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C’è un imprenditore agricolo, il più grande d’Italia, che rischia di vedere espropriati oltre 1000 ettari della sua tenuta. A regola dovrebbe incatenarsi al trattore, aggrapparsi agli alberi, scavare simbolicamente una fossa nella terra. Tutto il contrario: è pronto a stappare la migliore delle sue bottiglie di champagne per l’affare che gli risolverà molte rogne. Lui, anzi loro, è Benetton. La tenuta è la “Maccarese spa”. La questione è il raddoppio dell’Aeroporto di Fiumicino, opera madre di tutte le colate di cemento che a breve-lungo termine asfalteranno il nostro Paese. In ballo ci sono affari, affaristi, grandi imprese, costruttori, mezzi di comunicazione, una piccola comunità che protesta e, ovvio, miliardi. Tanti. Come mai se ne sono visti: ben dodici, esattamente il doppio di quanto previsto per l’immaginifico Ponte di Messina.

Fase uno: la storia non parte da molto lontano, dal quel 1998, quando i Benetton acquistano dall’Iri 3.300 ettari di Agro Romano, “l’orto” della Capitale con appena 93 miliardi di lire. Per l’affare il gruppo di Treviso batte colossi nazionali (e romani) come Cragnotti e Caltagirone, senza che nessuno punti il dito su un palese conflitto di interessi: la tenuta è a ridosso del Leonardo Da Vinci, e gli “United colors” sono anche nell’azionariato dell’aeroporto, e in maniera preponderante.

La seconda. Nel 2008 i Benetton entrano a far parte di quel gruppetto di “eroi” pronti a salvare l’Alitalia, subito dopo l’appello di Silvio Berlusconi: entrano con l’8,85 per cento delle quote, in compagnia di partner diversamente interessati. Tra questi Air France (25 per cento), Fire spa (10,62), ma soprattutto Banca Intesa con l’attuale ministro Passera come protagonista (8,86) e Acqua Marcia finanziaria (1,77). Quest’ultima società è tra le big nel settore infrastrutture, è di proprietà di Caltagirone Bellavista, e nella cittadina di Fiumicino è già impegnata nella costruzione del porto, altra opera faraonica bloccata per assenza di fondi.

Terza fase, quando tre punti vari diventano un triangolo equilatero. La società aeroporti di Fiumicino presenta all’Enac un piano per raddoppiare la struttura, da tre a sei piste, con l’obiettivo di passare dagli attuali 30 e rotti milioni di passeggeri l’anno, ai 60 del 2020, fino al massimo di 100 per il 2040. Come? “Il 50 per cento si finanzierà con gli introiti derivanti dalle tariffe aeroportuali – spiega il presidente di Adr, Fabrizio Palenzona – in gran parte pagate da soggetti stranieri”. Insomma, la richiesta rivolta all’Ente di Stato è di aumentare il costo del passaggio per il Leonardo da Vinci di almeno tre euro a persona, meglio se sono cinque. Conti alla mano parliamo di 90-150 milioni l’anno, con una concessione di oltre trent’anni.

Conclusione: per fare tutto questo bisogna allargarsi, crescere. Espropriare. Appunto. E qui rientra in campo Benetton. Nei piani presentati, la zona interessata è quasi tutta la sua (1000 ettari su 1300), e secondo le tabelle, potrebbe incassare almeno duecento milioni di euro (20 euro al metro quadro), ai quali vanno aggiunti i danni riconosciuti in caso di strutture già presenti.

Ecco il triangolo: il Benetton imprenditore sottrae al Benetton agricoltore per avvantaggiare anche il Benetton investitore dei cieli. Roba da far girare la testa. “Sì, la testa e anche qualcos’altro – interviene Andrea Guizzi del Comitato Fuoripista –. Siamo preda di una lobby romana, composta da politici come Alemanno e Polverini, giornali di proprietà di grandi costruttori come Messaggero e Tempo e imprenditori privi di scrupoli pronti a vendere quello che non c’è. Chi ci rimette siamo noi, vada a vedere gli indici tumorali, e poi ne riparliamo”. Eccoli qua: secondo i rapporti della Asl competente c’è un aumento dei ricoveri tra il 18 e il 24 % dei bambini tra i 0 e i 14 anni, un terzo dei ricoveri è per malattie dell’apparato respiratorio, altri per tumori maligni e insufficienza renale cronica. “Tutto questo – continua Guizzi – per fare un favore ad alcuni. Guardi lo scalo di Hethrow, a Londra, ha il doppio dei passeggeri di Fiumicino e le stesse piste. Hanno semplicemente riorganizzato il sistema di atterraggio e decollo”. Troppo semplice, forse. O troppo poco remunerativo, per alcuni.

Dire che le Ferrovie non vanno d’accordo con le stazioni sembrerebbe un nonsenso. Sarebbe come sostenere che un chirurgo non fa le operazioni perché non riesce a trovare il bisturi giusto. Eppure è così. Da più di un decennio è variabile, spesso tendente a burrasca con episodiche schiarite, il rapporto tra le Ferrovie dello Stato e Grandi Stazioni, la società mista pubblico-privato che ha come missione la ristrutturazione e la gestione dei 13 maggiori scali nazionali. Con l’arrivo di Mauro Moretti alla guida delle Fs cinque anni fa, questa altalenante relazione si era addirittura complicata e ulteriormente guastata. Come se non bastasse, di recente ci sono stati annuvolamenti perfino tra Fs e Centostazioni, l’altra società mista pubblico-privati che ha il compito di curare gli scali meno grandi e delle città di provincia. L’origine delle frizioni in questo caso è la stazione romana di Ostiense, quella scelta da Ntv di Luca Cordero di Montezemolo come quartier generale della propria compagnia ferroviaria che farà concorrenza alle Fs sulle tratte dell’Alta velocità.

Nella testa di Moretti ora sarebbe arrivato il momento di vendere le stazioni maggiori, cioè sarebbe opportuno che le Ferrovie dello Stato cedessero il loro 60 per cento della società ai privati che hanno il 39 per cento, diviso in tre parti uguali tra Benetton, Pirelli e Caltagirone, mentre il residuo 1 per cento è in mano a Sncf-Société nationale des chemins de fer, le ferrovie francesi a loro volta azioniste dell’azienda di Montezemolo con circa il 20 per cento.

In un’intervista al Corriere della Sera l’amministratore delle Ferrovie italiane ha annunciato che passerebbe volentieri il pacchetto di maggioranza Fs ai privati, ma non a Sncf, spiegando la scelta con la considerazione che Grandi stazioni è una gallina dalle uova d’oro.

Una motivazione sorprendente. Per due motivi. Il primo è che se Grandi stazioni è diventata un affarone come sostiene Moretti non si vede perché le Ferrovie pubbliche dovrebbero privarsene proprio ora. Il secondo elemento di sorpresa è che con questa decisione Moretti ribalterebbe di 360 gradi le scelte assunte non molto tempo fa, quando volle impegnarsi in prima persona come presidente di Grandi stazioni dopo aver ingaggiato un lungo braccio di ferro con i privati che avevano nominato l’amministratore Fabio Battaggia. Moretti allora si lamentò molto dei privati accusandoli, sostanzialmente, di comportarsi come azionisti inconcludenti.

I fatti in quel caso davano ragione all’amministratore Fs. Nata addirittura nel 1996 per rilanciare i maggiori scali nazionali, Grandi Stazioni per quasi un quindicennio era riuscita a stento a ristrutturare Roma Termini per il Giubileo del 2000 accontentandosi poi di lucrare sulla gestione degli spazi commerciali ricavati. Gli altri interventi erano tutti al palo, e cioè Torino, Milano, Napoli, i due scali di Genova, Venezia Santa Lucia, Mestre, Verona, Bologna, Firenze, Bari e Palermo. Negli ultimi tempi la situazione è un po’ migliorata con l’ultimazione dei lavori a Torino, Milano e Napoli. La vera novità ora è l’entrata in esercizio di Tiburtina a Roma la cui inaugurazione resta ufficialmente fissata per la fine dell’anno nonostante il disastroso incendio di alcuni mesi fa. A Tiburtina in futuro si attesteranno i treni veloci delle Fs e quindi dal punto di vista commerciale e del business è questa la vera gallina dalle uova d’oro dei binari che farà inevitabilmente decadere Termini verso una funzione subordinata e secondaria. Non è ancora chiaro chi riuscirà a mettere le mani su Tiburtina. La gara per l’affidamento della struttura è stata bandita e le Ferrovie hanno fatto sapere che Grandi stazioni non può vantare un diritto di prelazione.

Nel frattempo si sta complicando la faccenda di Ostiense per due motivi. Il primo è che a pochi mesi dalla partenza dei treni veloci di Montezemolo, gli adiacenti parcheggi dell’ex Air Terminal sono occupati dalle tende di centinaia di profughi afghani e le Fs sembrano non preoccuparsene. Le stesse Fs che a Termini e in altre stazioni hanno opportunamente istituito help center per gli emarginati insieme alla Caritas e lanciato il progetto “Un cuore di stazione” insieme all’Enel. L’altro elemento di complicazione sono i lavori di ristrutturazione che da tre anni Centostazioni (60 per cento Fs e 40 diviso tra Save, Manutencoop e Banco Popolare) vorrebbe effettuare, ma che sono rimasti al palo perché mancava l’assenso proprio delle Ferrovie. In questo momento il colonnato e la storica facciata di lastre di marmo sono ingabbiati dalle impalcature e resteranno così per anni.

Ancora non è stata neppure lanciata la gara per l’aggiudicazione dei lavori, poi sarà necessario avviare concretamente gli interventi e se tutto andrà bene ci vorranno mesi se non addirittura anni, appunto, per finire l’opera. É quindi molto probabile che Ntv sia costretta a partire con l’handicap della sua stazione principale fasciata dai ponteggi.

postilla

Esemplare il caso della stazione ferroviaria di Venezia S. Lucia e dell’impero Benetton. Vedi in proposito i due documentati saggi della collana “Occhi aperti su Venezia”, Corte del Fòntego editore, Il ponte di debole costituzione di Nelly Vanzan Marchini e Benettown di Paola Somma

Presentando al consiglio comunale di Cupertino il suo progetto per una nuova sede centrale dell’azienda, il patron di Apple conferma che non sempre all’avanguardia tecnologica corrisponde l’avanguardia in senso lato. Del resto ce lo dicevano già i cartoni dei Pronipoti

Come sanno gli appassionati di fantascienza, fra i mille rivoli in cui si frammenta questo ramo della letteratura contemporanea se ne possono di sicuro individuare due famiglie omogenee, che secondo la cosiddetta legge di Sturgeon si spartiscono la torta nella quota l’una di circa il 10% (la produzione che vale qualcosa), l’altra del 90% (paccottiglia allo stato puro, quando va bene). In sostanza, una piccola parte della narrativa futuristica si pone davvero problemi rilevanti, vuoi di ordine scientifico che sociale, o ambientale ecc., e li sviluppa in modo complesso e articolato cercando di farci riflettere anche sullo stato attuale delle cose. La stragrande maggioranza di ciò che compriamo in edicola, in libreria, o guardiamo al cinema e in televisione, è solo un modo come un altro per rifilarci cose già sentite e banali, travestendole più o meno elegantemente con orpelli insoliti, dai viaggi dentro le astronavi, alla vita dentro a enormi labirinti sotterranei o nelle profondità dell’oceano. Ma come capisce chiunque non basta sostituire al cappello a larga tesa e al cavallo una tuta spaziale e la velocità della luce, per passare davvero dall’avventura western a qualcosa di diverso.

Ce l’hanno insegnato sin da bambini i cartoni dei Jetsons (i Pronipoti) che si può condurre una vita del tutto noiosa e senza particolari sorprese, anche se si abita su una stazione spaziale circondata dalle stelle invece che in una villetta con giardino. Si va con mamma e papà al supermercato il sabato, salvo che i carrelli magari fluttuano in aria e le scatolette hanno forme un po’ strane. Suona il campanello della stazione spaziale, e compare il rompiscatole Sprizzi Sprazzi a cercare di venderci un aspirapolvere atomico, e via di questo passo. Ho provato una sensazione del genere dopo aver visto il breve filmato in cui Steve Jobs, con la solita buona capacità comunicativa, raccontava al consiglio comunale di Cupertino la propria “offerta che non si può rifiutare” in materia di nuova sede degli uffici Apple. Gli argomenti preliminari sono, come si può immaginare, del tutto ovvi: l’azienda cresce “come un’erbaccia infestante” e ormai si è infilata un po’ dappertutto in città, dentro a sedi proprie o meno proprie, moderne e meno moderne. Oggi scoppia, e Jobs premette il classico “vorremmo rimanere qui, dove siamo nati e cresciuti”. Figurarsi cosa ne penserebbero i nostri eroici consiglieri comunali, di veder andar via il fiore all’occhiello tecnologico e occupazionale di tutta la Silicon Valley …

La Apple è qualcosa di molto più che non un gigante dell’high-tech: è un vero e proprio simbolo di post-modernità, tutti i suoi prodotti e anche l’immagine dell’impresa (come ben sa Jobs) contribuiscono a dare il segno alla nostra epoca. Siamo in California, anzi nel cuore socioeconomico e culturale della California, dove si dovrebbero intrecciare al meglio tutte le potenzialità, ad esempio nel rapporto fra ambiente, territorio e attività umane. L’ex Governatore Arnold Schwarzenegger, anche mettendosi contro una parte del suo elettorato Repubblicano, un paio d’anni fa ha varato la cosiddetta SB 375, una legge che sostanzialmente impone di iniziare ad allontanarsi dal modello classico dell’american dream, ovvero un mondo fatto di villette, centri commerciali, autostrade, e centinaia di litri di benzina bruciati e scaricati nell’atmosfera per fare qualunque cosa. Uno dei capisaldi di questo mondo da cui ci si dovrebbe gradualmente allontanare, è il parco per uffici, ovvero la grande concentrazione extraurbana delle sedi di imprese, raggiungibile solo in auto, immersa nel verde, lontanissima dalle abitazioni e da tutto il resto. Apple è impresa virtuale per antonomasia, e invece cosa fa Steve Jobs?

Davanti al consiglio comunale di Cupertino, Jobs racconta la sua storia di adolescente che trova il primo lavoro, tanti anni fa, alla Hewlett Packard, nella stessa città. Oggi quel campus è dismesso, perché l’azienda si è ristretta, e la Apple si è comprata tutti i settanta ettari del terreno … per farci un nuovo office park! Seguono descrizioni dettagliate del concept plan già abbozzato dallo studio dell’archistar Norman Foster, una specie di enorme salvagente di cristallo, che come scherza lo stesso Jobs assomiglia parecchio a un’astronave. Tutto molto ambientalista e tecnologico, massimo risparmio energetico, gestione integrata di luce, acqua, rifiuti, bonifica e ripiantumazione massiccia dei terreni, niente da dire sotto questo profilo. Siamo davvero su un altro pianeta rispetto ai classici general headquarter suburbani delle grandi imprese, di solito costruiti in una logica anni ’60, e che in caso di riuso pongono enormi problemi. Ma rispunta quella vaga sensazione di trovarsi di fronte a un cartone animato dei Pronipoti: tanti spunti avveniristici, stimoli, divertimenti, ma alla fin fine non si esce dal modello che già conoscevamo, ovvero la grande sede suburbana di un’impresa, dove tutti arriveranno “da fuori” nel migliore stile del pendolarismo novecentesco, pur immersi nel verde fino al collo, ma senza alcuna integrazione urbana e sociale.


Le teorie di Richard Florida sulla cosiddetta creative class hanno molti aspetti discutibili, specie quando si osserva nella pratica il tipo di riqualificazione urbana che inducono, con espulsione dei ceti a redditi medio-bassi e relative attività commerciali e di servizio. Questo piallare verso l’esclusività interi quartieri si accompagna però a un percorso parallelo virtuoso: un vero mixed-use spaziale, dove ad esempio le potenzialità delle tecnologie sono sfruttate al massimo per lavorare da casa, dal bar, per spostarsi a piedi, in bicicletta, coi mezzi pubblici, e solo quando davvero serve o se ne ha il desiderio. Ciò consente insediamenti densi, che offrono molti servizi, in una parola centri urbani in senso proprio, del tipo che abbatte le emissioni e che è raccomandato dalla SB375 di Schwarzenegger, contro la crisi energetica e il cambiamento climatico. Invece con il campus a forma di astronave dei Pronipoti voluto da Steve Jobs nell’ex parco per uffici della Hewlett Packard si riproduce un modello di azienda suburbana concentrata classica, nonostante tutte le eccellenze ambientali.


E pensare che tante imprese, come hanno rilevato da anni gli studiosi, spinte anche dalla voglia di ritrovare bacini di manodopera qualificati e concentrati, si stanno ricollocando al centro delle regioni metropolitane, in posti densi, abitati, con tante funzioni composite. I problemi della mobilità, della eventuale dispersione fra sedi diverse, della non costante prossimità fisica nel medesimo edificio, sono cose ormai rese obsolete dalle possibilità delle comunicazioni: per un lavoro qualificato appare assai più importante avere stimoli dall’esterno che trovarsi TUTTI dentro la massiccia sede centrale della multinazionale. E invece, sotto sotto, lo stratega della Apple sembra rifiutare ciò che del futuro non gli piace: lui l’american dream lo preferisce classico, con la partenza dell’automobile dal bianco steccato tutte le mattine, e l’arrivo davanti al modernissimo ufficio una mezzoretta dopo. Che importa se nel frattempo abbiamo riscaldato l’atmosfera coi nostri scarichi, ,quello è un problema secondario, che risolveremo sicuramente con un nuovo modello di iPhone, o tavoletta multi-tutto. Insomma onore al merito, ma come dicono da secoli, diffidiamo dei profeti, anche di quelli che in qualche modo ci azzeccano.

POSCRITTO: oggi 7 ottobre 2011 alcuni osservatori americani commentano, ricordando la presentazione di Jobs al consiglio comunale di Cupertino, che probabilmente la nuova futuristica sede della Apple è da interpretare come grande opera lasciata ai posteri dal visionario imprenditore. Il che non sposta di un millimetro il giudizio, sia mio che di altri, a proposito del modello obsoleto suburbano di riferimento del progetto Jobs/Foster; nella versione dell'articolo su Mall. un paio di links in più (filmato, immagini del progetto, commenti ...)

È una storia da kamasutra del diritto. Un collegio arbitrale interviene come da prassi nel contenzioso tra una società di costruzioni e la pubblica amministrazione. Dà ragione alla società, la Condotte d’Acqua del gruppo Ferfina, ex Ferrocemento, come avviene nel 95 per cento dei casi. La Condotte, privata, è presieduta dall’ex ministro Franco Bassanini, che presiede anche la Cassa Depositi e Prestiti, una delle maggiori casseforti statali.

Il commissario straordinario per la realizzazione dell’opera presenta un esposto alla Procura della Repubblica di Roma, segnalando presunte irregolarità nell’arbitrato. L’Avvocatura dello Stato, a sua volta, impugna l’arbitrato, sostenendo che, dei 38 milioni di risarcimento assegnati, alla Condotte non deve andare neppure un euro. In più la stessa Avvocatura nota che i tre arbitri, chiedendo il pagamento di una parcella da 2 milioni di euro per il disturbo, hanno un po’ esagerato, e sostiene che dovrebbero prendersi non più di 150 mila euro. E qui il cerchio si chiude: sapete chi è il presidente del collegio arbitrale contestato? Sergio San-toro, presidente dell’Autorità di vigilanza sugli appalti pubblici. Santoro, 60 anni, ha il tempo di fare tre lavori insieme: consigliere di Stato, presidente dell’Autorità di vigilanza, libero professionista in grado di svolgere missioni così complesse da farsi pagare per un giudizio arbitrale una parcella di circa 800 mila euro.

Riassunto: un commissario governativo e l’Avvocatura dello Stato agiscono legalmente contro il presidente dell’Autorità di vigilanza sugli appalti per la sua attività privata nel settore degli appalti. Troppo complicato? Vediamo allora la storia nella sua concretezza.

Da trent’anni l’Acquedotto Pugliese vuole realizzare il raddoppio della galleria Pavoncelli, che porta l’acqua dall’Irpinia alla Puglia. Sono già state bandite quattro gare d’appalto. Nei primi tre tentativi fatalmente i lavori si sono interrotti dopo poche settimane, dando luogo a contenziosi. Prima fu la Pontello (oggi Btp, società che fa capo a Riccardo Fusi) a uscire dall’appalto con una risarcimento di oltre tre miliardi di lire. Poi toccò all’Impregilo (allora Cogefar-Impresit, gruppo Fiat) portarsi a casa un assegno da 18 milioni di euro. In tutto 21 milioni di euro pubblici spesi senza ottenere niente, come ricorda l’interrogazione presentata due giorni fa dal deputato Pd Raffaella Mariani.

Adesso in ballo c’è la Condotte. Ha vinto il terzo appalto, ha realizzato lavori per 7 milioni di euro - secondo la denuncia dell’assessore pugliese alle Opere pubbliche, Fabiano Amati - e ha aperto un contenzioso nell’estate del 2009. Il 24 novembre 2009 si è insediato il collegio arbitrale e compie un atto inedito, chiedendo come primo atto un anticipo da 765 mila euro alla Condotte. Quattro mesi dopo lo stesso collegio chiede un anticipo di pari importo al Commissario straordinario Roberto Sabatelli. Il quale non ci sta, chiede un parere all’Avvocatura dello Stato, forse perché chiedendo all’Autorità di vigilanza gli sarebbe venuto da ridere, e gli viene detto di non pagare, perché l’istituto del pagamento anticipato agli arbitri non esiste in nessuna delle migliaia di leggi in materia. Intanto gli arbitri lavorano, e alla fine danno ragione alla Condotte, assegnandole un risarcimento di 38 milioni. A questo punto le carte bollate si arroventano. Il commissario Sabatelli fa partire il quarto bando per la costruzione della galleria Pavoncelli bis, e la Condotte fa ricorso al Tar, ma lo perde. Sabatelli intanto fa altre due mosse: un esposto alla magistratura sull’operato del collegio arbitrale, composto, oltre che da San-toro, dagli avvocati Federico Tedeschini di Roma e Luigi Volpe di Bari; e la richiesta all’Avvocatura dello Stato di impugnare l’esito dello stesso arbitrato. Che non solo assegna alla Condotte un risarcimento da 38,3 milioni di euro, ma accolla alle casse dello Stato anche le spese dell’arbitrato: 1 milione 978 mila euro per i tre membri del collegio e 423 mila euro per il consulente Marco Lacchini che ha redatto la relazione tecnica di 234 pagine. Secondo l’Avvocatura ai tre arbitri non dovrebbero andare più di 150 mila euro. Finora ne hanno già incassati in tutto 979 mila, quindi se il commissario straordinario vincesse dovrebbero restituirne oltre 800 mila.

Beffa finale. Il 15 giugno scorso, pochi giorni prima della nomina di Santoro, il suo predecessore all’Autorità di vigilanza sugli appalti, leggendo la relazione annuale al Senato, ha detto: “Le stazioni appaltanti mostrano una scarsa capacità di gestione degli appalti pubblici che spesso porta ad un prolungamento dei tempi di realizzazione dei lavori nonché ad inasprire il livello di contenzioso”. E che cosa fanno i membri dell’Autorità per ridurre il contenzioso? Gli arbitrati. Il conflitto di interessi elevato a kamasutra.

Quando si dice che tra la Prima e la Seconda Repubblica per gli affari di appalti e mattoni sono più le somiglianze che le differenze… Prendete, per esempio, Piergiorgio Baita. Chi è Baita? Un emerito sconosciuto per il grande pubblico, anche se non per i veneziani e gli esperti del settore delle costruzioni; ma soprattutto un caso da manuale di “continuismo mattonaro”. A Venezia anche l’ultimo dei gondolieri conosce Baita perché quel nome significa impresa Mantovani, cioè edilizia, cioè appalti pubblici, cioè grandi opere, cioè Mose, quel grandioso quanto contestato sistema di dighe mobili che dovrebbe salvare la laguna dall’acqua alta. Per i cultori del mattone, invece, Baita è una delle stelle più luminose del firmamento perché nella graduatoria delle imprese più grosse la sua Mantovani è tra le prime venti.

Esattamente 19 anni fa, piena era Tangentopoli, lo rinchiusero nel carcere di Venezia e poi gli concessero i domiciliari al termine di un interrogatorio durante il quale un altro indagato suo pari, Giorgio Casadei, il portaborse dell’allora ministro e deputato socialista Gianni De Michelis, tenne duro senza aprire bocca, e invece lui, Baita, aprì le cateratte illustrando, come scrissero i giornali di allora, “le logiche di spartizione tra Dc e Psi”.

Il pubblico ministero Ivano Nelson Salvarani riconobbe il suo prezioso apporto: “Ora abbiamo un ampio quadro del contesto politico istituzionale in cui operano Baita e le imprese a Venezia”, dichiarò. Baita non parlava a spanne, le cose che raccontava erano precise perché conosceva bene il sistema dal di dentro. A quei tempi era una quarantenne promessa, direttore del Consorzio Venezia Disinquinamento, concessionario unico dei lavori per la pulizia della laguna. Due anni più tardi, Baita uscì indenne dal processo. I magistrati giudicarono invece colpevoli 7 tra amministratori, manager e politici che con Baita avevano lavorato spalla a spalla. Tra questi Casadei e Franco Ferlin, il portaborse dell’ex ministro democristiano Carlo Bernini, e ancora il presidente democristiano della giunta veneta, Gianfranco Cremonese.

Uno si sarebbe aspettato che dopo una vicenda del genere, Baita avesse rinunciato agli affari edili e agli appalti dicendo addio al mattone, magari per rifarsi un nome, una vita e una carriera in qualche altro campo. Neanche per sogno: dopo aver capito che il passaggio in cella non era un episodio di cui vergognarsi, ma anzi faceva curriculum con i nuovi potenti, si rituffò nel business delle costruzioni gomito a gomito con le aziende e le amministrazioni pubbliche. Quanto e più di prima. C’è da meravigliarsi che a distanza di un ventennio, a 63 anni suonati, il suo nome rispunti in affari border line, questa volta in Sardegna?

La storia è quella del contestato ripascimento del litorale di Poetto, la spiaggia dei cagliaritani, un affare che, secondo una sentenza di primo grado della Corte dei conti, avrebbe procurato alle casse pubbliche un danno di 4,8 milioni di euro. I lavori furono eseguiti nel 2002 da un’associazione di imprese guidate da Baita in qualità di presidente della Mantovani, non a regola d’arte secondo l’accusa. Due anni fa politici e manager coinvolti nella faccenda tirarono un sospiro di sollievo grazie alla prescrizione che sbianchettava i reati contestati e di recente sono stati di nuovo gratificati da una sentenza favorevole della Cassazione. Baita compreso, naturalmente, che per la seconda volta riesce a sfilarsi dai guai e a proseguire imperterrito in una carriera costellata di allori.

Giancarlo Galan, per esempio, politico dell’inner circle berlusconiano, per un quindicennio governatore del Veneto e ora ministro dei Beni culturali, nutre nei confronti di Baita un’ammirazione profonda. Nel libro-intervista dal sobrio titolo Il nordest sono io, scritto da Paolo Possamai, Galan riconosce a Baita un merito storico: “Mi ha spiegato che cos’è il project financing”. Baita ha contraccambiato il complimento nell’autunno del 2009 quando insieme ad altri 11 imprenditori di primissimo piano del Veneto accolse con tutti gli onori Berlusconi in visita e colse l’occasione per tessere davanti a lui le lodi del Gran governatore.

Per il project financing poi, dopo averlo spiegato, Baita lo ha messo in pratica con Galan. Un gruppo di aziende guidate dalla Mantovani ha tirato fuori circa 300 milioni per costruire l’ospedale di Mestre e ora lo gestisce con una società, Veneta sanitaria, di cui Baita è vicepresidente. Ma è il Mose, le paratie della laguna, l’opera epica di Baita e del Consorzio Venezia Nuova (Cnv) di cui la Mantovani è azionista di riferimento. Come vent’anni prima con il Consorzio Venezia Disinquinamento, il Consorzio Venezia Nuova è concessionario unico dell’opera. “Un caso singolare” come lo definisce Felice Casson, un tempo magistrato proprio a Venezia e ora senatore Pd.

Baita non se ne cura. A un giornalista che gli faceva notare che la Mantovani ha in pratica il monopolio delle opere pubbliche in laguna, ha risposto sornione che niente vieta agli altri di farsi avanti. Nel frattempo ha collezionato la bellezza di 72 incarichi, presidente, vicepresidente, amministratore delegato, consigliere in 40 società diverse, in prevalenza consorzi. Più altre tre: consigliere del Passante di Mestre e consigliere e vicepresidente della Nuova Romea, poltrone che secondo le visure camerali sono occupate da un Piergiorgio Baita con lo stesso indirizzo di residenza e la stessa data di nascita, ma con un codice fiscale diverso. Chissà perché.

Il gruppo che fa capo all'imprenditore di Paternò riassume il modello italiano di business nella sua forma più pura: scarsi rischi e alti utili, profitti privati e perdite pubbliche. Dagli esordi immobiliari alla profonda crisi attuale - ignorata dalla Consob dormiente - i numeri di una storia tutta italiana. Postato il 22 ottobre 2010

Premessa

Una delle basi fondamentali della costruzione della finanza moderna, costruzione che ha valso, negli ultimi decenni, a molti degli studiosi che vi hanno contribuito il premio Nobel per l’economia, è quella che correla il rendimento di un investimento al suo livello di rischio: più alto il rischio, più alto deve essere il rendimento, più ridotto il rischio, più ridotto il profitto relativo.

Ma questa massima, evidentemente, è largamente ignorata nel nostro bizzarro paese, dove le grandi fortune si fanno spesso prendendosi rischi bassissimi. Così il modo più semplice e contemporaneamente tra i più redditizi per fare impresa in Italia è di solito quello di avviare un business nel settore delle costruzioni, in particolare sviluppando delle attività immobiliari. Basta essere abili nelle relazioni, essere disposti a trasgredire le regole e collegarsi a qualche politico di peso, coinvolgendo quest’ultimo ed eventualmente il suo partito/corrente/gruppo affaristico, in qualche modo “finanziariamente”, negli specifici progetti da portare avanti. E il gioco è fatto. Si può dire che sulle modalità appena indicate si basa un meccanismo di “accumulazione primitiva” fondamentale dei capitali in Italia.

Se poi qualche cosa in itinere va male, si può ricorrere anche a qualche banchiere di fiducia, che comunque, a suo tempo, colpito dalle loro capacità “imprenditoriali”, avrà già accompagnato i nostri eroi, con ampie linee di credito, nei loro vari progetti.

Il modo più elementare, dal punto di vista operativo, per fare poi dei soldi nel settore è quello, ampiamente noto, di comprare dei terreni agricoli, farseli trasformare in aree edificabili e far poi arrivare i geometri con i camion e le gru. Una ricetta quasi infallibile. Ma le possibili varianti del gioco dei soldi possono essere molte.

Pensiamo che Salvatore Ligresti, forse in questo momento il campione più rappresentativo del settore immobiliare del nostro paese, abbia sperimentato quasi tutte tali varianti nel corso della sua lunga vita. E’ anche giusto che le attuali gravi difficoltà del nostro modello di sviluppo trovino puntuale simmetria nei rilevanti problemi attuali dell’imprenditore siciliano.

La storia

Originario di Paternò, in Sicilia, Ligresti si trasferisce a Milano sul finire degli anni cinquanta. Sulla sua carriera finanziaria aleggeranno a lungo, come del resto su quella di Berlusconi, dei sospetti di legami con la mafia, mai provati anche dopo alcune indagini della magistratura. Nella città lombarda si fa strada con abilità; ad un certo punto stringe i legami con Bettino Craxi, grazie anche al quale negli anni ottanta avviene l’esplosione dei suoi affari, quando, da una parte, diventa il protagonista della grande crescita edilizia della città, mentre, dall’altra, riesce a mettere le mani in maniera avventurosa, dopo anche delle aspre vicende giudiziarie, sulla società di assicurazioni Sai, già di proprietà del gruppo Fiat. Egli stringe presto i suoi legami anche con Enrico Cuccia, mentre è da sempre molto vicino alla famiglia Larussa, anch’essa di Paternò.

Nel 1986 scoppia a Milano lo scandalo delle aree d’oro: Ligresti viene indagato per corruzione, ma alla fine se la cava con delle piccole condanne. Negli anni novanta lo attendono altri e più seri guai giudiziari: coinvolto, tra l’altro, in tangentopoli, l’imprenditore viene condannato a due anni e quattro mesi e va in galera; ma dopo poco tempo, viene scarcerato e affidato ai servizi sociali. Seguiranno altre condanne minori.

Il suo impero imprenditoriale ne soffre molto e una crisi finanziaria lo spinge a cedere una buona parte delle sue attività. Ma poi, nei primi anni a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio, Mediobanca gli da una mano per farlo uscire dai guai. Si tratta peraltro della seconda volta –la prima era stata nel 1989 quando, per liberarlo da qualche problema finanziario, la banca era riuscita a far quotare in borsa la Premafin, la sua capogruppo, a prezzi astronomici. Sempre la banca d’affari milanese arriverà al soccorso una terza volta ancora nel 2010.

E’ del 2002 l’acquisizione di Fondiaria, sempre con l’aiuto determinante di Mediobanca. E’ del 2004, poi, l’ingresso nel patto di sindacato di Rcs. Intanto Ligresti si è alleato con Berlusconi e partecipa quindi da protagonista delle grandi operazioni immobiliari del periodo successivo. Ma egli non manca di fare affari anche in città rette dal centro-sinistra, come Firenze e Torino. Nel 2008, su sollecitazione di Berlusconi, parteciperà all’ operazione Alitalia, insieme ad una serie di imprenditori titolari di business fortemente legati alla politica. Nello stesso 2008 viene indagato dalla procura di Firenze per episodi di corruzione legati ai progetti edilizi della città e nel 2010 viene rinviato a giudizio.

La struttura societaria attuale

Per arrivare a Premafin, il centro nodale della attività del gruppo, bisogna passare attraverso l’intermediazione di molte società. Così i tre figli di Salvatore Ligresti si servono di strutture di diritto lussemburghese, la Hike, la Canoe e la Limbo, attraverso le quali controllano complessivamente circa il 31% del capitale della finanziaria –le percentuali relative ai possessi azionari delle varie società, in questo come nei casi successivamente citati, vanno considerate come approssimative, dal momento che le varie fonti spesso danno delle cifre differenti. Le azioni possedute dalle tre società sono però depositate presso una fiduciaria, la Compagnia Fiduciaria Nazionale. Salvatore Ligresti, invece, attraverso un’altra lussemburghese, la Starlife, controlla totalmente Sinergia, che a sua volta possiede il 60% della Imco; Sinergia e Imco detengono complessivamente circa il 20% della Premafin. Salvatore Ligresti e i suoi figli sono poi legati da un ferreo patto di sindacato e, nella sostanza, comanda soltanto il padre, ormai vicino agli ottanta anni di età.

Ai tre figli, che occupano cariche di presidente, vicepresidente, consigliere, nella varie società del gruppo, vengono riconosciuti rilevanti stipendi e bonus, che ad esempio nel 2008 hanno oscillato tra i 4,6 e i 5,0 milioni di euro per ciascuno; in questo modo, essi estraggono ogni anno rilevanti somme dalle società operative, che, almeno in parte, impiegano poi per rinforzare le basi patrimoniali e finanziarie delle società comprese nella parte alta della piramide. Che i proprietari di un’impresa ottengano dei bonus legati ai risultati annuali appare singolare e una delle tante caratteristiche per così dire “pittoresche” del nostro paese.

L’intero pacchetto del 51% della Premafin in possesso delle varie società della famiglia sarebbe peraltro da molto tempo in pegno alle banche a fronte dei crediti concessi dalle stesse (Pons, 2010).

La Premafin, a sua volta, controlla circa il 47,7% del capitale della Fonsai –un altro 11% è nella mani della stessa Fonsai e della Milano Assicurazioni-, la principale struttura operativa del gruppo, che è anche la seconda entità assicurativa del paese, nata dalla fusione tra Fondiaria e Sai. Con circa 12 miliardi di premi raccolti nel 2009, essa possiede poi partecipazioni, di controllo e non, in molte società di tipo assicurativo, immobiliare, finanziario e vario.

Un’altra società controllata da Premafin, l’Immobiliare Lombarda, partecipa poi al controllo della più grande impresa di costruzioni italiana, la Impregilo; il gruppo Ligresti, il gruppo Benetton e il gruppo Gavio possiedono in effetti insieme, a partire dal 2005, attraverso la Igli –di cui ognuno dei tre soci detiene il 33,3% delle azioni-, il 29,9% del capitale della stessa Impregilo. Il controllo del gruppo è stato a suo tempo rilevato dai tre soci dalla Gemina in difficoltà, grazie, come al solito, anche agli auspici di Mediobanca. Tra gli altri soci di Impregilo si segnalano anche le Generali, con il 3,25% del capitale.

La Premafin detiene inoltre il 5,5% del capitale della Rizzoli- Corriere della Sera, il 5% della Pirelli, il 4,2% di Gemina, il 3,9% di Mediobanca, l’1% di Assicurazioni Generali, lo 0,4% di Montepaschi, lo 0,3% infine di Unicredit. Così la finanziaria costituisce un nodo importante del sistema di equilibri di potere economici e politici del nostro paese, partecipando tra l’altro a numerosi patti di sindacato sulle stesse società sopra indicate. Qui risiede una fonte molto importante, anche se non la sola, del potere di Salvatore Ligresti e della sua sicura ancora di salvezza in caso di difficoltà.

In un tale quadro di riferimento, ovviamente l’interesse di Ligresti per i processi di internazionalizzazione appare molto limitato. Le sue società di assicurazione hanno una proiezione estera che è, nella sostanza, minima e non sappiamo neanche di rilevanti iniziative immobiliari del gruppo in una direzione che non sia nazionale. Importante è invece la dimensione internazionale delle attività di Impregilo, ma essa è preesistente all’ingresso di Ligresti e degli altri attuali soci nella compagine azionaria della società.

Le difficoltà in essere e il loro precario superamento

Nel 2010 Ligresti deve far fronte a quella che appare forse la più grave crisi della sua carriera. La Fonsai, complice la crisi, registra in bilancio 390 milioni di euro di perdite nel 2009 e circa altri 157 nel primo semestre del 2010, dopo aver ottenuto un utile di 620 milioni nel 2007 e di soli 91 milioni invece nel 2008 –la crisi aveva già cominciato a mordere.

Rileviamo, parallelamente, che la società presenta da sempre una struttura finanziaria più consona agli interessi di controllo di Ligresti che a quelli degli investitori (Penati, 2010). Tra l’altro, vi si registra un’incidenza degli investimenti immobiliari – quelli in particolare che Ligresti ha interesse a scaricare sul suo bilancio- sul totale degli impieghi che è molto più alta delle consuetudini del settore. La Fonsai è inoltre obbligata a tenere in bilancio titoli azionari pari al 7% del capitale della controllante Premafin, più altre partecipazioni improprie, mentre essa stessa appare largamente sottocapitalizzata. Intanto la Milano assicurazioni perdeva 140 milioni nel 2009 e 195 nel primo semestre 2010. Parallelamente la Premafin ha presentato un deficit economico di 413 milioni nel 2009 e di un po’ più di 175 nel primo semestre di quest’anno.

Hanno pesato sui risultati delle strutture citate sia il cattivo andamento del comparto assicurativo che di quello immobiliare.

Se la Consob obbligasse Ligresti ad adeguare il valore di carico in Premafin della partecipazione in Fonsai a quello di mercato il colpo sarebbe molto duro, perché significherebbe una minusvalenza di 562 milioni in capo alla controllante. Ma la Consob, organismo che si è dimostrato nel tempo del tutto inutile, si guarda bene dal muovere un dito.

Intanto l’immobiliare Sinergia, che presenta in bilancio un debito intorno ai 300 milioni di euro, non ha pagato le rate che scadevano a giugno 2010 su una linea di credito di 108 milioni concessa da Unicredit e su di una di 30 milioni concessa da GE Interbanca.

Per far fronte a queste ed altre difficoltà Ligresti ha mosso delle pedine su più fronti. Intanto ha sostanzialmente fatto prelevare denaro dalle casse della Fonsai pur in difficoltà per dare ossigeno alle società di famiglia, in particolare alla Imco e alla Sinergia, con buona pace ancora una volta della Consob e degli azionisti di minoranza della stessa Fonsai. In dettaglio, la società assicurativa, mentre è spinta per suo conto a vendere molti immobili per fare cassa e per superare le sue difficoltà interne, viene obbligata ad acquistare società, palazzi e terreni dal suo azionista, tra i quali in particolare l’intero capitale di Immobiliare Lombarda, una catena alberghiera, la Ata hotels, nonché quote dei fondi di investimenti inventati da Ligresti per collocarvi degli altri suoi immobili. Così Ligresti ha venduto con una mano e comprato con l’altra (Oddo, 2010). Inoltre, sempre la Fonsai è obbligata a distribuire un dividendo anche dopo un bilancio così disastroso come quello sopra indicato.

Più in generale, sono arrivati in soccorso dell’amico in difficoltà Unicredit, Mediobanca, Generali, Intesa San Paolo, Mps, Interbanca e compagnia bella.

Così il riassetto finanziario di Sinergia si è fatto da una parte con la cessione alla fondazione MPS di Eurocity sviluppo edilizio per 110 milioni di euro, mentre dall’altra Unicredit ha accettato di ristrutturare il suo credito da 108 milioni di euro in scadenza a giugno 2010.

Un’altra partita difficile è anche avviata alla soluzione. Fonsai possiede attualmente, attraverso la Milano Assicurazioni, il 27,2 % di Citylife, la società titolare del megaprogetto di riqualificazione immobiliare sui terreni dell’ex fiera di Milano; con i suoi 2,4 miliardi di euro di valore esso appare uno dei maggiori progetti nel settore in Europa. Gli altri azionisti di Citylife sono le Generali con il 41,3% e Allianz con il 31,5%. La prima mossa significativa delle Generali sotto la presidenza di Geronzi è stata quella di fornire un paracadute finanziario al gruppo Ligresti (Riva, 2010); l’imprenditore siciliano non appariva in grado di partecipare alla presa in carico della quota del 20% posseduta precedentemente dalla famiglia Lamaro, così acquisite interamente dagli altri due soci; ma soprattutto Ligresti ha potuto accordarsi con Generali su di un’opzione di vendita della sua quota, opzione con scadenza nel settembre 2011.

Sempre Ligresti si è poi attivato per portare avanti, con la complicità dei comuni interessati, diversi progetti minori in Lombardia e si è messo a vendere anche una parte rilevante del suo patrimonio immobiliare, tra cui anche la torre Velasca a Milano.

Nel lungo termine, bisogna considerare che potrebbero diventare molto redditizi i terreni che Ligresti possiede in un quartiere a ridosso dell’area dell’Expo 2015 e che il comune di Milano vorrebbe trasformare in un gigantesco centro direzionale.

Le difficoltà del gruppo, per quanto forse superabili con il tempo, sembra che abbiano comunque risvegliato l’interesse su Fonsai di V. Bollorè, il finanziere francese che è uno dei protagonisti delle vicende Mediobanca-Generali; egli, per il momento, ha acquistato una partecipazione ridotta nella società, ma viene sospettato di essere potenzialmente pronto ad acquisirne il pacchetto di controllo per conto di una società assicurativa francese, la Groupama. Su questo punto ci sarebbero comunque delle discussioni con Mediobanca, che preferirebbe invece una qualche soluzione meno drastica ai problemi strutturali dello stesso Ligresti, soluzione che appare peraltro complessa.

Alla fine, il quadro del gruppo non appare certamente in prospettiva come molto brillante, ma non è da escludere che la famiglia, grazie alle sue abilità imprenditoriali, nonché grazie al supporto di amici e parenti, riuscirà a galleggiare ancora a lungo sulle vicende economiche e politiche del nostro paese.

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Dall'abbigliamento alle autostrade e autogrill. La parabola di un gruppo che ha vissuto una mutazione genetica, partendo da un un business di successo per poi legarsi progressivamente al carro pubblico. E portandosi dietro grossi problemi di indebitamento. Postato il 14 ottobre 2010



Il percorso imprenditoriale della famiglia Benetton appare piuttosto chiaro e abbastanza singolare. I membri della famiglia sono partiti negli anni sessanta con un’idea di business a suo tempo molto innovativa nel settore dell’abbigliamento, idea coronata in un primo periodo da un rilevante successo di mercato e di redditività. Poi, con il tempo, tale attività si è dovuta confrontare con diversi problemi, sia di tipo interno che esterno all’impresa; in particolare, si è manifestata una importante concorrenza, costituita da marchi quali Zara o H & M, che è riuscita a mettere in rilevanti difficoltà la società, superandola per capacità innovativa, volumi di affari e redditività su quasi tutti i mercati, mentre la società incappava anche in alcuni problemi organizzativi. La famiglia non è stata in grado di reagire rinnovando ed adeguando la sua offerta nel settore in misura adeguata, le vendite complessive della società non sono più cresciute, i risultati economici si sono ridimensionati. Nel frattempo, nuovi concorrenti si profilano all’orizzonte.

Così, ad un certo punto, i membri della famiglia hanno deciso di ridurre il peso delle attività in cui c’era da confrontarsi tutti i giorni con il mercato e con la concorrenza e di trasformarsi invece sostanzialmente in rentier. Ecco allora l’acquisizione, secondo alcuni avvenuta a prezzi di favore, di Autostrade e di Autogrill dallo Stato, per di più scaricando i debiti fatti almeno per l’ acquisizione di Autostrade sulla stessa impresa acquistata, mentre verranno poi anche, con il tempo, le stazioni e gli aeroporti; ecco anche la partecipazione a molte avventure di interesse del potere politico da una parte, gli stretti legami con la fortezza Mediobanca dall’altra. (sulla storia e i conti di Autostrade, si veda anche l' articolo di Anna Donati su questo sito).

Oggi siamo davanti ad un gruppo di grandi dimensioni, molto articolato, ma anche altamente indebitato, mentre esso presenta una redditività complessiva piuttosto scarsa e mentre le sue sorti sono affidate, almeno in parte, alla benevolenza dei potenti di turno. La crisi di questi anni ha contribuito comunque a frenare i suoi volumi di attività e le sue prospettive.

La struttura societaria

Nel 2009 il gruppo Benetton ha fatturato in tutto circa 11,3 miliardi di euro a livello mondiale. Lo ha fatto attraverso un grande numero di società operanti in molti settori e in molti paesi, anche se le attività possono essere fatto risalire sostanzialmente a tre business.

La struttura societaria ha visto numerosi e anche radicali cambiamenti nel tempo, sia per l’ingresso e l’uscita quasi continui nel sistema di numerose imprese, sia per i mutamenti dettati dallo sviluppo stesso delle varie attività e anche da considerazioni di altro tipo, ad esempio mutamenti di strategia e anche “affinamenti” di tipo fiscale.

Essa vede oggi al primo livello di governo la capogruppo Edizione srl, controllata interamente dalla famiglia Benetton. Tale società, a sua volta, possiede dei pacchetti azionari di grande rilievo in un gran numero di altre entità, suddivisibili per comparti di attività:

1) nel settore del tessile-abbigliamento, il business storico della famiglia, troviamo in particolare il Benetton group, di cui Edizione srl possiede il 67,08% del capitale e che a sua volta da origine ad una miriade di società sparse per il mondo;

2) nel campo della ristorazione, la capogruppo controlla il 100% del capitale della società Schema 34 srl, che possiede poi il 59,28% di Autogrill, di nuovo con molte società del settore sotto il controllo di quest’ultima;

3) nel comparto delle infrastrutture e dei servizi per la mobilità, Edizione srl da origine a tre sottogruppi di società.

Essa detiene intanto il 79,06% del capitale di Sintonia sa, che controlla al 100% la società Schema 28 spa, che a sua volta possiede, insieme alla stessa Sintonia sa, il 38% del capitale di Atlantia spa; la Atlantia detiene a sua volta il 100% del capitale di Autostrade per l’Italia, nonché l’8,85% di Alitalia; infine, Autostrade per l’Italia possiede il 33% della IGLI spa - gli altri soci, il gruppo Ligresti e quello Gavio, detengono ciascuno una quota analoga-; la IGLI, a sua volta, controlla il 29,87% del capitale di Impregilo.

Sempre Sintonia sa controlla il 100% di Investimenti infrastrutture spa, che, insieme alla stessa Sintonia sa, possiede il 30,23% delle azioni di Gemina, al cui capitale partecipano anche, tra l’altro, con quote variabili, Mediobanca, il gruppo Ligresti, Assicurazioni Generali, Unicredit; Gemina detiene a sua volta il 95,76% del capitale di Aereoporti di Roma; Sintonia possiede poi ancora il 24,38% della Sagat, i cui azionisti di maggioranza sono gli enti locali piemontesi –Regione, Provincia e Comune di Torino- e che controlla le attività degli aereoporti di Torino e di Firenze;

Infine, infine Edizione srl detiene direttamente il 32,71% del capitale di Eurostazioni spa, partecipata con eguali quote anche dalla Pirelli & C. e dal gruppo Caltagirone; la Eurostazioni possiede poi il 40% di grandi Stazioni spa, mentre il restante 60% è controllato dalle Ferrovie dello Stato;

4) nel settore immobiliare e dell’agricoltura, la capogruppo ha in mano il 100% di Edizione Property spa, che detiene a sua volta il 100% di Maccarese spa, titolare poi del 100% del capitale di Cia de Terras Sud Argentino sa;

5) Edizione srl ha anche in bilancio una serie di altre partecipazioni molto preziose perché fanno parte, nella sostanza, del suo sistema di relazioni con il mondo della finanza e dell’imprenditoria nazionale, relazioni che sono essenziali al perseguimento dei suoi interessi e che ruota intorno al gruppo di potere organizzato intorno a Mediobanca; segnaliamo, in particolare, lo 0,945% del capitale di Assicurazioni Generali, il 2,16% della stessa Mediobanca, il 4,77% di Pirelli & C., il 5,7% di RCS, il 2% di Il Sole 24 Ore, il 2,24% di Caltagirone Editore, il 7,94% di Banca Leonardo; la società partecipa poi ovviamente ai vari patti di sindacato messi in piedi da Mediobanca per puntellare gli equilibri di potere delle varie entità;

6) in una categoria a parte possiamo inserire il pacchetto di controllo – con il 58,99% delle azioni- posseduto da Edizione srl nella di 21 Investimenti spa, una delle più importanti società europee di privateequity, che è stata costituita a suo tempo da Alessandro Benetton, uno degli eredi, apparentemente il più dinamico, della dinastia familiare;

7) tralasciamo per brevità le società operanti nel settore sportivo.

Per completezza informativa, va ricordata l’avventura Telecom Italia. Nei primi anni del nuovo millennio i Benetton si inseriscono in misura importante nell’azione di conquista da parte di Tronchetti Provera del pacchetto di controllo della società telefonica. Ma il gruppo di intervento sarà obbligato nel 2007, di fronte alle difficoltà e ai pessimi risultati della sua gestione, a lasciare la presa e si dovrà ritirare riportando gravi perdite. Ricordiamo anche di sfuggita i tentativi, anch’essi poi abbandonati, di inserirsi nel settore delle attrezzature e dell’abbigliamento sportivo ed anche in quello della grande distribuzione.

Dati ed informazioni di base sul gruppo

Dunque il gruppo ha fatturato nel 2009 circa 11,3 miliardi. Tale importo si concentra intorno a tre poli di aggregazione, il Benetton Group, con circa 2,0 miliardi di euro di cifra d’affari nello stesso anno, il raggruppamento Atlantia con circa 3,6 miliardi e Autogrill con 5,7.

Dal punto di vista settoriale, il polo della ristorazione pesa per il 51,3% del fatturato totale, le infrastrutture e servizi per la mobilità per il 30,1%, il tessile-abbigliamento per il 17,7%; lo 0,9%, infine, fa riferimento ad attività residuali.

Sempre nel 2009, sul fronte della distribuzione geografica, il 50,6% dei ricavi del gruppo si collocano in Italia, il 27,4% nel resto d’Europa, il 16,8% nelle Americhe, il 5,2% residuo nel resto del mondo. Da questo punto di vista il gruppo appare fortemente concentrato sul nostro paese e, più in generale, sul nostro continente.

Per quanto riguarda la redditività complessiva, l’utile netto appare molto limitato nel 2008 e uguale a 196 milioni di euro, cifra pari all’1,7% del fatturato, per poi scendere ad appena 104 milioni nel 2009, lo 0,9% delle vendite. Per la verità, il reddito operativo della società appare abbastanza più sostenuto, collocandosi nel 2009 intorno ai 2,1 miliardi di euro, importo pari a quasi il 19% del fatturato; ma poi gli oneri finanziari pesano per circa il 6% della cifra d’affari e qualche punto ulteriore viene sottratto anche dalle perdite su partecipazioni, in parte strascichi dell’avventura Telecom. A questo punto, all’utile ante-imposte, ancora abbastanza importante nonostante tutto e pari a circa 1,2 miliardi di euro, bisogna sottrarre il carico fiscale, molto rilevante e pari al 5,5% del fatturato, nonché la quota di utile di pertinenza degli azionisti terzi, che si portano a casa 455 milioni di euro, ben più della famiglia e così alla fine l’utile netto scende alle dimensioni sopra ricordate.

Accanto alla limitata redditività bisogna ricordare, come sopra accennato, il molto alto livello dell’indebitamento complessivo. Esso appare sostanzialmente identico come importo alla fine del 2008 e del 2009 e pari a 14, 1 miliardi di euro, con un rapporto uguale al 173,0% rispetto ai mezzi propri, al 124,8% rispetto al fatturato del 2009, a 4,5 volte rispetto al reddito operativo prima degli ammortamenti (Ebitda), sempre per il 2009. L’esposizione appare fortemente concentrata in valori assoluti sul gruppo Atlantia ed essa è da mettere in gran parte in relazione con i debiti fatti a suo tempo per acquisire Autostrade per l’Italia, debiti poi scaricati sulla stessa società. Tale livello fa molta fatica a scendere nel tempo ed esso appare come una delle più serie ipoteche al futuro del gruppo.

Per la verità, c’era stato qualche anno fa il tentativo di sbarazzarsi del problema vendendo il settore autostradale agli spagnoli, ma la questione è stata portata avanti in maniera forse non brillante e si sono sviluppati dei problemi che hanno portato al fallimento del tentativo. Tra l’altro, i Benetton hanno cercato di vendere agli iberici senza aver portato avanti gli investimenti a suo tempo concordati col governo al momento della privatizzazione (Astone, 2009).

L’andamento dei principali business

Benetton. Dopo i rilevanti successi dei primi decenni, il marchio Benetton appare da molto tempo abbastanza in affanno. Così, intorno alla metà degli anni 2000 i bilanci hanno dovuto registrare delle perdite. Poi la situazione è migliorata, grazie anche ad interventi abbastanza decisi su molti fronti, da quello dell’organizzazione della rete di vendita a quello della riduzione dei costi degli approvvigionamenti, ma non si è veramente verificata la svolta netta che sembrava necessaria. Comunque, soprattutto sul mercato statunitense e sostanzialmente anche nei paesi europei, sia pure in misura più ridotta, l’azienda appare ancora in rilevante difficoltà e le vendite tendono a crescere, anche se lentamente, soltanto nei paesi emergenti, dove si sta portando avanti un importante allargamento della rete distributiva.

Guardando alle cifre degli ultimi cinque anni, appare evidente una sostanziale staticità di tutti gli indicatori. Il fatturato era pari nel 2005 a 1,8 miliardi di euro e nel 2009 ci si ritrova soltanto con un leggero incremento a 2,0 miliardi, mentre l’utile netto oscilla, di anno in anno, tra i 100 e i 155 milioni di euro –anche gli indici di redditività appaiono sostanzialmente costanti- e mentre il capitale netto è fermo dal 2005 ad oggi a 1,3/1,4 miliardi di euro. I dati di redditività del primo semestre del 2010 appaiono in discesa, mentre quelli di qualche concorrente come Inditex-Zara sono invece molto più incoraggianti.

Per completezza di informazione, si può ricordare che i ricavi suddivisi per area geografica registrano negli ultimi anni una percentuale del 47/48% sul totale per l’Italia, del 34/36% per il resto d’Europa, un risibile 3% per le Americhe ed un 17% per il resto del mondo.

Non si vede al momento come l’azienda possa uscire dal sostanziale impasse strategico in cui si trova. Significativamente, si parla da tempo di una possibile cessione del business, plausibilmente ad una delle tre grandi società del settore, la statunitense Gap, la spagnola Inditex-Zara, la svedese H&M; ma tale cessione sarebbe peraltro contrastata da una parte della famiglia.

Atlantia. Un concreto tentativo di cessione c’è stato qualche anno fa, come già accennato, per quanto riguarda invece il settore autostradale, ma esso è finito poi nel nulla. Le attività che fanno capo ad Atlantia spa, di cui la parte più significativa è costituita da Autostrade per l’Italia spa, presentavano complessivamente ricavi per 3,6 miliardi di euro nel 2009 contro i 3,5 del 2008. Il raggruppamento gestisce circa 3400 chilometri di autostrade nel nostro paese e circa 900 in quelli esteri. Per quanto riguarda questi ultimi, si tratta di concessioni ottenute in Cile, Polonia, Brasile, India –quattro concessioni, tre continenti-, apparentemente quindi senza un piano organico di penetrazione di specifici mercati, ma sfruttando le occasioni che si presentavano di volta in volta in giro per il mondo. Si ha una sensazione di grande dispersione degli sforzi.

Sul fronte economico, il settore sembra godere di un’elevata redditività –gli utili netti sono pari a circa 0,7 miliardi di euro sia nel 2008 che nel 2009, nonostante i rilevanti oneri finanziari che la gestione deve sopportare in relazione all’elevatissimo indebitamento cui abbiamo fatto cenno sopra; tali oneri sono e pari a ben il 13,9% dei ricavi nel 2008 e addirittura al 14,9% nel 2009.

La redditività sostenuta potrebbe presumibilmente essere legata a dei do ut des importanti con i pubblici poteri, essendo la fissazione delle tariffe e delle altre condizioni di sfruttamento delle concessioni in mano a questi ultimi. Questa possibilità sembra plausibile nel nostro paese, dove il gruppo Benetton appare sempre pronto a partecipare alle iniziative sponsorizzate dal governo –si veda ad esempio la vicenda Alitalia- e, nel settore finanziario, ad essere parte organica dell’asse Mediobanca-Generali, in cui appare sempre più ingombrante la presenza di Cesare Geronzi, il punto di collegamento tra Berlusconi e la finanza.

Autogrill. Neanche del raggruppamento Autogrill si può dire che esso navighi nell’oro.

Primo operatore al mondo per quanto riguarda i servizi di ristorazione e retail per chi viaggia, il suo fatturato per il 2009 è stato pari complessivamente a circa 5,7 miliardi, in leggera riduzione rispetto alle cifre dell’anno precedente. La rilevante diversificazione geografica e settoriale – le attività del raggruppamento si possono suddividere nei tre comparti della ristorazione, del retail aeroportuale e della fornitura di servizi di catering a bordo degli aerei - hanno apparentemente permesso di limitare i danni in un settore che ha risentito abbastanza della crisi.

Il comparto della ristorazione appare quello più importante ed esso raggiunge nel 2009 il 64,5% del fatturato totale del settore. Le cifre disponibili indicano una diversificazione geografica molto ampia raggiunta con il tempo dal raggruppamento, partendo dalla sola base italiana.

I risultati economici non appaiono particolarmente brillanti, con un utile netto per il 2008 di 84 milioni di euro, pari all’1,4% del fatturato e di soli 37 milioni nel 2009, con un’incidenza sulla cifra d’affari pari allo 0,6%.

Il livello di indebitamento non appare elevato in valore assoluto come quello di Atlantia –esso si situa intorno ad 1,9 miliardi di euro alla fine del 2009, contro i 2,1 miliardi della fine dell’anno precedente-, ma esso risulta comunque rilevante se lo confrontiamo con i mezzi propri dell’azienda.

Conclusioni

Il gruppo Benetton ha subito già da parecchio tempo una grande mutazione genetica, trasformandosi da un’entità che operava su di un mercato competitivo in una invece almeno parzialmente legata al carro pubblico. Questa trasformazione, che ha comunque molto accresciuto le dimensioni complessive dello stesso gruppo, non ha però permesso di risolvere i problemi economici e finanziari precedenti, ma anzi ne ha creati di nuovi ed ha legato molto più di prima le sorti aziendali, almeno in parte, alla volontà di governi e di banche. Così oggi i vari business non presentano una situazione brillante sul piano strategico, economico e finanziario. In particolare il settore tessile-abbigliamento sembra avere problemi strategico-organizzativi, Atlantia invece soprattutto di tipo finanziario, mentre Autogrill si ritrova con una scarsa redditività ed anche di nuovo con problemi di indebitamento elevato. La crisi degli ultimi anni ha certamente contribuito ad accrescere le difficoltà di prospettiva di un gruppo in cui esse erano già prima presenti in misura rilevante. Può darsi che il ricambio generazionale, che dovrebbe toccare in maniera più decisa la famiglia Benetton nei prossimi anni, possa portare a qualche colpo d’ala che è difficile attendersi oggi da degli imprenditori forse troppo appesantiti dalle esperienze anche difficili incontrate su vari fronti negli ultimi decenni.

Testo citato nell’articolo

Astone F., Gli affari di famiglia, Longanesi, Milano, 2009

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