senza però riuscire a conservare l'elemento positivo di orgoglio statuale. Nel lungo periodo quindi la sacrosanta democratizzazione degli apparati è approdata ad una volgarizzazione della funzione pubblica che la rende ormai vulnerabile nei confronti delle pressioni di interessi speculativi di vario tipo, come purtroppo è sotto gli occhi di tutti.
Dal primo centro sinistra
alla Seconda Repubblica
La relazione tra tecnica e politica si presenta nel suo massimo splendore nel primo centro sinistra, quel periodo decisivo per la formazione politica e professionale di Vezio che costituirà un riferimento costante per tutta la sua opera successiva. La cultura della programmazione è il momento in cui tecnica e politica non solo si riconoscono, ma si legittimano a vicenda e non a caso trovano la migliore sintesi nei protagonisti di allora, ad esempio Saraceno e Giolitti.
Negli anni Settanta il rapporto evolve in una dimensione più sociale, perché i saperi specialistici si mettono al servizio di una grande politica di emancipazione popolare. Ed è la grande stagione dell’INU, con De Lucia segretario generale, in cui la cultura urbanistica assume il sostegno alle lotte sociali quasi come un dovere disciplinare.
Poi il rapporto cambia ancora negli anni ottanta quando la tecnica è ormai rinchiusa in un fortino assediato da esponenti del CAF come Nicolazzi e Prandini. Così, un dirigente dello Stato competente e stimato come De Lucia viene cacciato dal Ministero dei Lavori Pubblici perché quell'autonomia tecnica è ritenuta un impaccio dalla classe politica ormai lanciata a tutta velocità verso l'abisso di Tangentopoli.
La Seconda Repubblica ripete lo stesso percorso, ma in modo più accelerato. Ciò che si era realizzato in un trentennio, ora si consuma in un lustro. All'inizio degli anni novanta il ricambio della classe politica suscita nuovi entusiasmi riformatori e sopratutto nel governo delle maggiori città italiane ritorna il fascino dei tecnici, ma ben presto questi vengono scalzati dal ritorno delle lottizzazioni assessorili. L'esperienza di Vezio come assessore a Napoli rappresenta questa parabola. Viene chiamato come tecnico al governo della città e in una sola consiliatura porta a compimento con successo il suo programma, maturando però nel contempo le ragioni di un distacco che intuiscono con largo anticipo i difetti risultati poi evidenti nella crisi dell'esperienza amministrativa napoletana.
A Roma, invece, alla fine degli anni ottanta, Vezio si afferma come uomo politico, proprio a partire dal suo prestigio di urbanista. La militanza politica diventa una sorta di prolungamento della cultura tecnica con altri mezzi. Nei suoi discorsi ricorre spesso la nostalgia e l'attualizzazione dell'esperienza del primo centrosinistra. Ciò crea curiosi equivoci nel dibattito interno al partito comunista, descritti con gusto nel libro, ma che voglio sottolineare come testimone di quel periodo. Da un lato la sua posizione è catalogata come migliorista perché allude al rapporto positivo col partito socialista, anche se quello degli anni sessanta. D'altro canto però la destra del Pci in quella fase è molto sbilanciata verso il consociativismo, duramente stigmatizzato invece da De Lucia, che su questo trova molti consensi nella base del partito e in particolare nelle tendenze di sinistra. Qualcosa del genere si ripete a parti invertite nell'esperienza napoletana, quando viene criticato dalla sinistra operaista che gli rimprovera la deindustrializzazione di Bagnoli, la quale per la verità era già stata consumata molto tempo prima. Anzi, il piano urbanistico intende restituire a quell'area un'alta qualità urbana in diretta collisione con gli interessi speculativi. La sua posizione suscita alternativamente consensi a destra e sinistra proprio perché si basa su un rapporto originale tra tecnica e politica. Allo stesso tempo la sua posizione guadagna un prestigio generalizzato proprio perché sfugge alle classificazione ideologiche del dibattito interno.
In quegli anni mi capita spesso di accompagnarlo nelle assemblee nelle sezioni del PCI e sono ammirato della sua capacità di parlare con semplicità di problemi urbanistici riuscendo ad appassionare il popolo delle periferie su proposte che, partendo da considerazioni tecniche, diventano immediatamente discorso politico di più ampia portata e comprensibile anche ai non addetti ai lavori. Appunto, l'esercizio della meraviglia come progetto di città.
Aldilà di questi aspetti di stile, Vezio ebbe un ruolo decisivo nel collocare il PCI romano in aperta contestazione del CAF, cioè la grande alleanza tra Craxi, Andreotti e Forlani che a Roma significava soprattutto Sbardella. Nella capitale l’opposizione contrastò il modello di Tangentopoli prima che arrivassero i magistrati, mentre in altre città – ad esempio Milano e Napoli - prevalse il consociativismo. La nuova giunta capitolina nacque, quindi, in continuità con la politica di opposizione degli anni precedenti.
Rimpianto per Roma
Qui emerge però il punto per me più dolente del racconto. Dopo aver svolto quella rile-vante funzione politica, Vezio venne escluso nella formazione della squadra di governo. Ripensandoci dopo tanto tempo, credo si possa dire che sia stata una perdita per l’urbanistica romana. Ne parlo anche con il rammarico di non essere riuscito allora a contrastare quella scelta. La sua assenza nel governo capitolino ha pesato negativamente sull’esito del quindicennio. I pregi delle nostre amministrazioni sono ben noti e saranno ricordati sempre meglio nei prossimi anni in seguito agli insuccessi della destra di Ale-manno. Però, se vogliamo condurre una serena analisi autocritica di quel periodo risulta evidente che il limite maggiore è stato registrato proprio nella politica urbanistica. Lo dico assumendo la mia parte di responsabilità perché ho avuto voce in capitolo per un periodo non breve. D'altronde, proprio noi che abbiamo governato dovremmo promuovere una riflessione libera su quegli anni.
La strategia del policentrismo è stata guidata da una retorica che ha smarrito la coerenza tra le parole e i fatti. Quegli insediamenti chiamati centralità non sono altro che i residui del piano regolatore del ’62 e di fatto svolgono una funzione meramente espansiva e per niente trasformativa dell’attuale struttura urbana. Infatti, non possono essere tanto potenti da modificare le gerarchie consolidate nella dinamica centripeta e però nel contempo sono abbastanza rilevanti da far sentire l’effetto di un'ulteriore disseminazione insediativa nell’agro, con tutte le conseguenze negative di allungamento degli spostamenti e di aumento dell’entropia nelle relazioni tra le parti di città.
Negli ultimi quindici anni tutte le nuove costruzioni sono state localizzate intorno al Gra oppure oltre il Gra e questo ha provocato un forte aumento del pendolarismo, perché i residenti dei nuovi quartieri continuano a recarsi per lavoro nelle aree centrali. La politica urbanistica ha quindi prodotto un aggravamento del traffico proprio mentre si tentava con altri provvedimenti di curare la radice antica di questa patologia. Il piano ha risposto a questo problema ponendo l’esigenza di nuovi tracciati di linee metropolitane, ma ciò è inattuabile in una città che nel frattempo è costretta a recuperare un deficit infrastrutturale di quasi un secolo. Mentre si vanno costruendo le metropolitane che restituiscono l'accessibilità alla città esistente si deve evitare di produrre ulteriore domanda di trasporti con insediamenti troppo diradati e lontani dalle aree centrali. Altrimenti Achille non riuscirà mai a raggiungere la tartaruga.
Per fare un piano regolatore davvero nuovo non bisognava limitarsi ad attuare i residui del vecchio piano del ’62. Era ed è necessario un cambiamento profondo della logica di trasformazione. I nuovi insediamenti dovrebbero essere localizzati nella parte consoli-data della città, dentro gli interstizi e gli spazi ampi lasciati liberi dalla disordinata politica urbanistica del secolo passato. Non dimentichiamo, infatti, che Roma è una città a bassa densità, almeno su scala vasta. Certo, se andassi a Corcolle a dire che viviamo in una città quasi vuota, rischierei di non concludere serenamente il mio discorso, perché quei cittadini hanno la percezione di trovarsi in un ingolfamento urbano, perché la den-sità puntuale in quel quartiere forse è molto alta e soprattutto le relazioni con il resto della città sono molto deboli. Ma ciò non toglie che Roma sia una conurbazione diradata con ampi margini di trasformazione al suo interno. Invece di assecondare lo sprawl metropolitano sotto la retorica del policentrismo, si deve mutare il verso della trasfor-mazione e riportare le funzioni residenziali nella città consolidata, ottimizzando quindi anche gli investimenti per le nuove metropolitane che su quella scala sono ormai in via di realizzazione.
Una riflessione ancora su Napoli, dove l'assessore De Lucia compie una mossa imprevista rispetto allo stereotipo che gli viene attribuito di urbanista rigidamente affezionato alla pianificazione generale. Di fronte alle gravi urgenze della città inverte il metodo e opera per singole varianti volte a risolvere grandi temi urbani, in primis quello di Bagnoli, ma tenute insieme da una coerente logica politica che successivamente verrà formalizzata nel nuovo piano regolatore. Questo strumento, infatti, si è rivelato molto solido negli anni seguenti per regolare i rapporti tra interesse pubblico e convenienze private. Non a caso, anche se la politica partenopea è stata segnata diverse vicende di degrado amministrativo, nessun fenomeno di corruzione si è verificato nella gestione del territorio, a differenza di altre città italiane.
La mossa imprevista di partire dalle varianti era ispirata dall'esigenza di puntare direttamente alla soluzione di problemi ben definiti come invarianti rispetto alla pianifica-zione generale. Gli strumenti urbanistici erano mirati verso obiettivi di attuazione, mentre il programma politico si incaricava di garantire le scelte future. Alla tecnica era affi-dato il risultato dell'azione e alla politica la coerenza delle decisioni.
L’inversione dei ruoli
provoca cattiva pianificazione
A ben vedere, è proprio l'inversione di questi ruoli a produrre cattiva pianificazione, quando cioè la volontà politica è troppo attenta a soluzioni particolari che finiscono per stravolgere la coerenza generale, la quale è troppo debole se rimane affidata ad astratti strumenti tecnici. Detto in altri termini, la buona urbanistica si può fare solo se la politi-ca mette la forza nella scala sua propria delle grandi decisioni e non si frammenta nelle scelte attuative. Per questo un buon urbanista deve occuparsi di politica, come insegna la biografia del nostro autore.
Il mainstream urbanistico degli ultimi venti anni ha messo in discussione proprio questa esigenza di scelte politiche forti come presupposto della gestione del territorio. Da qui è venuta una malintesa concezione della governance, per la quale il pubblico rinuncia a scelte impegnative e gestisce insieme al privato senza una cornice attendibile.
Questa urbanistica concertata era partita da una polemica verso la rigidità e le lungaggini procedurali dei vecchi strumenti di piano, ma spesso è approdata a nuove metodologie che hanno reso ancora più complessa l'attuazione. La mancanza di decisioni forti di contesto non solo ha lasciato briglia sciolta agli interessi privati, ma ha favorito anche un irrigidimento burocratico della funzione pubblica. A Roma ad esempio, i piani integrati delle periferie, i così detti articoli 11, che erano nati proprio con la promessa di maggiore flessibilità, dopo quasi venti anni ancora non riescono ad aprire i cantieri. Forse oggi bisognerebbe riprendere il dibattito sugli strumenti urbanistici, partendo però da un bilancio realistico dei risultati raggiunti dalle diverse opzioni. Colgo l'occasione per chiedere a Umberto De Martino, che è persona saggia ed equilibrata, di farsene promotore.
In ogni caso, credo che anche questo libro consigli di passare dall'urbanistica degli aggettivi - concertata, integrata, innovativa - a quella dei sostantivi come ad esempio trasporto, casa, ambiente. Torna l'esigenza cioè di una pianificazione che si occupi di contenuti. Questo è sempre stato l'approccio di Vezio e in ciò si rivela il suo realismo, a di-spetto dello stereotipo che lo ha dipinto come un pianificatore astratto.
Nel suo approccio tecnica e politica sono sempre focalizzate nella ricerca di un risultato concreto e possibile. Non solo a grande scala, ma anche, ad esempio, nella pianificazione del recupero dei tessuti storici delle periferie napoletane dopo il terremoto del 1981. In quel caso, infatti, evita il classico rinvio ad un piano particolareggiato e segue una lettura tipologica dei tessuti edilizi per consentire un'immediata attuazione degli interventi nel pieno rispetto del principio conservativo. E' un esempio di come si possa rispondere meglio ad un'emergenza facendo buona urbanistica, mentre di solito in Italia si aggravano le emergenze facendo cattiva urbanistica, come si è accaduto recentemente a L'Aquila.
In conclusione, io credo che la tensione creativa tra tecnica e politica spieghi molto dell'opera teorico e pratica di De Lucia. A Napoli, si esprime come tecnico dell'urbanistica, a partire da una salda gestione delle priorità politiche. A Roma, invece, si afferma come politico, a partire del rigore metodologico dell'urbanista.
Questa tensione tecnico-politica, come ho detto all'inizio, spiega non solo la dimensione autobiografica del libro, ma anche quella storica, nella misura in cui la vicenda urbanistica italiana contribuisce, a mio avviso in modo rilevante, a spiegare passaggi cruciali della vita nazionale nella seconda parte del secolo.
Il tragico passaggio da Fiorentino Sullo
a Silvio Berlusconi
Giustamente nel libro la periodizzazione è scandita da quell'evento decisivo che è il fallimento della legge Sullo, forse non pienamente maturato nella coscienza storica del paese. In quegli anni il movimento riformatore coglie un risultato insperato nel mettere sotto controllo l'accumulazione capitalistica con le nazionalizzazioni dell'elettricità (an-che se con lauti compensi), ma paradossalmente non riesce a cogliere l'obiettivo di regolare la rendita immobiliare, pur essendo questo, almeno secondo i classici, un obiettivo alla portata di una strategia riformista. In Italia il partito della rendita si dimostra molto più forte di quello del profitto. Anzi, è proprio nella sconfitta di Sullo che il partito della rendita emerge come forza politica capace di dare un indirizzo opposto a quello del governo di centrosinistra formalmente al potere. Non a caso su quello scoglio si vanno a infrangere le speranze del riformismo socialista. Da quel momento il centrosinistra cambia segno e viene risucchiato dall'egemonia dorotea. Non dimentichiamo che per affossare la riforma dei suoli si scatenano forze telluriche, fino a rischiare il colpo di stato col famoso “rumore di sciabole”. Perfino una grande personalità come Aldo Moro piega la testa di fronte all'ascesa del partito della rendita.
Quindi è un grande evento della storia italiana in cui si afferma prepotentemente sul piano politico un primato del possesso privato rispetto al bene comune che d'altronde ha radici profonde nel carattere nazionale. Oggi, forse possiamo comprendere meglio la rilevanza di quel passaggio perché la logica patrimonialistica ha trovato nel berlusconismo non solo il naturale continuatore ma la sua espressione più compiuta e organica.
Nel passaggio da Sullo a Berlusconi si consuma il ribaltamento del rapporto tra rendita e modernizzazione del paese. Negli anni sessanta il discorso dell'urbanistica riformista trovava ascolto anche nel mondo industriale, allora molto sensibile riguardo alla necessità di liberare il profitto dalla zavorra della rendita. Vezio ricorda il tempo in cui Agnelli si scagliava contro la speculazione immobiliare, con un linguaggio che oggi sarebbe considerato estremistico: “Noi non ce la facciamo a sostenere i costi dello sviluppo industriale se la rendita aggrava il carico sulle famiglie e in generale sull’organizzazione sociale con questo peso della speculazione”. Sembrava quindi credibile l'affermarsi di un patto tra produttori - tra lavoratori e imprenditori - contro la formazione della rendita. Questa, infatti, era allora un'espressione del ritardo italiano e costituiva una forza del tutto marginale rispetto al movimento della modernizzazione capitalistica. Il suo impatto sul territorio fu devastante - con il sacco di intere città, Roma e Napoli innanzitutto - anche se la sua funzione economica era piuttosto rozza e tutto sommato marginale. Gli attori erano modesti - i palazzinari senza scrupoli e politici senza regole – tenuti insieme da relazioni del tipo descritto dalla famosa battuta di Evangelisti: “A Fra' che te serve?”. I rapporti con il mondo finanziario erano scarsi e non andavano al di là della fornitura del prestito bancario necessario per avviare la speculazione sulle aree.
Il rapporto tra finanza e immobiliare diventa più robusto negli anni Ottanta, quando entrano in campo i vari Ligresti, Caltagirone, Romagnoli, che realizzano una rete di colle-gamento tra il costruttore, l’amministrazione pubblica, le nuove attività terziarie e il marketing urbano. Il finanziere diventa il promotore e l'organizzatore del processo di formazione della rendita.
Oggi, infine, il fenomeno approda ad una sintesi compiuta con la costituzione del fondo immobiliare in cui la rendita sviluppata nel territorio diventa un'espressione della rendita immateriale della finanza. La formazione dei plusvalori speculativi viene a dipendere strettamente dal ciclo economico internazionale e il mattone diventa un prolungamento della speculazione finanziaria con altri mezzi. Di conseguenza la rendita immobiliare non è più un fattore di arretratezza, anzi diventa uno dei modi di espressione della modernizzazione finanziaria e ne assume tutto il potere di comando rispetto all'organizza-zione complessiva della società e dell'economia. Ma questo primato si fa sentire anche in negativo nelle dinamiche della crisi. Tutta l’economia mondiale si è inceppata proprio su questo rapporto tra rendita immobiliare e rendita finanziaria, quando cinque milioni di famiglie americane non sono state più in grado di pagare i mutui sulla case sorretti dalle finzioni dei subprime.
Rispetto agli anni cinquanta e sessanta quindi la rendita urbana è diventata molto più potente nel determinare gli obiettivi e gli esiti della trasformazione. Paradossalmente, però, a questo aumento di forza corrisponde una minore visibilità nella consapevolezza del dibattito pubblico e perfino nelle analisi critiche.
A parlare di rendita sono rimasti i riformisti di un tempo, quelli che le riforme volevano farle davvero e pensavano anche che dovessero tagliare le unghie alla speculazione. Con questo riformismo Vezio De Lucia è sempre stato coerente. Anche per questo il suo libro è prezioso e bisogna raccomandarne la lettura.
Paolo Cacciari, La società dei beni comuni, Ediesse, pp. 192, Euro 10
Lo spettro di un baratro verso cui stiamo inesorabilmente scivolando sta riaprendo la riflessione sui fondamenti della vita sociale, sul senso dello sviluppo, della crescita e del consumo, sulla «razionalità» del mercato, sugli stili di vita individuali e collettivi, sulla nostra quotidianità. È questo il succo dell'incontro che si è tenuto recentemente al centro sociale Rivolta di Marghera, attorno ai due grandi protagonisti attuali della scena pubblica e cioè gli operai della Fiom, i ricercatori, gli studenti medi e universitari.
In discussione è l'asse del vivere civile imposta al mondo intero dalla oligarchia che domina l'economia e la politica a livello planetario: la guerra di tutti contro tutti, chiamata eufemisticamente competizione mondiale. È la follia al potere. Quando avremo raggiunto il fondo a cosa ci attaccheremo per risalire? Non è dal potere che verranno le soluzioni. Perché «non si possono risolvere i problemi con gli stessi schemi di pensiero con cui sono stati creati».
Un nuovo paradigma storico si sta delineando, appena intravisto. È basato sulla cooperazione anziché sulla competizione, sulla condivisione anziché sull'appropriazione individualistica. Il nuovo paradigma si sta configurando come un nuovo patto tra gli esseri umani che però include necessariamente anche un nuovo patto con la terra, con la natura, con la vita. Un sogno? Un'utopia consolatoria senza aderenza alla realtà? Qualche volta il dubbio ci assale. E allora bisogna alimentare la speranza alle esperienze concrete, alle buone pratiche e anche alle buone teorie.
Ci viene in aiuto una recente pubblicazione curata da Paolo Cacciari pubblicata con il titolo La società dei beni comuni: una rassegna. «Il libro - è scritto nel risvolto di copertina - raccoglie diciannove opinioni di autrici e autori italiani che da diverse visuali disciplinari ... si sono confrontati con i temi dei commons. Aria, acqua, terra, energia, e conoscenza sono risorse speciali, beni primari da cui tutto dipende e la cui fruizione richiede quindi attenzioni particolari. L'applicazione a tali beni della logica del mercato ha sperimentato infatti i più clamorosi fallimenti. ... ma cresce anche l'opposizione da parte di numerosi gruppi di citttadinanza attiva».
Dopo una panoramica complessiva del problema offerta dall'introduzione di Paolo Cacciari e dal documento La società dei beni comuni redatto dalla Officina delle idee di «Rete@Sinistra», si snodano i vari contributi suddivisi in due grandi sezioni: «Le buone teorie» e «Le buone pratiche». Se è permessa una critica, posso rilevare l'assenza di una riflessione sulla memoria. La crisi strutturale che stiamo vivendo oggi c'impone di riscoprire criticamente nella nostra storia i germi di quelle esperienze alternative, di pensiero e di pratiche, che ci hanno preceduto. Non si tratta di riproporre oggi sogni, lotte, racconti del passato ma di ispirarsi di nuovo ai loro valori di fondo. La memoria del vivere sociale ha una grande vitalità generativa: produce identità collettiva, tesse la trama del tessuto relazionale della città, crea di continuo comunità solidali e ostacola i germi distruttivi della frantumazione egoistica.
La memoria sociale, però, non è solo questo. È anche un luogo di resistenza, anzi il luogo privilegiato della resistenza. Il neo-liberismo infatti si afferma nella misura in cui riesce ad annullare la memoria sociale. Perché è creatore di società-necropoli. Ha bisogno di produttori/consumatori senza identità sociale. Per questo salvaguardare la memoria sociale, spogliarla dalla ritualità necrofila, attualizzarla, è uno dei compiti più urgenti di chi vede un futuro per l'umanesimo sociale, per la solidarietà planetaria, per la società dei diritti a partire dai diritti sociali, per l'etica comunitaria aperta oltre i confini.
L'ultimo lavoro di Danilo Zolo critica dell'ideologia «progressista» usata dai potenti della Terra per legittimare il loro potere, perché punta a definire una agenda politica per uscire dall'irreversibile crisi della globalizzazione. Ma che sottovaluta la necessità di definire un orizzonte comune con l'Oriente
Danilo Zolo è una figura insolita nel panorama filosofico italiano. Egli, infatti, è da sempre un intellettuale disorganico, il cui forte impegno analitico e politico non è mai consolatorio, anzi è profondamente avverso a qualsiasi conciliazione risolutiva e rassicurante. Il suo stile intellettuale, sobrio ed inquieto, lo ha portato ad interrogare lungo il suo percorso anche tradizioni intellettuali diverse da quella italiana, e ad attraversare campi disciplinari spesso distanti, dalla filosofia politica alla teoria della conoscenza, senza concedere alibi né agli altri né a se stesso. In altre parole egli è l'opposto sia dell'accademico che del filosofo oracolare, che ama enunciare senza mai abbassarsi a dimostrare quanto dice.
Negli ultimi due decenni, quelli che hanno fatto seguito al crollo del sistema socialista e hanno visto l'estendersi dei processi di globalizzazione, il lavoro di Zolo è stato particolarmente prezioso perché ha preso di mira a tutto campo quella che potremmo chiamare l'ideologia dei vincitori. Anche in questa scelta si ritrova il tratto «scomodo» appena ricordato: Zolo non corre mai in soccorso dei vincitori, anzi potremmo dire che è preso dalla sindrome opposta, concentra il fuoco della sua critica proprio sui dispositivi ideologici, giuridici e istituzionali attraverso cui essi organizzano e riproducono il proprio dominio. È accaduto così che in questi anni egli abbia preso coraggiosamente di mira in sequenza la teoria della guerra umanitaria, l'ideologia dei diritti umani, l'aura di sacrale imparzialità che circonda le istituzioni internazionali e tutte quelle teorie che, dietro una pretesa universale e cosmopolitica, nascondono l'interesse dei vincitori, il dominio globale dell'Occidente atlantico. E vale forse la pena di ricordare che questa critica radicale dell'universalismo liberale nell'era della globalizzazione, non essendo Zolo mai stato un marxista, è aliena da qualsiasi nostalgia nei riguardi del passato.
Il suo ultimo libro non si limita però a confermare ed esaltare questo stile di lavoro, perché si propone di comporre le diagnosi critiche di questo ventennio all'interno di una rappresentazione unitaria, per tentare di definire la prospettiva verso la quale il pianeta è destinato ad avviarsi. Il quadro che ne deriva è sintetizzato nel titolo: Tramonto globale. La fame il patibolo, la guerra (Firenze University Press, pp. 226, euro 17,90). La tendenza che Zolo mette a fuoco è quella della crisi progressiva ed irreversibile dell'ideologia ottimistica e progressista con cui i vincitori hanno tentato di rappresentare il passaggio storico degli ultimi decenni. Se nel primo dei tre capitoli al centro dell'analisi è il declino dell'ideologia dei diritti umani e il crescente logoramento della sua capacità di mascherare le politiche di aggressione dell'Occidente, il secondo capitolo si concentra invece sul «tramonto globale» della democrazia.
Un sociale da reprimere
Quest'ultima sta perdendo sempre più quel carattere universalistico ed espansivo che l'aveva accompagnata negli anni dell'estensione del Welfare State, i cosiddetti «trenta gloriosi», e sembra aver ormai compiuto una radicale inversione di marcia. Al posto dei diritti sociali estesi a tutti i cittadini si vengono affermando imperativi securitari e la risposta alla pressione esercitata dalla massa crescente degli esclusi è ispirata a principi sempre più esplicitamente repressivi. Con un drammatico mutamento del codice dominante si è passati, dice Zolo, dalla prospettiva dell'inclusione progressiva ed universale a quella dell'esclusione e della repressione carceraria, dallo Stato sociale alla società penitenziaria. Se nei «trenta gloriosi» si era creduto di poter inglobare tutti, adesso le porte si sono chiuse e chi cade fuori dell'ordine sociale va trattato senza indulgenze e senza speranza: il ritorno all'esaltazione della reclusione e alla pena di morte è il segnale del tramonto dell'orizzonte progressista.
Questo quadro regressivo viene completato dall'ultimo capitolo, che Zolo dedica alla crisi verticale delle Nazioni Unite. Con le contraddizioni del globalismo giudiziario Zolo si era già confrontato, in modo particolare in Cosmopolis (1995), Chi dice umanità (2000) e I signori della pace (2001), nei quali aveva messo in risalto alcune conseguenze pericolose dell'ideologia cosmopolitica, in primo luogo quella della reintroduzione del concetto di «guerra giusta», che lo jus publicum europaeum aveva realisticamente messo da parte, fondando la messa in forma giuridica delle relazioni tra gli Stati sulla ricerca di equilibri tra le rispettive sfere di sovranità. Ma quelle contraddizioni sono diventate una vera e propria crisi allorché gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno ripetutamente scavalcato le Nazioni Unite quando loro conveniva. Questo passaggio segna una discontinuità drammatica, perché la rinuncia da parte del soggetto più forte ad accettare di «mettere in forma» la propria potenza ferisce in modo gravissimo non solo un'istituzione, ma l'ideologia stessa a cui essa si era ispirata, quel globalismo giuridico che, sotto la spinta dell'universalismo wilsoniano, aveva trovato in Hans Kelsen la sua espressione più «pura». Quando un'istituzione giuridica viene messa in crisi dagli stessi soggetti che ne avevano a suo tempo ispirato la costruzione, diventa evidente che essa ha ormai perso in modo irreversibile la propria credibilità.
Di fronte ad una crisi arrivata ad un punto così profondo, nelle ultime pagine del libro Zolo propone di sostituire al globalismo giuridico la nozione schmittiana di Grossraum, cioè di una serie di grandi spazi regionali, «ordinati e coesistenti, di sfere di intervento e di aree di civiltà», che «potrebbe determinare il nuovo diritto internazionale della terra». Questa prospettiva, che nei suoi tratti essenziali era già stata avanzata nelle ultime pagine di Cosmopolis, diventa oggi per Zolo di stringente attualità, perché solo essa permetterebbe all'Europa di giocare un ruolo autonomo, affrancandosi «dalla sudditanza politica e militare agli Stati Uniti» e scegliendo di «svolgere una funzione di equilibrio in un mondo nel quale stanno emergendo potenze regionali decise a liberarsi dall'universalismo imperiale degli Stati Uniti».
È da questo passaggio conclusivo del libro che vorremmo partire per svolgere qualche ulteriore considerazione su un punto non marginale della ricostruzione di Zolo che ci convince meno. La proposta schmittiana dei «grandi spazi» costituisce sicuramente un bagno di realismo politico a fronte dell'astrattezza e della doppiezza che minano il globalismo giuridico, ma, a sua volta, non è certo priva di ambiguità. Un impianto simile anima, ad esempio, il quadro teorico del famoso libro di Samuel Huntington sul conflitto delle civiltà. Anche Huntington afferma che l'epoca che si è aperta è quella della fine dell'egemonia dell'Occidente e dell'affermarsi di un «sistema a più civiltà», ma nella sua ricostruzione tale sistema è esposto in modo costante al rischio che la pluralità si trasformi in conflitto. Se l'universalismo giuridico ha dimostrato di non poter essere la soluzione, non ne discende in nessun modo la garanzia che il pluralismo non si rovesci (del resto è già accaduto con il primo conflitto mondiale) in uno scontro, che le civiltà non si chiudano nelle proprie ragioni, rendendosi ognuna impermeabile a tutte le altre. In altri termini si corre il pericolo di passare dall'universalismo dei più forti ad un pluralismo minato dal sospetto e sempre sul punto di rovesciarsi in scontro aperto quanto feroce.
Civiltà a confronto
Anche se il globalismo giuridico comporta le conseguenze che Zolo mette in luce, permane, in tutta la sua drammaticità, la necessità di ridurre l'estraneità reciproca dei soggetti, di trovare una base minima di traduzione e di intesa tra di essi. L'universale del futuro sarà molto diverso da quello che abbiamo conosciuto, perché dovrà essere il risultato di una costruzione a più mani, una base minima di valori comuni e condivisi che, senza estinguere la ricchezza che viene dalle differenti civiltà, le aiuti a superare l'incommensurabilità e intraducibilità delle rispettive ragioni. Chi scrive è, ad esempio, convinto che un confronto schietto e leale tra Oriente ed Occidente potrebbe essere prezioso anche per costruire forme nuove di equilibrio tra la libertà del singolo e coesione sociale. Facile a dirsi, molto difficile a farsi, ma forse proprio per questo bisogna muoversi subito in quella direzione, partendo dal lavoro di coloro che sono gia partiti, da Raimon Pannikar all'ultima fatica di François Jullien su L'universale e il comune. Il tramonto annuncia la notte, ma prelude anche all'arrivo del nuovo giorno e iniziare a lavorare può accorciare le ore di oscurità. Anche se l'alba non dovesse essere vicina bisogna farsi trovare preparati.
In altre parole non riusciamo a condividere l'elogio del pessimismo che attraversa Tramonto globale. Certo, è possibile che esso sia, come pretende Zolo, «la saggezza degli uomini coraggiosi che amano intensamente la vita propria e la vita degli altri, guardano la morte in faccia e non sanno che farsene del paradiso». Un sentimento da rispettere, ma difficile da condividere. Essere minoranza non è mai una consolazione, ma un problema che non si riesce a risolvere.
Come è ben noto, nella seconda metà del XX secolo le personalità italiane più influenti per ciò che riguarda la storia dell’architettura moderna, pur con tutta l’ambiguità di questa definizione, sono Giulio Carlo Argan (1909-1992), Bruno Zevi (1918-2000), Manfredo Tafuri (1935-1994) e Leonardo Benevolo. Quattro personalità molto diverse, sovente opposte per quanto attiene allo sguardo sulle ragioni storiche, ideologiche, e i giudizi di valore, intorno a cosa sia stata e abbia significato (e forse significhi ancora) la modernità in architettura.
Leonardo Benevolo dopo aver pubblicato una ventina di libri intorno all’argomento (tra i quali, nel 1960, la sua celebre Storia dell’architettura moderna; nel 1963 Le origini dell’urbanistica moderna; nel 2008 L’architettura del nuovo millennio) ha in questi giorni edito una lunga intervista dal titolo La fine della città (Laterza, pagine 160, e 12) in cui conversa con Francesco Erbani su questo minaccioso argomento (soprattutto sui destini della città europea) concretamente connesso al racconto delle esperienze di pianificazione di Brescia, Roma, Palermo, Urbino, Venezia.
Ovviamente la cultura della globalizzazione in quanto cultura del capitalismo finanziario ha, nello sviluppo infinito e senza regole, un valore che si rispecchia nei modi in cui la città, affascinata dal modello della supermetropoli, si costruisce e si dilata secondo l’ideologia della deregolazione e la cui omogeneità rappresenta una perdita progressiva del valore della differenza tra le culture. Alla previsione di un qualche ordine costruito nell’interesse civile si sostituisce un accostamento di oggetti ingranditi in competizione per dimensione e per bizzarria senza fondamento di senso in un accostamento senza disegno degli spazi tra le cose, in quanto disegno urbano.
E Leonardo Benevolo parla di questi problemi soprattutto a partire dai destini della città europea e della sua storia. L’ultimo capitolo del libro inizia, come il primo, con un richiamo all’architettura come «ricerca paziente» secondo l’insegnamento di Le Corbusier. È una citazione che vuole essere radicalmente dialettica rispetto all’architettura dell’ «advertising» , dell’architetto «come protagonista mediatico» , delle archistar piccole e grandi. Essi, scrive Benevolo, «appartengono a un sistema che non è certo quello dell’architettura moderna» .
«L’idea di città— aveva scritto nel primo capitolo— pone il problema del limite: non compete con lo spazio infinito» , proponendosi così un rovesciamento dell’attuale modello della supercittà con un’estensione illimitata dello sprawl (lo spazio urbano). «Molto istruttivo è il caso di Milano— scrive Benevolo —. Tranne il caso Bicocca, che resta un’eccezione, il meccanismo della valorizzazione fondiaria relega le scelte progettuali in zone marginali» . E prosegue: «Molto indicativa è la vicenda dell’ex Fiera, dove è stato scelto il progetto peggiore» (e, aggiungo io, nel modo peggiore, con la complicità delle amministrazioni). «È il privilegio accordato al disordine— aggiunge Benevolo — forse l’ultimo privilegio concesso all’architettura» .
E poi: «La distruzione del paesaggio italiano non è casuale: è stato pagato in contanti» scrive concludendo le sue dichiarazioni. Il libro è scritto sotto forma di una intervista che descrive in larga parte la sua biografia, una biografia di professore, di urbanista e di storico, e della sua stessa avventura professionale: eventi e relazioni a partire dagli anni del primo dopoguerra a Roma, con i relativi intrighi e con le sue battaglie civili. Ma è anche una cronaca che motiva con grande rigore morale e con grande senso della responsabilità la severità di suoi giudizi sullo stato della cultura architettonica e della città non solo italiana.
PAESAGGIO, DISASTRO ITALIAN
di Costantino Cossu
La battaglia per l’ambiente nel libro di Salvatore Settis - «In Sardegna dopo la giunta Soru si è tornati alla devastazione»
«Vedere il bene comune come fondamento della democrazia, della libertà e dell’eguaglianza, rivendicare il pubblico interesse, cioè i diritti delle generazioni future». Così Salvatore Settis nel suo ultimo libro «Paesaggio, Costituzione, cemento» (Einaudi, 36 pagine, 19 euro). Archeologo e storico dell’arte, già direttore del Getty Research di Los Angeles e della Normale di Pisa, titolare a Madrid della «Càtreda del Prado», Settis ha scritto un manifesto denuncia (vedi la recensione qui sotto) delle condizioni disastrose in cui versa in Italia il paesaggio. Un atto di accusa, lucido e documentatissimo, contro «l’inerzia di troppi politici (di maggioranza e di “opposizione”») e un appello all’«azione popolare» per fermare la devastazione.
- In Italia la protezione del paesaggio è scritta nella Costituzione e, a partire dalla legge Galasso, sono molte le buone norme di tutela. Perché allora si distrugge tanto?
«E’ il tema principale del mio libro. La spiegazione del paradosso che lei rileva sta da un lato in un eccesso di legislazione (che spesso si traduce in incertezza e in arbitrio) e dall’altro nel contrasto tra legislazione nazionale e legislazione regionale. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, ho dedicato un capitolo intero al tentativo di dimostrare che l’articolo 9 della Costituzione, quello che prescrive la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione, è nato dall’esigenza che con preveggenza chi ha scritto la Carta avvertiva di contrastare un eccesso di autonomia dei poteri locali in una materia in cui gli interessi particolari hanno sempre premuto in maniera fortissima. Concetto Marchesi, uno dei padri della Costituzione, parlava in proposito di una possibile e pericolosa «raffica regionalistica» contro le norme nazionali di tutela. Raffica che, soprattutto a partire dagli Settanta, quando le Regioni sono diventate una realtà istituzionale, puntualmente s’è scatenata. Il territorio, il paesaggio, l’ambiente, sono diventati terreno di battaglia tra Stato e Regioni, un contrasto tra poteri pubblici che ha aperto interstizi e zone grigie, un varco attraverso il quale è passata la devastazione».
- Lei contesta che l’ossessione edilizia abbia ragioni economiche fondate. Perché?
«In Italia il tasso di crescita demografica è bassissimo, eppure siamo il Paese europeo che ha il maggior consumo di territorio: vengono quindi costruite abitazioni che non servono a nessuno. Abbiamo dovuto assistere all’indegna commedia del Piano casa. A livello nazionale la proposta lanciata da Berlusconi nel 2009, in campagna elettorale, non s’è mai tradotta in una legge e però le Regioni sono state istigate a farli i loro piani casa, tutti illegittimi. Si cerca di far passare l’idea che l’unico modo per rimettere in moto l’economia sia rilanciare l’edilizia. E invece è l’opposto che occorrerebbe fare. La crisi mondiale è stata scatenata dalla bolla immobiliare negli Usa. E si sono visti Paesi, ad esempio l’Irlanda, dove s’è costruito sino al quintuplo di ciò di cui c’era bisogno senza che questo evitasse addirittura la bancarotta dell’intero sistema economico nazionale. Non è vero che investire nel mattone è l’unico modo per rilanciare l’economia. Al contrario: investire capitali nell’edilizia vuol dire bruciare flussi finanziari che invece potrebbero essere impiegati molto più produttivamente in altri settori».
- Perché in Italia la cultura di tutela del paesaggio è più debole che in altri Paesi europei?
«In realtà noi abbiamo una tradizione importante di studi e di legislazione. In questo momento l’idea del bene comune appare sconfitta dall’idea del privilegio di chi ha i soldi, di chi ha le proprietà, di chi vuole devastare per proprio esclusivo profitto. Crescono però i segnali di una presa di coscienza. Nascono associazioni di cittadini che si oppongono alla tendenza dominante. A San Benedetto del Tronto, ad esempio, per combattere una lottizzazione che avrebbe rovinato un paesaggio unico, un gruppo di cittadini ha raccolto 4 mila firme e ha ottenuto un referendum comunale che probabilmente sarà vinto».
- Perché in Italia non esistono movimenti ambientalisti capaci di pesare sulle scelte politiche nazionali come quello di Cohn-Bendit in Francia e dei Grünen in Germania?
«Da noi la crisi della politica dopo Tangentopoli è stata segnata dall’estinzione di grandi partiti di massa che avevano una tradizione anche di idee: la Dc, il Pci, il Psi. Partiti sostituiti da forze politiche che sono tutte, senza eccezione, prevalentemente organizzazioni di raccolta del consenso in termini elettorali, molto di rado laboratori di idee. Questo ha impedito ai movimenti di avere una solida sponda politica e quindi un’incisività anche istituzionale».
- E della situazione in Sardegna che cosa pensa?
«Sono stato sempre molto impressionato dalla determinazione e dalla coerenza con cui Renato Soru e la sua amministrazione hanno tentato di dare un futuro alla Sardegna attraverso scelte coraggiose. Purtroppo, con la fine dell’amministrazione Soru quella tendenza s’è capovolta: a uno sguardo lungimirante s’è sostituto uno sguardo miope, di cortissimo respiro, senza alcuna preoccupazione per il bene comune, con un cedimento totale agli interessi immediati di pochi contro quelli di tutti. Anche nel campo dei beni culturali c’erano con Soru idee forti: il museo del Betile e il recupero di Tuvixeddu, ad esempio. Il caso della necropoli punica di Cagliari è emblematico. L’unicità e la vastità del sito archeologico, archivio di una fase storica importantissima, in cui la Sardegna ha avuto un ruolo centrale non solo rispetto all’Italia ma rispetto al Mediterraneo e quindi al mondo, suggerirebbe di tutelarlo al massimo. E invece si stanno impiantando nuove costruzioni, le cui fondamenta sono destinate a distruggere parti essenziali della necropoli. Io trovo tutto ciò delittuoso, un segno di barbarie. Non dobbiamo, però, rassegnarci: bisogna indignarsi, invece, tenere viva la speranza. “Si sa indignare - scriveva Seneca - solo chi è capace di speranza”».
L’ASSALTO DEI CEMENTIFICATORI
ALLE NORME COSTITUZIONALI
di Sandro Roggio
Nel volume le ragioni che hanno portato ad un degrado crescente, nell’indifferenza della politica - Mobilitazione dal basso con un forte richiamo etico
C’era attesa per questo nuovo libro di Salvatore Settis «Paesaggio, Costituzione, cemento». Non solo chi si occupa di tutela di beni culturali e di paesaggio (Settis direbbe di ciò che stava nelle due leggi del 1939 poi «costituzionalizzate») ma chiunque sia un po’ preoccupato della sorte dell’articolo 9 della Costituzione, prima o poi sarà grato a Settis per le sue ricerche e per la divulgazione che ne fa in modo molto generoso. C’è nel libro un resoconto accurato delle sollecitudini che hanno portato a benemeriti provvedimenti legislativi, dagli editti del camerlengo ai giorni nostri passando per le proposte di Benedetto Croce, e delle gravi reiterate trasgressioni che si vedono dappertutto in Italia. C’è in ogni pagina lo sdegno accumulato per una inammissibile quantità di rinunce, anche per interessi poco puliti, nella difesa del patrimonio culturale e paesaggistico del Paese. C’è il rammarico per la indifferenza della politica. Le manomissioni di luoghi sono talmente tante e in crescita costante che un elenco completo non sarebbe possibile, per necessità di continui aggiornamenti.
Il libro merita una lettura accurata; una sintesi del contenuto sarebbe inadeguata e superficiale, data la quantità di argomenti proposti, la ricchezza dei riferimenti che consentono una visione della trama delle questioni. L’autore non è un giurista, ma i richiami al profilo tecnico-giuridico, centrale nella sua trattazione, sono molto approfonditi e comprensibili ai lettori grazie proprio alla differente formazione dell’autore («Ho osato varcare quasi in ogni pagina le frontiere delle mie competenze disciplinari»).
Ognuno potrà fare un lettura specializzata, dedicarsi ad alcune parti del saggio, ma sarà impossibile non seguire l’autore nelle continue sollecitazioni a riappropriarsi del tema dal basso, con un richiamo etico nello sfondo, perché non si possono offendere i diritti delle generazioni future - afferma.
Tutti capiranno, in questa temperie di celebrazioni dell’Italia unita e di ambigue derive federaliste, che l’idea dei costituenti sulla inscindibilità del paesaggio italiano è messa a repentaglio e rischia di essere travolta continuamente, nonostante la Corte (di recente con la sentenza 367/2007), ripeta continuamente che il paesaggio incarna valori costituzionali «primari e assoluti», che sovrastano qualsiasi interesse economico.
Per questo una parte del lavoro di Settis credo che meriti maggiore riguardo: il rapporto tra Stato e Regioni in tante circostanze analizzato, è in questo libro approfondito per gli aspetti specialissimi relativi alla tutela paesaggistica. Con una grande cura perché dai conflitti di competenze tra le istituzioni sono venuti gli impedimenti maggiori ad una efficace azione. Il tema del decentramento dei poteri (interessa molto la Sardegna che ha in programma la riscrittura dello Statuto) è spiegato con molta puntualità. Molti fatti si comprendono guardando retrospettivamente il processo che ha portato ad attribuire alle Regioni (a statuto speciale e ordinario) le competenze dell’urbanistica, del paesaggio, dei beni culturali producendo quella congerie di poteri delegati e trasferiti con maggiore o minore accondiscendenza.
Restano nello sfondo le perplessità riguardo al modo con cui i poteri sono esercitati in periferia. Una riflessione amara è appunto svolta a proposito del governo del territorio che sarebbe meglio quanto più è vicino ai cittadini, secondo la versione consolidata. Settis ritiene che non si possa sottovalutare come la maggiore vicinanza del soggetto decisore a beni a rischio di manomissione, faccia crescere il rischio del voto di scambio in danno proprio della tutela paesaggistica. Una riflessione importante che non mancherà di sollevare il dibattito.
Lo storico Banti spiega il suo saggio: "Ecco ciò che il Regime ereditò dall´Unità" - Il bellicismo virile, la patria come comunità sacrificale, il fondamento biopolitico della nazione tornano nel Ventennio, dice lo studioso. Le cui tesi più volte hanno fatto discutere
Cari democratici, fate attenzione a usare i termini di "patria" e "nazione". Sembrano politicamente corretti, in realtà contengono valori come "discendenza di sangue" e "memoria storica esclusiva e selettiva" che non hanno niente di democratico. Ed ancora, possiamo pensare che oggi la Repubblica Italiana abbia davvero bisogno di un´identità "nazionale"? Fin qui Alberto Mario Banti, uno dei più accreditati risorgimentisti italiani, ordinario di Storia contemporanea all´Università di Pisa, non nuovo a sorprendenti sortite sul movimento nazionale, ora artefice di un inusuale epitaffio del discorso nazional-patriottico (Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Laterza, pagg. 208, euro 18). Se una ventina d´anni fa Gian Enrico Rusconi si interrogava se eravamo ancora una nazione, oggi lo storico pisano rovescia l´interrogativo: ma è proprio necessario essere una nazione o, meglio, è necessario esserlo come lo intendevano i padri fondatori?
Tutto il ragionamento di Banti si fonda su quelle che egli indica come "figure profonde del discorso nazionale", ossia immagini, miti, allegorie che strutturano la retorica risorgimentale. In questo repertorio nutrito da memorie, diari, inni, poesie, romanzi, lo studioso isola tre figure – la nazione come parentela/famiglia, la nazione come comunità sacrificale, la nazione come comunità sessuata – mostrandone l´integra presenza ed efficacia nella propaganda fascista e perfino nelle argomentazioni razziste fiorite intorno alle leggi del 1938. Da questa continuità/contiguità tra retorica risorgimentale e retorica fascista, fondata secondo Banti sulla "comune concezione genealogica e biopolitica della nazione" e sul "nesso simbolico tra il sangue e la terra", lo studioso ricava le ragioni che rendono oggi improponibile e addirittura pericoloso il discorso nazional-patriottico. E anche il "neo-patriottismo" di Carlo Azeglio Ciampi – figura esemplare della cultura democratica – non sfugge all´accetta dello studioso, che vi rileva l´assonanza con la tradizione discorsiva del nazionalismo classico, segnato dal fascismo.
Ma come si fa a separare una costruzione retorica dalle sue finalità politico-culturali? Se è vero che alcune figure discorsive riecheggiano nella tradizione risorgimentale come in quella fascista, è possibile ignorare che nella prima si declinano con la bandiera del liberalismo e nella seconda con quella della prevaricazione, della violenza e della discriminazione razziale? «Il discorso nazional-patriottico», risponde Banti, «si può declinare secondo diverse proposte politico-istituzionale, ma questa mi pare una prospettiva sbagliata. Io voglio richiamare l´attenzione sul fatto che non c´è un rapporto necessario tra quel discorso retorico fondato sul sangue e sul bellicismo virile e le proposte liberali e democratiche che pure caratterizzarono il Risorgimento. Quel repertorio di immagini e di figure appartiene più naturalmente alla cultura politica fascista, tanto che il travaso da una tradizione all´altra avviene senza rotture né incoerenze».
Ma lo stesso repertorio risorgimentale di amore per la patria e di eroismo sacrificale si ritrova nelle lettere dei condannati a morte della Resistenza, documenti fondanti della cultura democratica italiana. «Quei resistenti s´erano formati sui banchi delle scuole fasciste, assorbendone la strumentazione retorica». Però la nozione di patria si carica di un significato opposto rispetto a quello fascista. «Il centro del mio discorso è un altro», liquida Banti, determinato nel procedere fino in fondo lungo la sua traiettoria. «Il nazionalismo risorgimentale si struttura intorno a una concezione biopolitica della comunità. Si appartiene alla comunità per nascita, per legame di sangue, non per scelta. Questa nozione biopolitica è stata irrigidita e radicalizzata dal fascismo, fino all´infamia delle leggi razziali, che rappresentano però il coerente sviluppo del criterio della purezza della discendenza. Anche oggi la cittadinanza italiana è fondata sul sangue: è italiano chi è figlio di genitori italiani, mentre per i figli degli immigrati c´è una procedura che prevede la sottoscrizione d´un patto di fedeltà alla Costituzione. Perché in nome di un´appartenenza naturale i nostri figli possono acquisire diritti civili e politici, mentre quelli degli altri devono firmare un patto? Non sarebbe più giusto se anche i nostri figli fossero soggetti a un accordo collettivo di lealtà costituzionale?».
La storia del Novecento ha visto però nazioni democratiche e nazioni totalitarie, segno che gli sviluppi del nazionalismo ottocentesco possono essere diversi. Liquidando il discorso nazionale e tutte le sue liturgie, non c´è il rischio di regalare nozioni come "patria" e "nazione" a una destra non democratica? E perché si deve rimanere necessariamente spiazzati – lo rileva Banti nelle conclusioni – di fronte a personalità come Romano Prodi che intonano l´inno nazionale? «Sono rituali che con difficoltà di distanziano da quel complesso di valori che ho già illustrato: la discendenza del sangue, la nazione come parentela, etc. Non credo che questa sia la migliore attrezzatura per affrontare le sfide della globalizzazione». Ma il complesso sentimento nazionale dei padri fondatori si esaurisce solo nella formula di sangue e suolo? E il povero Manzoni, componendo il celebre verso "Una d´arme, di lingua, d´altare/ di memorie, di sangue e di cor", poteva mai immaginare di essere un giorno imparentato alla famiglia di Telesio Interlandi? La discussione è aperta.
Milano, Corea di Franco Alasia e di Danilo Montaldi fu un libro famoso negli anni sessanta, ripubblicato con aggiunte nel 1975, anno della morte di Montaldi, appena quarantaseienne. Fu, in quei decenni, citatissimo, perché aveva fatto scuola, a sinistra, di storia italiana, di storia del boom alla luce delle sofferenze che ne erano state alla radice, di sociologia nel corpo della società, di una letteratura che dava voce a chi non avrebbe mai avuto la possibilità di dire qualche cosa della propria esistenza. Milano, Corea venne pubblicato la prima volta proprio cinquant’anni fa da Feltrinelli e quella prima edizione viene riproposta dall’editore Donzelli (con una introduzione di Guido Crainz).
Milano, Corea giunse nello stesso anno in cui nei cinema si proiettava Rocco e i suoifratelli di Visconti, un’altra storia di immigrazione a confronto con la civiltà industriale del Nord, qualche anno prima di un altro “magistrale” (definizione di Guido Crainz) libro sull’Italia della ricostruzione e del boom, L’immigrazione meridionale a Torino di Goffredo Fofi (ripresentato l’anno scorso da Aragno), insieme a inchieste giornalistiche sull’Espresso e sul Giorno o su riviste di cultura come Nuovi argomenti (Inchiesta alla Fiat, del 1958, a firma di Giovanni Carocci).
Milano, Corea fu esempio di ricerca militante: indagare le “coree” milanesi, mentre si intravvedevano tutti i segni della ormai trionfante belle epoque nazionale, contrapporre le rovine delle periferie in una città caposaldo del nuovo benessere, svelare un’altra volta in quel momento i meccanismi di sfruttamento a danno dei più e di arricchimento a vantaggio dei pochi… Un limite di Milano, Corea fu nell’apparire quando le “coree” (corea rimanda alla guerra che si combatteva in quegli anni) non racchiudevano più l’alterità della cultura d’origine, tutti propensi all’assimilazione in una società considerata all’unanimità moderna in nome dei “consumi”. In un certo senso Milano, Corea guarda al passato, ricostruisce una storia, quando già si profila un’altra Italia: dal governo Tambroni, dalla repressione del luglio ’60, alla caduta del primo centro-sinistra organico, ai piani del generale De Lorenzo. Paradossalmente, a leggerlo oggi, appare più vicino, perché i destini di due lontanissime immigrazioni si sovrappongono, nel desiderio comune di abbandonare una condizione miserabile, nei pregiudizi dell’accoglienza, persino nell’arbitrarietà delle leggi.
Milano, Corea nacque grazie al lavoro di Franco Alasia, operaio metalmeccanico della Breda, a Sesto San Giovanni, autodidatta che nel 1947, ventenne, aveva conosciuto Danilo Dolci, studente d’architettura al Politecnico, insegnante allora in una scuola serale e presto animatore di una forte battaglia sociale in Sicilia. Dolci riconobbe il vigore intellettuale e morale del più giovane Franco, che divenne presto suo collaboratore. Quando Dolci fu incarcerato a Partinico, Alasia (come capitò ad altri giovani) scese al Sud e lo aiutò. Dolci, al Sud, aveva intuito l’importanza di una indagine sulla “modernità” del Nord. Alasia, dopo quell’esperienza a Partinico, rientrò a Milano, raccolse l’invito e cominciò il suo vagare nelle nuove periferie milanesi, paesaggio metropolitano di cascine fatiscenti abbandonate dai contadini della provincia diventati operai e di case, “cubi” li definisce Montaldi, cresciute abusivamente in una notte (come capitava in una periferia romana nel modesto film di Vittorio De Sica, Il tetto, del 1956), baracche addossate in un geografia informe, del tutto casuale. Alasia intervistò ex braccianti divenuti muratori, manovali, qualcuno operaio nelle grandi fabbriche metalmeccaniche, disoccupati, venditori ambulanti tartassati dai vigili (come gli odierni vu’ cumprà), prostitute. Erano meridionali, terroni, e veneti (moltissimi dal Polesine, sommerso dalle piene del Po del 1951),ma anche lombardi delle province povere. Alasia li ascoltò e trascrisse, senza servirsi diun magnetofono, alla lettera, parola per parola, lasciando intatta la lingua dei suoi interlocutori. Danilo Dolci presentò quelle interviste all’editore Feltrinelli, il quale decise di pubblicarle affidando la presentazione a un giovane sociologo, Danilo Montaldi, che percorse in lungo e in largo la città per annotarne i “comportamenti” e compose il proprio quadro elencando numeri e illustrando tabelle,ma soprattutto descrivendo e confrontando la recente memoria della miseria che si sognava di lasciare, l’illusione del benessere, l’incontro con la modernità, l’esperienza di una nuova miseria. Il saggio di Montaldi comincia raccontando una condizione che sembra immutabile: «Il lavoratore industriale che arriva al mattino in Città dal Bergamasco tra viaggio e lavoro spende dalle 15 alle 18 ore quotidiane. Non diversamente dal tessitore del 1830, l’operaio che abita a Codogno si alza alle 4 e mezzo del mattino... L’alba della Città comincia a tanti chilometri di distanza con un risveglio di massa».
Un secolo dopo, dopo la Liberazione, la storia si ripete e si ripetono le regole imposte dal capitalismo di ogni epoca, promuovendo o escludendo. Un’infinità di quegli immigrati resta ai margini, afflitta dai costi, anche imprevisti, della città («In Sicilia – dice un immigrato – il quaranta per cento della classe operaia se ne vanno scalzi, qui non è possibile»). Il “randa”, il randagio, la prostituta diventano protagonisti di quelle “coree” e la riflessione è subito sui guasti che la società d’arrivo provoca. Chi impara a usare quelle “regole”, progredisce e arricchisce: il “cubo”, cioè la casa, cresce ad esempio su una cantina che verrà subito subaffittata, crescerà di un piano e a quel punto verrà subaffittato il primo piano, il pezzo di terra acquistato dal contadino verrà rivenduto raddoppiando il prezzo all’ultimo arrivato dal sud. Il lavoro è una ricerca disperata, che impone a chi cerca le condizioni più dure: ecco il “sommerso”, il “nero”. Il “posto” da operaio è un sogno: «Sono arrivato a vivere nella nazionalità operaia», dirà orgogliosamente Vito.
Una casa e un lavoro a qualunque costo:comandava ancora la legge fascista, che per frenare le migrazioni interne pretendeva casa e lavoro certi per concedere la residenza, cioè la possibilità di risiedere in un determinato comune, la libertà di circolare non era garantita. La maggior parte degli immigrati dal Sud e dal Veneto rimasero per molti anni clandestini in Italia. Come oggi tanti filippini o senegalesi o sudanesi, costretti nelle baraccopoli, occultate dentro vecchie capannoni industriali abbandonati. Ecco l’attualità.
Danilo Montaldi (scrittore e scienziato di grande passione, capace d’essere vicino alle persone che animano la sua ricerca) e Franco Alasia documentano la fine di un’epoca, che lascerà molto in eredità, tutte le malattie di un capitalismo italiano perennemente arretrato, malattie che si sono cronicizzate: speculazione, sfruttamento, ricorso al lavoro nero, contratti elusi, malgrado la pagina successiva, quella del decennio dei Sessanta, si apra sui grandi scioperi, che vedranno in prima fila tanti giovani, nuovi operai e studenti.
La sua opera può essere letta come un racconto di lungo periodo. E come la testimonianza diretta di un´epoca che ci appartiene interamente e che non si è conclusa
«La cosa più triste in questo momento», scriveva Marx alla figlia Jenny nel 1881, «è essere vecchio. Il vecchio può soltanto prevedere anziché vedere». E l´anno dopo, pochi mesi prima di morire, a un amico che gli proponeva una edizione completa delle sue opere, Marx rispondeva di doverle «ancora scrivere». Queste riflessioni, stanche e amare, hanno un senso. Marx può infatti essere anche riletto, come si fa con i classici della letteratura o della poesia, anzitutto perché la sua opera maggiore, il Libro primo de Il Capitale (il secondo e il terzo sono stati messi a punto ed editati da Friedrich Engels), è stata scritta - sono parole sue - secondo un progetto fondato su «considerazioni artistiche», e poi perché quest´opera è stata, per oltre un secolo, un punto di riferimento per milioni di persone; anche se è stata letta da una minoranza.
Già quando il libro apparve nel 1867 era stato accolto dal silenzio. Poi tutto cambierà e Marx diventò marxismo. In verità Marx non ha fatto nulla per diventare un classico perché nei suoi scritti vi è un pensiero asistematico, provocatorio, simile, per molti aspetti, a quello di Diderot, senza l´ordine e il senso affascinante di stabilità che trasmettono solo i classici. Eppure sia lui che Diderot (Marx amava molto le ascendenze dell´Illuminismo) hanno visto e descritto con chiarezza cose molto importanti. E questo ne ha decretato l´immortalità. Marx ha visto un mondo che non si è concluso con il suo tempo e che si è maggiormente rivelato nel nostro: il mondo anche misterioso della produzione capitalistica e la sua variabilità sociale e culturale. Non a caso citava il Mefistofele di Goethe («lo spirito che sa vedere l´altra faccia della medaglia») o si richiamava alle incertezze e ai dubbi di tanti personaggi shakespeariani. È questo vedere anche l´altra faccia delle cose importanti e non temporanee (di una singola anima oppure della grande storia di una società) che fa di un´opera un classico. L´errore suo è stato piuttosto nelle previsioni senza dubbi. Se avesse previsto ad esempio invece della vittoria del socialismo i luoghi dove la sua opera sarebbe stata nel Novecento maggiormente diffusa si sarebbe ritratto sgomento. Dunque, l´amara confessione a Jenny va interpretata come un momento di malinconia per la difficoltà di riuscire ad essere sempre contemporanei di ciò che accade.
Comunque, solo una particolare sensibilità letteraria (le «considerazioni artistiche») permise a Marx di penetrare nelle strutture proteiformi ed epiche del Capitale e dei «rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono». E come in un poema mitologico o in un romanzo epico i protagonisti diventano anche espressioni simboliche e astratte del racconto, così nel teatro del Capitale lo sguardo acuto e critico di Marx non si appunta sui singoli capitalisti. Ecco una sua poco nota osservazione al riguardo: «Una parola per evitare possibili malintesi. Non dipingo affatto in luce rosea le figure del capitalista e del proprietario fondiario. Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classe. Il mio punto di vista meno che mai può rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane soltanto creatura; per quanto soggettivamente possa elevarsi sopra di essi».
Questa precisazione è un tocco di classe (borghese) congeniale alla cultura di cui Marx era imbevuto, ma fa capire anche l´intelligenza aperta della sua analisi della società moderna europea scrutata in un arco storico amplissimo. Lo dice nella prefazione, che si chiude con una citazione di Dante, a Il Capitale: «Il fine ultimo del libro è di svelare la legge economica del movimento della società moderna». Quindi un´opera di storia (la Settima sezione del Libro primo, dedicata all´"accumulazione originaria", è un grande affresco morale e non solo economico e politico di storia europea tra il ´500 e il ´700) che oggi si può leggere come la testimonianza diretta di un´epoca che ci appartiene interamente perché non è ancora conclusa. È stato questo un metodo seguito da Marx in tutti i suoi scritti politici, economici, filosofici, di teorico dei diritti e delle libertà degli individui e dei popoli, di giornalista, di osservatore attento. Il metodo "marxista" di analizzare il successo della società borghese per vederne le profonde contraddizioni, per esaltare la libertà e la liberazione degli uomini dalle oppressioni politiche e dai bisogni degradanti e contro ogni "metamorfosi regressiva" sempre in agguato nell´"ordine capitalistico". È questa, in fondo, la sua "classicità".
Se queste parziali riflessioni hanno un fondamento, allora può essere utile confrontarle con il recente volume di Nicolao Merker ( Karl Marx. Vita e opere. Laterza, pagine 257, euro l8). Potrebbe essere la inattesa (visti i tempi) occasione per riaprire anche in Italia (come già avviene soprattutto nel mondo anglosassone) il discorso su Marx, dando nuove prospettive di lettura ai suoi scritti e alla sua vita privata, che fu insieme complessa e drammatica. Come è sempre quella degli autori classici per i quali valgono i versi latini che Marx amava spesso ripetere: sic vos non vobis.
A quarant'anni di distanza dalla sua pubblicazione in Italia, il Mulino riedita La società dei consumi di Baudrillard. Ma vale ancora quella fotografia? Tra le ultime messe a fuoco quella di Saverio Pipitone in Shock Shopping. La malattia che ci consuma(Arianna editrice), quella di Paolo Magrassi in La good-enough society (Franco Angeli) e quella di Andrea Segrè in Last Minute Market (Pendragon)
La riflessione critica sulla società dei consumi non se la passa troppo bene: se escludiamo la letteratura di orientamento ecologista, sono ben poche le voci dissidenti che restano. Sembra che l'espressione «società dei consumi» sia nata negli anni '20 del '900, ma è stato il saggio dal titolo omonimo, pubblicato esattamente quarant'anni fa da Jean Baudrillard, a trasformare questa espressione in una vera e propria etichetta diffusasi in tutto il mondo. Dopo l'edizione francese, il volume La società dei consumi è stato rapidamente tradotto nelle principali lingue, ma ha dovuto aspettare il 1997 per approdare negli Stati Uniti, grazie alla traduzione di George Ritzer. Probabilmente a causa del linguaggio sofisticato che ha adottato a partire dalla metà degli anni '70, un linguaggio assai distante dalle esigenze di una cultura pragmatica, Baudrillard negli Stati Uniti è stato scoperto tardi. Ma ancora nel volume La società dei consumi - che in occasione del quarantennale l'editore Il Mulino ha riproposto in una nuova versione italiana (pp. 240, euro 13) - si esprimeva in modo chiaro, assicurando alle sue analisi efficaci il successo che effettivamente ebbero in tutto il mondo.
Quelle analisi mettevano a fuoco le caratteristiche del boom consumistico che si stava sviluppando negli anni '60 in Europa, evitando di abbandonarsi ai toni apocalittici in voga all'epoca. E si impegnavano con rigore nel tentativo di sviluppare una vera e propria teoria del consumo, basata su concetti ancora oggi attuali: l'idea, per esempio, che la logica del consumo si è andata progressivamente generalizzando sino a coinvolgere tutto, dai media alla politica all'arte, arrivando a investire la sfera del corpo, della sessualità e in generale dell'intimità. O introducendo la fondamentale interpretazione del mondo del consumo come una realtà di tipo miracoloso, il regno della massima abbondanza - scriveva Baudrillard - dove i beni non sono il frutto del lavoro e delle fatiche degli esseri umani, ma regali dispensati da un'istanza mitologica benefica: la tecnica, il progresso. Questa visione miracolistica del consumo si situava agli opposti di quella concezione funzionalistica e utilitaristica del rapporto con i beni che gli economisti proponevano all'epoca. Ma Baudrillard aveva ben compreso che il regno del simbolico non andava confinato nello spazio delle civiltà primitive, perché svolgeva un ruolo centrale anche nelle società occidentali avanzate della seconda metà del '900.
Rinominare i confini
Se il consumatore odierno sente la necessità di sprecare il suo denaro, attuando una pratica non troppo dissimile da quella dei rituali e dei potlach primitivi, e se sente l'esigenza di esibire i suoi beni e i segni del suo benessere, un po' come gli indigeni melanesiani, è perché in fondo spera che tutto ciò si traduca in una funzione propiziatoria, capace di attirargli la felicità.
Baudrillard sosteneva anche che, non diversamente da quanto già accadeva presso i popoli primitivi, la società dei consumi non costituisse altro se non una grande illusione collettiva, perché in essa tutto è ridotto a segno e simulacro. Proprio perciò, d'altronde, se la società dei consumi ha prodotto un livellamento del tenore di vita dal punto di vista concreto dell'acquisizione dei beni e dei redditi disponibili, ha nel contempo reso possibili nuove gerarchie sociali basate, appunto, sulla capacità discriminatoria intrinseca ai segni.
A distanza di quarant'anni l'analisi di Baudrillard può avere ancora una sua validità? È corretto dire che viviamo ancora all'interno di una società dei consumi? Si potrebbe supporre che nell'epoca di Internet e dei social network l'etichetta «società dei consumi» non sia più in grado di dare conto delle nuove forme che la struttura sociale ha assunto, sebbene il futuro di Internet sia strettamente legato alla sua capacità di fornire risposte adeguate alla esigenza di rivitalizzare un mercato basato sui consumi.
Al di là delle utopistiche pretese di ottenere beni gratuiti, la rete potrà garantirsi una sostenibilità economica solamente se avrà la capacità di sviluppare il commercio elettronico, di stabilire sistemi di pagamento realmente affidabili per le prestazioni offerte e di attirare verso di sé ingenti investimenti pubblicitari da parte delle imprese. Dunque, anche l'attuale società della rete, in fondo, non rappresenta altro che una nuova fase evolutiva della società dei consumi.
Ma, ci si domanda, qualcosa è intervenuto a differenziare questa fase della società dei consumi rispetto a quelle precedenti? Certamente, una prima risposta sta nella presa d'atto della straordinaria accelerazione della velocità con cui vengono diffuse informazioni e prodotti e nella registrazione dell'esponenziale aumento della quantità dei beni consumati. L'accelerazione, naturalmente, è stata resa possibile, insieme alla comparsa della rete, dall'ampliamento e dalla moltiplicazione degli spazi di vendita, che propongono incessantemente nuovi prodotti. Il consumatore, come si sa, è sempre più frequentemente sollecitato a passare dal commerciante conosciuto del piccolo negozio vicino casa agli enormi luoghi deputati alla vendita tramite strategie sempre più spettacolari e coinvolgenti. È questo il tema di cui si occupa Saverio Pipitone in Shock Shopping. La malattia che ci consuma (Arianna editrice, pp. 156, euro 10.80), un volume che ragiona criticamente sulle molteplici forme assunte negli ultimi anni dalla distribuzione e sulle conseguenze sociali prodotte da tale sviluppo. Parla, ad esempio, di come la multinazionale Ikea abbia progressivamente affermato in Italia e nel mondo, nell'ambito dell'arredamento e del design, uno stile e un gusto globali, che si sono imposti sulle tradizioni domestiche di ogni paese. Allo stesso tempo - scrive l'autore - «la falegnameria italiana è quasi scomparsa e i piccoli artigiani vicini a un centro Ikea sono costretti a chiudere».
Effetti analoghi sono stati prodotti anche dall'azione esercitata dalla gigantesca catena distributiva americana Wal-Mart e dagli enormi outlet center, che vengono sempre più velocemente aperti anche in Italia. Tutto ciò sembra configurare il passaggio a una fisionomia sociale omologata il cui aspetto è quello di un gigantesco centro commerciale percorso da strade sempre più simili le une alle altre, dove vengono insistentemente proposti prodotti analoghi, per di più delle stesse marche. Tutto ciò autorizza a dire che siamo ormai davanti a una società dei turbo-consumi», che sembra muoversi più in fretta della capacità umana di tenere il passo, e sembra richiedere inedite forme di adattamento. Basate su un modello sociale che ci costringe, se vogliamo restare sincronizzati con la velocità dei processi di cambiamento, a rinunciare al meglio e all'ottimo, considerati irraggiungibili, le attuali società dei consumi si accontentano di riuscire a ottenere il «buono quanto basta» e vengono perciò definite società del good-enough: lo dice Paolo Magrassi in un volume La good-enough society. Sopravvivere in un mondo quasi ottimo (Franco Angeli, pp. 126, euro 16).
Il modello del good-enough comporta, com'è ovvio, un notevole abbassamento degli standard di qualità e delle prestazioni che i prodotti sono in grado di fornire. E il rischio conseguente a una sempre più diffusa adozione di questo modello implica che i soggetti delle società attuali, anziché cercare quell'aurea mediocritas di cui parlava il poeta latino Orazio, cioè - tradotto nel lessico che ci riguarda - un compromesso accettabile tra qualità e risparmio, sono sempre più disponibili a farsi rifilare paccottiglie di infimo livello.
L'ingrediente etico
Come in tutti gli ambiti, anche in quello dei consumi c'è chi non si accontenta di adeguarsi all'esistente, ma prova a introdurvi nuovi criteri di scelta. Per quanto rappresentanti di una minoranza, i consumatori appartenenti all'articolata area del consumo critico sono oggi in crescita. Ne ha scritto Michele Micheletti in Critical Shopping. Consumi individuali e azioni collettive (Franco Angeli, pp. 240, euro 34), spiegando come l'introduzione di criteri selettivi svolga oggi un ruolo sempre più significativo, e come lo sviluppo della globalizzazione e di Internet faciliti i singoli nella sperimentazione di nuove strategie associative e relazionali mentre rende più difficile alle imprese nascondere le proprie politiche produttive. Un consumatore critico effettua le sue scelte impiegando criteri di valutazione dei prodotti che si basano non soltanto sugli aspetti economici, né solo sulle prestazioni fornite, ma include anche valutazioni di tipo sociale ed etico. Perciò, la qualità di quanto acquista risulta anche dalle strategie di produzione, stretegie che coinvolgono la sostenibilità ambientale del processo produttivo, il coefficiente etico del trattamento riservato ai lavoratori, e così via. Micheletti sembra pensare che questi nuovi criteri di scelta adottati dal consumatore possano assumere la valenza di un impegno politico.
Tuttavia, per quanto lodevole sia scegliere un prodotto «etico» piuttosto che no, non basta certo a arginare i danni che l'attuale modello di «turbo-consumo» sta già arrecando all'ambiente. Un discorso analogo lo meriterebbe il cosiddetto Last Minute Market, un innovativo modello di distribuzione che si propone di recuperare i prodotti invenduti ma ancora utili (alimenti, sementi, farmaci, libri, ecc.) per donarli ai soggetti sociali più bisognosi. Benche questo modello renda effettivamente più efficiente il sistema economico attuale, riducendone gli sprechi, solo in minima parte è in grado di proporre nuove attitudini comportamentali, ossia l'obiettivo di consumare meno e in maniera più selettiva.
Lo stesso Andrea Segrè, ideatore di questo modello, sembra esserne consapevole quando scrive nel suo volume Last Minute Market. La banalità del bene e altre storie contro lo spreco (Pendragon, pp. 120, euro 12) che occorre perciò «sostenere una politica che si occupi di ridurre il tempo di lavoro, affinché si riconquisti il senso del tempo trascorso non solo a lavorare e a consumare, ma anche dedicandosi agli affetti, alle passioni, agli hobby, ovvero ai beni spirituali e al benessere psicologico. In altre parole, impegnarsi per ritrovare il tempo di nutrire la propria vita interiore». Perché, come è stato dimostrato da numerose ricerche nel campo della psicologia, solamente arrivando a ridurre l'interesse riservato agli oggetti e alla dimensione della materialità sarà possibile indurre una valutazione maggiore delle proprie risorse psichiche, e dunque accrescere il nostro livello di soddisfazione complessiva.
«Questo nostro modello conquisterà l’Italia». A cercare negli archivi, la frase risale al 1985. Il suo titolare, Roberto Formigoni, era un giovane di belle speranze e di elevato misticismo. Venticinque anni e molta concretezza dopo, arriva un libro su Comunione e liberazione dove si sostiene che la profezia si è in buona sostanza avverata.
«La lobby di Dio» (Chiarelettere, 480 pagine, in uscita il 23 novembre), del giornalista Ferruccio Pinotti, è una corposa inchiesta che racconta dalle origini la storia e la mutazione di un movimento che si è fatto sistema, creando un network capace di unire affari, politica e religione, senza nasconderne aspetti scabrosi e disavventure giudiziarie. Ma l’autore si avvicina all’argomento consapevole della duplice natura di Cl, che per moltissime persone rimane essenzialmente una realtà di fede, alla quale affidare la propria vita, la propria spiritualità, non solo il proprio portafoglio.
«In Cl incontri la ragazza, ti sposi, fai figli, li educhi, sempre con ciellini e fra ciellini, è un vuoto che ti dà l’illusione della pienezza». La frase di Luigi Cortesi, psicoterapeuta cattolico, non certo un simpatizzante, rende involontariamente l’idea di una adesione totale che ancora oggi è il vero mistero di Cl, il suo segreto meglio custodito. Il viaggio di Pinotti nel sistema di valori del movimento è il tentativo di penetrare una realtà parallela, sotto gli occhi di tutti, ma impermeabile. Il giornalista raccoglie le testimonianze dei simpatizzanti che affollano l’annuale meeting di Rimini, quelle dei delusi e dei nostalgici, le affianca alle parole dei Memores Domini, i militanti più severi che dedicano a Cl un’obbedienza rigorosa pur ricoprendo incarichi pubblici importanti, come lo stesso Formigoni. E lascia il giudizio al lettore, non nascondendo di aver affrontato usato un approccio laico, per un argomento che tale non può essere, per definizione. Il fascino del movimento creato nel 1954 da don Luigi Giussani risiede proprio in questa continua dicotomia: le grisaglie di un ceto imprenditorial-politico nato e sviluppato all’interno di Cl non escludono gli abiti austeri dei gruppi di preghiera e le opere di carità.
Il lavoro di Pinotti, come tutte le sue precedenti inchieste, è documentato fino alla pignoleria. Esibisce documenti e circostanze difficilmente smentibili, elenca tutte le indagini che hanno sfiorato la galassia di Cl, da Oil for food alle presunte tangenti in Trentino. Ma ha il merito di non fermarsi alle carte, raccolte e assemblate grazie all’aiuto di alcuni collaboratori, tra i quali gioca un ruolo importante Giovanni Viafora, cronista del Corriere del Veneto, che si è occupato dell’inchiesta della Procura di Padova sui fondi europei, con i vertici veneti della Compagnia delle Opere recentemente rinviati a giudizio.
C’è molto più di questo, infatti. C’è la cronaca della costruzione di un potentato. Nel corso degli anni Comunione e liberazione è diventata una «super lobby» e la Compagnia delle Opere, il suo braccio economico, ha cavalcato «l’amicizia operativa», ovvero il modello al quale si riferiva l’attuale governatore della Lombardia, per creare una rete che forse non ha eguali in Italia. Pinotti traccia i confini del regno, operando una mappatura completa dei professionisti, delle aziende e delle imprese che vanno a comporre un network ormai europeo.
Messi in fila, i numeri della Compagnia delle Opere fanno impressione: 34 mila imprese, mille aziende non profit, un fatturato complessivo di 70 miliardi di euro. La sezione milanese della Compagnia delle Opere conta 6.000 aziende di ogni tipologia, e nel 2008 vantava un numero di associati superiore a quello di Assolombarda. La crisi, sostiene Pinotti, ha giocato a favore della Cdo, perché molte imprese si sono avvicinate a Cl per godere della sua sussidiarietà, di un sistema protettivo che può contare su accordi con le principali banche italiane. La radiografia dei business gestiti dalla Compagnia delle Opere si sofferma sulla sua espansione nel mondo universitario, dove la costruzione di residence e studentati diventa secondo l’autore la chiave di una «occupazione culturale» destinata a dare frutti negli anni a venire.
L’ultima parte del libro parla del futuro. «L’obiettivo di Cl? Il prossimo Papa, e il prossimo premier». La battuta, una delle poche anonime, è stata raccolta nella alte sfere del Vaticano. Prima di sorridere, ammonisce Pinotti, segnarsi questi due nomi. Roberto Formigoni e Angelo Scola, cardinale e patriarca di Venezia, considerato organico a Cl. L’impossibile è niente, per Comunione e liberazione.
Il verbale ha uno stile un po’ burocratico. Ma lascia intravvedere l’uomo colto e politicizzato. Forse anche spaventato. Per la precisione, è la trascrizione di un interrogatorio condotto da un ispettore di polizia nel carcere di S. Vittore il 28 maggio 1946. In uno dei punti cruciali, l’interrogato dice: «Fin dal 1943 io ed altri amici avevamo sviluppate alcune fondamentali idee politiche secondo le quali affermavamo essere necessario alla ricostituzione nazionale, una maggiore rivalutazione degli ambienti tecnici. In quell’epoca seguitavo ad occuparmi del mio lavoro professionale come consulente edilizio della cessata opera balilla. Iscritto al p.n.f. nel luglio del 1933, non ho avuto cariche di alcun genere. Nel novembre 1943 mi recai a Roma per incarichi professionali. All’avvicinarsi delle truppe Alleate, non avendo ancora liquidati alcuni compensi, mi recai al nord per liquidarli. Una frattura alla gamba mi immobilizzò e dovetti rimanere per oltre sei mesi all’Istituto Rizzoli a Bologna. Ancora degente, mi trasferii, verso il dicembre 1944, a Milano. Avvenuta la liberazione, ripresi le mie idee circa la costituzione di una corrente politica che poscia chiamammo “schieramento nazionale”, a carattere prevalentemente tecnico ed in merito avemmo a Milano molti aderenti».
Chi parla (o meglio, risponde all’ispettore) è Luigi Moretti: colui che, prima di Renzo Piano, è stata l’unica vera «archistar» internazionale che l’Italia abbia avuto. Un personaggio, com’è noto, complesso, capace di passare, quasi senza soluzione di continuità, da autentico, giovanissimo, «architetto del duce» (Foro Mussolini) ad architetto della Dc e del Vaticano. E non solo. Il testo che s’è visto, finora inedito, viene pubblicato in un libriccino senza pretese, curato da Daniela De Angelis, Luigi Moretti e i progetti di Galloro 1937-1942 ed edito da Gangemi (pp. 64, € 15,00). Uscito poco prima che aprisse la mega-mostra sull’architetto, in corso al Maxxi di Roma e all’Accademia di San Luca (con relativo mega-catalogo Electa, curato da Bruno Reichlin e Letizia Tedeschi), il libriccino è rimasto ignorato. Invece, senza dubbio, è il contributo più rilevante uscito in questo periodo, su questo talentuoso, complicato, discusso, cinico ma ancora misterioso personaggio.
Un contributo che chiude diversi problemi lasciati aperti da una biografia finora assai lacunosa, e forse non a caso (ancora, ogni tanto, dagli archivi di famiglia salta fuori qualche nuova carta). Insieme, getta qualche luce su quel fenomeno ben poco chiarito che fu il recupero dell’intellettualità fascista nell’Italia repubblicana. Aprendo però anche alcuni altri problemi e non piccoli. Moretti era entrato a San Vittore il 18 maggio 1946 e ci rimase fino al 19 giugno successivo. Così spiegano i documenti di polizia che De Angelis ha trovato all’Archivio centrale dello Stato (non tutti da lei pubblicati). Moretti rimase a San Vittore un mese e un giorno. E già questo è un dato nuovo. Era noto che Moretti era stato in carcere nel dopoguerra,ma non si sapeva esattamente per quanto tempo. Ed ecco il secondo dato: il motivo esatto dell’arresto. Moretti era il dirigente di un piccolo movimento politico che si preparava alle elezioni. Il nome era «Schieramento nazionale» e faceva parte della galassia neofascista fiorita nel dopoguerra, soprattutto a Milano. Lo scopo di questo movimento, ora sappiamo, sarebbe stato squisitamente «tecnico », come l’architetto s’affanna a spiegare nell’interrogatorio.
Forse quel termine «tecnico» si rifaceva al «partito dei produttori» di vetusta memoria fascista; o voleva dare dignità a gruppi intellettuali neofascisti che provavano a riemergere. Ma comunque impostava una tendenza che in futuro avrebbe avuto successo nell’estrema destra (si pensi al governo di «tecnici» di Sogno e Pacciardi). Come raccontano i documenti, era però anche una formazione infiltrata dalla polizia repubblicana. La quale procedette a un arresto in massa dei dirigenti dei movimenti neofascisti milanesi quando si rese conto che stavano per venire tutti ulteriormente infiltrati da forze neofasciste pericolose perché legate a elementi dell’esercito. Contro uno di questi, un tal Faccini, si scaglia anche Moretti nel suo interrogatorio. Passò poco più di un mese e la questura, ritenendoli poco pericolosi, decise di rilasciare molti degli arrestati, tra cui l’architetto. Ma, per cautela, continuò a monitorarli. E qui si apre il problema più rilevante. Uno dei rapporti della questura fornisce infatti altre notizie dell’architetto, sempre sottoposto ad «attenta vigilanza»: «non ha cessato, a quanto risulta, di svolgere una cauta attività politica, coerentemente agli ideali professati».
Il rapporto è del 23 novembre 1946. A quel punto, era già stata costituita la società Cofimprese, una finanziaria edile dove Moretti era associato col conte Adolfo Fossataro, personaggio poco noto e assai eclettico (nel 1953 produsse anche Viaggio in Italia di Rossellini). Entrambi erano neofascisti doc. Eppure, come ha raccontato Fossataro in un’intervista, di lì a pochissimo, nel 1947, riuscirono a ricevere dal Comune di Milano l’incredibile commessa per la costruzione di alcune «case albergo», la prima vera opera di ricostruzione a Milano: celebre tra tutte, e bellissima, quella di via Corridoni (si veda la mostra al Maxxi). Però la giunta era socialcomunista e l’assessore che appoggiò Fossataro e Moretti era il comunista Pietro Montagnani (per la verità Fossataro ha parlato di un Montagnana e Mario Montagnana era cognato di Togliatti).
Erano passati pochi mesi dall’arresto, pochissimo dal documento di questura che dichiarava che la futura archistar era ancora fascista e veniva tenuto d’occhio. Quelle case-albergo, finanziate con un’incredibile quantità di soldi, furono il trampolino di lancio per la nuova carriera di Moretti. Di lì a pochissimo tornò a lavorare a Roma e ingranò la sua ulteriore travolgente carriera all’ombra di grandi istituzioni di potere come la vaticana Società Generale Immobiliare.
Perché l´Italia è il paradiso dell´abusivismo? E perché solo l´Italia, visto che è difficile persino tradurre in inglese o in francese l´espressione "abusivismo edilizio"? Sono le domande che percorrono Breve storia dell´abuso edilizio in Italia. Dal ventennio fascista al prossimo futuro (Donzelli, pagg. 166, euro 16,50), il libro che l´urbanista Paolo Berdini ha dedicato al fenomeno che attraversa la storia del nostro paese con la regolare continuità di un ciclo industriale e che viene considerato, dal Lazio in giù, un modo d´essere dell´attività edilizia, assimilato all´abitudine di parcheggiare in seconda fila.
Correttamente Berdini risponde che sono tanti i motivi per cui in Italia si può costruire violando le norme. Ma uno emerge. In Europa esiste «un patto sociale riconosciuto», per cui la pianificazione urbanistica è accettata dalle autorità pubbliche, dagli operatori economici e dai cittadini. Da noi, invece, vige il patto non scritto - o persino scritto - fra chi amministra e chi è amministrato tendente a ignorare le regole, perché in fondo edificare viene considerato un diritto insito nel possesso di un suolo. Se si è proprietari di un´area, tirar su una villetta, una batteria di casette, allestire un capannone industriale, scavare una piscina è attività che si può realizzare sia chiedendo sia non chiedendo un´autorizzazione. Dipende dalla convenienza. D´altronde per tre volte, nel 1985, nel 1994 e nel 2004, il parlamento ha varato condoni, dimostrando di considerare la sanatoria degli abusi un normale sistema di governo del territorio, una specie di pianificazione dell´illecito. Tanto più che gli abbattimenti, pur previsti per legge, sono il frutto della generosa volontà di qualche amministratore o di qualche magistrato, subito però scoraggiata.
Le cifre che Berdini colleziona sono impressionanti. 4 milioni 600 mila abusi realizzati dal 1948 a oggi, cioè 74 mila ogni anno, 203 al giorno. In insediamenti costruiti illecitamente vivono 6 milioni di persone. Da un´altra rilevazione risulta che nel Sud si concentra quasi la metà di tutti gli abusi. Se si aggiunge il Lazio si arriva oltre il 64 per cento.
L´abusivismo, si legge nel libro, nasce durante il fascismo e forse addirittura prima. Ma è negli anni Cinquanta che cresce vorticosamente, in particolare a Roma e nel Mezzogiorno. La causa generalmente indicata è l´assenza di un intervento pubblico nell´edilizia che risponda al bisogno di case a poco prezzo. Spiegazione fondata, ma che non chiarisce, sottolinea Berdini, perché a Milano e a Torino l´abusivismo sia marginale rispetto alla campagna romana. Esiste un´epopea popolare dell´abusivismo anni Cinquanta e Sessanta, documentata in tanta letteratura e tanto cinema. Ma ad essa si sovrappone con il tempo l´elemento speculativo. Non c´è solo il capofamiglia che mette mattoncino di tufo su mattoncino di tufo e fabbrica la casa per sé e per i figli. Sulla necessità dei più deboli piomba lo speculatore che lottizza, costruisce e vende senza chiedere licenza.
In ogni caso, dalla fine degli anni Settanta questo abusivismo lascia il posto all´abusivismo di pura valorizzazione. Le coste di Sicilia, Calabria e Campania massacrate da un´orda di seconde case. Le aree pregiate della campagna romana puntellate da ville. Le palazzine nella Valle dei Templi di Agrigento. Gli insediamenti in zone fragili (Sarno e Messina, per esempio). I 280 mila metri cubi del costruttore Domenico Bonifaci a qualche centinaio di metri dalla tenuta presidenziale di Castel Porziano a Roma. Le ville, i concessionari d´auto e gli sfasciacarrozze nell´Appia Antica. E poi le piscine a Roma per i mondiali di nuoto. Le case a ridosso del Vesuvio.
Le conseguenze dell´abusivismo sono pesanti. Le città si sfasciano, i paesaggi vengono violentati, aumentano i rischi di frane e di esondazioni. Inoltre l´abusivismo costa. I condoni servivano, si sentiva dire, a rimpinguare le casse delle amministrazioni pubbliche: ma Berdini, conti alla mano, dimostra il contrario. Il libro proietta lo sguardo sul futuro. L´abusivismo è destinato a continuare perché la pratica dei condoni non si è arrestata. E l´esperienza insegna che i condoni non occorre farli, basta prometterli per scatenare la corsa al mattone illegale.
Come ricorda Vezio De Lucia nella Prefazione al libro (L.Scano, Venezia : terra e acque, Appendice a cura di E. Salzano, Corte del Fontego, Venezia 2009, pp.408 € 22) Luigi Scano incarnava una figura intransigente di urbanista. Per questo «Rivendicò sempre la sua autonomia nei confronti della committenza. Non aveva dubbi sulla natura strettamente politica della materia urbanistica, ma non si considerò mai un puro tecnico asservito alla politica, e quindi pronto a sottoscrivere qualunque “scelta politica” come salvacondotto per legittimare ogni tipo di operazione». E la stoffa di questo modo di essere urbanista traspare nitidamente nelle dense pagine del testo che oggi rivede la luce, in una edizione più accurata, dopo la prima pubblicazione del 1985.
E’ un grande saggio sulla storia di Venezia articolato in capitoli che scandiscono in successione le trasformazioni che hanno investito la città nel corso dell’età contemporanea.
Il testo si regge, innanzi tutto, su un’unità di stile. Sia nei capitoli iniziali, dedicati alla caduta della Repubblica, ai saccheggi operati ripetutamente dai Francesi, alle manomissioni del periodo austriaco, sia nel seguito delle vicende tardo-novecentesche (quando l’autore è anche un protagonista delle vicende narrate) la prosa di Scano è sempre puntigliosamente analitica. Egli esamina e racconta i fatti, i personaggi, le lotte con una presa descrittiva e interpretativa densa, che tende sempre a restituire al lettore la complessità delle vicende narrate.
A tale unità di scrittura corrisponde una non meno forte e coerente linearità di concezione. Scano è pienamente consapevole di due aspetti fondamentali di quella vicenda. Venezia deve la sua fortuna e la sua gloriosa durata al mantenimento di un complesso e delicato equilibrio ambientale. Essa è una creatura anfibia, vive tra terra ed acqua. E tale equilibrio non ha nulla di “naturale” e spontaneo. Al contrario: lasciate a se stesse le forze in atto intorno alla città tenderebbero a interrare la laguna, a ricoprirla di paludi, dunque a distruggere Venezia come centro marittimo. Quell’equilibrio, dunque, è frutto di una politica lungimirante delle classi dirigenti veneziane. Si deve ai governanti della città se per oltre 7 secoli, grazie una manutenzione quotidiana (lo scavo dei canali) e al bando dei fiumi dalla laguna, Venezia ha conservato la salubrità del suo habitat e la sua preminenza economica e politica nel bacino del Mediterraneo.
Ed è il venir meno di questa capacità di governo che segna l’avvio di una storia sempre più inclinata verso l’alterazione dell’ambiente, e il complicarsi dei problemi economici, sociali e demografici della città. Potremmo dire che il libro di Scano ha un suo tema preminente: racconta la vicenda del declino politico e della parallela perdita di controllo della città sul proprio territorio. E’ una storia che comincia con «la frammentazione e l’appropriazione privatistica del territorio» e che conduce alla progressiva emarginazione di Venezia come città di mare padrona della sua laguna.
In età contemporanea Venezia è soggetta a forze esterne troppo grandi per poter restare padrona del proprio destino. Nuove gerarchie spaziali la trascinano verso terra. Già nel 1846 gli Austriaci costruiscono il ponte ferroviario che farà perdere alla città la sua millenaria insularità. Ma è soprattutto nei primi decenni del XX secolo che sulla terraferma vanno sorgendo nuovi poli di attrazione destinati a condizionare la vita del centro cittadino.
Gran parte del libro di Scano illustra dunque i problemi che Venezia deve affrontare nel corso del Novecento. Sono problemi interni, come ad esempio la questione sempre grave delle abitazioni. Oppure, dà minutamente conto degli interventi condotti sul tessuto urbano, delle lotte intorno al piano regolatore.
Ma Venezia, nonostante il suo trascinamento verso terra, non è una città qualsiasi. E’ sempre una città che vive in un habitat speciale. A ricordarlo a tutti è l’alluvione del 4 novembre del 1966. In quella giornata drammatica, che vide Venezia affondare sotto un metro e 94 cm. di acqua , con danni agli edifici, ai beni, alle difese a mare, i più attenti osservatori capirono che quell’evento era un risultato di lunghe trasformazioni e a un tempo una nuova minaccia per l’avvenire. L’alluvione del 4 novembre segna quasi un’inversione storica nei problemi ambientali di Venezia. Per secoli impegnata a impedire l’interramento della laguna ora essa si trova a fronteggiare un nuovo nemico, che in passato aveva tenuto a bada più facilmente che non il materiale dei fiumi: il sollevamento del mare. Il nuovo squilibrio che ora minaccia Venezia è figlio di tutte le trasformazioni che si sono operate nella laguna tra Ottocento e Novecento. Perduta la visione d’insieme che la Repubblica possedeva, e che guardava alla laguna e alla vasta Terraferma come a un territorio unitario, sorretto da complessi equilibri, Venezia è stata sempre più governata come un centro a sé, senza riguardi agli effetti che le manomissioni al suo intorno riverberavano sulla città. Distruzione di migliaia di ettari di barene, profondamento delle bocche di porto, interramenti estesi lungo il margine lagunare, in una parola il restringimento del bacino lacustre per ragioni di sviluppo industriale hanno esposto Venezia ai nuovi rischi dell’età contemporanea: la tendenza alla sommersione ad opera del mare.
Gran parte del libro è impegnato soprattutto a ricostruire i progetti, i dibattiti, le lotte politiche di vari protagonisti (partiti, amministratori, urbanisti) che per quasi mezzo secolo si sono misurati e scontrati sui temi della salvezza di Venezia dopo i fatti del 1966. E qui sta forse il valore specifico di questo testo. Perché a scrivere è un grande competente di problemi urbanistici, un intellettuale che conosce la storia della città, che partecipa direttamente alle battaglie di cui tratta e dunque è un cronista in trincea. Una registrazione di eventi effettuata sul campo e dunque partecipe, che tuttavia non toglie nulla al rigore della narrazione, sempre vigile e attenta a motivare l’analisi e la critica con argomentazioni fondate e razionali.
Il libro può essere ordinato rivolgendosi direttamente all’editore, Corte del fòntego . In eddyburg una serie di cartelle dedicate a Gigi.
È appena stato pubblicato, per i tipi di Maggioli, “Promemoria di urbanistica, architettura, politica e altre cose”, quarta raccolta di articoli e brevi saggi di Lodovico Meneghetti, in prevalenza “opinioni” scritte appositamente per eddyburg.it. Il libro si compone di una serie di “libere osservazioni” su avvenimenti e notizie del triennio 2008-2010, alcune recensioni di libri pubblicati nello stesso periodo e un saggio sul rapporto fra musica e architettura, derivato dalla relazione introduttiva al convegno Estetica, musica e architettura, tenuto a Milano nel maggio 2008.
Milano e la Lombardia sono un punto di osservazione privilegiato per comprendere il declino del nostro paese e, in particolare, della sua classe dirigente. Un declino che si manifesta platealmente nella propaganda e nella realizzazione di un orribile campionario di veri e propri mostri urbanistici: i grattacieli sofferenti e deformi di City Life, trionfi della speculazione privata realizzati su un’area originariamente lasciata in dono alla città; il triste quartiere di Santa Giulia, ecologico e à-la-page nelle ambizioni, ma costruito su un’area contaminata e non bonificata; il progetto dell’Expo, impudentemente dedicato ad agricoltura e alimentazione (la fame nel mondo), pretesto per l’ennesima volgare speculazione immobiliare a favore dei soliti noti; il nuovo piano regolatore, proteso - con un vero e proprio slancio futurista – ad attrarre 700.000 nuovi abitanti (pura razza padana, supponiamo) grazie al quale, più prosaicamente, si concede la possibilità di edificare un po’ ovunque milioni e milioni di metri cubi, destinati nell’immediato a trasformarsi in ipoteche e garanzie bancarie per assicurare un po’ di serenità contabile agli inquieti immobiliaristi della città.
Sarebbe però riduttivo apprezzare la serie degli scritti di Meneghetti solo laddove stigmatizzano i guasti più recenti della politica e la loro tragica materializzazione in brandelli di città sempre più anodini. La pubblicazione a stampa rende maggior merito alle riflessioni di carattere più generale, che appagano tanto più il lettore quanto più si avventurano lontano dai territori più familiari dell’architettura e dell’urbanistica, per proporci connessioni e legami tra discipline differenti (dalla musica alla filosofia, dall’economia alla letteratura) ed epoche tra loro distanti. Si sente viva, in questi passi, la convinzione che il dialogo tra i vari saperi rafforzi il sapere critico e fornisca un antidoto efficace all’assuefazione al degrado. Di questo siamo grati a Meneghetti e per questo continueremo a leggere i suoi scritti, ogni volta che vorrà comparire sul sito, e attendiamo già il prossimo libro colorato per aggiungerlo al caledoscopio delle sue libere osservazioni.
Una idea chiamata comunismo
di Fabio Raimondi
Da poco uscita in Francia, una raccolta di interventi a cura di Alain Badiou e di Slavoj Zizek, rivela quanto possano essere differenti e fertili le letture che si danno oggi del concetto di comunismo
L'eterogeneità dei materiali raccolti in L'idée du communisme, a cura di Alain Badiou e Slavoj Zizek (Lignes, Paris 2010, pp. 352, euro 22) è indicativa - sebbene non esaustiva - della varietà di posizioni sul tema del comunismo distribuite nel mondo intellettuale. Per questo il volume, che raccoglie gli interventi pronunciati alla Conferenza di Londra l'anno passato, si rivela particolarmente utile a dare il polso del dibattito in corso sull'«idea di comunismo». Cosa si debba intendere con ciò è spiegato da Badiou nell'intervento che apre il volume, ed è riassumibile nel fatto che, a dispetto delle apparenze, l'idea di comunismo non è esclusivamente intellettuale, ma è una «potenza affermativa», che necessita di «tre componenti primitive: una politica, una storica e una soggettiva».
Narrazioni a posteriori
La prima componente è «una verità politica: cioè una sequenza concreta e datata in cui sorgono, esistono e spariscono una pratica e un pensiero nuovi dell'emancipazione collettiva»: procedura che necessita di un «Soggetto» irriducibile all'individuo. La seconda indica la «dimensione storica di una verità», il suo essere localizzata nel tempo e nello spazio umani. Quanto alla terza, essa indica «la possibilità per un individuo di decidere di diventare parte di una procedura di verità politica», di diventare un «militante»: questa scelta comporta «soggettivazione (ossia) il movimento tramite il quale un individuo fissa il posto di una verità rispetto alla propria esistenza e a quella del mondo». Idea, dunque, «è una procedura di verità, un'appartenenza storica e una soggettivazione individuale: un'incorporazione», che va giocata contro lo Stato. Da quando nel 1956 Chruscëv denunciò i crimini di Stalin, senza però condurre il suo attacco «in modo rigoroso, dal punto di vista della politica rivoluzionaria», quindi senza criticarlo davvero, si è creato a poco a poco il «letto in cui i nouveaux philosophes dell'umanismo reazionario si sono coricati» assieme ai corifei dell'anticomunismo. Contro costoro bisogna avere - senza chiedere più nulla né allo Stato né a un Partito - il coraggio della «Idea, ossia l'affermazione che una nuova verità è storicamente possibile». Se la storia esiste solo come narrazione a posteriori, il futuro dipende dal pensare e dall'agire che si riesce, in assenza di garanzie, a produrre ora.
Nell'intervento che chiude il volume, Zizek tenta invece di definire alcune pratiche in grado di riattivare un agire comunista, individuandone cinque. In primo luogo occorre «accettare l'immersione profonda e senza complessi nel corpo sociale» abbandonando «tutti i pregiudizi liberali» in una sorta di rito «pagano», affinché i sintomi totalitari si annullino «in uno spazio ideologico realmente totalitario». Sarà allora possibile «riappropriarsi della disciplina e dello spirito di sacrificio» e recuperare «lo spazio universale e freddo del pensiero razionale»; solo questo potrà generare «l'intimità collettiva comunista» che si traduce, come nella musica di Satie, in «un ordine minimalistico sostenuto da una disciplina dolce», capace, se necessario, di ricorrere alla «violenza» (anche quella dell'ironia e del sarcasmo), perché il «potere politico è fondato sulla (minaccia della) violenza», come se, in occidente, un salario di mille euro al mese fosse meno violento di una contestazione. Bisogna perciò liberarsi dall'ideologia liberale per cui non ci sono «nemici», cioè non c'è lotta di classe, perché questo significa che coloro che non sono d'accordo sui principi liberali «sono esclusi dal campo dell'umanità»: per riconoscere l'umanità - anche del nemico - bisogna «accettare il fatto che in politica si deve inevitabilmente prendere una parte» e, dunque, «che non c'è una terza via al di sopra della lotta».
Nessuno è neutrale, mai.
Le questioni del Partito e dello Stato accomunano poi una serie di interventi, che concordano nell'affermare la necessità di un'organizzazione delle lotte, ma non nella forma Partito, ormai del tutto asservita alle dinamiche dello Stato capitalistico; al suo posto, bisogna istituire «un luogo politico organizzato secondo altre idee, principi e valori» (Judith Balso), in cui la volontà (Peter Hallward) occupa indubbiamente un posto preminente, per quanto non esclusivo, dato che necessitano anche nuovi saperi. Più che la critica vale l'urgenza di dar vita a pratiche non capitalistiche, che sappiano costruire davvero un'alternativa possibile allo sfruttamento: un futuro «per tutti» (come scrivono Balso e Alessandro Russo).
In questo senso gli interventi di Michael Hardt e Toni Negri ribadiscono la loro via al comunismo attraverso la capacità di produrre «un'appropriazione non-appropriativa» del «comune». Beni comuni come l'acqua e la terra, ma anche come le idee e la conoscenza, sono sempre più di frequentemente svenduti ai privati a causa del fallimento gestionale delle classi dirigenti di molti paesi, come se fossero proprietà di cui chi governa può disporre liberamente. Si tratta dunque di «accumulare contro-potere», senza affidarsi solo «alle emergenze aleatorie della ribellione» (come quelle dei «comunisti senza comunismo» di cui fa l'apologia Jacques Rancière), perché «l'evento è sempre un risultato e non un'origine». Se «essere comunisti significa essere contro lo Stato», allora non solo il «capital-parlamentarismo», ma anche il «socialismo» sono nemici che vanno sconfitti creando nuove «istituzioni», che Negri chiama «moltitudine», frutto della «indignazione».
Secondo Russo, è stata la Rivoluzione culturale cinese (della Cina di oggi e del suo «neoliberismo» tratta nel volume Wang Hui) ad avere inaugurato la possibilità di pensare il comunismo al di fuori del Partito e dello Stato, e che, al di là del suo esito storico, ha posto fine all'«episteme politica» fondata su «tre pilastri»: «il partito-Stato quale luogo esclusivo della politica; la visione della politica e dello Stato imperniata sulle classi; il valore politico dell'inclusione dell'operaio nello Stato». Metterli in discussione significa praticare e pensare una politica nuova che necessita, per la sua elaborazione teorica, della «filosofia», la quale, per quanto posizionata su un livello specifico, incongruente con quello politico, è «una risorsa intellettuale per rinforzare le invenzioni politiche».
Produttività e antagonismo
Sulla scia dell'intervento di Jean-Luc Nancy bisognerebbe poi cominciare a ricostruire storicamente l'evoluzione dell'idea di comunismo e quella delle sue realizzazioni storiche, al fine di stabilire che «comune non ha nulla a che vedere con comunità, perché designa l'apertura dello spazio tra le cose e la possibilità indefinita, forse infinita, che questo spazio si apra e si riapra da se stesso». Ma non solo. Conoscere la propria storia è indispensabile anche per non cadere in forme di pseudocomunismo, gauchisme, esaminate da Bruno Bosteels nel suo contributo: l'una rimpiazza la lotta di classe con la coppia «masse/Stato», cadendo «in giganteschi festival di buona coscienza»; l'altra, invece, sostituisce alla «rottura» tra capitalismo e comunismo, la «virtualità del comunismo all'interno del capitalismo», la sua «immanenza», segnalata da fenomeni di «resistenza», per cui basterebbe togliere il potere al capitale per avere il comunismo.
Ma l'attenzione al passato non basta: c'è anche una nuova congiuntura. Se «solo il materiale ci può emancipare dal materiale», come scrive Terry Eagleton, allora il comunismo è un compito paradossale, perché è «simultaneamente il frutto di una produttività intensa e il suo antagonismo implacabile». Bisogna dunque «riconoscere che la libertà, la giustizia, l'uguaglianza, la cooperazione e l'autorealizzazione necessitano di certe condizioni materiali favorevoli e che lo stato di devastazione del nostro pianeta fa di queste condizioni materiali un bene raro che ci impedisce di tornare a una ingenuità pre-ecologica».
Mai come ora bisogna riabilitare l'idea di progresso in un senso nuovo, che sappia coniugare produzione di nuovi saperi, conservazione materiale delle condizioni della vita, abolizione dello sfruttamento capitalistico dell'umano e del naturale.
Intrecci tra la teoria marxiana
e la decrescita ipotizzata da Latouche
di Mauro Trotta
Una proposta formulata da Marino Badiale e Massimo Bontempelli in un volumetto edito da Abiblio
È possibile, ma, soprattutto, è utile coniugare le teorie legate alla decrescita con il pensiero di Marx? E, d'altro canto, chi, sulla scorta delle idee marxiane, vuole fuoriuscire dal sistema capitalistico dovrebbe forse richiamarsi alla decrescita? A queste domande, schierandosi apertamente per il sì in entrambi i casi, intende dare una risposta il recente Marx e la decrescita. Perché la decrescita ha bisogno del pensiero di Marx di Marino Badiale e Massimo Bontempelli (edizioni abiblio, 2010, pp. 46, euro 8). È un libro lungo meno di cinquanta pagine, agile e scorrevole, in cui si esaminano le ragioni per cui le teorie della decrescita e quelle del pensatore di Treviri dovrebbero entrare in contatto e contaminarsi vicendevolmente. Gli autori hanno scelto consapevolmente di dedicare poco spazio alle idee di Latouche e concentrarsi soprattutto su quelle dell'autore del Capitale. Questo perché la decrescita appare loro un sistema teorico chiaro e coerente, esente da tutte quelle distinzioni interpretative che hanno attraversato e attraversano l'opera del «Moro». Gli autori si limitano quindi a una breve descrizione della decrescita, mettendone in evidenza il carattere strutturalmente anticapitalista insito nel suo rifiuto di ogni idea di sviluppo, rivolgono l'attenzione alle tematiche legate all'ambiente, e infine al suo aspetto conviviale, non pauperistico. Il discorso si complica quando si passa alla disamina delle teorie marxiane. Badiale e Bontempelli ne individuano essenzialmente tre: il materialismo storico, la teoria della rivoluzione comunista e quella del modo di produzione capitalistico. A loro parere è proprio quest'ultima teoria che si rivelerebbe utile, anzi indispensabile, al movimento della decrescita. Perché adottandola, vedendo il capitale come rapporto sociale, affrontando senza mascherarli gli sconvolgimenti che deriverebbero dall'applicazione delle sue idee, questo movimento non solo si troverebbe ad allargare e approfondire la propria base teorica ma sarebbe davvero in grado di passare compiutamente dal livello intellettuale e morale a quello propriamente politico.
Dall'altra parte, per il marxismo, la contaminazione con le teorie della decrescita risulterebbe più che salutare poiché queste, secondo gli autori, rappresentano oggi l'unica prospettiva di lotta anticapitalista nei paesi occidentali: «il fattore capace di far esplodere la contraddizione fondamentale del capitalismo e di far nascere una nuova, non predeterminata, forma di società». Insomma, «solo dall'incontro fra il pensiero di Marx e la decrescita può nascere un anticapitalismo che sia capace di confrontarsi, sul piano teorico e politico, con la realtà del capitalismo attuale». Libro davvero interessante, scritto in maniera chiara, Marx e la decrescita sembra però aprire più problemi di quanti non ne risolva. Da un lato, anche per la sua brevità, sembra non andare completamente a fondo dei tanti nodi del pensiero marxiano che affronta, dall'altro pare tralasciare alcuni aspetti fondamentali, come ad esempio quello della soggettività rivoluzionaria o quello dell'organizzazione politica. Sembra dunque che questo testo possa rappresentare l'inizio di un percorso, che andrà però approfondito e chiarito. E sta qui il suo più grande pregio, nel fatto di indurre a discutere e approfondire i vari problemi affrontati nel volume dai due autori.
Il titolo del libro di Paolo Berdini, Breve storia dell’abuso edilizio in Italia, dal ventennio fascista al prossimo futuro (Donzelli editore), ne nasconde un po’ la natura. Si tratta anche di una storia, dai contributi originali come quello che, con malizia, nota l’origine dell’abusivismo nei trentuno «nuclei edilizi» e nelle dieci «borgate ufficiali » fuori Piano Regolatore (PRG) della Roma fascista; l’abusivismo romano è il percolato di quella politica d’immagine che gettava i più deboli e i più poveri fuori della città, perché non fossero visti, come si fa con la polvere sotto il tappeto. Ma è soprattutto un breviario laico, da portare con sé anche per le piccole dimensioni, per chi pensa che la politica sopravvive nell’intelligenza critica, dato lo stato comatoso dei partiti, e voglia rivedere da quest’angolazione, fondamentale quanto inconsueta, la storia d’Italia negli ultimi cinquant’anni.
La crisi italiana di oggi si può raccontare non solo con la parabola televisiva; ma anche come abbandono di ogni politica di difesa del territorio e dello spazio pubblico, fondata su regole e certezze, per far posto alla cultura della deroga. Questa storia dell’abusivismo in Italia ha il suo istant decisif nel 1966, frana di Agrigento, «causata dalla costruzione di 8500 vani in contrasto con lo norme urbanistiche». Le foto dei templi greci attorniati dalla “colata di cemento” fecero il giro del mondo. Il clima era quello delle denunce della speculazione romana di Antonio Cederna, de Le mani sulla città. Fiorentino Sullo tenta da ministro, «convinto che quello fosse il solo modo per attuare la riforma urbanistica», di «azzerare la rendita urbana». E perde. Non solo perché gli abusivi di Agrigento sono poi stati assolti, è come se da quel momento la cultura della deroga e dell’abuso sostituisse, passo dopo passo, la programmazione urbanistica.
Per colmo di beffa, ci sono quelli che irridono, in nome di un presunto riformismo liberista, ai «lacci e lacciuoli» del piano da sconfiggere con accordi di programma, o, come oggi vorrebbe Maurizio Lupi, per legge, con «l’assunzione della contrattazione tra pubblico ed interessi immobiliari come motore della pianificazione» (qualcosa che – ci dimostra l’Expo di Milano – non sempre funziona…). L’abusivismo scampato alla legge Sullo é sanato con un primo condono nel 1985. Morto come abusivismo di necessità, rinasce col motto «padrone in casa mia» di Silvio Berlusconi, con il secondo condono del 1994 ed il terzo del 2003. Col terzo condono, l’abusivismo, da tipico del Sud, sembra potersi diffondere ai tanti capannoni del Nord abbandonati dall’industria.
Da allora la metastasi si è diffusa in tutto il corpo, il Piano Casa di Berlusconi (e, ahimé, di moltissime Regioni…) è pensato non con una mentalità da urbanista, di tutela della città bene comune, ma da abusivo. La nuova mentalità rovescia lo stretto legame tra pianificazione urbanistica e democrazia, l’ascolto della vita quotidiana che è il solo modo per rendere piacevole la vita nella città e nel territorio (una cornucopia inesauribile di ricchezza anche economica…) in una deriva autoritaria, dove si trasforma in uomo della provvidenza persino Bertolaso. In realtà l’imbuto stretto è funzionale al controllo, alle deroghe (anzi, nasce proprio in deroga…), alla cricca.
Una partita oggi difficile, quasi compromessa per le brecce che liberismo e cultura del fare hanno aperto anche a sinistra. Berdini ci fa vedere a che cosa rinunciamo, se lasciamo disco verde alla deroga: alla bellezza dell’Appia Antica e del nostro patrimonio archeologico (quanto sono lontani i tempi del progetto Fori di Petroselli!); alle coste, ormai quasi tutte cementificate (esistono i censimenti, ma non esistono né la volontà politica né le risorse economiche per demolire gli ecomostri); alla tradizione che assegna alle città italiane il ruolo di modelli di vivibilità in tutto il mondo; ad un piano di rimboschimento e messa in sicurezza del territorio, delle aule scolastiche, degli edifici pubblici, delle città, sempre più drammaticamente urgente nel paese delle frane e delle alluvioni di fango.
Nei primi decenni dell´Ottocento, la domanda era: «Si può fare l´Italia»; oggi, alle soglie dei 150 anni dell´Unità, è diventata: «La si può salvare»? L´una domanda era dettata da speranza, l´altra da di speranza. Nella spazio aperto tra queste due parole c´è il dramma del nostro Paese. Nel suo nuovo libro, Salviamo l´Italia (Einaudi, Vele, pagg.134, euro 10), Paul Ginsborg ragiona sulla condizione della nostra vita nazionale mettendo costantemente a confronto, come in contrappunto, gli italiani del tempo che è il nostro con i patrioti del Risorgimento, il loro pensiero, la loro azione. Nel dispiegarsi delle sue argomentazioni, gli accadimenti di oggi, che possono sembrarci difficoltà nuove e insormontabili, visti nel lungo periodo risultano lievi increspature nella continuità d´una storia dalle radici profonde. Dunque: nervi saldi e senso di responsabilità; niente catastrofismi, sterili piagnistei o inutili invettive.
Alla fatidica domanda se l´Italia si può salvare, Ginsborg risponde risolutamente di sì, accompagnando il suo entusiasmo con un pizzico d´anglosassone, autoironica presa di distanza, perché «bisogna diffidare dei neofiti: hanno spesso la tendenza a entusiasmarsi troppo». Ginsborg è un illustre storico inglese che ha dedicato gran parte dei suoi studi alla storia italiana. A differenza di molti di noi, che tanto più conoscono il proprio Paese, tanto meno lo amano, lui ha seguito un percorso opposto, che l´ha indotto a chiedere la cittadinanza italiana. All´amico stupito che gli chiedeva: «Ma chi te l´ha fatto fare, e proprio ora, poi», un altro ha risposto ironicamente per lui: «Così potrai dire assieme a tutti noi altri: "mi vergogno di essere italiano"».
Al contrario, il libro vuole essere un antidoto allo scetticismo che - inutile negarlo - di questi tempi portiamo dentro di noi. Per molti versi è una dichiarazione d´amore all´Italia che non sarebbe stata stonata sulle labbra di quei viaggiatori dal Nordeuropa che nei secoli scorsi scendevano da noi per il Grand Tour, alla scoperta della civiltà attraverso le meraviglie del nostro Paese. Del resto, fin dalle prime pagine, l´autore stigmatizza, con le parole di Carlo Cattaneo, «quel vizio tutto italiano di dir male del suo paese». Un vizio che il patriota milanese attribuiva a «una escandescenza di amor patrio», la stessa "escandescenza" che anche il neocittadino italiano Ginsborg è autorizzato a provare ma, nel suo caso, non per "dir male" e neppure per "dir bene" a priori ma per accostarsi al nostro Paese con atteggiamento di seria partecipazione ai suoi tanti problemi.
Quando ci poniamo una domanda come quella del libro: se e come "salvare l´Italia", dobbiamo essere consapevoli che non siamo parlando di qualcosa come uno spazio fisico, contenitore di esseri umani. L´Italia, così intesa, esisterà sempre e indipendentemente da noi. La domanda sarebbe insensata. Ha senso, invece, rispetto a ciò che oggi si esprime con la parola "identità". La domanda è se si possa salvare l´identità italiana. Ma la "identità" non è per nulla un dato oggettivo, il carattere "così com´è" di un popolo, tanto più di un popolo come il nostro, dalla storia plurimillenaria e composita, ricca di esperienze e contraddizioni, di molte luci e molte ombre. Non è una fotografia. È una proiezione nella quale mettiamo molto di noi stessi e delle nostre visioni, come accade tutte le volte in cui ragioniamo di un oggetto spirituale, non sperimenta(bi)le. «Gli Etiopi dicono che i loro dèi sono camusi e neri, i Traci che hanno gli occhi azzurri e i capelli rossi», osservava Senofane di Colofone. Così è anche per quella divinità terrena che è la patria, che ognuno s´immagina ornata di tutte le qualità ch´egli stesso onora. Per questo, i discorsi sull´identità (pensiamo, come esempio, all´identità europea), invece di creare unità di sentimenti e proponimenti, si risolvono in controversie. Ciò che piace agli uni, dispiace ad altri. È identità italiana l´Accademia nazionale dei Lincei o il centurione che staziona, sotto il Colosseo, per farsi fotografare con i turisti? Un Leopardi definisce per qualche aspetto la nostra identità? Dipende. Si potrebbe perfino dire che la contraddice, che il suo pessimismo cosmico è il contrario della spensieratezza e della leggerezza tipiche del nostro modo di vivere.
Salvare l´Italia è dunque salvare la nostra idea di Italia, quella in cui proiettiamo tutto ciò che di bello, di buono e di giusto vi è secondo noi; al contrario, è sconfiggere ciò che di brutto, di cattivo e d´ingiusto vi si oppone. È dunque una battaglia. Il libro di Ginsborg è un libro combattente.
Quali sono le virtù italiane da salvare? Innanzitutto, la tradizione delle libertà comunali, concepite in modo aperto al mondo, secondo lo spirito che animava l´amor di patria risorgimentale e che Ginsborg ritrova nella vocazione europeista di uno Spinelli o di un Rossi. Vi è poi la "saggezza riflessiva" e moderata dei ceti medi, di cui viene sottolineata la capacità di mobilitazione per obiettivi altruistici e civili. Infine, virtù di tutte le altre virtù, la mitezza del popolo italiano che sa temperare nella benevolenza anche gli attriti e i conflitti che, in altri contesti, si risolverebbero in tragedie. La mitezza, intesa come abitudine al confronto civile, rispetto, spirito d´accoglienza è la base della democrazia. Dunque, l´Italia da salvare è quella delle virtù democratiche.
Davanti a queste ragioni di speranza e di possibile salvezza si ergono le ragioni di disperazione: l´acceso familismo, il machiavellismo, il clientelismo organizzato come sistema di potere, una certa permanente vocazione al ruere in servitium; un sistema politico sbilanciato dall´evanescenza delle opposizioni; una classe politica fiacca di fronte all´invadenza della Chiesa cattolica; la "supplenza" che questa esercita rispetto a quella; la criminalità che dilaga a ogni livello, da quella dei colletti bianchi a quella delle mafie; le disuguaglianze sociali e territoriali. Sono tutti fenomeni radicati nella nostra storia, dal Risorgimento a oggi, che il libro documenta ampiamente.
Di fronte a questo elenco, come possiamo guardare con fiducia alle virtù? Come parlare di mitezza in una «Repubblica dei dossier»? Di spirito federativo, quando abbiamo a che fare con cose come la «Repubblica dei Padani»? Di civismo "riflessivo" del ceto medio davanti al diffuso egoismo sempre più piccolo-borghese e al diffondersi di xenofobia e intolleranza? Le virtù saranno in grado di prevalere? Caro Paul, questa è la domanda, e la risposta è nell´invito a organizzarsi, a diffondere consapevolezza e ad agire affinché i caratteri positivi abbiano a prevalere su quelli negativi, invito che è il filo conduttore, nemmeno troppo nascosto, del tuo libro. Un invito consegnato alle future celebrazioni dell´Unità d´Italia, affinché non si riducano a vuote ed elusive rievocazioni.
Un edificio di dimensioni enormi, oggi diremmo un esemplare della bigness, «nel migliore dei casi lo si guarda meravigliati», sostiene Austerlitz, il protagonista del capolavoro omonimo di W.G. Sebald. «E questa meraviglia», aggiunge, «è una forma preliminare di terrore, perché naturalmente qualcosa ci dice che gli edifici sovradimensionati gettano già in anticipo l´ombra della loro distruzione». Le parole di Jacques Austerlitz, che nel romanzo dello scrittore tedesco è uno storico dell´architettura, tornano in mente leggendo una delle Tre forme di architettura mancata descritte nel suo ultimo libro da Vittorio Gregotti (Einaudi, pagg. 122, euro 10). In particolare quella segnalata nel capitolo che si intitola, appunto, «Contro la bigness».
La ricerca della dismisura è una delle malattie dell´architettura di oggi, annota Gregotti, un´architettura che ha rinunciato ad avere relazioni con il suolo, dunque con la storia e con la geografia e che invece si propone come produttrice di oggetti isolati e quindi, per esempio, ingigantiti a piacere, indipendenti dai contesti, tanto «da proporre l´estraneità o la grandezza quantitativa, l´enormità dell´oggetto come valori, anziché come problemi».
Tre forme di architettura mancata è una riflessione accorata sullo stato di una disciplina cui sta sfuggendo di mano la propria ragion d´essere. Oltre alla ricerca dello smisurato - che risponde a una ipertrofia del bizzarro, ma è altrettanto l´effetto di regole dettate dai valori immobiliari - anche le altre forme mancate indicate da Gregotti si aggirano intorno al problema fondamentale di un´architettura che si occupa poco di città e di collettività, tende poco al suo ruolo sociale e si occupa invece molto di se stessa. E sono, queste forme mancate, l´assenza del disegno, che è poi una variante della bigness, perché consiste nella sottovalutazione del rapporto fra ciò che si costruisce e ciò che c´è prima e che c´è intorno. E la riduzione a immagine comunicativa, nel tentativo concitato, scrive Gregotti, di rispecchiare solo «l´opaca e cinica condizione dell´attualità». Un´architettura dell´apparenza, dunque, che rinuncia a durare e che quindi si misura sulla soddisfazione dell´effimero e diventa frutto dei linguaggi globalizzati, a loro volta suggeriti da un capitalismo che impone logiche finanziarie.
L´architettura ha sempre maggiore rilievo nella fabbrica delle immagini. Il grande pubblico conosce gli autori di molti edifici e ne rincorre le prodezze da un capo all´altro del globo. I migliori studi professionali hanno uffici stampa grandi quanto quelli di una casa cinematografica. La macchina della comunicazione trasforma alcuni architetti in personaggi, li propone sulla scena con le stesse tecniche usate per un calciatore. Ma in questo circo - è il senso del ragionamento di Gregotti - rischia di venir meno l´essenza di una disciplina. Se tutto diventa immagine e tutto si dispone a essere obbligatoriamente "estetico", «niente è più distinguibile, né giudicabile, neanche esteticamente». E così «abitabilità, ordine, costruzione, relazione con il contesto, responsabilità civili e di disegno urbano sembrano essere i principali nemici».
«Nell'era dei media di massa gli individui tendono, come l'eroina di Flaubert, a vedersi differenti da ciò che sono. Da Gilles Lipovetsky a Paul Virilio, trame di lettura sui modelli comunicativi nella ‘civiltà del gossip’». Il manifesto, 28 settembre 2010
Il concetto di cultura è talmente ampio che persino darne una definizione accettabile rappresenta, e non da oggi, un compito estremamente arduo. Si spiega così perché i cambiamenti culturali vengano individuati con grande difficoltà da parte degli individui. Eppure negli ultimi anni la cultura, soprattutto in Occidente, si è trasformata tanto radicalmente, come testimoniano alcuni libri recenti, che vale la pena di compiere uno sforzo per metterla sotto osservazione.
Se la cultura ha modificato in profondità la sua natura è perché - sostengono Gilles Lipovetsky e Jean Serroy nel volume La cultura-mondo. Risposta a una società disorientata (Edizioni Obarra, pp. 206, euro 22) - non può più essere considerata un semplice insieme organizzato di forme espressive, norme e valori. Si può invece affermare che, a seguito di un processo di intenso sviluppo, si sia fatta mondo, il mondo concreto e fisicamente sperimentabile del tecnocapitalismo, del consumo, della moda, dei media e dell'industria culturale. Un mondo globale, dominato dai capitali delle multinazionali, ma anche in grado di funzionare secondo la logica della Rete e dello spettacolo mediatico. Un mondo comunque che non è più secondario e periferico, ma ha conquistato un ruolo primario nell'immaginario collettivo e individuale ed è in grado di trasformare la vita quotidiana delle persone così come ambiti primari della società, dalla politica al commercio.
In tale mondo tendono a disgregarsi dicotomie consolidate come quella tra reale e virtuale o cultura alta e cultura bassa, messe in crisi da una situazione nuova nella quale, contemporaneamente, la cultura si è mercificata e la merce si è «acculturata». Da un lato la cultura si è mercificata facendosi mercato attraverso una abnorme offerta di informazioni, immagini, suoni, festival, prodotti e marche da consumare. D'altro lato la culturalizzazione della merce è avvenuta perché quest'ultima ha progressivamente arricchito la sua capacità di dare vita a significati e valori e di farli circolare nella società, inglobando le produzioni artistiche per promuovere i suoi prodotti, ma soprattutto proponendosi come uno strumento in grado di generare messaggi e spettacoli.
Modelli (poco) universali
In apparenza, la situazione è paradossale, perché è noto che il capitalismo ha bisogno di mantenere in vita l'autonomia della cultura: le comunità infatti possono dedicarsi alle attività commerciali solo se al loro interno sono ben sviluppati gli scambi comunicativi tra gli individui. La sfera economica non può prescindere dalla sfera culturale, che è la sorgente da cui provengono le norme condivise in grado di creare un ambiente affidabile dove il commercio possa aver luogo. Per produrre valore economico, dunque, il capitalismo ha una necessità vitale del ruolo socialmente svolto dalla cultura, eppure tende nello stesso tempo a soffocarla e a indebolire le fondamenta che rendono possibile le sue relazioni commerciali.
Allo stesso modo, la cultura, nel farsi «ipercultura», via via che apre i suoi confini, tende progressivamente a trasferire al proprio interno anche i conflitti sociali e politici esistenti nella società. Più si globalizza cioè, più è costretta a dare spazio a rivendicazioni particolaristiche. E ciò significa anche che, mentre propone modelli universali agli individui, offre loro anche una maggiore autonomia e più elevate possibilità di incidere sulle proprie scelte e sulla propria esistenza.
Capacità di sintesi
Analogamente, le possibilità di comunicare con gli altri individui non sono mai state tanto sviluppate nella storia dell'umanità, eppure gli individui soffrono in maniera crescente della mancanza di relazioni sociali. Tendono a creare gruppi e comunità particolari, in Rete e fuori, ma vi partecipano come singoli che intendono rimanere tali. Che intendono cioè rimanere liberi da legami e privi di impegni, perseguendo un progetto narcisistico basato principalmente sull'espressione del sé, sull'esibizione pubblica della vita privata e dell'intimità personale.
Nonostante queste contraddizioni, il sistema economico continua a funzionare e la cultura-mondo sta irreversibilmente manifestando la sua capacità di sintesi. Secondo Lipovetsky e Serroy, questo avviene grazie a un processo di «intensificazione» della società che si manifesta principalmente in quattro aree: l'economia capitalistica, la tecnica, l'individualismo e il consumo. Si tratta di aree dove ideologie e regole tradizionali non funzionano più, mentre si determina una crescita continua incontrollata, che applica il classico modello di sviluppo del mercato. Così tale modello diventa lo schema organizzativo dell'intera società. E anche gli individui tendono a seguirlo, basando i propri comportamenti sul calcolo, sull'efficienza e sul successo economico. Se l'analisi di Lipovetsky e Serroy è corretta, allora non è un caso che il modello da seguire per i comportamenti individuali diventi sempre più quello delle star dello spettacolo e che, formalizzato dal cinema hollywoodiano classico durante la sua epoca d'oro, è diventato oggi uno dei punti di riferimento fondamentali dell'intera cultura-mondo. In questo processo di diffusione, però, il modello della star ha perso parte del suo fascino. Se può essere applicato a tutti, al divo dello spettacolo come all'uomo della strada, si banalizza, non è più eterno e irraggiungibile, ma effimero e vicino.
Il divismo rimane comunque un modello centrale per i comportamenti individuali nell'Italia di oggi. Assistiamo infatti al progressivo installarsi nella società di quella che Massimiliano Panarari ha chiamato «egemonia sottoculturale» nel libro dal titolo omonimo ( L'egemonia sottoculturale. L'Italia da Gramsci al gossip, Einaudi, pp. 145, euro 16.50). Secondo Panarari, il concetto di «egemonia culturale» che Gramsci aveva elaborato per dimostrare come la cultura popolare fosse in grado di lottare efficacemente contro la cultura delle classi dominanti per il controllo dell'egemonia nella società può essere applicato alla cultura che si è andata imponendo negli ultimi anni nel contesto italiano. Una cultura che è diventata appunto «sottocultura», vale a dire un nutrito insieme di cronaca nera, cronaca rosa, gossip, che si caratterizza per una connotazione politica di destra o comunque qualunquistica e che ha man mano occupato lo spazio lasciato libero dalla cultura di sinistra - quella cultura cioè che tendeva a essere «alta» e proprio per questo è stata rifiutata in un contesto sociale dove a prevalere è un mezzo di comunicazione di massa e «nazionalpopolare» come la televisione. L'opinione pubblica contemporanea, ammesso che possa ancora considerarsi tale, preferisce infatti essere impegnata in interminabili discussioni sull'ultimo amore del «tronista» del programma di Maria De Filippi o sulla saga del rampollo di Casa Savoia, diventato prima ballerino e poi cantante.
Articoli in vetrina
Si è andata dunque imponendo nella società odierne una sorta di «gossipcrazia» e con essa un modello divistico le cui radici si possono far risalire a un'epoca di radicali trasformazioni come è stata quella ottocentesca della seconda rivoluzione industriale. È in tale epoca d'altronde che, come ha osservato Davide Borrelli in Pensare i media. I classi delle scienze sociali e la comunicazione (Carocci, pp. 183, euro 16), si possono rintracciare anche le origini dei comportamenti del telespettatore contemporaneo, i quali sono in sostanza simili a quelli adottati dalla Emma Bovary raccontata dallo scrittore Gustave Flaubert a metà del XIX secolo. L'epoca dei media di massa porta dunque con sé il modello del «bovarismo», basato sulla facoltà immaginativa di «credersi diversi da ciò che si è», ovvero su quell'attitudine a imitare qualcuno che è diverso da sé, sebbene percepito come raggiungibile. Non è un caso che tale modello sia nato nel contesto sociale emerso in seguito al crollo dello statico regime aristocratico. E dunque quell'affermazione dell'immagine personale e quello sfoggio di beni di lusso e di moda che caratterizzavano il bovarismo erano necessari agli individui per immaginarsi in un ruolo differente e costruirsi un'altra identità.
In questo tipo di società, come ha rilevato Borrelli, il modello comunicativo della vetrina ha assunto progressivamente il ruolo di riferimento centrale, grazie alla sua capacità di valorizzare l'identità delle merci come delle persone attraverso l'immagine che di tale identità viene trasmessa all'esterno. In precedenza, i membri delle famiglie vivevano solitamente tutti insieme in un unico modesto spazio e non era possibile distinguere tra privato e pubblico. È stata la borghesia, grazie fondamentalmente al suo più elevato livello di ricchezza economica, a operare questa distinzione e a consentire agli individui di crearsi pubblicamente un'immagine differente da quella privata. Ma oggi, nell'epoca della Rete e della connessione totale di tutto con tutti, il modello della vetrina ha cominciato a disgregare questa distinzione, senza tuttavia intaccare l'efficacia del suo funzionamento: ha cominciato cioè ad aumentare la sua trasparenza, a operare sempre meno come barriera che impedisce il contatto, a fondere inestricabilmente privato e pubblico. D'altronde, il divo stesso appare sempre più in difficoltà nel tutelare il suo spazio privato.
Schermi e allucinazioni
Il frequente ricorso contemporaneo al modello del bovarismo deriva probabilmente anche da quella disorientante condizione di eccesso di realtà in cui gli individui si trovano oggi sempre più immersi. Una condizione che Paul Virilio ha evidenziato da tempo e ha ora messo sotto la sua lente di ingrandimento nel saggio Le Futurisme de l'instant. Stop-Eject (Galilée, pp. 97, euro 16), parzialmente tradotto in italiano sul primo numero di «Alfabeta 2» (luglio-agosto 2010). Se cioè la cultura sociale, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione, accelera progressivamente la sua velocità, l'essere umano si trova a dover vivere in uno spazio contratto e in un istante onnipresente, dove passato, presente e futuro tendono a fondersi. Perde così la sua capacità di orientarsi nello spazio e nel tempo, di riuscire ad abitare effettivamente il mondo culturale in cui vive. Anche perché si trova in una condizione di tipo allucinatorio, dove le sue esperienze si basano su ciò che sperimenta attraverso una moltitudine di schermi. Schermi nei quali, come ha scritto lo stesso Virilio, «la messa a fuoco del campo visivo ci distoglie dalla percezione laterale, dal campo lungo che forniva di ampiezza corrente lo spazio reale dei confini delle nostre attività, e con questo induce un disorientamento dell'essere qui». Se gli individui ricorrono al modello del divo, è perché hanno bisogno di affermare la propria identità attraverso immagini personali forti. Immagini, certo, destinate a usurarsi rapidamente, ma comunque capaci, almeno per un certo periodo, di imporsi all'attenzione generale.