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La manovra di Tremonti è fatta per un io individualista, proprietario e profittatore. I referendum hanno invece spinto per un noi fatto di legami sociali e reciprocità. Un libro di Roberta Carlini racconta le resistenze al ventennio liberista

La manovra di Tremonti, con gli abili equilibrismi per lasciare i soldi ai ricchi dietro una spruzzata di populismo, è fatta su misura per l'economia dell'io - un io individualista, proprietario, profittatore - espressione tanto dell'illusione liberista di far coincidere interesse individuale ed efficienza generale, quanto dell'affannosa tutela dei privilegi tipica del berlusconismo. Con all'orizzonte le nubi della crisi finanziaria europea che ha già travolto la Grecia, le azioni del governo e questo modo di vedere l'economia appaiono clamorosamente inadeguati. Non sono in grado di affrontare la crisi finanziaria e non sono più in sintonia con una società impantanata nella recessione e impoverita dagli egoismi. I referendum di giugno hanno visto emergere una nuova responsabilità verso la collettività e verso il futuro, che ha spinto gli italiani a scegliere la gestione pubblica dei beni comuni (come l'acqua) e rifiutare (per la seconda volta) l'energia nucleare. Potrebbero essere i segni di un paese che riscopre l'economia del noi, fatta di legami sociali e reciprocità, meno ingiusta e insostenibile. Una spinta che ha segnato il voto al referendum, ma che viene da lontano, dalle pratiche di solidarietà e cooperazione che si sono rinnovate in tutto il paese, e sono rimaste invisibili ai media, ai mercati, alla politica.

Arriva al momento giusto la mappa per esplorare questo cambiamento, offerta dal nuovo libro di Roberta Carlini, L'economia del noi. L'Italia che condivide (Laterza, 2011, 122 pp. 12). Il libro è una guida alle alternative economiche di piccola scala, alla portata di tutti, ma è anche una riflessione su come la sfera delle relazioni sociali si può sovrapporre a quella del mercato, disegnando la possibilità di un'economia giusta. L'inchiesta racconta decine di esperienze che cambiano i modi di consumare, abitare, investire, lavorare, usare il web. Ci sono quelle dei 700 gruppi d'acquisto solidale d'Italia, il microcredito della periferia di Firenze e la finanza alternativa, la lotta per un'economia legale in terre di mafie, l'auto-ricostruzione di un paese dopo il terremoto dell'Aquila, la scoperta del co-housing con famiglie che condividono alcuni spazi di abitazione, la scommessa di dar casa agli immigrati nelle grandi città, la mutualità e l'auto-aiuto, il co-working tra giovani professionisti precari, le iniziative che hanno diffuso energie rinnovabili e il fotovoltaico, le attività in rete con open source e condivisione gratuita dei contenuti.

Tutte hanno in comune il principio della condivisione, prezioso soprattutto in tempi di recessione: mettere in comune le capacità, i pochi soldi, il proprio tempo permette a tutti di stare meglio e fare di più. Tutte hanno un sapore piacevole, quello di recuperare (almeno un po') il controllo su come si vive e si lavora. Tutte richiedono una grande fatica per metterle in piedi, coinvolgere altri, trovare il difficile equilibrio tra efficienza e giustizia.

Il libro - vivace e sintetico - ha il pregio di mostrarci cos'è rimasto del bel paese in Italia, i volti di chi ha resistito a trent'anni di neoliberismo con piccole pratiche quotidiane, di chi affronta le macerie lasciate dalla corsa ai consumi e all'individualismo, dall'illusione della ricchezza facile e dalla realtà di una crisi difficile. Roberta Carlini, già vicedirettore del manifesto, si muove dal punto di osservazione di sbilanciamoci.info, il sito di cui è coordinatrice, con uno sguardo attento ai piccoli passi dell' "altraeconomia" e alla critica della "grande" economia. Un fronte, questo, che ha esplorato l'anno scorso curando il libro Dopo la crisi (Edizioni dell'Asino) con le proposte concrete di trenta economisti europei e americani per uscire dalla recessione (scaricabile da sbilanciamoci.info).

Nei micro-ritratti presentati da L'economia del noi colpisce l'estrema frammentazione delle esperienze: solo in un piccolo gruppo sperimentato può nascere la fiducia reciproca e l'impegno comune che consente di condividere un'avventura economica, la cura dei figli o una rivolta contro la mafia. E' certo un limite alla loro possibilità di crescere, ma anche il segno che possono diffondersi ovunque ci sia la preziosa risorsa della cooperazione. Colpisce l'eterogeneità delle forme organizzative: ci sono gruppi informali, associazioni, cooperative, imprese come le altre, una differenza rispetto al passato, in cui la natura "diversa" dell'attività si rifletteva in modelli cooperativi o non profit. Colpisce la loro piccolissima dimensione economica; la maggior parte delle iniziative offre beni, servizi e lavoro con risorse molto inferiori al valore che può avere un piccolo appartamento, e stupisce che in un'Italia comunque piena di ricchezza non ci sia praticamente nessuno che riconosca il rilievo di questi sforzi e ne finanzi la crescita. Colpisce infine la loro capacità di innovazione sociale, la varietà - e ci sono molte altre esperienze di solidarietà sociale, produzioni culturali, iniziative ambientali, attività in rete meriterebbero di essere raccontate. Colpisce la loro capacità di evolversi: un gruppo di acquisto nato a Milano per risparmiare nella frutta e verdura apre la strada ad aziende di produzioni biologiche capaci di esportare in tutta Europa. A Palermo dalla rivolta contro il racket nasce la rete di "Addio pizzo" che raccoglie 10 mila consumatori, 400 commercianti e 30 imprese, con l'idea di diffondere il marchio "pizzo free" tra i produttori di beni di consumo. Dall'emergenza terremoto a Pescomaggiore nasce Eva, Eco-villaggio autocostruito, che ripopola un paese abbandonato costruendo case fatte di paglia - semplici ma sicure, provvisorie ma sostenibili - usando le competenze di architetti ed esperti, il lavoro di volontari e di chi ci abiterà, ricostruendo una vera comunità.

Storie belle, incoraggianti, esemplari. Fragili, perché sostenute soprattutto dalla determinazione dei protagonisti. E sempre minacciate da una logica di mercato che soffoca le nuove esperienze e usa a proprio vantaggio innovazioni sociali e motivazioni etiche. Le capacità del mercato di neutralizzare i tentativi di fare impresa in modo diverso hanno ormai una lunga storia. È successo qualcosa di simile al movimento cooperativo sviluppatosi nel dopoguerra: le cooperative di produzione e lavoro, tipiche dell'agroalimentare e delle costruzioni, ora si distinguono sempre meno dalle altre imprese. La cooperazione sociale, cresciuta negli anni ottanta con l'esternalizzazione dei servizi pubblici, è ora vittima dei tagli di spesa, perde autonomia rispetto ai politici, deve usare sempre più lavoro precario e a bassi salari. L'espansione del commercio equo e della finanza etica negli anni '90 si è ora arrestata, con grandi imprese e banche che propongono i loro prodotti e servizi "etici". L'idea della condivisione gratuita dei contenuti disponibili nella rete - open source, wiki, peer to peer - ha fatto strada, ma è sempre minacciata da proprietà intellettuale e e-business. Sembra una corsa a inseguimento, con la società che inventa e sperimenta nuovi modi di vivere e lavorare al riparo (almeno un po') dalla mercificazione, e il mercato che insegue, ingloba e reimpone le sue regole.

Sono tutte storie - queste dell'economia del noi - in cui manca la politica. È anche quest'assenza che permette al mercato di soffocare facilmente esperienze come queste. Molti dei protagonisti vedono il loro impegno come il modo per realizzare - in piccolo, in concreto - quei cambiamenti a cui la politica - anche della sinistra - ha rinunciato. Altri affiancano queste pratiche alle campagne dei movimenti che chiedono alla politica di tutelare i diritti, il welfare, l'ambiente. Una società capace di auto-organizzarsi - conclude l'autrice - sarà anche più capace di mettere la politica di fronte alle sue responsabilità: assicurare ai cittadini beni e servizi pubblici, casa e lavoro.

Proprio il nodo della politica è al centro della discussione su questo libro, con gli interventi di Emilio Carnevali su Micromega on line (http://temi.repubblica.it/micromega-online/dentro-l%E2%80%99economia-del-noi/) e Roberto Tesi sul manifesto («Il mutuo soccorso si fa società», 21 giugno), che sottolineano l'esigenza di ricomporre la divaricazione tra comportamenti individuali - piccole pratiche concrete con effetti limitati - e il progetto politico - universalista ed egualitario, ma rimasto astratto e irrealizzato - della sinistra.

La via d'uscita potrebbe essere la politica del noi, fondata non sulla delega del cittadino a un welfare paternalista e burocratico, ma sulla partecipazione di tutti alle decisioni e alla loro realizzazione. Si potrebbe iniziare dalle città che da un mese hanno un nuovo sindaco di centrosinistra: sarebbe bello vedere Pisapia, Fassino, De Magistris, Merola e Zedda usare l'economia del noi come una guida per riconoscere le risorse del cambiamento nelle loro città e disegnare su di esse una nuova generazione di politiche del bene comune. Anche questa sarebbe una bella storia, un impegno faticoso, ma inevitabile per provare a cambiare come si vive e si lavora.

Prima di Google Maps, di Google Earth, dei satelliti, rappresentare una città era un’arte. E non certo minore, se pittori come Bruegel ed El Greco ritraevano dettagli precisi di Napoli o Toledo. Ai Ritratti di città (Einaudi, pagg. XX-378, euro 38) Cesare de Seta dedica il frutto di un lungo studio sostenuto dalla Maison des Sciences de l’Homme di Parigi. Una ricognizione supportata da un ricco apparato di immagini che permette di tracciare una storia dei centri urbani così come erano percepiti tra il XVI e il XVIII secolo.

Perché è con il Rinascimento che lo sguardo sulle città si apre davvero: gli artisti le scoprono insieme alla prospettiva. La grande Tavola Strozzi, dipinta a tempera tra il 1472 e il 1473 da Francesco Rosselli (l’attribuzione è stata per anni al centro di dispute tra gli storici dell’arte) è il capolavoro della raffigurazione urbanistica rinascimentale. Vi compare nitida in una giornata di luce la costa di Napoli come si vedeva dal mare a metà Quattrocento: da Castel dell’Ovo fino al campanile di San Pietro ad Aram, con chiese e costruzioni tuttora bene identificabili.

Un vero e proprio virtuosismo è poi quello compiuto da Jacopo de’ Barbari nel 1500 con la sua incisione su rame di Venezia: la capitale della Serenissima è vista dall’alto con i simboli e le allegorie. Per quattro anni l’editore Kolb di Norimberga fu autorizzato a venderne gli esemplari a tre ducati, un prezzo molto alto per l’epoca, lo stesso delle tele dipinte dai grandi maestri. Segno, questo, di come un prodotto del genere interessasse già il collezionismo privato e non solo le amministrazioni che individuavano nelle vedute un mezzo di esaltazione dell’autorità civile.

L’interesse diventa moda con la diffusione della stampa. Le botteghe producono "libri di città" con immagini che corredano i testi, ma anche fogli sciolti che hanno dalla loro la facilità di trasporto. L’arte cede così il passo all’artigianato. La Cosmographia universalis di Sebastian Münster è il "bestseller" (46 edizioni, 6 lingue) della cartografia di metà Cinquecento. Più volte ristampata e ampliata, l’opera comprende incisioni che sintetizzano l’aspetto delle principali città europee con accenni all’Asia, all’Africa e persino alle Americhe. Il secolo dei Lumi toglierà un po’ il tocco del meraviglioso per privilegiare quello scientifico. Non più solo "veduta", il ritratto di città diventa una pianta utile per controllare e dominare lo spazio urbano. Nasce la topografia.

«Dai NoTav ai NoDalMolin, il Territorio della politica» Una forma specifica della politica che unisce l'uso accorto di saperi specialistici a inediti modelli organizzativi in antitesi a quelli dei partiti politici

Un ultimo esempio dei paradossi insolubili in cui la democrazia s'imbatte è la vicenda valsusina. Che la violenza poliziesca contrasti con la democrazia, in quanto risoluzione pacifica dei conflitti, è scontato. Ed è scontato, in un regime politico democratico, che la violenza sia vietata pure a chi si oppone. Ma c'è un'altra questione ben più complicata. Può una minoranza porre un veto su una decisione assunta da chi legittimamente esercita l'autorità di governo? Si obietterà che la costruzione suddetta avrà un impatto devastante sul territorio della valle e che non sono state fatte tutte le necessarie valutazioni: di costi, d'impatto ambientale, sulla necessità di potenziare quel tratto di rete ferroviaria. Ma se chi governa sostiene l'incontrario, e pretende d'aver a sufficienza ascoltato le popolazioni locali, offrendo loro adeguati risarcimenti per l'incomodo, e se gli elettori gli credono (e nessuna autorità di controllo lo smentisce), è democraticamente legittimo che un interesse locale prevalga su un interesse legittimamente riconosciuto come superiore? Come s'istituisce insomma in democrazia una gerarchia di interessi?

Da un pezzo, le situazioni aggrovigliate come quella valsusina si sono moltiplicate a dismisura. Ha provveduto ad approfondirne i dilemmi un sociologo di scuola torinese, Loris Caruso, che, inerpicatosi dapprima su per la Valle, è poi andato a Vicenza a osservare una vicenda non meno complicata, dedicandovi un libro di pregio (Il territorio della politica. La nuova partecipazione di massa nei movimenti No Tav e No Dal Molin, FrancoAngeli, pp. 223, euro 25). Il confronto è interessante, anche perché qualcuno potrebbe sostenere che simili questioni si risolvano entrando nel merito: se è dubbio che la Tav possa recare un beneficio a tutti gli italiani, come sostengono i suoi fautori, è più difficile contestare l'inutilità della manomissione del territorio prevista per ampliare l'aeroporto Dal Molin. In realtà, pure questo è un argomento fragile: a chi tocca dettare in ultima istanza i giudizi di merito?

In entrambi i casi, Caruso ha sviscerato gli aspetti tecnici della decisione - che sono invero soprattutto politici, giacché, lo sappiamo, decisioni tecnicamente inattaccabili non ne esistono più - e ha quindi investigato le reazioni delle popolazioni locali: come hanno accolto le decisioni, come han dato forma al dissenso, come le autorità di governo hanno provato a tacitarlo, o, quantomeno, a minimizzarlo. Fondata su un'intensa osservazione partecipante, la ricerca ricostruisce il fai-da-te della protesta, le competenze interne e esterne di cui s'è avvalsa, i suoi momenti collettivi, ampi e ristretti, gli umori e i sentimenti degli attori coinvolti. Un movimento è un'istituzione peculiare, la cui fondamentale risorsa è l'opposizione strenua a ogni formalizzazione organizzativa e a ogni leadership consolidata. Se i partiti hanno storicamente assunto a modello lo Stato, i movimenti si avvalgono talora di figure (e know-how) provenienti dalla politica ufficiale e magari interessate di tornarvi, ma rigettano tale modello per ricalcarlo in negativo. É già questo un ostacolo per chi fa ricerca, da Caruso superato stendendo uno scrupoloso resoconto, coronato da un'affilata riflessione teorica.

Come e perché nascono i movimenti? Perché si moltiplicano quelli su base locale? Quale ne è l'impatto sul sistema politico e perché suscitano conflitti così ardui da governare? Tra le tante cose che dice, il libro anzitutto rassicura sui destini della politica. Non è vero che uomini e donne la spregiano. Anzi, avanza una pressante domanda di politica; settori ampi della popolazione sono ben disposti a partecipare e a sostenerne i costi, i quali - intesi come impegno per una causa comune - sono più che costi, incentivi. A essere rifiutata è la politica ufficiale, in compenso però restringendo il raggio stesso della politica. Le nuove identità si fabbricano a contatto col territorio, divenuto principio sostitutivo dei principi identificanti tradizionali: destra, sinistra, classe. Tanto costituisce l'effetto sì di alcuni cambiamenti strutturali, ma anche d'altri cambiamenti occorsi al modo d'essere della politica. Perché se sullo sfondo troviamo la globalizzazione, in primo piano c'è una sbrigativa concezione managerial-decisionista della democrazia, accoppiata a una generalizzata sconfessione degli interessi diffusi a beneficio di quelli circoscritti.

Come la mettiamo con la democrazia? Partecipare al movimento, nelle forme che narra Caruso, fa bene a chi partecipa e gli offre gratificanti orizzonti di senso. Il rischio è che il beneficio sia effimero e confinato alla dimensione locale. Figlie d'una globalità segmentata all'estremo, le rivendicazioni hanno poche chance di «ascendere in generalità», di convergere con altre, e sorge perfino il sospetto che siano tollerate come sfogo della democrazia (pseudo)decisionista, la quale alla fine, quando più le converrà, infliggerà una sconfitta frustrante a chi era stato gratificato dal movimento, non senza riservarsi la possibilità pure di scoprire che i quattrini per pagarsi la Tav non ci sono e che quel tunnel non sarà mai scavato. Ma così purtroppo le cose vanno in democrazia di questi tempi. Salvo che - è forse il suo pregio fondamentale - i suoi equilibri sono sempre instabili. Pertanto, ha forse ragione Caruso quando conclude riponendo qualche speranza nella possibilità che i movimenti prima o poi apprendano a ritrovarsi.

Cosa abbiamo perduto con la chiusura di Carta? Il libro che Anna Pizzo e Gigi Sullo hanno curato insieme ad Anna Pacilli, ne dà un’idea.

Nel volume, dal titolo esplosivo, «Calendario della fine del mondo. Date previsioni e analisi sull’esaurimento delle risorse del pianeta» sono raccolti infatti brevi saggi di una ventina di autori, tutti italiani tranne Serge Latouche; e tutti, Latouche compreso, molto rappresentativi di quello che il mensile-settimanale sapeva far scrivere. Gli autori, come Giorgio Nebbia, Guido Viale, Gianni Tamino tra i tanti altri, danno quasi sempre il meglio di sé e il meglio consiste nello scrivere con chiarezza e spiegare gli aspetti di una linea ambientale anticapitalistica: difesa dei beni comuni, filosofia della decrescita, impegno per mitigare il riscaldamento globale, attenzione all’impronta umana nella natura. Qualche volta però fanno di più, propongono aspetti di una ricerca che ha fatto qualche passo avanti. E questo è il bello della sinistra – qualche volta.

Latouche rilegge il «Collasso» di Jared Diamond senza prenderlo del tutto sul serio. Le cause delle catastrofi sono spesso diverse dall’aumento di popolazione e dalle carestie dovute al clima, non entrano sempre nella categoria dei fenomeni ineluttabili, anzi non si trovano quasi mai in cause che trascendono gli errori umani. E attacca: «...Ricercare la crescita a tutti i costi vuol dire prima di tutto non andare troppo per il sottile sui mezzi per ottenerla... Che si tratti di Chernobyl, della mucca pazza o dello scandalo del sangue contaminato...» Ci si trova di fronte a «una quantità incredibile... di imbrogli, abusi e raggiri dovuti nell’essenziale a tre fattori: la vanità, l’avidità e la volontà di potenza». Ecco quindi il triangolo micidiale: crescita, ingordigia, catastrofe. E Latouche scriveva prima del disastro di Fukushima.

Credevamo di avere ormai imparato tutto da Riccardo Petrella sull’acqua, e che la questione fosse semplice, infine: andare al referendum e vincerlo. Invece nel suo intervento Petrella va ancora avanti. Prima di tutto suggerisce un’equivalenza tra povertà e sete, tra ricchezza e spreco di acqua. «L’acqua rivela che il diritto alla vita per tutti non costituisce una priorità politica ed economica dei gruppi sociali dominanti... Non ci si può, quindi, attendere da loro l’assunzione di decisioni e di misure per modificare il corso attuale della storia». Ci dicono che l’acqua è una risorsa in via di esaurimento e che per questo va pagata applicando i due principi del «paghi chi consuma» e «paghi chi inquina». Petrella spiega che non è così. L’acqua è sempre nella stessa quantità, da milioni di anni e sarà altrettanta per altri milioni. Solo che l’acqua «buona» è prelevata in eccesso e inquinata. Secondo i padroni dell’acqua, per averne abbastanza, si devono sopportare costi elevati e quindi ci vogliono prezzi elevati per ripagare i costi a chi li ha sopportati, con un qualche giusto profitto. Petrella replica che il ragionamento non tiene. Non si tratta di costi, ma d’«investimenti» che le popolazioni fanno per poter fruire del bene comune per eccellenza, l’acqua. «Quel che in una logica capitalista di mercato è considerato un costo per il privato... in una logica di economia pubblica e dei diritti umani e sociali alla vita e del vivere insieme è invece considerato un investimento comune, per il benessere comune».

Carta sapeva affrontare temi attuali e il volume segue quella falsariga. Tra i tanti discorsi pratici attraversati dal «Calendario» eccone uno, l’uranio. Mario Agostinelli fornisce numeri poco abituali. Per le centrali nucleari occorre un quantitativo tot di uranio arricchito (11.521 tonnellate). Quello che si scava e setaccia e tratta ogni anno non basta per le centrali esistenti. E allora come tornano i conti? Per ora le grandi potenze atomiche hanno smantellato le loro riserve di bombe, vendendo sul mercato l’uranio in esse contenuto. Ma anche l’arsenale atomico spendibile – quello che gli stati maggiori considerano non indispensabile per i loro piani di distruzione di Terra e quindi alienabile – sta per finire. Il prezzo dell’uranio sale, sale. Ricavare uranio dal minerale di partenza costerà sempre di più – fino all’esaurimento tra qualche decennio – sia in termini di dollari che di energia utilizzata che di inquinamento; un inquinamento a monte, molto prima che la produzione di energia elettrica dal reattore cominci. E poi c’è il problema dell’uranio arricchito ma non abbastanza; in altre parole l’uranio impoverito. Cosa farne, dove riporlo? Se lo si spara un po’ in giro, assicurano gli stessi stati maggiori di prima, gli interventi umanitari riescono meglio e poi ci penseranno altri a risolvere i problemi delle scorie.

Propriamente della fine del mondo promessa, si tratta in due articoli: ecco Daniele Barbieri che rilegge le fini del mondo prospettate nella fantascienza e Marinella Correggia che fa parlare un albero, l’ultimo rimasto. L’antologia di disastri finali suggerita da Barbieri è naturalmente un breviario di orrori, vergogne e paure nella vita attuale, nel giorno dopo giorno del genere umano. L’albero che parla è davvero l’ultima sentinella: «Mi presento. Sono l’ultimo pezzo di Amazzonia rimasto vivo. Vivo. Qualcuno deve pure aspettare, essere quello che chiude la porta dietro il nulla...». E così via dicendo.

A DKm0, e al suo sito www.democraziakmzero.org, andrà per intero il ricavato del libro. Corredato da grafici e mappe, 272 pagine, in libreria costa 19,90 euro. Ma si può averlo anche a casa senza costi di spedizione, ordinandolo all’indirizzo zero.libri@gmail.com

Nel suo recente Il Grande Saccheggio (Laterza 2011, pp. 217, euro 16), Piero Bevilacqua sottolinea come la questione ambientale sia l’aspetto più drammatico della crisi economica – una crisi che distrugge non soltanto le risorse ecopaesaggistiche, ma anche e soprattutto, il tessuto politico- culturale e le soggettività civili e sociali. Per uscirne bisogna «rimettere in valore» il territorio – con un senso, però, che sia lontano tanto dalle marxiane «teorie del valore», quanto dal concetto di «valore di mercato» (spesso più finanziario che economico) con cui oggi si pretenderebbe addirittura di ridefinire (e svendere) anche i beni comuni e culturali come l’ambiente, il territorio, il paesaggio. Parlare di «valorizzazione» significa invece richiamarsi ai dettami del Codice del Paesaggio, («riattribuzione di peso socio- culturale») o a quelli del Programma Territorialista (affermazione dei valori «verticali », intangibili,non spostabili, tipici dei luoghi).

Ecologista per forza

Non dovremmo infatti dimenticare mai che un tempo il territorio non era esclusivamente «fattore di produzione» e che tale è diventato soltanto con le rivoluzioni industriali «moderne». Prima, come ricorda Angelo Turco in Configurazioni della territorialità (Franco Angeli 2010, pp. 336 euro 24), abbiamo «abitato i luoghi», depositando «strati di civiltà» che non degradavano, anzi arricchivano, il paesaggio proprio per le relazioni virtuose tra l’ambiente naturale e gli oggetti che man mano vi trovavano posto. Untempo, certo, mancava la tecnologia per iperconsumare, offendere l’ambiente. L’uomo era «forzosamente » ecologico ma, acquisita la tecnologia necessaria, si è illuso di «garantirsi la sostenibilità con il progetto», finché il peso degli interessi economici è stato tale da pervadere e modellare l’intero spazio (diceva Walter Benjamin che «il territorio della contemporaneità è disegnato dalla statistica»).

Un futuro possibile (anche economico) richiede dunque il blocco del consumo di suolo, il risanamento ambientale, la riconversione ecologica delle produzioni e un alto tasso di smaterializzazione (innovazione sociale, quanto tecnologica, mobilità sostenibile ed energie rinnovabili, ripresa delle colture tipiche, accorciamento delle filiere, consumi a «chilometro zero»). Di questo tipo è la Green Economy prefigurata da Guido Viale nel suo La conversione ecologica. There is no alternative (NdA Press 2011, pp. 184, euro 10). Una visione di economia ecologica che tratta con le pinze il termine «sviluppo» forse qui più prossimo alla «decrescita» e che comunque è fondato su una ripresa «colturale e culturale» dei contesti. Molti riferimenti in una direzione simile giungono anche dall’ultimo lavoro di Salvatore Settis, Paesaggio, costituzione, cemento. La lotta per l’ambiente contro il degrado civile (Einaudi 2011, pp. 326, euro 19).

Nell’enfatizzare il possibile versante culturale della green economy, molta vulgata politica e mediatica usa ricordare che «l’Italia è il paese che possiede se non il 70, il 60 o forse il 50% dei beni storicoculturali » di tutto il pianeta e quindi «ciò che stiamo distruggendo o degradando», i beni culturali, «devono e possono diventare una voce importante della nostra economia, magari intrecciata a un turismo intelligente ». Opportunamente Settis sottolinea la futilità di tali argomentazioni e ricorda piuttosto il senso «costituzionale del nostro paesaggio » («L’Italia è stata il paese al mondo a fornire al paesaggio dignità costituzionale, con l’articolo 9 della Carta»). Un senso costituzionale che non è solo il riconoscimento culturale di quel Bel Paese, già connotato da un alto valore sociale (l’importanza del paesaggio agrario italiano, descritto da Emilio Sereni, dopo i viaggiatori del Grand Tour), ma che sancisce l’esito di sistemi di regole con cui la comunità nazionale – anche assai prima dell’Unità – tutela il proprio patrimonio culturale e ambientale, e afferma così «il proprio costituirsi come cittadinanza» – proprio con «il rapporto quanto mai stretto tra natura e cultura, la creazione del famoso paesaggio italiano (Hannah Arendt)».

La citazione è di Settis, che così prosegue: «Quest’Italia non era immobile, cambiava anzi ogni giorno, ogni ora, piano, con cura. Quei mutamenti anche profondi, ma sempre meditati, furono per secoli il frutto maturo di una mediazione mentale e sociale fra l’eredità del passato e qualche ipotesi per il futuro: ma quali che fossero desideri e progetti, l’ago della bussola era sempre fisso su un saldo senso di familiarità dello spazio vitale».

Monumenti della classicità

Questa continuità è ben sottolineata da Ilaria Agostini, che nel suo Il paesaggio antico (Aion 2009, euro 16) ci offre alcune notevoli descrizioni di diversi contesti del Bel Paese di ieri da parte dei viaggiatori del Grand Tour, tra cui famosi studiosi del Sette-Ottocento. «Richiamati in Italia dalle meraviglie antiche di Roma, dalle recenti scoperte archeologiche vesuviane e dalle ricchezze naturali tiburtine, ma anche dalle mutate condizione geo-politiche, i voyageurs focalizzano l’attenzione sulle curiosità di storia naturale e sulle opere d’arte: Il paesaggio agrario archeologico – come definito da Piero Camporesi – può costituire il fondale, ma talvolta si rivela protagonista della scena fino ad essere letto esso stesso come monumento della classicità». La studiosa fiorentina descrive le visitazioni di tre contesti ecoagricoli : la Campagna Romana, Tivoli e il Tiburtino, la Campania Felix.

Questi ambienti «costituiscono nei decenni tra Sette e Ottocento le tappe fondamentali del Voyage d’Italia (…) e offrono ai protagonisti, nel contesto agrario di ascendenze millenarie, la testimonianza archeologica dell’insediamento classico, lo spirito nel rapporto tra l’idea dell’antico e la longue durée della nostra cultura materiale»; esemplari icone di quella fertile territorializzazione che aveva saputo dare luogo al Bel Paese. Gli aranci di Chateaubriand Colpisce pensare che molti dei contesti «cantati» da esponenti notevoli della storia della cultura occidentale, da Montaigne a Cassini, da Madame De Stael a Chateaubriand, da Bornstetten a De Sade, sono oggi cancellati, coperti dalla «blobbizzazione di cemento» che costituisce la versione italica della città diffusa. E lo studio di Ilaria Agostini è tanto più importante perché sottolinea come viaggiatori ed intellettuali coglievano un climax, che significava relazioni virtuose – ancorché costrette – non solo tra ambiente, paesaggio e territorio (non ancora costituitisi come modi, e quindi discipline, differenti, di leggere lo stesso oggetto spaziale), ma tra categorie etiche, estetiche e pragmatiche del sapere pratico, quotidiano.

Quello che oggi è «Gomorra», ieri era l’ Eden: «Da Gaeta ci si trova a tutti gli effetti nel Sud. Lasciata Fondi – scriveva Chateaubriand nel 1804 – ho salutato il primo aranceto: questi begli alberi erano pieni di frutti maturi... La strada per Napoli attraversa un jardin continuel: l’aria è così dolce e la campagna,così ricolma di ogni sorta di verdura, in tutte le stagioni; è come il paradiso terrestre». Siamo lontani da quel mare di «cemento e rifiuti» che oggi sommerge tutto questo e che è anche, osserva Piero Bevilacqua, la migliore rappresentazione della distruzione dei tessuti sociali, culturali e civili. Eppure, nonostante tutti questi sfasci – sostiene Bevilacqua – il Bel Paese presenta ancora, oltre al patrimonio culturale, brani di paesaggio di assoluta eccellenza e rilevanza. Ce n’è abbastanza per concordare con Settis: un’altra pietra miliare sulla quale appoggiare quello scenario di società sostenibile, abbozzato da Guido Viale (la cui green economy diviene così funzionale alla qualità del vissuto dei luoghi; ma senza determinarla) è la tutela, che significa non solo conservazione del patrimonio, ma capacità di fruirlo, in coerenza con le sue caratteristiche.

La nuova centralità di cultura e qualità della vita in uno scenario sociale prossimo futuro costituisce insomma la struttura principale di un programma politico. Bevilacqua e Viale del resto concordano: si esce dalla crisi abbandonando la centralità del pil e assumendo quella dei luoghi di vita. È interessante rilevare come i diversi autori che abbiamo fin qui citato, pur provenendo da esperienze scientifiche e culturali affatto diverse, convergano con il ProgrammaTerritorialista di Alberto Magnaghi. Laddove quest’ultimo ne ha sviluppato i concetti nell’ambito di traiettorie interne alle scienze territoriali, gli altri giungono alle stesse considerazioni, ma muovendo da differenti campi: sociologia, antropologia, geografia, economia, anche filosofia.

Firmitas, utilitas, venustas

Nel progetto territorialista emerge una mente glocale, capace di declinare le attitudini locali di processi globali. Lo scenario futuro evolve secondo i criteri dello «sviluppo locale autosostenibile». Protesta tuttavia Serge Latouche, affermando che, dopo aver percorso molta strada nella critica al concetto di sviluppo, Magnaghi e i territorialisti cadono anch’essi nella «trappola dello sviluppo locale». Qui conviene mettere a fuoco quella che sembra una sfumatura, ma è un caposaldo del progetto territorialista: nello Sviluppo Locale Autosostenibile il concetto di sviluppo è un pretesto: ciò che deve crescere è il paniere di grandezze rappresentative dei valori che strutturano il luogo, caratteri tipici del contesto, non ripetibili né trasportabili: ecologia, cultura, archeologia, produzioni, colture...

L’affermazione generale di queste risorse può significare anche decrescita delle variabili economiche, «sviluppo per sottrazione», secondo l’ironica definizione di Osvaldo Pieroni. Il prossimo «progetto di territorio » diventa dunque «scenario di società futura». Nel suo Verso il Progetto di Territorio (Aion 2009, euro 32), Daniele Vannetiello propone un avanzamento possibile dell’asse della ricerca attraverso una rivisitazione di un’imponente rassegna di progetti di riqualificazione e disegno architetture, città o territori, tramite le categorie vitruviane di firmitas, utilitas e venustas, di recente riproposte da Francoise Choay: «Nella griglia che così si determina sono stati inseriti, in concatenazione logica, oggetti capaci di definire regole d’azione relativa al loro specifico ambito…e fare emergere la sostanza normativa ad essi sottesa ».La ricerca di norme e regole, precisa Vannetiello, «è qui intesa propriamente in senso antropologico, convinti come siamo, con Claude Levi Strauss, che la regola “fonda la società umana e, in certo senso è come la società”».

Nonostante questo sforzo di chiarezza, lo studio – di notevole rilevanza anche per le dimensioni e le modalità di indagine dei casi proposti in rassegna – suscita alla fine alcuni lievi dubbi sull’impiego delle categorie vitruviane, che rischia di risultare alla fine didascalico quanto tendenzialmente rigido: l’uso manualistico e addirittura trattatistico di categorie che potrebbero rivelarsi utili «dopo un processo di decostruzione e ricontestualizzazione » risulta sempre problematico. Inoltre, la valenza normativa di molti progetti è prevalentemente tecnico-gestionale e lascia sullo sfondo, talora in modo eccessivo, i caratteri locali dell’azione sociale.

Ma qui soccorrono le ultime vicende non solo del programma di ricerca, bensì dell’evoluzione dell’intera area scientifico-culturale dei territorialisti. Non a caso, nel riconoscimento di un nuovo soggetto sociale – riemergente dalla fase liquida – Settis propone «azioni popolari», probabilmente attorno alle crescenti «tracce di nuove comunità» che secondo Zygmunt Bauman si ritrovano «individualmente insieme» attorno alle nuove sensibilità – non solo estetiche, ma di nuovo etiche e pragmatiche – verso il paesaggio (su simili concezioni «strutturali» di estetica si sofferma Paolo D’Angelo in Estetica, Laterza 2011, pp. 234, euro 15).

Tra joie de vivre e politica

Del resto, nella recente riproposizione del suo Progetto Locale (Bollati Boringhieri 2010, pp. 334, euro 19) Alberto Magnaghi ricorda come in questo senso andasse l’esperienza – peraltro non conclusa – della Rete del Nuovo Municipio, che insieme ad altri network di istituzioni e soggettività locali, tentava di risostanziare le politiche istituzionali (non solo urbanistiche e paesaggistiche) attraverso l’incontro tra gestioni municipali «avanzate», ricerca innovativa sul territorio, associazionismi e movimenti di tutela e affermazione del bene comune. Una strada che, probabilmente per i caratteri della fase socio-politica che viviamo, si è rivelata assai – forse troppo – faticosa. Oggi il gruppo «multidisciplinare » dei territorialisti passa forse «dalla mobilitazione diretta alla promozione dell’apprendimento sociale», come direbbe John Friedmann, proponendosi una fertilizzazione più lenta, di più lungo periodo, ma sempre dal basso, non solo di istituzioni politiche e tecnicoprofessionali, ma di settori crescenti di «società sensibile», tra cui dovrebbero annoverarsi le figure appartenenti alle moltissime tipologie di «difensori del territorio».

Nel manifesto della giovanissima (dicembre 2010) Società dei Territorialisti si legge infatti: «Lo sviluppo della società locale si misura sia mediante la crescita del suo benessere, inteso come joie de vivre, felicità pubblica, buen vivir, sia attraverso la capacità di promuovere partecipazione politica, apertura dialogica verso i valori e le conoscenze degli altri; si misura infine con l’elaborazione di percorsi critici e alternativi… ».

Gli aspetti più interessanti di questa «convergenza di specialismi diversi » vanno insomma ben oltre i tentativi di costruire azioni di tutela ambientale e dei beni comuni, per prospettare «orizzonti di futuro », possibile quadro scientifico di riferimento per un arcipelago ormai assai largo di associazioni, gruppi, comitati che, collegati spesso in «reti di reti», intendono predisporre strategie di blocco del degrado verso il ripristino della qualità sociale.

L'economia è una scienza triste: tutta centrata com'è sull'individuo, sull'homo oeconomicus, come ci ricorda Roberta Carlini in questo Economia del noi (Laterza, pp. 134, euro 12. Disponibile anche in ebook). La felicità delle persone, come ha insegnato Adamo Smith - non nasce dalla generosità di comportamenti individuali, ma dagli egoismi individuali. Ma, all'economia «dell'io» si sta contrapponendo una «economia del noi». In altre parole comportamenti che sostituiscono «la condivisione alla divisione, la cooperazione alla frammentazione». Ma cos'è l'«economia del noi». Roberta Carlini, in passato vice direttore del manifesto, autrice di questo saggio da leggere in un fiato la definisce come «un insieme di esperienze fondate sui legami sociali, nelle quali gruppi di persone entrano in relazione e cercano soluzioni comunitarie a problemi economici, ispirate a principi di reciprocità, solidarietà, socialità, valori ideali, etici o religiosi». Carlini ci ricorda che l'economia del noi, che oggi sta molto crescendo di dimensione, ha precedenti storici importanti: le società di mutuo soccorso, ad esempio. Ma anche le cooperative di produttori agricoli e non solo. Insomma, rispetto alla prepotenza del capitalismo, molto spesso i lavoratori (ma anche i consumatori) hanno cercato di organizzarsi, almeno per resistere, per poter sopravvivere. Spesso veniva assistito chi non poteva lavorare o non aveva reddito: come dire «l'economia del noi» ha gettato le basi di quella che poi è diventata l'economia del welfare state.

Il libro di Carlini è una di quelle inchieste che oggi non vanno più di moda. Una inchiesta su come stanno crescendo queste esperienze condivise. Ci racconta questa diffusione che ormai va «dai gruppi d'acquisto di quartiere alle nuove comunità del free software, dai gruppi di abitazione o di autocostruzione al coworking, dalle banche del tempo all'economia di comunione, dalle cooperative sociali alla finanza etica». Le motivazioni per le quali si partecipa all'economia del noi «sono diverse. Per esempio «i gruppi di acquisto solidale, nati sull'esigenza di coniugare consumo ad etica, sono cresciuti esponenzialmente sull'onda delle crisi alimentari relativi effetti di panico; sono diventati uno strumento molto potente nella riconversione ecologica dell'economia; e hanno modellato i propri caratteri sulle priorità del territorio nel quale operano in organizzazioni che si stanno sempre più strutturando».

Il libro-viaggio dell'autrice si sviluppa in cinque capitoli che affrontano le esperienze del noi nei settori del consumo, del credito, delle case, delle imprese e del web. Si tratta di un viaggio in Italia che racconta esperienze esemplari che in quanto tali possono fornire idee e che possono essere seguite e imitate. Carlini, tuttavia, è convinta che «questi bisogni, devono tradursi in un progetto politico, e deve essere lo stato a garantire la soddisfazione su un piano di parità, universalità, eguaglianza di tutti i cittadini». In altre parole, deve essere la politica urbanistica a dare una casa, la politica sociale a proteggere chi è travolto «dalle tempeste del mercato del lavoro», la politica sanitaria a a «dare cure a tutti», la politica dei comuni a incentivare le energie alternative e curare la raccolta differenziata.

Questo significa che la politica del noi è inutile? La risposta, naturalmente, è no: l'organizzarsi serve a rendere più forte la voce di chi pretende un intervento efficiente dello stato e per far arrivare i servizi pubblici dove non arrivano e a «alzarne la loro qualità sociale». Ad arricchire il volume c'è una notevole «sitografia» finale: per tutti i cinque capitoli del libro sono indicati di siti di organizzazioni che hanno realizzato esperienze di economia del noi. In particolare da segnale le non profit che si occupano di cohousing.

L´autunno del 2008 passerà alla storia come il mese del great slump (il grande crollo). Trovarvici in mezzo, ha significato vedere gli effetti disastrosi della più potente ideologia del ventesimo secolo, quella della deregulation, quella che ha comandato di trattare il credito come una merce eguale alle altre, di negoziarlo su mercati privi di controlli, con l´esito di fare dell´"industria bancaria" (come viene chiamata negli Usa) un´industria altrettanto pericolosa di quella nucleare.

Questa ideologia, spiega Michele Battini nel suo ultimo libro, Utopia e tirannide: Scavi nell´archivio Halévy (Bollati Boringhieri, pagg. 384, euro 26), aveva messo radici alla fine degli anni ´70, quando Paul Volcker era stato nominato presidente della Federal Reserve, avviando le politiche di liberalizzazione estrema e riducendo i diritti sociali a una variabile del bilancio federale. In quegli stessi mesi, nel Regno Unito, la signora Thatcher aveva iniziato a picconare l´edificio del Welfare. Volcker era stato allievo, e Thatcher fervente ammiratrice, di Friedrich von Hayek, il maestro della scuola neomarginalistica. Proprio nel ´79, Hayek aveva licenziato il suo capolavoro, Legge, legislazione e libertà, un poderoso attacco a quello che egli chiamava il "miraggio" della giustizia sociale. L´utopia illuministica che il legislatore possa organizzare la società e costruirla attraverso il diritto avrebbe, pensava Hayek, l´effetto perverso della tirannia. Dagli anni della Guerra Fredda, la cosiddetta «democrazia totalitaria» era divenuta l'ossessione di tutti i neoliberali, da Talmon a Furet a Berlin. Hayek metteva in dottrina quella visione, sostenendo che tra il Welfare State delle democrazie occidentali e la pianificazione totalitaria sovietica, non vi era differenza di sostanza.

Battini mette in discussione questo paradigma e, sulla scorta di altri pensatori, come Karl Polanyi, Marcel Mausse e Amartya Sen, vede proprio nell´utopia del mercato autoregolato (ma in realtà imposto dal potere politico) una nuova forma di dispotismo sociale. Si mette allora a seguire una strana pista. Non lo convince, ad esempio, che tutti i maestri del neoliberalismo invochino l´autorità di un grande storico francese, Elie Halévy, ebreo e amico di Carlo Rosselli, uno dei massimi studiosi dell'utilitarismo e del socialismo europeo dal Settento al Novecento. Ad Halévy si ispirarono i teorici dell´utopia del mercato, a partire da Raymond Aron, il quale aveva pubblicato, postumi, due capolavori: L'era delle tirannie e la Storia del Socialismo europeo, considerati pietre miliari della critica liberale dell´utopia sociale come generatrice di tirannide. Attraverso un lungo lavoro d´archivio, Battini risale alle fonti otto e novecentesche dell´opera di Halévy e, soprattutto, scopre che Aron e i suoi collaboratori non inclusero alcuni manoscritti importanti del maestro; inoltre operarono modifiche e interpolazioni (per esempio, tolsero il capitolo sulla comune natura universalistica e illuministica dell´economia classica e del socialismo, molte pagine su Marx e sulla cooperazione sociale).

Scrive Battini che Aron non poteva ammettere che Marx potesse essere schierato «sul versante dell´internazionalismo e della libertà», come aveva scritto Halévy. Per i dottrinari del mercato, doveva esistere solo un socialismo, quello dispotico e comunitario; non poteva essercene un altro, anch´esso erede dei Lumi ma perché erede della rivoluzione dei diritti. Questo liberalismo sociale portava non a Stalin, ma a Hobhouse e i liberalsocialisti britannici. Restituendoci un Halévy completo, Battini ripercorre in modo originale le vicende di entrambi i socialismi, quello statalista e quello liberale. A quest´ultimo, alleato naturale della democrazia, fondato sulla filosofia dei sentimenti morali di Adam Smith e il liberalismo di John Stuart Mill, l´autore ci invita a guardare nella ricerca di una soluzione alla tirannia incubata dal dogma del mercato. Questo liberalismo, che coltivò il modello della cooperazione e dell'economia mista, ha cercato di tener insieme i due principii di distribuzione delle ricchezza: lo scambio e il bisogno. Battini mostra in sostanza come la tirannide dei moderni non nasca dall´«utopia della giustizia» ma dalla violazione del principio della reciprocità sociale sul quale si regge lo scambio e, appunto, la giustizia.

Fra il nome "democrazia", inteso come ideale normativo, e la cosa a cui si riferisce, le democrazie reali con tutto il loro carico di contraddizioni, anomalie, regressioni e smentite, è aperto oggi uno scarto analogo a quello che abbiamo già conosciuto fra il nome "comunismo" e le sue realizzazioni novecentesche. E come accadde, ben prima dell'89, per il pensiero comunista, così oggi, vent'anni dopo l'89 e il trionfo della democrazia sul comunismo, è in questo scarto fra il nome e la cosa che si apre lo spazio per il pensiero democratico critico e autocritico. Più o meno critico e autocritico, perché le posizioni in campo sono molto sventagliate (una buona esemplificazione nel volume In che stato è la democrazia, ed. Nottetempo, con interventi di Agamben, Badiou, Bensaid, Wendy Brown, Nancy, Rancière, Kristin Ross, Zizek: il manifesto ne ha già parlato in occasione dell'uscita sia francese che italiana) e si differenziano non solo per il grado di durezza delle contestazioni allo stato effettivo della cosa, ma anche per il credito che mantengono o revocano alla pregnanza del nome. Non si tratta insomma soltanto di riconoscere e combattere le degenerazioni in atto nelle democrazie reali, ma più radicalmente di chiedersi se il termine "democrazia" mantenga il suo significato ideale e mobilitante, o possa comunque essere ri-significato e rilanciato, malgrado e oltre queste degenerazioni; o se invece non debba essere destituito come emblema dominante ma consunto della politica contemporanea.

Dentro questo scarto fra il nome e la cosa si snoda il lungo dialogo fra Ezio Mauro, direttore di Repubblica, e Gustavo Zagrebelsky, giurista ed ex presidente della Corte costituzionale, pubblicato da Laterza con il titolo La felicità della democrazia (245 pp., 15 Euro). Si tratta, va detto subito, di un dialogo vero, con i suoi punti di contatto e di frizione, che restituiscono un giudizio concorde sullo stato della cosa, e gradi diversi di investimento (Ezio Mauro) e di disincanto (Zagrebelsky) sulle sorti del nome. Lo stato della cosa è sotto gli occhi di tutti: ovunque in Occidente, e in Italia emblematicamente, la democrazia reale si rivela oggi il regime delle «promesse non mantenute», secondo una nota espressione di Norberto Bobbio, quando non della corruzione sistematica, dell'illegalità e del populismo. Eppure, il nome resta l'ideale, l'unico ideale politico, del presente, capace di chiamare alla mobilitazione sia chi vuole appropriarsene, come oggi in Nordafrica, sia chi vuole distruggerlo, come Al Quaeda nello scorso decennio. Ma qui già le posizioni dei due interlocutori si differenziano. Se per Ezio Mauro le contraddizioni pur allarmanti della cosa non intaccano la fiducia nel nome e nella sua vocazione universalistica, per Zagrebelsky al contrario è proprio il nome a vacillare: impugnato ormai, in Occidente, più dai potenti per legittimare i propri abusi che dagli esclusi per ottenere uguaglianza e giustizia, esso si rivela un termine contemporaneamente «troppo elastico e troppo compulsivo», tanto elastico da prestarsi a coprire derive oligarchiche e autoritarie, e tanto compulsivo da essere diventato «lo shibboleth d'accesso alla vita politica» anche per chi democratico non è. Se per Mauro la democrazia, erede superstite e vincente delle lotte novecentesche per l'emancipazione e i diritti, è «il vero sistema di credenze dell'occidente, la nostra vera religione secolarizzata», e va difesa «con ogni mezzo, perfino quello estremo e contronatura della guerra» dalle sfide e dagli attacchi che subisce, per Zagrebelsky quel sistema di credenze è segnato da una storia di compromissioni col dominio politico, economico e culturale su altri popoli: «dobbiamo difenderci, ma dobbiamo anche interrogarci», e comunque la difesa della democrazia non può passare per la sua sospensione nello stato d'eccezione. Se, di conseguenza, Ezio Mauro vede nella guerra interna e internazionale al terrorismo - il caso Moro in Italia, l'11 settembre su scala globale - due momenti emblematici, dolorosi ma necessari, di questa difesa senza se e senza ma della democrazia, più problematico è lo sguardo ex-post di Zagrebelsky: su Moro in particolare, mentre per il direttore di Repubblica non c'era alternativa alla fermezza, («lo Stato era un guscio vuoto, ma quel guscio andava in ogni caso difeso: se salta il guscio, salta la democrazia»), per Zagrebelsky («credo, allora, di avere oscillato; oggi propenderei per tentare ogni strada pur di salvare una vita in pericolo») il «senso dello Stato» allora invocato aveva un'eco vagamente totalitaria, la fermezza coprì un deficit di autorità politica e istituzionale, e «non diciamo che lo Stato non ha ceduto: rispetto alla vita di Moro e al dovere di salvarla, non solo ha ceduto ma ha perso tutto».

Ma veniamo al presente, e alle due derive su cui nell'Italia di oggi la distanza fra la cosa e il nome si misura tangibilmente. La prima deriva è lo scollamento fra forma e sostanza democratica, ovvero fra la democrazia procedurale e il sistema di diritti, non solo individuali e politici ma collettivi e sociali, che essa dovrebbe garantire e invece non garantisce più. Qui il dialogo si fa più stretto e le due voci si sovrappongono: non c'è forma democratica senza sostanza, dicono i due autori all'unisono ripercorrendo il caso Thyssen come «scandalo della democrazia», l'accordo Fiat del 23 dicembre come punta sintomatica di una globalizzazione che straccia i diritti nella diserzione della politica, l'istituzione del reato di clandestinità e più in generale la politica anti-immigrati come prova provata del capovolgimento dell'inclusività democratica nell'esclusione xenofoba.

In Italia tuttavia non si tratta solo di scollamento fra forma e sostanza: è la stessa forma della democrazia a vacillare - seconda deriva - sotto la pressione del populismo berlusconiano. Siamo all'osso della questione che da anni occupa il centro del dibattito pubblico: se e quanto il ventennio berlusconiano abbia deformato l'assetto democratico della Repubblica. C'è, lo sappiamo, chi risponde di no: chi sostiene, non solo nel campo del centrodestra - per ultimo Pierluigi Battista sul Corsera di pochi giorni fa, a commento del primo turno delle amministrative - che la democrazia resta tale finché funziona la conta elettorale, e che quanti da sinistra gridano al regime non fanno altro che coprire l'incapacità politica dell'opposizione di conquistare il consenso necessario a diventare maggioranza. Qui il punto però non è la denuncia del regime (Mauro: «non sono d'accordo con chi sostiene che l'Italia di oggi non è democratica, o usa paragoni impropri con regimi del passato»), bensì la concezione della democrazia. Che nelle costituzioni novecentesche non si regge solo sul principio di legittimità, cioè sul voto, ma anche su quello di legalità, con tutte le dovute conseguenze in termini di divisione e limitazione dei poteri. Ed è precisamente questa combinazione ad essere saltata nell'Italia berlusconiana, dove il consenso maggioritario e il riferimento continuo alla sovranità popolare servono a legittimare «l'unione sacra», come la chiama Ezio Mauro, fra il Capo e il popolo, «una «concezione titanica della leadership» che non riconosce i vincoli della legge e i limiti del potere, e mescola «affabulazione del reale e del leggendario in una mitologia del contemporaneo, dove la storia scorre solo nella dimensione eroica, di succeso in successo, e non sono previsti dubbi, pause e incertezze». Una «democrazia carismatica» che in Italia si è affermata in virtù delle «anomalie» di cui Berlusconi è portatore - conflitto d'interessi, strapotere economico e mediatico, legislazione ad personam - ma che può diventare «una tentazione per l'Occidente, la sua scorciatoia». E coprire da noi - sottolinea Zagrebelsky invitandoci a distogliere lo sguardo dalla persona del leader e da una visione troppo eroica del suo carisma presunto - la solidificazione di un potere oligarchico ramificato e più duraturo della stella, peraltro calante, del Capo.

Perché allora, e ancora, la democrazia? Zagebelsky pone la domanda in termini non retorici, consapevole che se nel breve giro di un ventennio la «baldanzosa fiducia» dell'89 nell'avvenire della democrazia si è capovolta in disincanto qualche ragione c'è; e che se oggi «la fiammella democratica» si riaccende nella primavera araba questo non ci esime dal chiederci perché da noi, invece, «la fiamma si affievolisce». Nella risposta si riaffacciano, fra i due interlocutori, tonalità diverse. Per Ezio Mauro il saldo della partita democratica, al netto della sua pur allarmante crisi, resta comunque in attivo: la condizione stessa della cittadinanza garantisce che, di fronte alle derive degenerative, «il campo resti contendibile» e il conflitto praticabile; la partita è aperta ed è nelle nostre mani. E dalla parte della democrazia, sottolinea il direttore di Repubblica, lavorano processi inarrestabili di svelamento del potere e dei suoi giochi segreti: «la vecchia talpa dell'informazione», potenziata e globalizzata da Internet, scava per noi, in un braccio di ferro «fra menzogna e conoscenza» che piega la politica verso la trasparenza e la sottrae alle pretese del potere. Per Zagrebelsky pure la partita è nelle nostre mani, anzi ancor più nettamente nelle mani della «tanto bistrattata società civile», meno vincolata ai «giri di potere» che ingabbiano l'insieme della classe dirigente; ma a patto che torni in campo, dal basso appunto più che dall'alto, la concezione e la passione della politica come conflitto fra fini e fra modelli di organizzazione sociale alternativi, e non solo come amministrazione e «accomodatura» più o meno moderata dell'esistente. E' qui dunque , «nello scadimento della politica in amministrazione» e nel conseguente appannarsi delle differenze fra destra e sinistra, se vogliamo ancora chiamare così due visioni alternative di sistema, «la causa della crisi della democrazia»: la politica dei fini essendo, della democrazia, una pre-condizione, non un residuo vetero-novecentesco di cui liberarsi in nome di una malintesa condizione post-ideologica.

Lo sguardo del giurista è portato dunque alla fine a posarsi sul bordo extra-giuridico del discorso: la crisi della politica da un lato, la crisi dell'homo democraticus contemporaneo dall'altro. Non per caso, il dialogo finisce su quella soglia - l'insuperata descrizione tocquevilliana della «folla innumerevole di uomini simili ed eguali, che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli piaceri con cui soddisfare il loro animo, ciascuno di loro come estraneo al destino degli altri» - che più radicalmente interroga la razionalità democratica, obbligandola a ripensare non solo le promesse mancate della democrazia ma anche le sue premesse: non solo le deformazioni del kratos ma anche la formazione del demos (appena uscito sempre da Laterza, su questo punto, il libro di Valentina Pazé In nome del popolo. Il problema democratico); non solo l'edificio istituzionale, ma l'antropologia politica su cui si erige; non solo le regole e i diritti, ma anche le forme di vita, i desideri, il rapporto fra legge e godimento, i legami fra ordine simbolico e ordine sociale. La stessa domanda conclusiva che dà il titolo al dialogo fra Mauro e Zagrebelsky, quella sul rapporto - ipotetico - fra democrazia e felicità, allude alla necessità di sporgersi su questo bordo esterno del discorso, dove la razionalità democratica perde presa e l'immaginario populista ne guadagna. E' su questo bordo, forse, che siamo chiamati a indagare di più se vogliamo svelare, con gli inganni del potere, anche i nostri autoinganni.

Inevitabile topos retorico a giustificazione di una recensione ritardata è sicuramente quello che annette al testo oggetto d’analisi un’inalterata attualità. Eppure, rileggendo questo libro in occasione della presentazione che se ne farà domani, 13 maggio 2011, a Bologna, questo nesso appare assolutamente pertinente a sottolinearne la caratteristica più evidente. Scritto a un anno dal sisma, al volgere del secondo anniversario il quadro delineato da Francesco Erbani mantiene tutti gli elementi di criticità e di tragicità di un trauma ancora ben lontano dall’essere superato. Ma non è solo per l’aderenza alla realtà della situazione che l’inchiesta dimostra la propria attualità, quanto soprattutto nella capacità di individuarne le ragioni. Ragioni che adesso, a due anni da quell’evento, hanno purtroppo acquistato uno statuto di condivisione quasi unanime.

Non è stato sempre così, anzi, per molti mesi dopo il 6 aprile 2009 i mezzi di comunicazione, pressochè unanimemente, ci hanno restituito l’immagine di una situazione sotto il pieno controllo da parte della Protezione Civile, esaltata per le capacità straordinarie di intervento e la rapidità d’iniziativa. Dopo le prime settimane, i primissimi mesi, superata la fase di emergenza più immediata (il soccorso ai sopravvissuti, l’allestimento delle tendopoli), solo pochissime voci isolate hanno cominciato a intravedere i pericoli di talune scelte, in primis quelle urbanistiche e fra queste eddyburg che dal settembre 2009 ha rilanciato lo studio di Georg Frisch e Vezio De Lucia (L’Aquila, non si uccide così anche una città, Clean 2009). Ora la critica al modello imposto con i 19 insediamenti di C.A.S.E. (le così dette new town) è generale: mutano solo gli accenti, ma il fallimento sul piano urbanistico, sociale e persino edilizio, è largamente riconosciuto.

Ma verso la fine del 2009, le poche isolatissime voci critiche sulle scelte operate dalla Protezione Civile, furono immediatamente tacciate di faziosità ideologica o peggio. L’indagine identifica il punto di svolta nella percezione di quanto stava succedendo a l’Aquila con lo scoppio del caso giudiziario che coinvolse, nel febbraio 2010, la Protezione Civile e l’alta dirigenza dei lavori pubblici. A questo stesso testo di Francesco Erbani, d’altronde, può essere attribuito il merito di aver ribadito, fra i primi in forma sistematica, tutti i problemi, le anomalie, le stranezze che nel corso dei primi mesi si erano venute accumulando attorno alla vicenda della ricostruzione.

Fin dall’endiadi del sottotitolo – le scelte, le colpe - l’autore evidenzia come in realtà L’Aquila abbia rappresentato un’ingiustificabile deviazione rispetto a quanto avvenuto in occasione di precedenti eventi sismici. Azzerato il patrimonio preziosissimo derivato dall’esperienza analoga e in alcuni casi di grande efficacia (Friuli e Umbria-Marche), la macchina della Protezione Civile ha dispiegato una metodica di intervento pervasiva e autoriferita, acquisendo, in virtù delle note amplissime possibilità di deroga rispetto alle normali procededure amministrative, non più solo competenze direttamente legate alle operazioni di primo intervento, ma ben più allargate in termini di ambito e di tempo: dall’urbanistica alla gestione del patrimonio culturale.

Da questo punto di vista, l’intervento nel post-terremoto ha costituito un vero e proprio laboratorio in corpore vili delle potenzialità di espansione dell’azione della Protezione Civile, accuratamente programmato, così come l’indagine di Erbani dimostra chiaramente, fin dalle prime settimane dopo il sisma. L’indagine giudiziaria e ancor più le famigerate risate intercettate all’alba del 7 aprile fra i due imprenditori gongolanti al pensiero dei lucrosi appalti della ricostruzione, hanno squarciato un velo e incrinato definitivamente l’alone di onnipotenza positiva che aveva accompagnato la Protezione Civile. Se l’azione della magistratura non avesse sconvolto i binari di uno schema predisposto fin dalle primissime settimane dopo il terremoto, dunque, questo meccanismo avrebbe continuato a riprodursi, come una metastasi, in ogni settore della pubblica amministrazione, prova ne sia il tentativo, abortito in extremis per lo scoppio dello scandalo, della trasformazione in S.p.A. della suddetta Protezione Civile.

Il pericolo corso, però, non è affatto superato: la pulsione derogolativa che ha ispirato l’azione della struttura guidata da Bertolaso&C., continua a permeare ogni iniziativa legislativa dell’attuale maggioranza governativa e per quanto riguarda l’Aquila ci si ostina a riproporre la logica dei commissariamenti che altro non è che il tentativo di evadere da un sistema di regole certe, trasparenti, democraticamente condivise.

Il caso rappresentato da L’Aquila, di una ricostruzione mal impostata e gestita ancora peggio, fra mille incertezze e rinvii, di un centro storico e di un patrimonio culturale scientemente abbandonati fra macerie e puntellamenti distruttivi e il cui recupero si fa di mese in mese più problematico, così come emerge con estrema chiarezza dal volume di Francesco Erbani, è problema ancora del tutto aperto.

Dopo due anni di inerzie le ultimissime notizie secondo le quali il Comune de L’Aquila avrebbe finalmente costituito una propria struttura interna per la gestione urbanistica della ricostruzione, aprono lo spazio alla speranza. E qualche merito in questa riacquistata consapevolezza della necessità che la pubblica amministrazione, unica rappresentante delle esigenze della comunità locale, si ponga finalmente a capo di questo processo è da ascrivere alle capacità di denuncia dei mezzi di informazione. E fra questi, naturalmente, il Disastro.

F. Erbani, Il disastro. L’Aquila dopo il terremoto: le scelte e le colpe, Laterza, 2010.

Realizzare i nostri sogni nella disciplina delle libertàSpinti dall´urgenza oggi ormai s´invoca il disordine come fondamento del vivere comune L´obbligo reciproco non è soltanto un meccanismo di tutela ma anche un legame positivo Regole, lavoro, immigrazione, populismo: un dialogo su un modello politico, sulle sue forzature e sulle sue virtù nel saggio di Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky. Anticipiamo un estratto da La felicità della democrazia (Laterza)

Ezio Mauro. (…) Sei stupito se ti dico che la democrazia deve rispondere addirittura alla grande questione della felicità?

Gustavo Zagrebelsky. Vuoi introdurre questo tema? Ti avverto subito ch´io, in materia, mi sento alquanto leopardiano. In ogni caso, «se uno sia felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non può fallare». Comunque sia, procediamo pure e chiediamoci che cosa la democrazia abbia a che fare con la felicità.

Mauro. Ci penso da tempo, è una questione cruciale. In questo Paese, e soltanto in questo (bisognerà pur riflettere sulla ragione), si sta facendo strada l´idea che la felicità e la soddisfazione dell´individuo possono essere cercate solo fuori dalle regole, a dispetto delle norme, in quella dismisura tipica dell´abuso e del privilegio, che irride agli interdetti culturali e sociali, al sentimento del rispetto, al pubblico decoro. È la ribellione culturale contro il «regolamentarismo» e il politicamente corretto, ed è la rivolta molto più concreta, utilitaristica, contro il diritto e la legalità, invocando il «sonno della legge». C´è un singolare e arbitrario rovesciamento persino di D´Annunzio, come se andare a destra oggi significasse andare «verso la vita», mentre dall´altra parte ci sarebbe spazio solo per una fioca esistenza in bianco e nero, fatta di conformismo e senza sentimenti: un neopuritanesimo in grisaglia, che non sa amare la forza bruta della vita nella sua sregolatezza più feconda, nel caos rigeneratore che nasce dalla licenza e dall´eccesso, contro l´ordine regolare del mondo. È un rovesciamento disperato delle cose. Sotto la spinta dell´urgenza e della necessità si cerca ipocritamente di invocare il disordine come nuovo fondamento del vivere insieme, l´esagerazione come modello sociale, la licenza come libertà, il soverchio come nuova misura. Che felicità può esserci quando, come scrive Durkheim, «si è talmente al di fuori delle condizioni ordinarie della vita, e se ne è talmente consapevoli, che si prova il bisogno di mettersi al di fuori e al di sopra della morale corrente»?

Zagrebelsky. Tu cosa rispondi?

Mauro. Molto semplicemente che c´è vita nella democrazia, intesa come sistema di regole e libertà, molto più che altrove. E dunque nelle regole che liberamente si è data. La vita comune fatta di passioni e di errori, di amori e di meraviglie, di dolori e sconfitte: la vita vera, insomma, quella di tutti, che non ha bisogno di aggettivi e di spiegazioni. Quella che si compone con le vite degli altri, «esseri che si somigliano» nel riconoscimento dei diritti e dei doveri, dunque della loro libertà reciproca e dei suoi confini, ecco il punto. C´è vita nella democrazia, perciò è giusto e possibile cercarvi anche la felicità, attraverso la libera realizzazione di se stessi, modulata nella consapevolezza degli altri, dei loro diritti, e nella possibilità di costruire un progetto comune di riconoscimento, che chiamiamo società politica, istituzionale, di cittadini.

Zagrebelsky. Nell´essenziale, sono d´accordo teco, anche se la definizione della vita come felicità, o come possibilità di felicità, secondo la tua descrizione, dovrebbe essere approfondita. Che cosa è la felicità, questo sentimento fugace che subito, appena l´hai provato, si dissolve in angoscia per il timore della perdita? Qualcuno potrebbe dire che proprio in quella trama di relazioni libere e responsabili che è alla base della democrazia e che spetta a noi di tessere sta la nostra infelicità. La libertà è felicità o infelicità? Il tema è discusso. Gli Inquisitori (figura sempiterna) direbbero che la libertà è infelicità e che proprio loro, essendosi assunti il compito di liberare l´umanità dalla libertà, sono i suoi veri benefattori. Tolta la libertà, gli esseri umani si accontenteranno dell´unica felicità loro possibile, una felicità mediocre e bambinesca, l´appropriazione di cose materiali, la felicità del consumatore, precisamente ciò di cui ante-parlavano Tocqueville e Montesquieu, già citati. Io mi accontenterei di dire che, nell´appropriazione dei propri compiti di «individuo morale», nel senso detto sopra, può stare la soddisfazione del dovere compiuto e che questa soddisfazione cresce proporzionalmente al numero di coloro con i quali si riesce a stabilire rapporti di cooperazione. La soddisfazione per il dovere compiuto, possiamo definirla felicità? Nel significato moderno, certo no. Nella tradizione antica, invece, la felicità era la vita buona e la vita buona non era il soddisfacimento illimitato di pulsioni individuali, ma la pratica della virtù. In fondo, non sei molto lontano quando parli di esercizio della libertà nel riconoscimento del limite. Questa è la virtù democratica. Naturalmente, ripeto, questo non ha niente a che vedere con la libertà come pretesa di fare tutto quello che si può (nel senso di ciò che è attualmente possibile), cioè con l´assenza di regole.

Mauro. Contrapponi l´éthos al páthos, in qualche modo. Sei però d´accordo con me nel collegare democrazia e felicità?

Zagrebelsky. Nel senso di soddisfazione per il dovere compiuto, sì. Credo che possa esserci una grande felicità e forse anche noi, qualche volta, l´abbiamo provata. Ma non è certo la felicità di cui parla il nostro tempo, quando virtù e felicità sono state separate, anzi collocate agli antipodi. L´affamato di felicità non esita a farsi beffe della virtù, a esibire come un vessillo il proprio lato più laido. L´archetipo è Faust che vende l´anima al demonio e il demonio, per quanti sforzi si facciano per adeguarsi ai tempi, non è propriamente l´immagine della virtù. Ammetto d´essere un pesce fuor d´acqua. Mi sento piuttosto leopardiano, come ho subito premesso quando hai impostato il tuo discorso.

Mauro. Cioè?

Zagrebelsky. (….) Mi riferisco a quel passo di Sigmund Freud contenuto in Il disagio della civiltà dove si mette in rapporto di tensione felicità e istituzioni (…) e che chiude così «L´uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po´ di sicurezza». (…)

Mauro. Ma le istituzioni sono dei vincoli e dei riferimenti d´obbligo che ci siamo liberamente dati e che scegliamo di rinnovare a scadenze fisse. Perché - e questo per me è il punto essenziale - siamo convinti che la felicità o la «vita buona», come si diceva, non vada cercata per forza nella trasgressione abusiva o nel «sacrilegio sociale», come lo chiama Roger Caillois, ma nella nostra normale condizione di cittadini fedeli e infedeli, uomini e donne, persone liberamente associate con meccanismi di garanzia scelti da tutti per tutti, e come tali riconosciuti e accettati.

Zagrebelsky. (…) Forse dal punto di vista della felicità-infelicità, potremmo dire così: la democrazia è il modo più sopportabile di sopportare l´infelicità, il modo più umano, compassionevole, conviviale, in una parola, mite, di organizzare l´infelicità dell´humana condicio, riducendo al minimo la prepotenza, il disprezzo, la sopraffazione e, soprattutto, distribuendone il peso sul maggior numero possibile in una specie di mobilitazione generale delle umane imperfezioni. (…)

Mauro. Ma qui siamo (…) in un terreno sociale, di scelta, dunque politico e morale. Nel "confortarsi insieme", "tenersi compagnia", incoraggiarsi", "darsi una mano e soccorso", nella stessa parola "scambievolmente" c´è il concetto politico e umano di solidarietà, c´è un legame sociale di riconoscimento e obbligazione reciproca, anche se è visto come difesa dalla fatica del vivere. Lo stesso legame, la stessa impresa solidale può vigere e operare al di là della mutua assistenza nella necessità, per arrivare a determinare costruzioni positive, spazi per meriti e per crescite, soddisfazione di bisogni, consensi su obiettivi comuni. Mi accontenterei di dire che la democrazia è un legame sociale positivo, quindi, non solo un meccanismo di tutela.

Zagrebelsky. (…) Se ci pensi, la ricerca della felicità era, originariamente, la rivendicazione sulla bocca degli infelici, cioè degli oppressi quali si sentivano gli americani al tempo della loro rivoluzione anticoloniale. Oggi, il senso s´è rovesciato. Sono i potenti che la rivendicano come diritto, la praticano e l´esibiscono, quasi sempre oscenamente, come stile di vita. Non sentiremo uno sfrattato, un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai debiti, un genitore abbandonato a se stesso con un figlio disabile, un migrante irregolare, un individuo strangolato dagli strozzini, un rom cacciato che non ha pietra su cui posare il capo, una madre che vede il suo bambino morire di fame, rivendicare il suo diritto alla «felicità». Grottesco! Sentiremo questo eterogeneo popolo degli esclusi e dei sofferenti chiedere non felicità ma giustizia. Un minimo di giustizia è ciò che ha preso il posto della felicità.

Stefano Rodotà, Diritti e libertà nella storia d'Italia. Conquiste e conflitti 1861-2011, Donzelli, pp. X, 156, euro 15,00

Sorprende molto, e non potrebbe essere altrimenti, constatare che mancava in Italia una storia dei diritti pensata, condotta e redatta come tale. Non è che non ci fossero state pregevolissime ricostruzioni di singoli o di categorie di diritti che partissero dalla loro origine normativa, ne indicassero le varie vicende per poi approdare alla loro configurazione attuale. Ma mancava una storia propria, determinata, organica dei diritti in Italia, che li comprendesse al di là della loro appartenenza ai vari rami dell'ordinamento, privati o pubblici che fossero, della prima o delle successive generazioni. La lacuna è stata colmata da Stefano Rodotà. Non è un merito da nulla. Ed è solo il primo delle 154 pagine di un libriccino che impressiona, titolato Diritti e Libertà nella storia d'Italia. Conquiste e conflitti 1861-2011, perché risponde positivamente alla domanda se si possa in poche pagine tracciare nientemeno che una storia la cui estensione sembrerebbe implicare lo sforzo non di un solo giurista, e non di una sola branca e non di una sola scuola, insomma una fatica enorme, plurima, di anni e anni. Dunque Rodotà ci aveva fino ad ora nascosto la sua capacità di racchiudere in tanto poco spazio così tanta storia, e che storia. Lo ha fatto tramite un'operazione brillante e altamente produttiva, e questo è un altro merito che gli va riconosciuto. La sua fatica è stata quella di cercare e poi di individuare esattamente il titolare reale dei diritti, il soggetto, l'essere umano concreto e storicamente determinato che li avrebbe esercitati e li avrebbe goduti. Traendolo dalla configurazione delle norme, certo, ma ritraendolo nella dinamica reale dell'ordinamento, nella società nella quale è immerso, nei rapporti effettivi del suo vissuto effettivo. Non è stata un'operazione semplice, di poco sforzo, di agevole fattura. Si trattava intanto da situare esattamente il soggetto cui andavano riferite le norme riconoscitive dei diritti soggettivi nella specifica fase di sviluppo dell'economia e quindi della società, quella italiana, quanto mai disomogenea, quanto mai attraversata da contraddizioni non soltanto di ordine complessivo, ma derivanti dalla variegata congerie di condizionamenti non solo economici e sociali ma anche di culture di ceti e territoriali, anche di sensibilità più o meno graduate e di gusti più o meno diversificati.

Tre sono le figure identificanti del soggetto titolare dei diritti in centocinquanta anni di storia unitaria. Quella del «borghese maschio, maggiorenne, alfabetizzato, proprietario» dell'Italia liberale. Quella del «cittadino asservito» dell'Italia fascista. Quella del cittadino di uno stato ridisegnato per trasformare il modello borghese della «Repubblica dei proprietari» nella «Repubblica dei lavoratori», che la Costituzione volle prescrivere. La figura iniziale non si basa sullo Statuto albertino e non perché non gli corrispondesse, ma perché il carattere flessibile di quella prima Costituzione la rese immediatamente recessiva a fronte dei codici, di quello civile soprattutto, che ispirava ovviamente gli altri e che non poteva essere se non tipicamente «monoclasse», espressivo cioè della classe dominante, rigidamente e duramente privilegiata, stante poi il carattere del suffragio elettorale riservato al solo 1,9 per cento della popolazione. Stante l'esclusione dei lavoratori, e in genere, dei ceti più poveri dalla area dei diritti, da quelli politici «alla totale subordinazione al padrone nell'ambito delle diverse prestazioni di lavoro, all'esclusione di pari opportunità nell'ambito dell'istruzione e della libertà di manifestazione del pensiero, alla limitazione di libertà fondamentali della persona, come quella di contrarre matrimonio».

Il «cittadino asservito» è quello, ovviamente, reso tale dal fascismo. Rodotà non si lascia incantare dalla qualità tecnica dei codici che nei venti anni si susseguirono per la definizione del regime. Ne disvela invece l'autoritarismo che pervade ciascuno di essi, la discriminazione che quei codici canonizzano nei confronti delle donne, la perpetuazione del dominio di classe, l'appannamento sostanziale dell'interesse pubblico, pur strombazzato come prioritario. Non nasconde il sistema di elargizioni instaurato con le ferie pagate, l'indennità di licenziamento, gli assegni familiari. Sottolinea però come corrispondessero alla riduzione dei salari, all'irrigidimento gerarchico dei rapporti di lavoro, alla perdita dei diritti politici e alla restrizione di quelli civili: uno scambio intollerabile, ignobile.

Il cittadino - termine comprensivo di tutti e due i generi - è il tema del terzo capitolo. Rodotà lo definisce come il soggetto della lotta per l'attuazione della Costituzione, un soggetto che ha iniziato questa lotta subito, sessanta anni fa, e la continua oggi, forse anche con più convinzione di ieri. Di questa lotta Rodotà descrive magistralmente le fasi, le vittorie e le sconfitte, i fattori delle une e delle altre. Così come, nell'ultimo capitolo, tratta delle vicende di questi quindici anni connotati da una «transizione irrisolta», della quale non nasconde le cause, le regressioni intervenute, i pericoli che incombono, enormi, gravissimi. E non poteva fare diversamente, da «giurista dei diritti» quale è. Dal suo punto di osservazione, vede come - in un secolo e mezzo - i diritti si sono riflessi sulla società italiana, condizionandola, vincolandola. E scrive un saggio che, al tempo stesso, è un libro di storia tout court e un contributo importante per riflettere sulla identità italiana.

Freelance è un termine che evoca una condizione lavorativa di libertà, cioè di chi non è sottoposto a nessuna costrizione esterna, che sia rappresentata da una gerarchia astratta e impersonale, come è quella delle imprese, o da quella diretta di assoggettamento nelle relazioni vis-à-vis, che caratterizzano sempre più i rapporti individuali nei luoghi di lavoro. Seguendo però l'analisi di Sergio Bologna e Dario Banfi nel loro Vita da freelance (Feltrinelli, pp. 279, euro 17) quella tacita promessa di libertà deve essere necessariamente meglio precisata, viste le condizioni in cui lavorano, e vivono, i lavoratori indipendenti, meglio quei lavoratori autonomi di seconda generazione su cui ruota il libro. Gli autori sottolineano sin da subito che per comprendere le caratteristiche degli «indipendenti» occorre prendere congedo dalle culture del movimento operaio, comprese quelle più eterodosse, e cercare di fare i conti con quella cultura del «professionalismo», che dagli anni Venti del Novecento ha interessato studiosi tedeschi, inglesi e statunitensi.

Fare i conti significa tuttavia confrontarsi con le ambivalenze che essa ha assunto, evitando però la trappola di finire in una lettura semplificata che ha visto nel lavoro autonomo una sorta di dispositivo giuridico per favorire segmenti del lavoro en general, ai fini di un consenso a politiche sociali di contenimento delle richieste del movimento operaio.

Una cesura storica

Per quanto riguarda l'Italia va dunque rigettata l'idea, presente ad esempio in quel classico della saggistica italiana che è stato il Saggio sulle classi sociali di Paolo Sylos Labini, che gli «indipendenti» fossero un residuo del passato da mantenere in vita di fronte ai processi di modernizzazione economica e sociale. Bologna e Banfi compiono incursioni nella storia culturale e sociale della Germania, dell'Inghilterra e degli Stati Uniti per sostenere una tesi contraria: il lavoro autonomo è una costante dello sviluppo capitalistico. Cresce in alcuni momenti, si contrare in altri, quasi in sintonia con i cicli economici. Ma i due autori partono da questa considerazione per operare una cesura, una vera discontinuità nell'analisi. Il lavoro autonomo di seconda generazione ha altra genesi e ha peculiarità diverse da quello che ha caratterizzato la fase fordista del capitalismo. Prende forma e cresce dentro una crisi della forma impresa caratterizzata dall'organizzazione scientifica del lavoro ed è segnato sin dall'inizio da una critica alla gerarchia, al lavoro sotto padrone. Il suo marchio d'origine, suggeriscono gli autori, sta in un'attitudine libertaria, insofferente al lavoro salariato, che è stata variamente declinata a seconda del contesto nazionale. E se in Italia fa i primi passi al termine dei turbolenti e conflittuali anni Settanta, negli Stati Uniti bisognerebbe guardare con più interesse a quell'etica hacker che riteneva il lavoro un gioco e qualificava la grande impresa come il nemico pubblico numero uno dell'innovazione e della creatività.

Tra imposizioni e scelte

Tesi nota a chi segue da anni il lavoro teorico di Sergio Bologna, segnato da una coerenza che lo rende, va detto a molti altri, una mosca bianca nella triste e dominante produzione culturale italiana. In questo libro, tuttavia, il cuore della riflessione è un altro. È il rapporto teorico tra precarietà e lavoro autonomo, nonché le possibili forme di organizzazione di quest'ultimo. Su questo aspetto, la parola d'ordine è coalizione, a partire dall'estrema difficoltà, se non irrilevanza, nel definire una sintesi tra i mille frammenti che compongono il lavoro autonomo. Convincenti sono a questo proposito le pagine che illustrano la «mobilità giurisdizionale», cioè quel continuo passaggio tra expertise che contraddistingue gli indipendenti. Una coalizione tuttavia che deve avere luoghi dove concretizzarsi. E anche su questo versante il libro è una miniera di informazioni su come i lavoratori autonomi hanno preso la parola (la Rete) o nei co-working, cioè in quelle situazioni in cui il singolo è sfuggito alla «prigione» della casa come luogo di lavoro e a una amara solitudine, il lato oscuro dell'individualismo incensato dalle retoriche neoliberiste. Ma la coalizione deve anche definire i campi di intervento su cui misurare la sua capacità di aggregazione e consenso. Su questo aspetto i due autori sono cauti, perché rinviano giustamente a quanto i lavoratori autonomi sperimenteranno e elaboreranno.

L'aspetto più problematico è quello del rapporto tra precarietà e lavoro autonomo. I due autori sono molto polemici con le organizzazioni del movimento operaio, perché attente solo a difendere il lavoro a tempo indeterminato. E su questo sono anche fin troppo gentiluomini. Meno convincenti appaiono laddove definiscono le differenze tra precariato e lavoro autonomo: la prima condizione è imposta, la seconda scelta. La precarietà è dunque l'esito di politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, che comprime i salari e riduce i diritti collettivi e individuali, mentre il lavoro autonomo fa leva su un desiderio di autodeterminare il proprio lavoro, incentrato sulla conoscenza e su, talvolta, specifiche competenze, che un regime - fiscale, culturale e di accumulazione - mette all'angolo. Equiparare il precario al lavoratore autonomo significa rimpiangere l'era d'oro del tempo indeterminato (garanzia di salario e diritti sociali) e dare una lettura pauperistica di entrambe le condizioni lavorative. In questa lettura ci sono però dei cortocircuiti teorici che conducono a vicoli ciechi.

C'è una parte del libro molto interessante. Sono le pagine dedicate al rapporto tra conoscenza tacita e saperi formalizzati. La prima «appartiene» al singolo, alla sua esperienza; i saperi codificati attengono alla conoscenza specialistica. E il lavoro autonomo fa leva sulla conoscenza tacita nella sua prestazione lavorativa. Ma la conoscenza tacita attinge e rielabora continuamente l'intelletto generale, cioè quella conoscenza sans phrase prodotta socialmente. In entrambi i casi fanno leva su quel general intellect in quanto forza produttiva.

È certo che i saperi codificati sono rinchiusi dentro gli steccati dello specialismo, che hanno custodi feroci, come dimostra, ad esempio in Italia, la gerarchia spesso feudale delle istituzioni universitarie, anche se lo specialismo elevato a sistema negli Usa non è da meno in ferocia nel definire l'accesso a tali saperi. Per tornare al lavoro, anche il precario fa leva sulla sua conoscenza tacita, che entra in campo nella prestazione lavorativa, sia che attenga a una mansione dequalificata che qualificata. In altri termini, precariato e lavoro autonomo sono due forme giuridiche del lavoro vivo contemporaneo. Ed è su questo crinale che presentano ripetizioni e differenze nel rapporto di lavoro. La scommessa è la produzione di forme politiche adeguate per sfuggire alle stigme del lavoro salariato, che vale sia per il precario che per l'indipendente. Sia che si lavori per la coalizione che per l'organizzazione di uno «sciopero precario» di tutto il lavoro vivo contemporaneo.

Generalmente un saggio non viene letto o analizzato per il suo stile di scrittura, ma per i contenuti o il punto di vista che propone. E tuttavia un saggio sedimenta attenzione se è scritto in maniera avvincente. Questo di Luciano Gallino – FinanzcapitalismoLa civiltà del denaro in crisi (Einaudi «Passaggi», pp. 324, €19,00) – ha alcuni capitoli che scorrono come un romanzo di Elio Vittorini, mentre altri hanno il ritmo contratto di chi vuole spiegare le cause della crisi economica senza lasciare nessuno spazio a una possibile ambivalenza di ricezione. Nel corso degli ultimi trent’anni, sostiene Gallino, l’egemonia neoliberista ha puntato a costruire un «uomo nuovo», cioè quell’«uomo economico » che definisce il suo stare in società secondo la fredda contabilità dei costi e dei ricavi.

Strumento di tale progetto è stata la finanza, che ormai plasma l’insieme delle relazioni sociali. Il neoliberismo descritto in questo saggio ricorda la figura mitologica del Beemoth, che nella Bibbia si contrappone al Leviatano e che Thomas Hobbes ha usato come metafora di un caos che va ricondotto all’ordine da parte dello Stato. In questi ultimi trent’anni Beemoth si è preso la rivincita sul Leviatano, che negli scritti dei neoliberali non coincide però con lo Stato hobbesiano, bensì con il welfare state. Per Gallino il neoliberismo è un’ideologia totalitaria incardinata sulla figura dell’homo oeconomicus e tuttavia flessibile perché può convinvere sia con regimi politici democratici che con regimi politici autoritari, come la Cina contemporanea, a patto però che non venga mai messa in discussione la religione del libero mercato. Finanzcapitalismo è dunque un testo critico verso le società capitaliste e figurerebbe bene in un’ideale biblioteca del pensiero critico.

Eppure Luciano Gallino non è un teorico radicale. È infatti un esponente di quel filone riformista che in Italia è stato spesso minoritiario nella sua proiezione politica. Nella costellazione teorica cui fa riferimento ci sono Max Weber, John Maynard Keynes, Karl Polany, il Max Horkheimer critico del «marxismo sovietico», ma anche i liberalsocialisti della sua Torino – i fratelli Rosselli, Piero Gobetti e Norberto Bobbio –. Anche la sua riscoperta de L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse non concede nulla al radicalismo politico. Più semplicemente ciò che ha sempre interessato Gallino, anche nella sua critica feroce alla precarietà, è di dare forma teorica al tentativo «riformista» di introdurre elementi correttivi a un capitalismo che, se lasciato a se stesso, distruggerebbe la democrazia politica e sociale. Sono queste le coordinate su cui ha sempre puntato la sua bussola.

C’è infatti un filo rosso che lega la sua iniziale attività di studioso con la sua ultima produzione teorica. Una coerenza che viene tuttavia scambiata per radicalità teorica sia dai totalitari liberisti che dagli orfani del pensiero critico. Sono proprio le pagine che ricostruiscono la genesi e l’affermazione del neoliberismo le più avvincenti. Dalla sconfitta negli anni trenta, quando si imposero le teorie economiche keynesiane, alla riorganizzazione, attraverso think tank e fondazioni lautamente finanziate da imprese e capitalisti, i teorici neoliberali devono aspettare comunque la crisi economica degli anni settanta per uscire dalle aule universitarie e proporsi come consiglieri di aspiranti principi, la cui missione era la distruzione del welfare state, un virus che stava lentamente distruggendo il capitalismo e, negli Stati Uniti, l’american way of life. Il liberismo è così indicato come unica via d’uscita dalla crisi del capitalismo, modificando, a favore delle imprese, i rapporti tra le classi sociali.

L’aspetto più stupefacente di questa egemonia è che i suoi dogmi sono assunti come verità rivelate anche dalla sinistra politica europea. Se altri studiosi – David Harvey, Michael Foucault, ad esempio – hanno indagato la costruzione dell’egenomia culturale del pensiero neoliberale, Gallino mette in rapporto il neoliberalismo e la crescita della finanza, che diventa il motore dello sviluppo economico, determinando però le condizioni di una fragilità estrema del capitalismo. Allo stesso tempo, è un’egemonia culturale che cancella la separazione tra politica ed economia, attraverso le revolving doors, cioè porte girevoli che consentono a politici di professione di diventare manager di imprese e a manager di imprese di intraprendere fortunate carriere politiche. Il conflitto di interessi – chi è a capo o svolge mansioni dirigenziali in un’impresa non potrebbe, in quanto esponente di un governo, prendere decisioni politiche verso settori in cui quell’impresa opera – viene cioè legittimato, portando alla formazione di una piccola ma potentissima élite globale.

Non è dunque un’anomalia solo italiana, ma è caratteristica di tutti i paesi capitalistici. E Gallino è attento a segnalare come in Inghilterra, Francia, Spagna, Germania e ovviamente Stati Uniti l’osmosi tra economia e politica viene modellata in funzione del credo neoliberista. Storia nota, obietterebbe chi ha studiato il neoliberismo. Ma nel libro di Gallino c’è la sottolineatura che il neoliberismo ha prodotto una «civiltà-mondo» che ha nella finanza un impalpabile e tuttavia efficiente strumento di governo globale. La finanza cioè è l’esempio più tangibile di come funzioni quel «capitale come potere» che ha destato l’attenzione di molti studiosi anglosassoni e tedeschi. La finanza cessa così di essere un elemento parassitario, improduttivo del capitalismo.

Da una parte è espressione del potere del capitale sulla società, dall’altra funziona come strumento di coordinamento e governo delle attività produttive. La finanza cessa cioè di essere un’anomalia per diventare, nella sua logica espansiva, la logica dominante nel capitalismo. Gallino descrive la trasformazione di alcuni prodotti finanziari (i derivati) in un potenziale sistema monetario alternativo a quello «tradizionale»; e desta sgomento leggere del «gioco» che condiziona l’andamento dei prezzi delle materie prime e degli alimenti non solo speculando, ma riorganizzando interi settori produttivi su scala planetaria, in barba al fatto che in questo modo cresce la povertà e va in pezzi il legame sociale. Infine, la finanza è un’ipoteca sul lavoro futuro di uomini e donne.

È cioè uno strumento per appropriarsi, usando un linguaggio marxiano, del plusvalore presente e futuro. I derivati, le cartolarizzazioni cessano così di essere solo strumenti finanziari, ma fattori immanenti di una produzione capitalistica che si basa sul debito. E dove la povertà è sinonimo di lavoro: con buona pace di chi vede in tutto ciò la chiave di accesso alla «società della conoscenza », espressione usata, nella sua versione neoliberista, per dare una connotazione positiva a una realtà sull’orlo di un’apocalisse sociale e culturale. La crisi è quindi condizione permanente del finanzcapitalismo.

La distruzione di ricchezza, la povertà, la crescita di un esercito di lavoratori poveri, il declassamento del ceto medio non sono quindi incidenti di percorso, ma elementi stabili della contemporanea «civiltà- mondo». Difficile però pensare a un ritorno al passato, avverte Gallino. E da riformista di razza come egli è, invita a rallentare la corsa, a intervenire affinché il potere del capitale venga ridimensionato, attraverso una rigida regolamentazione della finanza. Oppure declinare diversamente quella polarità tra riforma e rivoluzione su cui si è da sempre arrovellato il pensiero critico. E pensare la rivoluzione non come un cambiamento di chi esercita la decisione politica, ma come un processo diffuso che fa leva su quanto riesce a costruire e affermare quella moltitudine di uomini e di donne che cessano di essere solo oggetto passivo e che si riappropriano di quanto il finanzcapitalismo ha tolto loro.

Guido Viale, la conversione ecologica, nda press, pp.184, e 10

Chi dice, come Sergio Marchionne, che tra capitale e lavoro non può esserci alcun conflitto perché ogni azienda è una nave da guerra in cui tutti insieme - operai padrone e manager - combattono la stessa battaglia contro le navi da guerre nemiche ha in mente una sola cosa: il dominio del capitale sul lavoro. Lo imporrebbe la competizione globale: there is no alternative sentenzia il liberismo mentre dà «l'assalto alle condizioni di vita e di lavoro di miliardi di uomini e donne». È con forte concretezza che Guido Viale si incarica, attraverso i suoi scritti, di ribaltare questa presunta verità, mettendo al centro della sua riflessione la crisi economica e ambientale

Alla concretezza delle analisi sui guasti provocati dal modello di sviluppo capitalistico, diventato incompatibile con la possibilità stessa di costruire un futuro, Viale affianca un'utopia, altrettanto concreta, per invocare un radicale cambiamento di rotta. Nel suo libro there is no alternative diventa un imperativo per realizzare un modello sociale opposto a quello del liberismo che oggi, per uscire dalla crisi, pretende di imporre gli stessi criteri che l'hanno generata (e con le stesse persone, si potrebbe aggiungere). Viale affronta i temi dell'energia, delle fonti rinnovabili e del risparmio, dell'agricoltura e dell'alimentazione, del territorio e della sua ricostruzione dentro un progetto rivoluzionario finalizzato a cambiare «lo stato di cose esistente». L'aspetto innovativo della ricerca quotidiana di Guido Viale sta nell'individuazione degli interlocutori della riconversione ecologica.

Se è difficilmente sostenibile la fine del conflitto capitale-lavoro, con buona pace delle furbizie opportunistiche dei tanti Marchionne, è tutta da dimostrare la presunta insuperabilità della contraddizione lavoro-ambiente. Diceva un orientale saggio, discusso e discutibile per mille altri aspetti, che «non sempre le masse hanno ragione, ma non c'è ragione rivoluzionaria che non passi attraverso le masse». Provate a sostituire le masse con gli operai e troverete una strada per camminare verso l'utopia concreta di cui si parla nella Riconversione ecologica.

Non è detto che la cosa più sensata da costruire a Termini Imerese siano le automobili, anzi è vero probabilmente il contrario. Ma se si vuole riconvertire la produzione per fare pannelli solari questa scelta dev'essere condivisa, costruita insieme agli operai della Fiat, mettendo a valore le loro esperienze, intelligenze, i loro saperi. Con un progetto chiaro, in modo contestuale, sì da escludere una inaccettabile logica dei due tempi. Si può parlare di automobili ma si può persino parlare di armi, tema troppo a lungo tabù all'interno del movimento operaio. Viale ha scelto di affrontare il tema della riconversione confrontandosi direttamente con chi rappresenta i produttori, che sono le prime vittime del modello dominante di relazioni sociali, sindacali, politiche e culturali, dentro cui non c'è futuro, per l'ambiente come per i diritti di chi lavora.

La raccolta di articoli e saggi, molti dei quali già pubblicati sul manifesto, lancia un appello appassionato al lettore perché prenda in mano «il timone della barca che ci deve traghettare verso il futuro», «anche in nome e per conto dei bambini di questo mondo», gli adulti di domani. Valorizzare e sviluppare i saperi che possano costruire la riconversione ecologica è operazione opposta allo «sdoganamento dell'ignoranza» operato da Berlusconi.

Lavoro e ambiente, per tornare al punto, non sono incompatibili. Questo non vuol dire cancellazione del conflitto tra chi pensa che il modello dell'auto sia arrivato al capolinea e gli operai che l'auto costruiscono: vuol dire invece rimettersi in discussione confrontando, mescolando e modificando insieme pratiche, linguaggi e obiettivi. È quello che, con generosità e curiosità, stanno facendo sia Guido Viale che Maurizio Landini. È un buon metodo.

Come un back to the future; sono i beni comuni il futuro del comunismo. Questa – in grande sintesi - è la tesi di un breve, bellissimo saggio di Peter Linebaug pubblicato sul web journal «The Commoner» (www.thecommoner. org) che è stato tradotto sul numero in edicola del mensile «Su la testa», la rivista di Rifondazione diretta da Lidia Menapace. Peter Linebaugh, assieme a Markus Rediker, è autore de I ribelli dell’Atlantico (Feltrinelli), bellissimo saggio sulle origini del capitalismo nelle due sponde dell’oceano, l’espropriazione delle terre di uso comune, la loromessa a profitto e la nascita delle coltivazioni industriali. Insomma l’«accumulazione originaria», che non è affatto una a tantum, ma un processo di conquista progressivo e totalizzante, di penetrazione del dominio del capitale sulla natura, fin dentro il genoma umano e la «noosfera ».

Antiche utopie

Gli studi storici di Linebaugh dimostrano come il processo di espropriazione combinato con lo sfruttamento industriale (la trasformazione della terra e del lavoro in merci) abbia trovato sempre forti resistenze nelle campagne (le rivolte proletarie urbane verranno dopo). I commons non erano un residuo anacronistico ma la consuetudine che diviene illegale e quindi criminalizzata. I levellers erano coloro che abbattevano le enclousures e i diggers coloro che le coltivavano senza autorizzazioni. Non possedevano il concetto della proprietà privata e costituivano società alternative nelle Americhe, luoghi «senza leggi, senza libri e senza giudici». In un manifesto dei Diggers del 1649 (due secoli prima di quello di Marx ed Engels) c’è scritto: «noi possiamo lavorare in rettitudine e porre le fondamenta per fare della terra un tesoro comune a tutti, ricchi e poveri. Che chiunque sia nato sulla terra possa essere nutrito dalla terra, la madre che l’ha partorito, secondo la ragione che governa il creato, senza racchiudere parti in possedimenti privati, ma tutti come un solo uomo lavorando insieme e nutrendosi insieme come figli di un solo padre, membri di una sola famiglia; non che uno comandi sugli altri, ma che tutti si considerino pari nel creato».

Da allora gli esperimenti di «comunità utopiche» (come pratiche concrete di forme di condivisione dei beni, come società emancipate ed autonome, ma nient’affatto pacificate con l’ordine sociale circostante) si sono succeduti intrecciandosi con gli eventi rivoluzionari del secolo dei Lumi, ma differenziandosi proprio sulla questione della «proprietà borghese». Sono loro, i commoners (la gente comune spossessata dagli usi collettivi, esclusa dall’accesso ai mezzi di sussistenza, privata dei diritti comunitari consuetudinari) ad inventarsi per primi – secondo gli studi di Linebaugh – la parola communism. Prima è Restif de La Bretonne, nel 1793, a usare la parola comunismo per indicare proprio la proprietà comune: i commons. Poi, e siamo già nel 1840, fu la volta di un altro progenitore del comunismo, seguace di Babeuf (ispiratore degli Egualitari), Goodwyn Barmby fondatore della «Communist Church» e della Società centrale di propaganda comunista. Da notare che il termine comunismo viene usato come se fosse un verbo: «comunistare».

Una economia morale

Il modo migliore per tradurre commons, infatti, dovrebbe essere «comunanze »; la dimensione tipica di tutte le resistenze e le rivolte che contraddistinguono quei secoli compresi gli esperimenti utopistici. Un modo di dire molto vicino al neologismo coniato da Linebaugh: commoning, per indicare il fare pratiche sociali di condivisione; riconoscere, rivendicare e gestire collettivamente beni comuni. Altrimenti detto: i commons, la gestione collettiva dei beni e servizi comuni, sono forme di economie sociali alternative e solidali che concretizzano il concetto molto potente di «economia morale» (secondo lo storico inglese Edward P. Thompson, maestro di Linebaugh, la economia morale riguardava la difesa di regole nel commercio del grano che le comunità avevano conquistato nei secoli e che il capitalismo abbandona affamando la gente comune che si ribella), mentre il communism è la complementare teoria politica. Il comunismo viene così reinserito nella storia lunga delle classi subalterne e che democrazia e comunismo camminano insieme dentro un percorso lungo secoli che non è cominciato aMosca o Pietrogrado nel 1917.

Nel corso dell’800 i commons erano il passato e il comunismo il futuro. I due termini si sono disaccoppiati ed è stata una vera tragedia, sia per i beni comuni (ridotti a fattori e mezzi di produzione) ancor più per il comunismo. Ciò che pare vecchio e superato del comunismo – centralismo, autoritarismo, ecc. - è ciò che lo ha reso l’opposto di quello che era quando la parola infiammava commoners e proletari tra Parigi e Londra. «Ora – dice Linebaugh – nel XXI secolo la semantica dei due termini sembra essersi rovesciata, con il termine comunismo che appartiene al passato dello stalinismo, all’industrializzazione dell’agricoltura e al militarismo, mentre i commons appartengono ad un dibattito internazionale sul futuro planetario di terra, acqua e mezzi di sussistenza per tutti».

Stili di vita. Economia, filosofia, democrazia, a cura di Auser, Carocci, Roma 2010.

Auser (Associazione per l’autogestione di servizi e la solidarietà), nata nel 1989 per iniziativa del Sindacato pensionati italiani SPI – CGIL, arrivata ai suoi vent’anni, ha voluto celebrarli in maniera che si può dire saggia e insieme ardita (il che non deve stupire, attesi i bianchi capelli dei suoi soci) interrogandosi sullo stato del Welfare, sui suoi problemi di sempre, appesantiti ora dalla crisi, e sui progressi auspicabili che sembra possibile tentare nel prossimo futuro. Su questi temi ha prima convocato un convegno, che si è tenuto il 25 settembre 2009 a Firenze, nella sala dei cinquecento in Palazzo Vecchio con il patrocinio di Regione, Provincia e Comune ospite. Ha poi pubblicato il libro che si presenta, composto con i testi recitati o presentati al convegno: l’introduzione del presidente di Aser Michele Mangano, la relazione introduttiva di base tenuta da Alessandro Montebugnoli, e gli interventi, commenti e testi aggiunti che ne sono seguiti. Di notevole spessore culturale e scientifica (come promette il termine di filosofia riportato nel sottotitolo del libro) la relazione di Montebugnoli porta l’accattivante intitolazione di “Capitalismo e società all’inizio del ventunesimo secolo”. Affronta diversi lati problematici dei sistemi di Welfare, traendo spunto e confrontandosi con la letteratura economica e sociale attuale, senza trascurare le storiche e consolidate lezioni dei classici, ove il loro monito torna ancor oggi opportuno, e ne deduce le prospettive che meritano di essere tentate da chi come Auser opera nel cosiddetto Terzo settore. La relazione si articola in quattro capitoli. Nel primo vengono considerati i “Quarant’anni di turbolenza globale” che hanno connotato il mondo economico dalla crisi petrolifera degli anni ’70 a oggi, e sembrano ripetersi in forme ancora più estreme e bellicose; e ne spiega le ragioni non contingenti, bensì strutturali, i cui effetti si sono ripercossi sui capitali e sul lavoro (i due attori principali della scena economica) e sui rispettivi mercati: sul primo generando affollamento di capitali e quella diffusa finanziarizzazione dell’economia che ha privilegiato gli investimenti patrimoniali a scapito di quelli produttivi di beni e di servizi; sul secondo, del lavoro, contrassegnandolo di insicurezza e disoccupazione, che minacciano chi rischia di perdere il lavoro (adulti) e chi lo cerca (giovani); e piegandolo a una generale subordinazione agli interessi del capitale; il tutto in misura via via crescente e apparente-mente irreversibile. La chiara ed evidente spiegazione di tutto questo si trova nella rinuncia a ogni forma di guida dell’economia, proclamata e attuata con la politica neoliberistica, imposta al mondo dai paesi dominanti con la denuncia degli accordi sottoscritti alla fine della seconda guerra mondiale.

Nel mondo del Welfare sono emersi gli aspetti di debolezza e in-sufficienza che lo avevano segnato fin dal suo nascere, nei quali però si possono ritrovare (ed una qualificazione specifica della relazione di Montebugnoli) i suggerimenti di quale via tenere per superarli. In questo senso nel secondo capitolo sotto il titolo di “argomenti critici” sono trattati diversi aspetti del Welfare. A cominciare dalla differenza tra reddito, come misura del benessere, e benessere effettivamente percepito, il quale dipende anche dalle diverse condizioni ambientali e di partenza dei diversi soggetti, come è provato dalle apposite ricerche. Ma soprattutto (ed è la tesi centrale e rilevante della relazione) molta parte di questo benessere può derivare dalla capacità degli stessi soggetti di attivarsi e contribuire al suo conseguimento. Come si evidenzia e trova conferma in diversi casi specificamente considerati: della salute e della cura, al fine tra l’altro di colmare lo scarto tra quantità di risorse pubbliche impegnate e risultati conseguiti, anche delle varie forme di intrattenimento e svago. In definitiva, a conclusione di questo capitolo ancora prevalentemente analitico, la relazione arriva a postulare un sostanziale rinnovamento dei sistemi di Welfare e cita a esempio il caso dei programmi di riqualificazione urbana concernenti in modo speciale le periferie metropolitane nelle quali, avverte l’autore, è stata riconosciuta una delle maggiori emergenze della nostra epoca. In questi casi, che interessano particolarmente il lettore urbanista del libro, sono ben noti l’esperienza, e anche i problemi, della partecipazione dei residenti alla elaborazione dei progetti, nei quali essi possono apportare il contributo delle loro conoscenze acquisite in prima persona con le esigenze e le aspettative loro proprie. Viene così a determinarsi un rapporto con i tecnici e le pubbliche amministrazioni che tutt’ora presenta aspetti delicati e significativi per ulteriori perfezionamenti nel concreto operare, che si mostreranno generalmente stimolanti e utili per tutti i casi di partecipazione attiva dei cittadini.

A questo punto, esaurito il capitolo delle argomentazioni critiche e preso atto dei problemi che ci sono giunti con l’esperienza del passato, la parola (e l’azione concreta) potrebbe passare a chi come Auser ha il compito di dare corpo a nuove e più avanzate forme di Welfare, e ci si deve augurare che in questo senso si eserciti da parte di tutti l’impegno largo e intelligente sulla quasi infinita serie di questioni che via via si presenteranno. Ma qualcosa c’è ancora da dire sulle condizioni alle quali il percorso da intraprendere sia il più aperto possibile e sgombro di appesantimenti derivanti da posizioni di principio vecchie e ostacolanti. La relazione introduttiva, dal canto suo, non ha mancata la sua parte. Chi conosce l’autore sa che per sua natura è solito tenersi prudentemente discosto da formulazioni che possano apparire, come mordacemente le chiama Marx, ricette confezionate per le cucine dell’avvenire. Nel seguito della relazione l’impegno di Montebugnoli si appunta su temi comportanti questioni di principio, che si presentano però fin ‘ora come fattori condizionanti per raggiungere la qualità di benessere che sul piano dell’analisi si è dimostrata possibile e proponibile. SI tratta di argomentazioni che a qualche lettore potranno apparire provocatorio, come sicuramente saranno risuonate all’orecchio di qualche uditore presente al convegno di Firenze, ma che nella loro semplice e chiara evidenza concettuale appaiono passaggi opportuni se non forse necessari, per raggiungere le finalità di un aumento del benessere accompagnato e sostenuto dalla capacità degli stessi beneficiari di attivarsi per ottenerlo.

Un primo passaggio è espresso nel titolo stesso del seguente capi-tolo terzo “la centralità del lavoro riconsiderata”. Il tema è sicuramente arduo e si estende ben oltre il solo mondo del lavoro per interessare l’ambito complessivo dell’economia e della società arrivando ai loro fon-damenti quanto meno antropologici. Basta pensare al ruolo che ha avuto il lavoro nella nostra società borghese capitalista, che ha dato il nome di “secolo del lavoro” a quello del suo massimo sviluppo, o per noi al primo articolo della nostra Carta costituzionale. Il tema però non viene qui presentato per la prima volta nel dibattito europeo dove si è parlato di “società multi attiva”; ma come si premura di precisare il relatore, l’attributo va pensato ed esteso non all’intera società nel suo complesso (tornando a far capo su principi di per sé irrinunciabili come la divisione del lavoro) ma bensì compresso nel concetto della medesima persona in cui devono essere presenti più centri di riferimento per attuarsi secondo il proprio genio e stile di vita (che nel mondo sociale saranno quindi molti e diversi e perciò nel libro sono vengono sempre scritti al plurale). Per dare concretezza a questa idea tanto seducente quanto ardita bisognerà pensare a nuovi e appropriati mezzi materiali economici. Per questo si prospetta l’idea (pure essa non peregrina) di un “reddito di cittadinanza” corrisposto a tutti i membri di una comunità in quanto tali, indipendentemente dal loro livello di reddito economico. Su questo tema si completano e concludono le questioni proposte dalla relazione; le quali a noi paiono travalicare l’interesse del mondo presente al convegno, e giustificano l’attributo di alto spessore che fin dall’inizio si è voluto riconoscere al discorso di Montebugnoli. Il mondo proprio del convegno sembra chiamato direttamente in causa nell’ultimo capitolo dove sotto il titolo “per una società più civile” si argomenta su un tema che risale a Toqueville quando si soffermava a considerare i caratteri della società americana, e la relazione ripropone quasi con le sue medesime parole di “arte di associarsi nella vita ordinaria”, sottolineando particolarmente i riflessi che esso comporta sul mondo del volontariato proprio di Auser e in genere del cosiddetto Terzo settore. Il relatore parla di “eccedenza del volontariato” intendendo che esso dovrebbe trascendere la figura e i compiti dell’assistenza sociale nelle sue varie forme, che restano proprie della sfera pubblica, per diventare anch’esso uno stile di vita e una figura della vita sociale che esprimendosi in forma autonoma e indipendente deve essere praticata e letta (con le parole dell’autore) come un “giacimento di capacità innovative rispetto ai punti di equilibrio sui quali si assestano via via le preferenze della collettività”, affrontando e realizzando cose “che spostino in avanti la frontiera della soddisfazione dei bisogni” ai cui limti si è voluto affacciare Auser con l’iniziativa che si è presentata.

Gli interventi al convegno, riportati nell’ultima parte del libro sot-to il titolo di “commenti” rappresentano un primo valido contributo allo sviluppo di questa iniziativa. Il primo di Mario Reale conferma la portata generale delle culturale delle questioni affrontate da Auser, che le colloca nell’ambito di interesse della filosofia. I seguenti riportano l’assenso e alcune puntualizzazioni a sostegno delle argomentazioni della relazione introduttiva, dovute a due economisti: il nostro Paolo Leon e l’inglese e anziano Ronald Dore. Donatella Della Porta estende l’attenzione dall’ambito sociologico che le è proprio a quello generale politico e della democrazia ai quali inducono le suddette argomentazioni. L’ultimo commento di Paul Ginsborg vuole ricordare il quadro non confortante che la scena dei fatti offre all’occhio dello storico.

A fine del libro è aggiunto un breve e denso saggio di Giorgio Ce-sarale il quale, ritornando su un tema trattato nel capitolo primo della relazione introduttiva al convegno, mette in evidenza il nesso tra il feno-meno economico-finanziario della sovraccumulazione (distinta dalla so-vrapproduzione capitalistica) e i mutamenti di potere (e, aggiungiamo, di stili di vita) in atto nel mondo.

ROMA - È L’Aquila la città esemplare dalle cui tragedie si misura il tracollo dell’urbanistica in Italia. Muove dalle macerie di quel centro storico la riflessione di Italia Nostra che, a due anni dal terremoto, ha convocato il convegno «La città venduta. Vent’anni di urbanistica contrattata» (oggi dalle 9,30, Sala dei Dioscuri, via Piacenza 1). E «L’Aquila come caso emblematico» è il titolo della relazione di Pier Luigi Cervellati che dà avvio al convegno, dopo l’intervento di Alessandra Mottola Molfino, presidente dell’associazione. Ma dal cuore martoriato del capoluogo abruzzese il passaggio al resto d’Italia è breve e il panorama è quello di un’urbanistica sempre più piegata a interessi particolari e non alla qualità del vivere.

Dalla riflessione alle proposte. Al convegno viene presentato un decalogo (vedi il box), redatto dallo stesso Cervellati, da Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi, che riassume i principi cui deve ispirarsi una corretta urbanistica. La città, si legge, non è una merce, è un bene comune, le sue trasformazioni devono essere definite dalle amministrazioni pubbliche e non affidate ai negoziati con i privati. Si proceda con il recupero delle periferie, si potenzi il trasporto pubblico e si facciano partecipare i cittadini e le associazioni alle scelte urbanistiche.

Il convegno cade in un momento delicato per Italia Nostra. Nello scontro sul libro, poi ritirato, che raccoglieva articoli di Antonio Cederna sono emerse questioni attuali: quei saggi erano affiancati, per iniziativa di Italia Nostra lombarda, da interventi critici verso Cederna stesso, che, ha detto Giulio Cederna, «stravolgevano tutte le impostazioni più care a mio padre». E fra queste proprio la natura radicalmente pubblica dell’urbanistica.

E questi principi Italia Nostra intende ribadire. A L’Aquila sta succedendo in forma estrema quel che accade altrove in Italia, dice Cervellati: un centro storico svuotato e una periferia che si ingrossa mangiando pezzi di campagna. Questo è il frutto, sostiene l’architetto, della libertà di cementificare, degli accordi fra amministratori e costruttori. Ma così si genera un circolo vizioso: «L’invenduto in Emilia Romagna dal 2008 è di 50 mila alloggi, una città per 120 mila persone, il doppio degli sfollati abruzzesi».

La storia dei guasti prodotti dall’urbanistica contrattata è stilata da Edoardo Salzano, mentre Giovanni Losavio indica l’incostituzionalità di tante procedure. Ma poi si passa ai dossier sulle città, scelte in un ventaglio bipartisan. Giuseppe Boatti esamina Milano, dove il recente Piano di governo del territorio consolida una tradizione di deregulation in cui «i privati gestiscono tutto». L’espansione di Roma, «infinita, ma senza futuro», fissata dal piano regolatore voluto da Francesco Rutelli e Walter Veltroni, passa sotto la lente di Paolo Berdini. Torino, Catania e l’Emilia Romagna chiudono un quadro in cui la pianificazione urbanistica non è più, ricorda Salzano citando Cederna, «un’operazione di interesse collettivo che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana».

Da qui se ne stanno andando tutti.

È il tormentone rappato dell’ultimo video di Michele Salvemini in arte Caparezza, che stufo di stare all’ombra dei grattacieli neobifolchi dalle parti di via Melchiorre Gioia a Milano, se ne scappa in Valbrembana chiedendo un passaggio in camion a un sopravvissuto musicale dei gruppi plastificati anni’ 80. Il sopravvissuto, senza smettere di guidare il camion, gratifica il pubblico con uno stentoreo Goodbye Malinconia! E alla fine del tunnel, sorge il sol dell’avvenire.

Dal territorio delle Langhe invece sembra che non se se stiano più andando tutti.

La fame delle campagne è un ricordo lontano … ma fra chi resta e i nuovi arrivati pare ci sia qualcosa che non va. Il tunnel, invece di essere verso la fine, a prima vista lo si sta invece costruendo e prolungando, lungo lo stradone da Alba verso Bra.

Sono le sequenze iniziali di Langhe Doc. Storie di eretici nell’Italia dei capannoni, film di Paolo Casalis che ha appunto nel sottotitolo qualcosa in comune con l’ultimo album di Caparezza, Il sogno eretico, ma le analogie forse finiscono qui.

Perché se il musicista pugliese pare voglia involarsi via tunnel verso territori lontani, l’architetto piemontese non praticante (definizione sua) al territorio ci sta ben attaccato. Anche se quel territorio dalle prime immagini sembra proprio sepolto da asfalto e prefabbricati.

Si tratta però di un espediente narrativo: il tunnel cementizio cresce, sì, ma è ancora piuttosto lontano dall’aver avviluppato le Langhe. Lancia nondimeno un forte segnale d’allarme. Anche dove non arrivano i bagliori delle insegne al neon (ovvero più o meno dappertutto in queste magnifiche colline a vigna e noccioli) e gli schizzi d’asfalto dei parcheggi, dilagano però lo stile di vita, le aspettative individuali e sociali, le attività che prima o poi potrebbero ritenere indispensabile qualche tipo di “sviluppo”, del genere che ben conosciamo, del genere di solito adorato dalla gran massa dei politici e amministratori alla ricerca di consenso immediato. Ma appollaiati fra quelle colline ci sono però gi eretici, quelli che stanno lì ogni giorno a chiedersi: non c’è un’altra strada? Magari si. Magari no. Il che non vuol dire non cercarla affatto, e farsi tritare dal conformismo ad ogni costo.

Lo ricorda un Grande Vecchio in persona in apertura e chiusura del film. L’efficacissimo Giorgio Bocca che racconta come la lotta partigiana, in fondo nata a nutrita dall’idea di territorio, lo fosse in modo troppo naif e inconsapevole di quello che il territorio era e rappresentava. Da urbanista ci aggiungerei che proprio per il Piemonte a cui le Langhe appartengono, uno dei padri della pianificazione italiana, Giovanni Astengo, aveva dedicato ai lavori della Costituente nel 1946 un Piano Regionale basato sui “bacini alimentari”, cellule modulari per costruire spazio, società, democrazia, sviluppo equilibrato. Ma quei partigiani e la cultura che esprimevano forse davano per scontate troppe cose con la liberazione. Non lo erano affatto, riconosce oggi Giorgio Bocca.

Basta guardare quei capannoni, quelle strisce di scatole arredo bagno comodo parcheggio comodissime rate. E i nipotini in sedicesimo che un po’ si infiltrano su per le strade di collina, quel piazzale a parcheggio di troppo, quel magazzino, quei mille metri quadri di asfalto che, qui salta proprio all’occhio, sono mille metri strappati alla terra. Niente di che, per uno abituato, che so, alla linea pedemontana alpina dove gli scatoloni con le insegne si organizzano a pettine, in pratica senza soluzione di continuità da Novara a Verona (volendo anche un po’ più a est e un po’ più a ovest). Qui in fondo è una biciclettata, dal passaggio a livello di Alba all’imbocco della salita a Bra, su cui si affolla disordinato e miserabile lo slum stradale commerciale. E dove spicca per idiozia urbanistica ed estetica quella spianata post sovietica dove l’ipermercato incombe ingoiandosi inopinatamente nel parcheggio tutto il tracciato stradale. Non a caso citato, quel tempio dello scatolonismo, nella copertina del Dvd e del libretto che lo accompagna.

Ma l’architetto non praticante Paolo Casalis pratica però una critica costruttiva del territorio, e risalendo le stradine di collina alla ricerca dei suoi eretici da intervistare si porta appresso l’anticorpo anticapannone: finiremo tutti digeriti là dentro, in un modo o nell’altro?

Gli eretici provano individualmente a fare ricerca, anche per capire quel che di buono magari ci sta, nascosto dietro ai vari aspetti della globalizzazione. C’è un mercato sterminato, e un territorio locale: si possono conciliare? Che rapporto c’è fra l’allevamento sostenibile delle pecore, la produzione di pasta artigianale controllando l’intera filiera, e uno stile di vita da XXI secolo? Il Grand Tour settecentesco con la sua integrazione culturale, alimentare, vitivinicola di qualità, rivolto alle moltitudini del terzo millennio deve essere per forza proposto in scatola, e banalizzato di rincoglionimento mediatico?

Naturalmente la risposta non c’è. L’eresia autentica è ricerca, non predicazione. Diffidate dei falsi profeti e degli spacciatori di certezze. Specie quando paiono proprio dettate dal buon senso comune: il mercato, bisogna pur campare, la mamma è sempre la mamma, ecc. Ma diffidate anche di chi dice bisogna ritornare al bel tempo che fu, quando c’erano i veri valori e compagnia bella. Al bel tempo che fu la gente dai territori scappava per sfuggire alla fame, non dimentichiamolo travolti dalla ruota del mulino bianco.

Insomma l’unico tempo che abbiamo è quello che ci resta. E va usato per cercare, sperimentare, riflettere, e non scordare quello che è già passato.

Langhe Doc. Storie di eretici nell’Italia dei capannoni. Un film di Paolo Casalis. Un libro di Federico Ferrero, Stuffilm, Bra 2011. Sottotitoli in italiano/inglese.

Le immagini del film sono ovviamente e infinitamente molto migliori dei miei scatti raccogliticci con cui ho illustrato il pezzo (f.b.)

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Rileggere dopo molti anni il Discorso sopra il costume presente degli italiani di Giacomo Leopardi che è del 1824, quando massima era la depressione nella penisola ed era difficile parlare, con qualche attendibilità, di un processo risorgimentale per l'unità nazionale che doveva ancora affiorare nella coscienza nazionale, mi ricorda un seminario che tenni negli anni Ottanta nella mia università di allora, quella di Torino, cercando di far capire ai miei studenti una lingua che era già difficile per quelle generazioni ma suscitando un notevole interesse in loro e molte discussioni dopo che leggemmo insieme il saggio leopardiano e ci trovammo a far confronti e comparazioni con i tempi che vivevamo allora.

Ma fare questi confronti oggi, che l'editore Bollati Boringhieri ripropone il libro aggiungendovi un lunghissimo saggio storico-letterario di Franco Cordero, che per l'editore riproduce I pensieri di un italiano d'oggi (Torino, 2011, pp.278, 15 euro) è per molti aspetti ancora più eloquente e significativo.

Leopardi, nel suo saggio del 1824, aveva detto alcune cose che mi sembra difficile contestare o mettere in discussione, perché risaltano con grande chiarezza dalla nostra storia e che quindi vale la pena di ricordare prima di parlare più a lungo di quelli che, secondo Cordero, sono - per usare un eufemismo - «gli ultimi due secoli della malata».

«Gli italiani - scrive Leopardi - ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza, che non fa niun'altra nazione.... Le classi superiori d'Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci».

E ancora aggiunge che «egli è certo che dopo la distruzione o indebolimento dei principii morali fondati sulla persuasione, distruzione causata dal progresso e diffusione dei lumi, si verifica una cosa che spesso affermata, è stata forse falsa in ogni altro tempo; che cioè nel mondo civile le nazioni, le principali città, le classi, gli individui più colti, più politi, sociali, esperimentati nel mondo, istruiti e insomma più civili, sono eziandio i meno scostumati e immorali nella condotta, e in parte ancora nei principii, cioè in quei principi di morale che si fondano sopra discorsi e ragioni al tutto umane. Tutto ciò è esattamente nell'Italia in generale, non solamente quanto alle città e alla provincie,ma eziandio quanto agl'individui e quanto alle classi, almeno a quelle non laboriose, paragonate tra loro. E forse in alcuni luoghi le classi civili si troveranno più morali, per esempio, di più buona fede, anche a quelle non laboriose, paragonate fra loro; tanto è la diffusione dei principi distruttivi della morale in Italia come altrove».

Le conseguenze di questo stato per Leopardi sono inevitabili: «Non ci meraviglieremo punto che gli italiani, la più vivace delle nazioni colte e la più sensibile e calda per natura, sia ora per assuefazione e per carattere acquisito la più morta, la più fredda, la più filosofa in pratica, la più circospetta, indifferente, insensibile, la più difficile ad essere mossa da cose illusorie, e molto meno governata dall'immaginazione neanche per un momento, la più ragionatrice nell'operare e nella condotta, la più priva affatto di immaginazione, di opere sentimentali e di romanzi e la più insensibile all'effetto di questi tali opere e generi (o proprie o straniere)».

Le conclusioni che Leopardi trae dall'esame dei costumi degli italiani sono chiare. Indica il cinismo e l'ipocrisia delle classi colte, come del popolo, i caratteri costitutivi di quella nazione e attribuisce alla mancanza di una «società stretta» la ragione di un simile stato, la condizione che genera nella nostra nazione un comportamento di cui parlerà successivamente nel suo Zibaldone come dei costumi prevalente nella nostra popolazione.

Peccato che, come osserva Cordero, nel suo lungo saggio che forma la seconda assai più lunga parte del libro, simili caratteri nei due secoli successivi non si sono modificati, anzi per molti aspetti si sono ulteriormente aggravati. Cordero rievoca nelle sue pagine, ricche di riferimenti alle vicende che hanno caratterizzato la storia dei due secoli che conducono fino ai giorni nostri, le ragioni della precisazione che ne segue.

L'autore è convinto che le classi dirigenti italiane abbiano combattuto molto poco quei caratteri costitutivi dei nostri costumi che già indicava il grande poeta di Recanati e che cinismo, furberia, ipocrisia, assenza di una coscienza civile abbiano attraversato il periodo liberale, quello fascista e tutto quello repubblicano senza sostanziali progressi. Di qui la situazione attuale che vede il nostro paese precipitato nel baratro dei populismi imperanti e diffusi non soltanto nella religione ufficiale del berlusconismo al potere ma in parte anche nella parte del paese che combatte l'attuale governo e vorrebbe un nuovo e diverso governo. Gli esempi che fa Cordero sono numerosi ed eloquenti e spaziano dalle vicende note ai retroscena che hanno caratterizzato gli esperimenti di potere dell'intero periodo repubblicano.

C'è da chiedersi fino a che punto si tratti di una diagnosi incontestabile e quali siano i fondamenti per superare la crisi attuale. Ma il libro si ferma prima, a illuminare e precisare la crisi più che a indicare rimedi possibili.

I classici sono nostri compagni. Non ci chiedono una fedeltà che piega la nostra autonomia di giudizio mentre ci aiutano ad affilare la lama della critica facendola più coraggiosa. Si porgono a noi con umiltà senza imporsi. Inoltre ci sono utili. Averli sotto mano quando si scorre un giornale, quando si discute con amici, si legge e si scrive è un bene del quale tutti dovrebbero poter disporre e godere. I classici non servono a legittimare quel che pensiamo perché non scalzano l´autorità della ragione e della logica, né cancellano il contesto storico. Essi servono d´ausilio alla nostra analisi e alla nostra conoscenza.

La rivoluzione elettronica ha in questo un grande pregio perché ha annullato la nostra distanza fisica dai classici. Ce li squaderna tutti a costo zero, ogni minuto del giorno e della notte. In aggiunta, ha cambiato le abitudini editoriali, costringendo il libro stampato a svolgere anche una funzione di guida tematica. Gli studiosi inorridiscono (spesso con buone ragioni) di fronte a questa pratica dello scampolo. Ma i cittadini ordinari ne hanno un grande guadagno e bisogno. Non è forse utile e bello che un pendolare possa leggere in un´andata e ritorno una selezione di classici? Già l´editore Donzelli aveva iniziato due anni fa a stampare essenziali di testi esemplari con un´introduzione illustrativa. Ora la casa editrice Chiarelettere lancia un´intrapresa simile ma con un target ancora più specifico: libri pensati per chi legge i giornali, o chi usa la rete per informarsi ma non conosce che cosa la rete ha nei suoi scaffali. Libri-pamphlet assemblati da curatori perspicaci per fare dei classici i nostri compagni di viaggio.

Il primo volume della collana Instant Book di Chiarelettere è Odio gli indifferenti di Antonio Gramsci, introdotto da David Bidussa. "Indifferenti" era il titolo di un articolo scritto da Gramsci nel 1917. Le prime parole sono tutte per noi: «Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che "vivere vuol dire essere partigiani". Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare». Cittadino come partigiano della sua dignità e quindi della legge. A chi, sbagliando, pensa che il morbo della nostra società sia l´antipolitica, Gramsci spiega che l´indifferenza come l´apatia e il fatalismo è una forma caratteristica di una sensibilità politica molto spiccata: quella che lascia fare, che ci fa curare dei nostri interessi personali e famigliari, abbandonando, scriveva Alexis de Tocqueville, la "larga società" nell´illusione che, così, saremo più liberi e felici.È il costume politico ancora oggi più in voga.

Il volumetto intero è uno spaccato della politica dell´indifferenza. Si chiude, molto opportunamente, con alcuni stralci del discorso di Gramsci alla Camera dei Deputati, nel maggio 1925, cinque mesi dopo che Benito Mussolini mise una pietra tombale sulle indagini della magistratura sulle responsabilità sue e delle sue squadracce nell´assassinio dell´onorevole Giacomo Matteotti e sullo stato di diritto. La giustizia, allora come oggi, è lo scoglio sul quale il governo della legge può rovinosamente incagliarsi. Le parole di Gramsci (coraggiose di fronte a un Parlamento di pusillanimi ottusi, incapaci di sentire la gravità del momento) rendono il senso di quella tragedia: «Il fascismo, dunque, afferma oggi praticamente di voler "conquistare lo Stato"». Leggere il discorso è come vedere un film: ogni parola di Gramsci è interrotta da Mussolini e dai suoi uomini. Non lasciar parlare, urlare le proprie ragioni e offendere per togliere ossigeno alla critica. Una strategia che non conosce invecchiamento.

Odio gli indifferenti parla del "paese Italia" (paese, non nazione, specifica Gramsci). L´attualità fotografica sbigottisce. Il cittadino indifferente è il free rider, colui che pensa che poiché milioni di altri fanno la loro parte (pagano le tasse o votano), è inutile che egli faccia la sua, tanto nulla cambierà, né in peggio né in meglio; senza pensare che, come in un coro, ogni voce in democrazia è determinante. Ma quando e se le cose vanno a rotoli, e lo Stato si riempie di lestofanti che svuotano l´erario per foraggiare alleati e amici, allora gli indifferenti «piagnucolano pietosamente» oppure «bestemmiano oscenamente» - dopo, però. L´indifferenza è una forza politica che annulla la responsabilità e la volontà, salvo poi accusare di tutto il destino.

La raccolta gramsciana è un´illustrazione dell´indifferenza in tutte le sue pieghe, alimentata per esempio da un morboso bisogno di letteratura scandalistica. Era il 1917, l´anno in cui adolescenti di tutte le regioni italiane vennero mandati al macello a Caporetto, e il pubblico dei lettori era alla ricerca di notizie piccanti. «A leggere questi libri pare che l´Italia sia un immenso serraglio di mandrilli in fregola che si atteggiano a sentimentali, quando il sentimentalismo sia la via più facile per raggiungere la meta agognata. Tutte le altre attività della vita, che non siano l´attività amorosa, sembra che non esistano». Cambiano i musicanti, ma la musica è la sempre stessa.

Massimo Terni, “La mano invisibile della politica. Pace e guerra tra stato e mercato”, Garzanti, pp. 192, euro 16,60

È convinzione diffusa quella che, nell'età globale, l'economia abbia imposto alla politica il suo primato. Su questo tema, e su quello strettamente connesso del declino della sovranità statale, si cimenta ora Massimo Terni, studioso di dottrine politiche, con un libro dal titolo eloquente: La mano invisibile della politica. La politica è dunque tramontata nell'epoca del mercato globalizzato? Per rispondere alla domanda Terni, opportunamente, non si schiaccia sulla diagnosi dell'oggi, ma compie un largo giro riflettendo sui modi in cui i rapporti tra economia, politica e Stato si sono articolati nelle vicende del pensiero e in alcuni grandi snodi storici.

Tanto per cominciare, c'è un punto che conviene tenere ben presente: la centralità e il primato sociale dell'economia, così come lo abbiamo conosciuto nel nostro tempo, non è affatto una situazione priva di alternative. Anzi, come l'autore ricorda riprendendo Karl Polanyi, l'epoca dello homo oeconomicus è una parentesi «relativamente breve rispetto a una storia millenaria in cui vigeva il principio aristotelico della "sussidiarietà" dell'economia: prioritarie sono sempre state le ragioni della politica, che utilizzava l'economia per i propri scopi, ma senza mai considerarla un valore in sé».

La virtù pubbliche del consumo

La civiltà occidentale nasce, in Grecia, proprio affermando il valore dello spazio pubblico politico rispetto a quello privato dell'oikos (in greco, la casa) dove ci si dedica appunto alla oikonomia, cioè alla necessaria produzione dei beni di sussistenza, che è certamente una base, ma che sarebbe aberrante considerare come il fine della vita umana o come lo scopo principale dell'agire politico dei cittadini (Terni riprende qui il tema caro a Hannah Arendt). È vero che la svalutazione dell'attività materiale dipendeva anche dal fatto che questa veniva svolta, in una certa misura, da schiavi; ma ciò è esatto solo in parte perché, come ha mostrato una brava studiosa marxista della Grecia classica, Ellen Meiksins Wood, in realtà la base sociale della polis ateniese era costituita proprio da cittadini-contadini indipendenti, che svolgevano da sé il lavoro materiale necessario alla loro vita.

Non c'è dubbio comunque che, per tutta l'antichità e il medio evo, era impensabile considerare la produzione di beni come un fine supremo, e l'idea di fare denaro con il denaro era considerata perversa e peccaminosa. Per l'individuo moderno, invece, come dirà «il padre di tutti gli yankees», Benjamin Franklin, «il tempo è denaro»; l'uomo è considerato come naturalmente incline allo scambio e al guadagno (Adam Smith), la categoria centrale diventa quella dell'«interesse», e l'operare della mano invisibile del mercato appare come la più efficace garanzia di prosperità e di benessere per tutti. Il fine della politica diventa quello di incrementare la «ricchezza delle nazioni», mentre i lussi e i vizi privati perdono la loro caratterizzazione negativa perché, se fanno girare il denaro, si trasformano presto in «pubbliche virtù».

Il rapporto tra economia e politica, dunque, sembra capovolgersi: se prima l'economia era sussidiaria rispetto alla politica, con la modernità è la seconda che deve mettersi al servizio della prima. Però la «triste scienza» con la quale Marx farà i conti è ancora una political economy: la crescita economica viene perseguita nel quadro e con i limiti dettati dallo Stato nazionale che, sospinto dai conflitti di classe, diventa anche un fattore di redistribuzione della ricchezza prodotta, un Welfare State che si incarica di far rifluire i benefici anche verso coloro che, secondo la pura logica di mercato, ne resterebbero esclusi. Del resto, l'ideologia che accompagna questo processo non è priva di contraddizioni: per un verso si basa sull'idea del mercato come meccanismo naturale, spontaneo e autoregolantesi (la mano invisibile smithiana). Mentre invece, a ben guardare (e lo hanno mostrato perfettamente Giovanni Arrighi e Immanuel Wallerstein) l'imposizione di un ordine di mercato avviene con il contributo determinante dei poteri statali, che le forze economicamente dominanti utilizzano per perseguire i loro fini.

Denazionalizzati e contenti

Il primato dell'economia resta incardinato dentro lo Stato sovrano, con tutte le contraddizioni che ciò comporta: dallo Stato come (marxianamente) comitato d'affari della grande borghesia e della grande finanza, allo Stato come istituto che, almeno nelle dichiarazioni, trae la sua legittimità dalla sovranità popolare. E la conseguenza è che il conflitto di classe prende spesso la forma di una lotta per condizionare, controllare o «prendere» il potere dello Stato e, a partire da quello, governare le potenze dell'economia.

Ma nell'età globale, e veniamo così al punto di oggi, anche questo instabile e conflittuale bilanciamento dei poteri si rompe: se, come ci raccontano tutte le analisi più accreditate, la sovranità dello Stato perde i pezzi; se, come scrive giustamente Terni, è in corso sotto i nostri occhi un processo di «denazionalizzazione» (che quasi inverte quello di «nazionalizzazione» che aveva avuto il suo culmine nell'Ottocento), allora la sovranità popolare rischia di ritrovarsi ad abitare un «non-luogo». E il potere economico-finanziario sembra godere finalmente delle condizioni per affermarsi senza contro-poteri effettivi che siano ancora in grado di limitarlo.

Lo Stato pare ridursi, scrive Terni, al «partner di un sistema di imprese transnazionali finalizzato a un'accumulazione di capitale fine a se stessa», nel segno di una «privatizzazione di fatto» di quelle che avrebbero dovuto essere «funzioni di interesse collettivo».

In un quadro così fosco, l'autore non suggerisce ricette, ma propone una indicazione convinta. Se la politica può avere ancora un ruolo, è a partire dal fatto che potestà politica e Stato-nazione non vanno necessariamente insieme. Se è vero che si sono date molte forme di autorità politica prima dello Stato (da quelle di tipo comunitario e tribale all'universalismo medievale del Papato e dell'Impero) il tema di oggi è che si sta andando verso una politica post-statale, i cui contorni, però, sono ancora poco definiti e sui cui esiti non è facile essere ottimisti.

A leggere questo libro, Italia sperduta, di Carlo Donolo, tra i sociologi più conosciuti, professore alla «Sapienza» di Roma, viene in mente quel che disse un vecchio signore di buon senso davanti a un talk show della tv popolato di ministri, corifei, amazzoni urlanti, dimentiche anche di esser donne, alla disperata difesa del cavaliere di Arcore: «Ma che libri hanno letto?» . Un saggio denso, amaro, radicale nelle analisi, l’Italia sperduta (Donzelli, pagine 175, e 18), che non indulge in critiche moralistiche, ma racconta i fatti del passato prossimo e remoto e li mette a confronto con l’oggi, tempo in cui prevalgono l’incertezza, l’ansia, il conformismo timoroso.

«Pulcinella e Sganarello sono dei geni a fronte dell’ottusità imperante» scrive Donolo. Che cosa è mai successo, si domanda, come è stato possibile, cosa, nel recente passato, può spiegare questo presente? Cosa abbiamo fatto e omesso? Ci sono vie d’uscita? Donolo le cerca, non è un pessimista compiaciuto, esistono le energie possibili per ricominciare: tutta una società minuta, priva purtroppo di ponti capaci di collegare il fare diffuso, spesso sconosciuto.

Manca la politica, manca il rispetto per la Costituzione e questo rende fragile la democrazia. Il nodo del libro è la crisi cognitiva della comunità: «Significa che il Paese non riesce a transitare verso una forma più avanzata, verso la società della conoscenza, pur avendo risorse, perfino eccellenze, in diversi campi» per restare agganciati all’Europa, per competere nella globalizzazione, per affrontare in modo innovativo i molti problemi strutturali del Paese, in ritardo, incompiuto, specchio di una modernizzazione superficiale. I temi dell’Italia sperduta sono innumerevoli.

Il tradimento dei ceti medi, toccasana elettorale dei partiti, tutti, che li corteggiano, è essenziale. Plebeizzati, privi di identità culturale, con il miraggio delle rendite, non del lavoro — consumi senza cultura— i ceti medi hanno rinunciato alla loro funzione equilibratrice: «Si buttano all’avventura, alla cieca (…) spesso con rabbia, livore e disgusto» . Il conflitto tra generazioni è diverso rispetto al passato. I padri, bisognosi di rassicurazioni, «si buttano sull’offerta politica peggiore: sanatorie, scudi fiscali, condoni, piani casa, economia sommersa, approssimazione (…) tra intolleranza e livore (…) compreso il contorno di belle di giorno e di notte» . I figli sono disorientati, apatici nella grande maggioranza, allietati da qualche gadget.

Poi esiste una minoranza attiva, costruttiva, piuttosto che ribelle. C’è sempre stata, dal Risorgimento alla Resistenza. Ma adesso, sostiene Donolo, i politici, quelli meno ignoranti, possono soltanto pescare nei progetti intelligenti e sostenibili di quei giovani che rappresentano «la confutazione del conformismo della rassegnazione e delle velleità patrimonializzate e di rent seeking (prelievo di rendite) dei loro genitori» , avvinghiati alla «roba» , ciechi nel non vedere, che condannano i figli a un futuro gramo. «La regressione psicoculturale italiana ha qui il suo cuore» . Il ceto medio irriflessivo pensa di essere protagonista, l’unico in grado di dettar legge riprendendo il potere dopo essersi servito degli uomini d’avventura.

Accadde col fascismo, sta accadendo col berlusconismo che, secondo Donolo, è «la cultura politica del saper approfittare privatamente della tragedia collettiva» . Il nostro è un Paese in drammatica crisi, politica, morale, culturale, di costume di vita. «Calpesti e derisi» nella comunità europea, è indispensabile riportare l’Italia alla decenza: nella ricerca scientifica, nella formazione universitaria, nella riforma scolastica, nella vivibilità urbana, nel risanamento dei centri storici, nella bonifica di aree a rischio ambientale, nella tutela del paesaggio, nella riforma della pubblica amministrazione. Il problema della classe dirigente, assai scadente, è primario.

Il reclutamento è dissennato, oggi ancora di più, con una legge elettorale che impedisce la scelta dei candidati e i partiti che impongono soltanto uomini e donne fedeli. Si è creato «un regime di ingovernabilità fondato su un nesso fiscale degradato, inefficiente e ingiusto» . Le carenze sono visibili: l’ambiente devastato, i tesori dell’arte lasciati morire, la cultura considerata un trascurabile additivo, non le fondamenta da cui ricominciare. Si vive alla giornata. Le grandi questioni nazionali sono trascurate, come la prevenzione a lungo termine.

Basta guardarsi intorno: la corruzione tocca tutti gli strati sociali, l’evasione fiscale è devastante, il consumo del suolo suicida, l’abusivismo un’abitudine tollerata, le regole nemiche, i poteri criminali padroni al Sud, diffusi al Nord. Certamente, il debito pubblico è micidiale, la crescita manca, ma questo non deve essere un alibi. Perché le risorse ci sono e anche le energie e gli anticorpi: si tratta di metterli in rete. Finalmente uno studioso che parla senza peli sulla lingua, come di recente hanno fatto nei loro libri Guido Crainz, Ermanno Rea, Marco Revelli. Per tentare di offrire una bussola a una classe dirigente cieca, sorda e purtroppo parlante con una volgarità ostentata.

La differenza fondamentale tra "la produzione" e "l’estrazione" del valore. Gli esseri umani ormai trasformati in robot o in esuberi dovrebbero ribellarsi al pensiero liberista dominante

Se dovessi scegliere il "romanzo della crisi" di questi anni di turbocapitalismo globale e letale voterei Sunset Park. Le prime pagine del libro di Paul Auster – in cui il giovane Miles Heller racconta il suo lavoro di "moschettiere della disgrazia", incaricato di ispezionare per conto delle banche le case abbandonate dagli inquilini morosi e di fotografare le innumerevoli "cose abbandonate" per sempre dalle famiglie espropriate – sono l’affresco letterario di un’epoca. La Spoon River di «un mondo che crolla, di rovina economica e di difficoltà assidue e crescenti» per milioni di persone sommerse dalla "tempesta perfetta" iniziata oltre tre anni fa. Ma ora esce anche il "saggio della crisi". Non che in questi mesi la titolistica sul tema sia stata avara. Ma il libro che vi suggerisco adesso è forse il più completo e il più scientifico di tutti quelli che mi è capitato di leggere. Sto parlando di Finanzcapitalismo, che Luciano Gallino ha appena dato alle stampe (sempre per Einaudi).

Quello di Gallino è il viaggio dentro i deliri cinici, e a volte addirittura clinici, del mercatismo. Un viaggio che parte da un trionfo egemonico: un sistema economico basato sull’azzardo morale e sull’irresponsabilità del capitale, sul debito che genera debito e sul denaro che produce denaro. E che ci conduce a un capolinea drammatico: la completa svalorizzazione del lavoro, la devastazione delle risorse industriali e naturali, la desolazione di una massa di donne e di uomini che ormai non sono più "ceto medio", ma "classe povera".

Quello che è accaduto, da quella drammatica fine estate del 2007, lo sappiamo. Quello che ancora mancava è un’analisi storica e sociologica, oltre che economica, del processo che ha cambiato i connotati del sistema. Gallino lo ricostruisce a partire dal concetto, teorizzato da Lewis Mumford, delle "mega-macchine sociali": quelle grandi organizzazioni gerarchiche che usano masse di esseri umani come "componenti o servo-unità". Kombinat di potere politico, economico e culturale che hanno generato "mostri" nell’arco dei millenni: dalle piramidi egiziane costruite col sangue degli schiavi all’Impero Romano, dalla fabbrica di sterminio del Terzo Reich nazista all’universo concentrazionario del comunismo sovietico. Ora siamo alla fase più "evoluta": il "finanzcapitalismo", "mega-macchina" sviluppata allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e potere, «il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli eco-sistemi».

E questa "estrazione di valore" è diventata il meccanismo totalizzante e totalitario che ormai abbraccia «ogni momento e ogni aspetto dell’esistenza». Dalla nascita alla morte: come il vecchio Welfare, arruginito e inservibile secondo la vulgata occidentale dominante, abbracciava un tempo l’individuo "dalla culla alla bara". Il salto di qualità è nel passaggio cruciale dalla "produzione" alla "estrazione" del valore. Si "produce" valore quando si costruisce una casa o una scuola; si "estrae" valore quando si impone un aumento dei prezzi delle case manipolando i tassi di interesse. Si "produce" valore quando si crea un posto di lavoro stabile e ben retribuito; si "estrae" valore quando si assoldano co.co.pro. mal pagati o si aumentano i ritmi di lavoro a parità di salario.

Se la "mega-macchina" del vecchio capitalismo industriale fordista aveva come motore l’industria manifatturiera, la "mega-macchina" del "finanzcapitalismo" ha come motore l’industria finanziaria. La prima "girava" grazie al lavoro, che generava reddito, diritti, cittadinanza. La seconda "gira" grazie al denaro, che genera altro denaro, e poi ancora denaro, e sempre e solo denaro. "Finanza creativa", abbiamo imparato a chiamarla in questa inebriante stagione di culto pagano per il dio mercato. Non ci siamo accorti che, nel frattempo, è diventata "finanza distruttiva". Per rendersene conto basta esaminare, con il sociologo torinese, l’inventario di tutto ciò che è andato distrutto in questi ultimi anni. Nell’immane falò della Grande Crisi sono bruciati gli "attivi" del mondo, cioè la ricchezza costituita da azioni, obbligazioni, derivati, case, edifici commerciali, impianti industriali, capitali e fondi. Un autodafé stimato da un minimo di 25-30 trilioni di dollari (la metà del Pil del pianeta) a un massimo di 100 trilioni (1,8 volte il Pil mondiale). Ma nel fuoco, con la ricchezza, sono "bruciate" persone in carne ed ossa: secondo l’Oil, oggi abbiamo 50 milioni di disoccupati in più, e 200 milioni di lavoratori precipitati nell’area della povertà estrema.

Al di là delle colpe, sulle quali Gallino non affonda più di tanto il coltello, c’è un immensa opera di riconversione che andrebbe tentata qui ed ora. Per le classi dirigenti, si tratta di uscire dal pensiero unico neo-liberale, che ha teorizzato le virtù del "finanzcapitalismo" e ha prosperato sulle sue follie. E di riformulare l’architettura finanziaria: con gli strumenti del narrow banking (la riduzione drastica delle dimensioni dell’attività creditizia), la revisione dei criteri di bilancio, la potatura del mercato dei derivati, il divieto delle cartolarizzazioni. Ma mentre enumera i rimedi possibili, e indica i tentativi finora falliti soprattutto in Europa (più interessanti quelli americani legati al Dodd-Frank Act) Gallino sembra suggerire anche la velleitaria inutilità delle "auto-riforme". E qui sta, forse, la debolezza e la forza del libro. La debolezza, mi pare, è nel vedere solo il "dark side" della finanza-ombra, e nel non concedere altre chance al capitalismo: quasi che nella sua ultima reincarnazione finanziaria si debba considerare esaurito il suo ciclo vitale. Sappiamo invece che, schumpeterianamente, il capitalismo è forse l’unico sistema che ha dimostrato di poter morire e rinascere infinite volte.

La forza, per ragioni uguali e contrarie, è nel fare appello alla coscienza degli uomini. Visto che Karl Marx ha fallito, nell’immaginare la nascita di una "classe antagonista" capace di imporre un modello di economia e di società umanamente e socialmente sostenibile, non resta che tornare a Karl Polanyi, che invoca «una reazione sociale e culturale, variegata e diffusa, al liberalismo economico e al mercato deregolato». Parlava del XIX e del XX secolo. Ma per Gallino l’idea polanyiana dei "contro-movimenti" tornerebbe utile anche oggi. Gli esseri umani, ormai trasformati in robot o in esuberi, dovrebbero ribellarsi. Se lo facessero, priverebbero la "mega-macchina" del "finanzcapitalismo" dei "servo-meccanismi" che la fanno funzionare. Dalla dimensione individuale a quella collettiva: la missione sarebbe quella di sconfiggere il "demone" della finanza con l’esorcismo della ragione. La più affascinante, ma purtroppo la più difficile delle "rivoluzioni".

Due recenti libri sulla crisi della democrazia rappresentativa. Il primo è di Maria Rosaria Ferrarese che affronta, ne La governance tra politica e diritto, le soluzioni che stanno emergendo nei sistemi politici occidentali incapaci di fronteggiare la globalizzazione. Gaetano Azzariti, ne Diritto e conflitti, analizza invece le contraddizioni del costituzionalismo nel registrare la natura dei conflitti sociali, culturali e di classe della contemporaneità

Come e perché ripensare la democrazia? È questa la principale domanda che pervade due volumi da poco in libreria. Quasi identica a quella che il filosofo d'origine tunisina Yves Charles Zarka pone in apertura al libro collettivo Repenser la démocratie (Armand Colin) a un nutrito gruppo di filosofi, giuristi, storici, sociologi. Nel nostro caso ci troviamo dinanzi a una sociologa del diritto, Maria Rosaria Ferrarese, autrice di La governance tra politica e diritto (Il Mulino, pp. 218, euro 18); e a un costituzionalista, Gaetano Azzariti, Diritto e conflitti. Lezioni di diritto costituzionale (Laterza, pp. 418, euro 35), un nome che i lettori de il manifesto conoscono assai bene per i suoi commenti e contributi sui duraturi «conflitti istituzionali» del nostro paese. Sin dai titoli si comprende che entrambi i lavori partono da un'analisi critica delle esperienze giuridiche, fortemente orientata a indagare i nessi istituzionali, politici e sociali dei modi di produzione del diritto, nella crisi delle categorie fondanti la modernità giuridica: statualità, democrazia rappresentativa, supremazia della legge, centralità del parlamento.

L'intento esplicitato da Ferrarese è quello di studiare la «governance come sfida alla, o come aggiustamento della democrazia»; o come interrogazione critica della «tradizionale geografia istituzionale costruita dallo stato moderno». Si parte da un dialogo/conflitto serrato tra «le sfide della governance» e le «presunzioni della democrazia rappresentativa», dapprima ponendo l'accento sulla «crisi della legislazione», l'insufficienza del clivage diritto pubblico/diritto privato e l'impossibile, reale divisione dei poteri. Siamo al centro della polarità tra costituzionalismo delle garanzie, limitazione dei poteri e governance prodotta da quella soft law che non pensa più il diritto come «formulazione normativa», ma piuttosto come «funzione, come risultato, come effettività». Sono le «impossibilità della rappresentanza» dinanzi alle «possibilità del costituzionalismo»: il deperimento «dell'ingegneria della delega» ai rappresentanti del popolo, lo sconfinamento territoriale oltre le frontiere perimetrate dalla democrazia istituzionale, il radicale mutamento delle società dopo l'«impoverimento» causato dalla crisi economica delle classi medie, massificate e individualizzate al contempo, pericolosamente sospese tra populismo, spettacolarizzazione delle pulsioni e «gestione professionale delle percezioni collettive». Si profila quindi la rivendicazione di nuove forme di partecipazione politica, la centralità della tutela delle minoranze, la riscrittura di nuove agende sociali e l'affermazione di inedite forme di produzione giuridica.

Ferrarese indaga da tempo il rapporto tra common e civil law nell'epoca globale, tra la tendenziale americanisation du droit e la necessaria, ma incompiuta, capacità di autotrasformazione della tradizione giuridica continentale, anche a fronte di un diritto comunitario spesso autoreferenziale.

Le fabbriche della legge

In questo oramai quarantennale cantiere si afferma la governance, come «esercizio del potere e produzione di norme giuridiche» attraverso strumenti e procedure che «legano soggetti, gruppi, comunità ai centri di potere»; ma anche come «modalità istituzionale» aperta, flessibile, a «geometria variabile», in un «panorama giuridico privo di centro e affidato a meccanismi di conflitto tra norme e di competizione tra ordinamenti». Nei due capitoli centrali della sua ricostruzione, Ferrarese indaga la «governance giudiziaria» e quella «contrattuale». Da una parte riprendendo «il precedente americano» della garanzia giurisprudenziale nella democrazia maggioritaria e il «dialogo tra Corti» nel diritto europeo dell'ultimo cinquantennio. Dall'altro esplorando la governance of contract, a partire dall'antropologia dell'homo oeconomicus, nell'esperienza del New Public Contracting thatcheriano, nel diritto globale della lex mercatoria, delle law firms e delle altre «istituzioni della globalizzazione» economica e finanziaria.

In questo quadro la governance diviene «succursale della democrazia»: approfitta delle incapacità della rappresentanza politica per instaurarsi al centro di una «competizione tra gli interessi», rispetto alla quale le istituzioni finiscono per divenire strumento della gouvernementalité foucaultiana, quasi riproducendo la «concezione cristiana del governo pastorale»; mentre in altri momenti si torna a una sorta di postmoderno medioevo della regolazione giuridica.

Eppure è possibile intravedere nelle procedure di governance una «tendenza al decentramento», alla frammentazione dei poteri, alle possibilità del controllo diffuso da parte di un'opinione pubblica attiva, dotata di accesso libero alla rete, alla «sperimentazione dal basso di meccanismi di partecipazione», oltre la dimensione contrattuale e giurisprudenziale della governance tradizionale. È lo spazio post-democratico dei soggetti invisibili alle istituzioni centralistiche dello Stato nazione, così come alla disseminazione immateriale della globalizzazione tardo-capitalista: la scommessa è quella di immaginare forme del conflitto all'altezza del mutamento di paradigma avvenuto nei sistemi istituzionali e di produzione normativa.

La dinamica costituzionale

E proprio di Diritto e conflitti si occupa Gaetano Azzariti, in un volume che ha il notevole pregio di essere sia un itinerario di lezioni di diritto costituzionale, che una proposta di ripensamento dei fondamenti teorici e istituzionali del costituzionalismo moderno e contemporaneo, alla luce della «dinamica dei conflitti»: un lavoro che necessita di un confronto ben più approfondito, che può essere solo suggerito e accennato in questa occasione.

La prima parte del libro ricostruisce il «diritto come norma sociale, regola di condotta» della convivenza, in cui «l'oggetto della scienza giuridica» si apre «alla società e alla complessità della realtà sociale» e l'ordinamento giuridico è inteso come «istituzione normativa e sociale». Rimane senza risposta la domanda sulla «costruzione del consenso sociale, che è sempre artificiale, ma può anche essere fortemente manipolata, nonché vacuamente spettacolare». È questo il punto di partenza dell'analisi critica proposta nella seconda, assai più ampia parte del volume: il rapporto tra «ordinamenti e conflitti» alla luce di una loro «composizione autoritativa», piuttosto che di una «soluzione procedurale», ipotesi alle quali viene preferita la «legittimazione dei conflitti» nella transizione dal «potere del demos alla sovranità della Costituzione».

È un'ampia e suggestiva cavalcata nel pensiero politico e giuridico della tradizione occidentale, che prende le mosse da una radicale e inappellabile critica della «composizione autoritativa dei conflitti», cui consegue il rifiuto della logica capitalistica dietro al «funzionalismo scettico di matrice nichilista», che può essere combattuto anche «in forza di un illuminismo disincantato e critico» e non necessariamente «contrapponendo una visione dogmatica e determinista»: «oltre al nulla del nichilismo, il costituzionalismo e la storia». In questo senso il «paradigma procedurale» di soluzione dei conflitti e il «normativismo» di matrice kantiana e kelseniana si mostrano insufficienti dinanzi alla portata innovativa di «conflitti irriducibili».

Qui si parte dalle figure tragiche di Antigone e Socrate, passando per la «resistenza passiva» di Tommaso e giungendo alla potenza razionalizzatrice della «gigantesca macchina dell'obbedienza» hobbesiana, capace di influenzare tanto il pensiero liberale del «costituzionalismo moderno di Locke», quanto «quello radicale e democratico» di Rousseau. Quel Rousseau che per Azzariti diviene il viatico alla «sovranità della costituzione»: l'affermazione post-rivoluzionaria del «nuovo patto sociale», che limita e divide i poteri, garantendo anche i «diritti fondamentali» dell'individuo; è l'avvio del lungo percorso che porta alla «democrazia pluralista o costituzionale». Affascinanti e coinvolgenti sono le pagine sul Rousseau «fomentatore del cambiamento», «critico dell'ideologia», promotore di un «radicalismo eversivo». Affascianti e coinvolgenti perché evidenziano la possibilità di intraprendere un percorso eterodosso verso una radicale trasformazione dell'esistente, anche tra le maglie oscure e a volte insondabili della governance postmoderna.

La democrazia del tumulto

L'ipotesi di contrastare la corrotta finanziarizzazione dell'economia ipercapitalista e «la crisi del modello politico incentrato sullo stato» (Ferrarese), a partire, piuttosto che dalla previsione di leggi intese come «limitazioni dell'azione», dalla creazione di «nuove istituzioni», post-rappresentative e non statali, che siano, usando una frase del Gilles Deleuze studioso di Hume, «modello positivo di azione». La sensazione che la centralità dei conflitti nel maturo capitalismo globale si dispieghi dalla necessaria lotta per la condivisione e trasmissione del sapere, inteso come bene comune, che già Condorcet definiva istruzione pubblica (contro la giacobina educazione nazionale), antagonistica tanto alla dimensione privata, che a quella statuale. E che intorno all'eccedenza della conoscenza si stia giocando tanto il massacro, prima generazionale e ora anche sociale, dell'ultimo trentennio in Europa, quanto le attuali, irriducibili rivolte sulla sponda meridionale del Mediterraneo.

È questo un sottile, ma duraturo filo rosso che lascia però del tutto aperta la dimensione creativa delle nuove forme di regolazione giuridica, sicuramente oltre le «buone pratiche» di una good governance. Se dovessimo elencare «buoni esempi» e modi per produrre il diritto, verrebbe da pensare alla democrazia del tumulto del Machiavelli dei Discorsi, che avremmo voluto trovare ricordata nel lavoro di Azzariti: «perché i buoni esempi nascono dalla buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da que' tumulti che molti inconsideratamente dannano».

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