Cinquant'anni che formarono il proletariato
Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, capolavoro di Edward P. Thompson, “L'analisi del mezzo secolo fra il 1780 e il 1832 illumina «l'intervento attivo dei lavoratori al farsi della storia”. Da il manifesto del 1 settembre 2005
In apparenza, anno migliore non avrebbe potuto scegliere il Saggiatore per pubblicare in italiano il capolavoro di Edward P. Thompson: il 1968. I due tomi di Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra si presentavano in solido cofanetto e trattavano di classe operaia, un argomento, allora, di una certa risonanza; ma il prezzo di copertina era proporzionale al numero delle pagine e all'eleganza dell'edizione. Il libro faticò a farsi largo nella selva di tascabili del tempo, tanto che nella seconda metà degli anni `70 finì nelle rimanenze scontate. E poi, perché l'Inghilterra? Non erano la Francia e gli Usa al centro del Sessantotto? La traiettoria operaia della «prima nazione industriale» appariva lontana rispetto ai canoni dello sviluppo del proletariato nell'Europa continentale, così com'era spiegato dai manuali scolastici. Scrive Thompson nella prefazione: «Io cerco di riscattare dall'enorme condiscendenza dei posteri il calzettaio povero, il cimatore luddista, il tessitore a mano `antidiluviano', l'artigiano e operaio specializzato `utopista' e perfino il seguace deluso di Joanna Southcott», domestica campagnola e profetessa di centomila diseredati. L'opera è «un gruppo di studi su argomenti collegati» più che «una narrazione consecutiva» degli anni dal 1780 al 1832. Nella prima parte, Thompson considera «le tradizioni popolari... che influirono sulla cruciale agitazione giacobina degli anni 1790-1800». Nella seconda parte passa «dalle influenze soggettive a quelle oggettive - le esperienze di gruppi di lavoratori durante la rivoluzione industriale...». Nella terza parte riprende «il filo della storia del radicalismo plebeo», e la segue, «attraverso il luddismo, fino all'età eroica al termine delle guerre napoleoniche». Infine discute «alcuni aspetti della teoria politica e della coscienza di classe negli anni `20 e `30». Così annunciata, la narrazione sembra ragionevolmente piana, ma per i lettori italiani andrebbe corredata da note esplicative e da carte tratte da un buon atlante storico.
Superati gli scogli iniziali, la lettura si fa trascinante. Da quale sorgente sgorga l'impeto della narrazione? È questa la domanda cruciale di un testo che ha incoraggiato tanti storici più giovani di Thompson a riportare alla luce le esperienze collettive degli sfruttati, liberandosi dagli schemi tradizionali. Per rispondere, si può cominciare con un particolare all'apparenza insignificante. Quando nel 1956-57 Thompson sviluppa la sua polemica sulla democrazia interna del Partito comunista britannico contro il Rapporto dei quindici commissari nominati dai vertici, ci si aspetta che il dissidente dello Yorkshire prenda posizione richiamandosi infine al principio del centralismo democratico di Lenin. Thompson spiazza tutti. Cita John Milton e la tradizione democratica britannica. Da quel momento Thompson si considera un comunista con la c minuscola (in inglese le iniziali dei sostantivi che indicano l'affiliazione a partiti e chiese sono maiuscole). Occorre dunque tornare al passato più solitario per guardare oltre il tempestoso futuro che si profila all'orizzonte. Thompson prevede una traversata del deserto durante la quale le forme organizzative del movimento operaio passeranno attraverso la stretta delle ristrutturazioni postcoloniali - un processo che, a giudizio di chi scrive, è tuttora in corso.
Sono rivelatrici della congiuntura della fine degli anni `50 le pagine che Thompson dedica ai riallineamenti provocati dalla caduta del repubblicanesimo giacobino in Inghilterra dopo l'avvento di Napoleone in Francia e la ripresa delle guerre. Diventa incolmabile il fossato che divide gli ex-riformatori, ritirati nelle loro cappelle private, dai cospiratori e dai ludditi negli ultimi dodici anni delle guerre napoleoniche. Thompson ha il merito perenne di aver dimostrato la complessità del luddismo, contro le fandonie di chi aveva ridotto un ampio e articolato movimento al semplice sabotaggio dei telai meccanici da parte di sparuti gruppi di operai disperati. Lo spazio pubblico viene rioccupato dai patrioti di tutte le gradazioni, secondo un copione destinato a ripetersi innumerevoli volte fino ai nostri giorni. Gran parte dei repubblicani riscoprono i meriti della Corona, molti recitano il mea culpa e si pentono, diventando più realisti - e antigiacobini - del re. Nel paese trionfano i benpensanti. Con grande fanfara la guardia armata dei proprietari può organizzare i suoi raduni patriottici. Ma è al diapason di questo tripudio guerrafondaio che viene suonata «la nuova nota del radicalismo». Se Napoleone è un despota, cosa dire del governo inglese che, secondo la denuncia dell'allora conservatore William Cobbett, sospende l' Habeas Corpus, incarcera senza processo, compra giornali e giornalisti, manovra il sistema bancario e il debito pubblico a suo arbitrio? Questa volta l'indignazione è particolarmente intensa a Londra e si esprime con la difesa della libertà di parola e di stampa da parte degli artigiani e delle professioni liberali.
Si tratta appunto di un movimento difensivo. Altrove, e in particolare nei distretti industriali, l'organizzazione diventa clandestina e illegale fino al ricorso alle armi, giungendo così alla soglia degli anni Venti. Poi, «demagoghi e martiri» del movimento operaio, come scrive Thompson, riconquistano lo spazio pubblico; solo così si giungerà alla limitazione legale della giornata lavorativa. Dunque, non sarà lo stalinismo, così come non fu Napoleone, a seppellire l'impulso democratico e le lotte di classe in Europa e negli altri continenti. Ma nella lezione di Thompson si dà per scontato che per anni e forse per decenni occorrerà, un'altra volta, dare battaglia politica e riconquistare pazientemente l'arena pubblica facendo a meno di un partito.
Lo studio dei cinquant'anni dal 1780 al 1832 mostra che la classe operaia non è (come vorrebbe Perry Anderson e parte della «New Left Review» da cui Thompson viene estromesso nel 1963) «un proletariato subordinato» prodotto da «una borghesia supina»; per contro, essa «fu presente al suo `farsi'», con «l'intervento attivo dei lavoratori, il grado in cui essi contribuirono, con sforzi coscienti, al farsi della storia». Coloro che faticavano non possono essere considerati soltanto come «le miriadi perdute dell'eternità». Essi nutrirono, «per cinquant'anni e con fortezza incomparabile, l'Albero della Libertà». Ma è un cinquantennio durante il quale non esistono comitati centrali, né congressi di partito o di sindacato, né tessere, né sponde giacobine all'estero, né intellettuali, con la nobile eccezione dello «sbandato» William Blake e di pochi altri, disposti a rischiare la miseria dei loro piccoli privilegi schierandola accanto a quella, ben più grave, generata dalle nuove fabbriche. In funzione antioperaia sono talvolta dispiegate più truppe che contro gli eserciti napoleonici. Eppure, alla fine del cinquantennio il proletariato riesce a imporre la rivendicazione cruciale, una giornata lavorativa limitata - e quindi la fine della delirante onnipotenza dell'imprenditore. È una legge che si affianca all'abolizione della schiavitù nelle piantagioni britanniche delle Indie occidentali. Sacrificio, clandestinità, prigione e forca, ma anche senso di una più ampia collettività in formazione e gioia del «co-spirare» sono tra le voci di un processo di differenziazione di classe e di irradiamento di nuovi atteggiamenti privi di deferenza, mentre le braccia e le menti passano inesorabilmente nel laminatoio della grande industria.
La dedizione dei proletari alla causa assume talora toni mistici, paradossalmente biforcati in atteggiamenti ateisticamente politici o ferventemente fideistici. Ma in entrambi i casi il risultato sociale si fonda sulla ricchezza dello sforzo collettivo, non sull'io acquisitivo e proprietario. Sarà pur vero che il problema per i comunisti non è quello dell'alternativa tra altruismo ed egoismo, come affermeranno poi i preoccupati Marx e Engels ne L'ideologia tedesca, ma il problema è pur sempre come vincere. La lezione del cinquantennio è semplice: fuori dal collettivo non c'è possibilità di vittoria, né si può sperare nel salvatore esterno. È un Thompson sardonico quello che riesce ad attaccare insieme il sociologo funzionalista Smelser e i burocrati di partito: «La coscienza di classe, invece, è un'invenzione malefica di intellettuali sbandati, perché tutto ciò che turba l'armonica coesistenza di gruppi che, come si dice, `svolgono ruoli sociali' diversi (e che, quindi, ritarda lo sviluppo economico) è da deprecare come `sintomo ingiustificato di disturbo'». L'armonia non è certo un segno distintivo degli anni della formazione della classe operaia in Inghilterra. Gli squilibri e gli sconquassi sociali si misurano in tutta la loro estensione imperiale, dalla distruzione della manifattura nel subcontinente indiano al massacro di Peterloo (1819) da parte dell'esercito e della guardia armata dei proprietari di Manchester.
Limitandosi di proposito all'Inghilterra, Thompson addita destini universalmente analoghi: il nostro criterio di giudizio non dovrebbe ridursi al dilemma «se le azioni di un individuo si giustifichino o no alla luce di sviluppi successivi. Dopo tutto, non siamo noi stessi alla fine dell'evoluzione sociale. In alcune delle cause perdute degli uomini della rivoluzione industriale possiamo scoprire lampi di intuizione su mali e sofferenze della società, che aspettano ancora d'essere leniti... È possibile che delle cause perdute in Inghilterra debbano, in Asia o in Africa, essere ancora vinte». Non si tratta dell'aspirazione a un mero ritorno al passato. Più che la nostalgia della comunità dissolta è l'impulso a creare rapporti sociali non solo nuovi ma anche diversi - diversi da quelli della borghesia - a scavare margini di autonomia, a tentare - sovente invano - di salvarsi dal lavoro notturno, dalla prigione-manifattura, dalla deportazione nelle colonie.
Sull'affresco di Thompson si sono appuntate critiche non peregrine a mano a mano che si sviluppavano i movimenti della fine degli anni `60 e degli anni `70. Già in un convegno di storici sociali del `73, presente Thompson, viene lamentata la scarsa attenzione dedicata alle donne nell'opera. Altri rilievi sono più circostanziati. È senz'altro una svista il fatto che nel raccontare la fondazione della London Corresponding Society (1792), ossia l'atto di nascita del dibattito operaio radicale in Inghilterra, Thompson si dimentichi di Oulaudah Equiano, rapito dai negrieri in Africa occidentale, schiavo che si è autoriscattato, scrittore e attivista dell'abolizionismo. Così spiega Peter Linebaugh, che di Thompson fu studente, nel suo fondamentale The London Hanged (Penguin, 1991, libro incomprensibilmente non ancora tradotto in italiano). Ma Linebaugh rammenta pure - a Thompson e a noi - che negli ultimi decenni del Settecento a Londra vive un proletariato atlantico: il numero dei soli africani - liberi e schiavi - oscilla tra le 10.000 e le 20.000 persone, circa il 6-7 per cento della popolazione urbana. A questo punto possiamo riprendere la descrizione di Thompson della riunione fondativa della London Corresponding Society nella quale si stabilisce un principio basilare: nessun candidato è escluso, purché risponda affermativamente a tre domande, la più importante delle quali suona così: «Sei pienamente convinto che il benessere di questi regni esige che ogni adulto in possesso della ragione, e non reso incapace da delitti, abbia un voto per eleggere un rappresentante ai Comuni?».
È una domanda attuale, che riguarda i diritti politici di milioni di immigrati in Europa e di circa 170 milioni di immigrati e nel mondo. Dopo 213 anni, forse anche Oulaudah Equiano sarebbe d'accordo che ricominciare da ca
E’ possibile, e forse utile, tentare una iniziale valutazione critica del nuovo strumento della pianificazione strategica (PS) alla luce delle esperienze che si sono recentissimamente avviate nel nostro paese, anche al fine di porre qualche limite a una tendenza a moltiplicarne interpretazioni e significati. In particolare, sembra importante evidenziare, sulla base delle caratteristiche specifiche del modello emergente nelle migliori pratiche internazionali (più volte commentate in questa rubrica), i limiti di esperienze solo parziali o, peggio, dei tentativi di contrabbandare pratiche tradizionali per innovative.
E’ ben vero che il modello emergente in ambito internazionale, di tipo interattivo e partecipativo, è per molti versi un modello ideale, non pienamente realizzato in nessuno dei casi empirici recenti: ma altro è tendere a realizzare un obiettivo avanzato, sia pure per tentativi ed errori e scontandone molte difficoltà, altro è rinunciarvi fin dall’inizio del processo di pianificazione per perseguire obiettivi parziali che possono snaturare il contenuto innovativo, tecnico-organizzativo e di policy, del nuovo strumento.
Non vogliamo certo qui restringere i contenuti, gli stili, gli obiettivi anche politici (oltre che di politica urbana) della PS attraverso la proposizione di una visione personale e soggettiva; ma proprio perché quello che abbiamo chiamato il “modello emergente” è in realtà un meta-modello, un percorso e un metodo che deve trovare la sua realizzazione in coerenza con le specificità delle strutture e delle problematiche territoriali, piuttosto che uno strumento pronto all’uso e standardizzato, questo rischio pare comunque del tutto remoto. E’ tuttavia importante sottolineare il fatto che lo strumento, divenuto subitaneamente di moda nel nostro paese, vada salvaguardato da troppo ampie definizioni che finiscono per ricomprendere esperienze, obiettivi e pratiche che, pure del tutto legittime, nulla hanno a che vedere con le valenze innovative del nuovo metodo e che rischiano di banalizzarne, oltre che l’immagine, anche le potenzialità che incorpora.
Nel dibattito culturale italiano su significato e compiti della PS (e in alcune ricadute operative a livello locale) si è invece proposta recentemente anche una concezione, o definizione (che riteniamo non soltanto inadeguata, ma anche rischiosa) che vede la PS come “un’azione politico-tecnica volontaria rivolta alla costruzione di una coalizione intorno ad alcune linee strategiche condivise (la strategia)” (Mazza, 2000: 28). L’assunto alla base di questa concezione, e cioè la necessità per qualunque processo di PS che si manifesti una leadership (in genere politica) e un consenso stabile fra attori, appare corretto e legittimo. Ciò che qui si vuole porre in dubbio, e che non sembra accettabile in una visione moderna delle politiche urbane, è la visione elitaria secondo la quale ciò “implica l’esistenza di una classe dirigente all’interno della quale un gruppo costruisce una comunanza di interessi e di programmi” (ibid.: pag. 29, corsivo nostro).
Il rischio implicito di un tale modello è manifestamente quello di approdare a una concezione neo-corporativa delle politiche pubbliche urbane; un rischio tanto più grave in un contesto politico e culturale come quello attuale, in cui le capacità di controllo del “bene comune” da parte delle pubbliche amministrazioni sono state ampiamente limitate, almeno nel nostro paese, da riforme e da pratiche urbanistiche che, nell’introdurre elementi di flessibilità necessari e altrettanto necessarie aperture al mercato, hanno nel contempo spesso delegittimato o indebolito l’azione pubblica.
Non vi è dubbio che la formazione di coalizioni è sempre avvenuta: essa è dunque lecita e addirittura vantaggiosa in un processo di PS, e trova i suoi esiti progettuali e realizzativi nelle diverse forme di partenariato pubblico-privato che vengono facilitate istituzionalmente nel processo di PS stesso. Ma ancora una volta l’elemento caratterizzante non è questo (o non è più questo, come lo è stato invece nella stagione delle prime esperienze internazionali degli anni ’80 e dei primi anni ’90), bensì il sistema di garanzie, di trasparenze, di pubblicità e di valutazione che la “terza generazione” di piani, partecipativi e “inclusivi” nella accezione data da Patsy Healey, intende (o almeno tenta di) costruire. Operazione difficile certo, ma irrinunciabile, che non autorizza scorciatoie che per voler essere realistiche appaiono solo opportunistiche.
Promuovere un processo di informazione e discussione pubblica, quanto più aperto possibile, anche se necessariamente strutturato e organizzato; affidarsi a pratiche argomentative e comunicative anziché discrezionali o puramente lobbystiche; dare ascolto alle aspirazioni ed alle aspettative che emergono dalla cittadinanza attraverso inchieste, questionari e procedure formalizzate di consultazione; imporre trasparenza e pubblicità alle negoziazioni fra pubblico e privato e alle valutazioni dei vantaggi collettivi di progetti privati; e soprattutto inquadrare il processo negoziale all’interno di regole definite ex-ante e non soggette esse stesse a negoziazione[1]: tutto questo costituisce l’elemento caratterizzante dell’approccio attuale alla PS nelle migliori pratiche e teorizzazioni internazionali (Gibelli, 2003).
Il percorso, come si diceva, può essere assai lento e tormentato, soprattutto in Italia dove non esiste una tradizione consolidata di partecipazione e di vera trasparenza nelle politiche urbanistiche. E anche nelle migliori esperienze straniere non tutti gli elementi citati in precedenza appaiono pienamente realizzati. E’ esemplare a questo proposito il caso del Grand Lyon (il governo metropolitano di Lione) (S&O, 179/2000) in cui, dopo tre piani strategici, si è sentita la necessità di formalizzare i processi di coinvolgimento civico, con l’approvazione nel luglio 2003 di una “Charte de la participation” che statuisce le procedure cui dovranno attenersi tutte le attività di pianificazione e trasformazione fisica del territorio lionese (dai piani di inquadramento strategico/SCOT, ai piani urbanistici comunali/PLU, ai piani di settore, ai grandi progetti, alle scelte in merito ai servizi di prossimità).
Inoltre, occorre mettere nel conto una minore celerità decisionale nel caso che i processi partecipativi (e non solo i progetti partenariali che coinvolgono gli interessi forti) siano effettivamente messi in opera. Ne è un caso esemplare la vicenda recentissima di un grande progetto urbano proposto da Siemens per Monaco di Baviera: un progetto con evidenti vantaggi collettivi che è stato bloccato e sottoposto a referendum da parte del sindaco a fronte di resistenze espresse dai cittadini a concedere all’impresa proponente di superare in un edificio l’altezza massima tradizionalmente imposta in città.
Per le ragioni esposte, riteniamo di dover confermare una definizione ampia e forse didascalica di PS, che tuttavia ne restituisce gli elementi caratterizzanti e realmente innovativi: essa può essere definita come la costruzione collettiva di una visione condivisa del futuro di un dato territorio, attraverso processi di partecipazione, discussione, ascolto; un patto fra amministratori, attori, cittadini e partner diversi per realizzare tale visione attraverso una strategia e una serie conseguente di progetti interconnessi, giustificati, valutati e condivisi; e infine come il coordinamento delle inderogabili assunzioni di responsabilità dei differenti attori nella realizzazione di tali progetti.
La differenza fra questo modello e quello neo-corporativo è chiara, e implicitamente o esplicitamente evocata dalla stessa Commissione Europea nei suoi interventi sulle politiche territoriali e urbane. Da una parte viene evidenziata sempre più la necessità e l’obiettivo preciso di procedere in direzione di una più compiuta democrazia, iniziando dall’ambito in cui più direttamente i cittadini vengono a contatto con le scelte che li riguardano, e cioè l’ambito delle politiche urbane e territoriali. Questa necessità era già esplicitata nel Quadro d’azione per lo sviluppo urbano sostenibile del 1998 e nel successivo Libro Bianco sulla Governance, e viene confermata nel Terzo Rapporto sulla Coesione del febbraio 2004. Ma, soprattutto, la Commissione è intervenuta a bloccare alcuni grandi progetti urbani, realizzati attraverso negoziazioni locali, per mancanza di trasparenza e di vera apertura competitiva.
Come si vede, siamo ben lontani dalla concezione elitista, che affida il successo del piano a “un gruppo non molto numeroso e potente di scommettitori” attorno ai quali si costruisce “una coalizione” (Mazza, ibidem).
Quest’ultima concezione, oltre ad essere ormai inadeguata, apre inoltre la strada a esiti che facilmente possono ridursi al puro aspetto dello sviluppo immobiliare; esiti peraltro non esclusi, ma anzi talora esplicitamente invocati, in quanto più agevolmente percorribili e validi per coagulare processi cooperativi e coalizioni altrimenti giudicate improbabili (Mazza, 1996: 180). Non vi è niente di immorale nella costituzione di tali coalizioni a carattere immobiliare (a patto che non si risolvano, come in passato, in pratiche oligopolistiche di spartizione dei mercati edilizi locali), né tanto meno nell’utilizzo di strategie immobiliari da parte di imprese industriali in via di delocalizzazione dai centri urbani al fine di realizzare risorse patrimoniali altrimenti sottoutilizzate; ma la garanzia dell’interesse pubblico in questi processi non è intrinseco ai processi stessi, ma al metodo di controllo e di orientamento degli esiti per la città.
E’ preoccupante dover verificare ex-post quanto da queste premesse sia potuta sortire la deriva puramente immobiliare e la modestia dei progetti effettivamente realizzati nel caso del Documento di Inquadramento del Comune di Milano del 2000, un documento che, da parte di uno degli estensori, viene assegnato, per “la generalità degli obiettivi e la mancanza di valore giuridico, (…) alla tipologia dei piani strategici” (Mazza, 2000: 27).
Alla distinzione fra approccio elitista e approccio inclusivo può essere associata quella, più orientata agli obiettivi, fra approcci che privilegiano le economicità e le convenienze (private) di breve periodo e approcci che privilegiano le economicità e i vantaggi (collettivi) di lungo periodo. Se è vero che associare il privato alle azioni pubbliche significa per ciò stesso riconoscere l’utilità, e la necessaria garanzia, di una profittabilità privata, quest’ultima deve essere comunque responsabilmente inquadrata in azioni e strategie che garantiscano vantaggi di lungo periodo alla città intera. Il termine di sviluppo sostenibile, anche se inflazionato e svuotato in parte di contenuto operativo e politico, ci può aiutare in questo ambito, proprio perché pone l’accento non solo sui risultati ma anche sui modi dell’azione. E’ stato detto che “è probabilmente al livello dello spazio urbano che l’approccio dello sviluppo sostenibile mostra il suo senso più immediato”, proprio in quanto esprime “l’aspirazione a una democrazia più completa, orientata a coinvolgere fortemente gli abitanti, l’insieme degli attori locali e le imprese, per fare del territorio comune un luogo di progetto condiviso e non più uno spazio subìto” (Prager, 2004: 19).
La PS deve dunque porsi come obiettivo di sperimentare nuove forme di protagonismo e di cittadinanza attiva dei soggetti: essa è infatti essenzialmente azione collettiva, discussione e ascolto, messa in rete ed interazione; essa individua come condizioni facilitatrici la presenza di attitudini alla cooperazione e al partenariato, la presenza di capitale sociale, di “capitale relazionale”.
Giustamente Crosta ha rilevato, parlando delle modalità con cui il consenso viene costruito e raggiunto, di consenso talvolta opportunista, di consenso puro da comunanza di interessi, ma anche, più importante di tutti, di consenso di natura interattiva che si costruisce nel corso del processo di piano, come sottoprodotto dello stesso, attraverso le pratiche argomentative e i dibattiti pubblici, che conducono alla ridefinizione dei punti di vista e degli interessi degli attori, alla costruzione di soluzioni di compromesso, alla saldatura di nuove alleanze (Crosta, 2004: 19).
La PS costituisce dunque una delle possibili risposte alla riforma della governance urbana, e come tale richiede un lungo processo di cambiamento culturale e politico, di crescita di coscienza civica e di identificazione di nuove forme organizzative e decisionali, in cui il coinvolgimento dei cittadini deve estendersi anche ai temi complessi e alle sfide di lungo periodo, soprattutto su temi di grande sensibilizzazione collettiva quali la sostenibilità e la coesione sociale, poiché esso può portare a nuove idee e nuovi modi di pensare, a una nuova “razionalità comunicativa” fondata su estese pratiche argomentative.
Comune di Milano (2001), Ricostruire la Grande Milano -Documento di Inquadramento delle politiche urbanistiche comunali, Edizioni Il Sole 24 Ore, Milano
Crosta P.L. (2003), “A proposito di approccio strategico: la partecipazione come tecnica di pianificazione o come politica di cittadinanza attiva?”, in Moccia F.D., De Leo D. (a cura di), I nuovi soggetti della pianificazione, Milano, Franco Angeli
Gibelli M. C. (2003), “Flessibilità e regole nella pianificazione strategica: buone pratiche alla prova in ambito internazionale”, in Spaziante A., Pugliese T. (2003) (a cura di), Pianificazione strategica per le città: riflessioni dalle pratiche, Milano, Franco Angeli
Mazza L. (1996), “Difficoltà della pianificazione strategica”, Territorio, 2
Mazza L. (2000), “Strategie e strategie spaziali”, Territorio, 13
Prager J.-C. (2004), “Les élus locaux et le développement économique”, A.A.V.V., Villes et économie, Paris, La Documentation Française
[1] Nel Documento di Inquadramento del Comune di Milano (2001), la più compiuta realizzazione recente del modello elitista, è proprio questa necessità di definizione di alcune regole chiare - di trasformazione urbana, di valutazione di impatto urbanistico e ambientale, e di distribuzione fra pubblico e privato del surplus emergente dai processi di trasformazione – che viene negata e azzerata. Si afferma infatti non solo che “il Documento di Inquadramento in qualche misura espropria (sic!) il piano regolatore dei suoi contenuti strategici” (Presentazione dell’allora Assessore Maurizio Lupi, pag. V), ma anche che “gli investitori hanno la massima libertà di proposta” e “se la proposta è accolta, le regole specifiche del progetto di trasformazione vengono definite contestualmente alla proposta di cambiamento e non preesistono ad essa” (Sintesi di controcopertina, che riprende concetti esposti con ampiezza nel Documento).
Perché mai la mostra che si apre domani in Campidoglio, dedicata a Leon Battista Alberti, un architetto nato nel 1404 e morto nel 1472, si inserisce nel vivo del dibattito sulla città? Perché mai la teoria dell'architettura di Alberti è nuovissima, determinante guida per la urbanistica di oggi, dove i pareri sono violentemente contrapposti? Lo sappiamo: il lussemburghese Leon Krier, consulente di Carlo di Inghilterra, vuole la tutela ferrea delle città storiche, il loro integrale recupero, la limitazione delle altezze, l'uso degli antichi materiali. Ma per Massimiliano Fuksas, progettista di Porta Palazzo a Torino, della Nuova Fiera diMilano e del Centro Congressi dell'Eur, la così detta Nuvola, la città è una utopia, un modello del passato, servono gli interventi del nuovo. Del resto anche Jean Nouvel, il progettista de l'Institut du Monde Arabe a Parigi, i centri storici, e in particolare ad esempio quello di Roma, sono uno spazio nel quale intervenire, anche nella zona barocca, peraltro esclusa da manomissioni dal sindaco Walter Veltroni. D'altro canto Kjatil Traedal Thorsen, norvegese, ritiene che anche a Roma, nel centro storico, si debba intervenire con forme nuove. Così anche adesso le polemiche sono fortissime quando si inseriscono segni violenti, distruggendo per giunta architetture storiche di grande rilievo, come è il caso di Richard Meier con il suo imballaggio dell'Ara Pacis di sapore post moderno, obelisco compreso.
Torniamo ad Alberti per leggere un modernissimo passo della sua De re aedificatoria ( 1452), il trattato di architettura che, evocando quello di Vitruvio scritto in età augustea, mette le basi per la nuova idea della città di oggi: « Quando si giunge in una città, se questa è famosa e potente, esigerà strade dritte e molto ampie, confacenti al suo decoro e alla sua dignità. Se invece è una colonia o una semplice piazzaforte… ( le vie) all'interno della città non dovranno passare in linea retta, ma piegare con ampie curve come anse di fiume, più volte da una parte e dall'altra… perché il fatto è di grande giovamento sia alla bellezza, sia alla pratica convenienza, sia alle necessità di determinati momenti… infatti chi vi cammina viene scoprendo man mano, quasi a ogni passo, nuove prospettive di edifici… inoltre la strada a curve sarà sempre ombreggiata, anche d'estate; e d'altra parte non vi sarà casa ove non giunge la luce del giorno: mai vi mancheranno le brezze… né vi sarà pericolo di venti nocivi, che verrebbero subito respinti dai muri frapposti » .
Qui dunque le città di Alberti sono due, quella rinascimentale, con le sue vedute assiali, la sua prospettiva come una scena teatrale e l'altra, la città che l'umanista, studioso della Roma dove lavora come « abbreviatore » per i pontefici, vede ogni giorno, la città medievale, la città con le strade dense di edifici di epoche diverse, che si guardano camminando fra essi lentamente, ciascuno con dentro il senso della propria storia. Così dunque Alberti dialoga con l'antico ma anche con il mondo medievale.
Un moderno architetto, Stefano Boeri, ricorda un libro di Françoise Choey, La regola e il modello , che contrappone alla città utopica di Tommaso Moro ( 1516) quella di Leon Battista Alberti: « Alberti ha capito - dice Boeri - che per l'architettura delle città non si possono fissare modelli; la città non è la creazione del principe, se mai lo è stata, ed è il prodotto di tanti soggetti che devono fissare regole condivise; e proprio il trattato di Alberti è il primo a indicare per la città un sistema di spazi ordinati da norme » . Così dunque la mostra organizzata da Paolo Fiore e, fra gli altri, da Howard Burns e Arnold Nesselrath, pone problemi che vanno al di là della pur importante vicenda di Alberti, e segna una tappa nella storia del dibattito sul mondo di oggi. Proviamo a riflettere, una generazione fa Bruno Zevi scriveva un libro su Biagio Rossetti ( 1447 1516) che veniva definito « primo urbanista moderno europeo » . Ebbene ben prima Alberti ripensa per i Gonzaga Mantova, come propone in mostra Arturo Calzona, costruisce alcuni nuclei, alcuni nodi fuori le mura, come il San Sebastiano, progetta nuovi portici rinascimentali lungo le antiche strade, adattandosi dunque ai percorsi medievali, alle curve, alle prospettive della città storica entro cui deve operare. Ancora lui, Alberti, ripensa anche la centralissima Piazza delle Erbe, con doppi portici attorno e in mezzo un monumento a Virgilio, mai realizzato, ma che riprendeva la vivissima tradizione medievale del poeta, provata anche da due statue del secolo XIII che ancora si conservano. Così Alberti applica agli spazi urbani una visione nuova, che Biagio Rossetti imiterà a Ferrara, dove peraltro prima era operoso proprio Alberti, e che sta alla base della moderna idea della città e della sua funzione in tutto l'occidente. Dice Guido Canali, che di interventi nelle città storiche ha grandi esperienze, dal restauro dello Spedale di Santa Maria della Scala a Siena a quello del Real Collegio Carlo Alberto di Monreale: «Alberti ha segnato gli inizi del mondo moderno: certo è che per intervenire nella città storica si deve rifiutare il protagonismo, l'architetto deve sapersi adattare ai volumi, agli spazi, ai colori del tessuto storico per assecondarli, per evocarli, a volte anche per riscoprirne valenze che sono state velate da trasformazioni o manomissioni» .
Dunque una mostra importante perché permette di riflettere sulla città così detta storica, ma questa, lo vediamo sotto i nostri occhi, ha perso la sua antica forma, è diventata senza limiti, senza confini. Si parla oggi di città diffusa, di reti urbane, e così gli interventi in città si fanno sulle aree dismesse, ai margini, ai confini, oppure si decide di recuperare una fabbrica, se ne lascia intatto l'involucro esterno e poi lo si intasa di nuove strutture. Gli esempi? Troppi , ma il vero nodo sta sempre nel dialogo fra antico e nuovo, fra una architettura per l'architetto e la sua mitologia, quella fallica dei grattacieli stigmatizzata da Krier, e un dialogo attento, consapevole, con le pietre, con i mattoni, con gli intonaci, con le forme del passato, quello stesso sguardo lungo che Leon Battista Alberti portava alla città pensando sopra tutto alla gente, a quelli che la devono abitare.
Le strade sono lo spazio pubblico più abbondante nelle città. Più del verde, più delle scuole e delle attrezzature di interesse comune. Tutti noi utilizziamo in molti modi le strade: per spostarci in auto, per passeggiare, per aspettare i bambini all’uscita da scuola, per incontrare amici e conoscenti a cui abbiamo dato appuntamento. I più fortunati di noi ricorderanno certamente un gioco fatto da bambini, oppure un bacio scambiato ai bordi di una strada.
Per questo motivo, le strade non sono solo infrastrutture di trasporto e i loro utilizzatori non sono solo automobilisti in transito. Garantire una città senza incidenti non è quindi solamente un problema di regolazione del traffico. Una progettazione delle strade volta ad innalzare la sicurezza è il fondamento di una proposta di convivenza civile (urbana, si dovrebbe dire) tra i diversi utilizzatori della strada e della città, tra i diversi modi e mezzi di spostamento. E’ la premessa per recuperare spazio a favore di pedoni e ciclisti, delle persone che aspettano, che passeggiano, che chiacchierano percorrendo le strade della città.
Per lo stesso motivo il manuale “La città senza incidenti” redatto da Drufuca, Sgubbi e Baruzzi è molto più di un libro di tecniche di moderazione del traffico. Mini-rotatorie, attraversamenti protetti, “cuscini berlinesi” e i numerosi interventi illustrati sono altrettanti tasselli di un modo diverso di concepire l’utilizzo della strada, separando i flussi dove necessario, rendendoli compatibili ovunque possibile.
Drufuca è un ingegnere dei trasporti, Sgubbi è dirigente di un’amministrazione pubblica, Baruzzi è un esperto di partecipazione. Il libro è pubblicato per conto di un’associazione che si occupa di partecipazione (CAMINA). Si tratta di un esempio piuttosto raro di incontro tra professionalità diverse, capace di portare all’interno dell’amministrazione pubblica quella capacità di innovare e sperimentare che – per un pregiudizio sbagliato – si ritiene estranea al settore pubblico.
Altrettanto raro è il fatto che il libro La città senza incidenti sia un manuale, un genere di documenti non molto diffuso nell’urbanistica italiana e considerato un genere minore dal mondo accademico, essendo privo di formulazioni astratte o di citazioni tratte dall’autorevole pensiero di questo o quel professore. Ancorché privi della patente di nobiltà, i manuali, quando sono ben fatti, sono molto utili proprio perché si sforzano di conciliare sperimentazione e routine applicativa.
Infine, ogni questione è trattata facendo riferimento a realizzazioni concrete, in Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, insinuando in noi il sospetto che, qualora lo si voglia davvero, anche nel nostro paese sia possibile intervenire con intelligenza ed efficacia.
Vi sono dunque molte ragioni che mi spingono a consigliare vivamente la lettura di questo libro e a segnalarvi il sito dell'associazione CAMINA - Città amiche dell’infanzia e dell’adolescenza.
Vorrei segnalare un lavoro di Franco Cassano[1] sul tema della cittadinanza attiva, sulla relazione che lega cittadini e beni comuni. Il lavoro utilizza come chiave di lettura il mutevole rapporto tra uguaglianza e libertà, oggi sbilanciato a favore della seconda. La contrapposizione tra l’individualismo e il senso civico è rappresentata da due figure simboliche: l’homo civicus e l’homo emptor.
Cassano trova un “illustre” predecessore dell’individualista contemporaneo, l’idiota dei greci: “all’uomo che partecipa alla cosa pubblica si contrappone l’uomo privato, che non riesce a trascendere il confine della sua sfera individuale. Se l’homo civicus è legato alla tradizione più alta della politica intesa come sfera per la cura degli affari della città, l’uomo che ha a cuore solo il suo particulare è l’idiota dei greci. L’homo emptor vive rinchiuso nel suo mondo privato, ignora qualsiasi idea di interesse collettivo e di compatibilità tra diritti e doveri. È colui che pensa che, nella migliore delle ipotesi, il bene comune sia la semplice addizione dei beni di tutti.”[2]
Cassano denuncia i limiti dell’idiota, che ha del mondo un’idea angusta. Un’idea che però si sta affermando, poiché altri modelli di individuo e di società non hanno fornito risposte adeguate:
“L’homoemptor è l’infrastruttura sulla quale oggi si regge l’individualismo radicale, il cosmopolitismo utilitarista dei diritti senza doveri. A questo individualismo rattrappito e eterodiretto l’homo civicus costituisce l’unica risposta non oppressiva, l’unica risposta che permette di ritrovare la comunità senza perdere la libertà. La risposta non più venire né dallo Stato etico che impone il bene comune, né dal ritorno ad una comunità che rinchiude l’individuo nell’identità collettiva.”[3]
La risposta può venire solo dall’homo civicus, che costituisce: “la forma più alta in cui la comunità può vivere nella società democratica. La civitas è la forma di comunità compatibile con la libertà individuale.”
Ma in che modo la figura dell’homo civicus può affermarsi nella società contemporanea? Quale soluzione, allora, per sfuggire al destino dell’homo emptor, piccolo e mediocre? Quale risposta all’ascesa dell’aristocrazia affermatasi con lo sviluppo dell’industria, come già intuiva Tocqueville nell’800? Non l’homo economicus che, con la sua razionalità, non riesce a sfuggire alle regole modellate dalla nuova aristocrazia: riempirsi la casa di beni non lo mette al riparo dalla regressione di una delle principali conquiste dell’Occidente moderno: la protezione sociale. La chiusura del consumatore nel proprio particulare, insofferente ai limiti imposti dalla convivenza civile alla sua libertà individuale sfocia in una falsa libertà, eterodiretta dal mercato, che apre la strada ad una nuova forma di dispotismo: “se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una innumerevole folla di uomini uguali, intenti solo a procurasi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri: i suoi figli e i suoi amici formano per lui tutta una specie umana; quanto al rimanente dei cittadini, egli è vicino ad essi, ma non li vede; li tocca ma non li sente affatto; vive in se stesso e per se stesso e, se gli resta ancora una famiglia, si può dire che non ha più una patria.”[4]
La risposta più alta per Tocqueville – e per Cassano – è l’esercizio della cittadinanza, l’unica forma di vita paragonabile all’aristocrazia delle società tradizionali.
“Credo fermamente – afferma Tocqueville – che non si possa fondare di nuovo nel mondo un’aristocrazia, ma penso che i semplici cittadini, associandosi, possano costituire delle entità molto ricche, influenti e forti, in altri termini delle persone aristocratiche.” [5]
Le “persone aristocratiche” sono i cittadini attivi, quelli che, associandosi fra loro, superano l’isolamento individualistico. Nelle società democratiche l’associazione ha dunque un ruolo cruciale, è “la palestra per l’emergere di un’aristocrazia democratica”. Se nelle società tradizionali è la contiguità che rende superflua l’aggregazione, nelle società democratiche, i cittadini da soli sono indipendenti e deboli. Le associazioni, dunque, sono prodotti delle società democratiche che permettono di contrastare le loro stesse patologie.
L’homo civicus rappresenta “l’aristocrazia delle virtù pubbliche” di Tocqueville, che lotta contro le élites della politica e dell’economia, tendenzialmente inclini a concentrare il potere. Non è la società civile in quanto tale, che spesso è vittima dell’individualismo, ma la società civile quando si associa e si occupa della cosa pubblica.[6]
Ancora Tocqueville descrive come gli Americani del suo tempo sono riusciti a frenare – con istituzioni libere – gli effetti dell’individualismo facendo affidamento sul governo locale e sui giornali. L’educazione all’autogoverno locale abitua gli uomini a sviluppare l’idea di bene comune, i giornali (“un’associazione che ha per membri i lettori abituali”) legano gli uomini attraverso le idee e sono decisivi per la formazione della pubblica opinione. Entrambe queste reti associative impediscono la deriva individualistica dell’interesse e aiutano la formazione di una nozione ampia e discorsiva di bene comune, una nozione che non ha timore dei conflitti e della divergenza delle opinioni.
L’esercizio della cittadinanza diventa una cerniera essenziale della società contemporanea: è l’unica forma attraverso la quale gli interessi comuni ritornano – senza imposizioni dall’alto – al centro dell’attenzione degli individui; è la forma libera e democratica per combattere l’idiotismo di massa, è l’uscita dalla solitudine per i più deboli. La tradizione a cui si appoggia la cittadinanza attiva è quella con cui l’Occidente può parlare a voce alta: “la tradizione nella quale la libertà non ha rimosso la comunità.”
È bene però ricordare che anche questa interpretazione del modello occidentale ha un limite: chi si occupa degli affari pubblici è comunque una minoranza della popolazione. Anche nelle società democratiche la partecipazione richiede tempo e volontà, capacità di emergere nell’arena pubblica. È più facile perciò che si affermino nell’azione civica coloro che possiedono il tempo, le risorse e il capitale culturale o che hanno fatto dell’attività pubblica una professione. Ancora una volta rischiano di essere inclusi marginalmente coloro che avrebbero più necessità di partecipare.
Si apre la questione della rappresentatività, alla quale per lungo tempo hanno dato risposta i partiti di massa, offendo alle masse delle società democratiche uno strumento per organizzarsi e partecipare alla vita pubblica. La sfida per i partiti contemporanei è rappresentata dalla capacità di mantenere il contatto con la società: essi devono evitare la tentazione di chiudersi in un atteggiamento autoreferente e autoleggittimante, che non accetta il dialogo e la coabitazione con forme autonome di associazione emergenti dalla società civile.
Secondo Cassano un obiettivo dell’associazione è “mutare il rapporto tra intellettuali, competenze e cosa pubblica”. Se la regola dominante è quella per cui le competenze sono utilizzate dai grandi interessi o dai partiti, “occorre invece iniziare a metterle a disposizione dei cittadini e della discussione pubblica. Il grande problema del nostro tempo – continua l’autore – è quello di restituire l’intelligenza al controllo democratico, dare vita a forme di convivenza e sviluppo tarate sull’interesse generale e non su quello della singola azienda o del singolo partito”.[7]
Le associazioni non devono sconfinare nell’antipolitica, ma costituire un’occasione di rinnovamento della politica, “la fine della sua separatezza e della sua privatizzazione.” Le associazioni sono “un lievito essenziale della democrazia”, senza il quale la delega ai partiti diventa permanente e viene svuotata della legittimazione che ha avuto in passato. Le associazioni devono contribuire a riportare alla luce del sole le decisioni, ad includere nei processi decisionali cittadini consapevoli, a “ricostruire lo spazio pubblico.”
“Quando le decisioni riguardano un prevalente interesse pubblico le competenze non possono essere un affare privato, ma devono passare attraverso una discussione pubblica. I saperi e le competenze devono circolare e passare al vaglio dei molti. Chi si impegna nell’azione civile, pur consapevole dei propri limiti e dei difetti della stessa società civile, è consapevole anzitutto che “ci sono alcuni beni, i cosiddetti beni pubblici, dall’ambiente alla legalità, all’istruzione, alla salute, al diritto alla bellezza, che corrono il rischio di scomparire a seguito dell’inerzia e sotto l’attacco delle speculazioni private.”
Il cittadino attivo è colui che vuole offrire a tutti la possibilità di esserci e di contare, che vuole che i beni pubblici siano tutelati. Per far questo, è necessario unire competenze, intelligenze, democrazia: non accettare, ad esempio, di vivere accanto a centrali di smaltimento di rifiuti senza prima essere stati consultati.
Anche ad una scala più ridotta la difesa dei beni comuni non perde di significato: diventa, ad esempio, una nozione chiave per costruire una tradizione civica laddove è stata debole e soverchiata dal potere di pochi. La cura dei beni pubblici fa leva sul senso di appartenenza, sull’amorloci. Ma la tutela dei beni comuni ha bisogno di strumenti per esprimersi: la cittadinanza attiva è per Cassano il modo più sicuro per tenere alta la tensione, per trasformare l’affetto in vigilanza, per impedire la latenza e la sopraffazione dell’interesse generale da parte dei poteri forti, che non hanno bisogno di mobilitazioni.
Quando la partecipazione cala, sullo spazio pubblico ritorna il buio e la politica torna ad essere privatizzata. Un affare di pochi e per pochi.
Cassano conclude con la consapevolezza che “ha da passà ’a nuttata”, e che “la nottata siamo noi”. Ma allo stesso tempo, che esistono – e se ne sente il bisogno – nella società civile le risorse per poter dire, con Rocco Scotellaro: “è fatto giorno”.
Ad ogni livello, la tutela dei beni comuni richiede una dose robusta di immaginazione: la disponibilità a pensare, come Adorno, il mondo dal punto di vista della sua trasformazione. È necessario avere una qualche confidenza con un’idea laica di trascendenza, capace di allargare la nostra percezione del tempo e dello spazio, ma soprattutto i confini della nostra anima. Una certa forma di nobiltà aiuta a vivere meglio e anche per questo è ragionevole e conveniente.
Postilla
Cassano non sembra spiegare due cose. La prima. In che modo promuovere la formazione dell’homo civicus, in che modo la società data possa sublimarsi nella società civile che “si associa e si occupa della cosa pubblica”. Non c’entreranno forse i rapporti di produzione e il condizionamento sociale che ne nasce? Se si ragionasse su questo piano, allora forse diventerebbe meno oscura la seconda cosa che Cassano non spiega. Come mai un mondo che ha conosciuto (possiamo dire inventato) la libera associazione e la libera stampa, non abbia saputo impedire la riduzione dell’uomo all’homoemptor. (es)
[1] F. Cassano, Homo Civicus. La ragionevole follia dei beni comuni.
[2] Ivi, p. 21.
[3] Ivi, p. 18.
[4] A. de Tocqueville, La democrazia in America, Rizzoli, Milano 1992, p. 732.
[5] Ivi, p. 739.
[6] F. Cassano, cit., p. 27
[7] Cassano, cit. p. 159.
In principio era il verbo, ma alla fine c’è l’urbanistica. Sembra una battuta di cattivo gusto, ma è la pura verità: nelle ultimissime pagine della Bibbia, alla fine di migliaia di vicende, generazioni, diaspore fra polveri e altari, scende dal cielo la Nuova Gerusalemme, completa di mura, porte, misure standard, paesaggio e cultura, “pronta come una sposa abbigliata per il suo sposo”. E per chi ancora non fosse convinto, ecco che dal cielo una voce inequivocabile tuona: “Ecco la tenda di Dio tra gli uomini! E s’attenderà tra loro. Ed essi saranno i suoi popoli” (Apocalisse, 21; 2-3).
Ripeto, sembra davvero una battuta di cattivo gusto ma non lo è, almeno per il pastore Eric O. Jacobsen, che al tema del rapporto fra rivelazione biblica, urbanistica, e ruolo della chiesa nella città contemporanea ha dedicato le 190 pagine del suo Sidewalks in the Kingdom: New Urbanism and the Christian Faith (Brazos Press, Collana The Christian Practice of Everyday Life, Grand Rapids 2003, II ed. 2004, $16 più o meno).
E questi Marciapiedi del Regno, secondo Jacobsen si snodano tra le case e i negozi di una Nuova Gerusalemme nient’affatto campata per aria, ma solida, quotidiana e concreta, almeno quanto la sua Missoula, Montana, dal cui ciglio stradale fa partire il racconto. Nella migliore tradizione di Jane Jacobs (che è un riferimento esplicito e costante), o anche in quella del “critico da marciapiede” Lewis Mumford, si vedono via via comparire, illuminati dallo sguardo attento del pastore urbanista, soggetti e temi della città quotidiana, e sullo sfondo anche i soggetti e i temi di quanto città quotidiana non è, ovvero lo sprawl, l’insediamento suburbano diffuso, il mondo dei centri commerciali e degli svincoli autostradali, il mondo dell’assenza di spazio pubblico, di community. Quello spazio tanto tipico delle città, e caratterizzante le città europee, ma che nel crescere esponenziale dell’insediamento a compartimenti stagni americano si è visto progressivamente eroso, al punto che anche le chiese, centro comunitario di quartiere per antonomasia, si sono viste transustanziare in megachurches suburbane, replica fedele del modello di consumistico shopping mall, o infantile parco a tema, o ringhiosa gated community che dir si voglia. E proprio dal silenzio sinora mostrato dalla cultura religiosa su questo argomento prende le mosse il ragionamento di Jacobsen, e da una questione decisamente “alta”: la Genesi racconta della cacciata dall’Eden, ma il nostro destino di salvezza è tornare a quell’Eden (o arcadia, o campagna scimmiottata dallo sprawl), oppure dobbiamo costruirci nelle generazioni la nostra Nuova Gerusalemme? Il pastore presbiteriano di Missoula, Montana, nonché membro del Congress for the New Urbanism, propende decisamente per la seconda ipotesi.
E ci porta per mano in un quanto meno singolare viaggio attraverso la Bibbia, e le sue idee di città: un viaggio ricco, dove lo scopo non è certo quello di mostrare erudizione e concedersi al citazionismo, ma di cercare un percorso coerente e attuale. Unica piccola concessione (e concediamogli il peccato veniale) all’approccio “erudito”, è forse la scelta di accoppiare sempre, in apertura di capitolo come nello scorrere del testo, riferimenti biblici ed autori attuali. Fino al gustosissimo ed efficace paradosso di accostare in poche righe (a p. 37) l’antiurbanesimo strisciante del progetto per la Torre di Babele, e l’individualismo di Frank Sinatra che canta: “se ce la fai lì, ce la puoi fare ovunque”, in New York New York. Oltre a questo, c’è però molto altro, che coinvolge temi come il senso di cittadinanza per un credente, o di comunità, prossimità, il tutto declinato con strettissimo riferimento all’ambiente fisico, dove ancora il racconto biblico deve dimostrare di mostrarsi all’altezza dei tempi. Efficacissima la parabola del Samaritano declinata in ambiente suburbano, con storie di benzina, bande minorili, svincoli autostradali e gente che guida fuoristrada parlando al telefonino. Il buon Samaritano che salva il viandante prende le vesti del Good Urbanite, ovvero del pedone “trasgressore”, che si muove senza automobile, cercando la città anche dove città non c’è, almeno nei comportamenti. Un’esperienza che possiamo ricordare anche noi, almeno quelli tra noi che hanno avuto qualche trascorso autostradal/pedonale, per guasto o affini.
Naturalmente nel racconto di Jacobsen trovano anche ampio spazio le considerazioni “urbanisticamente” più ovvie, ovvero quelle sul quartiere, il vicinato, l’integrazione funzionale, l’assenza di qualunque possibilità realmente comunitaria (e implicitamente di pratica religiosa autentica) nell’ambiente del suburbio. Ma il suo approccio biblico ancora una volta gli da’ una marcia in più, e consente uno sguardo storico inusuale, reso ancor più acuto dall’applicarsi all’ambiente americano, dove presenza e assenza di alcune caratteristiche sono pane quotidiano. Il termine mixed-use, e la corrispondente critica all’interpretazione burocratica e mercantilistica dello zoning, diventa così uno spaccato spazio-temporale, dove il quartiere e la città diventano la culla delle generazioni, delle arti, dell’identità, delle pietre che fungono da trait-d’union fra esperienza individuale e coscienza collettiva. Non ultimo, l’accostare i concetti di “prossimità” così come declinato dai credenti, quello di mixed-use, le politiche di rivitalizzazione e la sicurezza urbana. Accostamenti che avvengono dentro a bozzetti presi dall’esperienza quotidiana o dalle cronache dei giornali, ma che si accostano sempre a riferimenti religiosi, come il rapporto fra uso pedonale e funzionalità fisica dei marciapiedi, rapporti sociali conseguenti fra vicini e classi sociali diverse, coerenza con la memoria biblica “ero straniero e mi avete accolto”. La tesi è che lo stesso concetto di mixed-use, che sottende implicitamente inclusione, sia lo strumento che esclude estraneità, e contemporaneamente caratterizza l’ambiente urbano in cui proprio lo “straniero” è una delle principali ricchezze.
Scopo dell’urbanistica, con questi presupposti, è ovviamente quello di collaborare alla costruzione fisica e sociale di un’incrementale Nuova Gerusalemme. E il new urbanism, con il suo essere assai poco “nuovo” (perché si ispira ai valori della città tradizionale), può essere la forma migliore di urbanistica a portata di mano. Non solo perché con i suoi dettami di massima promuove spazi “a misura d’uomo” e in generale di società, ma perché è assai poco specialistico ed elitario (secondo Jacobsen, naturalmente) nel suo promuovere sempre e comunque processi di progettazione partecipata.
E questo è un elemento di irresistibile attrazione per il vero cristiano, che a dire di Jacobsen “ha una relazione di cittadinanza col Paradiso”. E quindi è meglio che inizi ad esercitarsi in terra, a praticare la sua cittadinanza, a partire dai marciapiedi.
Nota: per confronto e contrasto, si veda almeno il pezzo proposto da Eddyburg/Megalopoli sulle megachiese suburbane (fb)
Un libro di Oliviero Beha che, da questa recensione tratta dal sito www.rassegna.it, sembra molto lucido. “Adesso il rischio è che Berlusconi sia magari alla frutta (…) ma che anche la gente che prenderà il suo posto avrà una mentalità “berlusconica”. Questo rischio è distribuito a destra come a sinistra. A destra è teoricamente più concepibile, è a sinistra che fa più male”
Drammaturgo, poeta, calciofilo appassionato e giornalista, soprattutto giornalista, Oliviero Beha è un personaggio assai versatile e fino a qualche tempo fa piuttosto noto al grande pubblico. Anche a quello televisivo. Oggi, invece, appare vittima di un ostracismo mediatico che lo ha definitivamente allontanato dal piccolo schermo e, per ora, anche dalle frequenze di Radio-Rai. Seguire le sue tracce risulta francamente difficile, se non tra le (poche) righe di cronaca giudiziaria che lo vedono protagonista della battaglia legale per il suo reintegro in qualità di vicedirettore di Rai Sport. Da poco più di un mese, però, è possibile scovare il suo nome anche tra gli scaffali delle librerie italiane riservati alla narrativa, grazie al suo primo romanzo: Sono stato io (Marco Troepa editore, pp. 223, 14 Euro). A dire il vero, definire Sono stato io solamente un romanzo sarebbe riduttivo. Si tratta, in realtà, di un testo che mescola con maestria i generi: un po’ romanzo, un po’ saggio, un po’ diario, un po’ inchiesta. O meglio, si tratta di una lucida ed impietosa ricognizione tra le macerie culturali del nostro Paese, messa in atto con ogni freccia che un giornalista del suo calibro conserva al suo arco. Già, perché Beha il vizio di raccontarci quello che gli passa sotto gli occhi non lo ha di certo perso. E così, tra pezzi da novanta e personaggi di fantasia, tra ricordi e speranze, tra riflessioni e notizie di prima mano, disegna con tratto deciso i contorni di quel Giano bifronte che è diventato (o forse è sempre stato) il sistema tele-politico italiano. Per reagire il protagonista del romanzo progetta addirittura il “silvicidio”: l’assassinio simbolico del presidente Berlusconi.
Sono stato io è il suo primo esperimento narrativo, ma contiene abbondanti ed urgenti porzioni di realtà sociale e privata. Cos’è: un romanzo? Un saggio? Un diario?
Queste tre cose senz’altro. Ma anche qualcos’altro, magari una seduta psicanalitica collettiva. Insomma, devo dire la verità, non mi sono posto il problema del genere. Forse quello che in un certo senso comprende un po’ tutto è romanzo, perché la struttura è narrativa. Ma è anche un saggio, perché i contenuti sono saggistici. Ed è anche un diario, perché racconto cose che mi sono successe. Come scrivo nell’avvertenza, molte cose sono vere, molte cose potevano essere e non sono state, ma comunque partono dalla realtà e alcune partono dalla mia realtà personale. Dovendo parlare dell’Italia di oggi mi sembrava logico partire dal mio punto di vista, dal punto di osservazione di una cosa che conoscevo bene come il giornalismo, la categoria cui appartengo. Se avessi fatto il dentista, forse avrei raccontato una storia a partire da uno studio dentistico. E poi il fatto che sia una seduta psicanalitica collettiva diventa drammaticamente evidente quando si comincia a parlare di uccidere simbolicamente Berlusconi, come in un gigantesco complesso di Edipo.
Una seduta psicanalitica in cui però si fanno nomi e cognomi. E’ un tentativo di mettere un po’ di ordine, di fare il punto sulla situazione in cui ci troviamo?
La risposta è sì: mettere ordine con nomi e cognomi laddove fossero stati necessari. Mi sono regolato sullo stato di necessità. Per capire, e per capire che si parla proprio di questa Italia e non di un’altra, ci volevano dei nomi. A partire da Berlusconi, e poi altri a scalare. Quelli li ho messi. Dove invece i nomi non erano necessari a capire ho creato dei personaggi, in parte veri in parte no, che potessero rendere l’idea del palcoscenico Italia.
Il protagonista è un giornalista in crisi umana e professionale. Sono stato io è anche un’analisi delle condizioni in cui si svolge oggi la professione. Cosa sta succedendo al suo mestiere?
Sta succedendo che non si può più fare, a quanto pare, questo mestiere. O perlomeno lo si può fare soltanto pagando dei prezzi che secondo me è intollerabile pagare. E’ una professione che ormai funge come promozione pubblicitaria di qualcosa. Promozione pubblicitaria in senso economico, promozione pubblicitaria in senso politico, promozione pubblicitaria in senso culturale, laddove per cultura si intenda un atteggiamento sotto-culturale in cui tutti vendono tutto. Ma la professione non è nata per questo. E’ vero, un giornale, un telegiornale, un giornale radio sono prodotti, però nascono come servizi. Non posso pensare che si sia tutti più o meno ricattati da questa situazione. Lo stato di merce, di prodotto dell’informazione sta ricattando la condizione di servizio dell’informazione. Non si può considerare l’informazione alla stregua di pannolini, di scarpe o di macchine.
Nel libro Silvio Berlusconi viene nominato direttamente e rappresenta la personificazione del degrado del Paese. Il protagonista progetta addirittura un “silvicidio”. Cosa significa?
Il “silvicidio” significa togliere il tappo alla bottiglia. Non soltanto per la sinistra che naturalmente considererebbe la scomparsa di Berlusconi come un grande vantaggio, sbagliando. Perché se si rimuove il tappo, bisogna sapere che nella bottiglia c’è di tutto, quindi deve uscire tutto. Non è che dalla bottiglia escono i buoni e invece fuori della bottiglia ci sono i cattivi. Il “silvicidio” significa sgomberare il campo da questo tunnel, da questo imbuto in cui ci siamo cacciati ormai da anni, da questo referendum quotidiano pro o contro Berlusconi. Significherebbe ricominciare a pensare all’Italia e al mondo con altri occhi, ricominciare respirare un po’ di aria. Questo paese ha ormai l’aria viziata.
Quello che Lei chiama il referendum quotidiano pro e contro Berlusconi è dunque un sintomo lampante della regressione del dibattito politico in Italia. Può farci un esempio?
Faccio un esempio lampante, è un esempio che faccio addirittura agli studenti all’Università. Ogni anno c’è la relazione annuale del Governatore della Banca d’Italia. E’ il momento istituzionale finanziario più importante in Italia. E’ possibile che io il giorno dopo debba leggere sul giornale della Presidenza del Consiglio, il giornale del fratello di Berlusconi, il titolo “Fazio: avanti così con Berlusconi”. E che debba leggere su “La Repubblica”, il più letto giornale di opposizione: “Fazio: basta con Berlusconi”. Vuol dire che l’informazione da questo punto di vista è finita, perché già nel “titolone” di prima pagina si dà un’interpretazione. Ormai l’informazione è considerata munizione da sparare un esercito contro l’altro. L’informazione che non serve come munizione, che non è strumentale ad un utilizzo “contro” non c’è. Nel caso del deragliamento di un treno si cerca di capire se il macchinista era del Polo o dell’Ulivo.
L’Italia che lei racconta, però, pare già “berlusconizzata” prima della discesa in campo del Cavaliere. La colpa non è solamente sua, dunque. Dov’è la radice di questi problemi?
Il mio intento era di raccontare che questo Berlusconi non è nato sotto un cavolo. E’ stato preparato. La tranche di tempo che prendo in esame nel libro sono gli ultimi 25 anni. Cos’è questo quarto di secolo che torna nelle orecchie? E’ un quarto di secolo esistenziale, certo, ma 25 anni fa si iniziava anche ad uscire dal terrorismo ed è allora che sono successe delle cose, non solo politiche ma nel costume profondo del Paese: si è preparato un modo di vita che ha previsto il successo di Berlusconi. Adesso il rischio è che Berlusconi sia magari alla frutta, che non abbia bisogno di essere ucciso da me e che si uccida da solo, ma che anche la gente che prenderà il suo posto avrà una mentalità “berlusconica”. Questo rischio è distribuito a destra come a sinistra. A destra è teoricamente più concepibile, è a sinistra che fa più male. Se uno prende il posto di Berlusconi, anche a sinistra, con la stessa mentalità che ha creato Berlusconi, è finita. Diceva Einstein che non si può pensare di risolvere i problemi con la stessa mentalità che li ha creati. Bisogna cambiare mentalità. Ancora adesso tutti i segretari di partito, quelli di sinistra compresi, venderebbero la madre ai beduini pur di avere un minuto al telegiornale o da Vespa o da Costanzo. E’ proprio il segno che la mentalità è quella di Berlusconi. Anzi Berlusconi in proporzione ci va meno, perché ha capito che in un certo senso li può prendere per la gola. Il minutino che concede al Tg o le ospitate nelle trasmissioni sono una sorta di offa, un biscottino per prenderli per il collo. E questi non lo capiscono, ci vanno contenti. E’ spaventoso.
Quelle che lei definisce le notizie “dalla fonte”, contrapponendole a quelle “dal fronte” oramai sistematicamente inquinate, sembrano però una soluzione possibile. Di che cosa si tratta?
Il protagonista del libro, che pure fa il giornalista a un certo livello, ha notato che le vere informazioni non le avute dalla Tv e dai giornali ma per caso. Le ha avute dal contatto con le persone: da un viaggio in aereo, da una cena, dai corridoi di un convegno, oppure da una lettera a un giornale. Nel romanzo viene citata una lettera di un lettore a un giornale che da sola dice più di interi volumi sociologici. Ma di questo nell’informazione non si parla. I giornali non approfondiscono. Se tirano fuori una cosa oggi, domani forse ne danno, se sembra che sia vendibile, un approfondimento. Dopodomani è già sparita. Le notizie dalla fonte sono queste, non solo dalla fonte del protagonista ma da quella degli altri, in uno scambio di fonti. Sono notizie che fanno pensare che forse l’unico modo per recuperare informazioni, al momento, sia nel rapporto interpersonale, magari casuale.
Questo tipo di notizie fa pensare a internet. E’ nella Rete il futuro del giornalismo critico?
Sì e no. Anche internet sta diventando un contenitore pubblicitario. Ma se da un lato è un contenitore pubblicitario, dall’altro rimane comunque un mezzo libero. La riprova la dà Baghdad. Da Baghdad un sito come “Dagospia” ha dato più informazioni che non giornali e televisioni messi insieme. La cosa clamorosa, che nessuno sottolinea, è che le informazioni a “Dagospia” arrivavano dagli stessi che non potevano darle ai loro giornali e alla televisione italiana. Sono notizie dalla fronte elevate a potenza.
Quali sono le strade che restano ancora percorribili per un giornalista che voglia raccontare la verità?
La verità… la verità è un concetto relativo, come democrazia e libertà. Bisogna provare a dire con onestà intellettuale quello che vedi. Se poi ti sei sbagliato, se sei stato un po’ miope o un po’ presbite, cerchi di guardare meglio, forse hai visto male. Questo dovrebbe essere il nostro mestiere. Io conto che si arrivi ad un punto di tale saturazione “da peggio” da dire basta. Nel mio libro faccio delle affermazioni para-filosofiche o sub-filosofiche, c’è un personaggio che dice: “Ma come è possibile, essendo la vita gratis, cioè inutile, inutilizzabile se non perché è la vita, costruirci un mercato?”. Non è oggettivamente possibile trasformare tutto in mercato. La vita ti dice che non si può fare.
La celebre frase di Clausewitz, per cui la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, voleva probabilmente essere provocatoria, ma a me sembra un´ovvietà. E l´affermazione contraria è altrettanto ovvia: la politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi. Tuttavia, il fatto che i mezzi siano differenti ha una grande importanza. La politica è una forma di contesa pacifica, mentre la guerra è violenza organizzata. Tutti i partecipanti, gli attivisti e i militanti sopravvivono ad una sconfitta politica (a meno che il vincitore sia un tiranno, e dunque in guerra contro il proprio stesso popolo), mentre molti partecipanti, tanto militari quanto civili, non sopravvivono ad una sconfitta militare - e nemmeno ad una vittoria. La guerra uccide, ed è per questo che le discussioni sulla guerra sono così intense.
La teoria della guerra giusta, che ho difeso in Guerre giuste e ingiuste (1977), e che è stata ulteriormente sviluppata ed applicata nei saggi che costituiscono questa raccolta, è, innanzitutto, una tesi sullo statuto morale della guerra in quanto attività umana. Si tratta di una tesi duplice: sostengo che la guerra a volte è giustificabile e anche che la condotta della guerra è sempre soggetta alla critica morale. La prima proposizione è negata dai pacifisti, per i quali la guerra è un atto criminale; e la seconda è negata dai realisti, per i quali «in amore e guerra tutto è lecito»: inter arma silent leges (in guerra, le leggi tacciono). Così i teorici della guerra giusta si pongono in opposizione ai pacifisti e ai realisti, che sono in gran numero, anche se alcuni pacifisti sono selettivi nella loro opposizione alla guerra e si sono sentiti alcuni realisti, nel pieno della battaglia, esprimere sentimenti morali. (?)
Voglio affrontare due critiche alla teoria della guerra giusta, perché le ho sentite spesso - specialmente in risposta ad alcuni dei saggi qui raccolti. Secondo la prima, quelli di noi che difendono e applicano la teoria della guerra giusta moralizzerebbero la guerra, rendendo in questo modo più facile il ricorso alla violenza. Rimuoveremmo lo stigma che dovrebbe essere sempre collegato all´uccidere, ossia a ciò che, sempre e necessariamente, è parte costitutiva del fare la guerra. Quando definiamo i criteri con cui possono essere giudicate le guerre e la loro condotta, apriamo la via a giudizi favorevoli. Molti di questi giudizi saranno ideologici, di parte, o di carattere ipocrita e, pertanto, soggetti alla critica, ma altri, secondo la teoria, saranno giusti: alcune guerre e alcuni atti di guerra si riveleranno «giusti». Come può essere, se la guerra è così terribile?
Ma «giusto», qui, è un termine di comodo: significa giustificabile, difendibile, persino moralmente necessario (date le alternative) - e non vuol dire altro. Tutti quelli tra noi che sono d´accordo su ciò che è giusto e sbagliato in guerra, concordano sul fatto che la giustizia in senso forte, nel senso che ha nella società civile e nella vita quotidiana, vada perduta non appena iniziano i combattimenti. La guerra è un´area di coercizione radicale, in cui la giustizia è sempre coperta dalle nubi. Comunque, a volte abbiamo il diritto di entrare in quest´area. Da persona cresciuta nella seconda guerra mondiale, questo mi sembra un altro punto ovvio. Ci sono atti di aggressione e di crudeltà a cui abbiamo il dovere di resistere, se necessario anche con la forza. Pensavo che la nostra esperienza con il nazismo avesse posto fine a questa tesi, ma essa continua a riproporsi - e qui nascono i disaccordi sull´intervento umanitario, che esamino in alcuni di questi saggi. L´uso della forza militare per fermare i massacri in Ruanda sarebbe stato, dal mio punto di vista, un esempio di guerra giusta. E se questo giudizio «moralizza» la forza militare e rende più facile utilizzarla - beh, vorrei che fosse stato più facile usare la forza in Africa, nel 1994.
La seconda critica alla teoria della guerra giusta sostiene che essa fornisce un quadro sbagliato delle guerre. Essa indirizzerebbe la nostra attenzione sulle questioni in gioco immediatamente prima che la guerra inizi - nel caso della recente guerra irachena, ad esempio, sulle ispezioni, sul disarmo, sulle armi nascoste, e così via - e in seguito sulla condotta della guerra, battaglia per battaglia: così eviterebbe le questioni più ampie, che riguardano le aspirazioni all´Impero e la lotta globale per accaparrarsi potere e risorse. È come se nell´antichità, riguardo al conflitto tra Roma e una qualche altra città-Stato, i cittadini si fossero limitati a considerare soltanto la violazione o meno di un trattato, sempre tirata in ballo dai Romani prima di dichiarare una guerra, senza prendere invece mai in considerazione tutta la storia complessiva dell´espansione romana. Ma se i critici possono distinguere tra le false scuse per una guerra e le sue vere ragioni, perché noialtri non possiamo fare altrettanto? La teoria della guerra giusta non ha limiti temperali prefissati: può servire per analizzare altrettanto bene una lunga catena di eventi o una breve. Anzi, come potrebbe essere criticata la guerra imperiale se non in termini di guerra giusta? Quale altro linguaggio, quale teoria, può essere utilizzata per una critica di questo tipo? Le guerre di aggressione, le guerre di conquista, le guerre fatte per estendere le sfere d´influenza e stabilire Stati satellite, le guerre per l´espansione economica: sono tutte guerre ingiuste.
Lo spettacolo enigmatico di un suicidio collettivo su larga scala è sempre affascinate - pensiamo alle centinaia di seguaci del culto di Jim Jones che presero obbedienti il veleno nel loro campo nella Guyana. A livello della vita economica, la stessa cosa sta avvenendo oggi in Kansas - e questo è il tema del nuovo, eccellente libro di Thomas Frank What's the Matter with Kansas? How Conservatives Won the Heart of America ( New York, Metropolitan Books). La semplicità del suo stile non deve impedirci di vedere la sua analisi politica affilata come un rasoio. Concentrando la sua attenzione sul Kansas, la culla della rivolta populista conservatrice, Frank descrive opportunamente il paradosso fondamentale del suo edificio ideologico: il gap, la mancanza di qualunque collegamento cognitivo, tra gli interessi economici e le questioni "morali". Se c'è mai stato un libro che chiunque sia interessato alle strane torsioni della politica conservatrice di oggi dovrebbe leggere, questo è What's the Matter with Kansas?.
Cosa succede quando l'opposizione di classe su base economica (agricoltori poveri, operai versus avvocati, banchieri, grosse società) è trasposta/codificata nell'opposizione di onesti lavoratori cristiani e veri americani versus i liberali decadenti che bevono latte (in italiano nel testo, ndt) e guidano automobili straniere, difendono l'aborto e l'omosessualità, si fanno beffe del sacrificio patriottico e di uno stile di vita semplice e "provinciale"? Il nemico è percepito come il liberal che, attraverso gli interventi federali (dagli scuola-bus fino a ordinare che vengano insegnate l'evoluzionismo darwiniano e le pratiche sessuali perverse), vuole minare uno stile di vita autenticamente americano. Il principale interesse economico è perciò quello di liberarsi dallo stato forte che tassa la popolazione che lavora sodo, per finanziare i suoi interventi regolatori: il programma economico minimo è così "meno tasse, meno regole"...
Attacchi evangelici
Dalla prospettiva standard di una ricerca illuminata e razionale di interessi personali, l'incongruità di questa posizione ideologica è evidente: i conservatori populisti stanno letteralmente votandosi alla rovina economica. Meno tasse e deregulation significa più libertà per le grandi società che stanno tagliando fuori dal mercato gli agricoltori impoveriti; meno interventi statali significa meno aiuti federali ai piccoli agricoltori; ecc... Agli occhi dei populisti evangelici americani, lo stato è una potenza aliena e, insieme all'Onu, è un agente dell'Anticristo: toglie la libertà al cristiano credente, sollevandolo dalla responsabilità morale dell'autodeterminazione, e così mina la moralità individualistica che fa di ciascuno di noi l'architetto della propria salvazione. Come combinare questo con l'inaudita esplosione degli apparati statali durante l'amministrazione Bush?
Nessuna meraviglia che le grandi corporations siano ben felici di accettare questi attacchi evangelici allo stato, se lo stato cerca di regolare le concentrazioni mediatiche, di imporre restrizioni alle compagnie energetiche, di rafforzare le regole sull'inquinamento atmosferico, di proteggere la natura, di limitare il taglio di alberi nei parchi nazionali, ecc. È un'estrema ironia della storia che un radicale individualismo serva come la giustificazione ideologica al potere senza costrizioni di ciò che la stragrande maggioranza delle persone percepisce come un grande potere anonimo che, senza alcun controllo pubblico democratico, regola la loro vita.
Per quanto riguarda poi l'aspetto ideologico della loro lotta, Thomas Frank afferma un'ovvietà che, nondimeno, va affermata: i populisti stanno combattendo una guerra che non può essere vinta. Se i repubblicani dovessero effettivamente vietare l'aborto, se dovessero proibire l'insegnamento dell'evoluzione, se riuscissero a imporre una regolamentazione federale a Hollywood e alla cultura di massa, questo significherebbe non solo la loro immediata sconfitta ideologica, ma anche una depressione economica su larga scala negli Stati Uniti. L'esito è dunque una debilitante simbiosi: anche se è in disaccordo con l'agenda morale populista, la classe dirigente tollera questa "guerra morale" come mezzo per controllare le classi inferiori, ossia per consentire a queste ultime di esprimere la propria rabbia senza disturbare i loro interessi economici. Ciò significa che la guerra culturale è una guerra di classe, ma con uno spostamento di piano - a dispetto di coloro che sostengono che viviamo ormai in una società senza più classi...
Questo, comunque, non fa che rendere l'enigma più impenetrabile: come è possibile questo spostamento? La risposta non sta nella "stupidità" e nella "manipolazione ideologica"; evidentemente, non basta dire che le primitive classi inferiori subiscono il lavaggio del cervello degli apparati ideologici, e quindi non sono in grado di identificare i loro veri interessi. Quantomeno, dovremmo ricordare come, decenni fa, lo stesso Kansas fu la culla di un populismo progressista negli Usa - e la gente certamente non è diventata più stupida negli ultimi decenni. Non basta nemmeno proporre la "soluzione Laclau": non c'è un collegamento "naturale" tra una data posizione socio-economica e l'ideologia che l'accompagna, per cui non ha senso parlare di "inganno" e di "falsa coscienza", come se esistesse uno standard di "appropriata" consapevolezza ideologica inscritta nella stessa situazione socio-economica "oggettiva"; ogni edificio ideologico è l'esito di una lotta egemonica per stabilire/imporre una catena di equivalenze, una lotta il cui esito è del tutto contingente, non garantito da qualsiasi riferimento esterno come la "posizione socio-economica oggettiva".
La prima cosa da notare qui è che bisogna essere in due per combattere una guerra culturale: la cultura è anche l'argomento ideologico dominante dei liberal "illuminati" la cui politica è incentrata sulla lotta contro il sessismo, il razzismo e il fondamentalismo, e per la tolleranza multiculturale. La questione chiave è dunque: perché la "cultura" sta emergendo come la nostra categoria centrale sulla vita e sul mondo? Noi non crediamo più "veramente", ci limitiamo a seguire (alcuni dei) rituali e costumi religiosi in segno di rispetto per lo "stile di vita" della comunità a cui apparteniamo (ebrei non credenti che obbediscono alle regole kosher "per rispetto della tradizione", ecc.). "Non ci credo davvero, semplicemente fa parte della mia cultura" sembra essere in effetti la modalità predominante della fede abbandonata/dislocata caratteristica dei nostri tempi: anche se non crediamo a Babbo Natale, nel mese di dicembre c'è un albero di Natale in ogni casa e persino nei luoghi pubblici - "cultura" è il nome di tutte quelle cose che facciamo senza crederci veramente, senza "prenderle sul serio".
La seconda cosa da notare è come, mentre professano la loro solidarietà con i poveri, i liberal codificano una cultura di guerra con un opposto messaggio di classe: spesse volte, la loro battaglia per la tolleranza multiculturale e per i diritti delle donne segna la posizione opposta nei confronti dell'intolleranza, del fondamentalismo e del sessismo patriarcale di cui vengono accusate le "classi inferiori". Il loro modo di venire a capo di questa confusione è metter a fuoco dei termini di mediazione la cui funzione è offuscare le vere linee di divisione. Qui il modo in cui viene usata la "modernizzazione" nella recente offensiva ideologica è esemplare: dapprima viene costruita un'opposizione astratta tra i "modernizzatori" (coloro che sottoscrivono il capitalismo globale in tutti i suoi aspetti, da quelli economici a quelli culturali) e i "tradizionalisti" (coloro che resistono alla globalizzazione). in questa categoria di coloro-che-resistono vengono poi inclusi tutti, dai conservatori tradizionalisti e la destra populista alla Old Left (coloro che continuano a difendere il welfare state, i sindacati...).
Questa categorizzazione comprende ovviamente un aspetto della realtà sociale - pensiamo alla coalizione della chiesa e dei sindacati che in Germania, all'inizio del 2003, ha impedito la legalizzazione dell'apertura domenicale dei negozi. Comunque, non basta dire che questa "differenza culturale" attraversa l'intero terreno sociale, tagliando strati e classi differenti; non basta dire che questa opposizione può essere combinata in modi diversi con altre opposizioni (per cui possiamo avere una resistenza conservatrice basata sui "valori tradizionali" alla "modernizzazione" globale capitalistica, oppure i conservatori in campo morale che sottoscrivono in pieno la globalizzazione capitalistica).
Il fatto che la "modernizzazione" non abbia funzionato come la chiave per la totalità sociale significa che questa è una nozione universale "astratta", e la scommessa del marxismo è che c'è un solo antagonismo ("lotta di classe") che "sovra-determina" tutti gli altri e serve così da "universale concreto" dell'intero terreno. La lotta femminista può trovare espressione agganciandosi alla lotta per l'emancipazione sociale delle classi inferiori, oppure può funzionare (e certamente funziona) come strumento ideologico con cui le classi medio-alte asseriscono la loro superiorità sulle classi inferiori "patriarcali e intolleranti"; e qui l'antagonismo di classe è come se fosse "inscritto doppiamente": è la specifica costellazione della lotta di classe stessa che spiega perché le classi superiori si sono appropriate della battaglia femminista. (Lo stesso vale per il razzismo: è la dinamica stessa della lotta di classe che spiega perché il razzismo diretto è forte tra i lavoratori bianchi delle classi inferiori).
La terza cosa di cui prendere nota è la fondamentale differenza tra la lotta femminista/antirazzista/antisessista e la lotta di classe: nel primo caso, l'obiettivo è tradurre l'antagonismo in differenza (coesistenza "pacifica" dei sessi, delle religioni, dei gruppi etnici), mentre l'obiettivo della lotta di classe è precisamente l'opposto, cioè "radicalizzare" la differenza di classe trasformandola in antagonismo di classe. Perciò la serie razza-genere-classe offusca la diversa logica dello spazio politico nel caso della classe: mentre la battaglia antirazzista e quella antisessista sono guidate dalla ricerca del pieno riconoscimento dell'altro, la lotta di classe mira a vincere e sottomettere, e persino ad annientare, l'altro. Anche se non si tratta di un annientamento fisico diretto, la lotta di classe tende all'annientamento del ruolo e della funzione socio-politica dell'altro. In altre parole, anche se è logico dire che l'antirazzismo vuole che a tutte le razze sia consentito di affermare e dispiegare liberamente le loro battaglie culturali, politiche ed economiche, non ha evidentemente significato dire che lo scopo della lotta del proletariato è consentire alla borghesia di asserire in pieno la sua identità e le sue battaglie... In un caso abbiamo una logica "orizzontale" del riconoscimento di identità differenti, mentre, nell'altro caso, abbiamo la logica della battaglia con un antagonista.
Qui, paradossalmente, è il fondamentalismo populista a conservare questa logica dell'antagonismo, mentre la sinistra liberal segue la logica del riconoscimento delle differenze, del "neutralizzare" gli antagonismi facendo coesistere le differenze: nella loro stessa forma, le campagne della base conservativa e populista hanno fatto propria la vecchia posizione della sinistra radicale della mobilitazione e della lotta contro lo sfruttamento delle classi alte. Questo inaspettato rovesciamento è soltanto uno di una lunga serie.
Negli Stati uniti di oggi, i ruoli tradizionali dei democratici e dei repubblicani sono quasi invertiti: i repubblicani spendono soldi statali, generando così un debito pubblico record, costruendo de facto un forte stato federale, e perseguono una politica di interventismo globale, mentre i democratici perseguono una severa politica fiscale che, durante l'amministrazione Clinton, ha abolito il debito pubblico. Anche nella delicata sfera della politica socio-economica, i democratici (lo stesso vale per Blair in Gran Bretagna) di regola attuano l'agenda neoliberista che prevede l'abolizione del welfare state, la riduzione delle tasse, le privatizzazioni, mentre Bush ha proposto una misura radicale consiste nel legalizzare lo status dei milioni di lavoratori clandestini messicani e ha reso l'assistenza sanitaria molto più accessibile ai pensionati. Il caso estremo è quello dei gruppi survivalisti nell'Ovest degli Usa: anche se il loro messaggio ideologico è quello del razzismo religioso, il loro intero modo di organizzazione (piccoli gruppi illegali che combattono contro l'Fbi e altre agenzie federali) li rende un doppio inquietante delle Pantere Nere degli anni `60.
Dunque, noi dobbiamo non solo rifiutare il facile disprezzo liberal nei confronti dei fondamentalisti populisti (o, ancor peggio, il rammarico paternalistico su quanto sono "manipolati"); dobbiamo rifiutare i termini stessi della guerra culturale. Anche se, naturalmente, per quanto riguarda il contenuto concreto di gran parte delle questioni dibattute, un rappresentante della sinistra radicale deve sostenere la posizione liberal (per l'aborto, contro il razzismo e l'omofobia), non bisogna mai dimenticare che, nel lungo periodo, è il fondamentalista populista, non il liberal, il nostro alleato. Con tutta la loro rabbia, i populisti non sono abbastanza arrabbiati - non sono abbastanza radicali da percepire il collegamento tra il capitalismo e la decadenza morale che essi deplorano. Pensiamo allo scellerato lamento di Robert Bork sulla nostra "inclinazione verso Gomorra": "L'industria dell'intrattenimento non sta imponendo la depravazione su un pubblico americano riluttante. La domanda di decadenza è lì. Questo fatto non scusa coloro che vendono materiale così degradato più di quanto la domanda di crack non scusi lo spacciatore. Ma dobbiamo ricordarci che il torto è in noi stessi, nella natura umana non costretta da forze esterne".
Su che cosa, esattamente, si fonda dunque questa domanda? Qui Bork mette in scena il suo corto circuito ideologico: invece di puntare il dito verso la logica del capitalismo stesso che, per sostenere la sua espansione, deve creare domande sempre nuove, e ammettendo così che, nel combattere la "decadenza" consumistica, sta combattendo una tendenza che insiste sul cuore stesso del capitalismo, egli si riferisce direttamente alla "natura umana" che, lasciata a se stessa, finisce per volere la depravazione, e richiede perciò un controllo e una censura costanti: "L'idea che gli uomini siano creature naturalmente razionali e morali senza bisogno di forti limitazioni esterne è saltata con l'esperienza. Esiste un mercato crescente bramoso di depravazione, e industrie lucrose dedite a fornirla".
Inversione liberal
Un simile punto di vista, comunque, rappresenta una difficoltà per i guerrieri della crociata "morale" contro il comunismo, dato che i regimi comunisti dell'Europa dell'est sono stati rovesciati dai tre grandi antagonisti del conservatorismo: la cultura giovanile, gli intellettuali della generazione degli anni `60, e i lavoratori che hanno continuato a credere nella solidarietà contro l'individualismo. Questo spettro ritorna in Bork: a una conferenza, egli "ha fatto riferimento, in tono di disapprovazione, alla performance di Michael Jackson che al Super Bowl si afferrò il cavallo dei pantaloni. Un altro oratore mi ha aspramente informato che è stato proprio il desiderio di poter assistere a simili manifestazioni della cultura americana ad aver fatto cadere il muro di Berlino. Questa argomentazione appare buona tanto quanto qualsiasi altra per innalzare il muro di nuovo". Anche se Bork è consapevole della paradossalità della situazione, è evidente che egli non ne vede l'aspetto più profondo.
Pensiamo alla definizione di Jacques Lacan della comunicazione riuscita: io riprendo dall'altro il mio messaggio nella sua forma (vera) invertita. Non è questo ciò che sta accadendo oggi ai liberal? Non stanno forse riprendendo dai populisti conservatori il loro stesso messaggio nella sua forma invertita/vera? In altre parole, i populisti conservatori non sono il sintomo dei liberal illuminati tolleranti?
L'inquietante e ridicolo redneck del Kansas che sbotta infuriato contro la corruzione liberal non è la stessa figura nella cui guisa il liberal incontra la verità della sua stessa ipocrisia? Dunque, noi dovremmo (per citare la canzone più famosa sul Kansas, da Il mago di Oz) andare oltre l'arcobaleno - oltre la "coalizione arcobaleno" delle battaglie sulle singole questioni, prediletta dai liberal radicali - e avere il coraggio di cercare un alleato in colui che appare come il nemico estremo del liberalismo tollerante.
Traduzione Marina Impallomeni
[...]
Lo svuotamento delle «democrazie progressive», cioè del contenuto concreto dell'antifascismo tradotto in norme costituzionali, è avvenuto in due direzioni convergenti: sul piano istituzionale col rafforzamento dell'esecutivo e con leggi elettorali che spostano l'elettorato verso il centro e selezionano con criterio censitario il personale politico, producendo la definitiva sconfitta del suffragio universale; sul piano sostanziale con l'accentuarsi della «presa» delle oligarchie che contano sull'intera società (impoverimento dell'efficacia legislativa dei parlamenti, accresciuto potere degli organismi tecnici e finanziari, diffusione capillare della cultura della ricchezza, o meglio del mito e della idolatria della ricchezza attraverso un sistema mediatico totalmente pervasivo).
Di solito ci si indigna quando qualcuno solleva il problema della costruzione dell'«opinione pubblica» attraverso il potente mezzo televisivo. (Un po' meno ci si sdegna, contro siffatto «indecente» argomentare, quando sono in atto le zuffe per lottizzare il controllo delle emittenti televisive). Però la validità dell'argomento dovrebbe considerarsi ormai assodata da quando Murdoch è uno dei pilastri elettorali di Bush jr. e in Italia il proprietario di quasi tutta l'emittenza privata, che è anche il più grande pubblicitario del secolo, ha in pochi mesi creato un partito, e vinto ben due volte le elezioni (1994, 2001). Ciò non impedisce che, ciclicamente, un nugolo di facitori di opinioni si «ingegnino», come diceva donna Prassede, a dimostrare che una diagnosi del genere è poco meno che un'infamia, anzi il bieco sofisma caro a coloro che perdono le elezioni.
Che il mezzo televisivo influenzi direttamente la «intenzione di voto» degli elettori è fuor di dubbio. In uno studio molto ben condotto, La spirale del silenzio (2002), Elisabeth Noelle-Neumann - fondatrice nel lontano 1947 dell'Institut fiir Demoskopie Allensbach, collaboratrice per molti anni di Helmut Kohl, e coeditrice da oltre un decennio dell' Anternational Journal of Public Opinion Quarterly» - ha raccontato un istruttivo esperimento fatto dall'Istituto Allensbach durante la campagna elettorale tedesca federale del 1976. Furono scelti due significativi campioni di due differenti ambiti: a) telespettatori assidui di trasmissioni a tema politico; b) soggetti che guardano di rado o mai trasmissioni a tema politico. Le due rilevazioni principali furono nel marzo e nel luglio 1976: si votò il 3 ottobre. Da marzo a luglio, di fronte alla domanda «Anche se nessuno può saperlo, chi ritiene che vincerà le prossime elezioni?», il gruppo a si spostò da un iniziale 47% ad appena il 34% convinto della vittoria della Cdu/Csu, mentre inversamente le risposte che davano vincente la coalizione socialista-liberale balzarono dal 32 al 42%. Invece il gruppo b rimase stabile (36 contro 24 in marzo, 38 contro 25 in luglio ed un'altissima percentuale di incerti: circa il 40%). In realtà, sebbene i due schieramenti si pareggiassero (infatti alla fine la coalizione socialista-liberale prevalse per trecentomila voti su 38 milioni di votanti), i giornalisti politici attivi in Tv continuavano a dichiarare che non c'era alcuna possibilità di vittoria per la Cdu/Csu. E questo ebbe un effetto ben visibile.
Naturalmente l'esperimento, proprio perché riferito a telespettatori «assidui di trasmissioni a tema politico», riguardava una ristretta élite del corpo elettorale. I fruitori di trasmissioni politiche, come del resto i lettori di giornali da cui intendono trarre il loro orientamento politico, sono una esigua minoranza politicizzata. La conferma di questo dato ben noto viene proprio dal risultato delle elezioni ora ricordate, nelle quali il piccolo (in cifre assolute) spostamento elettorale determinato dalla parte politica delle trasmissioni televisive risultò decisivo rispetto ad un elettorato praticamente diviso in due parti uguali.
Ma la parte direttamente politica della produzione televisiva è il meno, è la parte trascurabile della politicità dello strumento televisivo.
Sul piano della comunicazione politica contano, semmai, molto di più i silenzi: quello che una macchina dell'informazione così vasta che non ha l'eguale nella storia umana riesce a non dire. Un esempio valga a chiarire l'inverosimile situazione: un esempio che chiarisce bene il ruolo e la sostanziale subalternità dell'Europa. Come tutti sanno, nella generale costernazione delle cancellerie europee e della Organizzazione delle Nazioni Unite, nel marzo 2003 gli Stati Uniti hanno sferrato un attacco in grande stile, aereo navale e terrestre, causando un numero finora non precisato di vittime, contro la repubblica dell'Iraq accusata di possedere, nascostamente, armi chimiche di distruzione di massa. È altrettanto noto che gli ispettori internazionali inviati prima del conflitto a «scoprire» tali armi non ne trovarono traccia, e che traccia non se n'è trovata neanche mesi e mesi dopo che il conflitto era finito, ed il paese veniva occupato dagli eserciti anglo-americani, e depredato e controllato in ogni suo angolo. Da principio un'altra «buona causa» di guerra era stata addotta dagli attaccanti, e cioè l'oppressione da parte irakena della minoranza curda, ma poiché la Turchia, alleata indispensabile degli Stati Uniti, persèguita anch'essa i Curdi e li massacra, si è preferito lasciar perdere quest'altra «buona causa», e non se n'è parlato più. Il silenzio calato sui Curdi ed il loro triste destino da parte dei nostri media, pur già pronti a fare il bis umanitario dopo il Kossovo ma improvvisamente dimentichi della giusta causa curda, è di per sé impressionante.
Ma torniamo alle presunte armi di distruzione dell'Iraq, la cui inesistenza è ormai generalmente riconosciuta, al punto che il problema della Casa Bianca e di Downing Street oggi non è più di ostinarsi a sostenere che ci fossero, ma di individuare qualcuno cui addebitare la colpa di aver fatto credere (ai due più potenti servizi segreti del mondo) che quelle armi ci fossero davvero. Il silenzio dei media europei riguarda un altro imbarazzante dettaglio della vicenda. Il direttore generale dell'Opac (Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche), José Mauricio Bustani, un anno prima che la guerra scoppiasse aveva incitato l'Opac a sollecitare l'adesione dell'Iraq. Ma questo, aveva scritto il 20 aprile 2002 il «Guardian», apparve al governo americano come un imprevisto impedimento alla intenzione di attaccare l'Iraq. Da parte degli Stati Uniti la reazione è stata di rifiuto totale della proposta di Bustani fino al passo, significativo, di ordinare al governo brasiliano (presidente era allora il prof. Cardoso) di rimuovere Bustani dall'incarico. Il testo dell'ingiunzione, insieme con la ricostruzione della vicenda, è stato edito nella rivista dell'Università di San Paolo «Estudos avançados» (16, 2002). Bustani fu catapultato come console generale a Londra: ormai la guerra era imminente. Tuttavia il ricorso di Bustani all'Oit (Organisation International du Travail) ha avuto successo, e nello scorso luglio la cacciata di Bustani dall'Opac è stata definita «illegale». Nessuno nei nostri turgidi telegiornali o nei quotidiani si è degnato di fornire mai il benché minimo dettaglio di questa vicenda. I cittadini e i telespettatori non dovevano conoscere la prova esplicita di quanto criminale fosse stata la condotta statunitense nel fomentare la guerra che, pure, gli stessi governi europei avversavano. Ma ammettiamo senz'altro che l'efficacia di una simile enormità sarebbe rimasta all'interno di una non vastissima cerchia di «specialisti della politica». La partita si gioca su altri piani.
A ben vedere, tutta la ormai annosa disputa sull'efficacia «elettorale» e, più in generale «politica», del potere mediatico si basa su di un equivoco. Si finge di credere che la prevalenza politico-elettorale venga posta (dagli sconfitti) in relazione con il possesso e il controllo dell'informazione politica. Ma questa costituisce un aspetto minimo della questione: è al più la dose di potere me diatico che concerne l'élite politicizzata. Tutto il resto dell'immensa produzione - senza più differenze tra emittenti private e pubbliche, perché queste ultime per sopravvivere sono mera copia delle prime - è ormai un colossale veicolo dell'ideologia, o per meglio dire del culto, della ricchezza. Non importa più chi controlli: è stato plasmato il gusto ed esso esige comunque un adeguamento totale. Il dominio della merce è diventato culto della_ merce ed è tale culto che quotidianamente crea, e alla lunga consolida, il culto della ricchezza. La colossale massa di emissioni consacrate alla promozione delle merci è, a ben considerare, il principale contenuto della gigantesca «macchina» televisiva. Non importa di quale prodotto, meglio se di tutti. Quello che ad una minoranza di fruitori appare come un disturbo (di cui attendere la conclusione per «riprendere il filo») è invece il testo principale: ore e ore quotidiane di inno alla ricchezza presentata, con mirabile efficacia, come status a portata di mano.
Il lato geniale ed irresistibile di questo genere del tutto nuovo di «conquista dell'opinione» è che esso non si manifesta mai in modo direttamente politico. Essa ha fatto tesoro della constatata sconfitta dell'altro metodo: quello, per così dire, «concettuale» del «lavaggio del cervello» esplicitamente propagandistico. Come s'è visto, dovunque il metodo di indottrinamento diretto ha suscitato fastidio, estraneità e alla fine ripulsa. Lo si può praticare con successo solo se lo si destina ad una ristretta élite gravata di speciali responsabilità (è il caso della Chiesa cattolica nella formazione dei suoi «quadri»): altrimenti sortisce l'effetto contrario. Invece il metodo «subliminare», anche perché le opzioni che deve indurre a preferire sono di carattere elementare se non proprio infantile (più merci = più felicità), è di effetto certo: non fa che prospettare, ininterrottamente, immagini, brevi e di facile fruizione intellettuale anche per deficienti, di un mondo (fittizio) già reso perfetto e felice dalla sovrabbondanza delle merci di ogni genere. Non meno efficace è il ritrovato, costante nell'intera straripante produzione pubblicitaria, di mostrare intorno ad ogni (singola) merce la vita felice di tutti i giorni (nella sua forma più luccicante e attraente) di infinite «persone qualunque»: le quali in realtà sono sapientemente selezionate al fine di determinare un immediato effetto di auto-identificazione, immedesimazione e conseguente spinta mimetica, al prodursi del quale «il gioco è fatto». Non c'è bisogno di un orwelliano «grande fratello» per orchestrare tutto questo: è una macchina che si autoregola e si moltiplica per il fatto stesso di essere, anche economicamente, sommamente redditizia.
Prima di indurre centinaia di migliaia di uomini a transitare al di qua dell'ormai affondata «cortina di ferro», o a varcare i mari rischiando anche la vita pur di sbarcare nel «paese di Bengodi» (si parlò a questo proposito, anni addietro, di spot people), quegli influentissimi testi - la cui produzione costa miliardi e che movimentano milioni e milioni di consumatori in tutto il mondo - avevano preliminarmente conquistato la mente, per non dire l'anima, innanzi tutto dei cittadini di serie A, cioè di quelli che «g c'erano» nel paese di Bengodi. I grandi creatori di pubblicità sono dunque i veri e a loro modo geniali «intellettuali organici» della vincente dittatura della ricchezza. Non ha molta importanza la patetica battaglia per pareg. giare più o meno equamente gli spot elettorali: tutto il resto sono i veri spot elettorali. Essi indirizzano milioni di utenti a simpatizzare per quelle forze che gridano con santo sdegno: «lasciateci godere della nostra ricchezza! », e come unica «ideologia» trasmettono il più sollecitante dei messaggi: «cercate di diventare come noi!».
Al potere incontrastabile dell' «ideologia della ricchezza» si associano altre mitologie di massa: i grandi «miti analfabeti», di cui lo sport è forse il massimo esempio, divenuto infatti ormai, non a caso, un fattore direttamente politico, oltre che unica occasione di mobilitazione spontanea delle masse.
Il culto della ricchezza (nel quale rientrano anche i miti sportivi) ha creato - ed è questo forse il maggior suo successo - la società demagogica perfetta. La manipolazione involgarente delle masse è la nuova forma della «parola demagogica». Proprio mentre sembra favorire, attraverso lo strumento mediatico, l'alfabetizzazione di massa, essa produce - e il paradosso è solo apparente - un basso livello culturale oltre che un generale ottundimentó della capacità critica: l'allarme lanciato da Giacomo Leo, pardi, «dove tutti sanno poco e' si sa poco»17, poteva semare, al tempo in cui fu formulato, affetto da aristocratismo; è oggi che trova il suo pieno inveramento.
Sembrava il fascismo aver dato il massimo contributo in questa direzione: era invece pur sempre un movimento che affondava le sue remote radici nel secolo precedente e nel sempre ritornante modello bonapartista. Il fascismo prendeva di petto e manipolava «la folla» così come l'aveva conosciuta e descritta Gustave Le Bon. Al contrario l'attuale «democrazia oligarchica», o sistema misto, o come altro si preferisca chiamarlo, orienta, ispira e perciò dirige una folla molecolarizzata e, insieme, omogeneizzata dalla capillare onnipresenza del «piccolo schermo»; nutre, illude e proietta verso una felicità merceologica a portata di mano una miriade di singoli, inconsapevoli della parificazione mentale e sentimentale di cui sono oggetto, paghi della apparente verità e universalità che quella fonte, in permanenza attiva, fornisce quotidianamente loro, soffusa di sogni.
L'epilogo è stato la vittoria, che ha prospettive di lunga durata, di quella che i Greci chiamavano la «costituzione mista», in cui il «popolo» si esprime ma chi conta sono i ceti possidenti: tradotto in linguaggio più attuale, si tratta della vittoria di una oligarchia dinamica e incentrata sulle grandi ricchezze ma capace di costruire il consenso e farsi legittimare elettoralmente tenendo sotto controllo i meccanismi elettorali. Scenario beninteso limitato al mondo euro-atlantico e ad «isole» ad esso connesse nel resto del pianeta. Pianeta che, altrove, viene messo in riga le armi in pugno.
Non si è giunti a questo esito nello spazio di un mattino. La nascita e lo sviluppo dello Stato sociale, ad esempio, meriterebbero una trattazione ad hoc nella quale rientrano non solo la «sfida» rappresentata dall'assistenzialismo di tipo sovietico ma anche il Nev! Deal e anche il fascismo. Alla conclusione del suo percorso esso appare co me un prezioso pilastro del sistema economico-sociale ed è apprezzato perciò anche da coloro che lo avversa vano e che tuttora vorrebbero ridimensionarlo ma che ovviamente sanno quanto sia prezioso salvaguardarlo.
Per parte sua, anche la democrazia ha avuto i suoi momenti di grandezza. Mentre gli Stati Uniti d'America appoggiavano attivamente i fascismi militar-golpisti su tutto il pianeta, dall'Indonesia all'intero Sud America (con effetti particolarmente feroci in Cile e in Argentina) e teorizzavano che quelle dittature erano il necessario baluardo contro il comunismo, ed estendevano questa linea d'azione al continente europeo (appoggio ai fascismi «storici» della penisola iberica, instaurazione della dittatura militare greca, appoggio alla eversione «nera» in Italia), anche il contrattacco democratico ha avuto i suoi fasti: dalla rivoluzione portoghese, alla cacciata dei colonnelli greci, all'«èra Brandt» in Germania; per non ricordare se non di sfuggita lo spostamento di equilibri a sfavore dei ceti possidenti attuatosi in Italia, non a caso in un clima di rinnovata tensione antifascista, alla fine degli anni Sessanta e codificato in un testo di legge non a torto solennemente definito «Statuto dei lavoratori», oggi sotto attacco.
Ma questi momenti alti non hanno alla fine prevalso se non temporaneamente. La democrazia (che è tutt'altra cosa dal sistema misto) è infatti un prodotto instabile: e il prevalere (temporaneo) dei non possidenti nel corso di un inesauribile conflitto per l'eguaglianza, nozione che a sua volta si dilata storicamente ed include sempre nuovi, e sempre più contrastati, «diritti» . Ben diceva il Bobbio del 1975 che «l'essenza della democrazia è l'egualitarismo»18. Il suo affiorare, che non è così frequente e che nel secondo Novecento ha avuto un punto di forza nell'antifascismo, è dovuto all'irrompere, nel regime misto o se si preferisce semi-oligarchico codificato dal liberalismo classico, di istanze egualitarie più o meno coronate da durevole successo, che quasi sempre si fanno strada nell'asprezza di un conflitto: ben lo descrive Platone, alquanto inorridito, in un celebre passo della Repubblica (557a). Sono interruzioni più o meno durevoli del sistema «misto». Chi molto si avvicinò a questo genere di diagnosi fu un grande interprete delle dinamiche sociali, Gaetano Mosca. Egli fece ricorso, a sostegno della sua tesi, certo pessimistica, dell'inesistenza della democrazia, «all'apologo - come scrive - di quel padre che morendo confidava ai figli che nel campo avito era sepolto un tesoro, ciò che fece sì che quelli ne sollevassero tutte le zolle, non trovando il tesoro ma aumentando notevolmente la fertilità del terreno»19. L'apologo può essere messo a frutto in molti modi, per esempio a sostegno della tesi che la fiducia nella possibile esistenza della democrazia ha di per sé effetti migliorativi («democratici» appunto); certo esso esprime bene l'inesistenza fattuale, e insieme l'indispensabilità della «democrazia» (beninteso nel suo senso pieno e originario).
La lampada Naska Lux. Quando insegnavo più d’una volta me la sono portata appresso, per la lezione di apertura del corso nel quale studenti appena immatricolati avrebbero svolto i loro primi esercizi progettuali. L’attaccavo con il morsetto al mio tavolo. Averla sotto gli occhi dava spunti per opportune considerazioni introduttive. Ideare un prodotto di quel genere ha parecchio in comune con il disegnare un’architettura. È già il vocabolario a suggerirci l’affinità, quando definisce il progetto un complesso di studi, calcoli e disegni i quali determinano la forma e le caratteristiche d’una macchina, d’un edificio o di un’altra struttura. Quello architettonico, per quante particolarità specifiche abbia, presenta analogie inevitabili con progetti d’altro genere.
L’esempio della lampada rende immediatamente evidente quanta parte del lavoro dei progettisti sia dedicata alle necessità della vita di tutti i giorni, molto più che a richieste eccezionali. Sollecita gli architetti a considerare la loro attività anche come servizio utile per contribuire a rendere sempre migliori le condizioni dell’abitare. Guardando la lampada, chi non comprenda fino in fondo funzioni e relazioni reciproche dei pezzi che la compongono, riesce comunque a farsi un’idea del perché sia costruita in quel modo. Non è difficile riconoscere quali elementi la sostengano e le diano stabilità, quali consentano di spostare e orientare la fonte luminosa o ne riflettano i raggi per inviarli verso direzioni determinate.
La lampada Naska Lux è un bell’esempio del progettare una cosa disegnandola in modo che si capisca com’è fatta, principio da ritenere valido anche per gli edifici. Va contro lo sconsigliabile andazzo di badare più all’apparenza e meno alla sostanza, di camuffare oggetti in travestimenti pretenziosi, che vorrebbero farli sembrare più di quel che sono e viceversa si rivelano spesso avvilenti. L’austera semplicità della progettazione funzionale non esclude affatto la voglia di divertirsi e giocare. Esclude piuttosto di divertirsi alle spalle e a spese di altri. Qualcuno potrà trovarci un pizzico di troppo d’intento pedagogico, alla maniera di certi mirabili giochi montessoriani predisposti per stimolare l’apprendimento dei bambini; ma non è male che con la chiarezza costruttiva si aiuti il pubblico a scegliere meglio tra i prodotti che gli vengono offerti e, dopo averli comprati, a usarli in modo appropriato.
Arrivavo all’università avendo in mano quella lampada anche perché era pieghevole; trasportarla era comodo e non mi pesava. Chi l’aveva ideata si era preoccupato del costo di fabbricazione, ma pure di quelli del trasporto e dell’immagazzinaggio, che tanto incidono sul prezzo. I conti vanno fatti preventivamente molto bene, se si vuole seriamente mettere a punto un progetto, anche architettonico, e fargli avere buona riuscita. Non è detto però che la soluzione più economica sia in ogni caso la più conveniente, né che alla più dispendiosa corrisponda davvero più qualità. Di lumi, per esempio, ce ne sono di belli anche se fatti di carta; dureranno meno, però sono a buon mercato. E con tante elegantissime posate in acciaio, vale la pena d’invidiare chi le possiede d’argento? Il costo è un elemento di giudizio. Pare che Herman Hertzberger, celebre anche per essere autore di edifici scolastici esemplari, a chi gli faceva l’elogio d’una scuola realizzata da un altro architetto, il quale merita meno di essere famoso, abbia ribattuto: «Ma con quanto lui ha fatto spendere in una sola volta, di scuole come le progetto io se ne costruiscono tre!».
Per avere grandi quantità di oggetti a prezzo ridotto oppure, a parità di costo, di qualità migliore, l’industria li produce in serie, scomponendoli in pezzi fabbricati separatamente, da mettere insieme con operazioni di montaggio. È un procedimento nel quale la ricerca del risparmio viene di frequente a coincidere con la ricerca d’una forma che renda comprensibili la costruzione e il funzionamento d’un oggetto. Per molti prodotti la scomposizione in elementi da montare consente economie di manutenzione. Se c’è un danno o un guasto basta sostituire i pezzi rotti o usurati. Inoltre, adoperando uno oppure un altro dei pezzi studiati per svolgere una stessa funzione in condizioni differenti, il medesimo oggetto può essere usato in tanti modi. Per la lampada Naska Lux diversi tipi d’attacco e d’appoggio permettono di fissarla a una parete, a un piano orizzontale o inclinato, addirittura a un altro oggetto come una vecchia macchina da scrivere, di darle una base spostabile su un tavolo o un sostegno che parta da terra. La troviamo in ambienti d’ogni genere, dentro le case e nei luoghi di lavoro, in una sala di biblioteca e sul bancone d’un artigiano. All’incirca in un mezzo secolo trascorso da quando venne messo a punto questo modello, se ne sono venduti almeno venti milioni di esemplari. Chi s’accorge del tempo passato? Questa lampada lo ha attraversato conquistando quella refrattarietà alle mode che ottiene un bell’oggetto funzionale verificato da tanto calorosa accoglienza da parte del pubblico.
Altro oggetto altrettanto collaudato è la seggiola che insieme con la lampada si vede nella fotografia della stanza che mio figlio Luca aveva a casa nostra quando abitava in famiglia. È uno dei più diffusi tra i numerosi tipi in legno curvato inventati e fabbricati dalla ditta Thonet, prediletto da Le Corbusier, il quale lo mise nell’arredo del padiglione dell ’Esprit Nouveau, delle abitazioni sperimentali alla mostra del Weissenhof, della Cité de Refuge per l’Esercito della Salvezza, della residenza per studenti svizzeri all’Università di Parigi, d’una casetta per i fine settimana, persino nelle prospettive disegnate di costruzioni non realizzate. Aveva progettato mobili lui stesso, ma diede l’apprezzabilissimo esempio d’insistere a presentare come uno dei segni distintivi delle proprie opere una cosa che tutti sapevano fatta da altri, della quale però egli ammirava la forma e condivideva la mentalità secondo cui era stata ideata. Dichiarò d’averla usata tanto perché questa sedia con braccioli, «certamente più banale e di prezzo più modesto […] diffusa in milioni d’esemplari nel nostro continente e nelle due Americhe, possiede una sua nobiltà». [1]
Un’altra sedia Thonet, la più famosa, si è ancora maggiormente propagata. Dal 1859 (chi le darebbe questa bella età?) fino al 1985 ne erano state fabbricate settanta milioni. A paragone con le più vecchie sedie d’uso corrente, le parti che la compongono sono molte meno. Michael Thonet, oltre a ridurre in un unico elemento schienale e gambe posteriori, ebbe l’idea di fare rotondi invece che quadrati sia il sedile sia il pezzo che collega e irrigidisce le gambe. Bastano sei elementi di legno e dieci viti per costruirla.
[…]
A coloro che nell’Europa degli anni venti iniziarono e fecero avanzare il movimento che rinnovò l’architettura si dà la colpa di aver tagliato i ponti con la tradizione. Un’accusa infondata e ingiusta, disgraziatamente dive-nuta luogo comune, causa di tanti danni per le deduzio-ni errate che se ne sono tratte. La rottura era già avve-nuta nell’Ottocento, che fu tempo di grandi novità e di grandi distruzioni. Riconoscerlo apertamente, come fecero i protagonisti della cultura progettuale tra le due guerre, era anzi la premessa per ritrovare con il patri-monio accumulato nei secoli precedenti un rapporto nuovo e non fittizio. Per quel che riguarda poi in parti-colare il nostro paese, a molti dei migliori architetti ita-liani del Novecento si può semmai rimproverare di aver avuto attenzione più per il passato e meno per il futuro.
Accettiamo gli appelli rivolti ai progettisti perché essi sappiano cogliere il senso della storia. È proprio il suc-cedersi degli eventi a mettere in crisi consuetudini ere-ditate che si prolungano per inerzia. Fra i tanti ragiona-menti su cui fa meditare Goethe in pagine e pagine di Carlotta a Weimar, Thomas Mann gli attribuisce anche questo: «Vogliono puntellare la tradizione […] con l’eru-dizione e con la storia – come se questa non fosse con-tro la tradizione».[2] Sono proprio gli storici per primi a darci la misura di quanto sia ampia la frattura aperta in ogni campo dalla nascita dell’industria moderna: un dato di fatto che resta comunque un punto fermo, qual-siasi giudizio si voglia poi dare a proposito delle evolu-zioni e delle prospettive attuali.
Basta un’occhiata a una pianta tascabile o a una foto aerea d’una qualsiasi grande o piccola nostra città per rendersi conto subito di quale sia il nocciolo formato nel passato remoto, fino a metà Ottocento, e quali le parti che gli si sono aggiunte dopo. In queste vecchie e non antiche espansioni urbane lo schema solito è una scac- chiera, formata da vie in gran parte larghe uguali, con incroci a intervalli regolari. Uno stereotipo che si diffuse nell’indifferenza alle particolarità dei luoghi, contrasse-gnato da una monotonia che né tagli diagonali, né sma-gliature di viali e piazze furono in grado di alleggerire a sufficienza. Tuttavia s’impose, anche perché aderiva agli interessi della speculazione. La gerarchia ramificata delle strade, tipica dei centri storici, venne appiattita, così come fu abolita l’articolata gradualità degli snodi di connessione, attraverso i quali dagli spazi pubblici aper-ti a tutti via via si arrivava fino agli spazi privati esclusi agli estranei. Una sequenza di passaggi che nel passato aveva arricchito copiosamente l’architettura della città. Molte concentrazioni urbane andarono ingrandendosi velocemente, al di là della soglia oltre la quale i cambia-menti di quantità comportano sostanziali cambiamenti qualitativi. E tutte mutarono di funzioni, coinvolgendo nella loro trasformazione complessiva ogni tipo di edifi-ci, attrezzandosi con reti d’impianti e infrastrutture che nell’ambiente prendevano sempre maggior peso. Si usa-vano nuovi materiali e s’introducevano altre tecniche costruttive, si restringevano gli spazi di antichi mestieri che, come sarebbe accaduto per tanti lavori artigianali, sarebbero andati scomparendo anche nell’edilizia.
L’abbaglio di spostare il momento della rottura dal diciannovesimo al ventesimo secolo si può spiegare – ma in nessun modo giustificare – con il fatto che verso il terzo decennio del Novecento effettivamente nella cul-tura progettuale si operò in maniera nettissima una svol-ta cruciale. All’indomani della guerra 1914-1918, quattro anni che sconvolsero il mondo e impegnarono nello scontro combattenti e retrovie in modi e proporzioni fino ad allora mai visti, incombevano problemi sociali gravi, ancora più gravi nei paesi sconfitti. In Russia con la rivo-luzione si volevano realizzare gli ideali del socialismo. Nell’Europa intera si presentavano condizioni completa-mente differenti dall’appena conclusa belle époque. Fu il concorso di quelle circostanze a premere perché final-mente con lucida e piena consapevolezza si prendesse atto che mutamenti irreversibili erano sopravvenuti anche nel lavoro degli architetti. La nuova architettura del Novecento si è posta drasticamente in alternativa nei confronti della maniera ottocentesca di concepire i pro-getti; non rispetto alla tradizione classica, con la quale, dietro la facciata, il legame vitale di fatto era già perduto. Fu allora, dopo la Prima guerra mondiale, che i pro-gettisti d’idee avanzate si resero più chiaramente conto che lo sviluppo dell’industria moderna provocava tra-sformazioni sconvolgenti, però nel medesimo tempo apriva possibilità d’inventare metodi e strumenti per provare a soddisfare le esigenze che esso stesso aveva suscitato. Sforzi pionieristici in questa direzione non erano affatto mancati, ma erano rimasti spesso parziali e settoriali, non sostenuti dal proposito di collegarli sal-damente in un’azione unitariamente indirizzata.
Le straordinarie novità delle tecniche costruttive erano state messe in valore da grandi opere d’ingegne-ria, specialmente quelle che servivano a sviluppare moderne reti d’impianti urbani e di trasporti, eseguite però non preoccupandosi troppo di quanto interventi del genere contribuissero a trasformare i luoghi dove sarebbero stati realizzati. Nell’edilizia corrente le nuove tecniche erano state applicate ancora poco, mentre con un orientamento retrospettivo per disegnarne i progetti si riesumava un repertorio eclettico e anacronistico di stili del passato. Anche gli oggetti fabbricati in serie quasi sempre avevano imitato vecchi modelli dell’arti-gianato, riducendoli in forme e materiali involgariti. La produzione di arredi, nei casi nei quali aveva raggiunto una certa qualità, si era rivolta a un pubblico economi-camente selezionato e un esempio come quello dei mobili Thonet rimaneva un’eccezione. Gli urbanisti che cercavano di prefigurare altri modi di organizzare le città sembravano piuttosto disinteressati all’architettura degli edifici che le avrebbero composte.
Gli eventi di quel dopoguerra sollecitarono a dare unità a filoni di ricerca fino ad allora piuttosto indipen-denti, a rispondere con una proposta sistematica gene-rale alla mutata condizione urbana. Era finalmente il momento di stringere risultati e programmi in una somma di azioni coordinate, accettando senza riserve di misurarsi con il rapido, incessante evolversi di città e società. Le spinte conseguenti al nuovo ruolo preso dalle masse di lavoratori salariati nella vita collettiva, con il loro bisogno di migliorare case, servizi e ambienti di lavoro, ribaltavano la distinzione fra architettura mag-giore e minore. E qui si sarebbe trovata la sana radice dell’antimonumentalismo d’una rinnovata cultura pro-gettuale. Accadde per la prima volta che architetti tra i più dotati si dedicassero a studiare l’alloggio minimo e ponessero temi come questo al centro della loro atten-zione. Lo studio dell’abitazione, oltre che per il suo imme-diato riferirsi a scelte politiche, veniva a costituire un pas-saggio risolutivo, attraverso il quale esperienze svolte in campi differenti potevano convergere e riannodarsi, dal disegno d’oggetti d’uso domestico a quello di aggrega-zioni di case e servizi. L’indagine, impostata secondo cri-teri nuovi, dei problemi tecnici e funzionali dell’abitazione generò un metodo razionale per progettare che si estese a ogni altro tipo di edificio e diventò il fondamento del lavoro degli architetti moderni. La costruzione di unità residenziali formate da alloggi a basso costo rappresentò in quel periodo l’occasione più adatta a manifestare nei suoi vari aspetti una concezione nuova.
Rovesciare la gerarchia di architettura maggiore e minore e ricercare da capo un rapporto coerente tra pro-getti diversificati di piccola e grande scala erano que-stioni di quelle che si pongono quando a volte la storia forza a imboccare un percorso obbligato e costringe senza scampo a correre grossi rischi. Non dobbiamo meravigliarci se, di fronte a problemi che non si erano mai posti prima, per una lunga fase iniziale molte propo-ste progettuali siano risultate inadeguate. Quegli archi-tetti che li presero di petto, con coraggio non avventato, erano coscienti di quante fossero le probabilità di errore, ma non voltarono le spalle alle novità impensate e allar-manti; seppero guardare avanti. Se non si fossero assun-ti quei compiti, tecnici appartenenti ad altre categorie sarebbero stati soli a occuparsene, con risultati peggiori. Alle prese con problemi senza precedenti, venivano a mancare non solo l’appoggio della tradizione ma anche, dopo lo sconvolgimento della guerra, il sostegno dell’ottocentesca fiducia in un sicuro progresso. Il pro-gresso era sempre possibile, ma per niente scontato. Allora a dare più contributi positivi e incisivi per rinno-vare la cultura progettuale furono proprio coloro che non nascosero le difficoltà, impostarono i problemi in termini oggettivi e ne proposero soluzioni graduali, senza anticipazioni estremistiche. Ma non va neppure preso alla lettera l’ottimismo di dichiarazioni program-matiche e manifesti lanciati da altri al momento di quel-la svolta. Anche i soldati che vanno all’assalto d’una posizione ardua da espugnare si incitano con il miraggio d’una prossima vittoria. Poi se qualcuno si fosse davve-ro lasciato illudere da prospettive eccessivamente pro- mettenti, molto presto l’avrebbe fatto ravvedere la lezio-ne dura dei fatti. Alle difficoltà di una tanto complessa mutazione culturale, si aggiunse il peso di gravissime difficoltà politiche.
Per tutti gli anni venti dalla Germania era venuta la potente spinta di centri propulsori di ricerche proget-tuali avanzate, le quali lì, molto più che altrove, avevano avuto la verifica di applicazioni pratiche. Concluso quel decennio, proprio in Germania la grande crisi che scos-se drammaticamente l’Europa portò al potere i nazisti. Il loro avvento spazzò via associazioni e istituzioni demo-cratiche nazionali e municipali, cacciò nell’esilio maestri eccellenti, mise al bando ogni espressione della cultura che non si uniformasse alle imposizioni del reazionario richiamo all’ordine. Si bloccò lo scambio tra programmi urbanistici ed edilizi della politica riformista e progetti della nuova architettura, i quali da quel rapporto aveva-no ricevuto un nutrimento vitale. Il riflusso sospinse le esperienze che procedettero laboriosamente nel nostro campo a contrarsi nella fascia settentrionale del conti-nente, nei Paesi Bassi, in Danimarca, Svezia e Finlandia e in un’altra delle nazioni minori, la Svizzera: paesi dove c’erano libertà per le persone e per le organizzazioni, un relativo equilibrio economico e sociale e un livello tec-nico abbastanza elevato. Proprio al principio degli anni trenta i socialdemocratici svedesi andarono al governo e vi rimasero ininterrottamente quasi per mezzo secolo.
[…]
In quel periodo alcuni sostenitori fra i più decisi della modernità cominciarono a darsi da fare a difesa dei nuclei urbani antichi. Non si trattava di una presa di posizione contraddittoria. Chi fosse convinto che tra passato e presente si fosse aperta la frattura d’un salto irreversibile di qualità e quantità era portato a considerare ogni demolizione d’un edificio o d’uno spazio urbano anche modesti, costruiti prima della rivoluzione industriale, come perdita non recuperabile, se non di rado e a condizioni niente affatto facili da ottenere. Furono invece coloro che proseguirono nella continuità falsa dell’eclettismo ottocentesco a prendersi, con stupefacente disinvoltura, la responsabilità di arrecare danni irrimediabili al patrimonio architettonico accumulato nel corso di secoli. Con uno scatto d’orgoglio Giuseppe Pagano rivendicò come nessuno dei progettisti che in Italia negli anni trenta si battevano per una nuova architettura fosse implicato negli sventramenti perpetrati a Roma, Milano, Torino e in molte altre nostre città. Poi, nell’avanzare della guerra, arrivò a dichiarare che nei centri antichi nemmeno gli spaventevoli guasti dei bombardamenti gli sembravano equivalenti alle manomissioni compiute prima, per colpa proprio degli avversari dell’architettura moderna.
[…]
[…]
La città che si è formata in tempi remoti ha assimilato anche le sue trasformazioni più consistenti nel ritmo lento della lunga durata. Oggi ha bisogno di aggiustamenti e restauri; solo in casi eccezionali, in punti particolari e circoscritti, ammette l’inserimento d’una nuova costruzione. Tutto al contrario strade, piazze, quartieri edificati dalla metà dell’Ottocento, periferie più recenti, aree una volta occupate da industrie e impianti traslocati o disattivati consentono o richiedono gran cambiamenti che ne mutino anche per intero la fisionomia. Risistemare la città cresciuta in fretta e furia dalla rivoluzione industriale in poi, largamente segnata dalla speculazione edilizia, dall’inesperienza e dall’ignoranza progettuale, è un problema pressante per coloro che governano amministrazioni comunali. Per gli urbanisti e gli architetti forse è il problema numero uno. Dare molto più forte impulso al rifacimento di intere parti di città mal costruite dovrebbe essere l’impegno più importante con il quale avere l’ambizione di misurarsi nel futuro prossimo; molto più della voglia di aggiungere all’interno dei centri storici ancora un’altra traccia tra le tante che attestano la presenza del passato. Un bel modo di fare i conti, quasi restituire un debito, con la storia e la tradizione sarebbe proprio trasformare le fasce di densa edilizia scadente che avviluppano antiche strutture urbane, rinnovando le periferie inospitali dove tanti cittadini sono costretti ad avere casa.
È impossibile che gli architetti si occupino di problemi di tale portata per conto loro. Già i miglioramenti molto consistenti che nella seconda metà del Novecento si sono avuti nelle condizioni dell’abitare sono il risultato, oltre che delle loro ricerche, del concorso di spinte di natura molto diversa. Si è elevato il livello medio di vita e si è accresciuta la percentuale di cittadini compresi in una fascia che dalla media non si discosti troppo. Sono di meno i componenti del nucleo familiare e molte di più le donne che lavorano. Si va a scuola per più anni. Lo sviluppo tecnologico rende disponibili in quantità sempre maggiore soluzioni tra le quali è possibile scegliere.
Gli architetti hanno una loro parte da svolgere validamente, se la mescolano in un tale assieme di azioni e trasformazioni, in accordo con gli sforzi individuali e collettivi nei quali tante persone si affaticano per elevare la propria condizione. Se invece essi vanno a restringersi in un separato campo specifico, oscurando l’utilità sociale del loro lavoro, non possono poi lamentarsi perché il pubblico dà loro poco retta, né perché tra loro solo le personalità più spiccate attirano attenzione, mentre la categoria professionale nel suo complesso perde credito. Per la cronaca d’una prima di un’opera di Mozart alla Piccola Scala, Eugenio Montale scriveva: «Non è mai esistito un grande artista che si sia trincerato nella specialità della sua arte».12[3]Men che mai conviene isolarsi a coloro che grandi artisti non sono, particolarmente se agiscono nel campo dell’architettura e sono progettisti di buona volontà e buona capacità, l’attività dei quali in larga misura consiste nella competente prestazione d’un servizio.
Di questi tempi in genere gli intellettuali sfuggono all’impegno politico. Ma almeno per gli architetti stringere il legame tra cultura progettuale moderna e azione sociale, sebbene porti con sé sporcarsi le mani e avventurarsi rischiosamente a misurarsi ancora di più con incognite e contraddizioni, per altri versi avvantaggia. In Europa, a cominciare dall’intesa che si stabilì fra Tony Garnier ed Edouard Herriot, per la buona architettura del XX secolo il legame con una politica positiva di riforme è stato un sostegno. A Vienna come a Francoforte furono amministrazioni municipali di sinistra a promuovere per le case a basso costo le esperienze più avanzate degli anni venti. Diedero impulso a realizzare complessi di abitazioni economiche che, concepiti in modo da essere tra gli elementi portanti della crescita urbana, hanno segnato con forza incisiva lo sviluppo di molte città, tanto da connotare nel loro assieme una caratteristica che è peculiare del nostro continente. A Vienna vicende dell’architettura e della società interferirono a tal punto da far diventare qualcuno di quei quartieri teatro di avvenimenti storici, quando nel febbraio 1934 (sei mesi dopo il CIAM di Atene) contro gli operai che vi si asserragliarono fu preso a cannonate. Non dovrebbero dimenticarsene coloro i quali, nel campo dell’architettura, proprio alla storia dicono di richiamarsi.
Finanche nelle biografie di certi progettisti passioni, impegni, destini politici e culturali s’intrecciano. Margarete Schütte-Lihotzky, morta ultracentenaria quasi scavalcando il XX secolo – nata nel 1897, si è spenta nel 2000 – studiò la famosa “cucina di Francoforte”. Concependola come spazio di lavoro razionalmente organizzato cambiò la vita domestica, soprattutto sgravando di fatica le donne. Di quella cucina in quella città furono realizzati diecimila esemplari in altrettanti alloggi a basso costo. In uno degli appartamenti minimi lei e suo marito andarono ad abitare. Da Francoforte la Schütte- Lihotzky seguì Ernst May a Mosca; poi passò a occuparsi di cliniche pediatriche in Francia e di scuole in villaggi turchi. Iscritta nel 1939 all’illegale Partito comunista austriaco, durante una visita clandestina a Vienna fu arrestata dalla GESTAPO. Nel 1988 si rifiutò di ricevere il premio di Vienna ai benemeriti della scienza e dell’arte dalle mani del presidente Kurt Waldheim, gravemente compromesso con i nazisti.
[…]
[1]Citato in Sigfried Giedion, L’età della meccanizzazione, Feltrinelli, Milano 1967, p. 447.
[2]Thomas Mann, Carlotta a Weimar, A. Mondadori, Milano 1981, p. 248.
[3]Eugenio Montale, Prime alla Scala, A. Mondadori, Milano 1981, p. 181.
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Caro prof. Salzano
ho avuto grazie a te il piacere di leggere il libro di Sergio Brenna "La città Architettura e politica", edito da Hoepli. Come sai, è un agevole manuale che illustra con chiarezza gli aspetti tecnici dell'urbanistica: il contenuto dei piani, le modalità di attuazione, la disciplina delle attrezzature pubbliche, gli oneri di urbanizzazione, i provvedimenti abilitativi.
Tuttavia, il suo vero pregio sta nel mettere in luce, per ciascun tema, le ragioni che hanno portato all'introduzione dei vari strumenti e le finalità che si volevano perseguire. Brenna ci aiuta così a capire meglio la portata delle modifiche più recenti, introdotte nella legislazione nazionale e regionale. Si svela un grande equivoco: che la pletora di nuovi strumenti e meccanismi (i programmi complessi, gli standard qualitativi, la perequazione e così via) siano l'unica e indispensabile risposta all'inefficacia della precedente strumentazione. Non è così. Le "novità" introdotte sono tutte il prodotto di un mutato orientamento culturale che - nel rapporto tra iniziativa privata e iniziativa pubblica - privilegia la prima e affida alla seconda un ruolo "sussidiario" e in molti casi subalterno. Altre risposte tecniche sono possibili, lasciando all'amministrazione pubblica il primato nella sfera delle decisioni sull'assetto del territorio.
Che si tratti di un mutamento profondo, quindi, è fuor di discussione. Che si tratti di una novità, invece, non è del tutto vero. Brenna riprende gli scritti di Giuseppe de Finetti, redatti subito dopo la seconda guerra mondiale per mostrarci la loro estrema attualità e - ancora - non esita a sottolineare le analogie tra la proposta di riforma urbanistica nazionale oggi in discussione e le leggi urbanistiche ottocentesche.
Conclude il libro l'invito, formulato molti anni fa da De Finetti, a non farci incantare dalle sirene "dei praticoni che credono di fare la civiltà d'oggi perché costruiscono case o producono beni industriali o commerciano le merci o il danaro e lo fanno sempre con furia gloriandosi della velocità della loro azione e del loro successo, ma sciupando la civiltà del domani, l'industria del domani, la ricchezza del domani". Come non raccoglierlo?
Circa un anno fa, scorrendo il quotidiano ufficiale della Lega Nord alla ricerca di immagini che descrivessero “La città ideale della Padania”, non potevo fare a meno di chiedermi se fosse davvero possibile in qualche modo separare con un taglio netto una idea di urbanistica “di sinistra”, dal suo ovvio contrappunto, che possiamo chiamare di destra, o guarnire con tutti gli altri aggettivi che il caso e/o la prospettiva storica ci suggeriscono. Da quella lettura emergeva un panorama variegato certo, spesso anche folkloristico nel linguaggio, ma indubitabilmente complesso riguardo al rapporto fra società e territorio, alla riflessione sui mali e i possibili rimedi, all’indicazione di “nodi” tematici spessissimo condivisibili.
Tra i vari approcci possibili alla disciplina urbanistica, dalle cronache locali ai contributi di tipo più strettamente “politico” dei responsabili di partito, spiccavano gli interventi di Gilberto Oneto che, con linguaggio sferzante, ottimi riferimenti culturali e spunti difficilmente contestabili, se la prendeva soprattutto con il “modernismo” delle schiere di discepoli indiretti di Le Corbusier, con gli effetti di una progettazione territoriale poco o nulla attenta ai bisogni sociali e ambientali. Con curiosità superficiale, avevo a suo tempo appurato che l’autore di quei testi era un professionista e studioso piuttosto noto nel campo della progettazione del paesaggio, e la cosa era finita lì. Fino a qualche giorno fa, quando sugli scaffali di una biblioteca universitaria ho notato, per puro caso, il suo Pianificazione del territorio, federalismo e autonomie locali, e ho iniziato a scorrerlo.
E a darmi dell’imbecille, tanto per cominciare. Perché il libro risale addirittura al 1994, e nella mia per quanto breve ricerca della “città ideale” leghista non avevo provveduto al riscontro incrociato minimo, ovvero con una letteratura meno episodica degli articoli del quotidiano, che per quanto ben scritti e documentati scontano sempre e comunque limiti di spazio e approfondimento. Pianificazione ... è pubblicato da Alinea di Firenze nella primavera del ’94, poco prima che la Lega Nord ottenesse nello schieramento dell’allora Polo delle Libertà il più ampio consenso della sua storia, iniziando poi da dentro il primo governo Berlusconi un’azione non più solo rivendicativa sui suoi temi storici e fondativi: società locali, territorio, autonomia e federalismo. Quindi il volumetto, con tutti i distinguo del caso, può essere anche letto come “manifesto” delle idee leghiste sull’urbanistica, o almeno come ampia dichiarazione di intenti, valida in prospettiva anche dopo quasi un decennio, quando col secondo governo Berlusconi si sono avviate concretamente le politiche autonomiste e federaliste di segno “padano”. Sembrano confermare questa impressione i ringraziamenti in coda, che comprendono tra gli altri l’architetto Giuseppe Leoni, esponente di spicco della Consulta Cattolica leghista allora resa celebre dalla responsabile, Irene Pivetti, e il professor Gianfranco Miglio, ispiratore “alto” del progetto federalista, oltre le spinte di base semplicemente centrifughe e separatiste.
Il discorso di Oneto si articola, grosso modo e abbastanza ovviamente, secondo tre momenti: la definizione del problema; gli strumenti potenziali di soluzione; la prospettiva generale (il federalismo, appunto) entro cui questi strumenti potranno dispiegare la propria potenzialità. E vale sicuramente la pena di soffermarsi sul percorso di definizione del problema, notando innanzitutto come temi e casi siano quasi esattamente sovrapponibili a quelli della pubblicistica disciplinare “di sinistra” che tutti conosciamo, e siamo abituati a considerare la pubblicistica tout-court: a partire dagli affreschi senesi di Ambrogio Lorenzetti sul Buon Governo, e via via attraverso la storia della cementificazione italiana, della farraginosità delle leggi e norme, del distacco fra cittadini e grandi attori della trasformazione territoriale, a partire dalle agenzie pubbliche di infrastrutturazione. Insomma una corretta declinazione contestualizzata dell’equazione urbanistica=politica, che dal discorso del camerata Bottai al congresso INU del 1937, ai giorni nostri, nessuno può ovviamente mettere in discussione. E tra le cause del disastro Oneto pone, non ultima, la cultura delle ultime generazioni di progettisti «satura di progressismo ottocentesco che pone tutto il bene in un futuro (per sua definizione) “radioso” e che disprezza il passato (sempre per sua definizione) “oscurantista”» (p. 17). E qui il discorso si fa complesso, implicando questioni ampie, che vanno dalle grandi categorie culturali alle loro presunte inequivocabili tracce in termini di sballata trasformazione e compromissione del territorio, dalla semplificazione degli standards o dello zoning, al semplicismo di analisi, proiezioni, identificazione schematica di “bisogni” spesso inesistenti. Troppo da riassumere in poche battute, e per cui ovviamente si rinvia alla lettura del libro, ma che può trovare buona sintesi in una frase delle conclusioni al volume: «Monseigneur de la Charette, glorioso generale dell’armata vandeana, diceva che i giacobini la patria l’avevano in testa – che ne avevano una concezione astratta e dogmatica – mentre i suoi ce l’avevano sotto i piedi: per essi era insomma una realtà viva, concreta e locale» (p. 129).
Ecco, forse è proprio questo costante filo diretto con le radici, a connotare l’approccio “di destra” al problema, evidentemente contrapposto ai cervellotici “voli” dell’ortodossia modernista, che comprenderebbe in questa voragine di pochezza sia le cementizie astronavi disegnate di Le Corbusier, posate ad occupare militarmente il territorio, sia i molto più piccoli quanto infiniti e tangibili condomini multipiano, sparpagliati a deturpare valli e pianure, nascosti dietro le artificiose regole della legislazione urbanistica o la totale separatezza fra decisioni politiche e bisogni sociali. E certamente nessuno può negare che ce ne sia parecchia, di acqua sporca da buttare, né che il bambino dentro quest’acqua sporca sia spesso difficile da vedere. Non a caso i riferimenti culturali e di testimonianza di Gilberto Oneto sono quelli “abituali” che nella letteratura specializzata di solito premettono conclusioni affatto diverse se non antitetiche: Antonio Cederna, Vezio De Lucia, Michele Martuscelli, solo per citarne alcuni. Emerge l’abituale immagine dell’Italia piena di ricchezze e potenzialità lasciate andare in malora, via via, dal crescente distacco fra decisori e decisi, e in anni meno recenti dalla globalizzazione che tutto amalgama, banalizza, e in definitiva appiattisce e distrugge.
Anche gli aspetti propositivi di questo manifesto della cultura territoriale “padana”, sembrano riecheggiare moltissimi temi più che classici dell’urbanistica consolidata: dal riferimento ad uno spirito comunitario di implicita connotazione olivettiana, alla necessità di un new deal fra discipline territoriali, politica e amministrazione che ricalca il Codice dell’Urbanistica INU degli anni Sessanta, fino alle questioni operative come il superamento della pianificazione quantitativa per standards e zoning, che «si riferiscono a parametri utopici ed irreali che non tengono conto delle specificità di ogni situazione» (p. 31). Naturalmente l’esplicitazione concreta di queste istanze generali, si rivela poi piuttosto diversa da quanto si ascolta nei convegni e nella pubblicistica correnti, che l’Autore definirebbe probabilmente “di regime” (l’egemonia della cultura di sinistra?), visto che alla base di tutto sembra esserci la triade tradizione / famiglia / proprietà, e l’immagine comunitaria che ne esce ricorda più i galli irriducibili di Asterix che Adriano Olivetti, senza la simpatia dei primi e la complessità del secondo. Dettagli illuminanti ad esempio, emergono sul tema delle case popolari, che «in un tessuto sociale sano devono essere di numero limitato e riservate per l’utilizzo perpetuo di cittadini in comprovate condizioni di disagio (anziani, malati cronici, vittime di calamità ..)» (p. 60), o su molti altri aspetti per cui di nuovo si rinvia alla lettura.
Resta certamente il notevole interesse del libro, che (per non ripetere l’errore già commesso dal sottoscritto e citato in apertura) credo debba essere giudicato solo per i contenuti, senza proiettarne luci ed ombre a piacere su un contesto più o meno esteso nel tempo o nello spazio. Probabilmente, e solo per citare un esempio, il senso dei ricchi capitoli sul tema dell’ambiente, del paesaggio, dei centri storici, per essere davvero inquadrato necessita di un confronto con gli altri corposi lavori di Oneto sul tema (fra cui un manuale di progettazione appena ripubblicato, e che si considera un classico fra gli addetti ai lavori). Ma la cosa che credo più proficua, considerato che si tratta di un testo di quasi dieci anni fa, è considerarne l’aspetto positivo di spietata denuncia: chi non ha mai visto uno dei desolati paesaggi che l’Autore descrive con tanta acrimonia come prodotto di generazioni tecniche incolte? Chi non ha mai avuto a che fare con “maestri” che poco o nulla avevano da insegnare, ma che da alti pulpiti recitavano e praticavano una cultura disciplinare maldigerita e irriflessa? Certo anche qui dentro l’acqua sporca che Oneto scaraventa dalla finestra c’è un prezioso bambino, ma si tratta di trovare e difendere quello, non di tenersi ineluttabilmente tutta la schiuma. Magari per rafforzare le proprie convinzioni sui contenuti, oltre il semplice schieramento che spesso in passato non ha combinato niente di buono.
O no?
L’assalto all’ambiente appartiene alla storia degli uomini più che alla modernità, all’antica ricerca animale del territorio, dello spazio vitale. Un giorno stavo contemplando lo scempio della Valdigna, l’alta Valle d’Aosta e me ne lamentavo, ma chi mi accompagnava disse: “Se tu ci sei venuto, perché non dovrebbero volerci venire anche gli altri?”. Siamo in troppi e vogliamo le stesse cose, gli spazi liberi e ampi. Nell’Ottocento la valle era percorsa da una strada ricalcata su quella romana che gli scalpellini delle legioni avevano aperta, a tratti, nella roccia, come ricorda “La pierre taillee” sotto La Salle. Poi è arrivata la ferrovia e poi l’autostrada, infine il traforo del Monte Bianco da poco riaperto dal ministro delle grandi opere Lunardi, che avendo scavato ventisette tunnel si lamenta di coloro che non li apprezzano. Il fondovalle è sparito sotto le vie ferrate o cementate che corrono parallele a pochi metri di intervallo. Courmayeur, il paese sotto il Monte Bianco, sta sotto una perenne coltre di smog, una serpe grigia lungo tutta la valle. Il viavai perpetuo di auto e di camion giganti non dà tregua, ma il ministro e i potentati economici che gli stanno alle spalle non hanno dato ascolto alle proteste popolari, inutili anche in Val di Susa contro le opere per l’alta velocità ferroviaria. Vince lo sviluppo autolesionista, la metastasi demenziale di un traffico che sposta acque minerali dalla Valtellina alla Calabria e viceversa dal Pollino a Monza, in un caotico carosello di latte, formaggi, vitelli, conserve di pomodoro che vanno e vengono in un moto perpetuo. Traffico su gomma, lo chiamano, e non c’è forza al mondo che possa limitarlo, sui valichi appenninici code interminabili di camion procedono come elefanti in cerca di pascoli. Il Ticino era uno dei pochi fiumi padani non inquinati, una via pulita che scendeva da Lugano al Po, ma gli piovono dentro i veleni degli aerei, il Sesia, fiume di acque pure, è minacciato da una quindicina di costruende centrali elettriche che lo lasceranno secco per nove mesi l’anno. Il Po è una gigantesca latrina dove tutti buttano i loro rifiuti, nel bacino del Lambro, cioè in mezza Lombardia, i veleni sono arrivati a quindici-venti metri di profondità, a Milano quasi tutti i bambini hanno una perenne irritazione ai bronchi, si vedono ciclisti circolare con la mascherina di protezione che non serve a niente, sugli asfalti c’è una patina di polveri micidiali che rendono inutili le giornate senz’auto.
Gli elenchi delle località afflitte da inquinamento riempiono migliaia di pagine, in intere province la qualità della vita è pessima.
Ci occupiamo qui di un solo esempio macroscopico, l’Hub della Malpensa, il megaeroporto internazionale: la vita in una novantina di comuni piemontesi e lombardi è stata violentata, ma sui giornali se ne parla raramente e gli oppositori considerati minoranze snob che non capiscono le leggi dello sviluppo.
Malpensa, un dramma della modernità. Impossibile risolverlo, difficile correggerlo. Ottantasette comuni piemontesi e lombardi privi di silenzio, privi del buio della notte, immersi in un perenne fragore di aerei, quattrocento al giorno che decollano, quattrocento che atterrano, dentro la perenne aurora boreale delle luci dell’Hub. Mi dice il dottor Boggio, sindaco di Varallo Pombia: “Per mettere assieme il parco del Ticino abbiamo dovuto convincere i contadini perché limitassero le loro colture, poi i cacciatori perché rispettassero la fauna e poi quelli che volevano costruirsi la villetta sulla riva del fiume e il popolo delle vacanze perché non sporcasse, e adesso che c’eravamo quasi riusciti è arrivata la grande Malpensa con le sue incessanti piogge di idrocarburi e di polveri e persino di “malaria da bagaglio” o “malaria aeroportuale”. Il guasto provocato da Malpensa riguarda l’intera vita civile in ottantasette comuni dell’Italia più avanzata, la buona amministrazione, la legge hanno lasciato il posto alla prepotenza e alle irresponsabilità.
Cancellare Malpensa, tornare ai tempi del “fiume azzurro” silente e pulito, alle “amate sponde” risorgimentali non è cosa possibile, sarà un miracolo arrestare la metastasi dello sviluppo caotico che ora dal Ticino si sta allargando alla nuova Fiera in costruzione dalle parti di Pero, a pochi chilometri da Milano. Ma il dogma dello sviluppo continuo arriva dal governo europeo, la signora De Palacio, ministro dei Trasporti, ha già sentenziato che i limiti agli Hub sono inaccettabili, che gli Hub hanno come unica regola e misura le richieste di trasporto europee, già accettate dal più grande degli Hub, il Charles De Gaulle di Parigi, che di movimenti di aeromobili ne ha il triplo di Malpensa, più di duemila al giorno.
Dicono il sindaco di Varallo Pombia e gli altri ottantasei che provano ancora a mettere la sciarpa tricolore e a marciare sull’aeroporto per fermare i lavori della terza pista: “Solo dieci anni fa non sapevamo neppure o quasi che a Malpensa ci fosse un aeroporto”. Ma neanche coloro che l’hanno costruito, l’Hub, sapevano bene cosa ne sarebbe nato, un mostro che ha violato l’impatto ambientale, che è passato sopra tutti i divieti governativi. Dire oggi che Malpensa è stata imposta dai grandi poteri economici è dire solo una parte della verità. Sono stati gli dèi di questo tempo a imporla, il dio denaro, la corsa continua che fa delle autostrade lombardo-piemontesi delle piste convulse, frenetiche, cui partecipano tutti. Malpensa è il prodotto di una società omogenea nella sua imprevidenza, compatta nella sua follia. Fra i sostenitori di Malpensa si contano anche i sindacati, anche la Cgil: devono difendere i loro occupati, anche se siamo in una regione di piena occupazione, anche se è prevedibile che le occupazioni “basse” di Malpensa per le pulizie e per altri lavori manuali finiranno agli immigrati.
Vale per Malpensa la cattiva informazione o la “disinformazia” che è di tutto l’attuale modo di vivere e delle sue rapide mutazioni. La pubblica opinione sa niente e pochissimo degli scontri e dei nodi degli interessi retrostanti. Per esempio che l’alleanza fra la Klm e l’Alitalia partiva proprio dal superaeroporto, impossibile vicino ad Amsterdam, cioè dal bisogno degli olandesi di avere i grandi flussi di un Hub già esistente, il flusso continuo di quanti arrivano nel nodo logistico e di quanti ne partono. L’aeroporto gigante come supermercato nella tradizione delle grandi fiere europee, una calamita di commerci e di speculazioni. E su questi interessi reali, concreti, si sono poi sovrapposti quelli virtuali ma non meno decisivi della megalomania patriottica, per cui anche alte cariche dello stato, o almeno gli scribi al loro servizio, esortano i concittadini alla terza o alla quarta pista come conquiste della civiltà e della patria. I grandi e grandissimi interessi passano sopra i diritti e le difese di quanti negli ottantasette comuni ci vivono. Il modo è quello tradizionale del fatto compiuto: prima si dà mano alle opere preparatorie, alle infrastrutture indispensabili, strade, svincoli, collegamenti dell’energia e quant’altro, e quando l’intero paesaggio si è conformato alla grande opera non resta che costruirla. Così sarà della terza pista: una volta fatti i disboscamenti, gli sbanchi del terreno, e il sistema di attracco degli aerei, diciamo i pontili fra gli aerei e la stazione di attesa e di smistamento, chi oserebbe opporsi al completamento dell’opera, chi potrebbe sostenere che è meglio buttar via l’investimento già fatto? Lo sviluppo non si cura della vita degli uomini, figurarsi del loro costume, delle loro istituzioni. Se uno dei cittadini di qui vuole fabbricarsi un canile nel giardino deve rispettare le discipline municipali mentre i grandi poteri, alla faccia dei divieti anche provinciali e regionali, fanno dei movimenti di terra per milioni di metri cubi. E anche se tutti sanno che le leggi sono variabili fra chi sta sopra e chi sta sotto, non è un bel modo di dar forza a una democrazia già di per se fragile.
Sono state raccontate riguardo a Malpensa alcune favole dello sviluppo continuo. Una era quella del glorioso avvenire del trasporto aereo. Certo non era prevedibile la tragedia americana di Manhattan e le sue disastrose conseguenze ma il problema centrale dei grandi numeri e del poco spazio esiste e le soluzioni previste non sembrano prive di rischi e di danni. Se già ora attorno a un Hub come Malpensa la vita sta diventando difficile e a volte insopportabile, che cosa accadrà quando saranno in servizio i superaerei da ottocento o mille posti? Quali fragori, quale inquinamento produrranno in una zona che era quella del fiume azzurro e dei laghi? Per ora nell’economia locale chi ci ha guadagnato sono solo alcuni grandi alberghi e ristoranti cui vengono avviati i viaggiatori in sosta obbligata, non l’occupazione di una provincia ricca e avanzata. Pochi, pochissimi in queste fortunate contrade ambiscono a pulire le toilette e a trasportare valigie, ed è paradossale che a sostegno dell’Hub si sia usato il problema dell’occupazione in una delle plaghe in cui tale problema non esiste.
Quelli dei grandi interessi fanno presto a liberarsi dell’impatto ambientale: salgono in macchina e vanno dove il rumore c’è, ma non è così micidiale. Perché trattasi di un rumore senza tregua, preparato e seguito dall’angoscia del rumore che sta per arrivare, ogni cinque o dieci minuti, e se ritarda pensi al peggio. Andar via? Ma dove? Come? Per quasi tutti gli abitanti degli ottantasette comuni questa è una “residenza di necessità”, si son fatti la casa, hanno il lavoro da queste parti e chi mai potrebbe pensare o pagare un esodo di massa?
Al trasporto aereo va bene e la signora De Palacio, eurocrate, fa il suo mestiere affermando il dogma dello sviluppo continuo, ma se venisse da queste parti lacustri e pedemontane scoprirebbe che qui lo sviluppo continuo è già arrivato al suo invalicabile confine, che qui di sviluppo continuo la gente si ammala, che qui ci sono le massime concentrazioni di cefalee, di nevrosi, che gli allergici sono un esercito e i consumi di ansiolitici al massimo; che il trentatre percento della popolazione sta male, in stato di ansia, con sonni interrotti, con fischi e sibili nelle orecchie, con crescente incapacità di percepire le parole. Malanni superiori di sette volte a quelli della media, malanni fastidiosissimi e forse anticamere di malattie più gravi. Ma i grandi interessi non disarmano, a ogni comitato di protesta ne oppongono uno di appoggio, a ogni indagine sanitaria una predicazione opposta come: “È probabile che le donne dell’area più limitrofa a Malpensa esagerino i loro disturbi per dare maggior voce alle loro lamentele”.
I grandi interessi fanno parte, e parte dirigente, di uno sviluppo che per altri aspetti ha il consenso della maggioranza, per cui denunciarne le pecche sembra quasi una bestemmia. E che avendo dovunque voce in capitolo, poteri di censura e di persuasione riesce a spuntarla comunque. La gente lo sta scoprendo sulla propria pelle: le centraline di controllo degli inquinamenti sono gestite dalla burocrazia megalomane che ha voluto la grande Malpensa, l’informazione ne ha fatto una bandiera da difendere a ogni costo, quando il governo europeo impose delle giuste dilazioni all’apertura dei voli i media insorsero come se ci fosse stato un complotto ai nostri danni. Ma non possono negare che i grandi numeri di chi consuma e il poco spazio a disposizione restringono i confini del mondo.
Gran parte della Lombardia è inquinata ma abbiamo inventato i finti rimedi di cui i giornali riempiono i loro fogli: le mascherine che salvano i polmoni, i pattini a rotelle contro i motoscooter, le domeniche senza auto. La confessione del disastro ecologico, avvenuto e forse non riparabile, trasformata in un rito festoso e consolatorio. La gente tiene ferma l’automobile, esce in bicicletta o in monopattino, i più esibizionisti in carrozzella, guarda felice le strade vuote come a Ferragosto, porta i bambini ai giardinetti e si dice: “Tutto qui? Sarebbero questi i grandi sacrifici, le punizioni economiche, le dure discipline per uscire dall’effetto serra?”. Festanti e virtuosi. Il presidente della regione Lombardia Formigoni, che ha l’austerità di un pastore mormone, promette al suo popolo la salvezza grazie ai sacrifici. Un po’ come negli anni remoti in cui le parrocchie organizzavano raccolte di stagnole di cioccolatini da mandare alle missioni. Le cattive o pessime notizie dell’assalto all’ambiente vengono coperte dalle immagini della festa virtuosa, delle belle famiglie lombarde che respirano con sollievo l’aria avvelenata come negli altri giorni di libero traffico. I giornali sono pieni di notizie sul benefico evento e la gente pensa che se gli dedicano tanta attenzione vuol dire che è una cosa seria, un rimedio efficace. Ormai la funzione preminente dell’informazione è di inventare o partecipare alle menzogne di cui il sistema si gonfia e si droga. Tutti fingono di ignorare che il provvedimento delle auto ferme è perfettamente inutile: primo perché il giorno dopo si torna ai limiti massimi di inquinamento, secondo perché non sono le auto le principali responsabili, fanno di peggio il riscaldamento a gasolio e le polverine che si depositano sugli asfalti.
Dietro la cortina delle menzogne intrecciate, sono le stesse autorità che ordinano i finti rimedi a peggiorare la situazione. Da noi in Italia la riduzione dei gas venefici prevista dall’accordo di Kyoto del sei percento è annullata da nuovi consumi e da nuovi impianti, il presidente della regione è uno dei più accesi sostenitori dell’Hub di Malpensa dai cui aerei piovono idrocarburi nel cielo della Lombardia che “era così bello quando era bello”.
Facciamo i nostri blocchi automobilistici fingendo di non sapere che in un anno le automobili della provincia milanese sono aumentate di centomila e se vogliamo parlare più in grande che è in corso la motorizzazione di un miliardo e quattrocento milioni di cinesi e che gli Usa rifiutano ogni riduzione. Ma i blocchi del traffico nell’informazione per immagini sono benefici per la purezza dell’aria ma per l’inquietudine della gente: le auto sono davvero ferme, le strade sono davvero vuote, una certa eguaglianza fra i cittadini è ristabilita, obbediscono al divieto ricchi e poveri, ordinati e strafottenti, i vigili urbani che fermano e multano i trasgressori sono l’immagine di un’autorità restaurata e la minoranza che trasgredisce conferma la maggioranza che obbedisce.
Le autorità non sanno se l’autodistruzione del mondo è prossima o lontana e perché mai dovrebbero saperlo se lo ignorano anche gli uomini di scienza? Nei giorni di Chernobyl andai a intervistare nella sua casa di campagna sul Lago di Como un famoso professore del Politecnico; lo trovai in cerata e stivaloni di gomma contro le ceneri radioattive in arrivo dall’Ucraina, come quelli che vanno in giro con le mascherine o fumano le sigarette cori il filtro. Come; i milioni di persone che hanno creduto di salvarsi dalla mucca pazza, epidemia immaginaria, mangiando pesce al mercurio. Si è saputo che pesci pescati al Polo Sud, lontano migliaia di chilometri da ogni fonte inquinante, avevano in pancia le sostanze velenose che ormai circolano in tutti gli oceani del mondo. Ci sono alghe che di veleni industriali muoiono, pesci nobili che scompaiono come gli storioni del Po, ma ci sono anche i siluri, arrivati nel fiume al seguito di qualche nave, che raggiungono pesi e misure giganteschi. E i turisti austriaci ne vanno matti, amano la loro carne grassa.
Con i falsi rimedi le autorità costituite obbediscono al riflesso condizionato dell’ordine, non si pronunciano sull’apocalisse annunciata ma vogliono che sia disciplinata, che si vada per passi successivi, ordinati, alla camera a gas finale. Esattamente come voleva Adolf Eichmann, organizzatore dell’Olocausto.
Lodovico Meneghetti aveva sorpreso molti col suo Architettura e paesaggio. Memoria e pensieri, uscito a fine 2000 presso il medesimo editore. “Un libro che non poteva che giungere a conclusione di un luminoso magistero… Il volume… ricollega in una sorta di romanzo di formazione memorie di viaggio vividamente custodite… Allo stesso tempo fuoriesce dal dato autobiografico per dare vita a un discorso sull’arte del costruire che vuole essere anche un ponte fra le generazioni”. Così nelle prime righe la recensione di Giancarlo Consonni, rara per acutezza, apparsa sul numero 23, dicembre 2002, di “Quaderni di Architettura”. Ora con questa raccolta l’autore ricostruisce quel ponte con mezzi diversi distendendo su di esso un altro tipo di memorie recepibili come un nuovo romanzo: spezzato in parti apparentemente autonome che in realtà, mentre presentano ognuna racconti collegati, si sovrappongono ampiamente nei contenuti e nel senso. L’arco di tempo investito dai quarantasette pezzi (a cui si aggiungono, oltre alla Nota introduttiva, le quattro Premesse alle parti) e dalle opere rappresentate nelle 16 tavole è di mezzo secolo. La prima data, il 1953, coincide con l’ illustrazione della prime opere, l’ultima con un capitolo estratto da un saggio del 2002. Giovani, coetanei e persone di età intermedie potranno ritrovare fatti, notizie, argomentazioni corrispondenti a uno o più periodi personalmente vissuti, oppure scoprire qualche tratto delle “strade” (così l’autore denomina le parti) non conosciuto, o infine sfruttare l’occasione di provare per intero uno dei quattro percorsi o tutti.
La parte relativa alla Facoltà di architettura di Milano, benché non si ponga lo scopo di ricostruire una vera storia a partire dagli “anni difficili” delle lotte studentesche, offre tuttavia un quadro organico attraverso sezioni temporali successive che rappresentano bene il tormentato cammino da un allora a un oggi decisamente differente ma che non può considerarsi privo dei retaggi del passato. È naturalmente il punto di vista dell’autore che bisogna accettare: la determinazione di operare in qualsiasi frangente, anche durante la più dura repressione politica, in favore di un nuovo progetto di architettura, mentre preme anche il dovere di partecipare alla “politica” avendo in mente il destino dei giovani. L’esempio personale testimoniato dagli scritti è anche una pratica insieme alla forte minoranza con lui partecipante “al compito indubitabile della nostra scuola: formare una figura professionale denominata architetto che sia anche una persona intera, per cultura e dote morale” (nella Premessa). Quando la scuola finalmente può offrire con pienezza una “didattica aperta al territorio”, Meneghetti apre la progettazione verso l’unico modo capace di salvare il territorio milanese: la realizzazione di un modello policentrico di metropoli che comprenda la miriadi di comuni circostanti la città centrale.
Le vicende narrate, scrive Gianni Ottolini al termine della sua presentazione, “sono vicende mai banali o ‘finite’, ma questioni aperte, persistenti, attuali. Ogni studente o collega che le leggerà sentirà la pulsione di verità e di altruismo, e l’incanto per la buona architettura (e la buona musica) che sono sottesi al suo insegnamento”.
Critica dell’urbanistica e dell’architettura permette di ritrovare la figura di architetto e urbanista dedita alla lotta culturale e politica per l’affermazione dei nuovi principi sociali e disciplinari fondativi del progetto per la città, la casa, il territorio. La polemica, sempre motivata, mai impiegata come evasione dalla comprensione degli avvenimenti e dal confronto delle idee, viene sospinta dalle difficoltà in cui versano l’architettura e l’urbanistica lungo i trentacinque anni che separano l’articolo del 1964 sulla tradita riforma urbanistica dall’esauriente intervista del 1999 in “Costruire in laterizio”. In questa Meneghetti rende conto, con una precisione e un sentimento d’altri tempi, del suo rapporto con alcune opere, con i colleghi dello studio a tre, con quelli della generazione precedente, nonché della ragione del suo ingresso nell’università. Il racconto di come si era conformata l’architettura di una delle case di mattoni più note, poi, è insegnamento di come si può parlare di un proprio lavoro senza alcun compiacimento ma con la sicurezza dovuta al risultato ottenuto.
La polemica punge al di là dell’attesa quando diventa persino sconcertante tanto è anticonformista nei confronti di posizioni ambigue della sinistra. Valga l’esempio dell’articolo Equo iniquo canone (1979), scritto per “l’Unità” ma escluso. Una dimostrazione stringata, veramente scientifica sul piano dell’analisi sociale, economica, urbana ed edilizia dell’ingiustizia che sarebbe calata sulle classi a basso reddito e, al contrario, della regalìa ai proprietari; non solo, ma anche una chiara previsione dell’altrettanto iniquo disordine cui si sarebbe assoggettato il mercato dell’acquisto/vendita e dell’affitto. Il “pessimismo della ragione” trascorre lungo tutti i testi ma “l’ottimismo della volontà” si apre quando preme l’esigenza di saldare critica e progetto, di unire la disciplina alla questione sociale, di rivendicare l’unicità di architettura e urbanistica. “Il richiamo all’unità portato a gran voce da Lodovico Meneghetti in un’epoca in cui già si avvistavano le divisioni fra le discipline… è stato per me, come per molti altri, fondamentale o meglio fondativo”, scrive Antonio Monestiroli nella sua presentazione. Sotto questo aspetto risalta la lunga intervista Ricominciare l’urbanistica, del 1980.
Certo gli avvenimenti più recenti sembrano la tomba di ogni speranza circa la funzione sociale e culturale dell’architettura e dell’urbanistica. Meneghetti, scrivendo la Premessa alla parte, lancia i suoi ultimi strali: “L’urbanistica del progetto leale, fiducioso e di lotta contro i devastatori del territorio è morta”. Secondo certi colleghi oggi l’urbanistica la fanno logicamente le imprese, la fa “un raccomandabile ‘gioco delle forze’”, la fa il mercato; come a Milano: vedi il documento programmatico, vedi il caso Bicocca. “Intanto è morta anche l’architettura, già separata dall’urbanistica e, per questo, indebolita anziché rafforzata come si era potuto credere. È morta quale mestiere civile comunitario anch’esso di lotta… verso l’individualismo che ignora il contesto sociale-spaziale e pretende solo l’esaltazione del sé anche quando il risultato appare… irrimediabile errore e inopinabile bruttezza. Un esempio attuale? Ecco il gherkin di Norman Foster, il troppo famoso padrone di cento architetti-robot al suo servizio.” Sappiamo che non è il solo.
Nella terza parte, Segni di architetti, Meneghetti si rivolge soprattutto ai giovani. “Gli aspetti particolari relativi ai tre maestri stranieri” (Berlage, Taut, Le Corbusier) trattati con grande chiarezza pedagogica in due articoli di fondo dei “Quaderni del Dipartimento di progettazione” e in un articolo sul “Manifesto” possono essere interpretati come messaggi morali, perché la grandezza dei personaggi in causa insita in certe opere e specifiche azioni rivolte al bene di una comunità è essa segno di moralità. L’omaggio a De Carli e a Bottoni poi, egli lo scrive con tale commossa ma provata sincerità e sicura memoria descrittiva e critica, da ricacciare lontano ogni rischio di retorica. Anche in questo caso la Premessa, che aggiunge utili informazioni circa le proprie ascendenze culturali più ampie rispetto ai “segni” o addirittura ad alcuni di questi estranee, non rinuncia all’allarme critico verso la sparizione, nell’attuale architettura, della memoria storica e della vocazione sociale, oltre che della sensibilità al contesto. L’autore si oppone alla falsa originalità di troppi architetti, alla presunzione di autonomia di un’architettura tutta tecnologica: “non esiste architettura degna del nome senza sentimento di appartenenza”.
Fra gli scritti dell’ultima parte, Milano e Milanese, quelli dedicati alla città, a partire da Milano uno spazio in sfacelo del 1984, potrebbero essere datati oggi. Lodovico Meneghetti, con una verve polemica giustificata da una straordinaria conoscenza dei fatti, anche i più minuti, e della posizione ‘culturale’ di amministratori ed ‘esperti’, inoltre da una incredibile capacità di utilizzare dati statistici incontestabili per demolire convinzioni sbagliate e scelte assurde, ci mostra che la Milano odierna, alla quale l’autore riserva un pesante giudizio del tutto meritato, non è che l’erede in coma di quella d’allora e che le colpe per aver segnato un triste destino sono ripartibili fra amministratori incapaci e opportunisti, nuova media-borghesia commerciale esosa, politici si sa quali, modisti, architetti e urbanisti ciechi o compartecipi. I pochi veri oppositori non potevano bastare. Meneghetti tuttavia non rinuncia a disegnare una trincea di resistenza mediante possibili interventi, come prospettati durante l’ insegnamento, nella metropoli estesa, nella nuova periferia esterna al comune di Milano: sia di risanamento ambientale mediante una politica di vastissime piantumazioni, sia di circoscrizione degli insediamenti ancora recepiti come poli entro la spaziatura di un paesaggio agrario che rifiuti la resa ai vandalici invasori.
Che dire, infine, del piccolo promemoria costituito dall’inserto illustrativo di alcune delle opere progettate dal terzetto Gregotti-Meneghetti-Stoppino, prima novarese poi milanese? Opere più volte pubblicate e oggetto di importanti valutazioni critiche? Nulla, in questa sede, da me che, nonostante il lungo tempo trascorso, mi sento ancora pervaso dallo spirito speciale e dall’entusiasmo per l’architettura e l’urbanistica della “scuola di Novara” che ho potuto frequentare, se non rimpiangere la perdita di quei rapporti pedagogici, professionali, umani soprattutto.
Un libro come questo non poteva che giungere a conclusione di un luminoso magistero, nel quale - prima presso la Facoltà di Architettura di Milano e poi di Milano-Bovisa - per 35 anni senza risparmio di energie Lodovico Meneghetti ha trasmesso ai giovani la sua vasta cultura assieme ai segreti del mestiere di architetto acquisiti in un’intensa pratica ‘artigianale’. La tensione civile e l’affabulazione pedagogica sono le stesse, ma filtrate da un bilancio.
Il volume ha una forma insolita e accattivante. Si misura con l'arte del costruire, ma non è né un trattato né un manuale. Ricollega in una sorta di romanzo di formazione memorie di viaggio vividamente custodite: inscena l’accostarsi paziente e ripetuto all’architettura. Allo stesso tempo fuoriesce dal dato autobiografico per dare vita a un discorso sull’arte del costruire che vuole essere anche un ponte fra le generazioni.
Duca è il Simon Schama di Paesaggio e memoria, ma ideali compagni d’avventura sono anche il viandante schubertiano del Viaggio d’inverno e il «lavorante girovago» mahleriano. Riferimenti espliciti e tutt’altro che estemporanei. Lo attesta la capacità di Meneghetti di patire le cose e la libertà con cui compie il suo viaggio nei viaggi.
Per non dire della stessa struttura musicale del libro. Tre temi, tre capitoli: Albero, Flusso, Terra. Quindi Intermezzo - il capitolo fulcro che ha per protagonista proprio il rapporto architettura/musica - seguito da Viaggio in un senso, ripresa sinfonica dei temi musicali enunciati nei primi tre capitoli. E, a chiusura, il gran finale: Ragione e sentimenoi nell'architettura e paesaggio dei Maestri.
È l’ordito di un’opera aperta concepita per un’«educazione sentimentale» all’architettura. I molti inserti narrativi istaurano una situazione conviviale, rafforzata e resa non convenzionale dalla scelta dell’autore di mettersi in gioco con precisi giudizi e commenti.
Il modo è inusuale. Nell’insegnamento accademico e nel lavoro critico è difficile vedere affrontati temi e questioni come quelli relativi al gusto, all’identità dei luoghi e alla civiltà che si esprime nelle opere. La critica è sempre più appiattita sulle logiche massmediatiche: l’abbagliante luce delle star mette fuori discussione l’opera. L'accademia si dibatte in una sorta di schizofrenia: oscilla tra l’indicazione di ingessati modelli stilistici e il riferimento quasi esclusivo alla «tipologia edilizia». In diverse scuole, negli ultimi tre decenni, il «tipo» è diventato una sorta di buco nero che molto ha assorbito del discorso sull’architettura. Con fraintendimenti disorientanti sul piano scientifico e formativo: troppo spesso il discorso sul tipo tralascia di distinguere quando il termine sta a indicare l’esito di una classificazione, quando è il riconoscimento di un organismo prodotto da processi storico-sociali, quando vuole essere l’indicazione di una regola ordinatrice dei tessuti urbani; o quando, ancora, in continuità con l’etimo greco, sta per impronta, inizio, matrice.
Lontano da queste secche, Meneghetti riporta l’architettura all’esperienza diretta, tanto che con Cézanne potrebbe affermare: «le sensazioni formano il fondamento del mio lavoro». Allo stesso tempo, è ben consapevole come, per colmare la distanza che intercorre tra le sensazioni e il senso, si renda necessaria «un’organizzazione dell’esperienza» (p. 64). Mentre è attento alla singolarità e alla irriducibile unicità del luogo, attraverso una meditata scelta degli esempi intreccia un discorso a tutto campo sul rapporto architettura/paesaggio e sulle sue manifestazioni paradigmatiche.
Ma l’affiorare di un ordito teorico nella trattazione non toglie mai all’architettura il suo carattere di concreto fatto materiale. In questo Meneghetti è in sintonia con quanto acutamente osservava Romano Guardini nel 1926: «L’uomo vuole liberarsi di questa unicità perpetuamente ripetuta, di fronte alla quale egli a lungo andare dovrebbe soccombere, per arrivare a un insieme, a un atteggiamento valevole per molti, possibilmente per tutti i casi ed essere così in grado di dominare interamente la realtà che l’attornia. Per ottenere questo egli si sottrae al colloquio che lo metteva direttamente faccia a faccia con la cosa, esce dalla condizione immediata, in cui egli alternativamente era colui che afferra e colui che è afferrato; se ne sottrae per porsi da un punto di vista situato ad di fuori dei questa comunanza tra l’Io e le cose».[1]
È stato osservato come l’invenzione quattrocentesca della finestra quale cornice/soglia che inquadra la veduta prospettica coincida con «la scoperta del paesaggio occidentale. Infatti la finestra è quel riquadro che trasforma il paese in paesaggio, isolandolo, incastonandolo nel quadro» [2]. Con questa invenzione la pittura segnala l’avvio di un passaggio epocale: il distacco dell’individuo dal corpo del mondo come condizione di un nuovo dominio. Il processo è lento e travagliato. Dovranno passare due secoli perché il delinearsi della prospettiva di «ridurre la natura in ceppi» propugnata da Francis Bacon e la separazione cartesiana di corpo e anima riferita anche al mondo materiale segnino l’avvio della tappa successiva: la marcia trionfale della rivoluzione industriale e della secolarizzazione.
Spetterà quindi a Kafka e a Beckett illuminarci sull’ulteriore passaggio che ci vede oggi attori passivi: lo spaesamento fino alle intraviste, estreme conseguenze: l’esilio dell’uomo dal mondo.
Architettura e paesaggio non si adagia su questa linea di forza che sembra vincente e tantomeno cade nella tentazione di farsene mosca cocchiera (come invece si può riscontrare in diversi documenti programmatici del Movimento Moderno e oggi in mostre che si accontentano di uno sguardo autocompiaciuto delle proprie definizioni formalistiche, le quali finiscono di fatto per celebrare il day after dell’urbanità e della cura dei luoghi [3]). Anzi.
Così come con l’architettura neo-liberty - di cui è stato protagonista con Vittorio Gregotti e Giotto Stoppino - Meneghetti guardava fra gli altri a William Morris, allo stesso modo il libro è costruito in polemica controtendenza. Per lui il paesaggio non esclude il paese, ovvero il luogo assunto nella sua totalità, nelle sue valenze di senso e nella sua abitabilità. Tanto che a epigrafe del volume si potrebbe porre quest’altro passo delle Lettere dal lago di Como: «Qui, in questi luoghi, mi sento personalmente interpellato da ogni parte […]. Qui si ergono davanti a me forme, direi, quasi in carne ed ossa; mi trovo a vivere in mezzo ad esse e con esse ho contatti viventi. Mobili, case, strade, città sono altrettante personalità» [4].
Si tratta dunque di una presa di contatto totale e insieme sorvegliata. Come nel famoso dipinto Il viandante sul mare di nebbia (c. 1818) di Caspar David Friedrich, l’autore è il viandante colto di spalle mentre afferra ed è afferrato dal paesaggio: si osserva nelle proprie sensazioni e reazioni come essere «gettato nel mondo» (Merleau-Ponty). Un esempio: «Quando varcammo la soglia della più grande moschea del mondo, dopo la Caabah della Mecca, la celebre Medjid al Djamía di Cordova, bastò poco per sentirsi come presi al petto dall'emozione che la foresta di colonne fittamente collegate da doppi archi cagionava. Se si può affermare di aver provato sensazioni al di là di quella visiva, cioè effetti mentali prodotti dalla stimolazione del corpo dovuti, forse in maniera distinta dalla percezione, alla visione di un paesaggio architettonico, lì, nella mezquita, aggirandoci in uno spazio così agevole, abitabile grazie alla sua etica umanità, se ne provarono le più profonde» (p. 22).
Qui, come in altre rievocazioni di visite a luoghi notevoli, l’uso del passato remoto - e più raramente del presente storico - rimarca la solennità dell’evento: il ricordo è consegnato a un per sempre, e come tale è restituito con incisività e immediatezza. Il sentire è a 360 gradi: tutti i sensi sono mobilitati e così le fondamentali sinestesie: l’ordito musicale di ciò che si offre alla vista, la tattilità della materia osservata. Le costruzioni e i paesaggi sono osservati, ascoltati, toccati con gli occhi e con le mani e il tutto è riportato come se accadesse in quel momento, con lo scrivente e il lettore immersi nello stesso flusso di sensazioni ed emozioni. A ciò si accompagnano precise annotazioni orientative sui caratteri geomorfologici e naturalistici del contesto e sulle matrici e le valenze di senso delle opere che mettono in condizione chi legge di esercitare un proprio giudizio critico.
La capacità di muoversi su una tastiera temporale molto ampia - tra testimonianze antichissime e opere di maestri contemporanei - concorre a distinguere ulteriormente Architettura e paesaggio nel panorama disciplinare.
Rispetto ad altri suoi scritti, qui Meneghetti sembra lasciare sullo sfondo le vicende urbane come se volesse andare alle radici stesse del costruire. Lo interessa il rapporto diretto con la natura e il cosmo: la capacità dell’architettura di dare vita a una bellezza le cui prerogative già Gogol’ nelle Anime morte (1842) aveva colto perfettamente: «quella bellezza che non sanno creare né la natura né l’arte, e che si ottengono soltanto quando queste si riuniscono insieme […]».
A ben guardare è la bellezza sublime la luce attorno a cui ruotano le pagine di questo libro. Lo conferma la stessa preferenza data a quei contesti - il deserto, il mare, i fiumi, le montagne, le gole, le rupi, i crateri - in cui la natura si mostra in una sua forza geologica originaria e insieme costituita di «materie reali e mentali, principi vitali e morali»[5]. Così come è significativo che venga quasi del tutto trascurata la bellezza ‘ordinaria’ del giardino e dei parchi, e in generale le situazioni in cui l’architettura si applica direttamente agli elementi naturali in una sorta di addomesticamento che l’autore sente come artificioso.
Nel contempo l’interesse maggiore sembra andare a quelle architetture che hanno saputo sussumere o comunque dialogare con i principi vitali e morali intravisti dall’autore nella natura primigenia. L’architettura megalitica lo affascina per come sa catturare e restituire la primordialità geologica; Castel del Monte lo attrae nella sua potenza di gigantesco cristallo; i grandi monumenti dell’antichità egiziana, greca e romana lo interessano per la capacità di organizzare e portare ad espressione le energie ancestrali dei luoghi. E la narrazione trascorre con naturalezza da Carnac a Mies van der Rohe, dalla grecità ad Alvar Aalto con collegamenti espliciti e impliciti, inaccettabili per molti storici dell'architettura, ma importanti per chi l'architettura la fa e ne sa cogliere matrici e potenzialità di senso. All’autore interessa capire come questi e altri grandi maestri della contemporaneità - Gaudí, Le Corbusier, Wright - abbiano saputo rinnovare il dialogo con il fascino e il mistero della creazione.
Nell’andare alla ricerca del legame che nella costruzione si instaura fra ragione, misura, etica e bellezza sublime, Meneghetti si mostra immune da semplificazioni, convinto com’è che non ci sia una regola assoluta (p. 66). In primo luogo, suggerisce, bisogna imparare a riconoscere la bellezza e a goderne: questa è la condizione per poterne parlare. Qui emerge una delle valenze civili del libro: quella didattica. Le narrazioni sui luoghi-teatro dell’incontro di architettura e natura in cui il viandante è catturato dal mistero hanno anche il sapore di esercizi in tema di gusto: un mettersi alla prova come in un dialogo interiore che è insieme socraticamente aperto, volto a sollecitazioni maieutiche verso il lettore.
L’invito non cade nel vuoto anche perché chiare ed essenziali sono le chiavi di ingresso.
Il tema dell’incontro di architettura e natura è affrontato assumendo a riferimento l’esemplare lavoro creativo che dal 1908 al 1921 Mondrian compie sulla forma dell’albero: il suo evolvere - per usare espressioni di van Doesburg - dalla forma «mutuata dalla natura» alla «pura impressione plastica». Anche alla luce di questo percorso, Meneghetti rimarca come il rapporto architettura/natura si possa nutrire di due modalità essenziali: da un lato i passaggi intermedi del percorso di Mondrian: l’imitazione e la contaminazione; dall’altra il porsi vis-à-vis del primo e dell’ultimo dei passaggi, ovvero il contrappunto natura/artificio all’insegna del contrasto ma anche della complementarietà, (come la Fontana dei quattro fiumi del Bernini e la Fontana di Trevi di Nicola Salvi teatralizzano nello stesso artificio).
Tra le esemplificazioni di un’armonia ottenuta per continuità mimetica spiccano nella trattazione esempi antichi, come i Metéora monasteria della Tessaglia, ma anche moderni: il Gaudí del parco Guell (e non solo), il Le Corbusier della cappella di Ronchamp. Quanto al contrappunto si spazia da esempi di case d’abitazione - la ville Savoye di Le Corbusier, la casa Farnsworth di Mies van der Rohe, la Glass House di Philip Johnson - ai ponti in ferro di Eiffel e Rothlisberger.
Ma nel reciproco cercarsi delle polarità della natura ‘naturale’ e dell’artificio si danno anche declinazioni che partecipano di entrambi i modi. È il caso di molte architetture della classicità greca, ma anche di alcune opere di Frank Lloyd Wright e di Alvar Aalto. Dove il principio vitale operante nei fatti naturali trova un’eco che informa nell’intimo l’organismo architettonico, stabilendo più profonde sintonie.
Di fronte alla forza emozionale di queste e di altre architetture sublimi, Meneghetti può mostrare come il rapporto artificio/natura superi i termini stessi della «composizione» per assumere quelli di una relazione di dono: architettura e paesaggio (a forte dominanza ‘naturale’) si donano l’una all’altro, divenendone il compimento reciproco. Quando si dà questa condizione - si vedano le pagine su Pont du Gard, Petra, Stonehenge, Segesta, Capo Soúnion, Delphí, Epidauro e altre ancora - allora la presenza umana è a sua volta invitata a comportarsi come se le fosse richiesto di cooperare al compiersi del dono: di divenire l’anello che chiude un rapporto cosmico. Se nella narrazione del sopralluogo a Delphí ciò è esplicitamente indicato - «Noi stessi ci sentiamo legame» (p.86) -, in molti altri passaggi di Architettura e paesaggio assistiamo a manifestazioni di quella che Jean Starobinski ha chiamato la «contemplazione espansiva»[6].
Dei maestri della modernità a Meneghetti interessa soprattutto la lezione di libertà: la capacità di dare corpo e anima alle cose mentre si porta a espressione compiuta la personalità dei luoghi. L’opposto sia dell’imposizione atopica di stilemi bloccati sia della pseudo-libertà del solipsismo che devasta i paesaggi. Il senso ultimo del viaggio è ricercare le manifestazioni di una libertà intesa alla Romagnosi: la «libertà del comune sentire», del reciproco riconoscersi nella comune umanità. È questa l’altra valenza civile del libro.
Nel mettere in campo oltre mezzo secolo di ‘pellegrinaggi’ il cui elenco è già di per sé un racconto[7], Architettura e paesaggio si presta anche a fare da testimone di un mutamento epocale. Si aprono qua e là pagine di dolorosa presa d’atto di devastazioni e collassi che hanno colpito paesaggi che solo qualche decennio fa potevano dirsi mirabili.
Meneghetti sa bene come sia delicato il rapporto architettura-luogo e come il degrado dei contesti porti con sé una sottrazione di valenze di senso allo stesso manufatto architettonico. Si veda la bella lezione di architettura urbana sul Seagram Building osservato una prima volta appena costruito e una seconda nel 1980, con la registrazione di una delusione: «Grattacieli affastellati, talune penose imitazioni del capolavoro (con quel disegno del completamento in alto del volume diventato una mania più che una maniera), avevano non solo abolito la prospettiva storica lungo la Park Avenue, ma anche il significato, se non il fatto della piazzetta. Il Seagram sembrava corrucciato, ritrattosi da tanta bruttura. E, peggio del peggio, era sparito il cielo sopra il neogotico grattacielo e la retrostante Central Station. Tutto si confondeva ora con l'enorme massa del Pan Am (oggi Met-Life) Building, costruito assurdamente “sopra” la stazione, opera la cui consulenza dell'ottantenne Walter Gropius ho sempre ritenuto spuria» (p. 95).
La rottura epocale tra l’allora e l’oggi è motivo centrale del libro. L’autore si fa testimone della devastazione che si è consumata negli ultimi trenta-quarant’anni. I paesaggi-teatro segnati dalla presenza di monumenti della classicità greca e romana visitati nei primi anni del dopoguerra erano in fondo meno lontani da quelli del Grand Tour di quanto lo siano da quelli di oggi.
Sul paesaggio contemporaneo si è da tempo aperta una polemica tra chi vede nella gran parte delle trasformazioni un regresso della civiltà del costruire e chi sostiene sia soprattutto una questione di ‘sguardo’: che si ponga preliminarmente la necessità di ridefinire i criteri di descrizione e valutazione. È un dialogo quasi impossibile perché condotto su livelli che non si incontrano. Su questo Meneghetti sembra non avere dubbi: attrezzarsi per riconoscere le nuove regole che sottostanno al caos reale o apparente è certo necessario, ma questo non può impedire di cogliere la caduta di una tensione all’unità dialettica fra architettura e paesaggio che si è consumata in questi anni.
C’è poi chi ormai coltiva lo spaesamento degli oggetti architettonici indicandolo come l’unico modo ‘attuale’ di interpretare la condizione metropolitana. È in fondo una giustificazione a posteriori di un processo in cui si manifesta sia il narcisismo esasperato che dagli individui si trasferisce agli oggetti sia un’inquietudine: l’aspirazione a far irrompere l’altrove nella finitezza dei luoghi.
Ma anche in questo caso si tratta di un equivoco: la grande architettura che fonda il luogo è strumento di identità e radicamento e insieme capace di una evocazione di senso tanto ricca che in essa trova spazio anche l’altrove.
[1] Romano Guardini, Briefe vom Comer See, Grünewald, Mainz 1953 (1926), trad. it Lettere dal lago di Como. La tecnica e l’uomo, Morcelliana, Brescia 1993, pp. 26-27. Sottolineatura mia.
[2] Alain Roger, Il paesaggio occidentale, in «Lettera internazionale», a. VII, n. 30, ottobre-dicembre 1991, p. 39.
[3] Il riferimento è alle mostre Mutations (Bordeaux 2000-2001) e USE Dentro la città europea (Milano 2002).
[4] Guardini, cit., p. 25.
[5] L’espressione è usata in particolare per «le foreste i fiumi le montagne» (p. 15).
[6] Jean Starobinski, Tra Proust e Ruysdael, in «Lettera Internazionale», cit., p. 37.
[7] Lo riporto per comodità del lettore: Un parco di sequoie, il Parque Güell di Gaudí a Barcellona, la mezquita di Cordoba dalle 514 colonne, la Fountains Abbey nello Yorkshire, le fontana dei Fiumi in piazza Navona di Gian Lorenzo Bernini, la fontana di Trevi di Nicola Salvi, il palazzo di Vaux-le-Vicomte, il Bol’soj Dvorec di Petrodvorec con la sua Gran Cascata, il Pont du Gard, il trecentesco Ponte delle Torri a Spoleto di Matteo di Giovanello, il cinquecentesco ponte turco sulla Neretva a Mostar, il ponte di Paderno sull’Adda dell’ingegnere Giulio Rothlisberger, il ponte sul Tarn in Lozière (Francia) di Gustav Eiffel, e sempre di Eiffel il ponte Maria Pia sul Douro (Portogallo) e il Viaduc de Garabit sulla Truyère nel Cantal (Francia), il tempio rupestre di Ramesses II ad Abu Simbel, il tempio di Iside nell’Isola di Philae, il Mount Rushmore Memorial dello scultore Gutzon Borglum, i metéora monasteria della Tessaglia, il Sacro Monte di Varallo, il Santuario di Santa Caterina del Sasso sul lago Maggiore, il Monte Bianco, il Resegone, l’Acropoli di Atene, il tempio di Giove Anxur sul Monte Sant’Angelo a Terracina, il Castel del Monte nei pressi di Andria in Puglia, Castel Lagopesole in Basilicata, Notre Dame du Haut a Ronchamp di Le Corbusier, la Wilhelmshöe a Kassel in Assia, il bolognese portico di San Luca, il portico di Monte Bèrico a Vicenza, il Monte Stella a Milano di Piero Bottoni, la gravina tufacea di Massafra in Basilicata, i Sassi di Matera, les Beaux de Provence, Petra, le ricostruzioni di Arthur Evans a Cnosso, la Sainte Madeleine di Vezelay “ripristinata” in facciata da Viollet-le-Duc, gli allineamenti di Ménec, Kremario e Kerlescan a Carnac, Stonehenge, Paestum, Segesta, Selinunte, la Valle dei Templi di Agrigento, capo Soúnion, il tempio di Aphéa nell’isola di Egina, il convento di Sainte Marie de la Tourette a Éveux-sur-l’Arbresle di Le Corbusier, Delphí, Olympia, Epidauro, la Ville Savoye a Poissy di Le Corbusier, la Maison Carré di Alvar Aalto a Bazoches a sud di Parigi, il monumento a Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg a Berlino di Mies van der Rohe, e sempre di Mies il Seagram Building a New York e la casa Farnsworth a Plano (Illinois), la Glass House a New Canaan (Connecticut) e il Lincoln Center di New York di Philip Johnson, e, infine, un intenso pellegrinaggio fra le opere di Frank Lloyd Wright e di Alvar Aalto.
Quello che segue potrebbe essere il lieto resoconto di un viaggio italiano. Un viaggio nella celebrata varietà del nostro paesaggio, avviato con animo sereno e ben disposto a nutrirsi di alimenti soavi, quali possono offrire la bellezza e la conoscenza. L’itinerario si presta, alternando la realtà urbana a quella dei paesaggi naturali, l’altezza vertiginosa dei picchi al movimento ondulare delle colline, l’irruenza di alcuni mari al placido correre di un fiume; e la materia gode sia di robusta tradizione letteraria, sia di luminosa esperienza iconografica. L’Italia è stato il paese che ha accolto il maggior numero di viaggiatori illustri e poche altre nazioni possono vantare l’abbondanza di descrizioni che si sono riversate sulle sue città, le sue campagne, le sue chiese e i suoi siti archeologici – fino a costituire, tali opere, un genere che tocca i terreni della saggistica e della narrativa, pur non riducendosi a nessuno di essi e anzi restando una scrittura a sé, letterariamente abilitata proprio dalla quantità e qualità dell’oggetto.
Anche il resoconto che segue avrebbe potuto accodarsi a quel genere, e pur senza nutrire alcuna ambizione espressiva – consapevole della distanza, misurabile in ere, da quei capolavori – avrebbe coltivato quantomeno la speranza di offrirsi quale vademecum in un paese che, alla vasta celebrazione del passato, potesse far corrispondere un altrettanto nobile fotografia del presente. Dalla laguna di Venezia alle rovine magnogreche di Agrigento, l’Italia avrebbe potuto sfoggiare l’abito variamente ricamato che la storia ha fatto indossare alle sue forme naturali, una storia che ha lasciato scoperte alcune di queste forme, fidandosi del profilo sinuoso di una valle o del rude frastagliarsi di una scogliera, e ne ha ricoperte altre di costruzioni monumentali oppure di città edificate secondo criteri di benessere e di qualità del vivere.
Così non è. Questo libro racconta l’Italia maltrattata, quella parte consistente del paese che ha smarrito ogni senso, il valore delle proporzioni e con esso la giustizia e la sicurezza: la giustizia, perché un edificio tirato su dove non dovrebbe o una strada che spazza terreni coltivati o frange boschive rispondono a una volontà di accaparramento di qualcuno – solitamente, ma non sempre, un privato – ai danni di altri – solitamente il pubblico; la sicurezza, perché un edificio abusivo o una bretella autostradale possono violare equilibri spesso delicati, mettendo a repentaglio l’incolumità di esseri umani.
Negli ultimi cinquant’anni l’Italia ha cambiato radicalmente la propria fisionomia, una fisionomia che grosso modo ha resistito per secoli in virtù di una crescita avvenuta a ritmi controllati e in dimensioni equilibrate. Le alterazioni dell’ultimo mezzo secolo si sono verificate non in conseguenza di straordinari sconvolgimenti politici o sociali, ma di eventi quotidiani, di lunga durata e che si rendevano riconoscibili solo a posteriori. Nei secoli scorsi l’Italia ha patito conquiste e invasioni. Il suo territorio è stato solcato da eserciti regolari e da bande di mercenari. Travolgenti terremoti hanno scosso il sottosuolo e violente eruzioni vulcaniche hanno rovesciato antichi assetti geologici. Come in tutto il mondo occidentale, anche l’Italia ha subito modifiche nei rapporti fra la città e la campagna dopo la caduta dell’Impero romano, durante i secoli del feudalesimo, nel Seicento e in occasione dei processi di innovazione industriale. Le città hanno assorbito e perso abitanti, si sono espanse e ristrette. Hanno sottratto spazio alle campagne e poi gliel’hanno restituito. Ma il movimento del dare e dell’avere si è ridotto entro limiti compatibili. Le città, poi, sono state distrutte dai bombardamenti di due conflitti mondiali. Le campagne sono state piagate dalla malaria, affondate dalle inondazioni e sono rinate grazie alle bonifiche idrauliche e fondiarie.
Nel mezzo secolo appena trascorso, invece, l’Italia ha goduto di uno dei periodi più felici della sua storia. Ha archiviato le guerre e ha visto crescere in modo costante, a tratti impetuoso, i suoi livelli di benessere. Ha beneficiato del progresso scientifico e ha distrutto malattie mortali. Ha ampliato il sistema industriale, ha migliorato i collegamenti infrastrutturali. Ha sconfitto quasi del tutto l’analfabetismo ed ha assistito all’unificazione della sua lingua. Ha costruito solide istituzioni e reso i suoi abitanti custodi dei valori democratici.
Eppure durante questo incessante, pacifico e tranquillo periodo di progressi, silenzioso e con pochi sussulti, il territorio italiano ha pagato un prezzo altissimo. Ha subito un consumo la cui intensità non ha termini di paragone con il passato né con ciò che è accaduto in altri paesi europei assimilabili al nostro. L’edificato si è esteso oltre ogni limite: abitazioni, stabilimenti industriali e commerciali, strade e autostrade hanno invaso terreni un tempo destinati all’agricoltura, si sono arrampicati lungo le pendici collinari, erodendo vigneti e uliveti, gli insediamenti si sono estesi lungo le coste, fino ad abbarbicarsi su scogliere e promontori una volta coperti da arbusti e ciuffi di vegetazione mediterranea. All’edilizia di pregio si è affiancata quella scadente, a quella che ha rispettato princìpi di armonia si sono accompagnate le brutture, le mostruosità e le idiozie. Dopo le prime sono spuntate le seconde e per alcuni le terze case. Accanto all’edilizia legale ne è dilagata una illegale, avviata senza permessi, in violazione di norme che solo in rarissime occasioni qualcuno si è impegnato a far rispettare (l’abusivismo edilizio è uno dei poco invidiabili primati italiani nel mondo [ES1] ). L’aspetto fisico di molte estensioni pianeggianti, di località collinari o di piccoli e grandi addensamenti urbani, persino alla sommaria percezione che può offrire il confronto fra due fotografie scattate a cinquant’anni di distanza, mostra tali e tante diversità da rendere non più identificabili i loro tratti distintivi, gli elementi minimi che li rendevano conoscibili.
Questo libro avrebbe potuto raccontare gli sforzi delle amministrazioni pubbliche per consolidare, conservare e riparare, laddove necessario, un patrimonio diffuso che raggiunge vette monumentali, sia nei manufatti che nel paesaggio, o che invece si disperde più minutamente in un filare di aceri che sorreggeva una vite maritata, in una pieve, negli sparuti resti di un porto fluviale di età imperiale. E in effetti la grande maggioranza delle Soprintendenze può vantare una mole di competenze, di tutela, di manutenzione e di restauri che, se messa in rapporto ai pochissimi fondi, agli stipendi ridicoli e a un carico insopportabile di burocrazia, andrebbe narrata con gli strumenti dell’epica. E analogo genere letterario verrebbe usato per tanti magistrati, assessori, funzionari e dirigenti comunali e regionali, per tanti vigili urbani, o per quella quantità indefinita di cittadini che aderiscono a comitati locali o ad associazioni nazionali in difesa del territorio. Ma nonostante tutte queste energie, con la segreta aspirazione di ricaricarle, il libro che segue non può che registrare l’incapacità dei poteri pubblici di contenere un’espansione cementizia intenta a divorare la risorsa non rinnovabile del suolo. Una risorsa che le nostre generazioni avrebbero l’obbligo di conservare per quelle future almeno nello stato in cui l’hanno ereditata e che invece stanno dissipando a ritmi travolgenti, convinte di averne la totale disponibilità, annebbiate nella soddisfazione di bisogni presenti, e ritenendo illimitate le possibilità che quella risorsa si riproduca, oltre che illimitate le proprie attitudini alla manipolazione. Accanto all’incapacità si protende la volontà. Edificare, a prescindere dagli scopi e dalla qualità, è ritenuto un moltiplicatore di profitti, un equivalente dello sviluppo, un suo sinonimo, come se la ricchezza delle nazioni si misurasse in mattoni, e come se la natura, ostile all’uomo iuxta propria principia, solo trasfigurata e imbrigliata, ricoperta di muratura, fosse resa di pieno dominio e finalmente inoffensiva.
La sensibilità verso la salvaguardia del territorio è cresciuta. Le associazioni ambientaliste sono tenute in buona considerazione. E anche le politiche, l’etica pubblica hanno risentito della diffusione mondiale di parole d’ordine come ‘sostenibilità’, ‘compatibilità’, ‘limiti’ e altre ancora. Nel 1983 si iniziò l’abbattimento di circa duemila casette abusive nel bosco della Sterpaia, fra Piombino e Follonica. E dalla metà degli anni Novanta i governi nazionali hanno avviato la demolizione di tanti edifici abusivi in altre zone d’Italia sostenendo gli sforzi delle autorità locali, il coraggio di alcune procure. Ad Agrigento, per esempio, si sono abbattute villette nella Valle dei Templi. Il sindaco di Eboli ha guidato le ruspe contro 400 abitazioni costruite nella pineta, anche ad opera di camorristi. Sono finite in calcinacci le torri del Villaggio Coppola, l’Hotel Amalfitana a Fuenti, centinaia di costruzioni nell’agro romano, nell’oasi del Simeto. Poi questo impeto si è arrestato e una legge, a lungo attesa, e che avrebbe dovuto mettere ordine nelle procedure di repressione delle demolizioni, si è arenata. Contemporaneamente, e con meno clamore, perché attuato sul terreno discreto delle norme e dei decreti, proseguiva lo smantellamento di istituti che regolavano l’uso del territorio. Si è esibita l’intenzione di snellire procedure – e fin qui tutto bene – ma si è mirato direttamente a far saltare passaggi e verifiche importanti, in ossequio supino, culturalmente passivo a uno spirito del fare, che per anni si presumeva annichilito da una civiltà della chiacchiera. Una rivoluzione che si riverberava nel lessico della politica e dell’amministrazione. Rapidità contro lentezza. Esecuzione contro riflessione. Decisione contro dibattito. In particolare si è adoperata la fantasia giuridica per aggirare gli strumenti tradizionali della pianificazione urbanistica, un repertorio quanto si vuole invecchiato, probabilmente da riformare radicalmente, ma l’unico che si conosca in grado di guidare gli interventi in un luogo da un punto d’osservazione unitario, complessivo e, come si dice, di sistema.
Il centrosinistra, che numerosi meriti ha acquisito nel governo del territorio dopo quattro decenni di devastazioni, ha maturato la convinzione – sono parole di Salvatore Settis – che per battere la destra avrebbe dovuto realizzare venti cose di quelle cento che lo schieramento avversario sbandierava: ma in questo modo la destra non è stata battuta e, una volta vinto, si è trovata parte del lavoro già esaurito e si è dilettata, con mezzi più sperimentati, a strafare (bastino solo gli esempi della legge Obiettivo del ministro Pietro Lunardi, che programma una sequela di opere pubbliche, e la Patrimonio S.p.A. del duo Tremonti-Urbani, che prevede la possibilità di vendere, fra gli immobili dello Stato, anche beni culturalmente e artisticamente rilevanti).
Questo libro si nutre di un ragionevole pessimismo, indispensabile nell’agire, ma non vuole indurre allo scoramento (se dovesse accadere sarebbe l’effetto, mal tollerato, di un cattivo controllo dell’intelletto sulle passioni). Dopo tre capitoli centrati su questioni generali che mi pare offrano l’esempio della strutturale anomalia italiana – il consumo di suolo, la deregulation e l’abusivismo – vengono raccolte otto storie di maltrattamento. La fisionomia di questi racconti è assimilabile a quella di un reportage: descrizione dei luoghi, testimonianze dei protagonisti, inchieste, approfondimento, storia. Con il linguaggio, mi auguro, più consono a quello dei reportages. Uno dei criteri di scelta, sempre arbitrario (il libro, come si dice, è aperto: tali e tante sono le vicende che lo possono riempire), è la qualità direi drammatica delle storie da raccontare: per intensità dell’abuso, ma anche per il rilievo umano dei protagonisti, per la densità di questioni politiche che emanano, per i conflitti che scaturiscono, per le emozioni che alimentano. Spero siano storie dotate di forza simbolica, ‘storie italiane’, nel senso che contengono caratteri tipici di alcune realtà colte nella loro staticità e nelle loro mutazioni.
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[ES1]Direi europa
E’ la storia dell’Italia maltrattata. Di un Paese che per rincorrere lo sviluppo e la «modernità» ha finito per consumare buona parte delle proprie ricchezze naturali e del suo territorio. E costruire mostri di cemento, interi villaggi abusivi sulle coste, villette e orribili capannoni industriali che occupano ogni centimetro libero della pianura veneta senza alcun criterio. Il boom edilizio del dopoguerra, la fame di case popolari degli anni Settanta e Ottanta, i condoni. E poi le nuove parole d’ordine: fare presto, costruire, togliere vincoli e impedimenti, modernizzare l’Italia. Non è soltanto un libro scritto bene, quello curato da Francesco Erbani ed edito da Laterza. «L’Italia maltrattata» è un saggio sulla cultura - e l’incultura - del BelPaese che tutti farebbero bene a leggere. Allievo di Antonio Cederna e Antonio Iannello, giornalista di Repubblica e scrittore, Erbani è uno degli ultimi esempi di quel «giornalismo civile» molto poco di moda. Che preferisce denunciare piuttosto che magnificare. Andare controcorrente invece che per prendere per buone le versioni del potente di turno. Il suo volume ripercorre la storia edilizia d’Italia degli ultimi cinquant’anni.
Con otto storie esemplari dei maltrattamenti subiti dal territorio, raccontati con lo stile giornalistico dei reportage e l’intensità del romanzo. Il villaggio Coppola di Caserta, otto enormi casermoni da dodici piani (un milione e mezzo di metri cubi di cemento, 650 appartamenti) in riva al Volturno, tirati su senza lo straccio di una licenza edilizia. La Valle dei Templi assediata dai palazzoni e dalle villette spuntate dalla sera alla mattina, il parco di Palermo e il terremoto dell’Irpinia, occasione per rifare tutto nuovo ma terribilmente anonimo. E poi la «Villettopoli» del Nord Est, come la definì l’urbanista Pieluigi Cervellati, Venezia alle prese con le grandi opere (Mose e sublagunare) e la sempre più rapida trasformazione degli appartamenti in alberghi, pensioni, bed and breakfast che ne accelera l’espulsione degli abitanti. Negli ultimi cinquant’anni sono stati edificati i nove decimi dell’intero patrimonio abitativo italiano, mentre la popolazione in questo mezzo secolo è aumentata soltanto del 20 per cento. Si è scelto quasi sempre - spesso per motivi unicamente speculativi - la nuova edificazione invece del restauro conservativo, il cemento al posto dei mattoni. Un consumo del territorio che non ha eguali in Europa, che ha provocato uno stravolgimento di luoghi unici e delicati.
«Senza guerre, eruzioni, invasioni barbariche», scrive Erbani, «il paesaggio ha cambiato volto. La conservazione ha lasciato il posto alla cementificazione. Negli ultimi dieci anni tre milioni di ettari di terreno sono stati sottratti all’agricoltura, centomila soltanto in Campania». «Qualcosa come due regioni intere urbanizzate spesso senza Piano regolatori o con costruzioni abusive. «Significa tra l’altro», dice Erbani, «rendere i suoli non più permeabili. Così arrivano le alluvioni, sempre più frequenti». Il saccheggio non si ferma, e i condoni lo incoraggiano. La costruzione di edifici abusivi, annota Erbani, subisce un’impennata in coincidenza dei provvedimenti di condono edilizio. Che nelle casse dei Comune portano sempre meno risorse di quelle necessarie per urbanizzare il territorio dove sorgono le opere «condonate». Nel solo 2002 sono state 30.821 le case abusive edificate. di cui il 55 per cento nelle quattro regioni del Sud che ne detengono il record; Campania, Sicilia Puglia, Calabria. 232 mila sono le case edificate dopo l’ultimo condono.
Anche il ricco Nord Est fa la sua parte. Con la trasformazione della pianura in una sequenza di villette con taverna («I veneti sono diventati un popolo di tavernicoli», dice Marco Paolini nei suoi spettacoli), capannoni, svincoli, cemento. Trionfa la cultura degli ipermercati, più che raddoppiati negli ultimi anni. «Non luoghi» che ormai segnano la campagna veneta come un tempo lo facevano chiese e campanili. La monumentale Venezia non fa eccezione. Qui la trasformazione riguarda gli appartamenti, che a ritmo ormai frenetico diventano pensioni, affittacamere e bed and breakfast. Mentre l’attenzione di chi governa è spesso concentrata ad omologare la città d’acqua a tutte le altre. Progettando grandi dighe come il Mose invece di fermare il dissesto della laguna e sperimentare opere compatibili, ripescando idee di metropolitane subacquee già bocciate dieci anni fa, sostituendo i materiali tradizionali (mattoni, trachite e pietra d’Istria) con il finto marmo, il cemento e le lastre tagliate a macchina. I freni sono stati tolti, annota Erbani, e da più parti si intensificano gli attacchi alla pianificazione urbanistica, unico strumento capace di armonizzare le esigenze dei privati con quelle della collettività. Legge obiettivo, conferenza dei servizi e svuotamento di competenze in materia ambientale stanno dando un’ulteriore spinta alla «deregulation». L’Italia è sempre più maltrattata e gli speculatori ringraziano. Anche la stagione delle demolizioni, avviata da qualche sindaco coraggioso sembra ora destinata a fermarsi. Mentre le grandi opere, e la nuova stagione del cemento, dice Urbani, procede a ritmo forsennato. Un libro ispirato da un «ragionevole pessimismo», conclude Erbani, «che non deve però indurre allo scoramento».