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Respira! Questo il monito-titolo scelto per la mostra «Breathe in! Respira! New urban ecologies» a cura di Luca Molinari e Simona Galateo da oggi a fine mese allo Spazio Fmg di via Bergognone. Ma quello che altrove è percepito come un augurio, respirare a pieni polmoni, a Milano assomiglia più a una minaccia. Motivo: nonostante i buoni propositi dell'attuale giunta, dall'Area C ai progetti di riqualificazione dei Navigli fino agli interventi delle nuove zone a traffico limitato (il cui dossier è stato presentato in Comune l'altro ieri), Milano resta tra le città più inquinate d'Europa, inanellando lunghi periodi in cui i livelli di Pm10 superano di gran lunga i limiti consentiti.

E allora perché non guardare là dove le cose, invece, funzionano? «Siamo partiti studiando le città vincitrici dell'European Green Capital Award, premio europeo per la città più verde», spiega Simona Galateo. Negli ultimi quattro anni il riconoscimento è stato assegnato rispettivamente a Stoccolma, Amburgo, Vitoria-Gasteiz (Spagna) e Nantes. Città dove si è stati capaci di «fare sistema», creare una rete di interventi a favore di una più alta qualità ambientale: dai piani di mobilità allo smaltimento dei rifiuti, dall'uso delle aree non edificate alla valorizzazione di quelle verdi. Iniziative sempre valide ma che, solo se messe in relazione le une alle altre, determinano quel salto di qualità imprescindibile per le metropoli del futuro. Lo stesso vale per ogni nuovo progetto, architettonico o urbanistico che sia, che non può astenersi dal prendere in considerazione questioni di ecologia e sostenibilità ambientale se non vuole apparire vecchio ancor prima di nascere.

«Breathe in! Respira!» mette in mostra architetture eco-compatibili realizzate, progetti restati sulla carta ma dal forte carattere sperimentale, semplici idee per un vivere più ecologico facilmente adottabili da ciascuno di noi. Queste ultime, raccolte sotto la definizione di «best practices», spaziano dall'orto urbano (in via Bergognone ne è stato allestito uno con alberi di limoni, piante di rosmarino e addirittura mini-arnie per farsi il miele in casa), al generatore eolico firmato da Philippe Starck fino ai prototipi di biciclette di Matteo Poli attrezzate per affrontare lunghi viaggi (con videocamere installate sul manubrio).

In questa sezione non mancano naturalmente le piastrelle di Iris Ceramica, l'azienda che cinque anni fa ha aperto lo Spazio Fmg per l'Architettura, trattate con l'innovativo processo che le rende antinquinanti e antibatteriche (come hanno dimostrato test condotti dall'Università degli Studi di Milano).Insomma, se respirare a Milano fa quasi paura (ma non possiamo esimerci dal farlo) quella che ci offre la mostra «Respira!» è proprio una boccata d'ossigeno, almeno mentale. Con questo evento Luca Molinari ha colto l'occasione per indirizzare al sindaco Giuliano Pisapia una lettera apertain cui lancia al primo cittadino una sfida tanto ambiziosa quanto esaltante: fare in modo che la città di Milano possa candidarsi all'European Green Capital Award nel 2015, in occasione dell'Expo. E chissà che non riusciremo a stupire tutti, aggiudicandoci addirittura il primo posto.

È una bambina, da una grotta, a raccontarci cos´è che ci manca. Cos´è che non abbiamo più e non sappiamo ritrovare qui e ora, in questi giorni sfusi pieni solo di rabbia e di impazienza, di calcoli brevi e di sfinimenti vani. È il personaggio di un romanzo – che come accade è la finzione la più precisa a raccontare la realtà – a dirci piano all´orecchio da dove ripartire.

A dirci dove ritrovare le parole e le emozioni, le ragioni collettive che tengono dentro le storie di tutti, e un cammino da fare insieme, con fatica e con dolore ma insieme, verso un posto che sia un più bel posto per tutti giacché tutti l´hanno patito e guadagnato insieme. Un orizzonte comune, la storia grande che partorisce nel sangue e nel sollievo le vicende di ciascuno. È Ida Maria, una ragazzina sarda sbarcata in continente giusto in tempo per scoprire cosa sia l´amore mentre arriva la guerra, una piccola staffetta partigiana che si nasconde per giorni sottoterra, nelle cave di Roma ad aspettare che finiscano gli spari. E che nei giorni, dalla grotta, per domare la paura ricorda e racconta: la vita sua, quella delle persone intorno, la storia grande e quella piccola, la forza delle cose, l´immensa energia che scaturisce da ogni lutto se solo c´è un posto dove andare, dopo, un luogo dove correre che sia così bello da giustificare la corsa.

Paola Soriga, che ha scritto la storia di Ida e l´ha intitolata Dove finisce Roma (Einaudi Stile libero), ha poco più di trent´anni. Non è la prima, della sua generazione, a cercare in un tempo che non ha conosciuto un presente dotato di senso, che abbia la voce e i gesti – la purezza, la durezza – adatti a descrivere le ragioni e le passioni che muovono i destini comuni. La Resistenza, la guerra: gli anni in cui tutto rovinava e insieme cominciava daccapo, si combatteva e si moriva coi torti e le ragioni confusi e nitidi insieme. È proprio come se i nipoti, oggi, cercassero il bandolo di un filo da riannodare nella memoria e nel racconto dei loro nonni, come se ci fosse una segreta risonanza – segreta, ormai chiara – fra la generazione dei più vecchi e quella dei più giovani. Dei nonni e non dei padri, ché gli anni di mezzo sono stati un guasto, hanno sciupato e stinto la tela, corrotto il telaio. Non è la prima, Paola Soriga, a provarci ma è la prima a riuscirci con una precisione definitiva, che commuove per la semplicità e consola per la sapienza, muove al pensiero e chissà forse all´azione, lascia – chiusa l´ultima pagina – l´eco di un desiderio di fare, di provarci di nuovo, proprio noi proprio ora, e allora andiamo, forza, che cosa stiamo aspettando, ricominciamo.

È un romanzo pieno di donne, anche. Dedicato "alle donne della mia famiglia", aperto dai versi di Szymborska («chi sapeva di che si trattava deve far posto a quelli che ne sanno poco, e meno di poco, e infine assolutamente nulla») e di Antonella Anedda, «l'amore è un´occupazione solitaria». Si nutre di una conoscenza profonda del tempo di cui parla, di letture e di racconti inseguiti e raccolti, le donne del libro si chiamano Renata e Agnese, sebbene questa non vada a morire, compare al bar Giolitti il sorriso di Giaime Pintor, si sentono senza che pesino mesi e forse anni a rincorrere una storia smarrita e l´amore per quella storia, sempre. Si sente senza che pesi anche un lavoro lungo, di cesello e di ascolto del suono della lingua alla ricerca di una semplicità di stile che riporta alla memoria Il sentiero dei nidi di ragno, Calvino, anche Pin è un bambino come Ida, anche quei dialoghi quelle descrizioni sono puri in un lento e complicato modo, il lavoro che serve per ritrovare la purezza. La voce che narra, qui, è potente e sottile. Il racconto passa come acqua dalla terza persona alla prima, è Ida che vede se stessa poi è Ida che parla, un flusso di pensiero che porta il lettore nella storia a camminarci dentro, lascia defluire i personaggi e le vicende secondo il ritmo e il senso del ricordo. Un ricordo prima infantile, poi di adolescente, infine di donna. Un ricordo che cresce e che cambia.

Ida quando è partita dalla Sardegna, era il 1938, aveva «i capelli neri e diritti e la pelle di un´oliva, i suoi giorni erano stati tutti dentro il paese». La nonna, le sorelle, la stalla, le galline. I genitori la mandano in continente con Agnese, la sorella maggiore che si è sposata e vive a Roma, che tanto a Roma non c´è pericolo, a Roma non ci buttano mica le bombe, a Roma c´è il Colosseo. E dove mangiano in due mangiano in tre, che problema c´è.

Il problema certo che c´è, per una bambina di 11 anni che parte con la nave e da quel momento esatto è sola, che va a vivere in un quartiere di Roma dove tutte le strade si chiamano coi nomi delle piante e dei fiori proprio mentre la guerra arriva esattamente lì, in quelle piazze, in quelle strade, in quella casa dove la sorella triste vive col marito Francesco che «ogni giorno un po´ cambiava davanti a questa sposa che non gli faceva i figli, che non era madre come diceva la natura e dio e il nostro Duce, Agnese, il nostro Duce». Ida la bambina sarda con la pelle di oliva impara a camminare fra via dei Pioppi e piazza dei Mirti, conosce Don Pietro e Rita al catechismo, poi Antonio coi ricci belli, poi Micol nella sua casa elegante e le macerie, la marrana, lo spavento dei bombardamenti e poi l´amore, occupazione solitaria. Impara a disubbidire, insegue le ragioni che le sembrano ragioni, usa Maria come nome di battaglia, ora è una partigiana, scappa Maria scappa che ti cercano, vai nella grotta, nasconditi. Fuori i 335 morti nelle fosse, che quel giorno «avevano fatto esplodere una bomba per tappare l´entrata e ci avevano buttato sopra l´immondizia per coprire l´odore», «si vedevano i corvi, si sentivano i corvi, le grida dei corvi, e la terra era umida e soffice e c´erano le tuberose, tuberose che coprivano la terra e il loro profumo fortissimo, e Ida non ce l´aveva fatta ad andare avanti le era venuto da vomitare». Annina che da quando aveva visto morire la mamma della sua compagna di banco non parlava più. Don Pietro che le aveva detto tu sei come un´ostrica, Ida: hai una perla dentro. Betto che forse è una spia. Micol che si vedono sempre il martedì, nella casa grande e bella del ghetto dove la domestica Benedetta è una ragazzina sarda come Ida, la sua lingua che ricompare all´improvviso con un vassoio da tè fra le mani e Micol che studia e legge e dice «sono sempre gli uomini a viaggiare scrivere pensare ma Grazia Deledda, e Jane Austen e Sibilla Aleramo, Eleonora Duse?», se sono eccezioni «io voglio essere un´eccezione» e poi arriva una macchina con due uomini vestiti di nero a portarla via, Micol. E Antonio, più di tutti Antonio, il bacio di Antonio nella grotta, i sorrisi di Antonio alle riunioni clandestine e Antonio che «lo amavi perché non ce n´era un altro uguale, che ci volevi passare tutto il tempo e che sembrava che anche lui ti amava» e se ora Antonio si sposa e non sei tu, mi sposo, mi sposi?, no io mi sposo, allora a cosa serve che siano arrivati gli americani proprio stamattina con quei capelli biondi quegli occhi celesti, sono arrivati tardi, perché ci hanno messo tanto, se arrivavano ieri non era morto Faustino e ora che sono arrivati e Antonio si sposa puoi piangere tutto il pianto che non hai pianto mai. Quello per le case crollate, le amiche scomparse, la nonna che non hai visto morire, la mamma che ti ha mandata via, tutti i dolori, tutti i lutti, Francesco sotto le bombe di san Lorenzo e ieri Faustino, anche Faustino. Ora che il sole picchia forte sulla testa, solo ora che è finita sei padrona di perderti: oggi puoi, e solo per oggi. E ora che la storia è finita, solo ora Paola Soriga può uscire da Ida e dire le sue ultime venti parole, in coda. «Grazie a tutti quelli che hanno voluto raccontare la Resistenza, i cui lavori sono alla base di questo romanzo. Soprattutto grazie a chi l´ha fatta, e a chi la fa ogni giorno ancora». Ogni giorno ancora, come allora, appunto.

La geografia politica nel vecchio continente stabilisce un doppio legame tra colonialismo e oppressione. Un percorso di lettura a partire dal libro di Chiara Giorgi «L'Africa come carriera» L'analisi sull'amministrazione italiana in Etiopia e in Libia evidenzia come il regime fascista abbia fatto leva su un «razzismo» presente nelle élite dominanti

Da qualche tempo osserviamo un fenomeno curioso. Da un lato, il linguaggio della legalità viene utilizzato, sempre più frequentemente in Italia, come segnalatore di un anelito di mutamento politico profondo, di critica alla «partitocrazia» e alla «casta», di promozione del rispetto delle regole costituite come precondizione per l'emancipazione sociale. Questo processo simbolico, iniziato con Tangentopoli e molto fiorente nella stagione del berlusconismo, porta a trascurare paradossalmente le conquiste giuridiche del garantismo e si trasforma sovente in una legalità forcaiola e poliziesca. Tale legalismo diffuso ed ambiguo allinea inoltre l'Italia al coro di consenso per la rule of law, attraverso cui le istituzioni globali condizionano i processi politici di gran parte del mondo, dall'Africa all'Asia, all'America Latina, in piena continuità con l'epoca coloniale. Banca Mondiale, e Fondo Monetario tacciano i sistemi giuridici politici dei paesi periferici (oggi è il turno della Grecia) di corruzione e carenza di legalità, assumendosi l'«onere» (bianco) della loro civilizzazione.

Per contro, la critica all'ambiguità del legalismo e all'«industria della legalità», comincia a farsi strada nella letteratura giuridica critica, nella polemistica più acuta (e qui il volume di Alessandro Dal Lago su Roberto Saviano è citazione d'obbligo) e nella prassi politica più viva, che va organizzandosi intorno alla difesa dei beni comuni. Dalla battaglia contro la Tav in Val di Susa alle crescenti esperienze di occupazione (in particolare, ma non solo il Teatro Valle), sgorgano ricche ed innovative «prassi costituenti» articolate proprio in polemica con una legalità costituita che mostra vieppiù il proprio volto stolto, brutale (le immagini di Piazza Sintagma mentre il Parlamento trasforma il legalità costituita il neocolonialismo globale sono più efficaci di ogni disquisizione teorica) e pure incostituzionale.

Violenza del colonialismo

In Italia la contrapposizione fra legalismo e vocazione «ri-costituente» insinua un cuneo anche a sinistra, visto che i legalitari duri e puri non si trovano certo nel solo Pd. Inoltre, le roboanti velleità di partecipazione al «consesso delle nazioni civili» non sono certo tramontate con il passaggio del Viminale dall'inquietante La Russa ad un militare. Anzi, la «ripresa» di quotazione dell'Italia post-berlusconiana in un'Europa che vuole «competere» per l'egemonia globale è indice della grande ambiguità della nostra condizione. Come la Grecia siamo potenziali vittime del colonialismo interno ma allo stesso tempo il pensiero dominante vorrebbe vederci alla pari di Francia e Germania nel portare avanti il progetto neocoloniale (non passa giorno in cui non si celebri la lungimiranza di Scaroni in Libia).

È poco più che una banalità osservare che nei frangenti e nelle transizioni più ambigue la storia debba essere maestra. Fa piacere quindi che sull'esperienza coloniale italiana si cominci finalmente a riflettere anche oltre la stretta cerchia degli africanisti, confrontandoci criticamente con il mito degli «italiani brava gente» per sfatare il quale tanto si sono spesi maestri come Angelo del Boca e Gianpaolo Calchi Novati. Ad esempio, Il recente documentario Inconscio Italiano offre una carrellata di punti di vista di grande interesse (oltre allo stesso Del Boca, di particolare acutezza Ida Dominijanni e Alberto Burgio) ed apre una serie di interrogativi sul nostro passato e soprattutto sul nostro presente per rispondere ai quali il contributo della storiografia accademica più avvertita non può che essere preziosissimo. Poiché il colonialismo, al pari del legalismo, si manifesta come un aggregato di dispositivi di forza, di giuridicità e di ideologia, e poiché l'insicurezza nei confronti di colonialismi più avanzati è una cifra della nostra esperienza (oggi come allora Francia Germania, ed Inghilterra sono protagoniste dei nostri sogni/incubi), si sentiva il bisogno di una ricostruzione istituzionale della vicenda italiana in Africa capace di far tesoro degli apporti multidisciplinari della critica postcoloniale. Chiara Giorgi, L'Africa come carriera. Funzioni e funzionari del colonialismo italiano (Carocci, pp 212, euro 22) soddisfa quest'esigenza riuscendo per giunta ad esser scevra del linguaggio iniziatico che spesso ne rende ostici i contributi accademici più ricchi.

Le armi del potere

Dal punto di vista che qui affrontiamo, la critica alla legalità costituita si arricchisce così del nuovo importante libro della giovane storica dell'Università di Genova che, pur dotato di tutto il rigore della monografia scientifica, offre materiali nuovi accessibili anche a chi, senza essere storico di professione, sia interessato a costruire il pedigree dell'ideologia della legalità, interrogandola in era coloniale con un occhio al neocolonialismo che sconvolge le nostre vite e quelle di popoli a noi assai vicini. Si tratta di una lettura di grande interesse che fa fare un passo avanti alle nostre conoscenze del rapporto molto intimo fra legalità e colonialismo, in sintesi sull'uso violento di apparati di potere organizzato nei confronti di popolazioni e soggettività più deboli. Sia chiaro, la letteratura italiana sul colonialismo giuridico, ben nota a Giorgi, è tutt'altro che povera e si è arricchita immensamente per l'imponente ricerca curata qualche anno fa da Pietro Costa per i Quaderni Fiorentini per la Storia del pensiero giuridico moderno.

Fin qui la ricostruzione giuridica era dedicata agli apparati formali (se non direttamente al diritto positivo), pur descritti con tutta la consapevolezza possibile del ruolo di quei produttori di legittimità che sono i giuristi professionisti (di regola accademici). Nel libro di Giorgi, e qui sta a mio avviso il suo principale apporto di originalità, quella trama formale prende vita, perché in fondo le istituzioni sono fatte di persone reali, in carne ed ossa, con le quali intrattengono una corrispondenza biunivoca, agendo in modo comunicativo. Le storie personali dei funzionari, le loro ambizioni, le loro meschinità, i loro a volte grandi ed ingenui sogni e financo i loro amori (splendido il capitolo dedicato a Dante Odorizzi) formano le istituzioni coloniali e allo stesso tempo ne sono formate, sicché il diritto, come organizzazione del potere formale, emerge in tutta la sua natura ambigua di arma di potere (la legge del più forte) ma anche talvolta di strumento di difesa del debole.

I materiali di prima mano che Giorgi ha dissotterrato e reso accessibili tramite un certosino lavoro d'archivio sono, non a caso, in gran parte materiali giuridici come per esempio i verbali dei vari procedimenti disciplinari in cui incappavano i funzionari espatriati o le normative (regolarmente disattese come le grida manzoniane) attraverso cui si cercava di limitare l'interazione sessuale (e dunque meticciato e creolizzazione) fra i funzionari e le donne autoctone. Molti altri vizi nostrani, (spesso indagati tramite gli scambi epistolari), che dalla madrepatria contagiano la colonia, si incontrano nelle pagine dell' Africa come carriera. Il carrierismo e l'autoassoluzione, la clientela e la protezione dell' uomo forte, l'incapacità di fare i conti con il passato e la conseguente mancanza di soluzione di continuità (dal colonialismo iberale a quello fascista, fino a quello neoliberale). Colpisce il rapporto nord-sud all'interno della penisola, che colloca il colonialismo razzista delle élites dominanti nel Dna italiano fin dalla sua unificazione sabauda, che per fortuna abbiamo finito di celebrare, ma i cui atteggiamenti arroganti sperimentiamo nuovamente col governo tecnico.

Il libro di Giorgi si apre con un accurato quadro storico identitario ed ed istituzionale (Amministrazione e civilizzazione), arricchito dalla comparazione con le esperienze coloniali di riferimento (Agenti dell'impero), e fa tesoro sempre delle sue letture di critica post-coloniale nel tracciare l'inconscio e l'ideologia della vocazione coloniale; spazia fra la madre patria e le colonie (Oltremare: continuità e discontinuità) indagando le storie professionali dei protagonisti (Dalla norma alla prassi) sia i più celebri (da Conti Rossini a Pollera a Cerulli) che i più oscuri, (spesso di provenienza militare, quasi sempre di formazione giuridica) consapevole che il colonialismo può indagarsi solo in riferimento alla madrepatria ma anche assolutamente conscia del fatto che l'istituzionalizzazione coloniale tracca campi semi autonomi in cui emergono stili e saperi spesso originali.

Un passato di dolore

Il volume, che ci consegna pagine molto belle sulla fascistizzazione dell'amministrazione coloniale e sulle resistenze e i conflitti da essa aperti, si chiude con una riflessione sull'abbandono dell'impero (La perdita delle colonie e il destino degli amministratori), sul clima di grande mimetismo del dopoguerra e del «si salvi chi può» che caratterizza la furbizia individualistica di casa nostra.

Negli anni mi sono interrogato (certo non da solo!) su come fosse possibile trovare tante persone ben motivate all'opera in apparati istituzionali dll'impatto straordinariamente violento e nocivo. Chi lavora alla Banca Mondiale, al Fondo Monetario, o alla Bce può essere ritenuto moralmente responsabile delle morti e delle sofferenze prodotte dalle politiche neocoloniali di questi apparati sulle popolazioni oggetto delle loro scellerate politiche neoliberali? È possibile per la persona mantenere l'umanità quando inserita in apparati istituzionali di oppressione, siano essi le strutture gerarchiche di una multinazionale, o quelle di un'amministrazione d'oltremare? Esistono collaborazionismi giustificabli dal punto di vista morale o sociale? Quali investimenti culturali ed ideologici sono necessari per persuadere l'italiano (oggi l'europeo) medio che prospettive di lavoro nell'industria bellica (un tempo in colonia) legittimano la partecipazione al progetto F35 o Eurofighter? È davvero possibile cambiare le istituzioni «dall'interno» o l'uomo è istituzione e in quanto tale le sue motivazioni e i suoi talenti individuali sono irrilevanti?

La riflessione spassionata sul nostro Dna coloniale aiuta ad affrontare questi temi e conferma l'indispensabilità dell'approccio storiografico nel tentativo di raggiungere finalmente una consapevolezza comune sul nostro passato e sul nostro destino.

A guardare bene c’è addirittura uno stereotipo consolidato, che attraversa l’immaginario e la fiction da parecchi decenni: il ragazzino di campagna in fondo buono, anche se magari monello; quello di città malevolo e vizioso, o quando va proprio bene almeno viziato e malaticcio. Ognuno se li immagini come vuole, questi antenati o protagonisti della devianza urbana simil-punk, ma di solito è difficile sfuggire all’automatismo. Cosa del resto abbastanza ovvia se consideriamo la contrapposizione città campagna nei classici termini del pensiero tradizionale, dimenticandoci ahimè in un colpo solo tante letture dei testi utopici, o il fulminante marchio delle Tre Calamite di Ebenezer Howard.

Ai limiti dell’involontaria comicità il sussiegoso bestseller Triumph of the City dell’economista Edward Glaeser, quando alla fine di un lungo peana sull’eccellenza del modello ad alta densità dei grattacieli (Manhattan ‘900 o Shanghai, per intenderci), diceva che certo, quando si tratta di tirar su famiglia e figli in età scolare, un po’ di suburban flight non può fare che bene … Il brillante professorino di Harvard, però, forse col suo stipendio e le lucrose consulenze può permettersi anche qualche contraddizione in più, rispetto alla media dei contadini inurbati di qualche megalopoli terzomondiale, o semplicemente dei ceti operai e impiegatizi che abitano le città occidentali. Loro, anche coi figli piccoli, al massimo possono cercare di allevarli nel massimo della salute e del benessere possibili nella cosiddetta giungla d’asfalto. O meglio, cercare di trasformarla: un po’ meno asfalto, e un po’ meno giungla.

La questione urbana come questione infantile-adolescenziale? Come no! Niente di strano, e ben oltre il pur benemerito dibattito che ogni tanto si leva dagli specialisti di varie discipline su una ipotetica “città dei bambini”. Le famose statistiche sullo storico scavalcamento del 50% di popolazione urbana globale, anche solo disaggregate per fasce di età ci raccontano (pare ovvio, ma non ci si pensa mai) una gigantesca quota di giovani e giovanissimi, dunque la città dei bambini possiamo considerarla in fondo la città e basta. Arriva quindi molto a proposito l’ultimo rapporto UNICEF Children in an Urban World che verrà presentato ufficialmente (ivi compresa la versione italiana Figli delle Città) a fine febbraio. A sottolineare che gli aggregati urbani non sono soprattutto poli di sviluppo economico, ma rappresentano il nostro mondo in tutti gli aspetti (anche quando non si suda a produrre ricchezza insomma), e che le decisioni di piano e programma devono essere più che mai orientate alla produzione di spazi e servizi pubblici che almeno provino a mettere sul medesimo piano i figli di famiglie ricche e quelli di famiglie un po’ meno ricche.

L’infanzia nello slum, ad esempio, è proprio il percorso caratteristico che attraverso tutta la narrativa ottocentesca ha cristallizzato il personaggio del giovane deviante. Per forza, viene da dire: se l’adulto immigrato da altri luoghi nel quartiere degradato e informale ha in qualche modo sviluppato degli anticorpi rispetto alle influenze nefaste dell’ambiente, il bambino ne è totalmente privo. Si aggiunga all’equazione ciò che nell’ambiente urbano rappresenta di solito un vero e proprio asset vincente: la straordinaria opportunità di relazioni quotidiane. E la frittata è fatta. Violenza, malattie, sopraffazione, ignoranza, competitività accentuata, assenza di regole diverse da quelle del più forte o del più elastico. Sono questi i riferimenti che rischia di avere in esclusiva chi cresce sostanzialmente recluso entro l’orizzonte dello slum.

E senza farla troppo lunga su questioni specifiche abbastanza note e/o intuibili, dalle strutture sanitarie a quelle scolastiche, al verde, alla casa ecc., appare chiaro come quello delle fasce di età più giovani sia un punto di riferimento essenziale e centrale (ad esempio, il ruolo chiave dell’informazione e innovazione) per qualunque politica urbana. Come aveva intuito un secolo fa Charles Wacker, segretario della Commissione per il Piano di Chicago (quello di Daniel Burnham che “rimescolava il sangue nelle vene”) sono i ragazzi il futuro della città. A quell’epoca si pensava solo ai figli della borghesia, della middle class, e soltanto in seconda battuta ai ceti operai e al sottoproletariato. Nel terzo millennio, di fronte alle varie crisi globali che ormai si legano l’una all’altra, intrecciando economia, ambiente, sviluppo, urbanizzazione, non solo il nuovo patto generazionale deve estendersi anche agli ex reietti, diventati maggioranza di diritto, ma farne il fuoco dell’azione, partenza e arrivo di qualunque strategia. Mica per spirito caritatevole: pura (ma intelligente) sopravvivenza.

Aspettando la pubblicazione in tutto il mondo e anche in italiano di Figli delle Città (la presenta ufficialmente fra qualche giorno a Roma il presidente del Senato Schifani), per ora scaricabile direttamente da qui la sintesi in inglese di una decina di pagine.

Quando un giorno la Terra sarà troppo piccola per tutti, allora sì che ce ne accorgeremo. Ci spareremo addosso per la sopravvivenza dopo averlo fatto per il petrolio, per l´acqua e per l´uranio. Lo faremo per il suolo e il sottosuolo, per il cibo e i serbatoi delle macchine. Andrea Segrè, economista triestino e preside della facoltà di Agraria all´Università di Bologna, immagina come sarà l´apocalisse del mondo occidentale, schiavo della triade crescita-consumo-debito. Lo fa nel suo Basta il giusto (quanto e quando) (Altreconomia), un libretto sottile costruito come una lettera a uno studente universitario diciottenne. Quando un giorno la Terra sarà troppo piccola per tutti, sarà pure troppo tardi. Perciò bisogna agire adesso, e una strada per Segrè esiste già. Sarà l´ossimoro a salvare il mondo, a garantire ancora un futuro. La strada delle contraddizioni apparenti condurrà "lentamente, ma per davvero" a meno benessere e più ben vivere. A una società con un modello economico in grado di ridurre le diseguaglianze riducendo il possesso, votandosi alla cultura della sufficienza.

Segrè cita "la società diversamente ricca di Riccardo Lombardi, la povertà felice di Albert Camus, l´opulenza frugale di Serge Latouche". Le chiama visioni, non utopie, giacché se utopie fossero sarebbero "utopie concrete". L´elogio del limite e della vita responsabile passa dunque attraverso un mondo nuovo che rinneghi "la pervasiva cultura del consumo e del rifiuto che generano lo spreco di cui siamo circondati e sommersi". Se entro il 2030 il 48% dei maschi inglesi e il 43% delle donne sarà obeso; se il 40% della popolazione mondiale dispone di meno di 50 litri d´acqua al giorno mentre ogni italiano di 250; se un cittadino dell´India consuma 4 tonnellate annue fra minerali, carburanti fossili e biomasse contro le 40 dei Paesi industrializzati; allora servirà un pianeta di riserva che non c´è. L´utopia concreta e la strada dell´ossimoro possono invece cambiare i comportamenti di consumo. Segrè alla fine trova una formula per l´Homo Sufficiens: meno spreco, più ecologia. Il microcredito, la filiera corta, il commercio equo. "Non è un sacrificio, non è fare senza. Sapere che abbastanza è abbastanza significa aver sempre a sufficienza".

Tanti sono i cliché che circondano la fase vitale in cui, ha notato Pierre Bourdieu, «lo spazio dei possibili si restringe». Un libro di Enrico Pugliese, «La terza età», smonta diversi stereotipi, dai catastrofismi demografici alla fragilità dell'anziano. Ma saggi e romanzi rivelano che nella nostra società il tema è un tabù

Se sulla riva nord del Mediterraneo non c'è una «primavera europea», mentre su quella meridionale ci sono state le «primavere arabe», una delle ragioni più spesso addotte è che in Egitto gli under-25 anni sono il 52% della popolazione, in Siria il 55% (e così via), mentre in Italia sono attorno al 24%: lì i giovani sono più della metà, da noi meno di un quarto: i giovani protestano, gli anziani chinano il capo. Perché l'Italia è, con il Giappone, il paese sviluppato con più anziani al mondo. Per parafrasare all'incontrario il titolo di un celebre romanzo di Cormac McCarthy (e di un omonimo film dei fratelli Cohen), questa è terra per vecchi.

Catastrofismi demografici

Ma perché si dà per scontato che i giovani si rivoltano e i vecchi subiscono? Una prima spiegazione ce la offriva nel suo seminario Pierre Bourdieu quando parlava della «biopolitica volgare» e spiegava che i giovanissimi sono ancora fuori dal mercato del lavoro - e quindi dal sistema -, e perciò vogliono cambiare completamente il sistema (sono «rivoluzionari»); poi entrano in posizione subalterna nel mercato del lavoro e perciò vogliono cambiarlo dall'interno per migliorare la propria posizione (sono «riformisti»), quindi man mano che s'inoltrano nell'età adulta e fanno carriera giungono all'apice della propria traiettoria lavorativa, e perciò vogliono mantenere lo status quo attuale, lo vogliono «conservare»; mentre, quando sono usciti dal mercato del lavoro - sono fuori sistema -, vorrebbero tornare indietro e quindi sono letteralmente «reazionari» (naturalmente tutto ciò nell'accezione statistica, che contempla fluttuazioni, eccezioni, contraddizioni).

Ed è appena uscito un libro che studia gli anziani di questa nostra terra per vecchi soprattutto dal punto di vista del mercato del lavoro, scritto dal nostro storico collaboratore Enrico Pugliese: La terza età. Anziani e società in Italia (Il Mulino, pp. 212, euro 13). Un libro che smonta una serie di luoghi comuni, sfata molte leggende e mette un grano di sale nelle insulse ricette politiche dei nostri legislatori.

Il primo luogo comune che Pugliese sfata è il catastrofismo della «bomba demografica», sia perché le previsioni si sono rivelate spesso false, e non solo in demografia: basti andare a riguardarsi le previsioni del rapporto del club di Roma del 1972: quell'augusto consesso non ne aveva azzeccata praticamente nessuna. Sia perché le curve demografiche non sono una fatalità naturale, ma sono il risultato di situazioni culturali e sociali mutevoli. L'emigrazione di molti giovani contribuisce a invecchiare la popolazione che si lascia indietro, come al contrario l'immigrazione contribuisce a ringiovanirla. Quindi si può svecchiare un paese favorendo l'immigrazione o con politiche che incentivano la nascita di bambini (assegni familiari, strutture di sostegno come asili nido, permessi estesi di maternità e paternità) come è avvenuto in Francia, dove negli ultimi 25 anni sono stati messi al mondo 5 milioni di bambini più che in Italia. E poi nella piramide demografica vi sono veri e propri buchi che derivano dai figli non nati a causa di guerre o di crisi economiche.

Un secondo cliché sfatato da Pugliese è l'immagine debilitata dell'anziano. L'estensione del sistema pensionistico a tutta la popolazione attiva nel secondo dopoguerra ha di fatto cancellato il miserabilismo che circondava l'immagine del vecchio: nel Meridione i pensionati costituiscono addirittura una risorsa indispensabile per molte famiglie. Pugliese ci ricorda che non solo viviamo statisticamente più a lungo, ma che viviamo meglio e in migliore salute, tanto che ormai si deve distinguere tra una terza età (grosso modo fino ai 75 anni) e una quarta età, tra anziani e grandi vecchi.

Perché la vecchiaia è al tempo stesso in parte stato fisico e in parte costruzione sociale. Pierre Bourdieu insisteva molto sul fatto che l'invecchiamento sociale è il restringersi dello spazio dei possibili. Un giovane di ceto medio può finire a fare il barista a Salvador de Bahia o il ricercatore a Stanford, ma poco a poco le sue possibilità si restringono finché non può essere altro che quello che è stato. Da questo punto di vista, un operaio ventenne dell'800 era già vecchio, perché nella vita non avrebbe mai potuto essere altro, mentre un borghese poteva restare «socialmente giovane» anche fino a 40 anni (oggi si parla di «giovani scrittori» anche per i quasi cinquantenni). Così, la pensione (che è la sanzione legale e formale dell'invecchiamento) riguarda solo le frazioni dominate (anche quelle delle classi dominanti), mentre i dominanti non vanno mai in pensione: grandi medici, politici, grandi banchieri, artisti, finanzieri restano in sella anche da vegliardi.

Segregazione per età

E Pugliese fa notare quanto sia fuorviante il dibattito convenzionale sull'allungamento dell'età pensionabile: tutti discutono, dice Pugliese, come se toccasse al lavoratore scegliere il momento in cui «andare a riposo», ma in realtà quel che sta succedendo è che le persone vengono espulse dal mercato del lavoro sempre più presto, mentre l'età pensionabile si allunga. Già oggi in Italia i 55-65 anni per buona parte non lavorano o perché licenziati o perché non riescono a trovare un nuovo lavoro, e spesso non compaiono nelle statistiche perché vengono cancellati dalla forza lavoro attiva in quanto, scoraggiati, non ricercano più un'occupazione. Così oggi vi sono sempre più persone anziane gettate sul lastrico perché non percepiscono più un reddito da lavoro e non sono ancora eleggibili per una pensione (è quel che rischia di capitare a molti di noi del manifesto). E in periodo di recessione questo tipo di destino sociale diventa sempre più diffuso.

Tre altri punti sono notevoli nel volume di Pugliese. Il primo riguarda le mutazioni della vecchiaia in un mondo globalizzato. Neanche il futurologo più delirante avrebbe mai potuto prevedere nel 1980 che trent'anni dopo una percentuale consistente di anziani italiani sarebbe stata sposata a donne ucraine. Visti i suoi trascorsi di studioso dell'immigrazione, non stupisce l'attenzione (e la simpatia umana) che Pugliese presta a quel fenomeno tipicamente italiano della «badante» e alla frangia crescente di vecchi immigrati sradicati, che siano italiani in America Latina o stranieri in Italia, che non possono più tornare nel paese d'origine ma si trovano emarginati in quello d'accoglienza.

Il secondo punto è che sempre più nelle nostre società vige la segregazione sociale per età, dovuta in primo luogo al fatto che sempre meno nonni vivono accanto ai nipoti e sempre più le famiglie sono mono- o al massimo bi-generazionali: single o coppie, o al massimo coppie con figli, anche se forse su questo punto Pugliese sottovaluta il peso che ha in Italia il problema abitativo: è impossibile, insostenibile trovare abitazioni che possano alloggiare con agio una famiglia multigenerazionale. Ma la segregazione per età riguarda anche i luoghi di ritrovo, le attività di svago, ed è dovuta alla mancanza d'immaginazione da cui noi umani siamo afflitti. Tutti coloro che vecchi non sono suppongono infatti che l'anzianità esteriore, delle rughe, corrisponda a una vecchiaia interiore, a rughe mentali. Ma così non è: non potete immaginare la sorpresa che mi ha colto le prime volte che dei giovani mi hanno offerto il posto sull'autobus. Sorpresa perché io non mi vedevo affatto come mi vedevano loro: sei marcato di vecchiaia innanzitutto dall'esterno. Come diceva un relatore accanto a me a un dibattito all'università di Padova sull'argomento: «La vecchiaia è una gran fregatura». Malgrado le (precarie) migliorie apportate dai sistemi di welfare che Pugliese descrive.

L'ultimo punto riguarda l'ideologia. C'è una enigmatica contraddizione tra realtà sociale e ideologia diffusa attorno a questa realtà. Per esempio, in Italia un familismo persino ossessivo e opprimente va di pari passo con politiche che penalizzano le famiglie e le oberano di funzioni non assolte dallo stato, nella cura sia degli infanti che degli anziani. Altro caso: la nostra società sfavorisce in modo pesante i giovani (più alto tasso di disoccupazione, difficoltà d'ingresso nel mercato del lavoro), discriminazione che si riflette nell'uso dell'aggettivo «giovanile» quasi solo in contesti negativi: «subculture giovanili», «criminalità giovanile» (si è mai sentito parlare di «criminalità senile»?). Ma nello stesso tempo la società è pervasa dal giovanilismo, dall'ideologia che ci vuole tutti giovani e che spinge a inseguire la gioventù fino in tarda età. Il reciproco avviene per gli anziani. Da un lato costituiscono il gruppo sociale più potente, più influente, visto che continuano a detenere il capitale (la proprietà) fino alla fine, come si vede negli Stati Uniti: poiché sono la classe di età a più alta partecipazione elettorale, sono coccolati da democratici e repubblicani tanto è vero che sono l'unico gruppo sociale a godere di un servizio sanitario nazionale pubblico.

Vegliardi letterari

Dall'altro lato però «vecchio è brutto», prevale quel che i francesi chiamano l'agisme, «una forma molto diffusa di pregiudizi relativi alla vecchiaia e alle persone anziane, fonte di discrimnazioni sociali basate su false credenze e stereotipi». Tanto che a conclusione del suo volume Pugliese cita un ironico passo di Peter Laslett: «Un ottantenne che si trovi a partecipare a un convegno di geriatria o gerontologia sentirà sottolineare con tanta insistenza le sue presunte incapacità che finirà col meravigliarsi del fatto stesso di poter essere presente».

In realtà, una delle caratteristiche più forti dell'agisme è la rimozione della vecchiaia, una rimozione che varia nelle culture e a seconda dei generi, e che va dalla cancellazione al confinamento e alla relegazione, come si vede bene dalla letteratura. Certo, nella narrativa occidentale degli ultimi due secoli non mancano memorabili vecchi: papà Goriot (1834), il vecchio David Séchard (1843) e il padre di Eugenie Grandet («vieux tonnelier, vieux vigneron», 1833) di Balzac, Jean Valjean (nei Miserabili, 1862) di Victor Hugo, o il maresciallo Kutuzov in Guerra e pace(1869) di Tolstoj, anche se Séchard viene considerato vecchio già dai 50 anni e ha 61 al tempo della vicenda, Jean Valjean muore a 64 anni e Kutuzov ha 67 anni al momento della battaglia di Borodino (1812).

Di veri vecchi ricordo Dubslav von Stechlin (vedovo da trent'anni) con il suo anziano cameriere Engelke nell'omonimo romanzo (1897) di Theodor Fontane, il Carlino ottantenne delle Confessioni di un italiano (1858) di Ippolito Nievo, il padron 'Ntoni dei Malavoglia (1881) di Giovanni Verga, o il vecchio pescatore di Ernest Hemingway (Il vecchio e il mare, 1952). Ma mi scrive Franco Moretti: « È come se la cultura europea si fosse specializzata in una cosa che si potrebbe chiamare la tarda mezza età» - Monsieur Homais e Charles Bovary in Flaubert, molto Henry James (il dottor Austin Sleper in Washington Square, l'avvocato sudista Basil Random nei Bostonians), e così via.

I vecchi sembrano essere più protagonisti nei romanzi sudamericani: basti pensare a Cento anni di solitudine (1967), o all'Autunno del patriarca (1975) o all'Amore ai tempi del colera(1985) di Gabriel Garcia Marquez. Mentre la letteratura giapponese contemporanea è costellata di memorabili vecchi, dalla sessantanovenne Orin del villaggio di Narayama che vuole a tutti i costi affrettare la cerimonia della propria morte nel romanzo La leggenda di Narayama di Schichiro Fukazawa (1956), al settantaseienne Shigekuni Honda protagonista de Lo specchio degli inganni (1970) di Yukio Mishima, all'indimenticabile autoritario suocero ormai in preda all'Alzheimer in quel capolavoro che è Gli anni del crepuscolo (1972) della grande scrittrice Sawako Ariyoshi (il romanzo è stato tradotto in inglese e in francese, ma non purtroppo in italiano): il curioso è che sia Mishima sia Ariyoshi sono morti suicidi.

Nella considerazione della vecchiaia vi è poi una frattura di genere, tra uomini e donne. Come si è visto da questa rapida carrellata, le anziane sono minoritarie rispetto agli anziani: la cugina Bette di Balzac non è propriamente vecchia, come non lo è la «vecchia» zia Baby Kochamma nel Dio delle piccole cose (1997) di Arundati Roy.

Le autrici italiane sembrano occuparsi con più attenzione dell'invecchiamento, e soprattutto delle donne che invecchiano. È formidabile la vecchia Alfonsina che vive in una casa di cura, come la descrive mia madre Luce d'Eramo nel romanzo Ultima luna (1993). O l'apparire della vecchiaia a una cinquantanovenne che vive sola, in La fontana della giovinezza di Luisa Passerini (1999). D'altronde negli Stati Uniti è stato pubblicato un libro dedicato all'argomento: Women of a Certain Age. Contemporary Italian Fictions of Female Aging (2005) di Rita C. Cavigioli.

La paura del futuro

Eppure la rimozione, caratteristica generale nel caso dell'agisme, diventa più evidente per le donne. Esemplare il caso di un libro uscito nel 1987 negli Stati Uniti: si intitola Ourselves, Growing Older. Women Aging with Knowledge and Power (1987) ed è il seguito ideale di un testo che è stato un livre de chevet del femminismo negli anni '70 e cioè Our Bodies, Ourselves (1971) del Boston Women's Health Book Collective. Il secondo libro, che affronta i problemi dell'invecchiamento con saggezza e senza eufemismi, si propone come «A Book for Women Over Forty». Ma alla fine degli anni '80 questo nuovo libro del collettivo bostonianosi è scontrato con il muto rifiuto da parte delle stesse donne (allora attorno ai quaranta) che avevano tradotto con entusiasmo Noi e il nostro corpo, né è stato tradotto in seguito. Perché l'agisme, accoppiato col giovanilismo esteriore, lo subiscono assai più le donne degli uomini. Non solo, ma in questa rimozione è possibile leggere anche l'incerto rapporto che l'anzianità instaura col futuro, un rapporto sempre più traballante che caratterizza l'invecchiamento, una paura di fare progetti a lungo termine, il senso di avvicinarsi a gran passi all'ultimo recinto invalicabile.

Il restringersi dei possibili di cui parla Bourdieu assume qui la forma inesorabile del restringersi dell'orizzonte temporale (è un'altra delle ragioni del conservatorismo senile: gli anziani hanno uno scarso interesse personale in mutamenti di cui pensano di non poter vedere gli effetti). A meno di non essere come il grande sinologo Joseph Needham (1900-1995) che incontrai nel 1982 nella sua indimenticabile stanza al Caius College di Cambridge, quando ottantaduenne stava lavorando alla sua grande storia Science and Civilization in China iniziata nel 1954: da allora in 28 anni aveva pubblicato i primi 5 volumi e quando gli chiesi quanti volumi contava di scrivere ancora, «Sette» mi rispose, come se lo aspettassero altre sterminate praterie di lavoro e ricerca.

La mancanza di fiducia verso la politica si è volta verso ogni livello e luogo dell' amministrazione pubblica. I maggiori risentimenti sono in genere verso Roma, facile simbolo della malapolitica (“capitale corrotta = nazione infetta” – è il titolo di un'inchiesta dell' «Espresso» negli anni Cinquanta). Sembra perciò strano che la città sede del governo, baricentro dei grandi poteri, abbia avuto buoni amministratori locali, apprezzati non solo dai romani. Grandi sindaci: Ernesto Nathan (1907-913) e Giulio Carlo Argan (1976-1979). E poi Petroselli, che ha governato la città 740 giorni tra il 1979 e il 1981. Il più mitizzato, anche per (o nonostante) la brevità del suo mandato, in verità molto intenso. Morto improvvisamente, tre anni prima di Enrico Berlinguer, il suo programma è rimasto interrotto in modo drammatico. Uomini di sinistra tutti e tre. Comunisti gli ultimi due, funzionario del Pci Petroselli. Buoni esempi per la Sinistra orgogliosa di quelle esperienze.

Nel libro edito da Castelvecchi RX «La Roma di Petroselli» – di Ella Baffoni, giornalista dell' Unità, e Vezio De Lucia, urbanista militante tra i più stimati – , c'è soprattutto il racconto dettagliato sugli atti relativi alle scelte urbanistiche della città più bella e complicata del Mondo. Scelte rese difficili da un intrico di questioni non solo locali, puntualmente esaminate nel libro e da un clima poco buono per l'Italia di quegli anni. Petroselli aveva un idea di città: un grande merito, ieri come oggi. La lungimiranza in politica è cosa rara: contrasta con i tempi brevi imposti dalle elezioni e dalle carriere. Petroselli aveva un progetto attraversato da questioni strutturali che quando si affrontano si sa che non sarà facile. La ricerca di una composizione della dispersione sociale (i borgatari e la società accomodata nel sistema delle relazioni romane) e della frammentazione urbanistica rappresentata appunto dalla costellazione di borgate.

Una unificazione – scrivono gli autori in premessa – che era "l'esatto contrario della omologazione consumistica denunciata da Pier Paolo Pasolini”. A partire da questo nucleo di temi, Petroselli si è impegnato per risanare le periferie più degradate e confermare la residenza popolare in centro con risultati di grande interesse. L 'altro tema è nello sfondo: la città monumentale, croce e delizia. Quel paesaggio urbano monumento per eccellenza che Petroselli immagina dominante, per una Roma moderna che deve tutto alla sua trama archeologica. Avvia il progetto Fori e quello per il parco dal Campidoglio all' Appia Antica ispirati da Antonio Cederna: visioni di grande forza sostenute dalla parte più attenta del Paese. Fare tutto questo nella città dei palazzinari più potenti d' Italia non era (e non è) una cosa facile.

E infatti nel libro si spiegano difficoltà e contraddizioni e anche gli errori di questo breve percorso che assumono un'altra luce distanza di anni. Basti pensare all' abusivismo edilizio che a Roma, e da Roma in giù, è ancora il tema urbanistico primario e interferente su ogni scelta, forse non combattuto a sufficienza dalle forze progressiste. Petroselli opponeva l'edilizia pubblica alla rendita e alla speculazione: un argomento cruciale nella storia della Repubblica (sappiamo come sono andate le cose se ha vinto l'economia di carta e di cemento). Il libro, l'esame della politica urbanistica di Petroselli, è un'occasione per gli autori di riflettere oltre quel tempo, sul dibattito nella sinistra su questi temi e ancora su Roma crocevia di vecchi e nuovi interessi che li si depositano e si avviluppano in modi speciali. Uno sguardo utile, infine, sulla Roma degli ultimi tempi, giusto per capire.

Indossando le lenti di un limpido e implacabile machiavellismo, Luciano Canfora nel suo nuovo libro, «Il mondo di Atene» rilegge il periodo forse più importante e più noto della civiltà occidentale e ne mette in luce i paradossi e le (solo apparenti) contraddizioni

Fra il 508 e il 507 avanti Cristo, dopo la caduta della tirannide, l'ateniese Clistene stabilì i nuovi ordinamenti democratici; poco più di cento anni dopo, nel 399, Socrate venne condannato a morte da una giuria popolare, dopo essere stato accusato da un certo Meleto di non credere agli dèi e di traviare la gioventù con una falsa educazione. A sostenere quell'accusa c'era anche Anito, uno dei restauratori della democrazia ateniese dopo la dura tirannia dei Trenta, sorta e presto abbattuta qualche anno prima.

Fra quelle due date c'è il V secolo a. C., forse il più importante e più studiato della civiltà occidentale: ci sono le guerre persiane, con le vittorie di Maratona e di Salamina, c'è la fondazione dell'impero marittimo di Atene, il trentennio dominato da Pericle e poi la devastante guerra contro Sparta, che durerà dal 431 al 404 fra grandi vittorie e rovinose sconfitte, fino alla caduta e allo smantellamento delle orgogliose mura cittadine.

Guerra e salario

Ma non basta: ricostruite quelle mura con denaro persiano, gli ateniesi fonderanno nel 378 una nuova Lega attica e dunque un nuovo impero, lo perderanno ancora circa trent'anni più tardi e inutilmente si ergeranno a difesa della tradizionale libertà greca contro l'espansionismo macedone di Filippo e di Alessandro Magno, fino alla definitiva sconfitta del 322.

È questo il quadro temporale del nuovo libro di Luciano Canfora, Il mondo di Atene (Laterza, pp. 520, euro 22,00): un mondo che corrisponde da tempo al mito che su di esso è stato costruito, mito di democrazia diretta, assembleare, di partecipazione e passione politica, di grande arte - l'architettura e la statuaria, il teatro tragico e comico - sostenuta dallo Stato e da privati facoltosi, resa disponibile a delle platee corrispondenti in buona misura con la cittadinanza stessa.

La parola «mito» è ambigua: rimanda a un racconto di fondazione, alla sintesi immaginosa di caratteri vastamente umani ritrovata però ogni volta in una declinazione spazio-temporale precisa; ma significa e contiene anche le prevaricazioni che quella facoltà immaginativa usa infliggere alla realtà dei fatti, prestandosi a edificare delle ideologie tutte volte al presente, che proprio la manipolazione mitologica assolutizza come radicate da sempre nell'animo umano. Per questo, già da tempo incline a interrogarsi sulla democrazia e sulle sue prassi, Canfora intitola il suo primo capitolo Atene tra mito e storia, e indossa le lenti del più limpido e implacabile machiavellismo ricordando che solo l'esoso tributo elargito dai sottomessi «alleati» di Atene consentì alla città dell'Attica la relativa stabilità politica del V secolo, rappresentata al meglio proprio da Pericle, bene avvertito che «per ottenere consenso, non coatto, bisognava contemperare due elementi: il salario per tutti e la continua spinta ad ampliare l'impero, che significava guerra».

L'esilio di Euripide

A scanso d'equivoci, poi, fin dalle prime pagine Canfora torna su due celebri definizioni della democrazia ateniese, la prima di Max Weber, secondo cui essa non fu che «una gilda che si spartisce il bottino», la seconda di Tocqueville, che ragionando sul rapporto numerico fra cittadini effettivi (circa 20.000) e schiavi o stranieri (oltre 300.000), affermò che «Atene, col suo suffrage universel, non era, in fondo, che una repubblica aristocratica dove tutti i nobili avevano un diritto uguale al governo».

Per analizzare a fondo cosa realmente fu il mondo di Atene, dunque, anche a fronte della perdurante oligarchia in auge presso l'eterna nemica Sparta, occorre chiedersi cosa fu la democrazia ateniese sia per i cittadini che ne sfruttarono le possibilità, sia per gli oppositori interni e gli «alleati» stranieri che ne subirono i soprusi, sia ancora per la grande riflessione storica di un Tucidide e di un Senofonte, o ancora per il dibattito costituzionale che interessò la città dopo la sconfitta e la tirannia dei Trenta, sia infine per le soluzioni utopistiche immaginate nel IV secolo da Platone (la celebre Repubblica degli anziani filosofi), Falea di Calcedone e lo stesso Senofonte.

Ora, per molti lettori tradizionali, che nei secoli scorsi hanno affermato comunque l'esemplarità metatemporale del regime ateniese, il problema è stato quello di giustificare la violenza di Atene nei confronti delle città sottomesse, l'imposizione stessa del tributo («La democrazia e l'impero erano nati insieme», ribadisce Canfora), le scelte dissennate operate dai leader popolari e ratificate dall'Assemblea, come quella dell'attacco a Siracusa (415-413), o la condanna intollerante dei filosofi Anassagora e Socrate, la lunga ostilità che spinse un genio apolitico come Euripide all'esilio, e non ultima la stessa sconcertante cedevolezza delle istituzioni democratiche nei confronti dei Quattrocento oligarchi che s'imposero brevemente nel 411 e dei Trenta di sette anni dopo.

Parole di rottura

Canfora risponde che non di giustificare si tratta, ma piuttosto di capire che tutti questi passaggi tragici non siano stati delle deviazioni dalla buona norma, o degli infortuni magari determinati da una eccessiva pressione degli eventi. Demokratia, infatti, vuol dire «egemonia del demo», e nasce «come termine polemico e violento, coniato dai nemici del demo», non dunque «come parola della convivenza politica, ma come parola di rottura», che esprime «la prevalenza di una parte più che la partecipazione paritetica di tutti indistintamente alla vita della città (che è espressa piuttosto da isonomia)», giacché «tò íson è, al tempo stesso, "ciò che è uguale" e "ciò che è giusto"». Tanto è vero che Canfora può dare conto di un apparentemente paradossale «egualitarismo antidemocratico», «rivendicazione dei diritti dei "ricchi" in nome dell'uguaglianza» contro le frequenti requisizioni e denunce penali, per mettersi al riparo dalla corruzione e dalla sfrenata demagogia.

Con questo, siamo già vicini al senso complessivo del libro. È certo, infatti, che la forza argomentativa di Canfora si basa non solo su una sconfinata memoria connettiva di brani, fasi politiche e somiglianze individuali, ma anche sulla volontà acuminata di trattare gli argomenti di storia antica (e penso anche al suo recente Cesare, dittatore democratico) con la stessa minuzia d'indagine con cui siamo abituati a leggere gli eventi più prossimi e dunque, nella comune miopia, davvero decisivi. Da questo punto di vista, Canfora allude di continuo al presente senza mai nominarlo con il fatto stesso di decostruire gli eventi del V e IV secolo a. C. con la stessa smitizzante acribia che occorre per distinguere oggi le notizie dagli eventi. Le sue sono perigliose controinchieste indiziarie, capaci di svelare nietscheanamente le curvature ideologiche e le falsità pretestuose, le omissioni interessate e le tradizioni esclusive, attribuendo a ognuno dei protagonisti della sua storia ateniese la responsabilità delle proprie affermazioni, e magari delle proprie menzogne.

L'eroe Alcibiade

Da una parte, così, Canfora ci appare come un manzoniano che parla del 411 a. C. per alludere al 2012, magari mutuando dal «suo» Tucidide la convinzione di una «sostanziale immutabilità della natura umana»; dall'altra, però, la sua critica storico-etimologica del sistema democratico lo spinge ad affidarsi a una parata di grandissime personalità, quelle che il tempo (aristocratico in sé) ha selezionato nel naufragio della cultura antica. Ecco allora, sullo sfondo della demokratia, le gigantesche figure di Efialte, Pericle, Antifonte, Alcibiade, Isocrate, Demostene, oggetti di ritratti individuali magari preterintenzionali, e ogni volta debitamente calati in situazione, ma inaggirabili

Allo stesso modo, la particolareggiata ampiezza e la vigoria narrativa con cui Canfora affronta le convulsioni del 415-403, dalla «mutilazione delle Erme» al definitivo ma perdente ritorno alla democrazia, raccontano marxisticamente di una storia come conflitto, se è vero che quelle convulsioni svelano dialetticamente la natura della democrazia, il rischio che essa comprende, di quale catastrofe essa sia il fondamento e al tempo stesso lo schermo. Così, col suo anticonformismo aristocratico e col suo estremismo democratico, con la sua fluidità enigmatica ora disastrosa ora trionfatrice, sembra essere Alcibiade l'eroe eponimo di questa Atene libera, feroce e drammatica, eternamente «troppo giovane», inconsapevolmente classica e perennemente immatura, cui Canfora sottrae la piatta esemplarità della perfezione per sostituirla con la mossa rappresentanza del «tragico politico».

Il libro si chiude di fatto con un mirabile capitolo su Demostene, l'«arretrato» difensore delle libertà greche contro l'arrembante potenza macedone. Ed è un finale che accusa il facile progressismo di chi sbeffeggia coloro che non capiscono in tempo chi vincerà, o sta per vincere, e non si accodano alla maggioranza. Se la democrazia è nata ad Atene solo con l'impero e la schiavitù, finita l'«età della potenza» il IV secolo si è trascinato fra continue collisioni fra poveri/ricchi, strapotere dei tribunali, leaderismo e professionismo di un inamovibile personale politico, egemonia del tema economico, proposta utopica. Tutto ciò, fino alla caduta sotto un'autocrazia che già il suo principale nemico, appunto Demostene, riconosceva più rapido ed efficiente di quello democratico.

Un tramonto prepotente

Qui la bifocalità machiavellica di Canfora giunge al culmine: sta parlando del nostro destino prossimo? I processi della globalizzazione impongono gestioni politiche autoritarie? L'irresistibile preponderanza del capitalismo centralizzato cinese e la tutela che le oligarchie finanziarie esercitano sui governi eletti sembrano rispondere di sì. Durante il suo lungo tramonto, la democrazia ateniese divenne tanto prepotente quanto astratta.

E se Canfora, in omaggio ai suoi maestri del sospetto, ha ricondotto a una morale e a una politica parziali ogni riassetto generale della Storia, si starà chiedendo quanto fatale e inevitabile è l'orizzonte che ci fa balenare davanti.

Il clima d´opinione generale oggi più di ieri deve fare i conti con le mediazioni locali e micro-sociali, utili a capire fenomeni più ampi - Bisogna esplorare in profondità i luoghi dove le istituzioni, la democrazia, i partiti trovano le basi della loro legittimazione - L´anticipazione / L´ultimo saggio di Ilvo Diamanti è dedicato agli errori dei politologi e all´incapacità di comprendere quel che succede nella società. Ascoltando le suocere.

La dissonanza fra pre-visioni e realtà, la stessa difficoltà a rilevarla e a riconoscerla, non possono non sollevare dubbi sull´adeguatezza degli strumenti teorici e metodologici adottati. Ho il sospetto, cioè, che gli approcci prevalenti negli studi e tra gli specialisti politici stentino a comprendere i cambiamenti, ma anche gli avvenimenti e i fenomeni più importanti dei nostri tempi. Perché concentrano la loro attenzione – spesso in modo esclusivo – sulle istituzioni e sugli attori politici a livello "macro" mentre sottovalutano, in particolare, quel che si muove nella società. Non solo, ma si disinteressano delle percezioni che si formano e prevalgono nelle relazioni interpersonali e locali. Ambiti ritenuti poco rilevanti, dal punto di vista euristico ma, prima ancora, epistemologico. Variabili socio-centriche inadatte, in quanto tali, a spiegare i fenomeni politici.

Tuttavia, è difficile considerare "dipendenti" le variabili che attengono ai fenomeni locali e micro-sociali – perché e in quanto tali. Il "clima d´opinione", in particolare, non può essere considerato "solo" il prodotto della comunicazione progettata e dispiegata dalle istituzioni, dai poteri, dai media a livello centrale. I messaggi che definiscono l´Opinione Pubblica, oggi ancor più di ieri, sono infatti mediati dai "micro-climi d´opinione". Intendo sottolineare, in questo modo, come il "clima d´opinione generale" debba fare i conti con le "mediazioni" locali e micro-sociali. Con mentalità e leader d´opinione che reinterpretano i messaggi generali. Li traducono e li trasmettono attraverso le reti sociali e personali che costellano il territorio, attribuendo loro un significato diverso e, talora, opposto rispetto alle intenzioni di chi li ha lanciati. Secondo un´eterogenesi dei fini che genera effetti non previsti e non desiderati dai protagonisti. (...)

Oggi stesso, d´altronde, nelle aree a forte presenza elettorale leghista, e quindi nelle province del Nord, gli elettori e i simpatizzanti del Carroccio sembrano convinti che la Lega, nonostante sia alleata di Berlusconi e al governo insieme a lui da un decennio (con la breve parentesi del governo Prodi), in effetti stia all´opposizione. La percepiscono come un Sindacato del Nord, impegnato a Roma a difendere gli interessi padani. A "portare a casa" il federalismo. Contro tutti. A ogni costo.

Per cui ogni responsabilità dei problemi economici e sociali che, in questa fase, preoccupano il Paese, ogni mancata riforma, ogni spiacevole conseguenza delle politiche pubbliche, da molti settori della popolazione del Nord (e non solo), viene spiegata rivolgendo gli occhi altrove. Anche quando i motivi di insoddisfazione coinvolgono il governo, gli elettori leghisti non si sentono coinvolti. Preferiscono spostare all´esterno la loro frustrazione. E talora ciò avviene anche tra gli elettori del centrodestra, in generale.

Racconto, a titolo di esempio "pop", un fatto capitato qualche tempo fa, che mi è stato raccontato da una testimone privilegiata, ai miei occhi credibile e attendibile. Mia suocera. Recatasi al supermercato vicino a casa nostra, in fila davanti alle casse si trovò accanto a una "vecchina" (così la definì mia suocera, che, peraltro, ha ottant´anni). Intenta a guardare il carrello, quasi vuoto, l´anziana signora si lamentava. Perché il carrello ogni mese era sempre più vuoto, visto che la pensione le permetteva un potere d´acquisto sempre più ridotto. Ce l´aveva con i politici, responsabili della sua condizione. Ce l´aveva soprattutto con il governo, per definizione primo e diretto "colpevole" dei suoi problemi personali di bilancio. E inveiva apertamente, neppure in modo troppo silenzioso. Tanto che al colmo della rabbia esplose in un´invettiva contro quel «p… di Prodi». Il principale colpevole. Sempre lui. Anche se da anni governava Berlusconi. E Prodi, ormai, non faceva (e non fa) più politica attiva. Ma il "senso comune" le impediva di accettare e riconoscere la realtà. Di mettere in discussione le sue convinzioni, le sue certezze. Più e prima che "politiche": "personali". Incardinate nella sua visione del mondo e della vita. Condivise con la sua cerchia di relazioni quotidiane. (...)

È dunque difficile capire quel che succede nella politica senza tenere conto della vita quotidiana, del senso comune, del territorio. Senza esplorare in profondità i luoghi dove i partiti, le istituzioni, la democrazia trovano le basi della loro legittimazione e del loro consenso. Assecondando la convinzione – superstizione? – che la comunicazione mediatica e in particolare la televisione risolvano tutto. Che i media, gli attori politici, in tempi di campagna permanente, possano manipolare ad arte e a loro piacimento il "consenso" dei cittadini. Al più, possono contribuire a cogliere e a plasmare il "senso comune", come suggerisce la teoria della "spirale del silenzio" di Elisabeth Noelle-Neumann. Secondo cui gli individui cercano approvazione e conferma da parte degli altri, nei loro luoghi di vita. In quanto temono, soprattutto, di essere stigmatizzati se si pongono in contrasto con le opinioni che ritengono prevalenti. Per usare una categoria già richiamata in precedenza (e formulata proprio dalla Noelle-Neumann), esiste un esteso conformismo sociale, condizionato dal "clima d´opinione" dominante, che induce al silenzio coloro che si percepiscano minoranza. Ciò riguarda soprattutto (ma non solo) gli elettori "marginali", definiti così perché stanno ai margini della scena politica e non hanno convinzioni forti. Temono, tuttavia, di sentirsi isolati e "perdenti" e, per questo, cercano di cogliere il pensiero della maggioranza.

Dispongono, a questo fine, di una «competenza quasi- statistica» (come la chiama ancora la Noelle-Neumann) che esercitano nel rapporto con l´ambiente sociale ma, soprattutto, attraverso l´esposizione ai media. I quali diventano doppiamente influenti nel formare il "clima d´opinione". Da una parte, perché gli individui-spettatori attingono da essi informazioni e giudizi che vengono poi dati per scontati, diventano "reali" proprio perché legittimati dai media. Dall´altra parte, perché i media (soprattutto la televisione) condizionano le opinioni dell´ambiente sociale, dei gruppi e delle reti di relazioni in cui gli individui sono inseriti. E a cui gli individui chiedono conferma e rassicurazione. Da ciò il "silenzio" di quanti, per non sentirsi esclusi, preferiscono non sfidare il "senso comune".

In fondo, qualcosa di simile l´aveva (de) scritto, qualche tempo fa, Antonio Gramsci. Il quale distingueva tra "buon senso" e "senso comune". E citava, a questo fine, Alessandro Manzoni. Il quale nei Promessi sposi annotava che al tempo della peste «c´era pur qualcuno che non credeva agli untori, ma non poteva sostenere la sua opinione, contro l´opinione volgare diffusa». Perché, aggiungeva Manzoni, «il buon senso c´era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune». Un ragionamento che, senza voler apparire irriguardosi, potremmo applicare anche a noi stessi. Alla comunità scientifica di cui facciamo parte. Il "buon senso", cioè, ci spingerebbe a interrogarci maggiormente su quel che avviene a livello locale e micro-sociale, nella sfera personale e interpersonale. A esplorare altre teorie e altri orientamenti metodologici. Ma il "senso comune" della comunità scientifica e degli specialisti, che con Kuhn potremmo definire "paradigma dominante" (in tempi di "scienza normale"), ci induce a far finta di nulla. A negare la realtà per non cambiare gli occhiali con cui la osserviamo. Dall´alto e di lontano.

Il Manifesto per la Terra e per l´Uomo di Pierre Rabhi risale al 2008 e adesso è uscito in Italia. Soprattutto in Francia e in Africa, Rabhi è una delle figure più carismatiche per i movimenti ecologisti, dell´agricoltura biologica e biodinamica. Forse è un po´ meno conosciuto da noi, al di là delle sempre attente reti ambientaliste, anche perché le sue pubblicazioni in Italia sono piuttosto rare. Ciò non toglie che sia una figura straordinaria, e che questa traduzione che esce per i tipi di Add Editore (pagg.169, euro 15) ci consenta di avvicinarci più agilmente alla sua visione del mondo e della vita. Prima di parlarne però è bene partire dalla sua storia. Nato nel 1938 in Algeria Rabhi perde presto i genitori e viene adottato da una coppia francese. Passa gli anni della sua prima formazione a Parigi dove, più che le scuole, frequenta le fabbriche, luoghi che gli forniscono materiale buono per le sue prime profonde riflessioni sulla natura dell´uomo. Poi, negli anni ‘60, decide di trasferirsi in campagna con la moglie, e precisamente ad Ardeche, nel Sud Est della Francia, in un territorio piuttosto difficile dal punto di vista agronomico, che tuttavia non scalfisce la sua capacità di abbracciare e favorire la vita. Anzi, le difficoltà del territorio diventano uno stimolo. Si avvicina presto, nei primi ‘70, alle teorie di Steiner e Pfeiffer sull´agricoltura biologica e biodinamica, e lentamente trasforma la sua piccola fattoria in quella che lui stesso oggi definisce "un´oasi di vita".

Intanto si occupa di viaggiare e insegnare ai contadini, soprattutto quelli africani e di zone povere del pianeta, quella che anche lui definisce "agroecologia": un modo semplice, armonico con la Natura, per far fruttare i terreni senza depredare risorse e riconquistare la propria sovranità alimentare; per nutrirsi coniugando le proprie esigenze con quelle dell´ambiente e nel frattempo circondarsi di bellezza. Un fattore, quest´ultimo, che va ben al di là della semplice questione estetica (e per questo rivoluzionario), decisivo in tutte le sue riflessioni, molto alte e molto comprensibili allo stesso tempo. La popolarità nella sua terra adottiva cresce molto negli anni, al punto che nel 2002 rischia seriamente di candidarsi all´Eliseo: un contadino Presidente, sarebbe stato un bel sogno, ma gli ostacoli in quel caso erano davvero insormontabili.

Quest´aneddoto sulla sua vita non tragga in inganno: Rabhi è e resta un contadino, e come tutti i veri contadini ha un modo di pensare animato da un amore quasi fisiologico per la semplicità. È assolutamente guidato da quel buon senso che, pur se molto immediato in chi lo pratica con convinzione, è in realtà uno dei modi di ragionare più complessi che si possano immaginare: tiene conto delle connessioni nascoste attorno all´io ed acquista potenza in maniera direttamente proporzionale alla complessità che abbraccia. Da qui scaturiscono parole pienamente condivisibili, che nella prima parte del libro, dedicata alla Terra, forse non riveleranno nulla di nuovo a chi frequenta queste tematiche, ma sono espresse con una linearità e un´immediatezza che rendono lo strumento, la forma di manifesto, quanto mai utile ed efficace.

Si va ancor più in profondità nella seconda parte, con tema umanesimo, che ci parla della necessità di una profonda rivoluzione delle coscienze per cambiare paradigmi, in particolare a partire dalla comprensione e dalla ricerca della bellezza. «Può la bellezza salvare il mondo?» si chiede retoricamente Rabhi, e si capisce che il suo incanto di fronte all´armonia della natura non è semplice rapimento poetico, ma è struttura, programma politico, comprensione del complesso, del nascosto, rispetto per la delicatezza dei sistemi ecologici ma anche tributo alla grandezza che possono ancora esprimere i contadini su questa Terra tanto bistrattata. Il messaggio che bellezza, piacere o paesaggio siano i veri presupposti per un´ecologica gestione della cosa umana non è ancora del tutto compreso oggi: mentre si risvegliano tante coscienze ambientaliste, il bello e il buono purtroppo restano spesso dei tabu, confusi con un lusso per pochi. Devono invece essere la norma per tutti, a partire dalla loro più immensa semplicità, se vogliamo che la qualità della vita diventi qualcosa di reale, piuttosto che una buona intenzione ripetuta all´infinito.

Lascia dei dubbi l´idea di un eterno centrosinistra dagli anni Sessanta agli anni Novanta

Democrazia, crisi economica, Berlusconi è il sottotitolo di un agile libro di Michele Salvati (Tre pezzi facili sull´Italia, il Mulino, pagg. 130, euro 14) che riflette su alcuni nodi: le origini vicine e lontane della crisi italiana, il rapporto fra Prima e Seconda Repubblica, le ragioni dell´ascesa al potere di Berlusconi e - soprattutto - del suo lungo predominio. Il bersaglio polemico è dichiarato: circola da tempo, scrive Salvati, «una visione nostalgica, un rimpianto diffuso per la Prima Repubblica e per il centrosinistra» che non riesce però a dar conto delle ragioni del suo crollo. E c´è anche da chiedersi, aggiunge, perché si sia esaurita presto la spinta riformatrice che pur animò, nel passaggio da una fase all´altra, i governi Amato e Ciampi e il primo governo Prodi, cui dobbiamo anche l´ingresso nell´euro. Analisi economica e implicazioni politiche si intrecciano di continuo, e vi sono sullo sfondo i precedenti, ed eccellenti, lavori di Salvati. Vi è anche l´evocazione di un´anomalia collocata nel più lungo periodo: lo stretto rapporto fra la presenza di forze politiche antisistema e un trasformismo che trova (ulteriore) alimento nell´impossibilità dell´alternanza.

L´avvio del ragionamento è dunque ben fondato: «È difficile sostenere che le politiche economiche perseguite nella Prima Repubblica siano state un modello di virtù ed è impossibile negare che ci abbiano lasciato in eredità problemi gravosissimi», a partire dal debito pubblico. Qui però Salvati propone le sue tesi in una "forma estrema". Addebita in blocco gli aspetti negativi della Prima Repubblica a un "lungo centrosinistra" che dal governo Moro del 1963 giunge sino al crollo dei primi anni Novanta. E al cui interno gli appare secondaria la presenza di formule politiche differenti.

La formulazione solleva qualche dubbio, e non solo perché le eccezioni non furono del tutto irrilevanti: si pensi alle tensioni innescate nel 1972-73 dal ritorno del centrodestra, o alla fase dei governi di solidarietà nazionale nell´emergenza drammatica del 1976-79. Si pensi soprattutto ad altri due aspetti. In primo luogo all´inclusione a pieno titolo in questo schema del "pentapartito" degli anni Ottanta: cioè di una forma di governo che aboliva la contrapposizione fra centrodestra e centrosinistra unendo insieme socialisti e liberali, simbolo sin lì delle due opposte formule. Ne nasceva una coalizione destinata ad esasperare l´occupazione partitica dello Stato, a far esplodere il debito pubblico e a far deflagrare la crisi della Repubblica. Qualcosa di più, forse, di una semplice continuità con il passato.

Lascia qualche dubbio anche l´esclusione da questo "lunghissimo centrosinistra" del suo innovativo avvio, quello di cui si avverte qualche rimpianto: il "centrosinistra di programma" guidato da Fanfani nel 1962-1963 con il sostegno esterno dei socialisti. Quello che realizzò la scuola media unica e in cui Ugo La Malfa presentava la sua Nota aggiuntiva, il documento forse più lucido della cultura riformatrice italiana.

Non sono precisazioni "pignole". Rinviano a nodi centrali nella storia della Repubblica: come si passò, ad esempio, da un ruolo indubbiamente positivo del sistema dei partiti al loro degradare? Al loro diventare «sempre più uguali a se stessi», come scriveva Pietro Scoppola in riferimento agli anni Ottanta: caratterizzati «sul terreno del voto di scambio, con un ulteriore incentivo alla corruzione politica e all´uso del potere ai fini della conquista del consenso». Se poi le involuzioni del sistema politico e quelle della società civile si intrecciano, questa "omologazione" agli anni Ottanta dei due decenni precedenti solleva ulteriori dubbi. Per questa via rischia forse di modificarsi il senso più immediato delle parole: a scapito in primo luogo della assoluta qualità delle analisi e delle riflessioni di Salvati.

Le politiche di austerity tendono a occultare la natura violenta del rapporto tra capitale e lavoro

Debiti illegittimi e diritto all'insolvenza di François Chesnais è un saggio sulla «geometrica potenza» dei mercati finanziari, un manuale prezioso, rigoroso e molto documentato, per i movimenti di resistenza contro gli effetti devastanti della finanziarizzazione che da trent'anni domina il pianeta, distruggendo l'esistenza di milioni di persone, l'ambiente e la democrazia. L'analisi storica del capitalismo finanziario, dalla crisi del modello fordista e del sistema monetario di Bretton Woods fino alla crisi dei debiti pubblici e della sovranità politica di oggi, ha al suo centro la divaricazione tra profitti e condizioni di vita, di reddito e di occupazione, che da tempo è all'origine della produzione di rendite finanziarie, del «divenire rendita dei profitti», quel processo che dalla crisi dei subprime del 2007 alla crisi dell'euro di oggi sta svelando la fragilità del sistema bancario mondiale e la ricerca disperata di misure politiche, istituzionali e soprattutto sociali volte a a salvare il potere dei mercati finanziari. Una crisi la cui funzione è esplicitata in un documento del Fmi del 2010: «le pressioni dei mercati potrebbero riuscire lì dove altri approcci hanno falllito», una vera e propria strategia da shock economy, come Naomi Klein ci ha ben spiegato.

Ma il libro di Chenais è anche un programma per la costruzione di un movimento sociale europeo, un movimento che deve porsi la questione della lotta contro i «debiti illegittimi», odiosa conseguenza delle politiche di sgravi fiscali degli ultimi vent'anni, dei piani di salvataggio del sistema bancario e della speculazione finanziaria sui debiti pubblici che sta aggravando pesantemente il servizio sui debiti, ossia gli interessi che gli stati devono pagare sui buoni del tesoro. Il «governo attraverso il debito», dove il debito è il riflesso speculare della polarizzazione della ricchezza e delle misure per ammortizzare il crollo bancario e finanziario, non è accettabile e va rifiutato: onorarlo significa rinunciare ai diritti sociali, schiacciare i redditi e lacerare quel che resta dei beni comuni e delle spese collettive indispensabili per tenere assieme la società. Come ha scritto Cédric Durant, riassumendo la proposta di Chesnais, «ciò significa interrompere i rimborsi - una moratoria - e stabilire chiaramente chi sono i creditori - attraverso un audit - al fine di stabilire la parte di debito che può essere rimborsata e quella che deve essere annullata».

È quanto propone il Comitato greco contro il debito, il primo paese in cui sia stato creato un comitato nazionale che ha consentito la creazione di comitati locali: «Il primo obiettivo di un audit è quello di chiarire il passato. Cosa ne è stato del denaro di quel prestito? A quali condizioni si è concordato quel prestito? Quanti interessi sono stati pagati, a quale tasso, quale quota di capitale è stata rimborsata? Come si è gonfiato il debito senza che questo andasse a vantaggio dei cittadini?». Imponendo di aprire e di verificare i titolari del debito pubblico, il movimento per l'audit civile osa l'impensabile: avanza nella zona rossa, nel sancta sanctorum del sistema capitalistico, lì dove, per definizione, non è tollerato alcun intruso.

A modo suo, ma coerentemente con il principio di trasparenza e di sovranità popolare che sta alla base dello Stato-nazione, Papandreu ci ha provato con la proposta di referendum popolare sulle misure d'austerità imposte dalla Unione europea. Ma la sua idea è durata lo spirare di un giorno, e se ci fosse riuscito è realistico pensare che ci sarebbe stato un colpo di Stato. Il che ci costringe a porre la questione, centrale nella lotta contro la schiavitù del debito, di quale sia il terreno sul quale mobilitarsi. L'idea della moratoria, dell'audit, del diritto all'insolvenza è sacrosanta, ma dove partire?

Nella configurazione odierna del capitalismo finanziario, in particolare nell'Europa dell'euro dominata dai mercati finanziari e da una Banca centrale che ad essi ha delegato la monetizzazione dei debiti pubblici, il diritto all'insolvenza va declinato in modo tale da evitare qualsiasi forma di «sovranismo», di affermazione del primato dello Stato nazionale a fronte della dittatura dei mercati finanziari. E questo per una ragione tanto semplice quanto stringente: la rivendicazione dell'insolvenza su scala nazionale creerebbe una situazione di autarchia economica, di totale chiusura verso il resto del mondo, di non accessibilità alle fonti di finanziamento ma, soprattutto, di impossibilità di generalizzare la mobilitazione sociale al resto dell'Europa. Non è solo una questione pratica, per così dire. Si tratta di capire che la logica della finanziarizzazione, come d'altronde emerge dal libro di Chesnais, la logica del «governo attraverso il debito» ha la sua origine nel rapporto fondamentale tra capitale e lavoro, tra plusvalore e lavoro necessario. Il capitalismo fnanziario ha globalizzato l'imperialismo, il suo modus operandi attraverso la «trappola del debito», dell'indebitamento pubblico e privato, per realizzare-vendere il plusvalore estratto dal lavoro vivo. Il debito, nello schema imperiale, è la faccia monetaria del plusvalore, dello sfruttamento universale della forza-lavoro, ed è una trappola perché impedisce al lavoro vivo di affrancarsi dallo sfruttamento, di autonoimizzarsi dal rapporto di dipendenza e di schiavitù che è proprio del debito.

La lotta contro il debito, il diritto all'insolvenza, deve partire dalla mobilitazione del lavoro vivo contro la natura debitoria del plusvalore, quella stessa che si esercita su scala nazionale nel rapporto diretto tra capitale e lavoro e che oggi vede gli Stati come articolazioni locali di un capitalismo finanziario globale.

Partire da questo livello, dal lavoro vivo contro il capitale, significa ad esempio organizzare gli studenti e le loro famiglie indebitate per affermare il diritto allo studio e alla sua libertà. Significa cioè soggettivare il diritto all'insolvenza, sottraendolo alla trappola del debito come dispositivo di esercizio di un potere globale contro il quale concretamente mobilitarsi indicando soggetti e forme di lotta.

La presenza umana sulla terra pone con forza la necessità di modificare un modello di sviluppo che distrugge risorse e determina la scomparsa di molte specie viventi. Allo stesso tempo lo sviluppo della genetica mette in rilievo la responsabilità degli scienziati nel loro lavoro di ricerca. Un'intervista con l'autore del volume «Il seme di Pandora», pubblicato da Codice edizioni

È dal 2005 che Spencer Wells lavora intensamente all'interno del «Genographic Project» con l'intento di definire una mappatura della diffusione della popolazione umana sulla terra fin dalla comparsa dell'«Homo Sapiens». Genetista e antropologo, Wells ha studiato con Richard Lewontin e con Luigi Luca Cavalli-Sforza. Con entrambi condivide l'idea che la comparsa dei «sapiens» è frutto di un'evoluzione durata centinaia di migliaia di anni, caratterizzata non solo da una capacità di adattamento all'habitat naturale, ma anche dagli incontri tra le diverse specie di ominidi che hanno vissuto sulla Terra. Autore che alterna la scrittura alla ricerca sul campo - è un «esploratore» della National Geographic - Spencer Wells è autore de Il viaggio dell'uomo (Longanesi) e del recente Il seme di Pandora pubblicato da Codice edizioni (pp. 241, euro 20), saggio che propone una sorta di società della parsimonia da contrapporre alla liberale ricchezza delle nazioni e attorno a cui ruota l'intervista.

Ne Il vaso di Pandora, lei si concentra sugli esiti della civilizzazione non sempre positivi per gli essere umani. Perché la civilizzazione ha questa ambivalenza di fondo?

Non nego che il processo di civilizzazione abbia avuto effetti positivi sulla vita umana. Ad esempio, il lavoro, attraverso le macchine e l'applicazione della scienza alle attività produttive, è sicuramente meno faticoso rispetto al passato. La scienza ha inoltre favorito la cura di malattie che falcidiavano le comunità umane. Il diritto, dal canto suo, ha reso più facile la convivenza. Lo stesso si può dire per la produzione culturale, uno dei fattori più importanti per migliorare il nostro stare in società. In una prospettiva antropologica, il processo di civilizzazione ha cioè favorito la crescita della popolazione e la nostra riproduzione in quanto specie.

In molti studi, la popolazione umana nel Neolitico è stata stimata in cinque milioni di uomini e donne. Stiamo parlando di circa diecimila anni fa. Erano tempi difficili per gli umani; e sono molti studiosi a definirli come il periodo nero della nostra presenza sulla Terra. Adesso siamo diventati sette miliardi. La crescita della popolazione non è tuttavia un fatto negativo. Ma se volgiamo lo sguardo sulle conseguenza di una presenza umana così diffusa sul pianete, il panorama è meno roseo. Ad esempio, il riscaldamento del pianeta è un effetto collaterale dalle conseguenza potenzialmente terribili per la presenza umana sul pianeta.. Lo stesso vale per l'estinzione di molte specie animali e vegetali provocate dal processo di civilizzazione. Per questo serve una riflessione sul fatto che la civilizzazione ha effetti sulla nostra biologia, che è noto si è evoluta in poche decine di migliaia di anni all'interno di una stretto rapporto con l'habitat naturale, ma anche con quello sociale. Questo per dire che siamo cambiati biologicamente da quando eravamo cacciatori nomadi e vivevamo in piccoli gruppi. Abbiamo sconfitto molte malattie, abbiamo plasmato la natura come meglio credevamo. Eppure, recentemente, si sono manifestati virus e malattie ritenute conseguenza proprio della civilizzazione. Uno degli aspetti con il quale la specie umana deve confrontarsi è dunque la gestione del il nostro legame biologico con l'habitat naturale e con l'habitat sociale. È una sfida culturale, forse la più importante che la specie umana dovrà affrontare in questo millennio.

La mappatura del Genoma Umano è da annoverare tra i più importanti successi scientifici degli ultimi decenni. Anche in questo caso, tuttavia, lei sottolinea con decisione il possibile lato oscuro delle applicazioni derivanti dalla mappatura del Dna umano....

Non so se ci troviamo di fronte a un lato oscuro delle possibili applicazioni delle scoperte fatte all'interno dell'Human Genoma Project, che va ricordato ha mobilitato moltissimi laboratori di ricerca e moltissimi scienziati di grande valore in una prospettiva multidisciplinare che ha consentito una discussione molto ricca sul concetto di responsabilità della scienza. Da parte mia sono convinto che dobbiamo concentrarsi nell'analisi sulle conseguenze sociali, etiche, biologiche delle possibili applicazioni di tali scoperte. Pensiamo alla genetica e all'embriologia. Sono due campi che hanno conosciuto un forte sviluppo negli ultimi trent'anni, al punto che siamo a un passo dal poter scegliere, selezionare i geni dei nostri figli. Questo è un bene, perché potremmo evitare disfunzioni patologiche. Ma dobbiamo altresì riflettere anche sulle implicazioni etiche di alcune ricerche. Nel libro parlo diffusamente del «caso» di Charlie Withaker, un dodicenne affetto da un tipo specifico di anemia che è stato curato usando le cellule staminali del fratello concepito in vitro. A quel tempo, l'opinione pubblica inglese si è divisa tra favorevoli e contrari. Quel che per me è interessante è il fatto che abbiamo un effetto positivo di una «manipolazione» genetica e, al tempo stesso, ci siamo trovati di fronte a vicenda che ha posto nuovamente con forza il tema dell'eugenetica e della selezione genetica della specie umana. Argomento che ha precedenti storici terribili.

Ci troviamo cioè di fronte a situazioni che rendono attuale un discorso sulla responsabilità dei ricercatori nei confronti della società. E allo stesso tempo rendono attuale una domanda rispetto alla possibile selezione genetica: che diritto abbiamo noi di fare questo? Quesito che vale per molte altre scoperte scientifiche e la loro applicazione tecnologica. Da qui il nodo da sciogliere su come comportarci di fronte a implicazioni che possono condizionare moltissimo, se non sovvertire il nostro modo di vivere in una società.

Nel suo libro, l'evoluzione occupa molte pagine. Eppure la teoria dell'evoluzione è rigettata da posizioni spesso definite creazioniste...

Per me, come scienziato, l'evoluzione è un fatto che possiamo confermare continuamente attraverso esperimenti condotti nei laboratori dove si studia la genetica. La resistenza degli antibiotici, ad esempio, può essere studiata solamente attraverso il processo evolutivo che hanno caratterizzato alcuni virus. Penso sempre con delizia e stupore a come l'evoluzione della nostra specie e di altre specie viventi dia luogo a una straordinaria varietà di specie che condivide con noi il pianeta. Ci sono alcune farfalle che hanno una forma aerodinamica che incanta per potenza e bellezza.. Poi ci sono microorganismi che riescono a vivere sia in ambienti con elevate temperature che a profondità marine pazzesche. Per non citare le affascinanti varietà di felini che popolano l'Africa. Sono solo pochi esempi di come l'evoluzione abbia ancora il potere di stupirci per ciò che ha prodotto e per ciò che potrà produrre in futuro, vista la capacità di innovazione e adattamento che caratterizzano le specie viventi. Ci sono volute milioni di generazioni per arrivare alla attuale situazione. Non dovremmo spaventarci di tale diversità, ma sentirci confortati dalla sua esistenza.

Lei descrive la nascita dell'«Homo Sapiens» come una grande avventura caratterizzata anche dalla combinazione di geni di ominidi differenti. In altri termini lei dice che la combinazione di geni è un fattore importante dell'evoluzione. Non è così per il concetto di razza, da lei ritenuto un fattore tutto sommato irrilevante. La razza è dunque una convenzione sociale...

Molti ricercatori sociali sostengono che le razze sono una costruzione sociale e non, come invece affermano alcuni biologi e genetisti, l'esito di varianti genetiche che hanno come unici effetti di «superficie» il colore della pelle o la forma degli occhi. Potrei dire che entrambe le posizioni colgono degli elementi, ma entrambe non tengono conto della complessità, della sedimentazione sociale e culturale che la razza ha avuto. Scientificamente è chiaro che non ci sono significative differenze genetiche tra le diverse «razze» umane. E quelle che pure ci sono sono il frutto di una evoluzione intervenuta in 60mila anni, all'interno degli incontri, delle migrazioni, dei rapporti che i sapiens hanno avuto con l'habitat naturale e quello sociale che via via era costruito. Questo fattore dell'incontro, della combinazione tra gruppi umani differenti è stato ampiamente documentato dal «Genographic Project» a cui partecipo. Proprio in quell'ambito abbiamo verificato che gli esseri umani hanno lo stessa base genetica per il novantanove percento. Il resto produce uomini e donne con vari colori della pelle e altre piccole differenze che sono sempre di «superficie». Il mistero da svelare riguarda invece il problema delle disciminazioni razziali e dalle rappresentazioni sociali negative che colpiscono alcuni gruppi umani che hanno il colore della pelle diverso dal roseo e perché hanno una forma di occhi differente da quelle che caratterizzano gli europei o i bianchi statunitensi.

Infatti lei che scrive che gli esseri umani devono sviluppare un'altra cultura...

Si, ma non mi riferivo al razzismo. Piuttosto serve un'altra cultura per affrontare un argomento fondamentale per la sopravvivenza della specie umana, ma che spesso viene messo ai margini della discussione pubblica. Viviamo in un mondo che ha visto una crescita ininterrotta per quasi 60mila anni. Nel Neolitico la terra era molto diversa da quella attuale. Da allora molte specie si sono estinte e le società in cui viviamo sono caratterizzate da uno sviluppo industriale ad alto consumo di energia. Quando scrivo che dobbiamo sviluppare una nuova cultura, parto dal presupposto che tale modello di sviluppo non è più sostenibile nel medio e lungo periodo. Per questo sostengo che dobbiamo apprendere a vivere come una specie che abita un pianeta molto affollato e dove le risorse sono limitate.

Frugalità, parsimonia. Sono due delle parole chiave che lei usa per analizzare criticamente l'attuale distribuzione della ricchezza. Ma se la soluzione alla crisi di un modello di sviluppo basato su un alto consumo di energia e di distruzione delle risorse può risultare una narrazione mitologica o un sogno ad occhi aperti...

Il consumo dissoluto del pianeta che abbiamo compiuto è da archiviare, ponendo limiti al consumo delle risorse e alla distruzione dell'habitat naturale. Questo comporta una profonda trasformazione delle nostre abitudini . Abbiamo diecimila anni alle spalle, che rispetto alla storia della Terra è solo un piccolo episodio della vita sul nostro pianeta. Tuttavia sono stati diecimila anni in cui abbiamo modificato i nostri standard, non ponendoci tuttavia il problema di come garantire la sopravvivenza non solo della specie umana ma del pianeta. La frugalità, la parsimonia sono quindi solo strumenti che possono aiutare lo sviluppo di società più inclusive di quelle attuali. Solo così possiamo garantire un futuro ai nostri figli e ai loro figli. Sono moderatamente ottimista per il futuro. Questo non significa sottovalutare le conseguenze a breve termine della crisi attuale. Anzi solo una piena comprensione dei problema che abbiamo ci può aiutare a prendere la giusta strada.

il manifesto, 30 novembre

Toccate e fughe di un urbanista

di Manuel Orazi

Alla fine del suo saggio Gli architetti e il fascismo (Einaudi 1989), Giorgio Ciucci indicava chiaramente quelli che, nella cultura architettonica italiana del Dopoguerra, sarebbero stati i pilastri, coloro cioè a cui sarebbe toccato il compito di ricostruire materialmente e moralmente un paese e una disciplina dopo le tragiche morti di Giuseppe Pagano, Edoardo Persico e Giuseppe Terragni.

I quattro pilastri - tutte figure paterne, tranne Ridolfi - erano, in ordine di anzianità, Giuseppe Samonà direttore dello Iuav di Venezia, unica isola felice della modernità italiana; Mario Ridolfi con la ciclopica impresa del Manuale dell'architetto (portata avanti insieme e grazie a Bruno Zevi); Ernesto Nathan Rogers e il Movimento di Studi per l'Architettura (Msa) che riuniva a Milano architetti e intellettuali come Enzo Paci intorno alla rivista «Casabella-Continuità»; e infine, a Roma, Ludovico Quaroni con la sua «ricerca sul quartiere». Ovviamente i protagonisti del dopoguerra sono stati molti di più, alcuni dei quali sottovalutati perché conservatori, in politica e no (Saverio Muratori, Luigi Moretti, Gio Ponti) - ma quella di Quaroni è stata una ricerca in più direzioni, sicuramente la più inquieta.

La stagione del neorealismo

Nato a Roma cento anni or sono, Ludovico Quaroni si laurea nel 1934 e l'anno successivo apre lo studio professionale insieme a Muratori e Francesco Fariello, con i quali vincerà il concorso per la piazza imperiale all'E42, oggi Eur - dove la pulizia del disegno viene inficiata dall'uso, per le colonne, non del marmo, ma di una scadente pietra scura imposta da un gerarca, proprietario delle cave. Sin dall'inizio della carriera, dunque, Quaroni (allora ventitreenne) è votato al lavoro di gruppo, ma anche al compromesso: la sua ricerca di una sintesi fra razionalismo e classicismo è coeva al suo impegno di assistente universitario di Piacentini, Del Debbio, Plinio Marconi, vale a dire alcuni fra i più strenui avversari dell'architettura moderna italiana.

La seconda guerra mondiale mette fine a questa stagione formativa e vede Quaroni catapultato prima in India e poi, già dalle prime fasi del conflitto, prigioniero dagli inglesi in Etiopia, dove rimarrà cinque lunghi anni a meditare sulla fine del regime e di un'intera epoca. Tornato a Roma nel 1946, aderisce all'Apao, l'associazione per l'architettura organica diretta da Zevi e per circa un decennio si lega a doppio filo con Mario Ridolfi. Verrebbe anzi da dire che quasi si nasconda dietro di lui, sia nel concorso per la nuova stazione Termini, sia soprattutto nel quartiere Ina Casa al Tiburtino, costruito fra il 1950 e il '54 da un team allargato di cui fanno parte anche giovanissimi progettisti come il nipote comunista di Piacentini, Carlo Aymonino.

Il Tiburtino segna la stagione del Neorealismo architettonico che in opposizione al monumentalismo fascista cerca di tradurre in città le forme e i modelli della vita rurale, per avviare così i nuovi immigrati dalle campagne alla vita urbana secondo modalità ibride ben viste sia dalla Dc fanfaniana sia dal Pci di Guttuso e Alicata. Ancora una volta però si tratta di una ricerca di sintesi fra due entità irriducibili, città e campagna, e sarà lo stesso Quaroni il primo a fare autocritica già pochi anni dopo definendo il suo quartiere un paese dei barocchi: «non è il risultato d'una cultura solidificata, d'una tradizione viva: è il risultato d'uno stato d'animo».

Autoanalisi e autocritica

Nel villaggio La Martella invece, nei dintorni di Matera, ancora frutto di un gruppo di progettazione allargato, nel 1951 Quaroni cerca di portare un po' di urbanità nel nuovo quartiere destinato a ospitare gli sfollati dei Sassi, che prima convivevano in condizione di miseria assoluta e di promiscuità con gli animali; si tratta certamente di una delle pagine più commoventi e generose della ricostruzione scritta peraltro insieme con Adriano Olivetti. È infatti l'industriale e filantropo piemontese ad animare queste e altre esperienze riformatrici in alcune fra le zone più arretrate del meridione. Non a caso a Quaroni, vincitore del premio Olivetti nel 1956, viene dedicata una monografia pubblicata dalle Edizioni di Comunità nel 1964 da uno dei suoi numerosissimi allievi, Manfredo Tafuri.

Come Quaroni, anche Tafuri - sebbene su un altro piano, quello storiografico - sarà maestro del dubbio e del ripensamento, dell'autoanalisi e dell'autocritica. Quegli «stati d'animo» così caratteristici della cosiddetta scuola romana sono alla base di svolte continue, di slanci ideali in seguito rinnegati e infine rimossi: ouverture, toccate, fughe e contrappunti per usare i termini dell'arte forse più cara a Quaroni, peraltro raffinato collezionista di strumenti musicali e profondo amante delle variazioni Goldberg di Bach.

Secondo Franco Purini, anch'egli suo allievo, la coltivazione del dubbio ha avuto senz'altro una funzione positiva per coloro i quali sono stati poi capaci di superarla imboccando una strada propria, mentre è stata negativa per la maggioranza assoluta, per i meno sicuri di sé che hanno trasformato il dubbio in interdizione verso qualsiasi strada possibile. (Il che, aggiungiamo noi, è piuttosto grave per chi - come Quaroni - è stato non solo maestro, ma relatore di tesi di laurea per una intera generazione di architetti romani, che a loro volta sono diventati docenti occupando le facoltà di mezza Italia o creandone altre ex novo).

Ai due lati della laguna

Secondo Purini, comunque, Quaroni resta una figura fondamentale per la ricerca problematica della via italiana all'architettura moderna, anche se non lo è stato dal punto di vista formale.

Una certa insicurezza lo ha portato sempre a circondarsi di collaboratori e associati, spesso di vaglia, sebbene eterogenei, e gli esiti compositivi non potevano che essere differenti: neorealisti al Tiburtino e a Matera, votati verso la megastruttura nella stagione successiva del progetto per l'Asse attrezzato di Roma (1967) o per il nuovo centro governativo di Tunisi (1969). Giustamente il Maxxi (che ha come senior curator un altro suo allievo, Pippo Ciorra) dedica una piccola mostra al progetto di Quaroni più felice e noto, quello per i grandi edifici circolari Cep alle barene di San Giuliano di Mestre del 1959 - esempio di una architettura della grande dimensione aperta verso la laguna in un abbraccio che era al tempo stesso anche l'allegoria della sintesi fra architettura e urbanistica, quella sintesi auspicata dal suo alleato Giuseppe Samonà, che dall'altro lato della laguna aveva appena dato alle stampe L'urbanistica e l'avvenire delle città (Laterza 1959).

Un'impresa misconosciuta

E un'allegoria è anche il titolo del libro pubblicato nella collana Polis diretta da Aldo Rossi per Marsilio, La torre di Babele, del 1967 - cosa ci faceva Quaroni nella collana di un architetto opposto per temperamento e da cui era stato duramente contestato al convegno olivettiano sull'urbanistica di Arezzo del '63? Nel 1939 Quaroni aveva svolto una ricerca dal titolo L'architettura delle città in cui distingueva una coppia dialettica focus/tessuto urbano che ricorda molto quella degli elementi primari/area che è al centro dell'Architettura della città di Rossi del 1966. Nel testo del '67 Quaroni dà una sua interpretazione positiva del valore conoscitivo della forma, ma le affinità si fermano qui e nella stessa prefazione al libro Rossi liquida Quaroni ingabbiandolo all'interno della sua teoria dell'architettura.

Eppure il riavvicinamento con Rossi sarà solo il preludio a un'ultima grande impresa, la più misconosciuta, ma anche una delle migliori fra tutte le azioni quaroniane: la direzione, alla metà degli anni '70, della splendida collana «Planning & Design» per la casa editrice Gabriele Mazzotta di Milano che, nata pochi anni prima, aveva già un ricco catalogo d'arte. La madre tedesca aveva reso naturale la propensione di Quaroni verso movimenti e autori tradizionalmente poco studiati in Italia.

A lui dobbiamo infatti la prima traduzione di testi fondamentali dell'architettura del '900 come Da Ledoux a Le Corbusier: origine e sviluppo dell'architettura autonoma di Emil Kaufmann, Lo studio delle piante e la progettazione degli spazi negli alloggi minimi di Alexander Klein, l'antologia della rivista espressionista Frühlicht o ancora La corona della città di Bruno Taut a proposito del quale malignamente - ma giustamente - Quaroni consigliava a Rossi e Scolari, che lo avevano appena arruolato fra i padri del Neorazionalismo della Tendenza, di ricordare le origini espressioniste, dunque irrazionali, dello stesso razionalismo.

Compositore di intelligenze

A questi titoli già di per sé considerevoli si alternavano ristampe di classici antichi (i trattati settecenteschi di Francesco Milizia e Andrea Memmo) e moderni (Il modulor di Le Corbusier) oltre a una serie di saggi di giovani storici, architetti, urbanisti e sociologi (Vieri Quilici, Giorgio Muratore, Giandomenico Amendola) su temi che spaziavano dalla città rinascimentale alla Russia costruttivista fino a pioneristici studi sulle città sudamericane di Manuel Castells oggi così in voga, tenendo sempre insieme architettura e urbanistica. E forse la dimensione editoriale è quella che più corrisponde a Quaroni: quella di un compositore di intelligenze, complesso e contraddittorio come una collana editoriale, frutto di un lavoro collettivo (autori, curatori, traduttori) e di molti compromessi. Un lavoro che in ultima analisi assomiglia maledettamente al destino dell'architettura.

la Repubblica, 3 dicembre

Ludovico Quaroni, così si disegna una città

di Francesco Erbani

Il vicinato.La bussola che guidò l’architetto Ludovico Quaroni quando disegnò il borgo della Martella (siamo a Matera, primi anni Cinquanta) era orientata sul vicinato. Che era come dire la comunità. Ma la parola vicinato pareva a Quaroni più comprensibile per i contadini che dovevano abitare quel borgo abbandonando i Sassi, dove solo l’alito dei muli, che vivevano insieme a loro nelle grotte, mitigava l’umidità del tufo con la quale le loro ossa erano impregnate. E dove, però, il vicinato era il soccorso elementare, reciproco, materiale e morale, che rendeva meno penosa un’esistenza di cui l’Italia si accorse leggendo Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi o mirando le foto di Henri Cartier-Bresson su Life.

Di Quaroni si celebra quest’anno il centenario della nascita con una serie di iniziative a Matera e ad Arezzo, e con una mostra al MAXXI di Roma (curata da Patrizia Bonifazio e Pippo Ciorra, promossa da Inu e Fondazione Adriano Olivetti: fino al 31 gennaio). Qui vengono esposti i suoi disegni per un altro progetto, molto diverso dalla Martella, ma che conserva un filo di continuità con quello materano, l’insediamento delle Barene di San Giuliano, a Mestre, 190 ettari, quasi una città, che avrebbe dovuto superare l’imbarazzo di essere dirimpettaia di Venezia.

Quaroni non ha realizzato molte opere. Ha lavorato con Luigi Piccinato a una prima redazione del piano regolatore di Roma, poi rifiutata dall’amministrazione capitolina e stravolta. Ha realizzato con Mario Ridolfi il quartiere Ina-Casa del Tiburtino, sempre a Roma, che poi, ridendo, avrebbe chiamato il "paese dei barocchi". Ha costruito chiese a Francavilla a Mare, a Genova, a Gibellina. Ha scritto saggi e articoli, ha insegnato e oggi la facoltà della Sapienza di Roma è intitolata a lui. Ma la sua figura è centrale nel Novecento perché mostra, spiega Ciorra, come «l’architettura fosse capace di sintesi tecnica, politica e intellettuale e come fosse impossibile per Quaroni pensare a un edificio se non come elemento urbano». E questo vale tanto più oggi, «con architetti che vanno per conto proprio, senza preoccuparsi di condividere niente».

Un intellettuale, un militante, capace di grandi innovazioni anche formali. La denuncia di che cosa accadeva a Matera, nei Sassi, fu uno choc. Nella città lucana arrivarono Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi e i Sassi si decise di svuotarli, trasferendo gli abitanti in alcuni borghi rurali (ne erano previsti cinque, se ne realizzarono due). Questa iniziativa si mosse sulle ali di una mobilitazione intellettuale travolgente, a tratti generosamente ingenua, animata dal sociologo tedesco-americano Friedrich Friedmann, da economisti, antropologi, geografi, medici, assistenti sociali. Il motore fu Adriano Olivetti. Che, oltre a essere proprietario di una delle aziende più innovative al mondo, ragionava su come sviluppare i suoi progetti di comunità, cioè i nuclei sui quali si sarebbe dovuta reggere tutta l’organizzazione sociale e politica del paese. E nel Mezzogiorno quei progetti trovarono un terreno per svilupparsi. Olivetti era anche presidente dell’Inu, l’Istituto nazionale di urbanistica, ed era stato al vertice dell’Unrra Casas, l’organismo finanziato dagli americani per dare case ai senzatetto, una specie di New Deal mondiale.

Da questo intreccio di soggetti, complicato da politica e clientele, ma riscattato dall’energia culturale di Olivetti, nacque nel 1951 l’incarico a Quaroni di realizzare La Martella (Quaroni era molto legato all’imprenditore canavese e nel 1953 avrebbe firmato la Dichiarazione del Movimento di Comunità, la creatura politica olivettiana). La Martella è forse il progetto più denso di suggestioni intellettuali, di tensione civile e di illusioni sociali realizzato nella sua carriera dall’allora quarantenne architetto (a Matera lavorarono con lui Piero Maria Lugli, Michele Valori, Federico Gorio e Luigi Agati).

L’insediamento rispondeva a un paradossale rovesciamento di fronti. I contadini vivevano in città e andavano trasferiti in campagna. La Dc e la Chiesa volevano distribuirli in diversi appezzamenti di terreno, ognuno proprietario di un fazzoletto di zolle. Prevalse l’ipotesi olivettiana dei borghi che avrebbero riproposto il vicinato dei Sassi. La comunità di duecento famiglie si sarebbe ritrovata nella chiesa, costruita da Quaroni in forme neorealiste in vetta all’altura e con la parete di fondo in vetro perché le celebrazioni fossero aperte a tutti. Ma la comunità si riconosceva anche nei forni collettivi, collocati al termine delle strade che come raggi percorrevano il borgo, e nei servizi – un centro sociale, uno di istruzione agraria, l’ufficio postale, un albergo, l’ambulatorio, la scuola. Le case erano a due piani, disposte a gruppi. Ognuna aveva la stalla, c’erano l’orto e un piccolo giardino. «È l’uomo che crea la vita», scrisse Quaroni nel 1953, «non sono le case e gli altri edifici. (...) Siate sicuri, comunque, che noi non abbiamo voluto approfittare dell’occasione per sperimentare una nuova estetica (...) rinunciando alle velleità tanto facili per noi architetti».

Sarà poi lo stesso Quaroni – si può immaginare il suo disincanto amaro – a raccontare la stentata vita della Martella, i centri collettivi che non aprirono mai, gli assistenti sociali cacciati dal parroco (quel testo è raccolto da Armando Sichenze e Ina Macaione nel libro Il limite e la città). Poi vennero l’emigrazione contadina, l’immiserimento dell’agricoltura, l’abbandono delle terre. Oggi La Martella, tranne la chiesa, offre poche tracce della sua storia povera e razionale. Le abitazioni sono state trasformate ognuna in modo diverso, sono spuntati i cancelli elettrici.

Otto anni dopo il lavoro a Matera, Quaroni partecipa al concorso per le Barene di San Giuliano. Italia del Nord, area industriale, vigilia del boom economico. Né un borgo rurale né un quartiere. Edilizia pubblica, cinquantamila vani, una città-satellite. E dunque piazze, edifici alti anche 16 piani, strutture semicircolari, grandi blocchi lineari, una specie di progenitura di Corviale. Il linguaggio è popolare, come a Matera. E, come a Matera, l’occhio è vigile su bisogni delle persone e su esigenze collettive. Ma altrettanto forte è il piglio innovativo. «In quei disegni Quaroni prefigura la città futura», spiega Ciorra, «sono lo specchio di un’Italia ottimista». «È una svolta nella cultura architettonica e urbanistica di quegli anni, Quaroni adotta un metodo dirompente convinto che attraverso l’organizzazione dello spazio sia possibile la gestione delle trasformazioni sociali», aggiunge Patrizia Bonifazio.

Il confronto con Venezia, che è lì di fronte, viene risolto con gli edifici a semicerchio che sembrano abbracciarla. L’idea di città moderna che dialoga con l’antica proposta da Quaroni non convince la giuria del concorso. Ma ottiene il consenso di Antonio Cederna, che da anni ha fatto della questione una battaglia di civiltà. E che così sul Mondo descrive il progetto vincitore: «Una trama di campi e campielli, ponti e canali, che ricrea in terraferma una Venezia da esposizione universale o da baraccone da fiera». Nonostante l’esito finale, il concorso non avrà mai un seguito. E su quell’area continuano ad addensarsi appetiti speculativi.

Il carisma francese

In forma ampliata e rinnovata è tornato Roma moderna di Italo Insolera, il più importante libro sulla storia urbana della capitale. La prima edizione è del 1962. Le successive edizioni e ristampe sono state quattordici, fino al 2008, ma la struttura del libro non aveva subito sostanziali modifiche: trattava di Roma dalla presa di Porta Pia agli anni più recenti.

Le novità di questa quindicesima edizione sono invece tante, la più importante riguarda l’inizio del racconto, spostato all’indietro, dal 20 settembre 1870 al 27 luglio 1811, data in cui Napoleone I firmò il decreto imperiale per “l’embellissement de Rome”. Insolera scrive nella premessa che la Rivoluzione francese “ha un carisma storico-culturale ben maggiore dei ministri e dei generali della modesta dinastia sabauda, incerta se allearsi con Garibaldi, sicura di avere in Mazzini un nemico”, e perciò è giusto attribuire ai francesi il merito di aver dato inizio a Roma moderna. L’attitudine francese a volare alto si coglie subito considerando i due grandi parchi previsti dal decreto napoleonico: il primo a Sud, da piazza Venezia all’Appia Antica, il secondo a Nord, da piazza del Popolo a ponte Milvio. Il modello, secondo Insolera, sono il bois de Vincennes e il bois de Boulogne che chiudono Parigi a Est e a Ovest. E poi il Tevere navigabile da Perugia al mare, l’ingrandimento e il miglioramento delle piazze del Pantheon e di Traiano, mercati, mattatoi, giardino botanico e altro.

Ma il governo napoleonico durò troppo poco, il 19 gennaio 1814 ritornarono i napoletani seguiti dal papa. Delle opere previste dai francesi si riuscirono a fare pochi restauri al Foro e Luigi Canina mise mano alla trasformazione dell’Appia Antica nella passeggiata archeologica che ammiriamo ancora oggi. Nei decenni successivi, fatti salvi i pochi mesi della repubblica mazziniana (1848-49), Roma tornò a essere una città ferma e spenta. Prima del 1870, si ricordano solo la ferrovia per Ceprano, verso Napoli, e le espansioni edilizie del ministro di Pio IX monsignor de Merode che continuò a operare fino ai primi anni del Regno d’Italia.

Le altre novità della quindicesima edizione di Roma moderna (30 capitoli, 403 pagine, 25 euro) riguardano: una più ricca dotazione di immagini fotografiche e di planimetrie (35 foto aeree e 6 planimetrie della crescente e forsennata espansione edilizia); l’estensione del racconto fino ai nostri giorni (adesso copre quindi due secoli, da Napoleone ad Alemanno); un glossario che comprende alcune voci indubbiamente pertinenti (abusivismo, piano regolatore), altre sorprendenti, come “Banda della Magliana” e “Furbetti del quartierino”, soggetti diversamente malavitosi le cui imprese interferirono con l’urbanistica romana. Infine, il libro è dedicato a quattro sindaci laici di Roma, tutti estranei al Vaticano e alla lobby dei proprietari fondiari: Luigi Pianciani, combattente della Repubblica romana (sindaco dal 1872 - 1874), Ernesto Nathan, nato inglese, ebreo, mazziniano (1907 - 1913), Giulio Carlo Argan, grande studioso e storico dell’arte (1976 - 1979), Luigi Petroselli, viterbese, comunista, il sindaco più amato (1979 - 1981).

A quest’ultima edizione, soprattutto per quanto riguarda le vicende più recenti, ha collaborato l’urbanista Paolo Berdini, che studia e documenta da tempo in libri ed articoli i fatti e soprattutto i misfatti urbanistici della capitale e del resto d’Italia.

L’assassinio politico di Fiorentino Sullo

Il ritorno del libro di Insolera fornisce l’occasione per proporre qualche riflessione sulla condizione urbana a Roma e in Italia nell’ultimo mezzo secolo, per ricordare brandelli di storia, di personaggi e di luoghi, non solo quelli raccontati da Insolera, che sarebbe bello non dimenticare.

Cominciamo dal piano regolatore generale di Roma adottato dal consiglio comunale nel 1962 e approvato dal ministero dei Lavori pubblici nel 1965 (allora non esistevano ancora le regioni a statuto ordinario, che hanno cominciato a funzionare nel 1972, e spettava a quel ministero l’approvazione degli strumenti urbanistici e il coordinamento delle politiche territoriali). Qui entrano in scena i due migliori ministri dei Lavori pubblici dell’Italia repubblicana: il democristiano Fiorentino Sullo e il socialista Giacomo Mancini.

Nel giugno del 1962, scatta l’“operazione Sullo”: il ministro, raccogliendo un appello di Italia Nostra, fa approvare un decreto legge che fissa un termine perentorio per l’adozione del piano regolatore e sospende fino a quella data il rilascio di autorizzazioni a costruire, un atto inedito e coraggioso nella “capitale corrotta” dalla speculazione fondiaria.

Chi è Fiorentino Sullo? È una figura tragica ed emblematica della storia recente del nostro Paese. Nato a Paternopoli (Avellino) il 29 marzo 1921 è morto a Salerno il 3 luglio del 2000. Laureato in giurisprudenza e in lettere. Deputato per 41 anni, dalla I alla XI legislatura. È stato il più giovane deputato all’Assemblea costituente. Uno dei capi storici della Democrazia cristiana, fondatore della corrente di Base. Più volte sottosegretario, ministro dei Trasporti nel governo Tambroni del 1960, si dimise quando quel governo ottenne la fiducia con i voti determinanti del Movimento sociale italiano. Il suo nome resta però legato alla proposta di riforma urbanistica presentata quando era ministro dei Lavori pubblici nel quarto governo Fanfani (1962-1963) e nel successivo governo Leone (1963). Dopo essere stato sconfessato dalla Democrazia cristiana, che non condivideva il suo progetto di riforma urbanistica, fu ancora ministro per la Pubblica istruzione (1968-1969), per la Ricerca scientifica (1972) e per l’Attuazione delle regioni (1972 - 1973), ma lentamente e progressivamente emarginato.

Nel 1963, a determinare la sconfessione di Sullo da parte della Dc era stata la disposizione del suo disegno di legge che, per impedire la formazione di rendite parassitarie, imponeva ai comuni di acquisire, tramite esproprio, le aree fabbricabili, da cedere poi a chi costruisce gli alloggi a un prezzo maggiorato solo delle spese generali e del costo delle opere di urbanizzazione: un principio ripreso dall’esperienza di Paesi all’avanguardia nelle politiche territoriali (Paesi Bassi, Gran Bretagna, Svezia, eccetera). La sua proposta di riforma era nota da tempo. Nel luglio del 1962 la presidenza del Consiglio dei ministri aveva comunicato di condividerne i criteri informatori. Nei mesi successivi Sullo parlò pubblicamente del suo disegno di legge al convegno ideologico della Dc a San Pellegrino, poi a conclusione del dibattito sul bilancio del ministero dei Lavori pubblici e al IX congresso dell’istituto nazionale di Urbanistica, senza suscitare particolari reazioni.

Ma all’avvicinarsi delle elezioni politiche del 28 aprile 1963 esplose “lo scandalo urbanistico”: una furibonda campagna di stampa – orchestrata da Il Tempo di Roma seguito dal Messaggero, sostenuta dal mondo degli affari e dalla politica di destra – contro il ministro dei Lavori pubblici accusato di voler togliere la casa agli italiani. La Dc, terrorizzata, comunicò che il partito si dissociava dall’operato del suo ministro. Fu la damnatio memoriae di Fiorentino Sullo. Egli stesso racconta (nel libro Lo scandalo urbanistico) che “con un senso di sgomento e di smarrimento più che di curiosità, miei parenti stretti mi chiesero, anche essi, se volessi toglier loro davvero la casa”. Non gli fu permesso di spiegare in televisione “la realtà e la fantasia”.

Si consumò così una delle vicende più gravi della nostra storia recente, che ha avuto effetti di lunga durata, ha continuato nei decenni a proiettare un’ombra minacciosa e ha compromesso forse per sempre la possibilità di dotare il nostro paese di una moderna disciplina urbanistica. È stata definita la “sindrome Sullo”. Ancora oggi non mancano politici e amministratori che di fronte a scelte urbanistiche coraggiose si tirano indietro per non fare la fine di Fiorentino Sullo.

Una prima inquietante dimostrazione della forza di chi si opponeva alla riforma fu il tentato colpo di stato da parte del generale dei carabinieri Francesco De Lorenzo e altri, sollecitati da altissimi esponenti delle istituzioni, nell’estate del 1964 al tempo della formazione del secondo governo Moro (1964-1966). Nel dicembre dell’anno prima, nelle dichiarazioni programmatiche alla Camera, in occasione del suo primo governo (1963-1964), Moro dedicò molto spazio alla nuova legislazione sui suoli. Dichiarò, tra l’altro, che tra gli obiettivi da perseguire era compresa: “l’avocazione alla collettività nella misura massima possibile delle plusvalenze comunque determinatesi e la creazione di un meccanismo che eviti la formazione di nuove rendite per il futuro. Il governo ritiene che la strumentazione atta al raggiungimento dei fini della politica economica e sociale che coinvolgano l’utilizzazione del territorio debba trovare il suo fondamento nel regime pubblicistico del mercato della aree fabbricabili”. Moro, quindi, nel programma del suo primo governo aveva sostanzialmente seguito la linea di Sullo. Ma nel programma del suo secondo governo (luglio 1964), la riforma urbanistica è del tutto cancellata. Che era successo? Nella Storia e cronaca del centro-sinistra di Giuseppe Tamburrano si legge che “la nazionalizzazione dell’industria elettrica non suscitò le ostilità degli ambienti economici che incontrò invece la riforma urbanistica”. Lo stesso Tamburrano ricorda quanto scrisse Pietro Nenni nel suo diario a proposito degli interminabili incontri con la Dc nel luglio 1964: “La bomba scoppiò quando Moro disse, col suo solito tono distaccato, che il Presidente della Repubblica non avrebbe mai firmato una legge la quale comportasse l’esproprio generalizzato dei suoli urbani”. Nenni intravide un “balenar di sciabole” e indusse i socialisti a ripiegare.

Il recente volume di Mimmo Frassinelli, Il piano Solo, chiarisce definitivamente che, nell’estate del 1964 il tentativo di colpo di Stato ci fu e fu voluto dal Presidente della Repubblica Antonio Segni, e primi a stargli vicino furono Emilio Colombo, Cesare Merzagora e Guido Carli. Ricorda che negli accordi del luglio 1964 fra le delegazioni democristiana e socialista per la formazione del secondo governo Moro fu inserita una postilla segreta relativa alle ulteriori limitazioni alla riforma urbanistica, sottaciute nel documento ufficiale per evitare la bocciatura della direzione del Psi, dove serpeggiava lo scontento. Giolitti dichiarò infatti conclusa la sua esperienza ministeriale (“Non sono disposto a fare il beccamorto del mio piano né la foglia di fico di un centro-sinistra ormai svuotato di ogni forza politica”).

Un altro avvenimento, ancor più tragico e tenebroso, da ascrivere alla sindrome Sullo, furono le bombe di Milano e Roma del 12 dicembre1969, primo episodio della strategia della tensione che insanguinò l’Italia per quasi vent’anni. Le bombe del dicembre 1969 esplosero a poche settimane dall’imponente sciopero nazionale del 19 novembre per una nuova politica urbanistica. Attenti osservatori videro in essa il tentativo di ostacolare le ipotesi di riforma urbanistica e dell’intervento pubblico in edilizia che erano state imposte dalla forza dei movimenti di protesta operai e sindacali.

L’Appia Antica come l’Acropoli di Atene

Torniamo a Insolera e al piano regolatore di Roma adottato nel 1962. Tre anni dopo, nel dicembre 1965 il piano è definitivamente approvato con decreto del ministro dei Lavori pubblici Giacomo Mancini, altro protagonista da non dimenticare dell’urbanistica romana e nazionale. Quello del 1962 - 1965 non è un buon piano regolatore, e i suoi difetti – soprattutto l’ingiustificato dimensionamento delle previsioni – si sono moltiplicati con il passare degli anni, il susseguirsi di varianti, il ricorso ad ambigui piani particolareggiati, l’astuto lavorio di uffici e di portatori di interessi illegittimi. Ma di quel piano restano pure alcuni straordinari risultati in materia di miglioramento della qualità della vita, a partire dalla previsione di un vasto e diffuso sistema di verde pubblico formato da giardini storici (villa Ada, villa Chigi, villa Doria Pamphili) e da parti pregiate dell’agro romano (Castel Fusano, Castel Porziano, Veio, Valle dell’Aniene, Appia Antica).

La rigorosa tutela dell’Appia Antica e la sua destinazione a parco pubblico credo che sia una delle più belle pagine dell’urbanistica contemporanea. Nel decreto di approvazione del piano regolatore fu stabilito che, riguardando la tutela dell’Appia Antica “interessi preminenti dello Stato”, l’intero comprensorio da Porta San Sebastiano ai confini del Comune andava destinato a parco pubblico. Con il medesimo decreto furono eliminate le preesistenti previsioni edificatorie che consentivano la realizzazione di abitazioni di pregio per decine di migliaia di abitanti intorno all’Appia Antica. Mancini ignorò evidentemente le pressioni degli interessi colpiti – che facevano capo al Vaticano e al mondo dell’aristocrazia e della finanza – e, come aveva fatto Fiorentino Sullo, raccolse invece gli appelli di Italia Nostra, di scrittori e intellettuali.

Nato a Cosenza nel 1913, Giacomo Mancini è morto nella stessa città nel 2002. Avvocato, antifascista, deputato socialista per dieci legislature (1948 - 1992), ministro per i Lavori pubblici nel secondo e terzo governo Moro (1964 - 1968) e nel primo e secondo governo Rumor (1969). Fu segretario del Psi dal 1070 al 1976, prima di Bettino Craxi. Due volte sindaco di Cosenza (1985 - 1986 e 1993 - 2002). Di lui continua a prevalere un’immagine determinata dalla vasta ramificazione clientelare che sviluppò nella sua Calabria, ai danni del ruolo decisivo che svolse per il rinnovamento dell’urbanistica italiana negli anni del primo centro sinistra: dall’inchiesta su Agrigento alla cosiddetta legge-ponte (l’unica piccola riforma urbanistica approvata nell’Italia del dopoguerra), dagli standard urbanistici all’insediamento della commissione presieduta da Giulio De Marchi sulla difesa del suolo (remota capostipite della legge finalmente approvata nel 1989).

Nella difesa dell’Appia Antica Mancini era stato sensibile in particolare all’indignazione che Antonio Cederna (1921 - 1996), giornalista, scrittore, fondatore della moderna cultura ambientalista, esprimeva nei suoi articoli sul “Mondo”. Il suo primo articolo in difesa della regina viarum lo aveva scritto nel 1953. Un articolo celeberrimo, I gangster dell’Appia, al quale hanno fatto seguito almeno altri cento articoli, sullo stesso settimanale, sul Corriere della Sera, la Repubblica, “L’Espresso”. I gangster dell’Appia erano nobiluomini, nuovi ricchi, speculatori che stavano disseminando l’Appia Antica di residenze esclusive, costellando nuovi muri e recinzioni di antichi marmi rapinati alle tombe e alle rovine lasciate come denti cariati tra villa e villa. Invece, secondo Cederna,

«per tutta la sua lunghezza per un chilometro e più da una parte e dall’altra, la via Appia era un monumento unico da salvare religiosamente intatto, per la sua storia e per le sue leggende, per le sue rovine e per i suoi alberi, per la campagna e per il paesaggio, per la vista, la solitudine, il silenzio, per la sua luce, le sue albe e i suoi tramonti. [...] Andava salvata religiosamente perché da secoli gli uomini di talento di tutto il mondo l’avevano amata, descritta, dipinta, cantata, trasformandola in realtà fantastica, in momento dello spirito, creando un’opera d’arte di un’opera d’arte: la via Appia era intoccabile, come l’Acropoli di Atene.»

Dal 1965 l’Appia Antica dovrebbe essere salva. Certamente non è stata massacrata com’era previsto prima del decreto Mancini, anche se le norme di legge e i vincoli di tutela continuano a essere violati a opera di piccoli e grandi costruttori abusivi in combutta con poteri pubblici inaffidabili e corrotti. Un recente studio della soprintendenza archeologica ha accertato che quasi la metà degli edifici esistenti nel comprensorio dell’Appia Antica (pari a un milione e trecentomila metri cubi) sono stati costruiti abusivamente.

Ma anche se punteggiata da abusi e usi impropri, l’Appia Antica resta l’unica pausa – un grande settore di verde e di archeologia dai Castelli Romani al Campidoglio – che interrompe la sterminata conurbazione romana. Insomma, la cultura della tutela non è stata sconfitta. Insolera ricorda alcuni recenti, importanti risultati: in occasione del Giubileo del 2000, l’interramento del Grande raccordo anulare che dal 1951 tagliava in due l’Appia Antica; nel 1985 l’esproprio, e poi il restauro e l’apertura al pubblico, della villa dei Quintili, uno dei complessi archeologici più importanti di Roma. E dal 2008, al IV miglio dell’Appia Antica, in località Capo di Bove, in una villa espropriata dalla soprintendenza archeologica ha sede un centro di documentazione che conserva anche l’archivio di Antonio Cederna ceduto dalla famiglia allo Stato: un sublime luogo di studio e di meditazione, che per tanti versi assume il senso di un’alternativa alla rovina urbanistica e civile della capitale. Scrive Insolera: “la via Appia Antica potrà diventare la «colonna vertebrale» di una nuova struttura in grado di costruire, al di là degli errori e delle speculazioni di «Roma moderna», per i cittadini di questa città e di questa regione, per i turisti, per gli amanti dell’arte e della natura e per gli studiosi di tutto il mondo la vera «Roma futura»”.

La breve vita del progetto Fori

La stessa idea della storia collocata nel cuore della città anima il progetto Fori che doveva rappresentare il vertice «intra moenia» dell’Appia Antica. Ma se l’Appia Antica, nonostante tutto, è una realtà, il progetto Fori è viceversa la grande occasione perduta dell’urbanistica romana.

Era stato elaborato alla fine degli anni Settanta dal soprintendente Adriano La Regina riprendendo un’idea di Leonardo Benevolo. Prevedeva il ripristino del tessuto archeologico sottostante la via dei Fori Imperiali, attraverso la sutura della lacerazione prodotta nel cuore della città dallo sventramento degli anni Trenta. Allora, Benito Mussolini, per consentire che da Piazza Venezia si vedesse il Colosseo, e per formare uno scenario grandiosamente falsificato per la sfilata delle truppe, aveva fatto radere al suolo gli antichi quartieri, le chiese e i monumenti costruiti sopra i Fori e spianare un’intera collina, la Velia, uno dei colli di Roma. Migliaia di sventurati cittadini furono deportati in miserabili borgate, dando inizio all’ininterrotta tragedia della periferia romana.

Il progetto per il ripristino dei Fori e dell’area archeologica centrale fu sostenuto con entusiasmo e disponibilità culturale sorprendenti da Luigi Petroselli appena eletto sindaco nel 1979. Anzi, “il grigio funzionario di partito” venuto da Viterbo, “che sembrava un edile”, diventò, insieme ad Antonio Cederna, il protagonista del progetto Fori. Raccolse vasti e qualificati consensi fra gli studiosi e gli urbanisti in Italia e all’estero. Ma favorevoli furono soprattutto i cittadini di Roma, che parteciparono in massa a quelle straordinarie occasioni determinate dalla chiusura domenicale della via dei Fori e alle visite guidate ai monumenti archeologici. Con determinazione e rapidità inusitate, Petroselli mise mano fattivamente all’attuazione del progetto eliminando la via del Foro Romano, che da un secolo divideva il Campidoglio dal Foro Repubblicano, e congiungendo il Colosseo – sottratto all’indecorosa funzione di spartitraffico – all’Arco di Costantino e al tempio di Venere e Roma. Si realizzò allora la continuità dell’area archeologica, liberamente percorribile, dal Colosseo al Campidoglio. È forse il momento più alto per l’urbanistica romana contemporanea.

Ma durò poco. Il 7 ottobre 1981 Luigi Petroselli morì improvvisamente. Con lui morì il progetto Fori che, a mano a mano, è uscito dal novero delle cose possibili. La chiusura definitiva della strada alle automobili è stata continuamente rinviata. Eppure non è vero che l’eliminazione della via dei Fori determinerebbe insostenibili problemi di traffico. È vero il contrario. La chiusura, a Napoli, di piazza del Plebiscito – esperienza che fu pensata assumendo a modello proprio il progetto Fori – dimostra che risoluti interventi di pedonalizzazione riducono nettamente il traffico cittadino.

Che ne è oggi del progetto Fori? Dell’idea di rinnovare Roma attraverso l’archeologia non resta nulla. La pietra tombale è stata posta nel 2001 con un decreto di vincolo che ha reso intangibile la via dei Fori Imperiali. L’immagine di Roma formalmente consegnata al futuro è perciò quella degli anni Trenta, quella di Benito Mussolini, senza che ciò abbia determinato proteste da parte di esponenti della cultura democratica. Va aggiunto che il progetto Fori non è mai stato ufficialmente archiviato. Anzi, continua a essere evocato, intendendo però con lo stesso nome cose lontanissime dall’impostazione originaria. Come l’attraversamento della via dei Fori con passerelle pedonali che non disturbino il traffico automobilistico.

Quando morì Luigi Petroselli, Cederna fu il primo a capire che con lui era morto anche il progetto Fori, e scrisse su “Rinascita” dello “scandalo Petroselli”. Lo scandalo di un sindaco comunista che voleva mettere la storia e la cultura al posto dell'asfalto e delle automobili.

“Pianificar facendo”

Il piano regolatore 1962 - 65 è restato in funzione per 43 anni, fino al 2008 (sindaco Walter Veltroni), quando è stato finalmente approvato il nuovo piano, al quale si era messo mano nel 1993 (sindaco Francesco Rutelli).

Il mondo dell’urbanistica, e non solo dell’urbanistica, è profondamente cambiato. Dall’inizio degli anni Ottanta, ha avuto inizio una radicale mutazione del pensiero politico determinata dal neo-liberismo di Margaret Thatcher e Ronald Reagan che ha attraversato la Manica e l’Atlantico ed è dilagato in Europa. In Italia si afferma, variamente configurato o camuffato, anche nella cultura e nella prassi di gran parte della sinistra. Tutto ciò contribuisce ad alimentare l’insofferenza per la pianificazione, agevolando l’abusivismo e la sempre più ampia diffusione di norme che autorizzano a costruire in deroga alle regole urbanistiche. La deroga diventa la regola. La tolleranza per l’abusivismo contribuisce ad allontanare l’Italia dall’Europa. In 18 anni si susseguono tre provvedimenti di condono, uno ogni 9 anni: 1985 (governo Craxi, ministro Franco Nicolazzi); 1994 (1° governo Berlusconi, ministro Roberto Radice); 2003 (2° governo Berlusconi, ministri Pietro Lunardi e Giulio Tremonti). Siamo al 2012, sono passati 9 anni dall’ultimo condono e si sentono i primi annunci della nuova catastrofe.

Nel 2005, alla fine del secondo governo Berlusconi, la Camera dei deputati ha approvato (con il voto favorevole di 32 deputati del centro sinistra) il cosiddetto disegno di legge Lupi, dal nome del deputato di Forza Italia Maurizio Lupi, che intendeva rendere obbligatoria la preventiva intesa con la proprietà per qualsivoglia trasformazione urbanistica. La formula utilizzata era che gli atti definiti “autoritativi” dovevano essere sostituiti da atti “negoziali”. Siamo esattamente agli antipodi della proposta Sullo, alla cancellazione premeditata del governo pubblico del territorio sostituito dalla privatizzazione delle scelte urbanistiche. Per fortuna, l’anticipata conclusione della XIV legislatura non consentì l’approvazione della legge anche da parte del Senato. Poi si capì che la controriforma non ha bisogno di sistemazioni generali, è meglio l’invenzione di provvedimenti che volta per volta assecondano al meglio gli umori e gli interessi emergenti.

La scena è dominata dalla figura di Silvio Berlusconi. Nel dopoguerra nessun uomo politico importante – da De Gasperi a Togliatti, La Malfa, Fanfani, Berlinguer, Andreotti, Craxi, Prodi, D’Alema – si è interessato seriamente alle questioni del territorio. Abbiamo visto che Aldo Moro propose la riforma urbanistica nel 1964 ma fu costretto a fare subito marcia indietro per evitare un colpo di stato. L’eccezione è Berlusconi. “Padroni in casa nostra”, la sua micidiale parola d’ordine, ha fatto più danni alle città e al paesaggio italiani dei bombardamenti della seconda guerra mondiale. Ha firmato, finora (novembre 2011), due condoni edilizi, quello del 1994 e quello del 2003. Ha inventato il famigerato “piano casa” che nasce nel marzo del 2009 solleticando gli egoismi più profondi e popolari, radicati in tanta parte del nostro Paese (uno degli ultimi capitoli di Roma moderna è titolato: “Il nuovo millennio: dal «piano urbanistico» al «piano casa»). Doveva essere un decreto legge per consentire di ampliare fino al 30 per cento con semplici autodichiarazioni villette e piccole costruzioni:in sostanza, una specie di condono preventivo e generalizzato. Ma il decreto legge non fu approvato e fu sostituito da un’intesa con le Regioni che si impegnarono a produrre apposite leggi regionali. Si è aperta così una gara devastante (probabilmente vinta da Lazio e Campania) a chi fa peggio: aumento della cubatura fino al 50 per cento, trasformazione a fini residenziali anche di impianti industriali dovunque siano collocati.

La controriforma urbanistica si è affermata e consolidata in particolare a Roma e Milano. Se il primato dell’urbanistica contrattata (anche in termini temporali) spetta a Milano, che ha sostituito al piano la somma dei progetti (oggi Giuliano Pisapia sta cercando di correre ai ripari), Roma ha aggiunto al modello ambrosiano un ipocrita paravento non perdendo occasione per affermare la priorità della pianificazione tradizionale. Ipocrisia perfettamente definita dal motto “pianificar facendo” che contrassegna l’urbanistica capitolina da Rutelli a Veltroni ad Alemanno. La prima conseguenza di questa linea sono i nuovi istituti della compensazione e della perequazione, e la trasformazione delle previsioni urbanistiche in diritti incancellabili.

Il caso Tormarancia è un esempio eloquente delle novità. Si tratta di una grande tenuta di 220 ettari, miracolosamente sopravvissuta fra l’Appia Antica e l’Ardeatina, che secondo il piano regolatore 1962 - 65 doveva diventare un quartiere residenziale di due milioni di metri cubi (circa 20 mila abitanti). Ma il soprintendente archeologico Adriano La Regina vi appose un vincolo d’inedificabilità. Per non mettere in discussione i presunti diritti edificatori, il comune, invece di confermare l’uso agricolo, destinò l’area a verde pubblico spostando il peso insediativo in un’altra parte del territorio comunale, con la conseguenza che, per compensare i nuovi proprietari e per tener conto del diverso valore dei suoli, il peso insediativo passava da 2 a 5,2 milioni di metri cubi.

Accanto agli istituti della new wave urbanistica continua imperterrito l’abusivismo, vorace contrassegno dell’urbanistica romana, e primo fattore della dissipazione del territorio. Qui ricordiamo solo il numero spropositato di domande del condono 2003, oltre 85 mila, quasi la metà del totale nazionale, relative agli anni dal 1994 al 2003 quando in Campidoglio sedevano prima Francesco Rutelli, poi Walter Veltroni.

La conseguenza di vecchi e nuovi costumi edilizi è un’espansione senza fine. Il piano regolatore prevede una crescita di oltre il 30 per cento dell’attuale superficie urbanizzata, mentre la Germania e altri Paesi europei praticano severe politiche di contenimento delle nuove urbanizzazioni.

Sulla facciata del palazzo che ospita gli uffici dell’urbanistica capitolina è scolpita la frase di Mussolini che sintetizza il suo pensiero urbanistico: “La terza Roma si dilaterà sopra altri colli lungo le rive del fiume sacro sino alle spiagge del Tirreno”. Insolera commenta che forse delle tante profezie mussoliniane è l’unica che si è realizzata.

L’orchestra di piazza Vittorio

Il racconto di duecento anni di urbanistica romana dovrebbe indurre alla disperazione, la conclusione dovrebbe essere che i portatori degli interessi fondiari e speculativi hanno ormai vinto. Che le intimidazioni e le ormai remote trame eversive fomentate dalla sindrome Sullo degli anni Sessanta hanno raggiunto il proprio scopo.

Ma Italo Insolera non si arrende. Nella premessa scrive che “l’ignoranza è stata diligentemente perseguita dalla classe dirigente romana che in duecento anni ha dimostrato la propria fede incrollabile ed esclusiva nel profitto. Bisogna uscire dall’ignoranza se vogliamo che Roma sia nel futuro frutto di civiltà”. E il suo contributo all’ottimismo lo mette in pratica puntando sulla cultura e proponendo per Roma moderna una prima conclusione riferita all’Appia Antica intesa come “un auspicio per un futuro migliore”. Ma a questa aggiunge una seconda sorprendente conclusione: “Roma multietnica”. Si intitola così l’ultimo capitolo del libro che racconta della recente immigrazione. La capitale in effetti è sempre stata multietnica, da Adriano in poi gli imperatori provenivano dalle terre conquistate. Così anche le legioni che formarono nuovi nuclei familiari. E lo stesso è per la Chiesa cattolica, non tanto per i pontefici quanto per la presenza di religiosi provenienti da tutto il mondo.

Oggi a Roma vivono circa 500 mila immigrati regolari (il dieci per cento dei presenti in Italia) e probabilmente 100 mila clandestini, una popolazione come quella di Bologna. Continua a prevalere un atteggiamento di diffusa chiusura rispetto al quale si distinguono le istituzioni cattoliche, a cominciare dalla Caritas (fondata da monsignor Luigi Di Liegro) che dal 1971 opera fattivamente, animata dall’idea di una città più giusta, più umana e accogliente. Insolera racconta drammatici episodi generati dalla negazione dell’accoglienza: nel gennaio del 1991 la brutale espulsione degli immigrati che si erano insediati nel vecchio pastificio della Pantanella, a Porta Maggiore; l’inutile sgombero del cosiddetto hotel Africa, un capannone delle ferrovie di fronte alla stazione Tiburtina occupato da africani di ogni nazionalità, tornato vuoto e abbandonato. Tragica la sorte della popolazione Rom “sulla quale si scaricano i pregiudizi e il latente razzismo della popolazione romana” e per la quale “l’unica risposta ufficiale sembra limitarsi alla demolizione delle baracche e al loro trasferimento in altro luogo ugualmente desolato. Una spirale senza fine indegna di una città accogliente”. L’ultimo episodio del disumano trattamento cui sono sottoposti i Rom è il rogo che 6 febbraio del 2011 ha bruciato una baracca in un campo abusivo a Tor Fiscale, periferia est, provocando la morte di quattro fratellini fra gli undici e i quattro anni.

Ma nonostante tutto l’integrazione va avanti. Il quartiere di piazza Vittorio è diventato un simbolo della trasformazione: nato dopo il 1870 per ospitare la prima ondata migratoria, soprattutto dal Piemonte, necessaria al funzionamento della nuova capitale, cento anni dopo, invecchiate le case, il loro prezzo è sceso alla portata dei nuovi immigrati, in particolare i cinesi. Insolera osserva che almeno i piemontesi avevano costruito la loro piazza. Piazze ce n’erano in tutti i quartieri dell’espansione della capitale: Risorgimento, Cavour, Mazzini, Indipendenza, Re di Roma, Regina. “Nei quartieri della nuova ondata immigratoria dai paesi poveri non ci sono spazi da «sprecare»: tutto deve essere costruito, diventare rendita immobiliare. Piazze, giardini, parchi e servizi sociali restano un privilegio per i quartieri ricchi”.

Proprio da piazza Vittorio prende nome l’orchestra formata da musicisti abitanti nel quartiere provenienti da ogni parte del mondo: Argentina, Brasile, Cuba, Ecuador, India, Mali, Senegal, Stati Uniti, Tunisia e Ungheria. Un insieme di sensibilità, strumenti e suoni che “getta alle ortiche la difesa di ormai inservibili identità culturali e religiose. Meno male che a Roma c’è l’Orchestra di Piazza Vittorio”, scrive Insolera. E Roma moderna si conclude così: “l’arte e la cultura saranno gli elementi con cui potrà nascere la Roma del futuro”.

Uno noto critico di architettura italiano, recensendo su un supplemento culturale Architettura e Potere di Deyan Sudjic, notava come in fondo la storica tendenza dei progettisti ad un approccio molto adattabile ai ricchi e potenti non sia di per sé un fatto negativo: in fondo consente la realizzazione di opere il cui senso va ben oltre la caducità di chi le ha commissionate.

Difficile però applicare una prospettiva del genere al piano urbanistico, ancor meno se di pianificazione di area vasta si tratta, o addirittura di schemi di programmazione territoriale in cui lo spazio fisico è solo una delle componenti, e dove il processo dovrebbe sempre prevalere sul progetto. Non sempre è stato così, e forse a comprendere davvero i problemi che il governo dei processi territoriali ha incontrato e incontra in Italia servono nuove prospettive di osservazione e studio.

Risulta di particolare attualità la pubblicazione per i tipi Laterza di Esperienze di Governo del Territorio, a cura di Antonietta Mazzette (2011), in cui un gruppo eterogeneo di studiosi si confronta con l’approccio critico-storico al tema, declinato in vari contesti geografici e culturali italiani dal varo delle regioni a statuto ordinario ai nostri giorni. Particolari i punti di vista, e per vari motivi convergenti. Innanzitutto l’insieme dei saggi esprime il punto di vista della sociologia urbana, ma l’abbondanza di riferimenti alla pianificazione territoriale e urbanistica in senso stretto (sia sul versante dei processi esaminati che della documentazione) contribuisce a restituire un quadro e un giudizio, anche storico, davvero inatteso.

I saggi regionali toccano i casi della Lombardia (F. Zajczyk, F.Memo, S. Rancati) evoluta dalla cultura del riformismo delle origini al trionfo attuale della deregolamentazione ormai sedimentata da lustri; del Piemonte (S. Crivello, A. Mela) dove invece si evidenzia una certa virtuosa continuità, forse grazie alle particolari e complesse radici di un cultura territoriale locale, dall’area vasta alle strategie complesse per il rilancio socioeconomico del Capoluogo; poi il caso dell’Umbria, in particolare i programmi strategici per la città di Perugia (R. Segatori) che paradossalmente non parrebbero in grado di perseguire obiettivi davvero strategici; alle inefficienze nello sfruttamento del Fondi per le Aree Sottoutilizzate in Sicilia (M. Morello); infine alle speranze in un nuovo modello di sviluppo accese dal Piano Paesaggistico per la Sardegna (C. Tidore).

La portata del particolare intreccio fra il punto di vista del progetto e quello del processo si coglie però forse appieno confrontando questi contributi con lo sfondo messo a disposizione dal lungo saggio introduttivo della curatrice Antonietta Mazzette. Che prova a ricondurre sia i contributi sui casi regionali e locali, sia la varietà dei temi disciplinari e delle prospettive di osservazione, ad un’unica prospettiva storica e critica, ripercorrendo la vicenda (le vicende) della pianificazione spaziale in Italia, dei suoi aspetti culturali e multidisciplinari, di formazione degli operatori e confronto internazionale, in rapporto agli obiettivi di sviluppo e sociali delle varie fasi storiche e degli equilibri politici. Via via articolandola per aspetti via via propriamente urbani, territoriali, di programmazione complessa.

Da questo esame, che attinge a piene mani dalla pubblicistica degli architetti/urbanisti del nostro paese, ma esaminandola come si diceva in un’ottica esterna e quasi forzatamente problematica, emerge una visuale piuttosto inedita. In cui – forse è il caso di dire: era ora – il giudizio complessivo su vicende, casi, protagonisti, culture prevalenti e sconfitte, non sfiora mai la classica tesi del “piano tradito”, dei principi corretti che si scontrano con vari ostacoli nel tentativo di affermarsi. Anche se fosse solo questo, l’elemento di novità, vale da solo l’intera raccolta, le cui tesi a volta fanno tornare in mente in una nuova luce il vecchio adagio del planner suo malgrado William H. Whyte, quando scriveva “qualunque urbanista preferisce di gran lunga avere un buon piano, anziché un problema risolto”. Battuta un po’ cattivella, ma tutto sommato piena di verità, per chi vuole capire: Esperienze di Governo del Territorio col suo rileggere tante cose apparentemente note ci aiuta a farlo.

( questa recensione era stata scritta per il Giornale dell'Architettura; per motivi di spazio il Giornale l'ha poi drasticamente ridimensionata a un piccolo riquadro scheda a pag. 28 del numero di dicembre 2011, col titolo "Pianificazione spaziale in 5 regioni italiane")

Che strana età, la nostra. Ricordate quando i cantori neoconservatori della globalizzazione tecnica ed economico-finanziaria ci promettevano maggior benessere e prosperità per tutti? Ebbene, nessuna di quelle promesse si è, manco a dirlo, realizzata. Anzi, nel giro di un ventennio, le condizioni generali delle popolazioni del pianeta - anche nel nostro opulento Occidente capitalistico - sono di gran lunga peggiorate. Meno lavoro. Più disoccupazione. Generalizzata precarietà e sfruttamento. Aumento delle povertà, vecchie e nuove. Crescita delle disuguaglianze. E, come se non bastasse, un pianeta ridotto a una pattumiera globale: aria irrespirabile, acqua potabile che tende a scarseggiare, il suolo intriso di veleni, destinato, prima o poi, alla sterilità se la tendenza dell'odierno sviluppo capitalistico procederà ancora verso questa dissennata e catastrofica direzione.

Circa un miliardo di individui oggi vive con meno di un dollaro al giorno. Solo in America Latina ci sono duecento milioni di poveri. Mentre negli anni Sessanta l'insieme dei paesi più sviluppati era trenta volte più ricco dei pesi più poveri, oggi lo è di settanta, ottanta volte. Tanto per capirci: un bambino americano oggi consuma quello che consumano 422 suoi coetanei etiopi. Con buona pace dei guru neoliberali dell'economia finanziaria. E della dispotica tecnocrazia. I quali, non soddisfatti di aver contribuito - con i loro scientifici «saperi taumaturgici» - a determinare tutti questi drammatici problemi, continuano indifferentemente, come se niente fosse, a fornirci ricette per risolverli. Continuano a predisporre «strategie terapeutiche», diciamo così, per «malattie» da essi indotte. Strategie terapeutiche che non fanno altro che indurre altre «malattie».

Che i loro saperi «scientifici» si apprestano di nuovo a «guarire». Un circolo vizioso infernale, come si vede - un circolo che dovrebbe essere al più presto inceppato, spezzato, interrotto. O quantomeno, demistificato. È a questa sfida che sono chiamati oggi i saperi umanistici, come scrive Piero Bevilacqua nel libro da lui curato - A che serve la storia? I saperi umanistici alla prova della modernità, Donzelli, pp. 172, euro 22 - che contiene scritti di Vandana Shiva, Serge Latouche, Pietro Barcellona, Franco Cassano, Mario Alcaro, Raffaele Perrelli, Laura Marchetti, Edoardo Salzano.

Davvero strana, la nostra età. L'età della tecnica. E del dominio scientifico dell'economia finanziaria. Idolatriche divinità della nostra età secolarizzata. Che globalizza flussi finanziari e carte di credito, ma non sa - o non vuole - globalizzare i diritti, perfino quello più elementare alla vita. Altro che quell'epoca della biopolitica, che avrebbe dovuto farsi carico e prendersi cura della vita di ciascun individuo. Nel nostro mondo che, nell'assordante chiacchiericcio retorico, sostiene di aver globalizzato i diritti umani, ogni cinque secondi un bambino muore. Per fame e per malattie. Nell'epoca del dominio incontrastato della scienza, della tecnica e dell'economia - quella finanziaria soprattutto. Aveva ragione Lord Keynes: quando l'economia si converte interamente nella finanza - diceva - lo sviluppo di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò.

E oggi il «casinò» è diventato globale. È la delirante e tracotante egemonia di questa globalizzazione - dispensatrice di disuguaglianze, iniquità e nuove solitudini - che i saperi umanistici sono chiamati a demolire. Quei saperi - storia, letteratura, arte, filosofia e via dicendo - sempre più emarginati dalle strutture formative. In quanto ritenuti irrilevanti e inutili al potenziamento del funzionalismo tecno-economico.

Nessuna ingenua e puerile rinuncia ai saperi scientifici, evidentemente. Che, del resto, sarebbe impossibile. E, francamente, nemmeno auspicabile. Si tratta, invece, più realisticamente, di trarre fuori dai loro angusti specialismi le tecno-scienze. Soprattutto quelle economico-finanziarie. Le quali, interamente asservite al mito capitalistico dello sviluppo e della crescita illimitata, hanno perso di vista non solo lo sguardo d'insieme sulla società e sul mondo. Ma sono diventate servizievoli strumenti al servizio dei «famelici appetiti di breve periodo» - come osserva Piero Bevilacqua nella sua introduzione - delle classi dominanti.

Insomma, i saperi umanistici - proprio in virtù della loro odierna marginalità e tendenziale insignificanza nel dispositivo bellico delle tecnologie utilitaristiche della crescita - devono «chiedere conto», diciamo così. E lo devono chiedere a coloro che, nel delirio del loro dominio tecno-scientifico, non si sono accorti che la loro idea di sviluppo «ha cancellato - come scrive ancora Piero Bevilacqua - il ruolo della natura nel processo di produzione della ricchezza, trascinando il nostro pianeta sull'orlo del collasso». Cancellando le relazioni sociali. E consegnando ciascun individuo a una solitudine globale.

Dal magnete al quadrante al bidone. Bidone alla collettività, s’intende. Tra silenzi, manovre sotterranee, interessi enormi, sospetti inquietanti di importanti soci occulti, e una preoccupante assenza di dibattito, sta per terminare, con la prossima approvazione nel consiglio comunale di Venezia, il viaggio del nuovo piano di assetto del territorio destinato a cambiare il volto di una vasta area intorno a Tessera.

Un’irripetibile occasione di sviluppo, per alcuni. Un nuovo sacco di Mestre, più grave di quello degli anni ’60, per altri.

E’ da quasi mezzo secolo (esattamente dal 1963, varo del primo piano regolatore) che si parla, sempre invano, di dare senso e funzioni a quest’area, giustamente considerata strategica, della gronda lagunare. Da quando il celebre architetto Renzo Piano propose il “Magnete” che doveva essere il cuore dell’Expo che non fu mai fatta, a quando nacque la variante del “Quadrante Tessera” (raddoppio delle aree previste dal piano regolatore vigente), fino al piano diabolico (ovvero la quadruplicazione delle aree) del Pat di oggi. Diabolik City.

Un progetto che “spiana la strada alla speculazione” con un’operazione “peggiore di quella che fecero a Milano Ligresti e Berlusconi”, lo definisce l’urbanista Stefano Boato, che ha dedicato all’argomento un puntiglioso libriccino, “Tessera City”, appena uscito per i tipi di Corte del Fontego.

Il piano, che l’attuale giunta comunale ha sostanzialmente ereditato (peggiorandolo un poco) da quella precedente, viene giustificato dall’esigenza che il Comune di Venezia ha, specialmente in questi momenti drammatici per le finanze locali, di “fare cassa ad ogni costo”. Legittimo. Però c’è modo e modo. In questo caso il guadagno per le casse comunali non sembra paragonabile all’elevato prezzo da pagare: quello di favorire la speculazione, e senza alcun beneficio per la collettività.

Il Comune sta infatti per rendere edificabili a Tessera delle vaste aree agricole private, aumentandone in questo modo il valore di venti volte tanto. Un bel “regalo” ai privati che sono proprietari di quelle aree (la società dell’aeroporto e altri soci), perché avranno la possibilità di fare un’operazione immobiliare gigantesca e altamente redditizia. “Una delle più grandi speculazioni mai fatte in Italia”, accusa sempre l’urbanista Stefano Boato.

Più di due milioni di metri cubi di uffici, alberghi, centri direzionali e commerciali, e attrezzature sportive tra cui il miraggio dello stadio, sorgeranno in una zona a cavallo della bretella. Queste strutture, inizialmente previste dal piano regolatore a ovest della bretella, con una mossa astuta sono state ampliate di parecchio (quadruplicata l’area dello stadio) e spostate quasi tutte a est, in una zona che non solo è privata, che non solo è agricola -e quindi va resa edificabile- ma addirittura è una delle aree a massimo rischio idraulico di allagamenti di tutta la terraferma.

Alcuni tratti della zona centrale si trovano a 1 metro e 75 centimetri sotto il livello medio del mare.

E’ molto curioso che si proceda a questo bizzarro scambio di terreni, quando il Comune –se voleva - poteva (e può) tranquillamente costruire a Tessera lo stadio e le altre attrezzature pubbliche connesse, in un’area di 27,4 ettari che è di proprietà comunale, che già oggi è edificabile, e che è affiancata alla bretella.

Senza contare che inoltre, a solo mezzo chilometro di distanza, verso Dese, c’è un’altra grande area già urbanizzata e infrastrutturata, con le stesse destinazioni d’uso, e che è vuota e completamente inutilizzata.

Incomprensibile -e sospetto- è che si preferisca invece scambiare le aree comunali, già edificabili, con aree agricole private che non sono edificabili e per di più sono soggette a un grave rischio idraulico. Tutto questo non sembra affatto saggio.

Ripercorrendo l'ascesa, lo splendore e la rovina della banca Medici, la mostra «Denaro e bellezza», allestita a Firenze presso Palazzo Strozzi, rivela forti elementi di affinità con quello che sta accadendo ai nostri giorni

«Fare affari era l'imperativo del giorno. Ma come?» La domanda che ossessiona Goldman Sachs e J. P. Morgan non è nuova. Se la ponevano, sei secoli fa, anche i banchieri fiorentini come i Bardi, i Peruzzi o i Medici e la risposta non era molto diversa da quella trovata a Wall Street: «Questi uomini intrattenevano buoni rapporti con i governanti locali, ed erano nella posizione di negoziare prestiti a re e duchi che stentavano a tirare avanti con le sole entrate fiscali; prestiti che, il più delle volte erano rimborsati consentendo al prestatore fiorentino di riscuotere le tasse o i dazi doganali per conto del governo». Così scrive Tim Parks in uno dei testi introduttivi alla mostra Denaro e bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità allestita fino al 22 gennaio nel fiorentino Palazzo Strozzi (catalogo Giunti a cura dello stesso Tim Parks e della storica dell'arte Ludovica Sebregondi, pp. 281, euro 38). Una mostra nella quale il piccolo fiorino d'oro (non più grande di una monetina da 5 centesimi di euro) risplende in tutta la sua forza perfino accanto ai quadri più inquietanti di Botticelli, come La calunnia - estremamente utile, dunque, per farsi un'idea di quanto poco di nuovo ci sia nella crisi finanziaria attuale. (E del resto, a dimostrazione che le ricette dei banchieri funzionano a lungo, basti pensare che a Chicago, se infilate una moneta nel parchimetro, finisce direttamente nelle casse di J. P. Morgan, oggi e per i prossimi trent'anni).

Tesori nel cielo

Il denaro non è un problema moderno: duemilacinquecento anni fa, il greco Teognide rifletteva amaramente sull'unica virtù - areté - apprezzata dai suoi contemporanei: «Ecco la sola qualità che vale per la massa degli uomini: il denaro. A niente servirebbe tutto il resto: nemmeno essere saggi come il grande Radamanto, o saperne più di Sisifo». Di Sisifo, figlio di Eolo, si diceva che fosse l'unico ad essere riuscito a scendere all'Inferno e uscirne, grazie alle sue belle parole: il denaro, quindi, è più persuasivo di chi ha saputo infinocchiare perfino le potenze delle Tenebre.

Duemila anni fa, Orazio congratulava l'amico Iccio perché non cedeva alla «contagiosa febbre di guadagno» ma continuava a occuparsi di questioni scientifiche: «quali leggi moderino il mare, cosa regoli l'alternarsi delle stagioni, se le stelle si muovano errando spontaneamente o spinte da una forza esterna, quale oscurità ricopra il disco lunare e che cosa lo riporti alla luce, a cosa miri e quale sia la portata della discorde concordia delle cose». La lettera del poeta latino fa capire, però, che Iccio (amministratore dei beni siciliani di Agrippa) era molto tentato di abbandonare la via della sapienza per quella dell'accumulazione.

Qualche anno dopo, sull'altra sponda del Mediterraneo, un falegname errante diceva a chi si fermava ad ascoltarlo: «Non accumulate tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulate invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non rubano. (...) Nessuno può servire due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro: non potete servire a Dio e a Mammona» (Matteo 6,19).

Il cristianesimo nacque invitando i fedeli a ritirarsi dal mondo («accumulate invece tesori nel cielo») perché la fine dei tempi era imminente ma, dopo l'anno mille, era diventato la religione dei papi, dei re, dei mercanti e dei banchieri: la condanna dell'adorazione di Mammona sopravviveva solo nelle leggi che proibivano l'usura, cioè il prestito a interesse. Un merito non piccolo della mostra di Firenze è spiegare come questa proibizione fu aggirata senza troppe difficoltà: la nascita di una moneta forte come il fiorino (oro a 24 carati) permise di mascherare i crediti da operazioni di cambio.

Il meccanismo era relativamente semplice: un prestito di 1000 fiorini veniva concesso contro una lettera di cambio incassabile, supponiamo, a Londra, specificando un certo tasso di conversione in sterline. A Londra, novanta giorni dopo, la lettera veniva incassata in sterline e riconvertita in fiorini con un guadagno che corrispondeva a un «equo» interesse sulla somma prestata.

Molti altri trucchi erano possibili, per esempio i prestiti «a discrezione» in cui l'interesse veniva mascherato da «dono» spontaneo del debitore.

Global ante litteram

Il fiorino nacque nel 1252. «Durante tutto il Trecento e il Quattrocento», scrive Tim Parks, «i banchieri fiorentini sondarono i limiti di ciò che il denaro poteva procurare. Comprarono il consenso della Chiesa e del governo» perché il denaro che si spende per corrompere chi ha potere è sempre ben speso. Come osservava il mercante Francesco di Marco Datini (di cui c'è in mostra un bel ritratto opera del Trombetto) «i doni accecono gli occhi dei savi e mutano le parole dei giusti». E le figure accecate dal guadagno a Palazzo Strozzi non mancano di certo: il Prestatore su pegno (una miniatura dal libro d'ore del duca di Rohan), Sant'Antonio fa ritrovare nel forziere il cuore dell'usuraio (predella del Pesellino), Gli usurai e Il cambiavalute e sua moglie, di Marinus van Reymerswaele, L'avaro di Jan Provost.

L'attualità della mostra fiorentina si legge senza difficoltà: è la storia dell'ascesa, splendore e rovina della finanza, impersonata in questo caso dalla banca Medici. Fondata nel 1397 da Giovanni de' Medici, che si era fatto le ossa nell'istituto creato dal cugino Vieri, la banca ha un'ascesa spettacolare nella prima metà del Quattrocento sotto la direzione di Cosimo il Vecchio (il documento del 1435 che riorganizza la società è tra quelli esposti). La parola d'ordine è globalizzazione: ci sono filiali a Londra, a Bruges, a Ginevra, a Lione, a Roma, Napoli e Venezia. I profitti sono vertiginosi: il 10, il 20, perfino il 30 per cento l'anno nel caso di Roma, dove i Medici sono i tesorieri dei papi.

Per decenni, le cose vanno per il meglio: si prestano soldi ai re d'Inghilterra, ai principi tedeschi, a chiunque dia garanzie di poter pagare. E poi si entra in politica perché, come disse Lorenzo (poi soprannominato il Magnifico), «a Firenze si può mal vivere ricco sanza lo Stato». Ecco, lo Stato: la finanza può esistere solo se controlla le istituzioni, comprando o intimidendo i politici, costringendo la collettività a pagare per la sua megalomania (quadri, chiese e palazzi allora, grattacieli oggi) e, naturalmente, i suoi errori (i prestiti al re d'Inghilterra nel Quattrocento, alla Grecia oggi). Sarà proprio Lorenzo a portare la banca alla rovina, una fine che sarà però rinviata di decenni grazie al potere politico che era riuscito a procurarsi.

L'eredità dei banchieri

Sarà proprio il potere politico, alla fine, a portare al crack finanziario: Lorenzo muore e il figlio Piero pensa di poter sopravvivere al Savonarola e all'invasione francese del 1492. Si sbaglia, il palazzo viene distrutto, la famiglia esiliata. I Medici torneranno nel 1512, rovesciando la repubblica con l'aiuto del Vaticano ma la banca non risorgerà più nelle dimensioni di un tempo.

Goldman Sachs ha fatto profitti vertiginosi ai quattro angoli del mondo e li ha protetti mettendo i suoi uomini al ministero del Tesoro e alla Federal Reserve per decenni: se i banchieri fiorentini ci hanno lasciato in eredità Botticelli (peraltro un seguace di Savonarola) Wall Street lascia dietro di sé il disastro della Grecia, le case pignorate e i quartieri in rovina negli Stati Uniti.

Ha un titolo accattivante, il più recente libro di Giuseppe Prestipino: Diario di viaggio nelle città gramsciane (Edizioni Punto Rosso, pp. 548, euro 30). Sia chiaro, le «città gramsciane» a cui allude il titolo non sono Torino o Mosca, Vienna o Roma, per non parlare di Ales, Ghilarza o Turi. Le «città» cui allude Prestipino - riprendendo liberamente una tipologia di scansione storica proposta da Sorel - sono «la cité èconomique, la cité sociale, la cité savante e la cité morale», ovvero «disposizioni (o predisposizioni ) connaturate a tutti gli esseri umani» che hanno esercitato, esercitano e potranno esercitare in ogni diversa epoca storica un primato sul complesso delle attività sociali.

Economia, socialità, cultura, eticità: fattori logico-storici che secondo Prestipino Gramsci rimette in movimento, nel momento in cui interpreta il materialismo storico in modo del tutto non «ortodosso». Prestipino intende proseguire (con Gramsci, oltre Gramsci) questa opera di interpretazione del mondo storico-sociale, facendosi guidare dalla necessità di leggere una realtà sempre in movimento. E a partire dalla convinzione che il mondo contemporaneo sia sempre più caratterizzato dall'emergere del fattore culturale, accanto a cui i comunisti (le novità dell'analisi non mutano ma rafforzano, in Prestipino, la necessità di dirsi comunisti) dovranno riuscire ad affiancare la cité morale per poter dire di essere in vista della gramsciana «società regolata».

La rilettura di Gramsci così operata da Prestipino - che richiama alcune ricche suggestioni di Raymond Williams e incrocia sia pure parzialmente gli esiti di alcuni interpreti di Gramsci come Giuseppe Cospito e Fabio Frosini - sembra negare fondatezza all'impostazione marxista classica evocata dalla celebre (e un po' abusata) metafora struttura-sovrastruttura. È un salto d'analisi che pone molti interrogativi, non perché vi siano «ortodossie» da difendere, ma perché la formazione economico-sociale contemporanea (richiamo la categoria cara a un autore al quale Prestipino resta, nonostante tutto, legato per ragioni biografico-affettive: Emilio Sereni) mi sembra che veda più che mai centrale il primato dell'economico, anche se sempre più in simbiosi con la cité savante. Ma tale simbiosi quale segno di fondo ha? Per l'autore la situazione attuale è soprattutto dominata dal «moderno conoscere» o «moderna razionalità realizzatrice», a cui opporre la conoscenza come bene comune. Ma ciò non può avvenire che partendo dalla consapevolezza dell'odierna «determinazione in prima istanza» della cité èconomique - pena cadere in una variante dell'analisi, pur per molti versi affascinante, di Severino. Prestipino intravede piuttosto una «città futura» non che abolisca il presente o il passato (si tratta di superare, non di abolire), ma che sposi il presente dominato dal moderno conoscere con l'emergere di finalità etiche condivise. In ogni caso, gramscianamente, la distinzione tra le diverse cité - ricorda l'autore - è «metodica, non organica», la visione della realtà resta dialettica. Una ipotetica futura società comunista segnerà l'inizio di un'epoca storica che (riprendendo Dussel) Prestipino denomina «transmoderna». In essa non dovrà più prevalere il primato della statualità, neanche dello Stato integrale nel significato gramsciano: occorrono idee e anche termini nuovi - afferma l'autore - proponendo un nuovo orizzonte «cosmopolitico» all'altezza dei tempi .Non è quello di Prestipino - come si vede - tanto un libro su Gramsci, quanto di un libro che utilizza ampiamente Gramsci per una riflessione sulla storia della filosofia e sulla storia tout court, ma soprattuttosulla politica, ovvero sulla società attuale e sulle sue prospettive.

Le riflessioni sul mondo odierno (nei suoi aspetti economici, politici, sociali) si intrecciano con riflessioni sulla filosofia (da Leonardo a Vico a Hegel), sul marxismo (da Marx a Rosa Luxemburg, la più citata e, sembra di capire, la più amata, insieme a Gramsci), su alcuni dei maggiori intellettuali contemporanei (Garin, Luporini), sulla storia del comunismo (Stalin e lo stalinismo; la felice anomalia rappresentata dal Pci e poi la sua «morte»). Il tutto condito da ricordi autobiografici: poiché quella di Prestipino è una lunga e degna vita tutta spesa «da una parte della barricata», dalla giovinezza in Libia (dove maturò una precoce coscienza antifascista e poi comunista) alle dure battaglie del dopoguerra nella natia Sicilia e alla lunga militanza nel Pci, infine all'approdo nel Prc, dopo la sciagurata «svolta» occhettiana su cui l'autore torna - nella seconda parte del libro - indagandone le cause remote e prossime.

Filosofia, economia, politica, epistemologia, autobiografia. Non è facile riassumere i tanti motivi che nel libro si intersecano e si rincorrono, né semplificare la ricchezza e complessità di un'opera a tratti vulcanica. Quello che va segnalato è come quello dell'autore sia, nonostante l'età avanzata, un pensiero giovane perché mai nostalgico, mai rivolto al passato, sempre teso a «tradurre» le idee ed esperienze dei decenni trascorsi nelle forme nuove che devono assumere per avere efficacia oggi. L'importante è guardare avanti, senza però tradire la nostra storia e le nostre idee - ci dice Prestipino. E di un esempio come questo abbiamo davvero bisogno.

Occhi aperti su Venezia. Questo il titolo della collana di otto libricini (36 pag e 3euro l’uno) che la casa editrice lagunare Corte del Fontego, nata nel 2005, ha pensato semplicemente «per spiegare come “funziona” la città di oggi». Il problema, però, è che la Venezia di oggi è una città complicata. Difficile. In pericolo.

«Nella più recente edizione della guida di viaggi Lonley Planet, si dice che alcuni veneziani chiamano “Benetton Bridge” il ponte di Calatrava, perché Benetton ne ha in parte finanziato la costruzione, nella speranza di costruire un centro commerciale nell’edificio delle Ferrovie dello Stato». Questo passo del libricino Benettown, un ventennio di mecenatismo a cura di Paola Somma è significativo per capire tutto il lavoro della casa editrice.

E così, se da un lato l’inchiesta su quella che Paola Somma chiama «la fortunata conquista di Venezia da parte del gruppo Benetton», ci spiega come una città sia ormai consegnata nelle mani della famiglia più potente del nordest, il tutto a partire dall’acquisto nel 1992 tramite la finanziaria Edizioni Property dell’isolato del Ridotto, alle spalle di piazza San Marco, «che comprende il teatro del Ridotto, il cinema San Marco e una serie di negozi e uffici», Edoardo Salzano, urbanista e fondatore di eddyburg.it, incentra il suo lavoro, Lo scandalo del Lido, per spiegare «cultura e affari, turismo e cemento nell’isola di Aschenbach».

Come denuncia l’urbanista nell’incipit del suo lavoro, «ciò che sta accadendo al Lido di Venezia è l’illustrazione di un modello di uso del territorio e di sviamento dei poteri tipico dell’Italia d’oggi». E così il «connubio» tra cultura e affari è “cementato” dal turismo e dall’immobiliarsimo.

Tutto ebbe inizio, spiega Salzano, all’epoca della prima giunta Cacciari, anno 1993. Allora venne nominato assessore alla cultura e al turismo Gianfranco Mossetto, docente di scienza delle finanze a Ca’ Foscari, e «più tardi (2003) fondatore, e da allora presidente, della società di gestione finanziaria EstCapital».

E di Mossetto, Salzano ricorda ancora una battuta che pose ai suoi collaboratori: «quanto rende al metro quadro un museo?». Alla fine, due protocolli d’intesa e una serie di ordinanze del governo Berlusconi dopo, sommando il tutto all’ingresso nel business di società immobiliari e finanziarie, quello che resta del Lido è l’immagine della «pervasività» dei poteri «che spingono a trasformare la cultura in cemento».

Con “Occhi aperti su Venezia”, Marina Zanazzo, direttrice editoriale, e Lidia Fersuoch, direttrice scientifica, hanno creato un piccolo-grande caso cittadino. Un caso diviso in colori: linea rossa, che «propone argomenti veneziani critici, anche di stringente attualità, trattati da voci fuori dal coro»; linea verde, che «raccoglie brevi saggi dedicati alle acque veneziane», linea blu, «relativa ad architettura, urbanistica, storia, archeologia».

A Lo scandalo del Lido e a Benettown si affiancano altri sei lavori: La misura dell’acqua (di Paolo Pirozzoli) che indaga sul «come e perché varia il livello marino e quali le ripercussioni su Venezia»; La Laguna di Venezia (di Edoardo Salzano) che spiega il governo di quello che definisce «un sistema complesso»; Fermare l’onda (di Giannandrea Mancini), un excursus sulla «secolare battaglia contro il moto ondoso». Quindi Fronte del Porto e Costruire sull’acqua, (due lavori di Franco Mancuso), il primo per ripercorrere la vicenda urbanistica di Marghera, il secondo per spiegare «le sorprendenti soluzioni adottate per far nascere Venezia». Infine, Sotto Venezia (di Luigi Fozzati), breve saggio sull’archeologia «dimenticata». Otto libricini, quindi, per un unico progetto: aprire gli occhi su “quello che resta” del gioiello italiano. Un gioiello, stando alle inchieste di Paola Somma ed Edoardo Salzano, sempre più privato.

Un libro molto particolare. Nasce da una discussione pubblica tra filosofi, critici d'arte, sociologi per poi essere arricchito dei testi che costituiscono il background teorico a cui fanno riferimento i partecipanti all'incontro. La sua discontinuità, tuttavia, non è un limite, bensì uno dei motivi di interesse. Già il titolo - Il capitalismo divino, Mimesis edizioni, pp. 160, euro 14 - illustra bene il campo tematico su cui collocarlo, anche se l'andamento della discussione provoca sicuramente una sensazione di smarrimento.

L'incontro, che ha visto partecipare Borys Groys, Jochem Hörisch, Thomas Macho, Peter Sloterdijk e Peter Weibel, si è infatti consumato nel 2004, cioè quando nulla faceva supporre che da lì a tre anni la slavina dei mutui subprime e la valanga del cosiddetto «debito sovrano» avrebbero sollevato dubbi sulla fragilità del capitalismo. E tuttavia molti degli elementi che emergono dalla riflessione - e dai testi posti in appendice di Walter Benjamin, Max Weber, Friderich Engels e Slavoj Zizek - sono di stringente attualità.

Il punto di partenza è che il capitalismo è diventato una religione. Il riferimento è a un saggio scritto da Walter Benjamin nel 1921 - è ora riproposta con una nuova traduzione dagli editori Riuniti, che hanno cominciato a pubblicare gli scritti politici del teorico tedesco in una edizione curata da Massimo Palma -, dove veniva affermato che il capitalismo serve a dare risposta, così come accadeva in passato dalla religioni, alle inquietudini, le ansie e sofferenze degli uomini e donne. Benjamin, tuttavia, avvertiva che è una religione culturale, che non ha dogmi da proporre come precetti, ma appunto risposte mutevoli nel tempo e nello spazio. Rispetto a questa «provocazione», gli autori spesso scelgono la strada più mondana della constatazione che il capitalismo si presenta come una verità rivelata, che non tollera dubbi o contestazioni.

Posta questa constatazione, l'andamento della discussione presenta invece motivi di attualità. A sgomberare il campo da possibili fraintendimenti è Peter Sloderdijk. Il filosofo tedesco sostiene che una forma di capitalismo ha esaurito la sua spinta propulsiva, domandandosi quale sarà l'etica che accompagnerà la sua evoluzione. Sicuramente non quella protestante, o cristiana, evocando il celebre saggio di Max Werner, bensì quelle - il plurale è d'obbligo - che vengono dalle religioni «orientali». Il taoismo, lo shintoismo, il confucianesimo, si potrebbe aggiungere, perché stabiliscono l'immanenza di una visione delle relazioni sociali fondate sull'armonia e sull'assenza di conflitti, elementi garantiti da forme statuali «maternalistiche», che si prendono cioè cura non solo dei corpi ma anche delle anime dei sudditi.

Lo Stato, cacciato dalla porta dalle ideologia liberale occidentale, rientra dalla finestra con il preciso ruolo, direbbe Michael Foucault, pastorale. Da questo punto di vista, il capitalismo contemporaneo può fare a meno della democrazia - in fondo è questa la caratteristica principale del cosiddetto neoliberismo - ma non dello Stato, che deve regolare la vita sociale per garantire armonia, ma anche per dare il contesto in cui fornire risposte alle domande, le inquietudini, le sofferenze umani. Così se il capitalismo è una religione, lo stato è il suo tempio, meglio la sua chiesa.

Con questa tesi, Peter Sloderdijk vuol porre il tema della superiorità del modello «orientale» di capitalismo rispetto a quello renano o anglosassone. Non solo perché la Cina, Singapore, l'India hanno tassi di crescita di gran lunga superiore, ma perché sono paesi che hanno elaborato sistemi politici «originali», cioè capaci di cancellare quell'ostacolo - la democrazia - che impedisce al capitalismo di continuare a svilupparsi. Ma, altro aspetto interessante, è che molti paesi occidentali hanno cominciato a riprodurre, e quindi ad adattare, quel modello sociale e politico. Il sarcasmo sul berlusconismo o sulla destra statunitense non è certo dovuto alla conclamata mancanza di statura politica di Silvio Berlusconi o George W. Bush, bensì al fatto che non potevano e possono liquidare così facilmente la democrazia parlamentare. E non a caso che Sloderdijk inviti a guardare con attenzione a quanto sta accadendo nella Russia di Putin.

Questa la provocazione, generalmente accolta dagli altri relatori al seminario riprodotto dal volume. Ma ogni intervento aggiunge elementi che meritano attenzione. Ad esempio quando viene indicato nei finanziari i monaci della religione capitalistica, che non invita più alla parsimonia come invece facevano i calvinisti, ma al godimento. Ma i finanzieri non sono uomini e donne edonisti. A modo loro invitano solo a seguire precetti, regole che possono garantire l'armonia e il superamento dello stato di necessità in cui tutti siamo condannati a vivere. I mercanti, i finanzieri e il consumo sono quindi monaci e regole di vita che consentano non la felicità, bensì la possibilità di vivere in armonia. Il capitalismo si è dunque «culturalizzato», perché quando vende merci sta in realtà proponendo stili di vita, modelli di relazioni sociali, mentre l'andamento della borsa valori è il barometro delle condizioni esistenziali dei singoli. Insomma, l'economia del brand, assieme al potere performativo della finanza, sono gli elementi costitutivi del capitalismo come religione.

Le tesi espresse nel volume andrebbero contestualizzate alla situazione attuale, dove c'è poco spazio, almeno in Europa e negli Stati Uniti, per l'armonia. Ma è indubbio che il nesso tra democrazia e capitalismo è sempre più tenue, così come è evidente che la finanza continua a svolgere il ruolo di governo non solo dell'economia ma della vita sociale. E fa molto sorridere sentire commentatori della vita politica italiana - ma accade lo stesso in Francia, Germania e Regno Unito - che un liberale è cosa diversa da un liberista. Nel capitalismo divino i chierici della finanza parlano infatti lo stesso idioma. Possono cambiare gli accenti, ma tra Mario Monti e Jean-Claude Trichet non c'è molta differenza. Entrambi sono custodi del «capitalismo come religione» e hanno una concezione della democrazia che farebbe arrossire Adam Smith, che non è certo secondo a nessuno per aver esaltato la mano invisibile del mercato.

Una sfida capitale per la filosofia politica è quella del dileguarsi di un affidabile "noi". Il soggetto collettivo subisce attacchi, deformazioni, rimescolamenti che lo sottopongono a una geografia variabile. Diventa così più difficile costruire un edificio concettuale liberaldemocratico con solide basi e capace di ospitare progetti politici di lunga durata. La tendenza del noi a liquefarsi è un effetto dell´accelerazione della vita sociale e della caduta di barriere, come le distanze, le abitudini e i ritmi regolari di crescita economica, tutti fattori che davano forza e stabilità a diversi "noi": la nazione, la cittadinanza, la classe, la fabbrica, il posto fisso, il gruppo politico, la città, la parrocchia. Il vacillare di tanti pilastri smentisce i teorici che ritengono il liberalismo dottrina pura e cristallina, immunizzata rispetto alla storia.

Seguiamo allora lo sforzo di due dei più maturi e affermati filosofi italiani per rinnovare l´attrezzatura concettuale: Salvatore Veca con le sue quattro lezioni in L´idea di incompletezza, (Feltrinelli) – e Alessandro Ferrara con il suo saggio Democrazia e apertura (Bruno Mondadori). La sfida è il pluralismo radicale che rende difficile anche parlare di "bene comune". "Comune" a chi? A noi italiani? europei? precari? indignati? umanità tutta, boat-people compresi? o solo padani?

Omnia mutantur, tutto si trasforma – seguiamo Veca sotto l´insegna delle Metamorfosi di Ovidio –, ma non è solo la realtà cangiante intorno a "noi" a dare spettacolo; la parte più sorprendente del cambiamento, quella che fa talvolta inorridire è il mutamento del "noi", che trasfigura miracolosamente gli esseri, come nei miti umano e divino, animale e vegetale, l´uno nell´altro. Riprendiamo allora, con Veca, la lezione di Isaiah Berlin sulla pluralità dei valori e sui «diversi modi di essere umani» e facciamocene una ragione anche in questa parte del mondo, l´Europa, che ha di più protetto una certa "purezza"nelle nicchie nazionali. La purezza, sostiene il pensiero pluralista, si addice all´olio d´oliva, ma non alle faccende sociali, mentre l´orizzonte dell´umanità è meticcio e creolo. Il che ci appare quasi ovvio se guardiamo al passato: chi può negare oggi i benefici dell´immigrazione dal Sud e l´apporto che ha dato al miracolo italiano e all´identità nazionale? Eppure all´epoca a Torino negli annunci immobiliari si leggeva: «non si affitta a meridionali». Troviamo naturale non riconoscere per il presente e il futuro quello che riconosciamo per il passato. Non ci dispiace vedere rappresentate le variazioni del noi, più o meno drammatiche e foriere di tanti successi, che avvennero allora, ma quelle di oggi fanno male. Così un giorno (tra vent´anni?) ci racconteremo ridendo la Lega e la sua retorica segregazionista. E che cosa diremo del milione di romeni che intanto saranno diventati italiani?

Anche per questo il filosofo "colleziona storie" che documentano il nostro stato di perenne provvisorietà e se ne vale per esplorare nuove connessioni, nel tentativo di trovare in questa contingenza le risorse per alimentare empatia: siamo intrinsecamente "insaturi" e la nostra identità è fatta di cose prese a prestito. Lo sguardo sul passato aiuta a metabolizzare il presente indigesto.

Fin qui Veca, mentre il percorso filosofico di Ferrara è più direttamente rivolto alla ricerca dell´ethos democratico per un "noi" ad assetto instabile. Abbiamo imparato che la democrazia vive non solo di regole ma anche di uno spirito sottostante e che di questo spirito fa parte una certa passione per il rispetto reciproco, per l´individualità, per l´eguaglianza. Tanto bastava in una situazione coerente del "noi", ma adesso la grande debolezza delle nostre lealtà e l´affacciarsi di tante altre possibili lealtà al supermarket del mondo globale con le sue continue offerte speciali, di confessioni e miscredenze, missioni e appartenenze a scadenza breve, la passione che serve è quella per l'"apertura", la disponibilità al nuovo, la prontezza nel fronteggiare l´inatteso.

Quanti anni (o generazioni) ci sono voluti per sviluppare lealtà a una religione, a un progetto politico, a un sindacato, a un movimento? Non abbiamo più tanto tempo. Non possiamo permetterci lunghe fasi di navigazione col pilota automatico, serve la capacità di esplorare nuove possibilità, di considerare alternative cognitive e pratiche diverse da quelle cui siamo abituati. L´«infrastruttura affettiva ed emotiva della democrazia», che Ferrara va cercando, ha bisogno di questa dote, che fa parte da sempre del corredo umano, ma può addormentarsi per lunghi cicli narcolettici. Serve allora chi cerca di risvegliare l´attitudine a gestire l´imprevisto, come certi esercizi muscolari, più utili se fatti su una piattaforma traballante che su un pavimento immobile. La società aperta ha bisogno di quei muscoli che sono le menti allenate al pluralismo radicale, che è diventato il nostro orizzonte quotidiano.

Lo svizzero Hans Bernoulli (1876-1959) - architetto, urbanista, docente, politico, umanista e poeta - è stato un maestro indiscusso per quanti tra gli anni 50 e i 70 si confrontavano con i problemi della città. Nel suo “La città e il suolo urbano” (a suo tempo famoso e oggi riedito), ripercorre le alterne vicende della proprietà dei terreni dal primo Medio Evo ai suoi tempi. Edoardo Salzano nella prefazione alla nuova edizione riprende il tema, lo porta avanti fino a oggi e lo proietta verso il domani. Ne parlo perché condivido con loro la convinzione che stia ancora lì uno dei nostri maggiori problemi.

Bernoulli ricorda che la proprietà delle terre apparteneva in origine al signore feudale, che dava in concessione i singoli appezzamenti ai suoi sudditi perché le coltivassero e ci si costruissero sopra le case, e che decideva il disegno originario dei nuovi abitati da cui ebbe poi origine l’“Europa dei Comuni”. Attraverso i secoli le situazioni si sono ovviamente differenziate. Il punto di svolta arrivò con la rivoluzione francese che - nell’abolire la proprietà fondiaria insieme agli altri privilegi di nobili e clero - non si curò di riportare i terreni a forme di proprietà comunale ma ne fece beni da dare in possesso diretto ai singoli cittadini.

Da questa privatizzazione frazionata dei suoli sono derivati via via quei processi di speculazione venale che hanno così negativamente influenzato le nuove espansioni urbane, ostacolandone tra l’altro disegni ispirati a concezioni unitarie. Da lì le reazioni sporadiche intese a orientare le nuove edificazioni verso terreni di proprietà comunale per recuperarne il controllo (vedi l’esperienza delle città-giardino agli inizi del XX Secolo). Ma sono state eccezioni. Di norma - e nelle condizioni italiane in particolare, e soprattutto dagli anni 50 del secolo scorso in avanti - è stata in larga misura la speculazione sulle aree a determinare gli sviluppi caotici di tante città.

Il liberal-socialista Bernoulli era un convinto sostenitore della necessità che la proprietà dei terreni tornasse in mano pubblica così da poter mantenere il controllo sugli sviluppi urbani futuri, e che essi dovessero poi esser ceduti in uso ai cittadini (suo lo slogan «il suolo alla collettività, le case ai privati») attraverso il “diritto di superficie”: forma di concessione che riserva al Comune il diritto di rientrare in possesso dei suoli a scadenze prestabilite (99 anni secondo la prassi britannica) incluse le costruzioni tirate su nel frattempo dai concessionari, da indennizzare tenendo conto del relativo degrado.

Posizioni, a rifletterci, più avanzate rispetto alle sinistre attuali... E venendo all’Italia: la nostra Costituzione (art.42) prevede l’esproprio dei terreni «per motivi di interesse generale» e «salvo indennizzo»: ma le interpretazioni della Corte Costituzionale hanno poi portato a far coincidere gli indennizzi con i valori di mercato continuamente crescenti dei suoli, rendendo così le espropriazioni su vasta scala proibitive per i Comuni. Ne è seguita una sempre maggiore difficoltà di disciplinare attraverso i Piani Regolatori crescite e trasformazioni urbane, lasciate in balìa della speculazione fondiaria da un lato e dall’abusivismo edilizio dall’altro. Situazione dalla quale è poi conseguita una sorta di svolta-a-destra attraverso il ricorso all’“urbanistica contrattata”: lasciare cioè che sia la proprietà fondiaria stessa a fare i progetti e a “contrattarne” poi con il Comune la realizzazione. Non più dunque la collettività che si dà il piano secondo i bisogni dei cittadini, ma lo sviluppo urbano deciso dai proprietari dei suoli secondo i propri interessi.

Questo il “rito ambrosiano” adottato dal Sindaco Albertini a Milano. Da lì il tentativo berlusconiano (fortunatamente bloccato dalla fine della legislatura) di varare una “legge Lupi” espressamente basata sulla contrattazione. E da lì la proposta di segno opposto degli “amici di Eddyburg” di cui parla Salzano nella sua prefazione a Bernoulli (www. eddyburg. it è il sito internet) di una legge urbanistica basata invece sulla concezione del territorio come “bene comune” e sull’assunzione del suo governo da parte delle collettività locali di cittadini attraverso gli strumenti della “democrazia partecipata” (di cui parla Massimiliano Smeriglio nel suo saggio recente sulla “Città comune”, ed. DeriveApprodi).

Vedete che siamo di fronte a problemi coi quali le sinistre non potranno fare a meno di confrontarsi nell’immediato futuro. Bisognerà riparlarne... Mi limito qui ad anticiparne due aspetti.

Il primo è quello dei “limiti”. Dello smetterla una volta per tutte di costruire sulle aree rimaste ancora libere. Valga il vero: dalla seconda guerra mondiale la superficie coltivabile del nostro paese s’è ridotta a meno della metà proprio a causa delle espansioni edilizie, che da gran tempo non sono più motivate da aumenti di popolazione né dal bisogno di case (ce ne sono anche troppe, sono i quattrini per andarci a abitare che mancano a tanti). Ma è anche per quel che s’è detto e ridetto degli equilibri idrogeologici da salvaguardare - e in vista dei rischi di inaridimento crescenti, e per la necessità di sopperire ai bisogni primari nel caso le cose volgessero al peggio - che non possiamo assolutamente permetterci di occupare altri spazi con le costruzioni. Il che vuol dire arrivare a metterci in testa - e darci come regola invalicabile, salvo eccezioni rarissime - che d’ora in avanti le trasformazioni urbane andranno fatte soltanto “ricostruendo sul già costruito”. Cosa non solo possibile ma conveniente, oltreché necessaria per fronteggiare il degrado delle città e per adeguarne spazi e strutture alle sempre nuove esigenze.

Il secondo aspetto ha a che fare con l’estetica urbana. E prende le mosse dalla domanda: ma com’è che lungo tutta la storia re e imperatori, papi e boiardi assortiti hanno lasciato ai posteri memoria di sé attraverso splendide architetture, abbellimenti spettacolari di paesi e città (e oggi ancora c’è chi maschera le proprie speculazioni immobiliari dietro le prestigiose architetture di un Renzo Piano) mentre storicamente è tanto più raro il caso che siano le comunità popolari a creare bellezza? Questione di soldi, d’accordo, e di diversa cultura, e di chi sta sopra e chi sotto... Ma è mai possibile che oggi ancora non ci sia modo, a livello di amministrazioni democratiche locali, di darsi come obiettivo primario l’armonia degli spazi di vita?

Mi piacerebbe, ripeto, che una qualche risposta a queste domande potesse venire da una riflessione della sinistra sui temi proposti da Bernoulli, Salzano e gli “amici di Eddyburg”. Anche perché - tra i modi possibili per uscire dal vicolo cieco della logica economicistica dalla quale per due secoli e passa ci siamo lasciati così sciaguratamente coinvolgere - questo del darci la dimensione umana e l’estetica cittadina come obiettivi primari per il governo municipale-diretto di cui parla Smeriglio potrà essere tra i più gratificanti. Certo è tra quelli meno esplorati finora.

Vedete che per il dopo-vacanze problemi non ce ne mancano.

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