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Nei giorni scorsi ho partecipato a un convegno di Italia nostra a Pescara sulla proposta di legge urbanistica dell’Abruzzo. Un disegno di legge inverosimile per sciatteria e pressappochismo non disgiunti da velleitari aneliti alla modernità. “La sistematica espositiva generale (e delle singole parti) raggiunge presumibilmente i massimi livelli sinora visti, nelle leggi e nelle proposte di legge statali e regionali degli ultimi lustri, nei quali peraltro pare essersi scatenata quasi una gara al fare peggio, di disordine inutilmente complicato (non di complessità, che può essere una necessità, e financo un pregio)”: comincia così uno degli ultimi scritti di Gigi Scano, Noterelle sul disegno di legge urbanistica della Regione Abruzzo. Per cominciare, la proposta abruzzese elenca gli enti parco fra i soggetti che concorrono “alla formazione delle scelte di pianificazione territoriale e urbanistica” (art. 3, c. 2): enti parco, i cui piani, ricorda Gigi, “sostituiscono” – come prescrive la legge 394/1991 – ogni altro strumento di pianificazione. E allora, come fanno i piani dei parchi a concorrere alle scelte di altri piani che non esistono più in quanto sostituiti proprio dai piani dei parchi?

Nelle Noterelle, Gigi rinviene “miriadi” di figure pianificatorie scompaginate e stravaganti. Ci sono i piani di contenuto generale, i piani di settore, i piani attuativi e i programmi integrati di intervento; il quadro regionale di riferimento, il piano paesaggistico regionale, i piani e i programmi di settore; il documento preliminare, il piano territoriale di coordinamento, il piano dell’armatura territoriale. Compare anche il regolamento urbanistico ed edilizio, mai ben definito. Non mancano la pianificazione strategica né la pianificazione urbanistica consensuale e il confronto concorrenziale. Un ruolo assolutamente preminente il disegno di legge lo affida alla carta dei luoghi e dei paesaggi, suggestiva definizione per un atto anch’esso d’incerta identità, basti dire che è approvato dalla giunta regionale (art. 7, c. 8) ma non è neppure elencato fra gli strumenti attraverso i quali “la Regione svolge attività di programmazione e di pianificazione” (art. 4, c. 2), spetta invece alla Regione un’inedita “definizione” della carta (art. 4, c. 3).

Eppure, alla carta dei luoghi e dei paesaggi sembra che sia affidata una funzione basilare nella costruzione delle scelte di piano. È un meccanismo perverso affidato, in primo luogo, all’articolazione del territorio regionale in sistemi: naturali, seminaturali, agricoli, insediativi (urbani, periurbani, eccetera) (art. 6, c. 4); poi la carta classifica i suoli regionali in: urbanizzati, urbani programmati, riservati all’armatura urbana, non urbanizzati (art. 7, c. 1). Attraverso “specifiche analisi ricognitive” ai suoli prima classificati vengono quindi individuati diversi “areali” distinti per caratteri qualitativi (di valore, di rischio, di vincolo, di conflittualità, di abbandono e di degrado, di frattura, di continuità ecologica) (art. 7, c. 2). Per quanto posso capire, sulla mappa derivante dalle categorie e dai parametri valutativi elencati sopra si sovrappongono infine i due fondamentali regimi d’intervento della “conservazione” e della “trasformazione” (art. 9, c. 1), “in relazione alla loro compatibilità con i luoghi ed i paesaggi” (art. 9, c. 3).

Mi fermo qui nell’esplorazione di un testo “la cui logica – riprendo Gigi Scano – è di ardua, se non impossibile percepibilità”. Ma siamo troppo esperti per non capire che dietro a tanta confusione si annidano terribili tranelli che apparentano il disegno di legge abruzzese alle peggiori esperienze della Lombardia, e non solo. Con l’aggravante che almeno nell’urbanistica di destra, gli obiettivi di cementificazione a oltranza sono espliciti, senza sotterfugi. Qui invece comandano l’ipocrisia e la dissimulazione, a cominciare dal “contenimento del consumo del suolo” enunciato per primo fra i principi fondamentali sella legge (art. 1, c.1), ma senza alcun impegno concreto che lo renda credibile. Manca qualsivoglia norma di tutela effettiva dello spazio agricolo, di controllo dell’edilizia rurale abitativa e degli annessi. Si propone l’estensione universale della perequazione, “prevedendo il trasferimento tra i diversi distretti dei diritti immobiliari derivanti dai regimi urbanistici” (art.19, c. 4), dispositivo che non può non tradursi in una dissennata estensione del suolo edificabile. All’identico risultato mirano, evidentemente, i regimi generali d’intervento che ammettono la “trasformazione dei caratteri naturalistici, ambientali-paesaggistici […] al fine di adeguare gli stessi alle finalità della presente legge, anche per la previsione di insediamenti di nuovo impianto” (art. 9, c. 1, citato).

C’è dell’altro. Articolo 7, comma 7: “La Regione può proporre in sede di conferenza di pianificazione l’integrazione e/o la derubricazione [corsivo mio] di vincoli in applicazione di leggi nazionali e/o regionali”. È una norma di evidente, inaudita gravità, sicuramente illegittima, ma comunque rivelatrice che la cultura del legislatore abruzzese non è diversa da quella degli energumeni del cemento armato, per dirla con Antonio Cederna. Infine, ecco l’accordo di programma in variante agli strumenti urbanistici (art. 35, cc. 10, 11,12). Com’è noto, l’accordo di programma così inteso ha determinato, con il ricorso a nuovi istituti d’intervento (programmi di riqualificazione e di recupero, prusst, eccetera) e grazie anche a cospicui finanziamenti pubblici, la rovina dell’urbanistica italiana e il discredito della pianificazione urbanistica. Al centro sinistra della Regione Abruzzo va bene così?

Il convegno di Italia nostra di Pescara si è concluso con un giudizio seccamente negativo, riconoscendo che il disegno di legge urbanistica abruzzese non è emendabile. Mi auguro che l’assessore regionale all’urbanistica Franco Caramanico, appartenente alla sinistra democratica, che lo ha firmato, sappia fare marcia indietro.

Il giudizio sulla proposta di legge Ronchi sul governo del territorio è ampiamente positivo. L’impostazione della relazione è molto chiara e convincente: i nodi della crisi del governo del territorio sono affrontati con rigore e efficacia. Lo stesso impianto della legge è molto positivo, poiché è snello e comprensibile. E’ insomma un ottimo testo di legge che renderà più facile l’eventuale percorso all’interno della commissione parlamentare.

Le considerazioni che seguono sono pertanto redatte nell’intento di contribuire alla precisazione di alcune formulazioni che non sembrano pienamente convincenti, sono dunque osservazioni di merito specifico nel quadro di una generale condivisione del testo. Le considerazioni riguardano:

a) la questione dell’efficacia e gli effetti degli strumenti di pianificazione sul regime conformativo degli immobili (articolo 9, comma 1, lettera a);

b) la questione della durata delle previsioni urbanistiche (artt. 9 e 17);

c) la questione dei diritti edificatori e delle dotazioni territoriali (artt. 15 e 10);

d) alcune questioni relative agli strumenti di piano (artt. 9 e 15).

Aggiungerei infine due ulteriori questioni relative alla concorrenzialità, trattata nell’articolo 14 e alla mancanza di riferimenti alla necessità dell’abrogazione delle deroghe legate al modello ”programma complesso-accordo di programma” oggi vincente. Ma in questi due casi mi fermerei a brevi accenni, visto che sono temi che andrebbero discussi in forma di contraddittorio con gli stessi estensori della legge.

a) Questione dell’efficacia e gli effetti degli strumenti di pianificazione sul regime conformativo degli immobili

Nell’articolo 9 dedicato agli strumenti di pianificazione, il primo comma dell’articolo 1 afferma che la legge regionale disciplina il contenuto, la durata temporale, le modalità di attuazione, l’efficacia e gli effetti degli strumenti di pianificazione sul regime conformativo degli immobili”. Credo che questa formulazione non sia corretta perché la definizione della durata dei regimi conformativi deve essere mantenuta in capo all’amministrazione centrale.

b) Questione della durata delle previsioni urbanistiche

Sempre nell’articolo 9 si afferma che gli interventi di trasformazione definiti dal piano operativo hanno durata non superiore a cinque anni “decorsi i quali ne decade la validità” (comma 5). Senza entrare nel merito se questa formulazione sia soddisfacente dal punto di vista della gestione del piano o se non sia portatrice di problemi ulteriori, c’è però da rilevare che al comma 7 dell’articolo 17 (articolo dedicato alla materia espropriativa) si afferma che “il vincolo preordinato all’esproprio, come il diritto edificatorio, può essere motivatamente reiterato”. Vedremo nel punto successivo la critica al concetto di “diritto edificatorio”, per ora va sottolineata che la legge contiene una formulazione incerta. E’ preferibile quanto invece, e contraddittoriamente, recita il comma 7 dello stesso articolo 9, e cioè “le previsioni urbanistiche inattuale……decadono di diritto al momento dell’adozione delle nuove previsioni”.

c) Questione del diritto edificatorio e delle dotazioni territoriali

Una formulazione da rivedere riguarda il concetto di “ diritto edificatorio” che compare nella rubrica dell’articolo 15 e nei commi che compongono quello ed altri articoli. E’ un tema troppo noto ai lettori di eddyburg per motivare la critica. Basterebbe sostituire la formulazione con “ previsioni urbanistiche”, o “edificatorie”.

Altra perplessità riguarda il punto g) del comma 2 dell’articolo 10 ( livelli minimi delle dotazioni territoriali) dove si afferma che rientra tra le dotazioni territoriali essenziali anche il “ sostegno alla iniziativa economica, in coerenza con l’utilità sociale e la sicurezza del territorio e dei lavoratori”

Ha senso inserire le attività economiche, già protette da leggi, comportamenti e meccanismi reali, tra quegli “standard urbanistici” nati per soddisfare esigenze sociali che iul sistema economico di per sé non è in grado di garantire? all’interno di un articolo redatto molto bene: credo che sarebbe meglio cancellarlo.

d) Alcune questioni relative alle strumenti di piano

Negli articoli che definiscono la strumentazione urbanistica ci sono tre problemi:

- il primo è relativo all’estensione a tutte le regioni del modello “tripartito” (livello strutturale, livello operativo e regolamento urbanistico-edilizio). Sarebbe opportuno di specificare soltanto la necessità della divisione ai fini conformativi e lasciare a ciascuna regione il modello preferito, rispettando tradizioni e storie ormai ventennali;

- il secondo è relativo ad una infelice formulazione contenuta nel terzo punto del comma 1 dell’articolo 9 in cui si afferma che le leggi regionali disciplinano “ i casi in cui gli strumenti di pianificazione sono sottoposti a verifica di coerenza con gli strumenti di programmazione economica, con la pianificazione di settore e con ogni altra disposizione o piano”. E’ invece opportuno che la verifica di coerenza sia mantenuta in ogni caso;

- il terzo è relativo alla comparsa all’interno del comma 2 e definito nel comma 5 dell’articolo 15 (Perequazione urbanistica e disciplina dei diritti edificatori) della dizione “piano del governo del territorio”. Non è ben chiaro il rapporto con il modello di pianificazione definito nell’articolo 9.

Ultime due questioni. Il concetto di concorrenzialità urbanistica cui si dedica l’articolo 14 non convince per la questione dell’esclusività della proprietà dei suoli. C’è certamente da discutere su eventuali modalità procedurali che permettano di migliorare la qualità dei progetti di trasformazione, ma credo che sia indispensabile legarla al ruolo degli uffici pubblici di pianificazione, lasciando ai privati esclusivamente la parte conclusiva del percorso progettuale.

Questa e la mancanza di riferimenti alla chiusura della stagione della deroga sono però questioni complesse che sarebbe opportuno discutere con gli estensori della legge.

La proposta commentata nell'articolo è inserita qui, con le altre proposte presentate al Parlamento.

Con l’approvazione della legge provinciale 2 luglio 2007, n. 3, pubblicata sul bollettino ufficiale il 17 luglio scorso, è stata profondamente innovata la normativa urbanistica della provincia di Bolzano. Anche se, formalmente, si tratta di una legge che modifica e non sostituisce la legge previgente, la sua corposità (ben 134 nuovi articoli) e la portata dei suoi contenuti fanno pensare all’apertura di una nuova stagione urbanistica.

Fra i tanti aspetti toccati dalla nuova legge, due sembrano di particolare rilevanza. Il primo riguarda la politica per la casa, mentre il secondo attiene all’introduzione, per la prima volta in Sudtirolo, di una forma di contrattualità nel rapporto fra pubblico e privato.

Da sempre, uno dei pilastri della politica per la casa in Sudtirolo è costituito dall’obbligo di destinare il 60% della cubatura nelle zone residenziali private alla costruzione di alloggi “non aventi le caratteristiche di lusso”; almeno la metà di questi non deve avere una superficie utile inferiore a 65 mq (art. 27). L’effettiva realizzazione di tale obbligo è garantito dal convenzionamento in sede di concessione edilizia (così continua a chiamarsi in Sudtirolo il “permesso a costruire”) e dall’obbligo di trascrizione del vincolo sul libro fondiario (art. 79). Le abitazioni convenzionate servono dichiaratamente a coprire il fabbisogno abitativo della popolazione residente; possono essere vendute o affittate esclusivamente in regime di prima casa e devono essere messe a disposizione dell’istituto per l’edilizia sociale se non occupate per un periodo superiore ai sei mesi.

La novità introdotta dalla nuova legge riguarda l’estensione temporale di tale vincolo, da vent’anni prima a tempo indeterminato ora; l’obbligo dell’affitto a canone calmierato rimane, invece, limitato comunque a vent’anni. È una novità non di poco conto che, infatti, ha incontrato una strenua opposizione da parte degli operatori immobiliari. La parola d’ordine della politica è però il rischio di “Ausverkauf der Heimat”, vale a dire di “svendita della patria” – e di fronte a un argomento di tale emotività nessuno si può tirare indietro.

Certo, già dieci anni fa, in tempo di stesura della legge urbanistica previgente, questo argomento tenne banco. La sua efficacia è stata però piuttosto ridotta se si considera la dinamica della produzione edilizia degli ultimi anni. Secondo i dati Istat, dal 2000 in poi, la crescita della produzione edilizia residenziale è stata nettamente superiore in Sudtirolo rispetto alla media italiana. Nella provincia di Bolzano, infatti, fra il 2000 e il 2005 il numero di alloggi costruiti all’anno è quasi raddoppiato, mentre nel resto d’Italia è cresciuto del 50%. L’enorme produzione di nuovi alloggi che, negli ultimi anni, ha superato quota 4.000 unità all’anno, risulta circa il doppio rispetto alle nuove famiglie. È dunque probabile che almeno la metà degli alloggi prodotti siano stati destinati al mercato delle seconde case.

In questo quadro, l’enfasi posta sull’originalità dello strumento di convenzionamento è forse un po’ esagerata. Per quanto utile nella costituzione di uno stock di case in affitto, esso, da solo, certamente non basta per frenare un’attività edilizia, oggi non più compatibile con l’identità preziosa del territorio sudtirolese. Soprattutto se si considera l’assenza quasi totale di limitazioni agli interventi sul patrimonio edilizio esistente è facile prevedere lo spostamento degli interessi immobiliari dalle zone di espansione a quelle della trasformazione. Qui, infatti, la legge non prevede l’obbligo al convenzionamento per l’edilizia residenziale, ammette cospicue possibilità per aumentare la densità edilizia, e dispone di una griglia di tutela dei beni culturali molto larga, facente capo, peraltro, al presidente della Giunta provinciale.

Se in tema di politiche per la casa il Sudtirolo continua comunque a tenere una delle posizioni più avanzate e originali nel panorama italiano, per quanto riguarda l’introduzione di forme contrattualistiche nelle procedure urbanistiche non si può dire altrettanto. Ciò che dall’assessore provinciale all’urbanistica viene salutato come vero cuore, come omaggio alla modernità, della nuova legge, sembra invece essere un retaggio di altri luoghi e altre stagioni.

La possibilità di contrattazione urbanistica viene introdotta dall’articolo 40bis della nuova legge. Questo prevede (comma 1), che “nel pubblico interesse” può essere stipulata una convenzione tra comune e operatori privati che deve riguardare “l’attuazione di interventi previsti nel piano urbanistico comunale oppure in un piano attuativo oppure in un altro documento di contenuto programmatico”.

Le convenzioni possono riguardare interventi volti a coprire il fabbisogno abitativo primario, il reperimento di aree per insediamenti produttivi oppure la realizzazione e la gestione di opere e impianti pubblici (comma 2).

Le risorse messe in campo da parte del privato possono essere immobili, opere di compensazione, assunzione di costi di gestione oppure semplicemente indennizzi in denaro; il pubblico, invece, può rinunciare agli oneri di concessione ma è soprattutto chiamato a mettere in campo risorse normative: “creazione di diritti edificatori tramite modifica del piano urbanistico comunale” (comma 3).

Ma il comma 1 non afferma che le convenzioni devono essere stipulate in attuazione del piano urbanistico? Venuto a mancare questo principio, a nulla vale allora che “la controprestazione deve essere congrua”, valutata dall’ufficio estimo provinciale oppure da un professionista abilitato (comma 6). Altrettanto sembra essere debole l’obbligo di contrassegnare le aree soggette a convenzione urbanistica sul piano regolatore e di seguire, per la loro approvazione, le procedure delle varianti dei piani generali o attuativi (comma 7): è evidente che in una posizione di debolezza, il consiglio comunale non potrà fare molto di più che registrare le scelte fatte altrove.

Insomma, in urbanistica tutte le forme di collaborazione tra il comune e gli operatori privati possono essere lecite fintantoché siano volte all’attuazione del piano regolatore. La procedura introdotta dall’articolo 40bis prefigura invece lo scardinamento della disciplina urbanistica. Essa prelude al “rito ambrosiano”! altro che novità! altro che modernità! Ma non finisce qui. La possibilità di stipulare tali convenzioni, riservata anche alla Giunta provinciale per gli interventi di sua competenza (comma 8), rafforza i dubbi sulla trasparenza e democraticità della norma. Guarda caso, fra gli interventi di competenza della Giunta figurano i centri commerciali e gli impianti di produzione energetica, ambedue di enorme potenziale conflittuale tra provincia, comuni e cittadini.

Potrà dispiacere, ma nel dibattito sulla nuova legge la posizione più lucida è quella del partito Union für Südtirol che sostiene che le nuove norme favoriscono insieme la dispersione urbana e la speculazione edilizia – cioè proprio la “svendita della patria”.

Il “progetto di città” come si è definito a partire dagli anni ’60 nella sua concezione più innovativa, ossia con l’obiettivo di integrare efficienza e funzionalità complessiva; equità sociale; compatibilità morfologica e ambientale, è praticato con difficoltà crescente.

Malgrado sia stato al centro della ricerca e della formazione universitaria, del dibattito disciplinare, dell’attività professionale più qualificata, degli orientamenti espressi dalla comunità europea[1], si è sempre scontrato con una pratica fondata su interventi puntuali sganciati da strategie di insieme e fortemente influenzati da interessi fondiari. Oggi in questo contrasto ogni progetto d’insieme guidato da obietttivi pubblici sembra perdente ed emarginato.

E’ vero che le ricerche o le riviste disciplinari dove verificare bilanci della situazione sono diventate assai rare, ma l’immagine che ci viene trasmessa è comunque una conferma della crisi.

Può essere interessante allora andare a vedere come il “progetto di città” e in generale il sistema degli insediamenti siano trattati nelle recenti leggi sul “governo del territorio” di due regioni governate dalla sinistra (Emilia Romagna e Toscana), ossia nelle regioni considerate all’avanguardia e dove tradizionalmente si sperimentano, per la programmazione urbanistica, le soluzioni riformiste che poi vengono estese al resto del paese.

Queste leggi peraltro sono state ampiamente analizzate negli aspetti innovativi di introduzione dei concetti e delle nozioni ambientaliste e territorialiste, o procedurali; lo sono state meno negli aspetti più tradizionali della disciplina dei processi di trasformazione urbana.

La verifica è stata fatta come comparazione fra le due leggi, in rapporto a 14 parametri scelti come rappresentativi dei contenuti e riepilogati nella tabella allegata, e tenendo conto delle caratteristiche principali del “progetto di città” come ispirato non solo dal dibattito culturale e dalle esperienze praticate nelle città europee, ma anche dalle politiche comunitarie.

Alcuni importanti principi sono comuni alle due leggi: in primo luogo, i concetti, i temi e le nozioni ambientaliste rispetto alle quali si tenta di orientare la disciplina anche delle aree urbane. Ad esempio il fatto che nuovo consumo di suolo è consentito solo in “assenza di alternative alla sostituzione o riorganizzazione degli insediamenti esistenti” è giustificato dalla tutela dell’ambiente naturale.[2] Ciò dovrebbe limitare lo spreco di suolo non urbano, ottemperando anche ad un recente orientamento del Parlamento europeo.[3] Purtroppo non esistono ancora verifiche per mostrare i risultati di questo importante principio, né strumenti e dispositivi che consentano di scoprire e correggere scelte in contrasto, le quali, peraltro, non devono essere poche, a giudicare dalle polemiche crescenti suscitate nella cronaca da lottizzazioni in ambienti extraurbani. Comunque, anche se applicato correttamente, l’obiettivo di ridurre le pressioni sull’ambiente naturale non è più sufficiente e occorrerebbe affermare esplicitamente che la crescita edilizia, qualsiasi tipo di crescita edilizia, compresa quella ricavabile in aree già urbanizzate, richiede giustificazioni precise nella domanda sociale e verifiche di compatibilità.[4]

In generale c’è una certa differenza fra le due leggi: quella emiliana conserva un’impostazione più pragmatica e in continuità con la linea politica perseguita nei confronti degli insediamenti, nonostante i limiti che anche recenti ricerche segnalano. [5] Inoltre la Regione Emilia conserva un atteggiamento più autonomo e propositivo rispetto agli altri enti locali. La Toscana invece ha sposato decisamente una linea più “federalista” (abdicando quindi al ruolo propositivo, a vantaggio dei comuni) e teorico ambientalista, con distacco deciso dal progetto di città e manifestamente dall’urbanistica (in una prima fase, corrispondente alla precedente versione della legge, addirittura considerata una disciplina “superata”).

A riprova di questa differenza possono essere ricordati almeno due argomenti: la riqualificazione urbana e gli spazi per standards e servizi. [6]

1. Il tema della riqualificazione urbana si inscrive in una linea strategica coltivata da tempo dal governo regionale emiliano e si connette con altri provvedimenti applicati diffusamente (le leggi n. 18/1998, la n. 16/2002). In particolare, per ogni livello di piano comunale sono distinti i compiti spettanti: al Piano strutturale l’individuazione degli ambiti e dei problemi; allo strumento operativo l’individuazione dei programmi specifici di intervento. Un aspetto positivo di interazione fra i vari livelli che la legge Toscana non persegue. La legge emiliana poi specifica diverse linee di intervento: in primo luogo nella conservazione dei centri storici e del patrimonio edilizio storico sparso. L’allegato della legge emiliana dedica un intero capo al sistema insediativo storico e prescrive indirizzi utili che confermano il cs come cardine della politica di riqualificazione degli insediamenti: che l’analisi e la classificazione dei tessuti storici sia effettuata nel Piano strategico; che la strategia di tutela sia stabilita dallo stesso PS; il “divieto di rilevanti modificazioni delle destinazioni d’uso in atto in particolare di quelle residenziali, artigianali e di commercio di vicinato” (anche se un successivo articolo ammette deroghe); l’inedificabilità degli spazi aperti; previsioni di dettaglio per gli edifici di maggior valore. Sono principi e prescrizioni operative che nella regione Toscana mancano. Ciò appare inspiegabile, se è vero che questa Regione disponeva di una legge al riguardo (59/80) collaudata e dalla quale è derivato un ciclo di esperienze complessivamente positive (legge che è stata abrogata senza sostituirla con un dispositivo altrettanto efficace, malgrado le correzioni e le integrazioni introdotte dai regolamenti di attuazione recentemente approvati).[7]

In secondo luogo, la riqualificazione interessa tutto il sistema degli insediamenti, distinguendo, al di fuori del centro storico, azioni di consolidamento (interventi di miglioramento di parti della città già strutturate) e di vera e propria riqualificazione sostanziale (con trasformazioni urbanistiche più consistenti).

Malgrado questi indirizzi positivi, quindi senza responsabilità diretta della legge, le prime applicazioni all’esterno dei centri storici hanno comunque suscitato critiche perché “prevale la sostituzione edilizia della sola area degradata, con cambio di destinazione funzionale e aumento del carico urbanistico e senza incremento delle dotazioni territoriali né miglioramento della qualità complessiva del contesto” [8], mancando così uno dei più importanti obiettivi del “progetto di città” (ossia diffondere la qualità oltre l’area direttamente interessata dalla trasformazione e senza gerachie di valore fra aree centrali e aree periferiche).

Infine, non va sottovalutata l’azione di ricerca e promozione della Regione Emilia in varie forme: sperimentali, come quelle per l’edilizia a basso costo o autocostruita; di sostegno ai comuni; pubblicistica. Una rivista gestita in collaborazione con la facoltà di architettura di Ferrara è dedicata specificamente al tema della riqualificazione urbana.

La Regione Toscana per quanto non priva di iniziative del genere vi dedica certamente una minore attenzione. Anche i regolamenti di attuazione recentemente approvati sul tema del recupero degli insediamenti esistenti non sfuggono all’obiettivo politico di non porre vincoli all’azione dei comuni e quindi si presentano, salvo problematiche particolari, generalmente poco incisivi.

2. La qualità è difficilmente regolabile nei piani[9], ma il tema dello spazio pubblico, dei servizi, degli standard è uno strumento importante per avvicinarla, e perciò costituisce un altro riferimento fondante del “progetto di città” nella fase del rinnovo urbano (come dimostrano le più note e acclamate esperienze europee, in particolare spagnole e francesi). Il tema è importante anche per il rilancio di una politica di welfare urbano se si allarga la nozione di standard oltre la misura tradizionale a comprendere anche l’edilizia residenziale sociale. Ad oggi, la legge emiliana introduce alcuni importanti approfondimenti (ampliamento dell’aliquota minima di spazi per standard a 30 mq/abitante, anziché 18; dotazioni ecologiche e ambientali, in conformità con alcuni degli assi tematici dei programmi comunitari[10]). Spiace che non sia stata ripresa l’idea del piano dei servizi come piano strategico della qualità urbana a cui dovrebbero riferirsi (come suggerito dalla ricerca dell’Archivio Piacentini) le politiche insediative e le strategie degli accordi con i privati.

Per il prossimo futuro, una nuova legge in discussione (Governo e riqualificazione solidale del territorio) propone di prescrivere agli interventi di trasformazione la cessione di una quota di aree per edilizia residenziale sociale (pari al 20% dell’area di trasformazione) aggiuntiva agli standard tradizionali.

La Regione Toscana si limita ad un riferimento alla dotazione minima (18 mq/abitante) per gli standard, mentre il regolamento di attuazione dell’art. 75 consente ai Ps di superare tale limite.

Per evitare un’eccessiva enfasi su questo tema, occorre distinguere due punti: il primo è l’idea di estendere i servizi e di connetterli dentro un disegno come una struttura di supporto dell’insieme delle trasformazioni; il secondo è quello di utilizzare questo disegno come strumento per contrastare la rendita, associandolo a dispositivi di perequazione (ossia di coinvolgimento di diversi proprietari e di ripartizione dei benefici derivanti dall’edificazione e degli oneri corrispondenti ai vincoli di aree pubbliche da cedere). E’ questo secondo punto che è da verificare. Da tempo infatti si sostiene che l’unico modo per realizzare le previsioni di spazio pubblico, nelle attuali condizioni di crisi finaziaria degli enti locali, è di rendere edificabili altre aree private. Se non approfonditamente disciplinato, questo modo di gestire le trasformazioni, oltre che con la logica del piano, contrasta col principio fondamentale del risparmio di suolo, e inoltre non riesce a ridurre la rendita che si scarica inevitabilmente sugli acquirenti del prodotto finale (alloggi o servizi).[11] Questa discussione ha dimostrato che l’estensione dei servizi e il loro disegno, per quanto auspicabili, non sono sufficienti a contrastare la rendita, neppure associandoli alla perequazione.

Peraltro quattro argomenti si presentano discutibili in ambedue i provvedimenti (sia pure con sfumature diverse): i rapporti pubblico/privato e la partecipazione; il rapporto strutture ambientali/strutture urbane; il dimensionamento; il controllo del passaggio dai vecchi ai nuovi piani.

Il rapporto dell’ente locale con i privati è quindi un aspetto fortemente discusso nelle due leggi. Le differenze non sono rilevanti; in ambedue i casi, anziché fornire ai comuni idee e strumenti per contrastare la pressione dei privati alla valorizzazione delle diverse forme di rendita contemporanee, si prende atto del ruolo importante e nuovo che i privati possono svolgere nell’ambito di “accordi”; quella emiliana anticipa l’argomento del “pubblico avviso” con il quale “l’amministrazione sollecita gli operatori privati a presentare proposte e progetti finalizzati alla realizzazione degli obiettivi strategici del Piano strutturale...il successivo Regolamento urbanistico (o Piano comunale operativo) viene redatto sulla base di queste proposte formulate dai privati e selezionate dal comune sulla base di una generica...convenienza per l’ente locale” (una specie di “asta” dei diritti edificatori). La regione Toscana, dopo sporadiche esperienze,[12] ha accolto questo principio nel Regolamento di attuazione dell’art. 75 e lo sta sperimentando in accordo col comune di Firenze, tra molte polemiche.[13]

Le critiche su questo punto riguardano il rischio che il piano si configuri come semplice sommatoria di interventi e proposte private, anziché sulla scelta pubblica di un disegno generale rispondente a interessi collettivi.

La negoziazione sistematica deriva dalla famigerata proposta di legge Lupi che pretendeva di sostituirla ai cosiddetti “atti autoritativi” e imponeva la “partecipazione” dei “soggetti interessati“ alla pianificazione. Anche l’assenza di adeguate forme di partecipazione (su cui per la verità la Toscana sta elaborando una proposta di legge di carattere fortemente innovativo, trattata in altra parte di questa rivista) può essere vista come una scelta di privilegiare interessi organizzati rispetto a quelli di tipo generale. L’impressione è raffozata dall’uso della perequazione cui si è accennato, intesa più come strumento per compensare i privati e ridurre i deficit comunali che come strumento per consentire disegni organici indipendenti dalla proprietà dei suoli.

Le valutazioni sembrano lo strumento più idoneo a superare la storica contraddizione fra urbanistica e ambiente nel “governo del territorio”. In particolare, rendere il progetto urbanistico “integrato” ossia capace di intervenire anche su problemi di natura sociale e ambientale oltrechè urbanistica e di morfologia urbana sarebbe coerente con i risultati del dibattito sulla città e l’architettura (la nozione di contesto, ad es.) e il principale requisito richiesto per i programmi europei sulla città. Molte difficoltà tecniche e teoriche sono tuttavia ancora da superare (i contenuti non sono ancora chiari e soddisfacenti; l’applicazione dovrebbe distinguere fra dimensione dei problemi e dei comuni, ecc.). Nella legge emiliana sembra quasi di leggere la distinzione fra piano urbanistico e politiche ambientali, confermata dalla ricerca dell’Archivio Piacentini, mentre in quella Toscana l’enfasi sulle nozioni ambientaliste e territorialiste fa trascurare esplicitamente l’ambiente urbano. In ambedue i casi quindi le due nozioni (ambiente naturale e ambiente urbano) restano separate se non contrapposte, e non si colgono pertanto gli spunti derivanti dalle migliori esperienze europee di progetto urbano o di recupero alla grande scala nelle quali la tutela dei grandi spazi naturali è associata all’istituzione di parchi pubblici, di attrezzature e di servizi in un rapporto di integrazione con la vita urbana; o ai progetti di paesaggio che riqualificano la città non con nuovi interventi edilizi ma con la valorizzazione degli spazi aperti e naturali. Queste esperienze da un lato confermano la necessità di introdurre un blocco alla crescita edilizia non adeguatamente giustificata. Dall’altro fanno pensare che per costruire il metodo del “governo del territorio” più che un’utopica integrazione interdisciplinare sia preferibile lavorare all’interazione efficace fra ricerche disciplinari diverse.

Il dimensionamento degli insediamenti (abitazioni, edifici produttivi, attrezzature, alberghi, centri commerciali) è un argomento centrale di ogni livello di piano (per quello provinciale, che dovrebbe indicare le soglie di crescita o di trasformazione dei comuni, come per quelli comunali che dovrebbero localizzare le aliquote e verificare i modi e i tempi di realizzazione), ma le due leggi sostanzialmente evitano di trattarlo direttamente, abolendo in pratica la regolamentazione quantitativa di tipo tradizionale. Indirettamente viene trattato dalle valutazioni (che hanno il compito di stimare l’impatto anche dal punto di vista quantitativo) o, nel caso delle legge emiliana, dai “bilanci delle risorse territoriali”; il rischio è che al di là delle dichiarazioni di principio i piani ripropongano una crescita sproporzionata (magari attraverso il “recupero” di aree degradate) e che questo processo non sia comprensibile se non alla fine, quando cioè diventa visibile. Inoltre, è da segnalare la difformità di calcolo per cui certi comuni non calcolano nella capacità insediativa operazioni di recupero di aree degradate; in altri casi le verifiche di dimensionamento sono limitate alla residenza e non considerano gli altri settori urbani quali la produzione, il commercio, ecc. La Regione Toscana col regolamento di attuazione dell’art. 75, approvato nel 2007, quindi con un consistente ritardo rispetto alla legge originaria del ’95, ha per la verità corretto sostanzialmente questa lacuna, introducendo una serie di prescrizioni almeno per il Piano strutturale. Il piano provinciale continua ad essere sottovalutato. Comunque, sono in particolare importanti le “disposizioni” sui criteri del dimensionamento, in riferimento al vecchio piano (del quale è prescritto un rendiconto) e la sua articolazione nelle diverse funzioni (residenziale; produttiva; commerciale, relativamente alle medie strutture di vendita; turistico ricettiva; direzionale; agricola e agrituristica).

Infine, last but not least un argomento apparentemente marginale che ha suscitato molta confusione e contrasti: come raccordare i vecchi strumenti di piano con i nuovi? I vecchi piani col loro bagaglio di previsioni non attuate, di varianti in crescita approvate nel periodo della cosiddetta “bolla immobiliare” che negli anni ’90 ha eccitato il mercato edilizio, come devono essere trattati? Possono essere abrogati? E se possono essere attuati in regime di salvaguardia, come incidono sui nuovi piani (sul dimensionamento, sulle scelte strategiche, ecc.)?

La mancanza di decisioni chiare delle regioni (quali ad esempio una precisa norma di salvaguardia o indicazioni precise su quali scelte considerare e come) ha originato una corsa all’attuazione con ripercussioni pesanti sulla nuova generazione di piani, che nascono fortemente condizionati. In Toscana, la vicenda di Montichiello ad esempio rientra in questo limite.

Tra l’altro, se i Ps accolgono acriticamente le previsioni dei vecchi piani, si riduce anche la possibilità di stabilire condizioni più vantaggiose per l’ente locale (derivanti dall’aggiornamento degli standard e degli oneri). [14]

La Regione Toscana ha tentato di correggere questa lacuna con il regolamento di attuazione dell’art. 75, cui si è già accennato, e nel Piano di indirizzo territoriale; in quest’ultimo si prescrive che gli interventi non attuati siano verificati da procedure specifiche. Norme del genere per quanto utile sono tardive (si chiudono le porte della stalla quando i buoi sono scappati).

In definitiva se il modello delle regioni rosse appare un po’ “ingiallito” (come ha scritto Carlo Trigilia sul Sole 24 Ore di qualche mese fa), pur restando forti le differenze rispetto ad altre regioni italiane (nella erogazione dei servizi, nello stile di vita, nelle relazioni sociali), la crisi del “progetto di città” probabilmente ne costituisce una delle cause e il “governo del territorio” pertanto appare un obiettivo ancora da raggiungere.

[1] La comunità europea come è noto ha potere in campo ambientale e non in campo urbanistico; tuttavia, attraverso le politiche, le azioni ed i programmi è possibile individuare una linea culturale di sviluppo urbano ecoompatbile ed i requisiti del “progetto di città” rispondente a standard comunitari (si veda P. Ugolini, La riqualificazione della città negli attuali sviluppi culturali ed operativi delle politiche nazionali e comunitarie, Territorio n. 14,2000 )

[2] Nella legge toscana l’art. 3 aggiunge un importante corollario: che i nuovi insediamenti devono concorrere alla riqualificazione complessiva degli insediamenti.

[3] Proposta di Direttiva del parlamento europeo e del consiglio che istituisce un quadro per la protezione del suolo e modifica la direttiva 2004/35/CE, presentata dalla commissione il 22.9.06.

[4] Molti paesi europei hanno emanato leggi più precise e cogenti al riguardo (Francia, Gran Bretagna, Svizzera), come mostra l’articolo di R. Camagni e C. Gibelli su questa rivista.

[5] Ad esempio “Cinque anni di vita della nuova legge urbanistica della regione Emilia-Romagna” Rapporto a cura dell’Archivio Piacentini, giugno 2006; G. Angelillo, G. Rinaldi, “Riflessioni sul processo di adeguamento della pianificazione urbanistica alla lr 20/2000”, In forum n. 27 dicembre 2006

[6] Si dovrebbe aggiungere l’intercomunalità, che la legge emiliana più o meno direttamente stimola in varie forme, particolarmente per quanto riguarda le aree produttive e i poli terziari, la redazione dei piani strategici, l’applicazione della perequazione anche fiscale (ossia la ripartizione dei benefici fiscali indipendentemente dalla localizzazione degli impianti produttivi). Alla fine del 2006, il 62% dei comuni che stanno adeguando il piano alla legge 20 lo fa in forma associata (cfr. G. Angelillo, G. Rinaldi, op. cit.).

[7] Al riguardo un gruppo di docenti e ricercatori dell’università di Firenze, assieme ad alcuni amministratori locali e soprintendenti provinciali, ha inviato il 14.10.2005 alla Regione Toscana un appello a rilanciare la tutela, la pianificazione e il recupero dei centri storici.

[8] L. Ravanello, M. Maria Sani, le politiche urbanistiche per la città esistente in Emilia Romagna, Urbanistica Informazioni n. 203, 2005

[9] Il tentativo della legge toscana di definire la qualità urbana all’art. 37 è perlomeno inadeguato.

[10] In particolare miglioramento ambientale, tramite la creazione di spazi verdi e servizi (si veda P. Ugolini, op.cit.).

[11] Le alternative alla negoziazione, anche senza rievocare il fantasma dell’esproprio generalizzato a prezzi agricoli, sono diverse: in primo luogo c’è la soluzione dell’intervento pubblico diretto (esproprio a prezzi di mercato, urbanizzazione, ricessione a prezzi di costo), in modo da mettere in competizione l’offerta di aree pubbliche con quella privata (soluzione sostenuta ad esempio da Benevolo); in secondo luogo ci possono essere le soluzioni legislative che incidono, senza eliminarla sull’entità della rendita (ad esempio una limitazione dell’”equa rendita” sul modello dell’equo canone o una riduzione del valore dei terreni da sottoporre ad esproprio).

[12] Il comune di Rosignano per primo in Toscana ha emesso un bando dopo il Piano strutturale e ha raccolto circa 800 proposte per il Regolamento urbanistico, con una capacità superiore a quella stabilita e un potenziale contenzioso di ampie proporzioni.

[13] Comitati dei cittadini di Firenze, Firenze: la città all’incanto, documento del 25 gennaio 2007

[14] G. Campos Venuti, Una valutazione positiva per le modifiche alla legge 20/2000 della Regione Emilia Romagna, In forum n. 27, dicembre 2006

Il Consiglio regionale ha approvato la legge Illy-Sonego per il governo del territorio. Una brutta legge, criticata non solo da eddyburg.it e dal WWF, da Italia nostra e da Lega ambiente, ma anche da osservatori più “moderati”, come la sezione friulano-giuliana dell’INU. Una legge scollacciata e ricca di elementi di incostituzionalità, che è stata ulteriormente impasticciata dagli emendamenti accolti a destra e a manca.

I partiti di destra hanno votato contro, pur esprimendo in varie occasioni valutazioni favorevoli. Forza Italia è arrivata a concedere libertà di voto ai suoi consiglieri motivando questa scelta con il “recupero di due punti importanti come la specialità e il piano strutturale, che andrà però verificato assieme a tutti gli altri contenuti della legge”. Il consigliere di FI Daniele Galasso “ha preannunciato la sua astensione perché, pur permanendo il giudizio severo, quello uscito dall'Aula è un provvedimento profondamente cambiato, di molto migliorato rispetto al testo uscito dalla Commissione anche grazie all'accoglimento di diversi suoi suggerimenti come relatore di minoranza”.

Analogo, e simmetrico, il giudizio dei consiglieri di Rifondazione comunista. Secondo il comunicato stampa emesso dal PRC sono stati accolti emendamenti che hanno introdotto “concetti che ne modificano profondamente l’impianto”. Precisamente. “le risorse essenziali del territorio sono riconosciute come bene comune della collettività e si introducono in più parti il riuso e la riqualificazione dell’esistente, prima di arrivare a pensare a nuovi insediamenti”, non c’è più “la parola ‘equiordinate’, che metteva sullo stesso piano sviluppo e paesaggio”, si sono reintrodotte “forme democratiche di consultazione nei comuni” e “norme per rendere più facili i controlli sulla regolarità dei contratti di lavoro delle imprese edili”.

Ha votato contro il rappresentante dei Verdi e si è astenuta la rappresentante del Partito dei comunisti italiani, dichiarando che “convintamente voterei contro il provvedimento”, e che quindi il suo voto di astensione”viene determinato dalla valenza politica che ha il voto su una legge come questa per la tenuta della maggioranza”.

Tenuta della maggioranza: chi ha seguito da vicino la vicenda parla di fortissime pressioni del “governatore” Illy, che avrebbe assicurato la rottura della maggioranza (e la prospettiva dello scioglimento del Consiglio) in caso di voto contrario di parti di essa. A chi ha votato a favore occorrerebbe ricordare il rischio espresso dall’adagio latino, “propter vitam vivendi perdere causa”: per sopravvivere, perdere la ragione della propria vita.

In risposta alla richiesta di commenti sul ddl di riforma urbanistica, un documento dell'INU incentrato su tre punti essenziali:

- il carattere del PTR, debole come progetto di territorio ma autoritativo nelle scelte che interessano la Regione, privo di strumenti di condivisione, e caratterizzato dalla previsione delle soglie, che non è accettabile nè in linea teorica nè per gli aspetti pratici;

- l'assenza di una vera pianificazione sovracomunale;

- la mancata indicazione di una validità temporale limitata per il POC, che vanifica il carattere innovativo della pianificazione comunale.

Il recente disegno di legge sulla “Riforma dell’urbanistica e disciplina dell’attività edilizia e del paesaggio” si sta avviando all’esame del Consiglio regionale nella formulazione sostanzialmente approvata dalla Giunta regionale nello scorso mese di novembre; in contemporaneo gli uffici regionali stanno lavorando alla formazione del PTR.

La proposta legislativa si caratterizza in modo particolare per alcuni aspetti sostanzialmente dissonanti rispetto alla “koinè normativa” delle altre regioni, che possono essere così del tutto sinteticamente enunciati:

- la Regione si riserva alcuni ambiti di esclusiva competenza sui temi territoriali, prefigurando delle soglie quali-quantitative, al disopra delle quali pianifica e decide senza coinvolgere il sistema delle istituzioni locali;

- al di sotto di tali soglie la competenza della pianificazione, sia comunale che sovracomunale è dei Comuni, senza “interferenze” regionali;

- non è previsto il livello della pianificazione provinciale;

- per il livello comunale viene correttamente previsto lo sdoppiamento dello strumento di piano, attribuendo però durata illimitata anche al Piano Operativo.

L’articolato proposto induce nel Consiglio Direttivo dell’INU e nei soci non poche perplessità e preoccupazioni, sia per gli aspetti sopra enunciati che per l’eccessiva schematicità e imprecisione di molti dei contenuti legislativi, e non da ultimo per il rinvio di molte delle disposizioni normative (in molti casi di indiscutibile rango legislativo) a successivi provvedimenti regolamentari. Un approccio questo che rischia di riproporre il confuso intreccio di norme di matrice statale e regionale, nonché di disposizioni legislative e regolamentari, che caratterizzava anche il Friuli Venezia Giulia negli anni Ottanta, prima appunto del “testo unico” di cui alla legge regionale n. 52.

Per quanto riguarda le attribuzioni riservate alla Regione e i contenuti del Piano Territoriale Regionale, la Sezione regionale dell’INU ha già espresso varie osservazioni critiche in sede di approvazione della legge n. 30/2005 che ha dato avvio alla formazione del PTR.

Esse riguardano in particolare il fondato dubbio sulla capacità del PTR, come è stato pensato e come in concreto si va configurando nel suo ormai avanzato processo di formazione, di costituire un effettivo momento di definizione di politiche generali e di adeguato respiro temporale sia per le tutele che per le trasformazioni territoriali, definendo regole e modelli di assetto riconosciuti e condivisi. Da questo punto di vista la separazione di competenze sulla base di soglie (per le quali peraltro resta evidente la difficoltà di una definizione) tra Regione e Comuni costituisce una scelta non condivisibile né sul piano concettuale né su quello operativo. Manca inoltre la possibilità di una interazione dei vari livelli istituzionali, titolari di competenze e conoscenze diversificate, già nella fase di formazione del PTR. Va rimarcato infine come la natura del PTR ne faccia uno strumento, almeno teoricamente, assai autoritativo nei confronti dei Comuni i quali, al di là dell’istituto dell’“intesa”, dovranno comunque conformarsi ad esso diventando, per i temi di competenza regionale, meri terminali. Nella sostanza, pertanto, non sembrano veramente superati i meccanismi della pianificazione gerarchica Regione-Comuni, secondo le consuete logiche caratterizzanti anche il “vecchio” PURG del 1978.

Il livello della Pianificazione sovracomunale, inteso con riferimento all’area vasta, resta sostanzialmente non risolto nell’articolato proposto.

Al di là della questione su quale debba essere il soggetto titolare di tale livello (argomento su cui la Regione ha espresso una decisa scelta di campo in controtendenza con le altre realtà regionali, escludendo di fatto le Province), il presidio dei temi di area vasta dovrebbe venir assicurato da strumenti di respiro e scala adeguati. Quella che è prevista nell’articolato pare invece sia meglio definibile come “pianificazione intercomunale”, e in tal senso va considerata positivamente, anche se devono essere messi a punto strumenti concretamente operativi e ben finalizzati agli obiettivi indicati.

La speranza nei meccanismi di concertazione e di copianificazione di area vasta rimane invece sostanzialmente delusa. Una vera concertazione sulle strategie territoriali locali non è mai prevista in quanto gli istituti previsti dalla norma (conferenza di pianificazione, l’intesa Comune-Regione ecc.) sono affidati a meccanismi burocratico-istruttori che rischiano di ingenerare non solo incertezze giuridiche o eccessi di rigidità nell’autorizzare preventivamente scelte territoriali ma anche separazione tra sviluppo d’area vasta e pianificazioni comunali. Tutto ciò lascia la scala territoriale intermedia sostanzialmente priva di veri strumenti di dialogo, di partecipazione e di progettazione del territorio.

Rispetto a queste scelte, ma anche a queste forti incertezze, la Sezione regionale dell’INU invece ha ribadito che il piano sovracomunale è l’anello fondamentale di raccordo tra previsioni regionali e comunali e che la sua dimensione non va definita solo in base alle intese tra amministrazioni locali, ma deve essere anche individuata nel PTR, partendo dalla identificazione di ambiti territoriali significativi. In altri termini la scala sovracomunale va intesa come la dimensione alla quale si opera una concertazione delle strategie territoriali locali cui poi farà riferimento il livello decisionale comunale.

Lo sdoppiamento della Pianificazione comunale nelle due componenti strutturale (con contenuti esclusivamente programmatici e quindi con valenza non conformativa) e operativa (con previsioni prescrittive e conformative) è da tempo auspicato dall’INU nazionale ed è stato esplicitamente sollecitato dalla nostra Sezione nel corso del convegno di Villa Manin svoltosi nello scorso mese di giugno. In tal senso si muove anche l’articolato approvato dalla Giunta Regionale, sebbene in più parti non persegua le medesime finalità, in particolare non indicando una durata limitata nel tempo per il piano operativo.

Un’ulteriore sollecitazione che si è ritenuto di sottolineare riguarda la necessaria equiparazione dei diritti pubblici (vincoli espropriativi) e dei diritti privati (edificabilità), il tutto connesso alla assoluta opportunità di stabilire una scadenza quinquennale della componente operativa, con l’obiettivo di attribuire al piano l’effettivo valore di guida nell’evoluzione (e non di congelamento) di un determinato territorio, con previsioni tempestive e ancorate coerentemente alle dinamiche sociali, economiche, infrastrutturali in atto o ragionevolmente ipotizzabili.

Gli strumenti e i contenuti della Pianificazione comunale, così come sono definiti nell’articolato (e tenendo in debito conto che molti aspetti procedurali dovranno essere completati e chiariti dal regolamento di attuazione della legge), configurano un percorso di formazione del piano non sempre ben conseguente e organizzato.

L’attivazione - ad esempio – dei momenti di partecipazione previsti secondo le metodologia di Agenda 21 o il monitoraggio per la Valutazione Ambientale Strategica non è rapportata a corrispondenti fasi di elaborazione progettuale.

Come pure il buon funzionamento delle Conferenze e delle Intese di Pianificazione presuppone un carattere del previsto “Documento Preliminare di Piano”, cui queste faranno riferimento, dai maturi ed espliciti contenuti progettuali. In sostanza sembra necessaria una seria verifica, anche in termini di tempi e di costi, di come i vari pezzi da cui è costituito il nuovo piano comunale possano concretamente funzionare e relazionarsi tra di loro per raggiungere gli obiettivi della legge e soprattutto della pianificazione comunale. Va rilevato infine che la nuova impostazione di progettazione e gestione del Piano potrebbe trovare una significativa semplificazione nei comuni di piccola dimensione (numericamente e territorialmente rilevanti nella realtà della regione) liberando così le amministrazioni da incombenze gravose e non sempre efficaci.

Si mette mano ad una nuova legge urbanistica per molte ragioni che possono spingere verso una riconfigurazione della precedente piuttosto che verso una semplice integrazione. Ed è stato il caso della L. 20/2000.

Si parla di un naturale logoramento dell’apparato giuridico di fronte all’evoluzione dell’ordinamento, conseguenza del mutamento istituzionale: si pensi alle sollecitazioni che negli ultimi anni sono venute dal processo di integrazione europea o da protocolli di ancora più vasta scala, come quelli sul clima o sul commercio.

Un’altra sollecitazione ciclicamente invocata è quella che viene dai nodi irrisolti della struttura normativa e dalle lacune aperte dalle decisioni giurisprudenziali: uno per tutti il tema degli espropri e dell’indennizzabilità dei vincoli.

Ma la sollecitazione più forte che vorrei portare alla attenzione del dibattito politico e disciplinare (nella occasione che si presenta ora di “correggere il tiro” dopo la fase di rodaggio) è quella che viene dal profondo mutamento sociale che è in corso nel Paese, eco sensibile di quanto avviene nel Mondo.

Sollecitazione che pone innanzitutto problemi di efficienza del sistema istituzionale, delle sue regole, delle sue performances amministrative, in un clima di crescente austerità per la finanza locale.

Da questa sfida a riportare il Paese in efficienza l’urbanistica non può chiamarsi fuori e deve innovare le proprie tecniche e le proprie pratiche.

La ricerca di forme praticabili di cooperazione intercomunale - leggibile nel testo regionale di revisione - è una risposta che va nella direzione giusta.

Così come l’utilizzo di modalità perequative che consentano di mobilizzare le inerzie di una “attuazione senza esproprio”.

Così come gli accordi - espliciti e trasparenti - con gli interessi privati in campo, specie nelle operazioni di riqualificazione.

Così come la promozione di accorte forme di integrazione verticale tra le istituzioni che mettano in valore le risorse in mano ai sistemi regionali e alle comunità locali.

Così come dovrebbe esserla (una risposta) la costruzione di percorsi decisionali tempestivi che sappiano coniugare la velocità della decisione con l’assunzione di responsabilità politica e amministrativa nei confronti dei suoi esiti.

La tesi che voglio sostenere è in prima istanza quella che senza un deciso recupero di efficienza non c’è spazio (non si generano risorse reali) per nessuna prospettiva seria di coesione sociale e di sostenibilità ambientale.

Il Paese, il suo paesaggio, si mostra ormai profondamente segnato da una trama sempre meno riconoscibile (nella sua matrice costitutiva) e sempre meno funzionale, anche quando - e sono i casi più numerosi - pienamente legittimata nei suoi presupposti normativi.

Siamo proprio, come dice Marco Revelli, una società a fine corsa? Questo mi pare un quesito cui anche noi urbanisti dobbiamo dare una risposta, cercando le ragioni disciplinari per la rigenerazione di un impegno civile in cui si riconoscano ampi strati della società.

Torniamo, per servire alla domanda, alle sollecitazioni del mutamento sociale di questo inizio secolo.

Innanzitutto registriamo una inaspettata ripresa della crescita della popolazione nelle regioni del centro nord e anche nei loro cuori urbani, dopo vent’anni e più di diffusione suburbana.

Una popolazione invecchiata ormai più per l’aumento della speranza di vita che per la pur drastica riduzione della natalità, ora peraltro in ripresa.

Una popolazione organizzata in nuclei famigliari sempre più ristretti e più atipici (più distanti, per intenderci, dal modello di famiglia del Mulino Bianco ...).

Una popolazione che anche per questo registra una modificazione strutturale dei propri consumi dove pesano sempre più le quote destinate ai consumi indivisibili (le spese per la casa e per i mezzi di trasporto, ripartite su un numero sempre più esiguo di componenti) rispetto a quelli più fortemente individualizzati, sacrificati dalle minori risorse rese disponibili nei bilanci famigliari dalla bassa crescita e dal permanere di un elevato livello di pressione fiscale.

Una popolazione con un forte ricambio anagrafico che tende a modificare il rapporto di identità con i luoghi e pone interrogativi pressanti alle politiche di coesione.

Una popolazione segnata ormai irreversibilmente dalla presenza di una componente straniera che ha coperto i vuoti nel mercato del lavoro ma soprattutto ha risposto alla domanda di servizi di cura che né le risorse fisiche delle famiglie né le risorse finanziarie del sistema di welfare erano ormai in grado di garantire: le badanti dell’est europeo sono state il fattore più rilevante per evitare una crisi verticale del modello di vita della nostra società “affluente”.

Già nel titolo la proposta di legge di iniziativa della Giunta Regionale per la modifica e l’integrazione della legge urbanistica e di quella sulla riqualificazione urbana si mostra sensibile a queste sollecitazioni e ha il merito di riportare il tema della casa e della sua domanda sociale al centro della attenzione.

Mi pare che questa vada senz’altro registrata come la novità più interessante del nuovo disegno di legge.

Ovviamente questa innovazione di prospettiva si deve misurare con la diversa capacità di adeguamento che la struttura degli articolati della 20 e della 19 mostrano.

La 19 registra il nuovo standard del 20% di edilizia sociale come prestazione immediatamente eseguibile dai suoi PRU, una volta che sia costruita la condivisione sociale necessaria e varata la nuova disciplina.

Più complesso appare l’adattamento della 20 nella quale l’assorbimento del 20% di edilizia sociale è demandato ai PSC di futura formazione ed è reso più complesso dal suo allineamento allo standard di servizi piuttosto che ad una opportuna misura perequativa.

In ballo è la tempestività e l’efficacia di una manovra fondiaria per troppo tempo sottovalutata (e sotto-praticata) che deve rispondere alla domanda abitativa di una quota ormai non più marginale di famiglie che non sono in grado di sostenere l’onere del costo di mercato (affitti o mutui) dell’accesso ad una abitazione decorosa.

Ma è proprio della nuova figura del PSC che si dovrà tornare a parlare per l’importanza che ad esso si attribuisce, a ragione quando si vuole mettere in risalto l’importanza delle questioni strategiche e strutturali che deve governare, in modo meno convincente quando lo si chiama a risolvere l’annosa vicenda della sentenza della Corte Costituzionale sulla onerosità della reiterazione dei vincoli, questione risolta di fatto dalla perequazione.

Una nuova figura che è chiamata finalmente a misurarsi esplicitamente con i temi della sostenibilità (e della sua valutazione), dovendo rendicontare il “rendimento ambientale” del piano, in particolare dimostrare la sua consapevolezza sulle questioni fondamentali della sostenibilità sociale ( welfare/casa/piano dei servizi), dei nuovi modelli di mobilità, della minimizzazione del consumo delle risorse primarie irriproducibili e del prelievo sostenibile di quelle rinnovalbili.

Pochi anni prima della nuova legge ci è capitato di costruire una esperienza di pianificazione intercomunale per la Città del Rubicone, quando di reti locali – tema oggi all’ordine del giorno - non parlava quasi nessuno e di approccio strutturale (e strategico) al piano comunale parlavano solo i modenesi.

Più tardi, a Bologna, l’aggettivazione “strategico” accanto a strutturale ci sembrò un modo per suggerire un modello di piano – oggi pare quasi assodato - che risultasse trasparente, selettivo, negoziale, sostenibile, integrato e che consentisse al capoluogo regionale di recuperare senza danni un ritardo di molti anni nello sviluppo delle strategie del governo urbano (e metropolitano).

La costruzione (l’impianto) di un piano strategico e strutturale siffatto, dovrebbe durare un anno o poco più, per consentire il mantenimento di quella “mobilitazione straordinaria” di energie morali, intellettuali professionali e politiche che devono centrare diagnosi convincenti e condivise e avviarle a soluzione con strumenti e strategie non solo urbanistiche.

Senza l’alibi di quadri conoscitivi ipertrofici e con una VAS/VALSAT che funzioni.

I PSC della 20 - non v’è dubbio - stanno durando assai di più. Tra i compiti di una riforma della 20 che voglia anche rispondere alle esigenze di riportare a una efficienza “solidale” il Sistema Regionale, quello di disegnare procedure e di attribuire compiti, coerenti con questa esigenza di tempestività efficace, non è sicuramente il minore.

In buona sostanza c’è da riflettere su una forma piano che non butti via – con l’acqua sporca - anni di esperienza nella gestione del piano nella sua dimensione regolativa e conformativa dei diritti (RUE+POC = piano dei suoli) ma introduca nel modo giusto quella dimensione strategica di cui avvertiamo la carenza.

C’è bisogno quindi di mettere in campo uno strumento (PSC = masterplan?) che tratti efficacemente di sostenibilità, che risolva positivamente la complessità dei rapporti interistituzionali, che agisca immediatamente sullo strumento vigente, in quanto questo sia in contrasto con quello, uno strumento che individui gli ambiti di intervento e le azioni di riqualificazione da avviare su corsie preferenziali, e che impegni gli attori politici e le discipline tecniche a rendere evidenti, e perciò stabili e condivisi, i contenuti strategici e strutturali da trasferire poi al “disegno” del piano dei suoli.

Una nuova dimensione del Piano e del suo processo, che richiede particolari investimenti in cultura, tecnologia e organizzazione per realizzarsi compiutamente, ma che non può costringere i comuni a raddoppiare tempi e costi senza che questo corrisponda ad un effettivo, proporzionale, miglioramento dei risultati.

Qui i materiali sul progetto di legge in discussione

È all’esame della giunta regionale il PdL "Governo e riqualificazione solidale del Territorio". Presentato dall’assessore Gilli, prevede la modifica di quattro leggi, tra le quali anche la LR20/2000, "Disciplina generale sulla tutela e l´uso del territorio".

Qui sotto i link ai documenti illustranti il PdL (relazione, articolato, testo coordinato delle leggi vigenti con le modifiche proposte), in formato .doc e .pdf (d.v.)

Per inquadrare il disegno di legge sulla riforma della pianificazione territoriale in Friuli Venezia Giulia, in un contesto che ne spieghi le motivazioni e le finalità, è opportuno partire dal suo retroterra “storico”.

Fase 1: Il PRGC

Cominciamo quindi col dire che “c'era una volta un sindaco”, il quale governava una città di mare all'estremo nord est d'Italia, appoggiato da una maggioranza di partiti “progressisti”. Questo sindaco decise che una delle priorità della città, economicamente un po' assopita (al pari di molte altre in Italia) e politicamente – fino ad allora – tutt'altro che progressista, era il rilancio dell'edilizia. I costruttori, ovviamente, avevano parte rilevante in questa decisione.

Detto fatto, il sindaco prese un piano regolatore – in elaborazione da alcuni anni e affidato dai suoi predecessori all'architetto (1) di fiducia di un politico nazionale appena caduto in disgrazia per ignominiose vicende di tangenti (2) - e dopo aver sostituito di volata un assessore recalcitrante (3) ne affidò il “perfezionamento” ad un nuovo assessore assai competente (4), in quanto organico al Collegio costruttori. Costui riuscì a portarlo molto vicino all'approvazione, ma qualcuno dei consiglieri “progressisti”, malgrado tutto, recalcitrava, osando addirittura proporre modifiche al piano ispirate alle critiche che gli ambientalisti propugnavano da tempo. Critiche che prendevano di mira il dimensionamento eccessivo del piano (progettato per una città di 270 mila abitanti, che invece ne contava 220 mila, in diminuzione ulteriore), le massicce edificazioni previste nelle aree più belle e preziose sotto il profilo paesaggistico e naturalistico come sull'altopiano carsico e sulla costa (14 nuove zone di espansione residenziale – cioè villettizzazione massiccia – soltanto nella fascia costiera!), la pressochè nulla tutela per vaste aree urbane caratterizzate da edifici di pregio storico-architettonico, ecc.

Alla fine però il sindaco impose la propria volontà ed anche i consiglieri critici finirono per votare il piano. Il sindaco però rimase assai scontento di tutta la vicenda e si dimise in anticipo dalla carica, costringendo il Comune ad elezioni anticipate, alle quali stavolta si presentò con una lista di “fedelissimi” che portava il suo nome e fu rieletto.

C'era però in quel tempo anche una Regione, governata dalla stessa maggioranza progressista del sindaco, che tuttavia conservava ancora un po' di orgoglio per un'urbanistica di cui un tempo – ormai lontano - era stata faro in tutta la nazione. Ai tecnici regionali e all'assessore di allora (5) il piano regolatore del sindaco triestino non piaceva proprio e fecero quindi quel che la legge regionale consentiva ed era stato fatto in altri casi (ma non in tutti, purtroppo): imposero alcune modifiche, laddove il piano confliggeva platealmente con il paesaggio da tutelare: alcuni gruppi di ville sulla costiera, alcune sciagurate previsioni edificatorie in Carso, ecc.

Mal gliene incolse! Il sindaco si adombrò alquanto e innescò una violenta polemica con la Regione “matrigna e prevaricatrice”, irrispettosa della sacra autonomia comunale (e della sua persona), castrante di fronte alle prospettive di “sviluppo” della città, ecc. Giunse addirittura a chiede le dimissioni degli assessori originari della sua città, che sedevano nella Giunta regionale, per costringere quest'ultima a sciogliersi.

Ne sortì una battaglia legale, durata un paio d'anni e conclusa da una decisione del Consiglio di Stato (6), il quale diede torto alla Regione, perchè ribadì quanto gli ambientalisti andavano predicando – inascoltati - da oltre un decennio: occorre un piano paesaggistico (previsto da una legge dello Stato (7) fin dal 1985), che quella Regione – pur un tempo all'avanguardia - non aveva però mai voluto fare. Soltanto dotandosi di tale strumento, le modifiche ai piani regolatori comunali motivate da esigenze di tutela del paesaggio possono considerarsi legittime.

Il sindaco però la raccontò diversa – e tanti continuano a farlo tuttora – vale a dire spacciando quella decisione del CdS come una vittoria fondamentale dell'autonomia comunale contro il “centralismo” della Regione.

Intanto, l'effetto pratico fu però la reviviscenza delle previsioni devastanti che la Regione aveva modificato, come chiunque dia uno sguardo, ad esempio, alla fascia costiera triestina (perchè è ovviamente di Trieste che narra la storia) può facilmente constatare de visu. Dettaglio non privo di importanza: quasi tutti gli interventi edilizi previsti dal piano regolatore sono firmati dall'ex assessore all'urbanistica che il sindaco volle fortissimamente a gestire la fase cruciale del piano.

Assessore nel frattempo sostituito nella carica da un'attivissima ingegnere (8), poi assurta a ben maggiori incarichi anche politici (attuale assessore all'ambiente e pianificazione nella Provincia triestina, nonché consulente della Regione per la stesura del PTR), diligente nel gestire l'attuazione del piano fino alla scadenza del mandato del sindaco.

Fine della storia? No, soltanto l'antefatto, perchè la storia che più ci interessa comincia ora.

Dopo un paio d'anni alla Camera come deputato del gruppo misto, ancorchè eletto grazie all'appoggio del centro-sinistra (il che non impedì al nostro di apprezzare e votare la “legge obiettivo” di Berlusconi e Lunardi), ecco infatti l'ormai ex sindaco di Trieste diventare presidente della Regione Friuli Venezia Giulia. Correva l'anno 2003.

Fase 2: Infrastrutture, territorio e paesaggio in FVG

Nel programma della nuova Giunta sui temi della pianificazione territoriale e del paesaggio non c’è nulla, e assai poco anche su quelli ambientali. C’è parecchio invece per quanto concerne le politiche industriali, l’innovazione e la competitività del sistema produttivo regionale, ecc.

Un sintomo abbastanza chiaro, per chi l’avesse voluto cogliere, dell’indirizzo che il nostro intendeva dare all’attività dell’amministrazione regionale.

Gli atti successivi non facevano che confermare l’impressione di una Giunta intenta a rispondere soprattutto alle “esigenze” – spesso soltanto presunte - del sistema produttivo, così come rappresentate dalle istanze organizzate dello stesso (Confindustria in primis, ovviamente).

Ecco quindi, similmente a quanto fatto a Trieste per compiacere la lobby dei costruttori, l’enfasi estrema sulle infrastrutture di trasporto (ferrovie ad alta velocità, ma anche – e soprattutto – strade ed autostrade) e su quelle energetiche (elettrodotti, rigassificatori).

Il tutto, ben inteso, anche quando aveva ed ha ovvie e pesanti ricadute territoriali, paesaggistiche ed ambientali, al di fuori di qualsiasi quadro programmatico e pianificatorio: l’infrastruttura come postulato, come a priori. Non quindi un approccio problematico, che cerchi di capire – il più possibile oggettivamente, sulla base di studi, analisi costi-benefici, valutazioni strategiche e di impatto ambientale – quali e quante infrastrutture servano davvero al Friuli Venezia Giulia e siano compatibili con i valori irrinunciabili del suo territorio, bensì il progetto dell’opera come punto di arrivo che non si può discutere, al quale vanno subordinati piani e strumenti di tutela.

Con questa impostazione, si giunge però anche a situazioni ridicole, come quella in cui il nostro diventa addirittura “certificatore di qualità paesaggistiche”. Accade a Sistiana, febbraio 2005, quando il presidente della Regione incontra il sindaco di Duino-Aurisina (un ex collega, in fondo…) e l’imprenditore privato (un altro collega…) che in quella baia vorrebbe realizzare un ignobile mega-progetto turistico-immobiliare e “attesta” l’alto valore paesaggistico dell’intervento, proponendo addirittura. delle “migliorie” (peraltro ridicole o impossibili a realizzarsi). Di fronte ad un progetto, si badi bene, tenuto segreto a tutti (ma non a lui) allora e tuttora segreto oggi. Ma bisogna pur aiutare le iniziative imprenditoriali. Inutile dire che gli uffici regionali competenti in materia, di fronte a tanto autorevole certificazione, si sono prontamente adeguati….

Poco importa, naturalmente, che la pianificazione paesaggistica regionale sia, come detto, inesistente e che l’unico timido tentativo di costruirne una, proprio per la fascia costiera triestina, sia stato seppellito già nel 2003 dal nostro con la perentoria affermazione (recepita in delibera di Giunta) secondo cui nel PTRP con valenza di piano paesaggistico per la costa triestina “…non saranno inserite previsioni che contrastino o contraddicano gli strumenti urbanistici dei comuni interessati” (9). Non sia mai che a qualcuno venga in mente di rivedere la villettizzazione prevista dal PRGC di Trieste proprio in quell’area!

Del resto, ancor prima a Lignano, la pineta di proprietà dell’EFA, assoggettata a vincolo paesaggistico nei primi anni ’90 proprio per decisione della Regione, è stata sventrata per far posto ad alcuni edifici sportivi privati (che avrebbero potuto benissimo trovar posto altrove). In questo caso, non si è esitato ad applicare la normativa sui lavori pubblici (10), trattandosi sì di un intervento privato, ma sostenuto da un contributo regionale (11) e quindi parificato ad un’opera di pubblica utilità. Una normativa, ça va sans dire, che permette di scavalcare agevolmente piani e vincoli ed è assai sbrigativa sotto il profilo delle valutazioni ambientali e paesaggistiche.

Non che il nostro sia del tutto allergico alla pianificazione, beninteso. Basta che i piani siano costruiti a sua immagine e somiglianza e cioè contengano tutto ciò che lui vuole (infrastrutture, ecc.) e non contengano ciò che non vuole (vincoli paesaggistici o ambientali insuperabili, ad esempio). Ecco quindi che, di fronte ad alcune – grosse - difficoltà insorte nell’iter di un progetto che gli sta particolarmente caro, cioè la linea ferroviaria ad alta velocità Venezia – Trieste, spunta improvvisamente l’urgenza (neppure accennata, come detto, nel programma di Giunta) di un Piano Territoriale Regionale. O meglio, di una legge che ne indichi finalità e procedure. L’obiettivo vero è però un altro, come vedremo.

Ecco, quindi, il solerte assessore Sonego approntare di gran carriera quella che sarebbe diventata poi la legge regionale 30 del 2005. La quale legge all’art. 5 espone sinteticamente tutte le proprie “coordinate culturali”: l’economicismo di fondo, la confusione dei piani e degli obiettivi, la demagogia e l’indeterminatezza delle enunciazioni. E’ infatti questo, probabilmente, il primo caso in cui ad un Piano territoriale si impongono “equi-ordinate” finalità strategiche quali la conservazione e la valorizzazione del territorio regionale, anche valorizzando le relazioni a rete tra i profili naturalistico, ambientale, paesaggistico, culturale e storico” insieme alle “migliori condizioni per la crescita economica del Friuli Venezia Giulia e lo sviluppo sostenibile della competitivita’ del sistema regionale” (12).

Che cosa significhi poi, anche dal mero punto di vista semantico, “lo sviluppo sostenibile della competitivita’ del sistema regionale”, è questione troppo ardua per essere risolta dalle modeste capacità del sottoscritto e richiederebbe ben altre doti esegetiche. Ma tant’è, così si scrivono le leggi oggi in Friuli Venezia Giulia.

Naturalmente, il vero obiettivo della legge 30 era ben altro. Vale a dire le infrastrutture. Il Capo II della legge è infatti costruito con l’obiettivo dichiarato di “preservare la possibilità di realizzare infrastrutture strategiche ovvero di dotare la Regione di strumenti che ne facilitino la realizzazione”(13). Ecco quindi, sempre rigorosamente al di fuori di qualsiasi previsione pianificatoria (comprese le previsioni del futuro PTR!), strumenti come la sospensione provvisoria dell’edificabilità “sulle domande di concessione o di autorizzazione edilizia in contrasto con progetti che siano stati dichiarati di interesse regionale”. La dichiarazione spetta, ovviamente, alla Giunta regionale. Il testo originario del disegno di legge indicava esplicitamente alcuni di questi progetti strategici: le “opere ferroviarie di attuazione del Corridoio V e quelle ad esso complementari” e le “opere del nuovo collegamento stradale Cervignano-Manzano e quelle ad esso complementari” . Indicazioni poi espunte, per pudore, nel testo definitivo.

Con tali premesse, appariva abbastanza chiaro cosa ci si potesse aspettare dal PTR. Il PTR, beninteso, non c’è ancora. Esiste, per il momento, soltanto un – corposissimo – Documento preliminare al PTR(14), sul quale è stato anche avviato un pretenzioso “processo partecipativo” ispirato (si vorrebbe far credere) ai principi di Agenda 21.

Anche il commento di dettaglio del WWF su tale elaborato è compreso nella cartellina. Qui basti dire che dalle 550 (!) pagine del documento non emerge alcun indirizzo chiaro, per quanto concerne elementi imprescindibili di ogni serio strumento di pianificazione territoriale, come le questioni ambientali e del paesaggio: imprescindibili specie per un PTR che si vorrebbe abbia anche valenza di piano paesaggistico!

Invece, anche qui, emerge con assoluta evidenza l’approccio essenzialmente economicistico alle questioni territoriali e l’enfasi sulle infrastrutture strategiche, accanto a “perle” di assoluto valore umoristico – ancorché involontario – quali l’impagabile finalità del Piano consistente nell’offrire sostegno alla zootecnia ed al pascolo (con reintroduzione di cavalli, mucche, ovini che a livello di coscienza collettiva contribuiscono a ‘fare paesaggio’)”.

Men che meno, si rinvengono nel documento preliminare, indicazioni forti in merito ad una concezione moderna del paesaggio e dell’ambiente naturale, concezione che pur era presente – almeno in nuce – nel PURG del 1978,. Una concezione cioè che si incentri sulla tutela degli ecosistemi, più che di singole “isole” di pregio naturalistico, che di conseguenza punti alla tutela e al recupero delle connessioni funzionali tra gli ecosistemi stessi attraverso un sistema di reti ecologiche e di corridoi naturalistici (tenuto conto, ovviamente, della straordinaria concentrazione di biodiversità presente – malgrado tutto - nel pur limitato territorio regionale). Una concezione, va riconosciuto, ardua da accettare per chi concepisce il futuro del Friuli Venezia Giulia essenzialmente come “piattaforma logistica” e le “reti” le vede rappresentate soltanto da strade, ferrovie ed elettrodotti…

Date le premesse, si attende ovviamente con ansia la stesura effettiva del PTR, per vedere come simili “finalità” si possano poi tradurre in contenuti pianificatori.

Naturalmente, però, le infrastrutture non possono attendere i tempi, inevitabilmente lunghi, di un PTR. Ecco quindi che, a latere di tutto ciò, si percorrono anche altre strade.

Una di questa è quella che punta ad estorcere al Governo impegni – politici ed economici – per le cose che interessano. Ecco allora il Protocollo d’intesa tra la Regione Friuli Venezia Giulia e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, predisposto la scorsa estate dal presidente della Regione raccogliendo anche i contributi di vari esponenti politici di maggioranza ed opposizione e – ahinoi – sottoscritto dal Presidente del Consiglio il 4 ottobre scorso.

Il commento del WWF sul Protocollo è disponibile nella cartellina. Qui basti rimarcare che, in perfetta continuità con quanto detto prima a proposito di infrastrutture, il Protocollo contiene una nutrita “lista della spesa” relativa alle opere – viarie – che la Regione chiede di finanziarie, ovvero di sostenere nelle successive fasi progettuali, ovvero di agevolare (è il caso della Sequals-Gemona) mettendo in riga i funzionari recalcitranti che in qualche Soprintendenza si ostinano a non volersi sottomettere ai desiderata dei sindaci e delle categorie economiche. Il tutto, al solito, prescindendo da qualsiasi pianificazione o programma, come dimostra il caso eclatante del collegamento tra la A 23 e la A 27 attraverso il traforo della Mauria, opera – voluta da alcuni ambienti economici soprattutto veneti - inserita a forza nel Protocollo soltanto perché “prevista” da un’intesa estemporanea stipulata nell’aprile 2004 tra il presidente del Friuli Venezia Giulia, quello del Veneto ed il ministro delle Infrastrutture. Sono questi gli unici atti programmatici che contano e che devono prevalere, secondo il nostro, su qualsiasi piano e programma.

Il guaio è che finiscono per prevalere anche su elementari considerazioni di sostenibilità tecnico-economica delle opere (per non parlare della sostenibilità ambientale), sulle doverose esigenze di coinvolgimento ed informazione dei cittadini, scavalcando di fatto perfino procedure di valutazione pur prescritte da Direttive europee come la V.A.S. (15).

Proprio come accade con la linea ferroviaria ad alta velocità Venezia –Trieste.

Pur tuttavia, uno straccio di piano bisognerà pur produrlo, non foss’altro perché ormai l’iter del PTR è avviato e dei soldi – non pochi, si può immaginare – sono stati spesi, per consulenze e altro, ma anche perché lo prescrivono le normative nazionali, almeno per quanto concerne il paesaggio (D. Lgs. 42/2004 e s.m.i.). Che fare? Ovviamente, bisogna che il piano corrisponda, almeno nella forma, a quanto previsto dalle norme statali. Ecco allora intervenire l’Intesa interistituzionale tra la Regione, il Ministro per i beni e le attività culturali ed il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare “per l’elaborazione congiunta del piano territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici”, predisposta dal solerte Sonego (16) e inviata per la sottoscrizione a Roma.

Un sintomo di rinsavimento? Mica tanto, perché il testo dell’Intesa proposto dalla Regione prevede (art. 3) che gli “indirizzi preliminari e generali di cui tener conto nell’elaborazione del PTR” sono costituiti, ovviamente, dal “Documento preliminare al PTR”, quello delle 550 pagine di cui sopra, con mucche, cavalli e ovini che contribuiscono a fare paesaggio.

C’è quindi di che temere, a meno che… A meno che nei Ministeri competenti qualcuno non trovi il buon senso per ridiscutere il tutto e soprattutto per riappropriarsi del proprio ruolo, mettendo un freno alla deriva “sviluppista” ed infrastrutturale del Friuli Venezia Giulia. In fondo, a tutt’oggi, la competenza prevalente in merito alla tutela del paesaggio appartiene allo Stato e la Regione Friuli Venezia Giulia non ha certo ben meritato finora, in questo campo.

Fase 3: ?

Il disegno di legge “Sonego (vale a dire il n. 212, presentato l’8 novembre 2006), dal quale siamo partiti, appartiene al futuro, nel senso che il suo iter deve appena cominciare.

Per quanto detto sopra, tuttavia, motivazioni e finalità appaiono facilmente identificabili.

Da un lato, infatti, viene abrogata pressoché interamente la L.R. 30/2005, fatta eccezione – ovviamente - per i soli articoli “importanti”, vale a dire quelli finali sulle infrastrutture strategiche e sui progetti delle opere di interesse regionale. L’abrogazione è però solo apparente (17), perché i contenuti e la stessa dizione degli articoli abrogati, salvo marginali modifiche di forma, sono riprodotti invariati nel nuovo testo. Così è anche, quindi, per l’ ”equiordinazione delle finalità strategiche”, delle continuano a far parte anche le già citate “migliori condizioni per la crescita economica del Friuli Venezia Giulia e lo sviluppo sostenibile della competitivita’ del sistema regionale”.

Si aggiunge però una completa rivisitazione degli strumenti urbanistici anche a livello comunale, solo accennata nella L.R. 30/2005 (18). Viene quindi in sostanza abrogata la L.R. 52/1991, sostituita da una disciplina che introduce una congerie di strumenti del tutto nuovi. Oltre al citato PTR, infatti, sono previsti il PSC (Piano Strutturale Comunale), il POC (Piano Operativo Comunale) ed il PAC (Piano Attuativo Comunale), ma anche il DPP (Documento Preliminare di Piano), la “Conferenza di pianificazione”, l’”Intesa di pianificazione”, senza dimenticare l’Unione Speciale di Pianificazione e conservando anche i piani regionali di settore ed i piani territoriali infraregionali, previsti dall’attuale L.R. 52/1991.

In sintesi, secondo il WWF il disegno di legge 212 è inaccettabile perché:

- non si pone esplicitamente l’obiettivo prioritario di tutelare il territorio ed il suolo (in particolare quello agricolo) arrestandone il consumo;

- favorisce anzi, anche ricorrendo agli strumenti della perequazione e della compensazione urbanistica e territoriale, pratiche perniciose di “urbanistica contrattata” funzionali esclusivamente agli interessi della speculazione immobiliare;

- non chiarisce in alcun modo la definizione del confine tra le competenze di Regione e quelle dei Comuni per quanto concerne la “pianificazione della tutela e dell’impiego delle risorse essenziali di interesse regionale”;

- complica irrazionalmente le procedure di formazione degli strumenti urbanistici di livello comunale (PSC, POC, PAC, Intese, ecc.);

- limita fortemente le possibilità di partecipazione del pubblico alla formazione degli strumenti urbanistici (19), senza precisare in alcun modo modalità e strumenti per l’implementazione delle metodologie di Agenda 21 e le procedure di VAS (richiamate solo formalmente nel ddlr) nella formazione e nella valutazione degli strumenti urbanistici;

- incentiva forme di pianificazione sovracomunale funzionali principalmente all’ulteriore cementificazione del territorio (cfr. art. 26, c. 2, lett. a).

In più, per quanto concerne la gestione delle competenze relative alla tutela del paesaggio, viene confermata – peggiorandola – l’attuale situazione, che vede la delega ai Comuni di competenze delicatissime, senza alcun indirizzo neppure per quanto concerne il funzionamento delle Commissioni consultive locali (art. 45), dalle quali scompare anche l’obbligo (previsti dalla L.R. 52/1991 per le Commissioni Edilizie Integrate) di ricorrere ad alcuni esperti designati dalle associazioni ambientaliste.

Chi ha approfondito il funzionamento delle attuali Commissioni Edilizie Integrate, ha potuto verificare agevolmente la totale arbitrarietà di quanto vi accade in molti Comuni (convocazioni ai componenti oggi per domani, ordini del giorno comunicati il giorno stesso della seduta, assenza di verbali, ecc.). Il che avrebbe dovuto indurre la Regione ad assumere per lo meno qualche funzione di indirizzo e controllo, mentre invece si va nella direzione opposta.

Da un certo punto di vista, comunque, il ddlr 212 potrebbe essere letto anche come un tentativo di recupero di competenze – almeno rispetto alla prassi attuale - da parte della Regione, per quanto concerne la pianificazione delle “risorse essenziali di interesse regionale”.

In teoria, infatti, il PTR potrebbe dare origine ad un vero piano paesaggistico “valorizzando le relazioni a rete tra i profili naturalistico, ambientale, paesaggistico, culturale e storico”(20), e potrebbero essere puntualmente definite le competenze regionali nel settore fornendo nel contempo precisi indirizzi vincolanti alla pianificazione sub-regionale per la tutela di queste risorse, assumendo come fondamento la già citata tutela e ricostruzione delle reti ecologiche.

Sarà così? Viste le premesse ricordate sopra, mi permetto di dubitarne, specie di fronte a reiterate dichiarazioni dell’ottimo assessore Sonego, secondo le quali “il territorio è dei Comuni”, mentre obiettivo della politica urbanistica regionale è “una Regione più ricca e più felice”.

C’è quindi da temere che anche in futuro il panorama, ad esempio, della pianura friulana sarà sempre più caratterizzato dalla triade “capannoni-pioppeti-antenne per cellulari”.

Il WWF, naturalmente, non intende rassegnarci a ciò auspica che, anche grazie ad occasioni di dibattito come quella odierna, chi può (e deve) si faccia sentire, affinchè nelle menti dei legislatori si facciano strada idee coerenti con la tutela del patrimonio ambientale e storico-culturale del Friuli Venezia Giulia, il quale non merita di essere abbandonato nelle mani della perversa commistione di gretti interessi economici e politici oggi prevalente a livello locale come a quello regionale.

(1) L'arch. Paolo Portoghesi

(2) Si tratta ovviamente di Bettino Craxi

(3) L'ing. Cargnello, dimessosi per non aver voluto accettare i mercanteggiamenti sulla base dei quali veniva costruendosi il PRGC

(4) L'ing. Giovanni Cervesi

(5) Mario Puiatti

(6) Decis. n. 1763/99 dell’8 giugno 1999

(7) La L. 431/1985, c.d. “Galasso”

(8) L'ing. Ondina Barduzzi

(9) Cfr. DGR 3148 del 17 ottobre 2003

(10) La L.R. 14 del 2002, fortemente voluta dalla Giunta di centro-destra

(11) Si tratta di 4 milioni di Euro!

(12) L.R. 30/2005, art. 5, c. 1

(13) L.R. 30/2005, art. 9, c. 1

(14) Nella stesura del quale ha avuto parte rilevante l’ex assessore all’urbanistica del Comune di Trieste, ing. Ondina Barduzzi

(15) Cfr. Direttiva 2001/42/CE

(16) Cfr. DGR n. 1873 del 28 luglio 2006

(17) L’abrogazione risponde essenzialmente all’esigenza di “togliere di mezzo” quella parte della L.R. 30/2005 che aveva suscitato un ricorso (fondato) alla Corte Costituzionale da parte dell’UPI.

(18) Che infatti rinviava (art. 1, c. 2) ad una futura legge il ”riordino organico della normativa regionale in materia di pianificazione territoriale e urbanistica”.

(19) “Chiunque” può formulare osservazioni soltanto sul POC (art. 21, c. 2),ma non sul PTR (art. 9, c. 5), né sul PSC (art. 16, c. 5), né sui PAC (art. 23). Su questi ultimi le osservazioni non sono proprio ammesse, mentre sugli altri strumenti di cui sopra il diritto di formularle è riservato a soggetti “selezionati” (enti ed organismi pubblici, soggetti portatori di interessi diffusi “riconosciuti in ambito regionale”, soggetti nei confronti dei quali le previsioni del piano sono destinate a produrre effetti diretti)

(20) Art. 7, c. 1, lett. a) del ddlr 212

Abbondante materiale sugli argomenti trattati nel testo è disponibile nel sito del WWF Friuli - Venezia Giulia (sezione “documenti”)

Riforma urbanistica: dal fallimento della L.R. 30/2005 un nuovo disegno di legge anacronistico e disorganico

Sta per essere sottoposto all’esame dell’Assemblea delle Autonomie e, successivamente, del Consiglio regionale il disegno di legge regionale “Riforma dell’urbanistica e disciplina dell’attività edilizia e del paesaggio” (DDLR n. 2114/2006), che il WWF Friuli Venezia Giulia ha preso in esame nel dettaglio.

Salta immediatamente all’occhio come il DDLR 2114/2006 abroghi i primi 8 articoli della legge regionale n. 30 del 13 dicembre 2005, cosiddetta “Legge Sonego”, sulla quale il WWF aveva espresso forti critiche. Tale legge, presentata come base della riforma urbanistica regionale e del nuovo Piano Territoriale Regionale, è stata anche impugnata dall’Unione delle Province Italiane e dal Governo. Il DDLR di riforma ora presentato, a distanza di soli 9 mesi, è un segno evidente che le critiche mosse allora dal WWF erano ampiamente motivate, mentre per contro la politica regionale in materia urbanistica appare confusa e priva di chiare linee di intervento.

L’attuale disegno di legge, tuttavia, non appare migliorativo rispetto alla precedente legge regionale 30. Esso non si pone esplicitamente l’obiettivo prioritario di tutelare il territorio e il suolo (in particolare quello agricolo) arrestandone il consumo, come prevedono invece molte normative di altre Regioni italiane. Al contrario introduce pratiche perniciose di “urbanistica contrattata”, quali la perequazione e la compensazione urbanistica e territoriale, che appaiono funzionali esclusivamente agli interessi della speculazione immobiliare.

Il disegno di legge non affronta poi il problema fondamentale della ripartizione delle competenze urbanistiche tra Regione e Comuni, che rinvia a non meglio precisati futuri strumenti normativi. In riferimento alla riforma dei Piani regolatori comunali, il DDLR complica irrazionalmente le procedure di formazione e moltiplica gli strumenti urbanistici di livello comunale (PSC, POC, PAC, Intese, ecc.). Inoltre fa ricadere quasi completamente sui Comuni – attraverso l’incentivazione di forme di pianificazione sovracomunale – le competenze sulla pianificazione d’area vasta, che perdono così la loro funzione di coordinamento e rischiano di favorire un’ulteriore cementificazione del territorio.

Da ultimo, il disegno di legge limita fortemente le possibilità di partecipazione del pubblico alla formazione e valutazione degli strumenti urbanistici, senza precisare in alcun modo l’implementazione delle metodologie di Agenda 21 e le procedure di Valutazione Ambientale Strategica (VAS), richiamate solo formalmente nel testo. Così come non prevede un utilizzo delle possibilità offerte dagli strumenti informatici, per favorire la condivisione delle conoscenze e incentivare la partecipazione del pubblico all’attività di pianificazione.



Postilla

Se qualche speranza si poteva riporre nel Consiglio delle Autonomie, alla prova del voto, nella riunione del 19 ottobre, essa è rimasta delusa: il Consiglio si è espresso all’unanimità a favore dell’approvazione “con raccomandazioni” del disegno di legge.

Nel comunicato stampa, apparso sul sito della Regione, si legge che l’assessore Sonego, al termine della riunione, ha espresso la propria soddisfazione dichiarando che “Il voto unanime del Consiglio delle Autonomie è un viatico positivo per una rilevante riforma”.

Da quanto per ora si sa “Il disegno di legge che la Giunta invierà al Consiglio manterrà la bipartizione della pianificazione territoriale tra Regione e Comune, la Provincia avrà la funzione di predisporre quadri conoscitivi e strategici di area vasta”.

Per conoscere gli effettivi contenuti, e soprattutto in cosa realmente consista la reintroduzione di competenze per le Province e quali siano ruolo e elementi distintivi di tali “quadri conoscitivi e strategici di area vasta” bisogna aspettare il testo modificato; appena sarà disponibile, si ritornerà sull’argomento (d.v.).

Riportiamo di seguito la relazione illustrativa. In calce il link al testo in formato .pdf, assieme all’articolato e alle note di accompagnamento

La legge regionale 30/2005, che porta norme in materia di Piano Territoriale Regionale, ha recentemente stabilito che la Regione abbandoni molte delle attribuzioni storiche per dare corso ad una nuova politica urbanistica caratterizzata da una forte devoluzione di competenze in direzione dell’ente locale più vicino al cittadino, il Comune, ma allo stesso tempo dichiara che la devoluzione non è il punto di arrivo o l’obiettivo, ma il mezzo per corrispondere meglio alle esigenze dei cittadini e delle imprese.

L’urbanistica del Friuli Venezia Giulia è stata tradizionalmente caratterizzata da un ruolo molto forte della Regione che si è manifestato con molti aspetti positivi e taluno anche negativo. Nel corso del tempo quel ruolo è purtroppo scivolato sempre di più verso un profilo caratterizzato da una invadenza negli aspetti procedimentali più minuti e da una riduzione dell’autorevolezza nel programmare e governare le grandi questioni strategiche di scala regionale. La recente legge regionale 30/2005 statuisce il ribaltamento di tale situazione, assegnando la gestione del territorio al Comune e ridisegna la mission della Regione alle sole azioni di interesse regionale e a queste conferisce una forte cogenza. Sono azioni di governo che trovano riferimento nelle risorse essenziali, anch’esse definite in legge, qualora superino una determinata soglia. La legge regionale stabilisce che il territorio sia governato secondo i principi di pari dignità ed adeguatezza e non più secondo il principio gerarchico, in cui i contenuti del piano sovra ordinato si ripercuotono su quello sotto ordinato, con effetto “a cascata”. La nuova legge impone che la Regione presidi in modo molto efficace i cardini portanti della pianificazione comunale intervenendo sulla struttura del piano, sulle scelte essenziali, divenute patrimonio dell’intera collettività regionale e come tali non più assoggettabili a rivalutazioni sul “se”. La struttura del Piano urbanistico comunale (Piano strutturale comunale – PSC) deve pertanto proporre senza riserve le scelte dello strumento regionale di pianificazione. Tutto il resto rimane nelle determinazioni autonome del Comune, che potrà decidere come organizzare e regolare il proprio territorio, sempre garantendo che gli strumenti attuativi non stravolgano, ma si armonizzino, con il Piano Territoriale Regionale.

La legge regionale 13 dicembre 2005, n 30, oltre a regolamentare le procedure di formazione, adozione ed approvazione del PTR, delinea in modo netto ed innovativo il quadro istituzionale dei soggetti partecipi della pianificazione territoriale. Ne esce il seguente quadro: la legge ripartisce le attribuzioni della pianificazione territoriale tra la Regione e i Comuni e stabilisce che la funzione della pianificazione intermedia è svolta dai Comuni.

In questo quadro è forte la scelta del legislatore regionale, peraltro meditata, di affidare la pianificazione di livello intermedio, di area vasta, al Comune e non più alla Provincia, come previsto dalla vigente legge urbanistica regionale. Le ragioni di tale scelta sono molteplici e sono state ampiamente esposte nel dibattito, talora anche aspro, che su questa tematica si è svolto in Consiglio regionale.

In quale modo la legge regionale ha ripartito le competenze, con quali criteri? La legge regionale è precisa nella sua sinteticità.

La funzione della pianificazione territoriale è del Comune che la esercita nel rispetto dei principi di adeguatezza, interesse regionale e sussidiarietà, nonché nel rispetto delle attribuzioni riservate in via esclusiva alla Regione in materia di risorse essenziali di interesse regionale e in coerenza con le indicazioni del PTR.

Il Comune, in forza del principio di sussidiarietà e di adeguatezza, esercita anche con enti pubblici diversi dal Comune, la funzione della pianificazione territoriale a livello sovraccomunale quando gli obiettivi della medesima, in relazione alla portata o agli effetti dell’azione prevista, non possano essere adeguatamente raggiunti a livello comunale.

La legge regionale stabilisce i casi nei quali il Comune svolge la funzione della pianificazione territoriale a livello sovraccomunale e le forme di cooperazione istituzionale con cui la esercita, quali le associazioni intercomunali previste dall’ordinamento in materia di Autonomie locali.

La funzione della pianificazione della tutela e dell’impiego delle risorse essenziali di interesse regionale è della Regione.

I criteri per individuare le soglie oltre le quali la Regione svolge le proprie funzioni per mezzo del PTR sono stabiliti con norma di rango legislativo.

Con norma di pari livello sono stabilite, altresì, le procedure attraverso le quali la Regione assicura che la tutela e l’impiego delle risorse essenziali siano garantiti dagli strumenti urbanistici di livello subordinato.

Dunque la Regione abbandona una rilevante quantità di funzioni e prerogative, venendo limitata per legge la propria competenza alla pianificazione della tutela e l’impiego delle risorse essenziali di interesse regionale. Vengono in questo modo introdotti i criteri cardine, i pilastri, su cui poggia la nuova disciplina. La competenza regionale può esercitarsi esclusivamente al superamento di una data soglia con riferimento alle risorse essenziali di interesse regionale. I criteri di individuazione delle soglie sono coperti da riserva di legge. La traduzione in atto regolativo dell’interesse regionale avviene per mezzo delle previsioni del PTR.

Il ddlr prevede, in armonia con la tecnica legislativa più evoluta, disposizioni di regolamentazione generale della materia e di principio, mentre la disciplina di dettaglio ed attuativa viene affidata al regolamento di attuazione delle legge, da emanarsi entro termini ristretti (massimo 120 giorni), in modo da assicurare la sostanziale contemporaneità dell’entrata in vigore. Con l’entrata in vigore della nuova disciplina urbanistica saranno abrogate le previgenti leggi regionali di settore, in primis la L.R. 52/1991 e la L.R. 30/2005.

Il ddlr si articola in Parti, Titoli e Capi. Le Parti sono cinque e trattano l’urbanistica (I), l’attività edilizia (II), il paesaggio (III), l’attività regolamentare (IV) e le norme transitorie e finali (V).

La Parte I Titolo I si occupa delle disposizioni generali; precisa le finalità della legge, contiene definizioni utili alla comprensione delle norme, precisa le attribuzioni dei Comuni e della Regione, prevede che la Regione, nello svolgimento delle funzioni attribuite dalla legge, promuove il raggiungimento delle intese obbligatorie con gli organi statali competenti, quanto agli eventuali mutamenti di destinazione dei beni immobili, appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile dello Stato, e contiene l’autorizzazione a stipulare, in attuazione a quanto previsto dal decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 e s.m.i. (Codice dei beni culturali e del paesaggio), con i Ministeri competenti l’intesa per la valenza paesaggistica del PTR.

La Parte I Titolo II contiene la disciplina della pianificazione territoriale.

Il Capo I delinea quella regionale, precisando le finalità strategiche del PTR ( già definite dalla L.R. 30/2005), gli elementi costitutivi, la procedura di formazione, i contenuti prescrittivi e l’efficacia. In particolare si stabilisce che le risorse essenziali di interesse regionale, i livelli di qualità, le prestazioni minime e le regole d’uso individuati nel PTR, costituiscono elementi strutturali della pianificazione territoriale regionale e sono recepiti negli strumenti urbanistici comunali. Sono altresì definiti i criteri per l’individuazione delle soglie, oltre le quali si configurano le risorse essenziali di interesse regionale, che si informano ai criteri funzionale, fisico-dimensionale, prestazionale, regolativo e, per il paesaggio e gli edifici, monumenti e siti di interesse storico e culturale, vocazionale.

Quanto all’efficacia, il Comune è tenuto ad adeguare i propri strumenti di pianificazione territoriale ed urbanistica comunale dalla data di entrata in vigore del PTR e delle sue varianti. L’adeguamento è assolto con l’adozione del PSC entro il termine di due anni, ovvero di tre anni nell’ipotesi in cui Comuni contermini vi provvedano in forma associata. Il decorso infruttuoso di detto termine provoca la sospensione di ogni determinazione comunale sulle domande di rilascio dei titoli abilitativi edilizi, che siano in contrasto con le previsioni del PTR.

Il Capo II tratta dei Piani di settore approvati dalla Regione in applicazione di leggi statali e regionali, imponendo l’obbligo di conformarsi alle prescrizioni del PTR, attraverso una relazione di coerenza con il PTR medesimo. I Piani di settore possono peraltro costituire variante al PTR qualora formati nel rispetto delle finalità, dei contenuti e delle procedure di formazione del PTR medesimo. In questa parte vi è la disciplina dei piani territoriali infraregionali, intesi quali strumenti di pianificazione di enti pubblici, ai quali è attribuita per legge una speciale funzione di pianificazione territoriale per il perseguimento dei propri fini istituzionali. Il piano territoriale infraregionale si conforma alle prescrizioni del PTR e contiene una relazione di coerenza alle previsioni del PTR. I Piani territoriali infraregionali si armonizzano con gli strumenti urbanistici comunali secondo le procedure indicate nel regolamento di attuazione della legge e sono approvati dal Presidente della Regione.

Il Capo III tratta degli strumenti e contenuti della pianificazione comunale, definisce le finalità strategiche del PSC, rapportandole a quelle del PTR, ne stabilisce la durata illimitata e i contenuti (costituisce il quadro conoscitivo idoneo a individuare, conservare e valorizzare le risorse essenziali, recepisce le prescrizioni di PTR, fissa gli indicatori di monitoraggio per la Valutazione Ambientale Strategica (VAS), stabilisce i criteri per l’utilizzazione delle risorse essenziali di livello comunale, individua gli ambiti territoriali urbanizzati e non urbanizzati e la rete delle infrastrutture, definisce le metodologie e gli ambiti di perequazione urbanistica, compensazione urbanistica e compensazione territoriale), individua la Procedura di formazione del PSC, stabilendo in particolare il suo assoggettamento alle metodologie di Agenda 21 e alla procedura di VAS.

Nell’ambito della procedura di formazione del PSC rivestono particolare importanza i nuovi istituti della Conferenza di pianificazione e dell’Intesa di pianificazione.

La Conferenza esprime valutazioni preliminari di natura istruttoria sul DPP, verifica la completezza e l’aggiornamento del quadro conoscitivo del territorio, raccoglie e integra le valutazioni dei soggetti partecipanti e ne condivide i risultati nel provvedimento finale. Alla conferenza di pianificazione partecipano di diritto la Regione, la Provincia territorialmente competente, i soggetti pubblici che svolgono funzioni pianificatorie, le Amministrazioni statali competenti, nonché i Comuni contermini partecipano Il Comune ha facoltà di convocare altri soggetti pubblici. Nella Conferenza di pianificazione sono prioritariamente promosse le intese necessarie a definire le previsioni urbanistiche di beni appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile dello Stato o della Regione, nonché di quelli ricadenti in ambito territoriale di competenza di soggetti di diritto pubblico ai quali leggi statali o regionali attribuiscono specifiche funzioni di pianificazione.

L’Intesa di pianificazione tra Regione e Comune recepisce nel PSC le prescrizioni di PTR e considera i progetti dichiarati di interesse regionale ai sensi dell’art. 10 L.R. 13 dicembre 2005, n. 30 e s.m.i. Il Comune può proporre che nell’Intesa siano previsti interventi di trasformazione del territorio e scelte urbanistiche relative a risorse essenziali di livello comunale. Il Consiglio comunale adotta il PSC nel rispetto dell’Intesa con la Regione; qualora il PSC approvato non rispetti i contenuti dell’Intesa, la Regione restituisce gli atti al Comune per il necessario adeguamento e il PSC non trova applicazione.

La legge disciplina in questo Capo anche l’istituto della Salvaguardia e dispone che il Comune, a decorrere dalla data della delibera di adozione del PSC o delle varianti al piano in vigore e sino alla data di entrata in vigore del Piano medesimo, sospende per un termine massimo di due anni per il PSC comunale e per un termine massimo di 3 anni per il PSC sovracomunale ogni determinazione sulle domande di rilascio di titoli abilitativi edilizi che siano in contrasto con le previsioni del PSC adottato. Si fanno salvi peraltro interventi edilizi di manutenzione ordinaria e straordinaria, nonché per gli interventi di pubblica utilità ed interesse pubblico.

In questo Capo trova collocazione la disciplina del POC, predisposto dal Comune in conformità delle previsioni del PSC, e se ne stabilisce l’efficacia conformativa della proprietà e la durata indeterminata.. La legge ne definisce i contenuti (il POC ripartisce il territorio comunale in zone omogenee con relative destinazioni d’uso ed indici edilizi, stabilisce norme tecniche di attuazione degli interventi di trasformazione e di conservazione, stabilisce gli standard, individua e disciplina le aree destinate alla realizzazione del sistema delle infrastrutture e dei servizi pubblici e di interesse pubblico, nonché le attrezzature di interesse collettivo e sociale, individua gli ambiti da assoggettare obbligatoriamente a pianificazione di settore ed attuativa, stabilendone le regole e le modalità d’intervento, disciplina gli interventi di trasformazione da attuare in forma unitaria con la tecnica della perequazione urbanistica, della compensazione urbanistica e della compensazione territoriale ed individua le aree destinate al trasferimento dei crediti edilizi, nonché i relativi limiti di incremento edificatorio). La nuova disciplina tende a favorire gli interventi tra Comuni aggregati, mentre mira ad ostacolare interventi singoli, dissipatori del territorio. In questo senso si stabilisce che nuove zone industriali, artigianali, commerciali, turistiche e residenziali di espansione ovvero l’ampliamento di quelle esistenti non sono ammessi, se non in sede di pianificazione sovracomunale, salvo diversa prescrizione di PTR. Il POC non necessita di alcuna approvazione regionale, in quanto non incide sull’intesa di pianificazione conseguita sul PSC. In coerenza con le determinazioni della Costituzione e della Suprema Corte viene precisato che le previsioni del POC che assoggettano singoli beni a vincoli preordinati all’esproprio decadono qualora non siano state attuate o non sia iniziata la procedura per l’espropriazione degli immobili entro cinque anni dall’entrata in vigore del POC medesimo. La decadenza non opera ovviamente qualora i vincoli abbiano validità permanente in quanto imposti da disposizioni di legge. Il Comune in sede di reiterazione dei vincoli di cui al comma 1, provvede all’equo ristoro a favore dei proprietari degli immobili interessati, mediante previsione di indennizzo o con tecniche di perequazione e compensazione urbanistica. Nelle more della reiterazione dei vincoli di cui al comma 1, sono ammesse varianti che non assoggettino a vincolo preordinato all’esproprio aree destinate a servizi. Sono comunque ammesse varianti per la realizzazione di lavori pubblici e quelle conseguenti a una conferenza di servizi, un accordo di programma, una intesa ovvero un altro atto, anche di natura territoriale, che in base alla legislazione vigente comporti la variante al piano urbanistico.

In questo Capo infine vengono disciplinati i PAC. I PAC sono adottati ed approvati dalla Giunta comunale in seduta pubblica. Il Comune, su richiesta del proponente un PAC di iniziativa privata, può attribuire all’atto deliberativo valore di titolo abilitativo per tutti o parte degli interventi previsti a condizione che siano stati ottenuti i pareri, le autorizzazioni ed i nulla osta cui è subordinato il rilascio del titolo abilitativo medesimo. I rapporti derivanti dall’attuazione degli interventi previsti dal PAC sono regolati da convenzione tra Comune e proponente.

Il Capo IV porta la disciplina della cosiddetta area vasta e definisce in modo originario soggetti e contenuti di Pianificazione sovracomunale. Si stabilisce che la funzione della pianificazione sovracomunale è svolta direttamente dai Comuni capoluogo e dalle Città metropolitane. I Comuni possono delegare o affidare il coordinamento dell’attività di predisposizione degli strumenti urbanistici a:

a) Province;

b) Comuni e Unioni di Comuni, organizzati in ASTER;

c) Comuni capoluogo;

d) Comunità montane;

e) Città metropolitane;

f) Consorzi tra Enti locali ed Enti pubblici.

I Comuni posso delegare la funzione della pianificazione ai soggetti di cui alle lettere da a) ad e) e loro consorzi. La delega o l’affidamento possono essere esercitate previa stipula di apposita convenzione che disciplini oggetto, durata e modalità delle attività.

Il ddlr disciplina ancora la possibilità per i Comuni di trasferire la propria funzione pianificatoria ad altro soggetto pubblico, dotato di personalità giuridica e che sia costituito da Enti locali. Si stabilisce infatti che Comuni contermini possono altresì istituire l’Unione Speciale di Pianificazione (USP) per l’esercizio della funzione della pianificazione sovracomunale, per il periodo necessario all’elaborazione, adozione ed approvazione dello strumento di pianificazione. La costituzione e il funzionamento dell’USP sono disciplinati dall’art. 23, commi 3 e ss., della L.R. 1/2006 e s.m.i.

La funzione della pianificazione sovracomunale si esercita mediante gli strumenti urbanistici e le procedure di cui al Capo III, nel rispetto delle prescrizioni di PTR.

Per quanto attiene ai contenuti si precisa l’ambito di competenza (la pianificazione sovracomunale consente la previsione di nuove zone residenziali di espansione, industriali, artigianali, commerciali, turistiche ovvero l’ampliamento di quelle esistenti, la previsione di infrastrutture ed attrezzature collettive di scala sovracomunale).

Per contro i Comuni che non svolgono la funzione della pianificazione sovracomunale possono approvare strumenti urbanistici o loro varianti esclusivamente per adeguare le attività già insediate nelle zone industriali, artigianali, commerciali turistiche e residenziali esistenti ad obblighi derivanti da normative regionali, statali e comunitarie.

Il Capo V tratta infine della perequazione urbanistica e della compensazione urbanistica e territoriale, quali tecniche facoltative di pianificazione.

Si dispone che il Comune può utilizzare la tecnica della perequazione urbanistica in sede di pianificazione operativa ed attuativa relativamente ad immobili destinati a trasformazione urbanistica. La disciplina della perequazione urbanistica per gli interventi di trasformazione da attuare in forma unitaria è stabilita nel POC e nei PAC, in modo tale da assicurare la ripartizione dei diritti edificatori e dei relativi oneri tra tutti i proprietari degli immobili interessati, indipendentemente dalle destinazioni specifiche assegnate alle singole aree.

Il Comune può concordare con i proprietiari delle aree da destinare a servizi la cessione a proprio favore delle medesime, a fronte di una compensazione, attuata mediante il trasferimento dei diritti edificatori in altre aree del territorio comunale, a ciò preventivamente destinate.

La compensazione può aver luogo mediante convenzione fra il Comune e i proprietari delle aree interessate dagli interventi, che stabilisca le modalità di calcolo dei crediti edificatori, la localizzazione delle aree sulle quali trasferire i diritti edificatori, il tempo massimo di utilizzazione dei crediti edificatori, la corresponsione di un importo pari all’indennità di esproprio per il caso di impossibilità di utilizzazione del credito edificatorio nel periodo convenuto.

I Comuni contermini che provvedono alla pianificazione in forma associata possono utilizzare la tecnica della compensazione territoriale per realizzare lo scambio di diritti edificatori, contro equivalenti valori di natura urbanistica o economica.

La Parte I titolo III disciplina l’informatizzazione e il monitoraggio degli strumenti urbanistici. Stabilisce chela Regione e il Comune formano i propri strumenti di pianificazione territoriale e le loro varianti con metodologie informatiche standardizzate. Gli strumenti di pianificazione territoriale adottati ed approvati, formati con le metodologie informatiche sono inseriti nel Sistema territoriale regionale (SITER). L’inserimento nel SITER dei piani costituisce certificazione di conformità all’originale. Il ddlr stabilisce inoltre che le modalità tecniche da assumere nella redazione degli strumenti di pianificazione e negli atti di convalida saranno definite con regolamento, secondo modelli standardizzati.

E’ prevista a cura della Regione l’organizzazione di una banca dati informatica, nella quale sono raccolti, elaborati ed interpretati i dati numerici e di documentazione cartografica, riguardanti le dinamiche del territorio, ed é fatto obbligo agli Uffici regionali, alle Province, ai Comuni e agli altri enti pubblici di inviare periodicamente alla struttura regionale competente le informazioni territoriali a disposizione per l’implementazione della banca dati informatica. La medesima struttura fornisce i supporti tecnici, informatici e cartografici per la formazione e gestione degli strumenti di pianificazione territoriale nonché i supporti tecnici e cartografici di base per la predisposizione di cartografie tematiche da curare in collaborazione con le altre Direzioni dell’ Amministrazione regionale.

Viene infine prevista un’importante attività di monitoraggio sugli strumenti urbanistici comunali.

La Parte II del ddlr reca norme per la disciplina dell’attività edilizia.

Il principio su cui si fonda la norma è quello del recepimento della normativa statale e della regolamentazione mediante regolamento della parte di dettaglio.

Il recepimento delle disposizioni contenute nel Decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), e successive modifiche ed integrazioni viene operatto con riferimento a:

- sportello unico per l’edilizia;

- definizione degli interventi edilizi;

- destinazione d’uso degli immobili;

- regime edificatorio e titoli abilitativi edilizi;

- contributo del costo di costruzione;

- attività edilizia delle pubbliche amministrazioni e su aree demaniali;

- attività edilizia libera;

- controllo e vigilanza sull’attività edilizia e relative sanzioni.

Viene ribadita l’obbligatorietà per i Comuni di dotarsi del Regolamento edilizio per la disciplina delle attività di costruzione e di trasformazione fisica e funzionale delle opere edilizie, mentre si dà la facoltà ai Comuni di istituire la Commissione edilizia, quale organo tecnico-consultivo del Comune in materia urbanistica ed edilizia.

Di particolare importanza ai fini della semplificazione del procedimento la previsione dello Sportello unico per l’edilizia, da costituire anche in forma associata. I Comuni, attraverso lo Sportello unico per l’edilizia, forniscono altresì una adeguata e continua informazione ai cittadini sui contenuti degli strumenti urbanistici ed edilizi.

Tra i contenuti del ddlr va rilevata la declaratoria delle Categorie delle destinazioni d’uso e la previsione del Certificato urbanistico e valutazione preventiva che consente al proprietario dell’immobile o chi abbia interesse di chiedere al competente ufficio comunale il certificato contenente l’indicazione della disciplina urbanistica ed edilizia prevista nella strumentazione urbanistico-territoriale, vigente o adottata.

Il regolamento edilizio può prevedere che il proprietario dell’immobile o chi abbia titolo richieda una valutazione preliminare sull’ammissibilità dell’intervento.

Il certificato urbanistico e la valutazione preventiva conservano validità per un anno dalla data del rilascio a meno che non intervengano modificazioni degli strumenti urbanistici vigenti. In tal caso, il Comune notifica agli interessati l’adozione di varianti agli strumenti urbanistici generali e di attuazione.

Sono state infine adeguate le disposizioni vigenti in tema di Autorizzazione edilizia in precario.

La Parte III disciplina il paesaggio operando il sostanziale recepimento della disciplina introdotta dal decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 e s.m.i. (Codice dei beni culturali e del paesaggio).Il Capo I tratta le disposizioni generali e sancisce che la legge costituisce attuazione della normativa statale per la valorizzazione del paesaggio e si conforma agli obblighi e ai principi derivanti dalla legge dello Stato.

Vengono definiti beni paesaggistici gli immobili e le aree indicati all’art. 134 del D. Lgs. 42/04 e s.m.i.

Il Capo II si sofferma sulla pianificazione paesaggistica e nello specifico sulla valenza paesaggistica del PTR. La disciplina si sostanzia nella seguente sintesi:

- la valenza paesaggistica è attribuita al PTR, ai sensi e per gli effetti dell’art. 143 del D. Lgs 42/04, qualora il medesimo sia predisposto nel rispetto di procedure, tempi e metodologie indicate dall’Intesa interistituzionale tra Stato e Regione;

- il PTR qualifica i tipi di paesaggio e individua le Unità di Paesaggio che si presentano omogenee in base alle caratteristiche naturali e storiche ed in relazione alla tipologia, rilevanza e integrità dei valori paesaggistici;

- il PTR definisce per ciascuna Unità di Paesaggio la specifica destinazione d’uso mediante prescrizioni da recepirsi direttamente negli strumenti urbanistici comunali, nonché criteri e metodologie per la definizione in ambito comunale degli aspetti paesaggistici di dettaglio;

- la Regione ai fini di cui all’art. 135, comma 3, D.Lgs. 42/04 e s.m.i garantisce con l’Intesa di pianificazione che il PSC e il POC dei Comuni interessati dall’Unità di paesaggio abbiano i contenuti previsti dal PTR.

Il Capo III disciplina le attività di controllo e gestione dei beni soggetti a tutela, prevedendo coerentemente con le disposizioni nazionali l’obbligatorietà della preventiva autorizzazione per i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili e aree tutelati con il PTR ai sensi dell’articolo 143 del D. Lgs 42/04 l’obbligo di sottoporre i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della documentazione prevista, affinché ne sia accertata la compatibilità paesaggistica e sia rilasciata l’autorizzazione a realizzarli. Si stabilisce in via generale la delega regionale al rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche ai soggetti pubblici, che esercitano la funzione pianificatoria in forma associata, nonché ai Comuni, che abbiano provveduto all’adeguamento dei propri strumenti urbanistici al PTR. In caso di delega ai Comuni, il parere della Soprintendenza di cui al comma 8 dell’ articolo 146 del D. Lgs 42/04 resta vincolante.

Si dà risposta ai principi generali stabiliti a livello nazionale con l’istituzione delle commissioni locali per il paesaggio, di cui la Regione si fa promotrice per assicurare supporto ai soggetti delegati al rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche. Le Commissioni sono costituite per ambiti sovracomunali e sono composte da soggetti con particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella tutela del paesaggio.

Il Capo IV regolamenta la prima applicazione e porta le opportune norme transitorie. Stabilisce l’Autorità competente al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in via transitoria, fino alla operatività in ambito comunale del piano paesaggistico, con una regolamentazione che riconferma l’ attuale delega ai Comuni, parzialmente ampliata.

La Parte IV disciplina la potestà regolamentare della Regione sia in materia urbanistica, che per l’attività edilizia e per il paesaggio.

Il ddlr fissa i principi generali in base ai quali opererà il regolamento, stabilisce criteri, tempi e materie. Nello specifico dovrà definire in dettaglio le seguenti materie:

a) soglie di interesse regionale;

b) contenuti del DPP;

c) procedura e funzionamento della Conferenza di pianificazione;

d) contenuti e procedura dell’Intesa di pianificazione;

e) contenuti ed elaborati di PSC, POC e PAC;

f) procedure di armonizzazione dei piani territoriali infraregionali;

g) metodologie informatiche di rappresentazione degli strumenti di pianificazione;

h) banca dati del SITER;

i) tecniche di pianificazione sovracomunale;

j) termini e procedure di adozione ed approvazione degli strumenti di pianificazione;

k) intese interistituzionali;

l) Osservatorio;

m) certificato di conformità urbanistica dei lavori pubblici da eseguirsi dalle amministrazioni statali, da enti istituzionalmente competenti, dall’Amministrazione regionale e da quelle provinciali, nonché dai loro formali concessionari;

n) parametri urbanistici ed edilizi;

o) commissione edilizia;

p) regolamento edilizio;

q) sportello unico;

r) certificato urbanistico;

s) elaborati progettuali a corredo dei titoli abilitativi;

t) controllo e vigilanza sull’attività edilizia e relative sanzioni;

u) autorizzazione edilizia in precario;

v) convenzione tipo per l’edilizia abitativa convenzionata.

w) composizione e funzionamento delle Commissioni locali per il paesaggio;

x) procedura e termini di rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche.

Il regolamento è emanato entro centoventi giorni dalla pubblicazione della legge, previo parere delle competente Commissione consiliare. La Commissione consiliare esprime il parere entro sessanta giorni dalla data di ricezione della relativa richiesta. Decorso tale termine si prescinde dal parere.

Sono abrogate, a decorrere dalla data di entrata in vigore del regolamento le disposizioni vigenti, anche di legge, con esso incompatibili, espressamente indicate nel regolamento medesimo.

La Parte V si occupa infine delle numerose norme di legge oggetto di modifica ed abrogazione e detta le disposizioni finali.

La legislazione urbanistica regionale e i suoi esiti.

La nuova legislazione urbanistica: obiettivi, attese, difficoltà

Abbazia di Morimondo, 4 ottobre 2003.

Relazione introduttiva del prof. Gianni Beltrame

Necessità, ragioni e finalità di una legge urbanistica regionale di "seconda generazione"

Partiamo da un punto che sicuramente tutti condividiamo.

Nessuno, penso, può dubitare oggi della necessità - condivisa per il momento "in via generale" - di rivedere ed aggiornare le leggi organiche regionali di "prima generazione", sia in Lombardia come in tutte le altre Regioni.

Non solo perché sono passati mediamente venticinque anni di tempo e di esperienze applicative dalla loro prima formulazione e impostazione ma soprattutto perché in questo periodo si sono verificati avvenimenti e svolte istituzionali, legislative, sociali e culturali di grande e, a volte, grandissima portata che hanno mutato profondamente i termini, il clima e i contenuti del dibattito, sia entro che a lato della cultura urbanistica, rispetto all'immediato periodo post legge-ponte nel quale sono maturate le leggi di "prima generazione".

Non sono tuttavia l'invecchiamento, i limiti o le "colpe" e le "rigidità" della legislazione vigente (nazionale e regionale) o il "vincolismo" del "piano", accusati, come un po' ovunque - nella rozza interpretazione dominante - di essere i responsabili principali ed unici di tutte le colpe di quanto avvenuto, o non avvenuto, nelle città e sul territorio (come in Lombardia, dove si è tentato artatamente di addossare tutte queste colpe alla legge 51/75) - quanto il complesso delle svolte e delle trasformazioni culturali, istituzionali, legislative, economiche, disciplinari avvenute in questi ultimi venti-venticinque anni.

Resta evidente che se decidessimo di passare dal riconoscimento di queste ragioni, riconosciute per ora solo "in via generale", alla valutazione delle ragioni più specifiche e particolari di cosa poter/dover mantenere e cosa innovare di tutto l'apparato legislativo e operativo costruito e accumulato in questo periodo, per spingerci successivamente sino alla proposizione e alla formulazione di nuovi contenuti, linee e strategie di riforma, questa unanimità generale verrebbe rapidamente a spezzarsi.

Conviene notare, a questo proposito, come la riflessione e il dibattito relativo alla valutazione complessiva di quanto accaduto ed elaborato del periodo che ci separa del varo delle leggi di "prima generazione", che avrebbe dovuto riconoscere e analizzare come la cultura, la legislazione urbanistico-ambientale ( sia nazionale che regionale) le innovazioni strumentali, metodologiche e la prassi operativa si siano evolute e trasformate in quest'arco di tempo, quale ne possa essere l'eredità, cosa abbiano prodotto sia in termini positivi (da conservare e da sviluppare) che negativi, si sia svolto in una forma assai confusa e squilibrata. Dove in pratica ha prevalso decisamente una linea "negativa" e "ideologico-politica" - oggi anche politicamente vincente - di chi ha inteso e intende liquidare, attraverso un giudizio complessivamente e totalmente negativo, tutta questa venticinquennale esperienza, come se fosse completamente da respingere e da buttare, mentre dal versante opposto assai deboli e incerte si sono rivelate le risposte provenienti dalla cultura così detta "riformista" che pur avrebbe dovuto, in certa misura, difenderla.

Vediamo di richiamare velocemente e sinteticamente le ragioni e le tematiche più importanti, le più decisive e quelle di più alto profilo culturale che dovrebbero motivare, stare alla base, guidare e informare l'impostazione della nuova legislazione regionale di "seconda generazione.

Sul piano dell'evoluzione culturale-disciplinare:

- l'affacciarsi e l'affermarsi di una nuova cultura e attenzione centrata sulle tematiche ambientali ( del tutto ignorate all'epoca della legislazione di "prima generazione");

- l'esplodere e l'affermarsi della “questione ambientale”, intesa come il crescere dell'attenzione e della riflessione sui nodi e sulle contraddizioni e sui conflitti del rapporto sviluppo-ambiente;

- lo svilupparsi della riflessione critica relativa al concetto di sviluppo, ai limiti dello sviluppo e alle illusioni di una possibile infinita crescita quantitativa, soprattutto in relazione agli usi della risorsa suolo;

- la nascita del tema e del perseguimento della ricerca di uno "sviluppo sostenibile" sia inteso in senso globale che in relazione, nello specifico, alla ricerca del contributo proprio che dovrebbe/potrebbe offrire la pianificazione o "governo" locale del territorio e delle organizzazioni urbane;

- la trasformazione e l'evoluzione della disciplina urbanistica da disciplina della città e della crescita urbana a disciplina dell'organizzazione del territorio strettamente connessa all'ambiente;

- la conseguente e connessa maturazione della necessità della unificazione e della non separabilità, concettuale e operativa, della pianificazione urbanistico-territoriale, da quella della pianificazione ambientale e della pianificazione paesistica;

- la necessità pertanto di aiutare e sostenere l'evolversi in senso ambientale della pianificazione territoriale-ambientale mediante un rinnovamento sostanziale delle sue tecniche, degli strumenti, delle sue metodologie e delle sue pratiche. Come affermato al Congresso dell'Istituto Nazionale di Urbanistica, (Relazione generale del Gruppo Ambiente, Palermo 1993) la questione ambientale è diventata per l'urbanistica - disciplina e pratica - questione "centrale" e "rifondativa" ;

- la necessità della introduzione di indicatori e di parametri per misurare e valutare la sostenibilità delle scelte, dei piani e delle trasformazioni urbanistico- territoriali;

- la necessità di incentivare e promuovere il tema della pianificazione contestuale del rapporto acqua-suolo (così come impostato dalla L. 183/89 Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo) assumendo il "bacino idrografico" come unità ecologico-ambientale e di pianificazione territoriale-ambientale;

- la necessità della introduzione di nuove forme di contabilità e bilancio ambientale, a tutti i livelli di pianificazione;

- la necessità di introdurre uno strumento specifico per la "Valutazione della sostenibilità ambientale dei Piani" del tipo della VAS (che prende origine dalla Direttiva comunitaria 2001/42/CE del 27 giugno 2001).

Sul piano dell'evoluzione delle metodologie di pianificazione:

- assumere e introdurre, a tutti i livelli, metodologie di pianificazione basate sul riconoscimento della necessaria processualità della costruzione e della definizione del piano come anche della sua gestione ed attuazione. Reimpostare la logica della pianificazione secondo un metodo di processo continuo, ovvero di "piano processo", tra i diversi livelli che agiscono secondo logiche di co-pianificazione;

- ripensare e reimpostare il processo di pianificazione e di decisione come continuo e costante processo di co-decisione e di collaborazione, non gerarchizzata, tra i diversi livelli e soggetti pubblici;

- introdurre metodologie, a tutti i livelli, di pianificazione strategica, separando, come nel modello INU, il momento della formazione e della definizione (configurazione territoriale) del piano da quello della conformazione della proprietà;

- ridefinire i diversi strumenti generali ed attuativi ai diversi livelli con una più precisa definizione dei loro rapporti, anche alla luce del mutato quadro legislativo nazionale (ad esempio L. 142/90);

ridefinire lo strumento del Piano Territoriale Regionale mediante una sua sempre maggiore integrazione e fusione con gli strumenti della programmazione;

- migliorare la definizione dei contenuti specifici del Piano territoriale provinciale e dei suoi rapporti con la pianificazione comunale;

- ripensare e ridefinire lo strumento del Piano Regolatore (o piano comunale) e dei suoi strumenti di attuazione e normativi;

- definire regole e procedure per migliorare la riqualificazione del piano in senso processuale, dal momento della definizione degli obiettivi, alle analisi, alla partecipazione, alla valutazione delle scelte, alla formazione;

- riorganizzare e ridefinire gli standard urbanistici;

- introdurre nei piani standard, indicatori e bilanci ambientali;

- introdurre e diffondere strumenti e metodologie di valutazione e di fattibilità (anche economico finanziaria) delle scelte territoriali-ambientali;

- introdurre più evolute metodologie di valutazione di impatto ambientale, sia per le trasformazioni puntuali e gli strumenti attuativi che per gli strumenti generali di piano;

- abbandonare, nella concezione e nella gestione delle aree protette, le vecchie logiche naturalistico-conservazioniste a favore di logiche di eco-sostenibilità;

- rinnovare e riqualificare tutte le strutture tecniche pubbliche, a tutti i livelli, alla luce dei nuovi impegni e delle nuove metodologie operative.

Sul piano dell'evoluzione istituzionale e legislativa

operare sulle valenze aperte da:

- la recente modifica del titolo V della Costituzione che ridefinisce i rapporti Stato Regioni (legge n. 3/2001);

- la legge 142 del 1990 sull'Ordinamento delle Autonomie Locali che definisce la Provincia come unico ente intermedio di pianificazione, attribuendole competenze di pianificazione territoriale;

- le leggi Bassanini, che riformano e ridefiniscono il funzionamento delle strutture amministrative;

- la sempre più estesa emanazione di norme e direttive europee in materia soprattutto ambientale e paesistica dalle quali risulta oggi impossibile prescindere;

- l'estensione e l'arricchimento di tutta la normativa nazionale in materia ambientale che impone sempre più stretti legami e rapporti con l'organizzazione e la gestione del territorio;

- il maturato e rinnovato interesse per la pianificazione paesistica (per troppo tempo sottovalutata), rilanciato e sostenuto oggi anche a livello europeo.

Sul piano delle grandi trasformazioni socio-economiche:

Certamente tutto ciò va ripensato e ridefinito anche alla luce dei profondi mutamenti economici e sociali maturati, sia alla scala internazionale (globalizzazione) e mondiale che alla scala nazionale e locale, in questi ultimi venticinque anni, che rendono oggi necessario modificare profondamente, rispetto al passato, l'approccio ai concetti e ai metodi, più vasti, di piano, di programmazione, di azione e di ruolo pubblico, di rapporto pubblico-privato, globale-locale, di capacità di conoscenza e di previsione e di guida delle dinamiche economiche e sociali. Purché, naturalmente, si sappia passare dalla mera enunciazione di questi eventi e dall'uso bassamente strumentale ed ideologico e astratto di questi temi e di queste trasformazioni, alla individuazione delle reali ed operabili conseguenze sul campo della pianificazione territoriale-ambientale.

Non bisogna naturalmente, infine, dimenticare il profondo mutamento del clima e degli indirizzi politico-amministrativi oggi prevalenti e dominanti, che stanno sullo sfondo e che condizionano pesantemente il modo di affrontare e di interpretare tutte queste trasformazioni e le conseguenti linee di riforma.

La formazione delle leggi urbanistiche regionali di "seconda generazione" in assenza di una riforma urbanistica nazionale. Nodi irrisolti, incertezze, rischi

Prima di proseguire oltre converrà svolgere qualche breve considerazione sull'aspetto paradossale determinato dal fatto che le leggi urbanistiche regionali di "seconda generazione" si trovano nella condizione di dover essere elaborate ed emanate in assenza di una riforma della legge urbanistica nazionale. Legge che dovrebbe presentarsi anche, secondo i principi costituzionali, in forma di legge "quadro" o legge "di principi. Ma anche legge assolutamente necessaria per poter risolvere e dare risposte positive alle diverse "cannonate" sparate contro la legge del '42 (e successive) dalla Corte Costituzionale e anche stabilire quali sono i "principi generali", implicitamente contenuti nella legge nazionale, che debbono rimanere o non rimanere più in vita.

Ma questa necessaria riforma non è mai andata in porto (sono passati circa cinquant'anni) e solo di recente sono apparsi diversi disegni di legge che si propongono di colmare questo clamoroso vuoto.

Così l'assurdità e la drammaticità della situazione nasce dallo scontro irrisolto di tre necessità insoddisfatte:

- la necessità di una radicale riforma a livello nazionale (che si poneva con urgenza, è bene ricordare, già a partire dalla Sentenza C.C. del 1968) che non può essere supplita o risolta dal livello legislativo regionale, ma che è ancora tutta da venire (è più facile che arrivi prima un bel condono);

- la necessità per il livello regionale di dare comunque necessarie risposte legislative proprie, non potendo più mantenere in vita ed operare - a fronte di tutti i grandi sommovimenti legislativi sopravvenuti dal 1968 in poi (si pensi, tanto per fare un esempio, alla sopravvenienza di sempre più incisive norme ambientali europee) - con le loro obsolete leggi di "prima generazione" che risalgono per la maggior parte al periodo 1975-80;

- la necessità delle Regioni di emanare comunque - con la consapevolezza di tutti gli evidenti rischi e incognite - proprie leggi, non potendo più aspettare e sopportare l'assenza dell'iniziativa legislativa nazionale.

Delle molteplici necessità che spingono le Regioni ad affrontare questa strada piena di rischi e di incognite si potrebbero elencare tantissime ragioni, tutte più che fondate e pressanti. E sarebbe altrettanto improponibile, d'altro canto, e altrettanto rischioso, consigliare alle Regioni di seguire la più tranquilla strada di una ulteriore attesa della riforma nazionale.

Se queste condizioni valgono per tutte le Regioni, i modi di rispondere al problema di questo "vuoto legislativo" variano da Regione a Regione.

Molte di esse, come noto, hanno compiuto la scelta di fare riferimento, anche in questo caso con evidenti rischi, al nuovo modello di legge presentato nel quadro di un più generale disegno di riforma urbanistica nazionale dall'INU al XXI Congresso di Bologna nel novembre del 1995 "La nuova legge urbanistica. I principi e le regole". Quasi tutte le leggi regionali di "seconda generazione", sorte a partire dal 1995, lo stanno ormai assumendo come un punto fermo e qualificante, soprattutto per quanto riguarda la ridefinizione dello strumento del Piano Comunale "sdoppiato", nonostante la "Riforma" non sia andata in porto e nonostante nessuna particolare modifica o innovazione a proposito del Piano Regolatore sia stata apportata alla legge urbanistica nazionale. Segno evidente che il "modello" INU convince, trova ampi consensi e se ne riconosce la validità ed anche l'urgenza.

Altre Regioni hanno seguito vie diverse, tanto più azzardate quanto più sperimentali e meno verificate da un ampio dibattito a scala nazionale paragonabile a quello avvenuto per il disegno dell'INU.

D'altra parte è da respingersi l'ipotesi di una assoluta, esistente o avvenuta, e nemmeno auspicabile totale "regionalizzazione" delle competenze di legislazione urbanistica: sia perché l'ambiente e l'ecosistema sono attribuiti alla competenza esclusiva dello Stato, unitamente alla materia "tutela della concorrenza", sia perché rimangono sempre allo Stato il regime civilistico della proprietà oltre che il regime sanzionatorio.

Non si capisce però come molte Regioni - compresa la Lombardia - si comportino come se la legge nazionale non esistesse più, già da ora, del tutto, e come se da questa non dovesse derivare nessuna norma generale e di principio (certamente impossibile da estrarre con interpretazioni autonome) e come se le Regioni fossero autorizzate già da ora, a risolvere da sole tutti quei nodi ancora riservati alla legislazione e alla competenza statale.

Conviene notare anche, en passant, l'esistenza di non poche gravi "dimenticanze" o anomalie (di natura e di origine chiaramente politica) che caratterizzano l'attuale dibattito sulla riforma urbanistica nazionale. Dare, ad esempio, per definitivamente chiusa e liquidata ogni possibilità di riflessione e di ripensamento critico sulla arretrata concezione dello jus aedificandi assunta dalla Sentenza C.C. del 1968 (invero molto condivisa dalla "destra" politica); evitare un serio dibattito critico sugli "squarci" aperti nel diritto urbanistico dalle varie sentenze della C.C. e su modi di porvi definitivamente rimedio; non aprire alcun serio dibattito sui modi e sulle tecniche migliori, anche fiscali, per restituire al pubblico le rendite differenziali indotte dai piani; sorvolare sul fatto che la durata quinquennale dei vincoli ablativi non è un principio costituzionale fermo e indiscutibile ma un derivato della anomala sopravvivenza (35 anni!) della legge-tappo del 1968; non aprire un dibattito sulle difficoltà create dalla separazione ancora esistente, di fatto, tra diritto urbanistico e diritto ambientale e sul mantenimento della riserva statale in materia di ambienti ed ecosistemi.

Lo "smantellamento" del sistema legislativo lombardo avvenuto tra il 1997 e il 2001.

Contrariamente alle altre Regioni - invero non molte - che hanno saputo impostare la transizione dalle loro leggi di "prima generazione" a quelle di "seconda", cercando di introdurvi i risultati positivi di quel ricco dibattito di ripensamento e di revisione critica relativa a tutta la strumentazione e a tutta la prassi urbanistica ai vari livelli e di radicale ripensamento sui fondamenti stessi del pianificare, apertosi in Italia attorno agli '90 - e del quale il progetto di riforma avanzato dall'INU continua a rappresentare il più maturo e compiuto modello di riferimento - la Regione Lombardia ha seguito un'altra strada. Anziché tentare la via di un ripensamento complessivo e di una riprogettazione organica di ampio respiro dell'intero proprio corpo legislativo di base, ed affrontare così i grandi nodi che costituiscono le ragioni di fondo e le spinte che premono verso una legislazione profondamente rinnovata di "seconda generazione", la Regione Lombardia ha preferito scegliere una via di basso profilo consistente in uno smantellamento strisciante "a spizzichi e bocconi" della sua legge urbanistica portante, attraverso uno stillicidio di piccoli ritocchi, aggiustamenti, abrogazioni, modifiche, apportate all'impianto fondante della legge del '75.(Modo di procedere del tutto analogo a quello utilizzato per modificare e smantellare il testo portante della propria legge sulle aree protette n. 86 del 1983). Tra le costanti di questo processo di revisione, tutto improntato a favorire e assecondare, in buona sostanza, le spinte e le richieste antipianificatorie del più rozzo "libero fare" privato e del più esasperato "localismo" comunale, emergono due linee complementari: quella dell'operare in direzione di un forte decentramento (si potrebbe forse meglio dire di "scaricamento") di compiti, procedure, operazioni burocratiche e poteri di decisione, dal livello regionale verso il livello comunale - etichettata retoricamente come applicazione del principio della sussidiarietà - (si vedano, in particolare, la l.r. n. 23 del 1997 " Accelerazione del procedimento di approvazione degli strumenti urbanistici comunali e disciplina del regolamento edilizio" e la l.r. n. 18 del 1997 "Riordino delle competenze e semplificazione delle procedure in materia di tutela dei beni ambientali e dei piani paesistici. Subdeleghe agli Enti Locali") e quella della esasperata operazione di smantellamento e di delegittimazione dello strumento del Piano Regolatore, accusato di tutte le colpe e di tutti i "vincolismi" e di tutte le "rigidità" possibili. In questa ultima direzione la Regione assesta un primo grave colpo al Piano Regolatore con la l.r. n. 9 del 1999 "Disciplina dei programmi integrati di intervento" mediante l'introduzione del "Documento di inquadramento", strumento falsamente "strategico", posto sopra e a lato del Piano, non vincolante ma variabile continuamente, deputato alla approvazione dei Programmi Integrati, ma avente in sostanza la facoltà di interpretare il Piano come una variante continua fuori dal Piano .

L'ultimo colpo dello smantellamento viene inferto dalla legge"Disciplina dei mutamenti di destinazione d'uso di immobili e norme per la dotazione di aree per attrezzature pubbliche e di uso pubblico " n.1 del 15 gennaio 2001 che introduce pesanti e pericolose modifiche centrate sui seguenti punti:

I mutamenti di destinazione d'uso e la strumentazione urbanisticaI mutamenti di destinazione d'uso con e senza opere edilizie

E' evidente una volontà di drastica semplificazione delle procedure amministrative relative ma soprattutto una spiccata volontà liberalizzatrice dei mutamenti di destinazione d'uso che riguardano - bisogna stare molto attenti - non solo gli edifici ma anche le aree ovvero le destinazioni azzonative relative ad ampie zone. Obiettivo non tanto occulto della legge è quello di prefigurare un abbandono delle destinazioni d'uso e dell'azzonamento.

La ristrutturazione edilizia degli edifici esistenti in zona agricola

Questa norma appare particolarmente preoccupante in quanto mira a "liberalizzare" gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento degli edifici agricoli, eliminando i requisiti soggettivi per il rilascio della concessione edilizia nelle zone agricole che la legge regionale 93/80 aveva prudentemente introdotto onde evitare che i non agricoltori potessero intervenire ad operare del tutto illogicamente all'interno delle aree agricole.

Centri storici

La legge rivede, semplifica e alleggerisce la norma della l.r. 51/1975 sui centri storici (art. 17) che, essendo stata formulata qualche anno prima della L. 457/1978 soffriva ancora di un eccessivo ed esteso ricorso e rinvio allo strumento del piano particolareggiato. La modifica proposta tende però a smantellare quelle sane norme di tutela e di salvaguardia introdotte dalla legge-ponte relative alla conservazione degli assetti e delle volumetrie esistenti nei tessuti storici.

Il nuovo calcolo della capacità insediativa

La legge regionale risolve brutalmente, anziché attraverso una innovativa riformulazione metodologica, il problema: per le aree edificate assume come capacità insediativa la popolazione esistente mentre come indice volumetrico capitario eleva la misura a 150 mc/ab. Non si tratta di un grande avanzamento della metodologia di calcolo, anche perché l'indice di 150 mc/ab, essendo un valore medio assunto uguale per tutti i comuni (come nel caso dei 100 mc/ab), potrebbe risultare ancora, a seconda dei casi e delle tipologie, o troppo alto o troppo basso. E' anche facile prevedere che nella prassi comunale il ricalcolo finirà con l'essere impostato solo su questi due elementari parametri. L'avanzamento auspicato avrebbe dovuto consistere nel trasformare o integrare il calcolo della capacità insediativa con la misurazione del calcolo del "peso insediativo" (che non è solo volumetrico ma anche ambientale).

Il piano dei servizi

Non si può negare l'utilità della introduzione operata dalla nuova legge regionale (art.7) dello strumento del Piano dei servizi. In realtà non si tratta di una grande innovazione nè della invenzione di un nuovo strumento integrativo del piano regolatore. I Comuni potevano ( e avrebbero dovuto) dotarsene anche senza l'obbligo della legge e molti Piani Regolatori correttamente formati, che hanno saputo affrontare il tema dei servizi con la necessaria serietà e con una metodologia di piano rigorosa, si sono già mossi con i lori elaborati studi e capitoli di piano secondo i concetti e i criteri suggeriti dalla legge (accessibilità, fruibilità e fattibilità).

La riformulazione degli standard urbanistici

Riguardo questo tema, uno dei più sollecitati e attesi dalla "riforma", la legge non introduce nessun sostanziale avanzamento o miglioramento metodologico e definitorio rispetto al vecchio impianto della l.r. del '75 e del D.I. del '68. Il vero obiettivo cui mira questa nuova legge è però palesemente quello della effettiva diminuzione degli standard minimi obbligatori, raggiungibili anche attraverso il ricorso ad ambigue e facilmente mistificabili forme di conteggio.

Un po' ipocritamente la legge esordisce col ribadire la conferma dello standard minimo complessivo per "attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale" precedentemente definito nella misura di 26,5 mq/abitante ma subito si può constatare che ampie riduzioni possono essere raggiunte e consentite mediante nuove ed equivoche modalità di conteggio.. La più grave di queste consiste nella alterazione della unità di misura di riferimento: mentre gli standard, a partire dalla legge ponte e dal D.I. del '68 sono sempre stati correttamente intesi, quantificati e misurati in termini di aree ovvero di superfici fondiarie (in quanto sostanzialmente aventi la natura e la funzione di aree di riserva per la produzione di servizi ed attrezzature, concetto ripreso dalla stessa l.r. 1/2001 nel titolo del suo art. 7, dove parla giustamente di " Dotazione di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale") il nuovo testo introduce la equivalente e fungibile (?) possibilità di misurare tali aree in "misura corrispondente alla effettiva consistenza delle rispettive superfici lorde" di pavimento ovvero in termini di s.l.p. (Una scuola di tre piani equivale dunque ad uno standard per tre scuole?).

L'abrogazione del comma 1 dell'art. 23 della l.r. 51/1975

La l. r. 51/75 si era preoccupata, giustamente, della tendenza evidentissima nei piani comunali - specialmente se relativi a comuni piccoli ed agricoli - di consentire indici di edificabilità molto bassi, con conseguenti effetti di spreco e consumo eccessivo di suolo.

A questo fine aveva imposto l'obbligo, con l'art. 23 "Densità territoriali medie e densità fondiarie massime", di non scendere, nelle zone residenziali di espansione, sotto la media ponderale dei 10.000 mc. per ha. Questa corretta ed elementare norma di cautela urbanistico-ambientale è stata brutalmente abrogata con grande gioia dei "lottizzatori di campagna" senza preoccuparsi minimamente di integrarla o sostituirla con norme migliori o altrettanto efficaci.

Le "Linee guida per la riforma urbanistica regionale" del settembre 2001

Le prime "Linee guida per la riforma urbanistica regionale" vengono presentate dalla Direzione Territorio e Urbanistica nel settembre del 2001 con l'ambizione di delineare le linee, gli indirizzi e i contenuti di quella che dovrebbe essere finalmente la "riforma".

Ma si tratta di un abbozzo ancora immaturo e deludente che cerca di coprire la povertà di contenuti e di idee e la scarsa volontà di definire scelte precise rifugiandosi dietro l'enunciazione di facilmente condivisibili "principi generali".

Risulta subito evidente che non basta elencare, definire (c'è anche un glossarietto) ed allineare una serie di "Principi generali", i più ovvi, condivisi, condivisibili e di moda:

Sostenibilità (ambientale, sociale, economica);

Sussidiarietà (verticale e orizzontale)

Perequazione/compensazione/sostituzione;

Cooperazione;

Flessibilità;

Partecipazione;

Monitoraggio;

Interesse generale e interesse pubblico per ottenere e delineare un quadro strategico di riforma.

Non è che questa elencazione o accostamento di "principi" sia sufficiente per dare contenuto, configurare o delineare una linea di riforma, anche perché:

1) si tratta per lo più di principi generali che riguardano concetti e obiettivi che potremmo definire "Costituzionali" o di "buona amministrazione" e che comunque riguardano più il modo di amministrare che non il modo di fare pianificazione territoriale o urbanistica;

2) si tratta di principi generali tra loro anche molto "disomogenei" per finalità, dimensione e natura del problema, non sommabili e non automaticamente accostabili;

3) non si tratta di principi generali di natura e ordine propriamente o specificamente urbanistico-territoriale;

4) perché dal loro semplice accostamento potrebbero discendere infinite linee di proposta e di riforma, con esiti e contenuti anche molto differenti.

Tra i "Principi generali" si veda, in particolare, la debolezza della definizione di "Interesse generale e interesse pubblico" per la valutazione del quale "si deve contemplare pariteticamente le opportunità e le iniziative dell'operatore privato come di quello pubblico"!! (p. 8)

Le proposte sulla natura dei piani e sul rapporto tra i diversi livelli di piano sembrano ricalcare invece gli indirizzi proposti dal disegno di legge nazionale dell'INU, anche se nel testo regionale i contenuti di questi appaiono poco definiti e chiariti.

Per quanto riguarda la pianificazione alla scala comunale si opta per una distinzione e una diversificazione - molto logica e concettualmente ormai acquisita - tra il momento strategico del piano e il momento operativo e attuativo.

Si prevede una articolazione in tre documenti:

1) Documento di inquadramento (con valore di livello strategico e strutturale)

2) Documento di piano urbanistico (con valore di livello operativo e attuativo)

3) Norme tecniche

Più che delineare contenuti e strategie di riforma le "Linee guida" si limitano a descrivere una "Urbanistica anno zero" sia per il passato (che pare non ci sia più, nemmeno per le sue forme residue) che per il presente ( che non si vuole giudicare, che non si vuole descrivere e valutare nelle sue criticità) che per il futuro (che non si sa ancora prospettare).

Ma forse è proprio questo che si voleva.

Su queste "Linee guida" l'INU Lombardia organizza, con la Consulta Regionale Lombarda degli Ordini degli Architetti, diversi dibattiti e convegni dai quali emergono perplessità e insoddisfazione.

La bozza di "Legge per il governo del territorio" del luglio 2002

Dopo la delusione generale creata dalle "Linee guida" del 2001 la nuova bozza di legge del luglio 2002 viene accolta con molte aspettative e attese.

Molti si attendono che dopo le vaghezze delle "Linee guida" venga finalmente prospettato un testo organico e completo, capace di riformulare e di sostituirsi alla ormai invecchiata e ormai semidistrutta legge di "prima generazione" n. 51/75.

E' infatti a tutti evidente la necessità e l'urgenza di ricostruire un quadro organico regionale dopo il massacro e lo smantellamento della legislazione urbanistica lombarda (a partire dalla l.r. 23/97 per arrivare sino alla l.r. 1/2001) avvenuto in totale assenza dell'idea e del perseguimento di un preciso nuovo modello alternativo, ma solo con la evidente volontà di cavalcare l'onda neoliberista della privatizzazione (anche dell'urbanistica) e della "deregulation" e con la evidente intenzione (questa sì, chiarissima) di soddisfare e assecondare le spinte e le richiese antipianificatorie del più rozzo "libero fare" privato e del più esasperato "localismo" comunale.

Ci si aspettava da questa nuova "bozza" di articolato qualche serio passo in avanti di chiarimento dei nuovi indirizzi e alle nuove idee "riformatrici".

In realtà ci si trova di fronte ad un testo incompleto e lacunoso che, subito ad una prima lettura, non può nemmeno essere definito e riconosciuto come un nuovo progetto di legge organica e completa. Non è facile capire il perchè di un progetto così "volutamente" mal fatto, oscuro e incompleto. Il testo suscita infatti molte più domande e dubbi di quelle cui l'articolato è in grado di rispondere.

Ad alcune domande di fondo il nuovo testo non risponde.

- Che fine fanno le leggi urbanistiche regionali già emanate e vigenti (dalla l.r. 51/75 in poi)? Rimangono in vita? Scompaiono? Come si correlano alla nuova proposta di legge? A tutte queste domande il testo non risponde.

- La nuova formulazione dei contenuti del PTCP (art.22) - che indebolisce ulteriormente il carattere programmatorio del Piano Territoriale, compresa la parte inerente la tutela paesistica e ambientale - sostituisce o abroga quanto stabilito dalla legge 1/2000? In quale rapporto si mette con questa, considerando anche che l'art.6 definisce nuovamente le competenze della Provincia?

- Che tipo di strumento è il nuovo Piano comunale definito dagli artt. 14,15,16,17,18 e 19?

E' questo il tema che suscita più perplessità.

I quattro strumenti che definiscono la Pianificazione comunale (art. 14) ora denominati "il Piano di governo del territorio (P.G.T.)", "il Piano dei servizi", "il Piano di assetto morfologico", "i Piani complessi comunali e gli strumenti della programmazione negoziata", definiscono o convergono in un unico Piano organico e coerente o definiscono quattro strumenti che possono essere autonomamente e separatamente elaborati e variati? Oltretutto non si capiscono nemmeno le specificità e i contenuti di questi quattro strumenti né si capiscono le loro relazioni reciproche e nemmeno si capisce chiaramente se il PGT abbia una funzione più organica e di assieme rispetto agli altri tre strumenti.

Con la definizione del Piano del Governo del Territorio (PGT) si tenta addirittura di abolire con la legge ogni forma di azzonamento (il tanto ideologicamente odiato azzonamento !) attraverso il comma d) : "la individuazione delle modalità di intervento sul territorio comunale, articolato in ambiti multifunzionali, e non distinto in zone, anche in relazione ai programmi di sviluppo, al piano dei servizi, ed al piano di assetto morfologico".

Perché scompaiono le NTA, ancora presenti nelle "Linee guida"?

(Ho avuto modo di dichiarare all'Assessore regionale, in una riunione svoltasi presso l'INU Lombardia che se un Sindaco volesse incaricarmi di elaborare un piano sulla base dei nuovi indirizzi proposti dalla Regione, dovrei onestamente rifiutare l'incarico, riconoscendo semplicemente di non saperlo fare, non essendo ancora riuscito a comprendere quale sia mai la forma o il modello di piano che la Regione intende proporre e capire anche, soprattutto, quali relazioni vengano a stabilirsi tra i quattro - oltretutto mal definiti - strumenti che lo compongono).

L'ultima bozza di "Legge per il governo del territorio" del 18 luglio 2003:la "deregulation" della "deregulation"

L'ultimo testo adottato dalla Giunta Regionale del 18 luglio 2003, anche se formalmente si presenta più completo del precedente, nella sostanza, nella "filosofia" e negli obiettivi non si discosta molto dal disegno del luglio 2002, così che la gran parte delle critiche svolte per quel disegno possono valere anche per quello odierno.

Due però sono le novità sostanziali: la prima è costituita dal fatto che il testo si propone nella forma di un testo unico comprensivo e sostitutivo di tutta la legislazione urbanistica regionale vigente (compresa l'attività edilizia e i suoi strumenti, le norme in materia di edificazione, i parcheggi, i sottotetti, ecc.); la seconda, complementare, che finalmente la legge elenca necessariamente quali sono tutte le abrogazioni delle disposizioni regionali vigenti.

La sorpresa riguarda il fatto che nella mole delle abrogazioni, ben 24 in tutto, figurano anche tutte le leggi prodotte nella fase di "smantellamento" (dalla 23/97, 41/97, 9/99, 1/2000, 1/2001).

Il risultato è che abrogando quel poco di buono e di chiaro che era sopravvissuto nelle leggi recenti, la deregulation viene ad essere ulteriormente e celatamente deregolata,.sia attraverso la pesantezza delle cancellazioni delle leggi che attraverso la grossolana ricomposizione operata col testo unico (vero specchietto per attirare un facile consenso da parte dei più sprovveduti). Aggrava tutto questo anche un linguaggio sempre impreciso e sempre meno tecnico.

La nuova proposta non può che essere giudicata anch'essa, al pari del disegno del 2002, come pesantemente negativa e pericolosa per il futuro del territorio e dell'ambiente regionale.

Siamo di fronte ad un testo che pur nelle sue oscurità di formulazione e di forma appare molto chiaro e trasparente nei suoi veri obiettivi di fondo:

- non si cura minimamente di rispondere a tutti quegli obiettivi "alti" e "dovuti", già ampiamente descritti all'inizio, che dovrebbero qualificare una legge regionale di "seconda generazione";

- trascura nella sostanza tutti i temi ambientali e la questione ambientale ed i rapporti che dovrebbero legare ambiente e attività di trasformazione-infrastutturazione-urbanizzazione e di governo del territorio. La preoccupazione che guida il legislatore lombardo non è tanto quella di dettare norme, strumenti e modalità per poter affrontare con successo il governo del territorio di una regione concretamente e fisicamente fatta di suoli, di territori e ambienti, composta di acque, di laghi, di montagne e pianure, di ecosistemi che ne qualificano il paesaggio-ambiente ma al contempo sempre più alterata e degradata da aggressioni ambientali e urbanizzative di ogni tipo, crescenti e diffuse, quanto lo preoccupa l'ossessione di estendere, su un territorio astratto che finisce con l'essere ridotto solo all'assieme di tutte le particelle catastali proprietarie, la possibilità di trasformazione e edificazione sempre più estesa e sottratta a regole, limiti qualitativi e quantitativi e piani;

- maschera, sotto una apparente veste "innovativa" e mediante l'ipocrisia del dichiarato perseguimento di uno "sviluppo sostenibile", il suo vero volto esasperatamente ed ideologicamente "liberista", rivolto a consentire e sostenere ogni iniziativa privata di uso e di trasformazione del territorio in assenza, o quasi, di qualsiasi riferimento alle "qualità" o alla "scarsità" dei suoli o a oggettivi vincoli "ricognitivi" territoriali-ambientali;

- mentre il vero sostanziale disinteresse per il modo di definire e di avviare un serio discorso sulla sostenibilità traspare palesemente dall'art. 4 del disegno, nel quale non solo si fa confusione tra "valutazione ambientale" e "valutazione della sostenibilità" dei piani, ma si consente anche ai comuni, in attesa della emanazione di criteri regionali, di approvarsi i piani "secondo criteri evidenziati nel piano stesso" mentre vengono, candidamente, esentati da ogni valutazione ambientale i piani "già adottati alla data di entrata in vigore della presente legge"!!

- nega qualsiasi sostanziale forma di piano o di programmazione degli usi e delle trasformazioni fisico-ambientali del territorio, vanificando o rendendo continuamente variabile e modificabile lo strumento del piano comunale;

- consente e spinge il piano comunale a non essere più un sufficientemente stabile "strumento strategico" dell'assetto futuro e dello sviluppo urbano nel territorio - strumento di tempo sufficientemente lungo - ma strumento del tutto inefficace, aperto ad una continua variabilità nel tempo, indotta da una continua ed estesa "gestione urbanistica contrattata" (così denominata ai tempi di Mottini e Ligresti, oggi ribattezzata, con maggiore ipocrisia, "concertata") affidata alle Giunte comunali. Modello di gestione che potrebbe essere esteso a tutto il territorio, indipendentemente da ogni predefinito vincolo ambientale;

- fa intravvedere la volontà di rendere edificabile (e/o contrattabile) tutto il territorio o quanto meno di poter estendere una certa edificabilità (da contrattare di volta in volta) a quasi tutto il territorio. Per perequare, così si vuole, i privati proprietari, ma così sperequando, nella sostanza, le qualità del territorio. Anche se l'ultima versione del disegno di legge non contiene più l'esplicito divieto di praticare l'azzonamento (come era nella versione del luglio 2002) il complesso delle norme e delle definizioni urbanistico-territoriali mirano e consentono, attraverso la loro vaghezza e imprecisione, di estendere l'edificabilità, volendolo, quasi ovunque;

- scompare ogni forma di uso e di ricorso a metodi di misurazione o di parametrazione quantitativa: scompaiono indici, limiti, scompare lo standard minimo, scompare il calcolo della capacità insediativa, scompaiono indici minimi e massimi di edificabilità, limiti di altezza, ecc. , mentre viene rinviata ancora una volta la fissazione di indicatori della sostenibilità o di misuratori per i bilanci e per le valutazioni ambientali. D'altra parte se tutto diventerà contrattabile, perché non farlo anche con gli indici e con le quantità, che verranno stabiliti di volta in volta al momento del "contratto?? Valutazioni, ovviamente, comprese, essendo ogni "contratto" andato in porto, per definizione, "sostenibile"!

Il nuovo piano comunale

Risulta ancora uno dei temi meno chiariti dal disegno di legge e pertanto rimangono in vita tutte le perplessità suscitate dal testo del 2002.

Il piano viene definito ora Piano di governo del territorio (art. 7) ed è articolato in tre atti : documento di piano (art. 8), piano dei servizi (art. 9), piano delle regole (art. 10). Scompare dal nuovo testo, senza che la relazione ne motivi la scelta, il "Piano di assetto morfologico" presente nel disegno del 2002.

Nonostante la relazione, che finalmente accompagna il nuovo testo, dica che si tratta di tre atti che: "si richiamano tra loro" e "dialogano tra loro", si tratta pur sempre di tre "cose" mal definite e tra loro separate o, volendolo, da poter rendere facilmente separabili, delle quali non si capiscono bene ruoli, rapporti reciproci e funzioni, ma tuttavia, come precisa la legge, sempre e in qualsiasi momento modificabili.

In realtà sembra di trovarsi di fronte più che a un piano "innovato" e ripensato, ad un piano volutamente "smembrato" e "disarticolato", onde renderlo sempre meno "piano" (in senso proprio) sempre più innocuo, sempre più vago, sempre più facilmente variabile a piacimento, sempre più "contrattabile".

Ma consideriamolo ancor più da vicino.

Il Documento di Piano (art. 8)

Sembrerebbe dover rappresentare, ma non se ne è certi, la parte strategica del piano. Nel testo si precisa che non produce "effetti diretti sul regime giuridico dei suoli" (comma 3).

Perché allora conferire una validità di soli 5 anni a questo strumento? Si ritiene che si possano definire serie "strategie territoriali" su un limitatissimo arco temporali di 5 anni?? Per di più mediante uno strumento "sempre modificabile"??

Parrebbe poter restare in vita la tecnica dell'azzonamento (art.8, comma 2, sub c ed e) e la possibilità di definire "obiettivi quantitativi di sviluppo" (comma 2, sub b).

Rimane comunque misterioso il fatto che si tratti di uno strumento privo di "norme". Come si potrà, ad esempio, verificare la compatibilità tra un Piano di governo del territorio e un Piano provinciale dotato di norme?

Piano dei servizi (art. 9)

Mentre il Piano dei servizi definito dall'art. 7 della l.r. 1/2001 non era altro che un "allegato" alla Relazione del piano regolatore, il Piano dei servizi diventa ora un atto, del tutto autonomo, senza termini di validità e "sempre modificabile", del Piano di governo del territorio.

Come già detto non è chiara la relazione tra Piano dei servizi e Documento di piano: come si potrà infatti elaborare un Piano dei servizi in assenza di un Documento di piano precedentemente elaborato? Senza cioè conoscere le previsioni relative alla popolazione da insediare che deve essere prevista, logicamente, dal Documento di piano (comma 2, sub b)?

Se i due strumenti sono dunque, nella sostanza, indissolubilmente legati, perché tenere separati i due atti? Perché uno dura 5 anni e l'altro non ha termini di validità?

E' facile prevedere che il Piano dei servizi tenderà a configurarsi nella pratica come uno strumento di "alta mistificazione urbanistica" e di "pretesto" per una ulteriore espansione di aree urbanizzabili: i Comuni, sempre alla disperata ricerca di "oneri di urbanizzazione" e di interventi privati, saranno indotti, dal nuovo permissivismo urbanistico, a proporre sempre più facilmente aree edificabili (a spese di aree libere o agricole) nella speranza di ottenere, in cambio, servizi.

Pericolosissimo poi quanto previsto al comma 13 che afferma che "La realizzazione di attrezzature pubbliche o di interesse pubblico o generale, diverse da quelle specificamente previste dal piano dei servizi, comporta l'applicazione della procedura di variante del piano stesso". Può essere considerato credibile, a questo punto, un Piano dei servizi?

Il Piano delle regole (art. 10)

Le sue indicazioni hanno carattere vincolante ed effetti diretti sul regime giuridico dei suoli, ma non ha termini di validità mentre, anch'esso "è sempre modificabile".

Rimane sempre una sovrapposizione o confusione di contenuti con il Documento di piano.

Norme

Esistono ancora, a livello comunale, le Norme tecniche di attuazione o una qualsiasi altra forma di "norme" attuative?

Non ne esiste più traccia e neppure sembrano più esistere per il Piano Territoriale Provinciale (art. 15).

Ma è possibile concepire uno strumento urbanistico privo di un testo normativo?

Strumenti attuativi

A questo proposito la scelta si presenta stranamente conservatrice, conservando in vita la possibilità di utilizzare "tutti gli strumenti attuativi previsti dalla legislazione statale e regionale" (art. 12). Perché mai? Difficile capirne la ragione.

Standard

Con l'abrogazione totale della legge 1/2001 (proposta dall'art. 105) gli standard urbanistici scompaiono definitivamente, sia come definizione e articolazione che come quantità minima obbligatoria. Non sopravvivono dunque nemmeno nella forma del "pasticciaccio" dell'art. 7 della 1/2001.

La furia distruttiva del legislatore lombardo ha finalmente raggiunto tutti i suoi obiettivi!

Verde agricolo

Appare del tutto sconcertante il disinteresse che traspare per la individuazione, la tutela, la protezione e la normazione delle aree agricole. Sembra, dal vuoto che traspare dal testo, di essere ritornati agli anni '50-'60, quando il tema della regolamentazione e della pianificazione dei suoli e delle attività agricole non era ancora stato scoperto e affrontato.

L'articolato non è nemmeno chiaro nel definire con chiarezza a chi competa la individuazione delle aree agricole. Mentre secondo l'articolo 10 è compito del Comune individuare , col "piano delle regole", la "disciplina d'uso" di dette aree, contemporaneamente l'articolo 15, comma 4, stabilisce che lo stesso compito è attribuito ai Piani Territoriali Provinciali, ove si stabilisce che "Il PTP individua inoltre, con efficacia prevalente ai sensi del successivo art. 18, le aree destinate destinate all'attività agricola". Come si concilia il fatto che il PTP acquista con questa scelta valore prescrittivo (art. 18, comma 2, sub b) sugli atti del PGT, mentre il "piano delle regole" comunale viene definito come "sempre modificabile", in piena autonomia comunale?? Chi pianifica allora le aree agricole?

Ci consoli il fatto che, sempre secondo l'art. 18, "Le previsioni del PTP concernenti la realizzazione, il potenziamento e l'adeguamento delle infrastrutture riguardanti il sistema della mobilità, prevalgono sulle disposizioni dei piani territoriali di coordinamento dei parchi regionali di cui alla legge regionale 30 novembre 1983, n. 86!

ANSA) -TRIESTE, 14 FEB- Il Governo ha impugnato la legge regionale del Friuli-Venezia Giulia che fissa le norme per la definizione del Piano territoriale regionale. Il provvedimento e' stato preso per presunta illegittimita' costituzionale, in quanto - si legge nel ricorso, approvato dal Consiglio dei ministri il 10 febbraio e illustrato oggi dal presidente della Provincia di Trieste, Scoccimarro - 'ignora sistematicamente l'esistenza dell'Ente provincia'. Il provvedimento e' 'condiviso da tutte le province italiane'

Pierre Vilar, storico francese della scuola delle Annales, era solito ammonire che “nel mercato delle idee, come in quello dei detersivi, spesso la novità del marchio è fatta passare per innovazione per sostenere in un mercato stagnante prodotti altrimenti destinati ad essere declinanti nella capacità di penetrazione”.

E’ una considerazione che spesso mi torna alla mente quando vedo proporre come modalità di intervento che pretendono di accreditarsi per innovazioni risolutive ed inedite rispetto ad una condizione precedente di cui spesso ci scordiamo il quadro delle esperienze passate e il percorso attraverso cui si è arrivati alla condizione attuale.

Con un lessico volutamente dimesso, ma allusivo di un atteggiamento di concretezza pragmatica, Mazza ha intitolato il suo più recente libro, in cui sistematizza l’esperienza svolta attorno al Documento di Inquadramento urbanistico del Comune di Milano, “prove parziali di riforma urbanistica”. Io credo, invece, riprendendo il titolo di un intervento di Mario Viviani su un numero di Urbanistica Informazioni del 2003, che quelle prove parziali siano già in atto da oltre un trentennio e siano prove parziali di controriforma, ormai accumulatesi in modo implementare e cui le riflessioni più recenti tentano solo di dare una etichetta di innovazione, dando loro una sistemazione organica.

In questo quadro vanno iscritte tutte le modificazioni legislative introdotte dopo il 1977, dal DPR 616/77, alla 1/78, all’art 16 della 179/92, ai vari provvedimenti su PRU, PRUSST, STU e quant’altro.

Nel 1966 la frana di duecentomila metri cubi di edifici malamente accumulati sul fianco di una collina di Agrigento da una serie di episodiche contrattazioni fra Amministrazione comunale e proprietà fondiarie, colpì talmente l’opinione pubblica da indurre le forze politiche, sino ad allora in maggioranza renitenti a porre regole ai criteri di utilizzo della città e del territorio da parte di proprietari fondiari ed imprenditori edili, ad approvare l’anno successivo in Parlamento la cosiddetta Legge Ponte, che riportava le “convenzioni” con i privati ad un orizzonte di un minimo di coerenza di disegno urbanistico, obbligando i Comuni a dotarsi di un Piano regolatore in cui fossero indicate quantità e localizzazioni delle aree edificabili e dotazioni minime di attrezzature pubbliche.

Dal 1967 al 1992, pur con una serie di difficoltà e contraddizioni (durata quinquennale dell’attuabilità dei vincoli pubblici, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale del 1968), la subordinazione delle scelte private ad una programmazione pubblica di quantità, localizzazioni e dotazioni di attrezzature attraverso il Piano regolatore, divenne senso comune. Tanto che quando, nel 1992, due oscuri deputati, Botta e Ferrarini, un democristiano e un socialista, quasi come i Rosenkranz e Guildestern dell’Amleto shakespeariano, introdussero avventurosamente in un provvedimento di rifinanziamento dell’edilizia pubblica un emendamento che consentiva ai privati di proporre edificazioni in quantità e localizzazioni diverse da quanto prescritto dai Piani regolatori, la cosa apparve così lontana dal senso comune che si era consolidato, che per diverso tempo i privati non si attivarono a farne proposta né i Comuni a promuoverne attraverso i cosiddetti Programmi Integrati di Intervento (PII).

Solo a partire dal 1995 l’Emilia e nel 1999 la Lombardia iniziarono ad introdurre legislazioni regionali che stabilivano criteri molto larghi cui quelle proposte dovevano ispirarsi (pluralità di funzioni, una certa maggiorazione delle dotazioni pubbliche rispetto ai criteri del PRG); nel contempo lo Stato, con una serie di provvedimenti congiunturali, ha esteso la possibilità di quelle proposte “in deroga” alle previsioni di Piano regolatore, motivandole con estemporanee finalità di incentivo alle trasformazioni urbane (Piani di riqualificazione urbana PRU, Piani di riqualificazione urbana socialmente e territorialmente sostenibili PRUSST, Società di trasformazione urbana STU, eccetera).

Si è così andato consolidando un nuovo senso comune che, a fianco dei vecchi Piani regolatori, ma anche di nuove e più articolate forme di programmazione pubblica dell’assetto complessivo della città e del territorio (piani strutturali/operativi; piani di governo del territorio, ecc.), vede passare le operazioni più consistenti dal punto di vista dimensionale, strategico e di lucrosità economica attraverso trattative caso per caso, nobilitate talvolta dalla denominazione di “programmazione negoziata”.

In queste trattative tra Amministrazioni comunali (spesso ristrette alla figura del Sindaco e della Giunta, anche se poi i consigli comunali debbono “ratificare” le decisioni prese, sotto il ricatto di non poter praticare una smentita del loro operato, tale da provocarne le dimissioni e il conseguente scioglimento del Consiglio) e privati proponenti, ogni criterio di oggettività è travolto: se cambio la destinazione di un’area da industriale ad area residenziale e terziaria, debbo attribuirle un’edificabilità paragonabile a quella delle aree previste a destinazione simile in PRG ? No - sostengono i fautori della flessibile modernità della programmazione negoziata - anche doppia o tripla delle altre aree: basta che il progetto - meglio se infiocchettato dai lustrini di qualche gran nome dello star-system global-mediatico dell’architettura nazionale e internazionale ci paia convincente ! Ma questi progetti debbono almeno garantire la dotazione di aree pubbliche proporzionate secondo i criteri di un piano generale alle grandi quantità volumetriche che propongono ? No, che volgare banalità, che mentalità arretrata: standard qualitativi (in pratica meno aree pubbliche, ma opere pubbliche più fantasmagoricamente rutilanti e costose: palazzi della moda, musei del design, centri congressi e chi più ne ha più ne metta) e monetizzazioni (che non sono più garantite debbano tornare ad impiegarsi in aree od opere pubbliche), consentono di approvare qualunque progetto che a Sindaco, Giunta e maggioranza consiliare del momento paia convincente, indipendentemente dalle dotazioni di aree pubbliche previste. Anzi, sempre più spesso, l’effetto di “scoop” dell’immagine di queste opere pubbliche affidate all’indiscutibilità della fama mediatica dei grandi nomi dello stilismo architettonico viene usata da amministratori in vena di cavalcare una sempre più pervasiva politica-spettacolo per giustificare con la necessità di volumetrie adeguate a sostenere il loro costo, tanto da indurre a riflettere se non sia giunto il momento di chiedere un’estensione delle rivendicazioni no logo anche al campo delle manifestazioni della creatività architettonica !

E se qualcuno osa chiedere dove ci sta portando la sommatoria di queste trattative caso per caso, e se ha un senso complessivo tutto ciò, che progetto di città e di territorio stiamo perseguendo, si risponde che sono domande oziose, che ci stiamo muovendo verso un futuro radioso di cambiamento e modernità, e non importa dove arriveremo !

Tutta quest’inedita e flessibile modernità a me pare assomigli tanto a quella stagione di “convenzioni” senza progetto generale che condussero nel 1966 all’episodio simbolico della frana di Agrigento e indusse, infine, persino i partiti moderati del centro-sinistra a voltare pagina. Abbiamo bisogno di aspettare una nuova frana di Agrigento (che magari questa volta non sarà una frana edilizia, ma ecologico-ambientale: Sarno e i suoi 200 morti nel 1998, la quotidiana emergenza di smog e traffico sono segnali altrettanto gravi e preoccupanti, ma forse molti sono diventati più insensibili) perché si debba essere indotti a riflettere ?

Eppure, oggi, la linea di un arretramento della decisionalità pubblica subordinata alla sussidiaria consensualità con le proposte degli interessi privati retti dalle aspettative del libero mercato, passa nella proposta di legge sul governo del territorio in discussione in Parlamento attraverso uno schieramento trasversale tra maggioranza ed opposizione che va dal ciellino Maurizio Lupi, già assessore comunale a Milano, al deputato milanese della Margherita Pierluigi Mantini, sino a raccogliere il consenso di un urbanista già di sinistra come Campos Venuti, che giudica il loro disegno di legge più interloquibile che neanche quello proposto dai DS !

Questo orizzonte non è stato contraddetto neppure dalla direzione indicata dalla L. 12/2005 della Regione Lombardia che con il Piano di Governo del Territorio (PGT), articolato nei tre strumenti del Documento di Piano, Piano delle regole e Piano dei servizi ha scelto un indirizzo solo apparentemente collocato nel solco della proposta INU del 1995 di un’articolazione del PRG in una fase strategica complessiva a tempo indeterminato e Piani operativi quinquennali che le dessero corpo attuativo, ponendosi piuttosto nella prospettiva di una gestione per sommatoria di Piani quinquennali operativi (o peggio, secondo alcune interpretazioni più lassiste, per sommatoria di Documenti di Inquadramento Urbanistico, ancor più vaghi ed evanescenti nei loro effetti applicativi) il cui risultato finale è del tutto imprevedibile. Alcuni esempi di contraddizioni in questa delega alla conformazione urbana affidata alla progettualità privata sono già individuabili: possibilità che il 51% delle proprietà presenti un attuazione degli obiettivi quantitativi di edificazione e spazi ed attrezzature sulle proprie aree escludendo le altre; impossibilità di discutere impostazioni progettuali radicalmente alternative a quelle concordate tra proprietà fondiaria e attuatori immobiliari (cfr. PII ex Fiera), permanenza delle proposte contingenti di PII in programmazione negoziata, ecc.

A Milano questa stagione di allegre contrattazioni sull’orlo del baratro, si è data il nome di Nuovo Rinascimento Urbano. Se si intende sottolinearne il carattere di decisioni élitarie ed antidemocratiche, garantite unicamente dal placet del “principe”, la denominazione mi pare quanto mai appropriata (anche se é lecito dubitare che si tratti di prìncipi ed artisti altrettanto “illuminati” di quelli rinascimentali, quando comunque si poteva essere “grandi” nelle ambizioni e anche negli errori, senza con ciò provocare catastrofi irreversibili).

A me piacerebbe che le forze politiche ed intellettuali che non condividono la fiducia in queste concezioni succubi di un’abdicazione al ruolo di indirizzo e propositività pubblica, vi contrapponessero una denominazione ispirata dal titolo di un libro che Giuseppe De Finetti iniziò a scrivere nel 1943, sotto i bombardamenti, in vista del programma della futura Italia liberata e democratica: Milano Risorge.

Ecco: forse Risorgimento urbano sarebbe una denominazione più appropriata per un’idea di governo della città orientato da proposte pubblicamente partecipate e condivise.

Occorre tornare all’essenza della proposta INU del 1995: un Piano strategico che definisca quantità di edificazione, di aree ed attrezzature pubbliche e beni comuni non disponibili, senza porre vincoli legati alla proprietà, ma che definisca gli obiettivi del “progetto di città” che la collettività intende perseguire e che, in quanto carta costituzionale del territorio, sarebbe auspicabile venisse approvato o modificato a maggioranza qualificata e con procedure più che garantiste della partecipazione allargata. Un piano quinquennale che articoli quelle scelte strategiche in fasi operative che le legano alle proprietà, fissandovi anche i vincoli espropriativi da attuare in quel periodo. In quell’orizzonte temporale non si potrà certo sostenere che gli obiettivi indicati dalla programmazione pubblica svolgano un ruolo troppo statico od obsoleto, come spesso si é detto di quelli di PRG lasciati troppo a lungo invecchiare, e, quindi, si può proporre di abrogare tutti gli strumenti derogatorio/negoziali di vario genere venuti in auge da un quindicennio a questa parte.

Ritengo indispensabile porre come discriminante l’assunzione di un tale punto di vista, che faccia giustizia di oltre un decennio di “programmazione negoziata” risoltasi per lo più in una servile “negoziazione programmatica”.

Si potrebbero, a quel punto, introdurre alcuni miglioramenti procedimentali lasciati insoluti dalla grande stagione riformista degli anni Sessanta e Settanta: estensione ai permessi edificatori singoli della partecipazione agli oneri di esproprio delle aree pubbliche, obbligo di destinare le monetizzazioni di aree all’acquisizione di nuove aree, reintroduzione dell’obbligo di destinare gli oneri urbanizzativi alla realizzazione e manutenzione delle attrezzature urbane e non a spese correnti, rigida separazione dell’uso del contributo commisurato al costo di costruzione, da destinare anche a nuove finalità sociali (risparmio energetico, bioedilizia, ecc.), in aggiunta a quelle originarie di contenimento del costo abitativo. E con ciò anche gran parte delle fumisterie sulle politiche di “perequazione edificatoria”, motivate dalla carenza di risorse per le acquisizioni di aree - ma spesso, in realtà, veri e propri premi aggiuntivi alla rendita che stravolgono le previsioni insediative -, verrebbero ampiamente ridimensionate !

NORME DELLA LR 12/2005 IN MATERIA DI SOTTOTETTI, A SEGUITO DELLE MODIFICHE E INTEGRAZIONI APPORTATE DALLA LR 20/2005

(Le modifiche sono indicate in corsivo)



TITOLO IV - ATTIVITA’ EDILIZIE SPECIFICHE



CAPO I - RECUPERO AI FINI ABITATIVI DEI SOTTOTETTI ESISTENTI



Art. 63 - Finalità e presupposti

1. La Regione promuove il recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti con l'obiettivo di contenere il consumo di nuovo territorio e di favorire la messa in opera di interventi tecnologici per il contenimento dei consumi energetici.



1 bis. Si definiscono sottotetti i volumi sovrastanti l’ultimo piano degli edifici dei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura.



2. Negli edifici, destinati a residenza per almeno il venticinque per cento della superficie lorda di pavimento (S.l.p.) complessiva, esistenti alla data del 31 dicembre 2005, o assentiti sulla base di permessi di costruire rilasciati entro il 31 dicembre 2005, ovvero di denunce di inizio attività presentate entro il 1° dicembre 2005, è consentito il recupero volumetrico a solo scopo residenziale del piano sottotetto.



3. Ai sensi di quanto disposto dagli articoli 36, comma 2 e 44, comma 2, il recupero volumetrico di cui al comma 2 può essere consentito solo nel caso in cui gli edifici interessati siano serviti da tutte le urbanizzazioni primarie, ovvero in presenza di impegno, da parte dei soggetti interessati, alla realizzazione delle suddette urbanizzazioni, contemporaneamente alla realizzazione dell’intervento ed entro la fine dei relativi lavori.



4. Il recupero volumetrico a solo scopo residenziale del piano sottotetto è consentito anche negli edifici, destinati a residenza per almeno il venticinque per cento della S.l.p. complessiva, realizzati sulla base di permessi di costruire rilasciati successivamente al 31 dicembre 2005, ovvero di denunce di inizio attività presentate successivamente al 1° dicembre 2005, decorsi cinque anni dalla data di conseguimento dell’agibilità, anche per silenzio-assenso.



5. Il recupero abitativo dei sottotetti è consentito, previo titolo abilitativo, attraverso interventi edilizi, purché siano rispettate tutte le prescrizioni igienico-sanitarie riguardanti le condizioni di abitabilità previste dai regolamenti vigenti, salvo quanto disposto dal comma 6.

6. Il recupero abitativo dei sottotetti è consentito purchè sia assicurata per ogni singola unità immobiliare l’altezza media ponderale di metri 2,40, ulteriormente ridotta a metri 2,10 per i comuni posti a quote superiori a seicento metri di altitudine sul livello del mare, calcolata dividendo il volume della parte di sottotetto la cui altezza superi metri 1,50 per la superficie relativa.



Art. 64 - Disciplina degli interventi

1. Gli interventi edilizi finalizzati al recupero volumetrico dei sottotetti possono comportare l’apertura di finestre, lucernari, abbaini e terrazzi per assicurare l’osservanza dei requisiti di aeroilluminazione e per garantire il benessere degli abitanti, nonché, ove lo strumento urbanistico generale comunale vigente risulti approvato dopo l'entrata in vigore della l.r. 51/1975, modificazioni delle altezze di colmo e di gronda e delle linee di pendenza delle falde, purché nei limiti di altezza massima degli edifici posti dallo strumento urbanistico ed unicamente al fine di assicurare i parametri di cui all'articolo 63, comma 6.



2. Il recupero ai fini abitativi dei sottotetti esistenti è classificato come ristrutturazione edilizia ai sensi dell’articolo 27, comma 1, lettera d). Esso non richiede preliminare adozione ed approvazione di piano attuativo ed è ammesso anche in deroga ai limiti ed alle prescrizioni degli strumenti di pianificazione comunale vigenti ed adottati, ad eccezione del reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali secondo quanto disposto dal comma 3.



3. Gli interventi di recupero ai fini abitativi dei sottotetti, se volti alla realizzazione di nuove unità immobiliari, sono subordinati all’obbligo di reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali nella misura prevista dagli strumenti dipianificazione comunale e con un minimo di un metro quadrato ogni dieci metri cubi della volumetria resa abitativa ed un massimo di venticinque metri quadrati per ciascuna nuova unità immobiliare. Il rapporto di pertinenza, garantito da un atto da trascriversi nei registri immobiliari, è impegnativo per sé per i propri successori o aventi causa a qualsiasi titolo. Qualora sia dimostrata l’impossibilità, per mancata disponibilità di spazi idonei, ad assolvere tale obbligo, gli interventi sono consentiti previo versamento al comune di una somma pari al costo base di costruzione per metro quadrato di spazio per parcheggi da reperire. Tale somma deve essere destinata alla realizzazione di parcheggi da parte del comune.



4. Non sono assoggettati al versamento di cui al precedente comma 3 gli interventi realizzati in immobili destinati all’edilizia residenziale pubblica di proprietà comunale, di consorzi di comuni o di enti pubblici preposti alla realizzazione di tale tipologia di alloggi.



5. Le norme sull'abbattimento delle barriere architettoniche, di cui all'articolo 14 della l.r. 6/1989, si applicano limitatamente ai requisiti di visitabilità ed adattabilità dell'alloggio.



6. Il progetto di recupero ai fini abitativi dei sottotetti deve prevedere idonee opere di isolamento termico anche ai fini del contenimento dei consumi energetici dell'intero fabbricato. Le opere devono essere conformi alle prescrizioni tecniche in materia contenute nei regolamenti vigenti nonché alle norme nazionali e regionali in materia di impianti tecnologici e di contenimento dei consumi energetici.



7. La realizzazione degli interventi di recupero di cui al presente capo comporta la corresponsione degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria nonché del contributo commisurato al costo di costruzione, calcolati sulla volumetria o sulla superficie lorda di pavimento resa abitativa secondo le tariffe approvate e vigenti in ciascun comune per le opere di nuova costruzione. I comuni possono deliberare l’applicazione di una maggiorazione, nella misura massima del venti per cento del contributo di costruzione dovuto, da destinare obbligatoriamente alla realizzazione di interventi di riqualificazione urbana, di arredo urbano e di valorizzazione del patrimonio comunale di edilizia residenziale.



8. I progetti di recupero ai fini abitativi dei sottotetti, che incidono sull’aspetto esteriore dei luoghi e degli edifici e da realizzarsi in ambiti non sottoposti a vincolo paesaggistico, sono soggetti all’esame dell’impatto paesistico previsto dal Piano Territoriale Paesistico Regionale. Il giudizio di impatto paesistico è reso dalla commissione per il paesaggio di cui all’articolo 81, anche con applicazione del comma 5 del medesimo articolo, entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla richiesta formulata dal responsabile del procedimento urbanistico, decorso il quale il giudizio si intende reso in senso favorevole.



9. La denuncia di inizio attività deve contenere l’esame dell’impatto paesistico e la determinazione della classe di sensibilità del sito, nonché il grado di incidenza paesistica del progetto, ovvero la relazione paesistica o il giudizio di impatto paesistico di cui al precedente comma 8.



10. I volumi di sottotetto già recuperati ai fini abitativi in applicazione della legge regionale 15 luglio 1996, n. 15 (Recupero ai fini abitativi dei sottotetti esistenti), ovvero della disciplina di cui al presente capo, non possono essere oggetto di mutamento di destinazione d’uso nei dieci anni successivi al conseguimento dell’agibilità, anche per silenzio-assenso.



Art. 65 - Ambiti di esclusione

1. Le disposizioni del presente capo non si applicano negli ambiti territoriali per i quali i comuni, con motivata deliberazione del consiglio comunale, ne abbiano disposta l’esclusione, in applicazione dell’articolo 1, comma 7, della legge regionale 15 luglio 1996, n. 15 (Recupero ai fini abitativi dei sottotetti esistenti).



1 bis. Fermo restando quanto disposto dal comma 1, i comuni, con motivata deliberazione, possono ulteriormente disporre l’esclusione di parti del territorio comunale, nonché di determinate tipologie di edifici o di intervento, dall’applicazione delle disposizioni del presente capo.



1 ter. Con il medesimo provvedimento di cui al comma 1bis, i comuni possono, altresì, individuare ambiti territoriali nei quali gli interventi di recupero ai fini abitativi dei sottotetti, se volti alla realizzazione di nuove unità immobiliari, sono, in ogni caso, subordinati all’obbligo di reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali nella misura prevista dall’articolo 64, comma 3.



1 quater. Le determinazioni assunte nelle deliberazioni comunali di cui ai commi 1, 1bis e 1ter hanno efficacia non inferiore a cinque anni e comunque fino all’approvazione dei PGT ai sensi dell’articolo 26, commi 2 e 3. Il piano delle regole individua le parti del territorio comunale nonché le tipologie di edifici o di intervento escluse dall’applicazione delle disposizioni del presente capo.



1 quinquies. In sede di redazione del PGT, i volumi di sottotetto recuperati ai fini abitativi in applicazione della l.r. n. 15/1996, ovvero delle disposizioni del presente capo, sono computati ai sensi dell’articolo 10, comma 3, lettera b).

È stata pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione la legge n. 30 sul “Piano Territoriale Regionale”, approvata alla fine di novembre dopo non pochi contrasti.

WWF e Italia Nostra ribadiscono il giudizio critico già espresso sul disegno di legge originario.

Si tratta infatti di una normativa priva di contenuti reali nella parte iniziale, laddove si prefigura un Piano Territoriale Regionale (PTR) che dovrebbe avere anche la valenza di piano paesaggistico. Aspetti fondamentali del PTR vengono però rinviati ad una futura legge di riforma urbanistica.

Di una legge-manifesto, che rinvia a future leggi le norme operative per la salvaguardia dell’ambiente e del territorio, non si sentiva proprio il bisogno. Occorreva piuttosto accelerare le procedure per dotare il Friuli Venezia Giulia di strumenti di pianificazione d’area vasta (stesi almeno alle aree più sensibili del territorio regionale), per evitare la totale arbitrarietà – dovuta all’assenza di un quadro di coordinamento – con cui i Comuni oggi operano le loro scelte di sviluppo territoriale.

L’ultimo strumento di pianificazione d’area vasta è il infatti il Piano Urbanistico Regionale che risale agli anni ’70 e da allora la Regione ha di fatto rinunciato alla pianificazione territoriale e paesaggistica, lasciando la gestione del territorio in mano ai Comuni. Inoltre, la Regione ha impedito alle Province di svolgere le funzioni di coordinamento in campo pianificatorio che la legislazione statale assegna loro.

Tra le varie dichiarazioni di principio - continuano WWF e Italia Nostra - che costellano questa legge-manifesto, spicca la “equiordinazione” tra il valore dell’ambiente, del paesaggio e dei beni culturali (che è un valore di rilievo costituzionale) e le finalità di crescita economica : il che equivale a dire che l’ambiente si tutela fino a quando ciò non ostacola la crescita economica, invertendo quindi quell’ordine di priorità che, con saggezza e lungimiranza (era il 1947), l’Assemblea Costituente volle scolpire nell’art. 9 della Costituzione.

L’unica parte “operativa” della legge 30/2005 è quella che attribuisce alla Regione il potere di sospendere il rilascio di concessioni ed autorizzazioni edilizie, allo scopo dichiarato di favorire la realizzazione di progetti “di interesse regionale”. L’individuazione di questi non viene però affidata al PTR o ad altri strumenti di pianificazione ed è rimessa soltanto alla discrezionalità di organi politici (Giunta regionale, d’intesa con i sindaci).

Viene così stravolto uno dei principi base di una corretta gestione del territorio, che lega l’adozione di misure di “salvaguardia” alle previsioni di un piano.

I progetti di interesse regionale non vengono identificati, ma nel disegno di legge originario era citata espressamente la ferrovia ad alta velocità compresa nel “Corridoio 5”.

Non basta: la legge 30 prevede che la Regione possa istituire STUR (Società di Trasformazione Urbana), d’intesa con i Comuni, per svolgere tutte le operazioni (compresi l’acquisto e l’esproprio dei terreni ed edifici), necessarie per la realizzazione delle opere “di interesse regionale” e finora riservate agli enti pubblici, con tutte le garanzie di trasparenza previste dalla legislazione vigente.

Garanzie che verrebbero meno in una spa.

Alle STUR, previste nella forma delle società per azioni, potranno partecipare anche i privati e non è quindi impossibile che questi possano finire per controllarne la maggioranza delle azioni.

Nessuna garanzia vi è quindi – concludono WWF e Italia Nostra – che il piano paesaggistico (rispetto al quale il Friuli Venezia Giulia è in ritardo di oltre 20 anni) veda finalmente la luce, sia pure sotto le spoglie del PTR. È assai più verosimile, invece, che trovino una “corsia preferenziale” (in assenza di pianificazione) progetti di infrastrutture di ogni genere, dall’alta velocità ferroviaria, alla nuova autostrada tra Carnia e Cadore, ai nuovi elettrodotti, ecc.

Link al testo normativo della LR 30/2005 (DDL n. 154)

CAPO I - NORME IN MATERIA DI PIANO TERRITORIALE REGIONALE

Art. 1 - Finalità

1. La Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia svolge le proprie funzioni di pianificazione territoriale attraverso la formazione del nuovo piano territoriale regionale (PTR). Per tale scopo ripartisce le attribuzioni della pianificazione territoriale tra la Regione e i Comuni, stabilisce che la funzione della pianificazione intermedia è svolta dai Comuni, nonché determina le finalità strategiche e i contenuti del PTR, che includono anche la valenza paesaggistica.

2. La disciplina del presente capo esercita la sua efficacia nelle more del riordino organico della normativa regionale in materia di pianificazione territoriale e urbanistica, in attuazione dell’articolo 4, primo comma, n. 12), dello Statuto speciale adottato con la legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1, e successive modificazioni, nel rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Art. 2 - Definizioni

1. Nella presente legge:

a) l’espressione “risorse essenziali di interesse regionale” indica:

1) aria, acqua, suolo ed ecosistemi

2) paesaggio;

3) edifici, monumenti e siti di interesse storico e culturale;

4) sistemi infrastrutturali e tecnologici;

5) sistemi degli insediamenti;

b) l’espressione “piano territoriale regionale” (PTR) indica l’insieme degli elaborati conoscitivi, programmatici, normativi e cartografici tramite i quali la Regione svolge le proprie funzioni di pianificazione territoriale regionale.

Art. 3 - Attribuzioni della Regione

1. La funzione della pianificazione della tutela e dell’impiego delle risorse essenziali di interesse regionale è della Regione.

2. La legge regionale stabilisce i criteri per individuare le soglie oltre le quali la Regione svolge le funzioni di cui al comma 1 per mezzo del PTR.

3. La legge regionale stabilisce, altresì, le procedure attraverso le quali la Regione assicura che la tutela e l’impiego delle risorse essenziali siano garantiti dagli strumenti urbanistici di livello subordinato.

Art. 4 - Attribuzioni del Comune

1. La funzione della pianificazione territoriale è del Comune che la esercita nel rispetto dei principi di adeguatezza, interesse regionale e sussidiarietà, nonché nel rispetto delle attribuzioni riservate in via esclusiva alla Regione in materia di risorse essenziali di interesse regionale e in coerenza alle indicazioni del PTR.

2. Il Comune, in forza del principio di sussidiarietà e di adeguatezza, esercita anche con enti pubblici diversi dal Comune, la funzione della pianificazione territoriale a livello sovraccomunale quando gli obiettivi della medesima, in relazione alla portata o agli effetti dell’azione prevista, non possano essere adeguatamente raggiunti a livello comunale.

3. La legge regionale stabilisce i casi nei quali il Comune svolge la funzione della pianificazione territoriale a livello sovraccomunale e le forme di cooperazione istituzionale con cui la esercita, quali le associazioni intercomunali previste dall’ordinamento in materia di autonomie locali.

4. Nei territori di cui all’articolo 4 della legge 23 febbraio 2001, n. 38 (Norme a tutela della minoranza linguistica slovena della regione Friuli-Venezia Giulia), la pianificazione territoriale deve tendere alla salvaguardia delle caratteristiche storico-culturali della collettività locale.

5. Il piano regolatore generale del Comune è assoggettato alle procedure di cui alla direttiva 2001/42/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente, e alle successive norme di recepimento, nonché alle metodologie di Agenda 21.

Art. 5 - Finalità strategiche del PTR

1. Il PTR persegue le seguenti equi-ordinate finalità strategiche:

a) la conservazione e la valorizzazione del territorio regionale, anche valorizzando le relazioni a rete tra i profili naturalistico, ambientale, paesaggistico, culturale e storico;

b) le migliori condizioni per la crescita economica del Friuli Venezia Giulia e lo sviluppo sostenibile della competitività del sistema regionale;

c) le pari opportunità di sviluppo economico per tutti i territori della regione;

d) la coesione sociale della comunità, nonché l’integrazione territoriale, economica e sociale del Friuli Venezia Giulia con i territori contermini;

e) il miglioramento della condizione di vita degli individui, della comunità, degli ecosistemi e in generale l’innalzamento della qualità ambientale;

f) le migliori condizioni per il contenimento del consumo del suolo e dell’energia, nonché per lo sviluppo delle fonti energetiche alternative;

g) la sicurezza rispetto ai rischi correlati all’utilizzo del territorio.

Art. 6 - Contenuti ed elementi del PTR

1. Il PTR è costituito da:

a) un documento che analizza lo stato del territorio della regione, ivi incluse le relazioni che lo legano agli ambiti circostanti, le principali dinamiche che esercitano un’influenza sull’assetto del territorio o da questo sono influenzate, nonché lo stato generale della pianificazione della Regione e dei Comuni;

b) un documento che stabilisce gli obiettivi del PTR, generali e di settore, sulla base delle finalità strategiche indicate dalla legge, descrive i programmi e i metodi di pianificazione stabiliti per conseguire gli obiettivi;

c) supporti grafici in numero adeguato e scala conveniente per rappresentare l’assetto territoriale stabilito dal PTR e assicurare la cogenza del medesimo;

d) norme di attuazione, integrate con i supporti grafici, con prescrizioni che disciplinano tutta l’attività di pianificazione e assicurano la cogenza del PTR.

e) Il PTR esprime altresì la valenza paesaggistica di cui all’articolo 135 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 37), e contiene prescrizioni finalizzate alla tutela delle aree di interesse naturalistico e paesaggistico di cui alle direttive comunitarie e relativi atti di recepimento, nonché alle norme di legge nazionale e regionale.

Art. 7 - Formazione del PTR

1. La formazione del PTR avviene in conformità alla direttiva n. 2001/42/CE e alle successive norme di recepimento, nonché con le metodologie di Agenda 21.

Art. 8 - Adozione e approvazione del PTR

1. La Giunta regionale predispone il progetto di PTR e lo sottopone al parere del Consiglio delle Autonomie locali.

2. La Giunta regionale, anche sulla base delle valutazioni e delle proposte raccolte in esito al parere del Consiglio delle Autonomie locali, elabora il progetto definitivo di PTR.

3. Il progetto definitivo di PTR è sottoposto al parere della competente Commissione consiliare che si esprime entro trenta giorni dalla data della richiesta ed è adottato con decreto del Presidente della Regione, previa deliberazione della Giunta regionale.

4. Il PTR adottato è pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione e depositato per la libera consultazione presso la Direzione centrale pianificazione territoriale, energia, mobilità e infrastrutture di trasporto. Entro sessanta giorni dalla data di pubblicazione possono formulare osservazioni:

a) gli enti ed organismi pubblici;

b) le associazioni di categoria ed i soggetti portatori di interessi diffusi e collettivi riconosciuti in ambito regionale;

c) i soggetti nei confronti dei quali le previsioni di PTR adottato sono destinate a produrre effetti diretti.

5. Esperite le procedure di cui ai precedenti commi e tenuto conto delle osservazioni di cui al comma 4, il PTR è approvato, previa deliberazione della Giunta regionale, con decreto del Presidente della Regione e pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione. L’avviso dell’avvenuta approvazione è pubblicato contestualmente sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica e su due quotidiani a diffusione regionale.

CAPO II - NORME IN MATERIA DI LOCALIZZAZIONE DI INFRASTRUTTURE STRATEGICHE

Art. 9 - Finalità

1. Le norme del presente capo hanno lo scopo di preservare la possibilità di realizzare infrastrutture strategiche ovvero di dotare la Regione di strumenti che ne facilitino la realizzazione.

Art. 10 - Sospensione temporanea dell’edificabilità

1. La Giunta regionale è autorizzata a sospendere per un periodo massimo di tre anni ogni determinazione sulle domande di concessione o di autorizzazione edilizia in contrasto con progetti che siano stati dichiarati di interesse regionale.

2. La Giunta regionale delibera la dichiarazione di interesse regionale dei progetti d’intesa con i Comuni interessati previo espletamento delle procedure di Agenda 21; la deliberazione è pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione.

3. La deliberazione di cui al comma 2 include gli elaborati tecnici necessari alla localizzazione nello strumento urbanistico comunale degli interventi previsti dal progetto di interesse regionale e prevale sulle destinazioni d’uso previste dal piano regolatore generale comunale.

4. L’approvazione del progetto definitivo delle opere costituisce accertamento di conformità urbanistica e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza dei relativi lavori.

Art. 11 - Società di Trasformazione Urbana Regionale

1. La Regione, a seguito di intesa preventiva con i Comuni, è autorizzata a promuovere e costituire Società di Trasformazione Urbana Regionale (STUR) per attuare progetti di particolare rilievo. Gli enti locali territoriali, le società controllate dagli enti pubblici e gli enti pubblici economici possono partecipare alla STUR in relazione alle rispettive competenze istituzionali. L’adesione del Comune alla STUR è condizione affinché la stessa operi nel Comune medesimo.

2. La STUR provvede all’acquisizione degli immobili interessati dall’intervento, alla trasformazione e alla commercializzazione degli stessi. Le acquisizioni possono avvenire consensualmente o tramite procedure di esproprio. La partecipazione di azionisti privati è subordinata all’espletamento di una procedura ad evidenza pubblica e i proprietari delle aree interessate dall’intervento rivestono la qualità di socio ove conferiscano i relativi beni.

3. Ulteriori nuovi soci diversi da Regione e enti locali territoriali possono essere individuati fra le società controllate da Regione ed enti locali territoriali medesimi.

4. La STUR è costituita in forma di società per azioni e per la valutazione dei beni conferiti si applicano le regole del codice civile; ai soci spetta il diritto di prelazione in caso di alienazione di partecipazione da parte di altri soci.

5. La Regione e gli enti locali territoriali indicano la maggioranza dei consiglieri di amministrazione della STUR.

6. Per quanto non previsto trovano applicazione le disposizioni dell’articolo 120 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), se e in quanto non in contrasto con la presente disciplina.

7. Le presenti disposizioni si applicano anche alla società di cui all’articolo 4, comma 121, della legge regionale 26 gennaio 2004, n. 1 (Legge finanziaria 2004), e successive modifiche.

8. La legge regionale individua le risorse finanziarie necessarie alla Regione per la costituzione della STUR.

CAPO III - NORME TRANSITORIE

Art. 12 - Norme transitorie

1. Le disposizioni contenute nell’articolo 4 sono efficaci dalla data di entrata in vigore della legge regionale di riordino del titolo IV della legge regionale 19 novembre 1991, n. 52 (Norme regionali in materia di pianificazione territoriale ed urbanistica).

2. Nelle more dell’entrata in vigore del PTR, e comunque non oltre novanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge, la Giunta regionale definisce indirizzi per la salvaguardia delle aree assoggettate a vincolo paesaggistico, anche tenendo conto degli orientamenti di cui alla deliberazione della Giunta regionale 5 giugno 1998, n. 1921, previa acquisizione del parere della competente Commissione consiliare che si esprime entro trenta giorni dalla richiesta.

Caro Eddyburg, Ho letto con grande attenzione l’intervento di Luigi Scano, dal titolo “ non mitizziamo le misure di salvaguardia”, in cui sono evidenziati spunti interessanti, in merito ai quali ritengo utile contribuire con alcune riflessioni.

Nell’intervento relativo alle “misure di salvaguardia” così come strutturate dalla L.R. della Campania n. 16/2004, volevo porre l’attenzione su alcuni aspetti applicativi delle innovazioni introdotte, di cui forse non ho evidenziato con la giusta chiarezza le ricadute e gli aspetti più problematici.

La L.R. n. 16/2004, prevede che nelle procedure di formazione ed approvazione dei piani generali comunali, le “misure di salvaguardia” non sono efficaci, in un momento molto delicato, quale l’esame delle osservazioni inoltrate alla Pubblica Amministrazione e l’elaborazione delle controdeduzioni. Infatti, la legge campana, prevede che l’atto deliberativo della Giunta Comunale, da inizio alla fase di pubblicazione, mentre successivamente il Consiglio Comunale “adotta” il Piano con atto deliberativo, in cui esamina anche le osservazioni ed in relazione ad esse controdeduce. Quindi la delibera di Giunta Comunale non propone semplicemente al Consiglio l’adozione del “Piano”, ma da inizio alla fase di pubblicazione e recepimento delle osservazioni. In pratica nella fase della pubblicazione, ed esame delle osservazioni, e quindi approvazione dell’atto deliberativo, da parte del Consiglio Comunale con cui si “adotta” il Piano, non sono efficaci le “misure di salvaguardia”.

Non ho mai creduto che le norme abbiano virtù salvifiche, meno che mai nelle materie urbanistiche, ma anzi esse, oltre ad essere espressione di una “visione del mondo” da parte di una maggioranza che legifera, hanno valore temporaneo, proprio perché modificabili sulla base dell’esperienza diretta applicativa, ed in conseguenza del modificarsi degli obiettivi che una collettività si prefigge.

Credo, che i “Piani” debbano essere patrimonio di una maggioranza, la più ampia possibile; essi per loro natura sono atti pubblici, nel senso più profondo, e le Amministrazioni Comunali che li elaborano, hanno l’obbligo, non solo normativo, di cercare la massima condivisione e partecipazione alla collettività, sia nella fase di elaborazione che nelle procedure di formazione ed approvazione. In merito a questi ultimi aspetti, nessuna norma impedisce alle Amministrazioni Comunali di cercare di attuare le più efficaci forme di partecipazione, di scelte importanti, come quelle riguardanti il territorio in cui vive una comunità, e questo dovrebbe avvenire, ed avviene in molti casi, dopo aver deciso di elaborare un nuovo “Piano”, nelle fasi precedenti al momento in cui un’amministrazione decide formalmente di iniziare l’iter di approvazione di uno strumento urbanistico generale.

Nelle fasi di partecipazione e condivisione di uno strumento urbanistico generale, spesso con difficoltà e pazienza si forma una maggioranza, che condivide delle scelte di assetto territoriale, e penso, nelle esperienze migliori, cerca di porre un argine alle spinte più retrive della speculazione. Nei casi in cui, dopo aver ricercato la massima partecipazione, si decide di iniziare l’iter di approvazione del “Piano”, con l’adozione dell’atto deliberativo, da parte della Giunta Comunale, si da inizio alla fase di pubblicazione (L.R. n. 16/2004), ed a questo punto, l’impianto della Legge n. 1150/1942 prevedeva che con la delibera che dava inizio alla fase di pubblicazione, iniziasse anche l’efficacia delle “misure di salvaguardia”, mentre il legislatore campano, ha spostato in una fase ancora successiva le necessarie “salvaguardie”. Non si comprende la necessità dell’innovazione introdotta, anche perché non risponde ad un principio di semplificazione delle procedure, infatti il procedimento non avrebbe subito alcun “appesantimento” dall’efficacia delle misure di salvaguardia, nel momento in cui si inizia la fase di pubblicazione, in pratica sarebbe rimasto inalterato, sia nei tempi che negli adempimenti amministrativi.

In relazione alla possibilità di “secretare” le previsioni di uno strumento urbanistico, ritengo che oltre ad essere impossibile, sia anche esercizio inutile e dannoso; però non capisco quale utilità abbia, alla fine di un tortuoso percorso di partecipazione delle scelte di Piano, eliminare una semplice forma di garanzia, nella fase in cui l’amministrazione comunale recepisce e controdeduce rispetto alle osservazioni.

Prevedere che le misure di salvaguardia siano efficaci solo dopo che l’amministrazione ha pubblicato il Piano, recepito ed esaminato le osservazioni, provoca la possibilità che una minoranza portatrice di interessi “altri” e “minoritari” potrà far sentire, ancora, il proprio peso, con tutte le conseguenze immaginabili, a discapito di una maggioranza che si è formata nel dibattito e nella partecipazione delle scelte operate; anche perché il legislatore dovrebbe prevedere le forme più chiare e corrette di interventi da parte di soggetti interessati, mentre in questo caso , si provoca a mio parere una dannosa sinergia tra le motivazioni che potranno formare le osservazioni, ed istanze di Permessi di Costruire non conformi al Piano in corso di approvazione. Le norme, credo che devono tendere ad evitare “zone” di pressione al di fuori dei procedimenti formali, e probabilmente il legislatore del 1942, a questo tendeva “garantendo” la fase in cui l’amministrazione esamina le osservazioni al “Piano”.

L’aspetto che qui evidenzio penso che non sia trascurabile, soprattutto nella Regione Campania dove la presenza pervasiva della “criminalità organizzata”, si esplica anche incidendo sulle dinamiche territoriali. In merito a quest’ultimo punto, sono convinto, che in ampie zone della Regione Campania, la “forma” attuale del territorio è l’espressione, anche della “storia delle organizzazioni criminali”, e non sembri paradossale ma ritengo che si potrebbe scrivere una “storia dell’urbanistica della criminalità organizzata”, che riserverebbe molte sorprese interessanti.

Quindi, senza “mitizzare” le misure di salvaguardia, mi sembra poco proficuo che esse non siano efficaci, ripeto, in una fase delicata e cioè nel momento in cui si esaminano le osservazioni e si decide in merito ad

esse.

Sono auspicabili tutte le innovazioni normative che tendono a semplificare i procedimenti ed a ridurre i tempi di approvazione degli strumenti urbanistici, ma a volte sembra che alcune novità vadano solo nella direzione di ridurre le già scarse forme di garanzia di affermazione di un interesse generale, rispetto agli interessi di “pochi”, ma economicamente rilevanti, e trovano la massima giustificazione nel “liberare” gli operatori economici da “lacci e laccioli”, come il “Cavaliere” definisce le norme che prevedono qualche forma di garanzia per la maggioranza dei cittadini.

Le norme regionali, in tutte le materie, ma in particolare per quelle che riguardano la programmazione del territorio, credo che debbono avere nella giusta considerazione le condizioni della società nella quale saranno applicate, ed esplicheranno effetti; quindi in Campania il legislatore non può ignorare quello che ha permesso al legislatore nazionale, in alcuni momenti, di emanare norme per rendere più efficace la lotta alle “mafie”, e cioè una profonda consapevolezza delle reali forze che incidono sull’evoluzione degli assetti del territorio.

Nel ringraziarvi per aver letto questa nota, vi saluto con stima e ammirazione.

Risponde Luigi Scano

Ritengo inutile postillare cavillosamente il nuovo intervento di Salvatore Napolitano sul tema dell'applicazione delle misure di salvaguardia secondo i dettati della legge regionale campana 16/2004, anche perchè l’intervento nella sua sostanza è del tutto condivisibile. Nel mio scritto (Non mitizziamo la salvaguardia) volevo semplicemente, a partire dal precedente intervento di Salvatore Napolitano, indurre a riflettere sull'insanabile contraddizione tra l'obiettivo di realizzare anche il primo momento sub-procedimentale della formazione di uno strumento di pianificazione, cioé l'adozione, con la più ampia partecipazione democratica, istituzionale e magari non soltanto, e l'obiettivo di impedire che, nelle more delle discussioni e dei confronti sulle scelte più innovative proposte dal nuovo strumento, i soggetti interessati alle rendite e ai profitti ricavabili dall'attuazione delle trasformazioni ammesse dallo strumento tuttora vigente, e che si ritengano penalizzati dai nuovi precetti pianificatori proposti, chiedano e ottengano (come "atti dovuti") i provvedimenti abilitativi a operare quelle predette trasformazioni, vanificando di fatto, in tutto o in parte, l'applicabilità di questi nuovi precetti.

Avanzo una proposta provocatoria (peraltro adombrata in vecchie leggi sia del Friuli-Venezia Giulia che del Veneto) : non sarebbe il caso di sancire che alla deliberazione, di competenza dell'organo esecutivo dell'ente territoriale, della proposta dell'atto di avvio di un procedimento di formazione di uno strumento pianificatorio (lo si chiami così, o "atto di indirizzo", o "documento preliminare", o come accidenti si voglia), sia conferita la possibilità di stabilire delle speciali misure di salvaguardia, consistenti nella sospensione (rigorosamente a tempo determinato, ragionevolmente commisurato a quello di presumibile redazione materiale e adozione, da parte dell'organo democratico rappresentativo dello stesso ente territoriale, del nuovo strumento) dell'efficacia di talune previsioni trasformative, afferenti a taluni ambiti territoriali, dello strumento tuttora vigente.

Sia chiaro: questa ipotesi di disposto legislativo non porrebbe rimedio al rischio che qualche dipendente pubblico, o consulente o contrattista privato, addetto alla formulazione tecnica della proposta dell'atto di avvio del procedimento, e delle collegate speciali misure di salvaguardia, ovvero lo stesso assessore competente, ovvero qualche suo collega, ovvero ancora un usciere origliante dietro le porte, informi proprio i portatori degli interessi che sarebbero più incisi delle determinazioni in corso di elaborazione, o di decisione. Ma questa è questione che rimanda, ove si riesca a provare la natura di reato di siffatti comportamenti, alla legislazione penale e all'amministrazione della relativa giustizia, e, per il restante, alla tendenziale propensione al peccato dell'essere umano, derivante, almeno per le culture di radice giudaico-cristiana, al peccato originario, nell'Eden, dei progenitori dell'umanità: alla quale, fortunatamente, negli stati secolarizzati e più o meno soddisfacentemente liberali e laicizzati, non è più da un pezzo richiesto alla produzione legislativa di porre rimedio.

(Luigi Scano)"

La pianificazione della deregulation, viene teorizzata e utilizzata inizialmente a Milano per poi trovare a Roma il luogo di sistematica sperimentazione. Era prevedibile che alcune proposte di deroga urbanistica si sarebbero venute a trovare in aperta contraddizione con quanto previsto dalla pianificazione paesistica o dagli altri strumenti della tutela del territorio. In tre casi specifici dei “Programmi di recupero urbano” previsti dall’articolo 11 della legge 493/93, in aree localizzate all’interno di alcuni parchi urbani, le indicazioni della tutela paesistica rendevano impossibile la concretizzazione delle ipotesi di trasformazione urbanistica. Quando il rischio del blocco dei programmi di recupero urbano si è fatto più concreto, sono arrivate nuove norme legislative.

Nella legge 18 del 2004, la Regione Lazio ha variato la legge fondamentale della tutela del territorio regionale (n. 24/98) ed ha stabilito (art. 36 ter) che “…gli accordi di programma aventi ad oggetto programmi di recupero urbano di cui all’articolo 11 del dl 5 ottobre 93, n. 398 ed altri interventi di edilizia residenziale pubblica finanziati dalla Regione possano comportare variazioni ai Piani territoriali paesistici vigenti.”.

Nel 1985, con l’approvazione della legge 431 “Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale“ veniva, come noto, riconosciuto il principio che la tutela del paesaggio non riguarda singole bellezze naturali o culturali, ma attiene all’intero ambiente come segno e testimonianza della cultura. Veniva confermato il principio che la tutela dell’ambiente è elemento che dal punto di vista logico e procedurale precede la redazione degli strumenti di pianificazione urbanistica: questi sono dunque subordinati alle più generali ragioni della tutela, ne recepiscono i vincoli e le indicazioni di salvaguardia.

La regione Lazio capovolge questo ragionamento e afferma la prevalenza dei contenuti della pianificazione locale sugli strumenti di tutela, e cioè alla subordinazione degli interessi generali rispetto a quelli particolari. A differenza del trattamento riservato ad altre Regioni per fattispecie di ben minore rilevanza giuridica, il Governo non ha impugnato la legge.

Notizie dalla Lombardia.

Approvata la nuova legge regionale per il governo del territorio

Il giorno 16 febbraio il Consiglio della Regione Lombardia ha approvato, con una ristrettissima maggioranza di voti, la nuova legge urbanistica regionale dal titolo "Legge per il governo del territorio".

La legge vorrebbe configurarsi anche come "testo unico" di tutte le leggi e leggine vigenti sino ad oggi in materia che dall'art. 104 del nuovo testo vengono drasticamente - ma non proprio totalmente - abrogate, comprese anche quelle di recente e recentissima emanazione.

La nuova e definitiva versione uscita dal Consiglio non si differenzia nella sostanza dal testo presentato dall'Assessore Moneta che su questo sito è già stato ampiamente analizzato e criticato dallo scritto di Gianni Beltrame.

Si tratta in sostanza di una legge del tutto in linea con gli orientamenti "ultraliberisti" del progetto Lupi-Mantini che in certa misura vengono già anticipati.

Il disordinato ed affannato dibattito consiliare - moltissimi gli emendamenti richiesti anche dalla stessa maggioranza - ha comportato l'inserimento nel testo di alcune inaspettate norme e novità come, ad esempio, quella che reintroduce inaspettatamente i tanto esecrati "standard" minimi urbanistici, che nel testo dell'Assessore Moneta erano stati eliminati del tutto.

A sorpresa il testo dell'art. 9 che definisce i contenuti del Piano dei servizi afferma oggi che "In relazione alla popolazione stabilmente residente e a quella da insediare secondo le previsioni del documento di piano, è comunque assicurata una dotazione minima di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale pari a diciotto metri quadrati per abitante". (Si ricordi che lo standard minimo regionale stabilito dalla precedente legge regionale n. 51 del 1975, oggi naturalmente abrogata, assommava a mq 26,5 per gli insediamenti residenziali ai quali andavano aggiunti altri mq 17,5 per le attrezzature pubbliche di interesse generale ( nei comuni con capacità insediativa superiore ai 20 mila abitanti).

Un'altra sorpresa riguarda l'inaspettata abrogazione dell' art. 63 sul recupero a fini abitativi dei sottotetti, essendo stato ribadito che l'applicazione di questa pericolosa norma andava riferita solo ai sottotetti esistenti e non a quelli di nuova progettazione come, purtroppo, in atto.

Una sorprendente norma, introdotta all'ultimo momento, stabilisce che alcune prescrizioni urbanistiche non riguardano subito l'intero territorio regionale ma esentano i Comuni inferiori ai 15000 abitanti (ben 1454 su 1546) i quali dovranno aspettare "criteri, modi e tempi per l’adeguamento alla presente legge" forniti da una fantomatica "Autorità per la programmazione territoriale" di apposita invenzione (art. 5).

Le opposizioni sono riuscite ad ottenere ben poco se non il ribadimento della natura di Piano Territoriale di Coordinamento per il Piano provinciale che la versione portata in Consiglio aveva degradato - con l'obiettivo di ridurne ulteriormente la portata e l'efficacia - a semplice Piano territoriale provinciale (art. 15)

(Una amara nota finale che riconferma come la sinistra attraversi oggi, per quanto riguarda le scelte e le leggi urbanistiche, un periodo di totale obnubilamento: giunge notizia che due consiglieri della sinistra non abbiano votato. Con due voti contrari in più la legge non sarebbe mai passata!)

Qui l'articolo di Michele Sacerdoti e il testo della legge

Caro Eddyburg,

Salvatore Napolitano, nel suo scritto pubblicato da "eddyburg.it" con il titolo "Campania: innovazioni legislative pericolose", ricostruisce perfettamente i procedimenti di formazione degli strumenti di pianificazione generale comunale, e i relativi rapporti con l'inizio dell'applicazione delle ordinarie misure di salvaguardia delle previsione degli strumenti in corso di formazione, definiti dalla legge urbanistica della Campania 16/2004. Egli prefigura ineccepibilmente i rischi che tali previsioni siano più o meno largamente vanificate dall'ottenimento di permessi di costruire conformi alla disciplina precedente, e ancora vigente, ma contrastanti con la nuova disciplina proposta, e divenuta, nei suoi contenuti, di dominio conoscitivo pubblico, ma non ancora adottata, e quindi non ancora protetta dalle misure di salvaguardia.

Vorrei fare presente che, nella prassi applicativa della legge 1150/1942, e delle leggi regionali riproduttive dei suoi contenuti, nulla impediva che tra il momento della trasmissione degli elaborati dei nuovi strumenti di pianificazione proposti dalla Giunta al Consiglio e la loro adozione da parte del Consiglio (con conseguente attivazione delle misure di salvaguardia) intercorressero tempi assai lunghi, e che essi fossero ampiamente conosciuti dalla comunità locale. Per non dire che la nuova legislazione sull'accesso pubblico agli atti delle pubbliche amministrazioni ha reso praticamente impossibile "secretare" le previsioni innovative degli strumenti di pianificazione completati nei loro elaborati e deliberati da una Giunta (per la trasmissione al Consiglio). E molto spesso, in tutta Italia e non soltanto in Campania, proprio le più "ghiotte" informazioni circa gli strumenti di pianificazione in corso - addirittura - di redazione venivano infallibilmente risapute proprio dai soggetti più interessati alle stesse.

Un possibile rimedio (non all'ultima "distorsione" che ho prospettato) consisterebbe proprio in quella traslazione della competenza ad adottare gli strumenti di pianificazione dai Consigli alle Giunte che la legge regionale campana 16/2004 ha effettuato per gli strumenti di pianificazione generali regionali e provinciali, ma incomprensibilmente non per quelli comunali. Traslazione che è stata duramente criticata da alcuni amici, per motivazioni che mi guardo bene dal chiamare peregrine. Critiche che hanno trovato spazio anche in "eddyburg.it", pur se la predetta traslazione era stata proposta da me e da te in almeno due bozze di disegno di legge urbanistica regionale.

Quali conclusioni trarre? Per quel che mi riguarda, provvisoriamente: che quel che realmente conta è la diffusa (negli uffici tecnici, nei professionisti consulenti, nei pubblici amministratori membri degli esecutivi e dei consigli, di maggioranza e di minoranza) coscienza degli interessi generali, collettivi, pubblici, mentre quasi sempre le diverse soluzioni normative si configurano quali mezzi da temporaneamente sperimentare nei loro effetti, escludendone qualsiasi virtù salvifica definitiva.

Per uno come me, che di mestiere compila normative, non è una conclusione esaltante. Epperò amicus Plato, sed magis amica veritas.

Venezia, 25 novembre 2005

Non lo dico solo per salvare il tuo mestiere: a me sembra che, sebbene la “diffusa coscienza degli interessi generali, collettivi, pubblici” da parte degli operatori sia essenziale, finchè essa non sarà raggiunta ovunque in modo certo, la stampella della norma sia essenziale. Così come resto convinto che un atto rilevante come uno strumento urbanistico generale, valido a tempo indeterminato e avente un carattere “statutario”, debba essere formato con il più largo coinvolgimento.

PARTE I PIANIFICAZIONE DEL TERRITORIO

TITOLO IOGGETTO E CRITERI ISPIRATORI

Art. 1 (Oggetto e criteri ispiratori)

TITOLO IISTRUMENTI DI GOVERNO DEL TERRITORIO

CAPO I DISPOSIZIONI GENERALI

Art. 2 (Correlazione tra gli strumenti di pianificazione territoriale)

Art. 3 (Strumenti per il coordinamento e l’integrazione delle informazioni)

Art. 4 Valutazione ambientale dei piani)

Art. 5 (Osservatorio permanente della programmazione territoriale)

CAPO II PIANIFICAZIONE COMUNALE PER IL GOVERNO DEL TERRITORIO

Art. 6 (Pianificazione comunale)

Art. 7 (Piano di governo del territorio)

Art. 8 (Documento di piano)

Art. 9 (Piano dei servizi)

Art. 10 (Piano delle regole)

Art. 11 (Compensazione ed incentivazione urbanistica)

Art. 12 (Piani attuativi comunali)

Art. 13 (Approvazione degli atti costituenti il piano di governo del territorio)

Art. 14 (Approvazione dei piani attuativi e loro varianti – Interventi sostitutivi)

CAPO IIIPIANO TERRITORIALE PROVINCIALE

Art. 15 (Contenuti del piano territoriale provinciale)

Art. 16 (Conferenza dei comuni e delle comunità montane)

Art. 17 (Approvazione del piano territoriale provinciale)

Art. 18 (Effetti del piano territoriale provinciale)

CAPO IV PIANO TERRITORIALE REGIONALE

Art. 19 (Oggetto e contenuti del piano territoriale regionale)

Art. 20 (Effetti del piano territoriale regionale – piano territoriale regionale d’area)

Art. 21 (Approvazione del piano territoriale regionale. Approvazione dei piani territoriali regionali d’area)

Art. 22 (Aggiornamento del piano territoriale regionale)

CAPO V SUPPORTO AGLI ENTI LOCALI

Art. 23 (Supporto agli enti locali)

Art. 24 (Erogazione di contributi)

CAPO VI DISPOSIZIONI TRANSITORIE PER IL TITOLO II

Art. 25 (Norma transitoria)

Art. 26 (Adeguamento dei piani)

PARTE IIGESTIONE DEL TERRITORIO

TITOLO IDISCIPLINA DEGLI INTERVENTI SUL TERRITORIO

CAPO I DISPOSIZIONI GENERALI

Art. 27 (Definizioni degli interventi edilizi)

Art. 28 (Regolamento edilizio)

Art. 29 (Procedura di approvazione del regolamento edilizio)

Art. 30 (Commissione edilizia)

Art. 31 (Albo dei commissari ad acta)

Art. 32 (Sportello unico per l’edilizia)

CAPO II PERMESSO DI COSTRUIRE

Art. 33 (Trasformazioni soggette a permesso di costruire)

Art. 34 (Interventi su beni culturali e paesaggistici)

Art. 35 (Caratteristiche del permesso di costruire)

Art. 36 (Presupposti per il rilascio del permesso di costruire)

Art. 37 (Competenza al rilascio del permesso di costruire)

Art. 38 (Procedimento per il rilascio del permesso di costruire)

Art. 39 (Intervento sostitutivo)

Art. 40 (Permesso di costruire in deroga)

CAPO IIIDENUNCIA DI INIZIO ATTIVITA’

Art. 41 (Interventi realizzabili mediante denuncia di inizio attività)

Art. 42 (Disciplina della denuncia di inizio attività)

CAPO IV CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE

Art. 43 (Contributo di costruzione)

Art. 44 (Oneri di urbanizzazione)

Art. 45 (Scomputo degli oneri di urbanizzazione)

Art. 46 (Convenzione dei piani attuativi)

Art. 47 (Cessioni di aree per opere di urbanizzazione primaria)

Art. 48 (Costo di costruzione)

CAPO V SANZIONI

Art. 49 (Sanzioni)

Art. 50 (Poteri regionali di annullamento e di inibizione)

CAPO VI DISCIPLINA DEI MUTAMENTI DELLE DESTINAZIONI D’USO DI IMMOBILI E DELLE VARIAZIONI ESSENZIALI

Art. 51 (Disciplina urbanistica)

Art. 52 (Mutamenti di destinazione d’uso con e senza opere edilizie)

Art. 53 (Sanzioni amministrative)

Art. 54 (Determinazione delle variazioni essenziali)

TITOLO IINORME IN MATERIA DI PREVENZIONE DEI RISCHI GEOLOGICI, IDROGEOLOGICI E SISMICI

Art. 55 (Attività regionali per la prevenzione dei rischi geologici, idrogeologici e sismici)

Art. 56 (Componente geologica, idrogeologica e sismica del piano territoriale provinciale)

Art. 57 (Componente geologica, idrogeologica e sismica del piano di governo del territorio)

Art. 58 (Contributi ai comuni e alle province per gli studi geologici, idrogeologici e sismici)

TITOLO IIINORME IN MATERIA DI EDIFICAZIONE NELLE AREE DESTINATE ALL’AGRICOLTURA

Art. 59 (Interventi ammissibili)

Art. 60 (Presupposti soggettivi e oggettivi)

Art. 61 (Norma di prevalenza)

Art. 62 Interventi regolati dal piano di governo del territorio)

TITOLO IVATTIVITA’ EDILIZIE SPECIFICHE

CAPO I RECUPERO AI FINI ABITATIVI DEI SOTTOTETTI ESISTENTI

Art. 63 (Finalità e presupposti)

Art. 64 (Interventi ammissibili)

Art. 65 (Disciplina degli interventi)

Art. 66 (Ambiti di esclusione)

CAPO II NORME INERENTI ALLA REALIZZAZIONE DEI PARCHEGGI

Art. 67 (Localizzazione e rapporto di pertinenza)

Art. 68 (Disciplina degli interventi)

Art. 69 (Utilizzo del patrimonio comunale)

Art. 70 (Regime economico)

CAPO IIINORME PER LA REALIZZAZIONE DI EDIFICI DI CULTO E DI ATTREZZATURE DESTINATE A SERVIZI RELIGIOSI

Art. 71 (Finalità)

Art. 72 (Ambito di applicazione)

Art. 73 (Rapporti con la pianificazione comunale)

Art. 74 (Modalità e procedure di finanziamento)

TITOLO VBENI PAESAGGISTICI E AMBIENTALI

CAPO I ESERCIZIO DELLE FUNZIONI REGIONALI

Art. 75 (Elenchi dei beni soggetti a tutela)

Art. 76 (Modificazioni e integrazioni degli elenchi dei beni soggetti a tutela)

Art. 77 (Contenuti paesaggistici del piano territoriale regionale)

Art. 78 (Coordinamento della pianificazione paesaggistica con altri strumenti di pianificazione)

Art. 79 (Commissioni provinciali)

Art. 80 (Adempimenti della Giunta regionale)

CAPO II AUTORIZZAZIONI E SANZIONI

Art. 81 (Ripartizione delle funzioni amministrative)

Art. 82 (Istituzione delle commissioni per il paesaggio)

Art. 83 (Modalità per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica)

Art. 84 (Sanzioni amministrative a tutela del paesaggio)

Art. 85 (Criteri per l’esercizio delle funzioni amministrative in materia di tutela dei beni ambientali)

Art. 86 (Supporto agli enti locali)

Art. 87 (Interventi sostitutivi in caso di inerzia o di ritardi)

TITOLO VIPROCEDIMENTI SPECIALI E DISCIPLINE DI SETTORE

CAPO I DISCIPLINA DEI PROGRAMMI INTEGRATI DI INTERVENTO

Art. 88 Programmi integrati di intervento)

Art. 89 (Ambiti e obiettivi)

Art. 90 (Interventi su aree destinate all’agricoltura)

Art. 91 (Aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale)

Art. 92 (Attivazione dei programmi integrati di intervento)

Art. 93 (Approvazione dei programmi integrati di intervento)

Art. 94 (Attuazione dei programmi integrati di intervento)

Art. 95 (Programmi di recupero urbano e programmi integrati di recupero)

CAPO II ALTRI PROCEDIMENTI SPECIALI

Art. 96 (Disposizioni generali di raccordo con leggi regionali di finanziamento)

Art. 97 (Modifiche alla legge regionale 12 aprile 1999, n. 10 “Piano territoriale d’area Malpensa. Norme speciali per l’aerostazione intercontinentale Malpensa 2000”)

Art. 98 (Sportello unico per le attività produttive)

Art. 99 (Disposizioni straordinarie per la tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico)

Art. 100(Norma finanziaria)

TITOLO VIIDISPOSIZIONI TRANSITORIE E FINALI

Art. 101(Norma generale di riferimento)

Art. 102(Programmi pluriennali di attuazione)

Art. 103(Piano territoriale paesistico regionale)

Art. 104(Disapplicazione di norme statali)

Art. 105(Abrogazioni)

Allegato A(Canali-Laghi)

Art. 1 - Pianificazione paesaggistica regionale.

1. La Giunta regionale, entro dodici mesi dall'entrata in vigore della presente legge, adotta il Piano Paesaggistico Regionale (PPR) principale strumento della pianificazione territoriale regionale ai sensi dell'articolo 135 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), al fine di assicurare un'adeguata tutela e valorizzazione del paesaggio.

2. Il PPR costituisce il quadro di riferimento e di coordinamento, per lo sviluppo sostenibile dell'intero territorio regionale, degli atti di programmazione e pianificazione regionale, provinciale e locale ed assume i contenuti di cui all'articolo 143 del decreto legislativo n. 42 del 2004.

3. In sede di prima applicazione della presente legge, il PPR può essere proposto, adottato e approvato per ambiti territoriali omogenei.

Art. 2 - Piano Paesaggistico Regionale - Procedure.

1. Per le procedure di redazione della proposta, adozione e approvazione del PPR si applicano le disposizioni di cui all'articolo 11 della legge regionale 22 dicembre 1989, n. 45 (Norme per l'uso e la tutela del territorio regionale), così modificato:

"Art. 11 Piano Paesaggistico Regionale - Procedure.

1. La proposta di PPR è pubblicata, per un periodo di sessanta giorni, all'albo di tutti i comuni interessati. Al fine di assicurare la concertazione istituzionale e la partecipazione di tutti i soggetti interessati e delle associazioni costituite per la tutela degli interessi diffusi, individuate ai sensi dell'articolo 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349, il Presidente della Regione, entro i sessanta giorni di pubblicazione presso i Comuni svolge l'istruttoria pubblica ai sensi dell'articolo 18 della legge regionale 22 agosto 1990, n. 40, nella quale illustra la proposta di Piano.

2. Entro trenta giorni, decorrenti dall'ultimo di deposito, chiunque può presentare osservazioni indirizzate al Presidente della Regione.

3. Trascorso tale termine la Giunta regionale esamina le osservazioni e, sentito il Comitato tecnico regionale per l'urbanistica, delibera l'adozione del PPR e lo trasmette al Consiglio regionale nonché ai Comuni interessati ai fini della pubblicazione all'albo pretorio per la durata di quindici giorni.

4. La Commissione consiliare competente in materia di urbanistica esprime, entro due mesi, sul piano stesso il proprio parere che viene trasmesso alla Giunta regionale.

5. Acquisito tale parere, la Giunta regionale approva in via definitiva il PPR entro i successivi trenta giorni".

2. Per la redazione della proposta di Piano possono essere utilizzati anche gli elaborati dei Piani urbanistici provinciali di cui all'articolo 16 della legge regionale n. 45 del 1989, già approvati o in corso di approvazione.

3. Dopo l'approvazione del PPR la Giunta provvede al coordinamento ed alla verifica di coerenza degli atti della programmazione e della pianificazione regionale con il Piano stesso.

4. Al fine di conseguire l'aggiornamento periodico del PPR la Giunta provvede al monitoraggio delle trasformazioni territoriali e della qualità del paesaggio.

5. Al fine di promuovere una più incisiva adeguatezza ed omogeneità della strumentazione urbanistica a tutti i livelli, l'Amministrazione regionale procede ad un sistematico monitoraggio e comparazione dell'attività di pianificazione urbanistica, generale ed attuativa, mediante l'attivazione di un Osservatorio della pianificazione urbanistica e qualità del paesaggio in collaborazione con le Università e con gli ordini ed i collegi professionali interessati.

6. I Comuni, in adeguamento alle disposizioni e previsioni del PPR, approvano, entro dodici mesi dalla sua pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione sarda e comunque a partire dall'effettiva erogazione delle risorse finanziarie, i propri Piani urbanistici comunali. A tal fine, in sede di specifica norma finanziaria, sono previste adeguate risorse per il sostegno delle fasi di approvazione ed adeguamento alla nuova pianificazione paesaggistica regionale da parte dei comuni.

7. Entro tre mesi dall'entrata in vigore della presente legge, il Presidente della Regione espone al Consiglio regionale, che si pronuncia nel merito, le linee-guida caratterizzanti il lavoro di predisposizione del PPR.

Art. 3 - Misure di salvaguardia.

1. Fermo quanto disposto dal comma 1 dell'articolo 10-bis della legge regionale n. 45 del 1989, fino all'approvazione del Piano paesaggistico regionale e comunque per un periodo non superiore a 18 mesi, i seguenti ambiti territoriali sono sottoposti a misure di salvaguardia comportanti il divieto di realizzare nuove opere soggette a concessione ed autorizzazione edilizia, nonché quello di approvare, sottoscrivere e rinnovare convenzioni di lottizzazione:

a) territori costieri compresi nella fascia entro i 2.000 metri dalla linea di battigia marina, anche per i terreni elevati sul mare;

b) territori costieri compresi nella fascia entro i 500 metri dalla linea di battigia marina, anche per i terreni elevati sul mare, per le isole minori;

c) compendi sabbiosi e dunali.

2. Da tali ambiti territoriali sono esclusi quelli ricadenti nei comuni dotati di Piani urbanistici comunali di cui ai commi 1 e 2 dell'articolo 8 ed in quelli ricadenti nei comuni ricompresi nel Piano Territoriale Paesistico del Sinis (PTP n. 7, approvato con Delib.G.R. 3 agosto 1993, n. 272).

Art. 4 - Interventi ammissibili.

1. Il divieto di cui all'articolo 3 della presente legge non si applica:

a) agli interventi edilizi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico, di restauro e di ristrutturazione che non alterino lo stato dei luoghi, il profilo esteriore, la volumetria degli edifici, la destinazione d'uso ed il numero delle unità immobiliari. È altresì consentita la realizzazione di eventuali volumi tecnici di modesta entità, strettamente funzionali alle opere e comunque tali da non alterare lo stato dei luoghi;

b) agli interventi direttamente funzionali alle attività agro-silvo-pastorali che non prevedano costruzioni edilizie residenziali;

c) alle opere di forestazione, di taglio e riconversione colturale e di bonifica;

d) alle opere di risanamento e consolidamento degli abitati e delle aree interessate da fenomeni franosi, nonché opere di sistemazione idrogeologica;

e) agli interventi di cui alle lettere b), d), f), g), l), m), e p) dell'articolo 13 della legge regionale n. 23 del 1985;

f) alle opere pubbliche previste all'interno di piani di risanamento urbanistico di cui all'articolo 32 della legge regionale n. 23 del 1985;

g) alle infrastrutture di servizio generale da realizzarsi nelle aree di sviluppo industriale in conformità ai piani territoriali adottati dai consorzi di sviluppo industriale ed approvati dall'Amministrazione regionale anteriormente all'entrata in vigore della presente legge.

2. Negli ambiti territoriali di cui all'articolo 3 è consentita l'attività edilizia e la realizzazione delle relative opere di urbanizzazione delle zone omogenee A e B dei centri abitati e delle frazioni individuate dai Comuni ai sensi dell'articolo 9 della legge 24 dicembre 1954, n. 1228, purché delimitate ed indicate come tali nella cartografia degli strumenti urbanistici comunali. Sono, altresì, attuabili gli interventi edilizi ricadenti nelle zone C immediatamente contigue alle zone B di completamento ed intercluse tra le stesse zone B ed altri piani attuativi in tutto o in parte già realizzati. Nelle restanti zone omogenee C, D, F e G possono essere realizzati gli interventi previsti negli strumenti urbanistici attuativi approvati e convenzionati alla data di pubblicazione della Delib.G.R. 10 agosto 2004, n. 33/1 purché alla stessa data le opere di urbanizzazione siano legittimamente avviate ovvero sia stato realizzato il reticolo stradale, si sia determinato un mutamento consistente ed irremovibile dello stato dei luoghi e, limitatamente alle zone F, siano inoltre rispettati i parametri di cui all'articolo 6. E' pertanto, sospesa l'applicazione delle esclusioni di cui al comma 1, lettera a), e comma 2 dell'articolo 10-bis della legge regionale n. 45 del 1989, fino all'approvazione del Piano Paesaggistico Regionale. Ai fini della realizzazione dei singoli interventi edilizi, l'acquisizione dei prescritti nulla osta ed il versamento dei relativi oneri concessori, alla data di pubblicazione della Delib.G.R. 10 agosto 2004, n. 33/1 dà titolo al rilascio della concessione edilizia.

3. Nelle aree boscate, individuate con Circ.Ass. 2 luglio 1986, n. 16210 dell'Assessorato della pubblica istruzione, l'edificazione è consentita soltanto nelle radure naturali purché gli interventi, oltre che previsti dagli strumenti urbanistici attuativi, consentano una zona di rispetto dal limite del bosco non inferiore a cento metri.

Art. 5 - Studio di compatibilità paesistico-ambientale.

1. I piani urbanistici dei comuni, i cui territori ricadono nella fascia costiera di duemila metri dalla linea di battigia marina, devono contenere lo studio di compatibilità paesistico-ambientale quale documento finalizzato a:

a) supportare le scelte di pianificazione del territorio comunale in relazione al complesso delle risorse paesistico-ambientali;

b) individuare, per gli ambiti trasformabili, le caratteristiche urbanistico-edilizie dei nuovi insediamenti in relazione ai livelli di compatibilità e sostenibilità delle trasformazioni rispetto allo stato dell'ambiente e dei caratteri paesaggistici;

c) definire i criteri guida per lo studio di compatibilità paesistico-ambientale da porre a base della elaborazione dei piani attuativi.

2. Lo studio di compatibilità paesistico-ambientale allegato al PUC deve prevedere:

a) il quadro conoscitivo del territorio comunale derivato dalla rappresentazione ed analisi dei principali tematismi di carattere geologico, geomorfologico, idrologico, vegetazionale, paesaggistico e storico-culturale;

b) il quadro conoscitivo relativo alle trasformazioni avvenute circa gli insediamenti e le infrastrutture;

c) l'individuazione delle risorse paesistico-ambientali di maggior pregio ed interesse ai fini delle esigenze di tutela e valorizzazione;

d) il quadro territoriale di sintesi delle risorse paesistico-ambientali rappresentato per areali, in cui riconoscere una graduazione di valore delle risorse ed i corrispondenti livelli di trasformazione territoriale possibili con individuazione dei livelli di sostenibilità delle ipotesi di sviluppo e di compatibilità delle localizzazioni;

e) la determinazione dei parametri qualitativi e quantitativi delle trasformazioni compatibili con lo stato dell'ambiente e della relativa normativa d'attuazione.

3. Lo studio di compatibilità paesistico-ambientale va allegato ai piani attuativi dei comuni di cui al comma 1 e deve prevedere:

a) l'indicazione degli insediamenti previsti con illustrazione delle possibili alternative di localizzazione e con definizione della soglia massima di accettabilità in termini volumetrici attraverso l'analisi comparata di accettabilità dei tematismi utilizzati;

b) la simulazione degli effetti sul paesaggio delle localizzazioni proposte e la documentazione fotografica su cui riportare dette simulazioni;

c) le concrete misure per l'eliminazione dei possibili effetti negativi ovvero per minimizzarne e compensarne l'impatto sull'ambiente e sul paesaggio.

4. Lo studio di compatibilità paesistico-ambientale è redatto nel rispetto degli obblighi e delle procedure di cui alla direttiva 2001/42/CE (V.A.S.) concernente la valutazione degli effetti dei piani e dei programmi sull'ambiente.

5. Lo studio di compatibilità paesistico-ambientale relativo agli strumenti urbanistici generali viene sottoposto all'esame ed approvazione della Giunta regionale previo favorevole parere del Comitato tecnico regionale dell'urbanistica.

6. Lo studio di compatibilità paesistico-ambientale allegato ai piani attuativi rappresenta il quadro di riferimento urbanistico-territoriale e di disciplina paesistica per la procedura della valutazione di impatto ambientale di cui all'articolo 31 della legge regionale 18 gennaio 1999, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Legge finanziaria 1999) e successive modifiche ed integrazioni.

7. Gli esiti della procedura di valutazione di impatto ambientale, di cui all'articolo 31 della legge regionale n. 1 del 1999, riguardanti i piani urbanistici attuativi, sono trasmessi alle Commissioni provinciali per la tutela del paesaggio, di cui all'articolo 33 della legge regionale n. 45 del 1989 e successive modifiche ed integrazioni ed all'articolo 137 del decreto legislativo n. 42 del 2004, per il definitivo parere. Per le restanti procedure di verifica e di valutazione dell'impatto ambientale, non concluse alla data di entrata in vigore della presente legge, si applicano i divieti e le prescrizioni in essa contenuti.

Art. 6 - Zone F turistiche.

1. Il dimensionamento delle volumetrie degli insediamenti turistici ammissibili nelle zone F non deve essere superiore al 50 per cento di quello consentito con l'applicazione dei parametri massimi stabiliti per la suddetta zona dal Dec.Ass. 20 dicembre 1983, n. 2266/U dell'Assessore degli enti locali, finanze ed urbanistica.

Art. 7 - Interventi pubblici.

1. La realizzazione degli interventi pubblici finanziati dall'Unione Europea, dallo Stato, dalla Regione, dalle Province, dai Comuni o dagli enti strumentali statali o regionali, può essere autorizzata dalla Giunta regionale, anche in deroga a quanto previsto dalla presente legge, sulla base di appositi criteri determinati dalla Giunta regionale in sede di definizione delle linee-guida di cui al comma 7 dell'articolo 2 e pubblicati sul Bollettino Ufficiale della Regione.

Art. 9 - Abrogazioni e sostituzioni.

1. Sono abrogati gli articoli 10, 12 e 13 della legge regionale n. 45 del 1989.

2. I riferimenti contenuti nella legge regionale n. 45 del 1989 ai Piani territoriali paesistici sono sostituiti dal riferimento al Piano paesaggistico regionale.

Art. 10 - Entrata in vigore.

1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione.

Caro Eddyburg, Sono un operatore della Pubblica Amministrazione, per le materie urbanistiche, in una zona “difficile”, come l’area metropolitana di Napoli; e non sembri eccessivo, ma eddyburg.it è ormai un punto di riferimento quotidiano, e nei momenti di massimo scoramento professionale, un rifugio. In conseguenza di un’esperienza professionale che sto vivendo in questo periodo, mi sembra opportuno e doveroso segnalare i danni che possono provocare innovazioni normative, in materia di governo del territorio, che non prevedono adeguate forme di garanzia nelle procedure di formazione di nuovi strumenti urbanistici.

Dirigo il settore urbanistica di un grosso comune dell’area a nord di Napoli, penso ancora per pochi giorni, dove le problematiche territoriali non sembrano interessare più nessuno, mentre ad esse dedicano anche troppa attenzione la più retriva “speculazione edilizia”, (qui sembra esistere solo quella) ed ovviamente il capitale frutto di attività illegali (criminalità organizzata).

Grazie, la sua lettera denuncia ciò che accade quando si abbandonano le garanzie di un impianto legislativo consolidato (nel caso specifico, la salvaguardia sulle proposte del piano in itinere) in un ambiente dominato dalla speculazione e dal potere degli immobiliaristi. Inserisco la parte sostanziale della sua lettera negli “Interventi”, precisamente qui.

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