loader
menu
© 2024 Eddyburg

«Nuova finanza pubblica . Si utilizza lo shock del debito per scaricarne i costi sugli enti locali e sulle comunità territoriali allo scopo di costringerle alla privatizzazione dei beni comuni». il manifesto 29 aprile 2017 (c.m.c.)

L’attacco alla funzione pubblica e sociale degli enti locali prosegue senza soluzione di continuità. D’altronde, è nella disponibilità dei Comuni la ricchezza sociale cui da tempo mirano i grandi interessi finanziari e immobiliari: territorio, patrimonio pubblico, beni comuni e servizi.

Una ricchezza, quantificata a suo tempo dalla Detsche Bank in 571 miliardi di euro, da mettere sul mercato attraverso la trappola del debito e la gabbia del patto di stabilità e del pareggio di bilancio.

Che il debito per i Comuni sia una trappola risulta evidente da un dato: nonostante l’apporto degli stessi al debito complessivo del paese non superi il 2% (dati Anci 2017), il contributo richiesto ai Comuni – tra tagli ai trasferimenti e patto di stabilità – è passato dai 1.650 miliardi del 2009 ai 16.655 miliardi del 2015 (dati Ifel 2016). Ovvero, si utilizza lo shock del debito per scaricarne i costi sugli enti locali e sulle comunità territoriali allo scopo di costringerle alla privatizzazione dei beni comuni.

Un dato è ulteriormente significativo: la spesa per il servizio al debito – gli interessi – copre in media il 12% della spesa corrente dei Comuni, con punte del 25% negli enti locali medio-piccoli. Si riducono drasticamente i servizi, in particolare alle fasce deboli della popolazione, per onorare con inusitata efficienza le date di scadenza degli interessi sul debito.

Senza porsi almeno due domande fondamentali. La prima: perché gli interessi sul debito continuano a essere così alti quando il costo del denaro per il sistema bancario è a tasso quasi negativo? Si dirà: sono mutui contratti molto indietro nel tempo e dunque con tassi di interesse non attuali. Logica dunque vorrebbe che gli enti locali, invece di pagare interessi da usura sottraendo risorse agli abitanti delle comunità, si ribellassero collettivamente e chiedessero una drastica ristrutturazione dei mutui contratti.

La seconda: perché se la grandissima parte dei mutui è stata contratta con Cassa Depositi e Prestiti, non si richiede con forza un intervento del governo che riporti Cdp alla sua vecchia funzione, ovvero quella di utilizzare il risparmio postale per finanziare gli investimenti degli enti locali a tassi agevolati? Si dirà: perché Cdp nel frattempo è diventata una società mista pubblico-privata (con all’interno le fondazioni bancarie) ed opera come un soggetto di mercato. Logica dunque vorrebbe che si rivedesse radicalmente quella scelta nefasta.

Niente di tutto questo sta avvenendo. Al contrario, ecco la grande novità contenuta nella «manovrina» in discussione in Parlamento: arrivano gli sponsor.

I Comuni non possono assumere personale? Bene, se trovano uno sponsor privato che ne paga lo stipendio potranno farlo. Naturalmente, «senza pregiudicare le funzioni primarie degli enti locali, ma solo per prestazioni aggiuntive» si precisa. Ora, a parte l’utilizzo della funzione lavorativa pubblica come operazione di marketing commerciale, sappiamo bene come, abbassata anche questa asticella della soglia d’ingresso ai privati, sarà un attimo saltarla e privatizzare la gran parte delle prestazioni lavorative comunali.

Viene spontanea una domanda finale: se tutti i servizi pubblici sono stati privatizzati attraverso le Spa e se si iniziano a privatizzare persino le prestazioni lavorative comunali, a che serviranno i sindaci? Niente paura, a loro hanno già pensato Minniti e Orlando: una stella sul petto, un vigile urbano con pistola nella fondina al fianco, e via per la città alla ricerca di mendicanti, marginali, profughi o semplicemente poveri. D’altronde, è il «decoro» la vera funzione pubblica e sociale dei Comuni.

Finché non tornerà soffiare, territorio per territorio, la ribellione.

Continua a trasformarsi in Italia il sistema dei poteri: è la volta dell'unificazione di due monopoli privati, le ferrovie e le strade. Un pezzo alla volta si costruisce un nuovo Leviatano: la differenza è che è privato, non pubblico. la Repubblica online, 13 aprile 2017, con postilla

Semaforo verde al matrimonio tra Ferrovie dello Stato e Anas. Il primo via libera all'operazione di incorporazione della società che gestisce la rete stradale e autostradale - confermano fonti del governo - è arrivato nel consiglio dei ministri di questa mattina. Anas diventerà così una delle controllate del gruppo Fs e le azioni verranno trasferite a Ferrovie dello Stato. La norma che regola l'operazione - ha detto il ministro dei trasporti Graziano Delrio - è presente nel decreto di correzione dei conti che ha accompagnato la presentazione del Def. I ministeri avrebbero trovato un'intesa su uno dei punti che in questi mesi hanno bloccato la fusione, quella dei maxi contenziosi che pesano sul bilancio della società, attraverso l'autorizzazione di un piano triennale di definizione in via bonaria dei pendenti con l'accantonamento di riserve per 700 milioni di euro.

Un altro snodo fondamentale per il buon esito del matrimonio è che la norma permetta alla nuova entità di rimanere al di fuori del perimetro della Pubblica amministrazione, in modo da non sovraccaricare il debito che verrà contratto per gli investimenti sul bilancio dello Stato. Perché ciò sia assicurato, serve il placet di Eurostat (che “bollina” i grandi numeri del bilancio pubblico) ma sembra che su questo fronte siano arrivate le sufficienti rassicurazioni.

Con l'operazione, il nuovo soggetto avrebbe un fatturato di 10 miliardi di euro, una capacità di investimenti di 7 miliardi di euro e immobilizzazioni per circa 60 miliardi di euro Il nuovo soggetto avrebbe inoltre 75 mila dipendenti e 41 mila chilometri di reti gestite.

postilla

I liberali veri (alla Luigi Einaudi, se questo nome dice qualcosa agli abitanti di questo secolo) avevano idee molto chiare sulla concorrenza, sui servizi pubblici e sul monopolio. In sintesi, se c’era un bene o un servizio che non poteva non essere gestito in regime di monopolio (come una risorsa naturale scarsa e rara, o un servizio pubblico essenziale) il monopolio non doveva essere lasciato in mano a privati, ma doveva essere della nazione (dello Stato). Non sostenevano questo per ragioni ideologiche nè ideali, né parchè fossero “di sinistra”, ma per ragioni strettamente economiche: se un monopolio è in mano a privati la loro posizione li indurrà fatalmente a estorcere ai consumatori una “rendita”, cioè un sovrapprezzo, possibile grazie non a un’attività imprenditiva, ma solo alla loro posizione dominante. I liberali alla Einaudi si riferivano a singoli settori dell’attività di produzione o di servizio: per esempio, le ferrovie, o le comunicazioni telegrafiche ma oggi si parla d’altro: dell’unificazione di due grandi monopoli già privati: le ferrovie e le strade.
La decisione del governo Gentiloni è efficacemente sintetizzata dai due giornalisti quando affermano candidamente che «lo snodo fondamentale per il buon esito del matrimonio è che la norma permetta alla nuova entità di rimanere al di fuori del perimetro della Pubblica amministrazione». Ora la “nuova entità" è l’unificazione d due settori portanti delle comunicazioni terrestri, già debitamente privatizzati. Non è necessario galoppare con la fantasia per comprendere quali legami si costituiranno con il trasporto aereo e marino, con le telecomunicazioni via etere, le radioteletrasmissioni, gli altri rami della formazione e informazione, e poi giù giù fino alla salute e all’assistenza
L’immagine hobbesiana del Leviatano si affaccia prepotente, ma senza la correzione della democrazia rappresentativa. Il “sovrano” che dominerà ogni cosa non sarà il risultato di un pur insufficiente sistema istituzionale basato sul voto degli elettori, ma un gruppo di una ventina di persone sconosciute che da un un nuovo Olimpo collocato nella “infrastruttura globale” decidono giorno per giorno come deve svolgersi la vita quotidiana della moltitudine di cui facciamo parte.

«L’affermarsi di concetti quali “pianificar facendo” delegittimava fino al sospetto di ideologismo il tecnico legato ai valori del territorio. Oggi le evidenti difficoltà del campo richiedono un “passaggio di fase”». La città invisibile, 25 gennaio 2017 (c.m.c.)

1.1 La recente ripresa di interesse sul campo elaborativo “particolare” costituito dalla penetrazione e dai condizionamenti della criminalità organizzata su politiche e pratiche urbanistiche e territoriali si può collegare certo agli studi diversificati che stanno osservando le crescenti distorsioni dei processi di governance della cosa pubblica (Gallino, 2012; Bevilacqua, Agostini, 2016; Barbieri, Giavazzi, 2014).

Tra gli effetti spaziali, possono annoverarsi i frequenti episodi di corruzione che stanno caratterizzando la gestione di progetti e programmi territoriali, specie nel nostro paese. Non solo per quanto riguarda i continui scandali che investono e stravolgono il comparto delle grandi opere, ma più in generale per le contraddittorie problematicità che segnano molte attività di trasformazione dell’uso dello spazio.

Tutto ciò può significare un sostanziale fallimento di azioni e strategie tipiche della fase precedente di “urbanistica concertata”, contrassegnata spesso dalla presenza di piani tanto “straordinari e complessi” quanto sovente “singolari ed anomali”. Ciò che può evidenziarsi non solo dagli effetti ambientali, in termini di consumo di suolo, distruzione di paesaggio, inquinamenti crescenti, perdita di funzioni territoriali essenziali, e da quelli economico-finanziari, per spreco di risorse e indebitamenti fino al default dei soggetti gestori; ma anche dalla presenza pressoché costante, di fenomeni di corruttela.

Altre discipline, dalla sociologia agli studi giuridici e politici, hanno evidenziato come elemento distintivo (Barbieri, Giavazzi, cit.; Sciarrone, 2009; Mattei, 2013) assai frequente nella distorsione della governance la presenza di criminalità organizzata, mafia ‘ndrangheta o camorra a seconda delle diverse realtà regionali italiane. Si tende sovente a “esasperare le semplificazioni” delle procedure di gestione, fino all’illegittimità e appunto all’illegalità, segnate da rilevanti processi di corruzione, ma spesso concertati con quegli interessi “speculativi speciali” rappresentati dalle soggettività citate.

1.2 La problematicità delle vicende urbanistiche della fase ha contribuito a rilanciare oggi le concezioni più legate alle dimensioni “etiche e valoriali” dell’urbanistica (Magnaghi, 2010; Berdini, 2011; Salzano, 2003), che sembravano di recente riposte sullo sfondo dalle capacità pragmatiche della governance. L’affermarsi di concetti quali “pianificar facendo” o “piano come trading zone” delegittimava fino al sospetto di ideologismo il tecnico legato ai valori del territorio. Oggi le evidenti difficoltà del campo richiedono un “passaggio di fase” o come si diceva un tempo un “cambio di paradigma”: nuovi approcci, contenuti, linguaggi. Con la difficoltà ulteriore dell’accentuarsi di un certo ritardo istituzionale, che ne esaspera gli aspetti critici; specie nel cogliere limiti e contraddizioni di approcci e prospezioni affermatesi nel passato recente, e quindi nella capacità di individuare i momenti per una svolta (Magnaghi, cit.; Bevilacqua, 2011).

Peraltro non sono solo l’analisi di campo e le dialettiche disciplinari a favorire l’elaborazione sulla “deterritorializzazione di stampo mafioso”; anche vicende che hanno contrassegnato le pratiche professionali dell’urbanistica spingono in tale direzione. I problemi di tecnici operanti nelle zone storicamente “ad alta densità criminale”, come quelli di coloro che esercitano nelle aree – anche settentrionali – di penetrazione più recente, sono passati dalla cronaca giudiziaria alla pubblicistica specifica (De Leo, 2015). Qualche tempo fa il caso di Marina Marino, professionista di consolidata expertise nella “bonifica” e nell’amministrazione di enti territoriali a forte rischio di presenza criminale – o addirittura di comuni sciolti per mafia –, ha scosso tra gli altri, una parte della comunità disciplinare (Cornago, 2014) e favorito ulteriore allargamento ed approfondimento del lavoro su tale terreno.

1.3 Oggi questo filone elaborativo presenta intenso fermento: ricerche tipiche di sede si coordinano fino a formare Osservatori di livello nazionale. La pubblicistica disciplinare dedica crescente spazio al tema. I dottorati – oltre che le tesi di laurea – che continuano ad essere sensori delle traiettorie innovative della ricerca, dedicano attenzione ad esso. Peraltro, seppure con molta discontinuità e spesso senza la necessaria tensione, la questione dei condizionamenti della criminalità organizzata rispetto alle pratiche è presente nell’elaborazione urbanistica da più di una trentina d’anni.

Certo, fino al recente passato, essa non ha rappresentato un tema “individuato e dichiarato”, quanto piuttosto la ricaduta, pure rilevante, di istanze analitico-programmatiche tese alla lettura ed all’azione su problematiche specifiche; che caratterizzavano nelle diverse fasi parti del territorio nazionale: abusivismo, consumo di suolo, infrastrutture, gestione dei rifiuti; o percorsi di indagine su comparti e categorie sostantivi per l’assetto, come le grandi opere, le ricostruzioni post disastri sismici o idrogeologici, i grandi progetti turistici, i centri commerciali, le attrezzature speciali (Sberna, Vannucci, 2014).

1.4 Nell’articolo si tenta un prospetto di geografia della “deterritorializzazione di stampo mafioso”, incrociando tre traiettorie evolutive, cronologica, spaziale e tematica. La storicizzazione di quest’ultima permette forse di rischiarare anche le altre.

Le prime tracce di presenza criminale si registrano oltre trent’anni fa nell’ambito di ricerche che osservano “l’edilizia spontanea” che degenera in abusivismo, un fenomeno dapprima tipicamente meridionale, ma presto colto come rilevante, oltre che nelle tre regioni ad alta densità criminale, in altre parti del paese, per esempio Roma (Fera, Ginatempo, 1985; Costantino, 2001).

Nel corso degli anni ottanta, il crescente interesse per l’impatto ambientale di grandi attrezzature ed infrastrutture, di trasporto, energetiche, di gestione dei rifiuti, permette di scoprire il ruolo costante e crescente fino alla dominanza, della criminalità organizzata (Arlacchi, 1983; Piselli, Arrighi, 1985; Sciarrone, 2009), che si era già vista all’opera nella costruzione post-sismica del Belice, ed emerge, più nettamente nel caso dell’Irpinia. Le Colombiadi, i Mondiali del ’90, le grandi opere di fine Prima Repubblica, favoriscono gli incroci tra “Tangentopoli e Mafiopoli” (Arlacchi, cit.; Bocca, 1992).

Talora queste costituiscono occasioni di nuove colonizzazioni criminali di territori che prima non avevano mai conosciuto tali fenomeni, o quasi (Giorgio Bocca, cit., oltre ad Arlacchi, ricorda come il rapimento di Paul Getty negli anni ’70 servì ad assicurare alla ‘ndrangheta di Gioia Tauro le risorse utili a pagare a Fiat Iveco i camion con cui si sarebbero eseguiti i primi movimenti di terra per il costruendo porto industriale. In seguito a quell’affare la famiglia dei Mazzaferro, collegata alle cosche della piana di Gioia Tauro, subappaltava i lavori dell’ampliamento del villaggio-Juventus a Villar Perosa, “aprendo” così le attività in Piemonte).

Ma l’affermarsi dell’emergenza rifiuti, insieme alla sostanziale dominanza del settore dell’escavazione, sul finire del secolo, illumina la capacità mafiosa di controllo su intere filiere, fino all’intero ciclo, dall’accaparramento dei terreni, alle fasi di raccolta e movimentazione, alla posa in discarica e alla sua gestione, o all’incenerimento. La retorica di Gomorra (Sales, 2014).

Ma altri grandi eventi e attrezzature permettono, qualche tempo dopo, la “diffusione nazionale” di mafia ‘ndrangheta e camorra: in primis l’alta velocità, ma anche l’aumento dei grandi centri commerciali e dei distretti turistico- commerciali. Ambiti che permettono tra l’altro alla criminalità di controllare anche l’intero ciclo del cemento in contesti centro-settentrionali, come già avveniva in molte aree del sud. Le opere della Legge Obiettivo negli anni più recenti sono state contrassegnate da scandali a forte intensità di corruzione e criminalità (Barbieri, Giavazzi, cit.; Imposimato, 1999).

La crisi economico-finanziaria, con i limiti alla spesa pubblica, ha clamorosamente ampliato le possibilità di manovra della criminalità: spesso soggetto prioritario, se non unico, a disporre della liquidità necessaria a sostituire la precedente capacità di spesa pubblica. Il crescente ricorso al project financing, per esempio, è stato un altro mezzo di grande penetrazione della criminalità nell’economia dei territori, specie settentrionali. Siamo all’attualità, con la criminalità diffusa su tutto il territorio nazionale (Galullo, 2015).

Riferimenti bibliografici

Arlacchi P., 1983, La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, Il Mulino, Bologna
Barbieri G., Giavazzi F., 2014, Corruzione a norma di legge, Rizzoli, Milano
Bazzi A., 2010, Urbanistica quotidiana a Villabate, in “Urbanistica informazioni” n. 232
Becchi A., 2000, Criminalità organizzata. Paradigmi e scenari delle organizzazioni mafiose in Italia, Donzelli, Roma
Berdini P., 2011, Le mani sulla città, Alegre, Roma
Bevilacqua P., 2011, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Laterza, BariRoma
Bevilacqua P., Agostini I., 2016, Viaggio in Italia. Le città nel trentennio neoliberista, manifestolibri, Roma
Bocca G., 1992, Inferno. Profondo Sud, male oscuro, Mondadori, Milano
Cornago D., 2014, L’anticittà mafiosa e gli urbanisti, in “Urbanistica informazioni”, n. 258
Costantino D., 2001, “Problemi sociali dei contesti paesaggistici siciliani”, in Atti del workshop di Presentazione del quadro conoscitivo del Piano Territoriale Paesaggistico di Ambito 1 della Regione Siciliana, Trapani, Bozza Stampa
De Leo D., 2010, Contrasto alla criminalità e pratiche urbane, in “Urbanistica informazioni”, n. 232.
De Leo D., 2015, Mafie & Urbanistica, Angeli, Milano
Gallino L., 2012, Finanzcapitalismo, Einaudi,Torino
Galullo R., 2015, Finanza criminale. Soldi, investimenti e mercati delle mafie e della criminalità in Italia e all’estero, Il Sole 24 ORE, Milano
Imposimato F., 1999, Corruzione ad Alta Velocità, Koiné, Bologna
Magnaghi A., 2010, Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Milano
Mattei U., 2010, Il saccheggio. Regime di legalità e trasformazioni globali, Mondadori, Milano
Piselli F., Arrighi G., 1985, “Parentela,clientela e comunità”, in Bevilacqua P., Placanica A., Storia d’Italia. La Calabria, Einaudi,Torino
Sales I., 2014, La mafia come metodo e modello, in “Limes”, n. 11
Salzano E., 2003, Fondamenti di urbanistica, Laterza, Roma-Bari
Sberna S., Vannucci A., 2014, Le mani sulla città. Corruzione e infiltrazioni criminali nel governo del territorio, in Fregolent L., Savino M. (a cura di), 2014, Città e politiche in tempo di crisi, Franco Angeli, Milano
Sciarrone R., 2009, Mafie vecchie mafie nuove, Donzelli, Roma

riferimenti

Sull'argomento si veda, su eddyburg, il lavoro di Serena Righini, L’hinterland milanese tra sregolazione e criminalità

«Chiediamo alle forze politiche che in Parlamento svolgono un’azione di opposizione di mettere in stato d’accusa il Governo della Repubblica, per l’aperta e continuata violazione di un principio costituzionale e per la responsabilità piena e consapevole nel privare i cittadini italiani delle risorse necessarie per la loro sicurezza». il manifesto, 26 gennaio 2017 (c.m.c.)

Essi denunciano una realtà mille volte nota e denunciata: la fragilità del nostro territorio, che necessità di cure particolari, investimenti, risanamento di equilibri sconvolti. A questa realtà antica, che illustra la sordità inscalfibile delle nostre classi dirigenti, si aggiunge ora l’impotenza delle amministrazioni locali, privi di risorse, che portano a situazioni indegne di un paese civile. Un paese che sino a poco tempo fa si vantava di essere la quarta o la quinta potenza industriale del pianeta.

Dov’è finita tanta boria?

In questi ultimi giorni abbiamo assistito a spettacoli grotteschi. Centinaia di scuole chiuse per mancanza di riscaldamento, allarmi degli studenti e dei genitori sulla sicurezza degli edifici dove debbono formarsi le nuove generazioni. Le scuole dei nostri ragazzi sono spesso insicure, con servizi scadenti, prive di mezzi. Ebbene, tale squallida situazione, frutto di una politica europea che ci trascina verso il declino non è più tollerabile. Ma non è più tollerabile anche alla luce di quante risorse vengono impiegate dai nostri governi in spese militari.

Il nostro paese cade in ginocchio per qualche alluvione o per nevicate fuori dall’ordinario e noi sperperiamo in spese belliche e in interventi militari, nei vari teatri di guerra, oltre 29 miliardi di € l’anno (2015), circa 80 milioni di € al giorno. Mentre siamo impegnati ad acquistare gli aerei F35 al costo di 14 miliardi complessivi. Si tratta di velivoli da combattimento, strumenti di aggressione e di morte che denunciano da soli la violazione dell’articolo 11 della Costituzione: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Ebbene, di fronte ai problemi elementari in cui si dibatte il nostro paese – la cui soluzione potrebbe generare centinaia di migliaia di posti di lavoro – riteniamo moralmente intollerabile lo sperpero di tante risorse a fini di guerra.

Chiediamo alle forze politiche che in Parlamento svolgono un’azione di opposizione di mettere in stato d’accusa il Governo della Repubblica, per l’aperta e continuata violazione di un principio costituzionale e per la responsabilità piena e consapevole nel privare i cittadini italiani delle risorse necessarie per la loro sicurezza.

Piero Bevilacqua, Tonino Perna (Università di Messina), Paolo Berdini, Tiziana Draghi (Università di Bari)Rossella del Prete (Università del Sannio) Piero Caprari, Roberto Budini Gattai, Ilaria Agostini( Università di Bologna), Cristina Lavinio, Paolo Favilli, Francesco Trane, Maria Pia Guermandi (Emergenza cultura), Alberto Magnaghi, Enzo Scandurra, Daniele Vannitiello, Ginevra Virginia Lombardi (Università di Firenze), Piero di Siena, Rossano Pazzaglia, (Università del Molise),Francesco Pardi, Laura Marchetti, Giuseppe Saponaro, Giancarlo Consonni, Andrea Ranieri, Annamaria Rufino (Università della Campania), Graziella Tonon, Velio Abati, Romeo Salvatore Bufalo (Università della Calabria), Amalia Collisani, Salvatore Cingari (Università di Perugia), Marcello Buiatti, Carlo Cellamare, Michele Carducci, Giovanni Attili, Luigi Vavalà, Lia Fubini, Alfonso Gambardella, Ignazio Masulli, Paola Bonora, Alessandro Bianchi, Ugo Olivieri (Università di Napoli, Federico II), Edoardo Salzano, Vezio de Lucia, Giorgio Nebbia, Stefano Sylos Labini, Franco Toscani, Lucia Strappini, Giorgio Inglese (Università di Roma.La Sapienza) Alberto Ziparo, Patrizia Ferri, Pier Luigi Cervellati, Anna Nassisi, Vittorio Boarini.

I "fondisovrani" (fondi finanziari di proprietà diretta di governi, e non di singoli investitori) sembrano eccitati dalle possibilità di diventare padroni a casa nostra, dove il mattone vale molto di più del grano duro, delle olive di Gaeta e del Lambrusco; non parliamo dei filosofi. Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2016

Italia terreno di conquista di trophy asset da tenere a reddito e di operazioni di riqualificazione. È questa la view dei fondi sovrani internazionali sul nostro Paese. Mentre si sta facendo strada tra gli investitori istituzionali una cautela sul real estate italiano indotta soprattutto dall’esito dell’imminente referendum costituzionale e dalla ripresa ancora rinviata della crescita economica. Una cautela emersa dalle relazioni ascoltate nei numerosi convegni sul real estate che si sono tenuti negli ultimi giorni. Non dimentichiamo però che a complicare la situazione ci saranno anche le prossime elezioni in Francia, prima, e in Germania, poi, per restare in un ambito esclusivamente europeo.

I fondi sovrani, invece, hanno fatto shopping negli ultimi anni nel nostro Paese e intendono continuare a farlo. Cogliendo di volta in volta le occasioni che il mercato ancora offre. Non dimentichiamo poi che al momento sul mercato sono arrivati o stanno arrivando una serie di portafogli già pronti, alcuni a reddito altri destinati a operatori opportunistici, che potrebbero risultare interessanti. Dal portafoglio Cdp, con le caserme Mameli e Guido Reni al fondo Cloe, passando per il pacchetto da 500 milioni di euro di uffici propri che vende Intesa Sanpaolo.

«Investiamo in maniera diretta e indiretta in grandi progetti - ha spiegato Ruslan Alakbarov, a capo della divisione real estate di State oil fund of Republic of Azerbaijan, al convegno organizzato dal gruppo Coima qualche giorno fa -. Puntiamo sul real estate spinti anche dal cambiamento nei rendimenti delle diverse asset class di investimento. Valutiamo nuovi mercati, Milano è uno di questi. Analizziamo le potenzialità: per esempio nel centro di Milano, dove abbiamo acquistato Palazzo Turati (affittato alla Camera di commercio), non si può costruire molto e aumentare l’offerta di uffici».

I fondi sovrani negli anni hanno accumulato un discreto portafoglio sull’Italia. Primo fra tutti il fondo sovrano del Qatar che ha iniziato a investire nel settore alberghi - il primo acquisto nel 2006 è stato quello dell’hotel Gallia di Milano, al quale hanno fatto seguito le acquisizioni dei quattro hotel di lusso della Costa Smeralda , del Four Season’s di Firenze e del Westin Excelsior di Roma - per poi acquistare filiali bancarie, uffici e il complesso di Porta Nuova a Milano.

«L’Italia, come Francia, Uk, Spagna e Germania, è per noi un Paese “core” - dice Madeleine Cosgrave, managing director Europa per Gic (Government of Singapore Investment corporation) -. Vogliamo creare un portafoglio immobiliare focalizzato sull’Italia, ma il Paese richiede tempi lunghi per realizzare un deal e per avere accesso al debito». Per adesso Gic detiene il 100% del centro commerciale Romaest a Roma.

Manca ancora sul nostro territorio il fondo sovrano norvegese, il più grande al mondo con 820 miliardi di euro di valore stimato a fine 2016, che però sta valutando l’immobiliare italiano.

Il real estate nel nostro Paese arriverà a registrare a fine anno un volume di investimenti di circa otto miliardi di euro, in aumento sull’anno scorso. Nel 2016 bisogna però registrare un calo degli investimenti dei fondi sovrani rispetto ai volumi consistenti del 2015. Tra i fondi sovrani che investono nel nostro Paese c’è Adia (Abu Dhabi investment authority), guidato in Europa da Pascal Duhamel. Adia ha acquistato a Milano, tramite Coima Sgr, il palazzo dell’Inps di via Melchiorre Gioia a Milano che sarà abbattuto e ricostruito .

La preferenza per il mattone è una tendenza che i fondi sovrani mostrano a livello mondiale. Secondo il Sovereign Annual Report 2015 della Bocconi nel 2015 i fondi sovrani hanno concentrato il 56,9% degli investimenti in real estate, hotel e strutture turistiche, infrastrutture e utility, settori che offrono ritorni nel lungo periodo, pagando un premio per l’illiquidità dell’investimento.

    «Nel 2015, secondo il rapporto di Global Witness dedicato a Berta Cacéres, morta in Honduras nel marzo del 2016, il numero delle vittime tra gli attivisti è cresciuto del 59% rispetto all'anno precedente». Altraeconomia, 22 giugno 2016 (p.d.)

    Nel 2015 sono stati assassinati 185 difensori del territorio e dell’ambiente. Secondo Global Witness, che ha pubblicato il 20 giugno il proprio rapporto, si è trattato dell’anno “più mortifero della storia”. Il numero delle vittime rappresenta un aumento del 59% rispetto all’anno precedente.

    “I ‘difensori’ sono assassinati a un ritmo di più di tre ogni settimana” scrive la ong. Le pagine di “On dangerous ground” si aprono con un elenco - nome per nome - di tutti coloro che hanno perso la vita nel corso del 2015, e con una foto di Berta Cacéres: Goldman Prize (nobel alternativo per l’ambiente) 2015 per l’America Latina, la leader indigena hondureña è stata uccisa nella propria casa a marzo 2016. Il suo nome figurerà nella lista il prossimo anno, ma intanto Global Witness l’ha voluta ricordare - dedicandole il report - perché nel 2015 il 40% delle vittime erano indigeni, che soffrono una “immensa vulnerabilità”, a causa anche dell’isolamento geografico “che espone questi popoli in modo particolare all’accaparramento di terre per lo sfruttamento delle risorse naturali”.

    Tra le risorse, senz’altro è l’opposizione ad iniziative del settore estrattivo e minerario ad aver causato il maggior numero di vittime nel 2015: sono 42 i casi, in 10 Paesi. In questo ambito, l’aumento rispetto al 2014 è del 70%. Gli altri ambiti indicati come cause di un numero rilevante di omicidi sono il comparto agro-industriale (con 20), le dighe e i diritti sull’utilizzo delle acque (15) e lo sfruttamento delle risorse forestali (15).

    Global Witness evidenzia con alcuni esempi il profilo-tipo del “difensore della terra” vittima di omicidio nel 2015.Rigoberto Lima Choc, del Guatemala, aveva denunciato l’inquinamento dell’acqua causato da un’industria di produzione di olio di palma. Saw Johnny faceva campagna con l’accaparramento delle terre dell’etnia Karen, in Birmania. Alfredo Ernesto Vracko Neuenschwander, silvicoltore peruviano, difendeva la biodiversità dei boschi. Sandeep Kothari era un giornalista indiano: aveva scritto articoli contro lo sfruttamento illegale di alcune cave, nel Maharashtra. Infine, Maria das Dores dos Santos Salvador, leader di una comunità rurale dell’Amazzonica brasiliana, che aveva denunciato la vendita illegale di terre comunitarie.

    Il Brasile è il Paese che ha registro nel 2015 il più alto numero di vittime, 50. Seguono, secondo i dati di Global Witness, che riguardano 16 Paesi, le Filippine (con 33), la Colombia (26), Perù (12) e Nicaragua (12). Complessivamente, sono 7 i Paesi dell’America Latina coinvolti (anche Guatemala, Honduras e Messico, oltre ai 4 già elencati). Sette i Paesi dell’Asia. Due quelli africani.

    Tra le raccomandazioni, Global Witness avanza ai governi la richiesta di ratificare la Convenzione numero 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro sui popoli indigeni e tribali, e agli investitori di non realizzare alcuna attività senza aver ricevuto il consenso “veramente libero, previo e informato” dei popoli interessati.

    Il rapporto può essere scaricato qui (in inglese) e qui (in spagnolo).

    «Smog alle stelle. Per il Tribunale di Genova le crociere sono “trasporti di linea” e quindi devono usare carburanti meno tossici. Gli operatori contrari». Il Fatto Quotidiano, 4 giugno 2016 (p.d.)

    Multe alle navi da crociera che inquinano. Il rischio, per le grandi compagnie, di non poter più attraccare nei porti italiani in caso di recidiva (che si è già verificata). E una clamorosa sentenza del Tribunale di Genova che vieta ai colossi da 3mila passeggeri di utilizzare carburanti sporchi. Mentre gli armatori, denunciano i deputati M5S, fanno pressing sul ministero dell’Ambiente perché siano innalzati i limiti delle emissioni. “In queste ore si sta combattendo una battaglia decisiva per la pulizia dell’aria nelle città portuali. Quelle dove ogni anno attraccano 4.556 navi da crociera che trasportano 10,9 milioni di passeggeri. Colossi che stanno a pochi metri dalle case”, racconta Arianna Spessotto (M5S) della Commissione Trasporti della Camera. Basti pensare che ogni anno a Civitavecchia si contano 806 “toccate nave”, a Venezia 498, a Napoli 430. Mentre a Savona, dove attraccano letteralmente in pieno centro storico, siamo a 231 e a Genova si arriva a 190. “Senza contare la salute di chi è a bordo. Le navi inquinano infinitamente più delle auto”, spiega Spessotto.

    Tutto nasce dalle ultime contravvenzioni che le capitanerie di porto – Venezia e Genova, in particolare – hanno inflitto ad alcune delle maggiori compagnie. L’accusa: violazione dell’obbligo di utilizzare un carburante a basso contenuto di zolfo (1,5% della massa). Ed ecco scattare le sanzioni da 30mila euro. Ma in una partita da molti miliardi, la vera posta è che,in caso di recidiva,il comandante o le navi rischiano di non poter più attraccare nei porti italiani. Così ecco il ricorso presentato da Msc (ma il discorso vale anche per altri grandi operatori) al tribunale di Genova: i transatlantici da crociera, scrivono gli avvocati, non possono essere considerati navi di linea. Questione di orari, di tragitti: “Nessuno li utilizza per spostarsi da un porto all’altro”, scrivono i legali nel ricorso.Ma il giudice PietroSpera del Tribunale di Genova lo ha respinto. Una sentenza che potrebbe rivoluzionare il trasporto marittimo italiano. Scrive il magistrato: “Una serie di traversate a scopo turistico deve essere considerata come un collegamento”.

    Ancora: “Dato che le direttive europee hanno lo scopo di tutelare la salute e l’ambiente riducendo le emissioni di anidride solforosa, incluse quelle prodotte durante i trasporti marittimi, detta conclusione non può essere inficiata dalla circostanza chei passeggeri di una nave da crociera beneficino di servizi supplementari, quali l’alloggio, la ristorazione e le attività ricreative”. Infine, rileva il Tribunale, gli orari delle navi da crociera si possono reperire sui siti delle compagnie di navigazione.

    Ma che cosa è in gioco davvero? “Cambiare la classificazione di una nave significa risparmiare decine di milioni di euro. Perché le navi non di linea possono utilizzare carburante con una percentuale di zolfo del 3,5 per cento.E una nave da crociera arrivare a consumare 15 tonnellate l’ora ”, racconta un ufficiale della Costa Crociere che non vuole essere citato. Non è soltanto una questione di denaro, assicura un ufficiale Msc, ma anche di disponibilità: “Il carburante più pulito costa molto di più. Ma è anche più difficile da trovare”. Forse anche perché c’è poca domanda. E c’è infine, sostengono le compagnie, la questione della concorrenza: “Servono norme uniformi, perché se in Italia si chiede carburante pulito e in Spagna no, bé… andiamo fuori mercato”. Un business immenso, anche per i porti di accoglienza. “Ma c’è soprattutto la salute”, ricorda Spessotto.

    E non c'è soltanto lo zolfo, ma anche le polveri ultrasottili. Come ricorda Luciano Mazzolin di Ambiente Venezia: “Secondo i rilevamenti dell’associazione ambientalista tedesca Nabu, in Laguna la situazione per il pm 2,5 talvolta è peggio che a Pechino. Il livello registrato è 150 volte superiore a quello dell’aria pulita (mille particelle per centimetro cubo)”. Prosegue Mazzolin: “Al ponte degli Scalzi sono stati registrati picchi di particelle ultrasottili di 62.400 unità per centimetro cubo. All’Arsenale, punto di passaggio delle grandi navi, siamo a 133mila unità”. Spessotto aggiunge: “Chiediamo al ministero di sapere se è vero, come ci risulta da fonti attendibili, che in queste ore le compagnie stanno cercando di ottenere un innalzamento dei limiti”. Interpellato dal cronista, il ministero ha smentito incontri. Alla successiva domanda se sia in atto un tentativo di pressing sul ministero non c’è stata risposta.

    E non si parla delle navi merci. Secondo l’indagine della trasmissione Petrolio, i 20 cargo più grandi del mondo emettono più diossido di zolfo di tutte le auto in circolazione. Ma la flotta, che trasporta il 90% delle merci mondiali, è composta di 60mila navi. Un terzo transita per il Mediterraneo.

    «Il ministero delle Infrastrutture lo “raccomanda” a quello dell’Ambiente, autorizzando gli studi d’impatto ambientale», che saranno realizzati dal Corila, lo stesso ente che ha coordinato e portato a termine nel 2010 il nuovo Piano Morfologico della Laguna di Venezia, fortemente critico sull'allargamento delle attività portuali, e probabilmente per questo insabbiato. La Nuova Venezia, 18 marzo 2016 (m.p.r.)

    Il ministero delle Infrastrutture apre al progetto Tresse Nuovo, alternativo al passaggio delle Grandi Navi dal Bacino di San Marco e sostenuto dall’Autorità Portuale di Venezia - dopo la “bocciatura” dello scavo del canale Contorta-Sant’Angelo - dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro (che per primo l’ha proposto) e anche dal presidente della Regione Luca Zaia. A dare la notizia è stato lo stesso presidente dell’Autorità Portuale da Fort Lauderdale, negli Stati Uniti, dove è in corso la fiera mondiale della crocieristica.

    «In questi giorni» dichiara Costa «è giunto il via libera del Ministero delle Infrastrutture a investire per completare gli studi di impatto ambientale (Sia) del progetto Tresse Nuovo per completare la documentazione presentata alla commissione di Via. Il Ministero ha infatti ribadito il carattere prioritario del progetto Tresse Nuovo rispetto ad altri progetti tenendo conto così della volontà e dei parerei espressi dagli enti locali». La notizia, aggiunge l'Autorità Portuale, è stata comunicata ai partecipanti al Seatrade Cruise Global a Fort Lauderdale, che in più occasioni durante la Fiera e la Conferenza parallela, hanno sollevato il caso Venezia, rilevando che «l'indecisione provoca danni rilevanti all'occupazione in un'industria che altrimenti, anche nel resto d'Europa, si sta sviluppando a ritmi sostenuti».
    Il passaggio testuale della lettera del Ministero guidato da Graziano Delrio - inviata per conoscenza anche al Ministero dell’Ambiente - che introduce di fatto una sorta di cortesia preferenziale per il progetto Tresse Nuovo, è il seguente: «Con l’occasione si fa presente al Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare che il carattere prioritario risiede nella circostanza che tale progetto ha ricevuto i pareri positivi di tutte le amministrazioni locali rispetto ad altri in corso di elaborazione». Il riferimento è, evidentemente al progetto “Venice Cruise 2.0”, proposto dalla Duferco e dalla società dell’ex viceministro Cesare De Piccoli, che prevede un nuovo terminal crocieristico alla bocca di porto di Lido, già all’esame della Commissione Via - il parere è atteso per il 25 aprile - e aspramente contestato da Brugnaro.
    Il progetto Tresse non è ancora pronto, perché manca appunto ancora la parte dello Studio di impatto ambientale - che sarà realizzata dal Corila (Consorzio di ricerche sulla laguna) - che proprio la lettera delle Infrastrutture ora autorizza. La situazione però è ancora tutt’altro che definita, e lo conferma una dichiarazione del governatore Zaia sul problema Grandi Navi, ribadendo la «piena disponibilità» della Regione a spostarle fuori dal bacino di San Marco. «A me però risulta» ha aggiunto «che ancora i diversi Ministeri stiano litigando tra loro».
    Se le Infrastrutture sono a favore, chi non è d’accordo è, evidentemente, il Ministero dei Beni Culturali, con quello dell’Ambiente - che dovrà decidere sul tracciato con i suoi tecnici - nel ruolo teorico di arbitro. «Al di là di qualsiasi corsia preferenziale, ogni progetto alternativo al passaggio delle Grandi Navi da San Marco» ha dichiarato ieri il sottosegretario ai Beni Culturali Ilaria Borletti Buitoni «dovrà comunque essere sottoposto ai criteri di esame della Commissione di Valutazione d’impatto ambientale del Ministero dell’Ambiente, gli stessi per tutti, che tutelino la laguna. Personalmente trovo che la proposta del ministro Franceschini di spostare il polo crocieristico dell’Alto Adriatico a Trieste sarebbe di estremo buon senso, perché porterebbe ugualmente i turisti a Venezia, ma evitando lo scavo di nuovi canali per navi crociera sempre più grandi».
    Riferimenti
    Sulla vicenda del Piano Morfologico della Laguna di Venezia si veda su eddyburg di Andrea Defina,Stefano Lanzoni, Marco Marani Per chiarire una questione Contorta, e di Domenico Patassini Contorta: note sulla valutazione di impatto ambientale (Via).

    Le associazioni ambientaliste toscane hanno inviato una lettera con sette domande sul progetto del nuovo aeroporto al presidente della Regione Rossi. Il presidente ha risposto alla lettera e le associazioni hanno replicato.Qui tutto il carteggio.


    SETTEDOMANDE
    SUL NUOVO AEROPORTO DI FIRENZE
    AL PRESIDENTE ENRICO ROSSI

    Gentile Presidente Enrico Rossi,

    Come Lei sa, l’Università di Firenze e gli uffici tecnici della Regione hanno avanzato molte riserve sul progetto del nuovo aeroporto di Firenze, attualmente proposto a Valutazione d’impatto ambientale da ENAC e Toscana Aeroporti. Le Associazioni firmatarie di questa lettera si rivolgono a Lei in qualità di governatore della Regione Toscana e quindi di garante della salute e della sicurezza dei cittadini, affinché chiarisca i punti più controversi del progetto e rassicuri gli abitanti della Piana, sul fatto che, una volta realizzato, l’aeroporto non peggiorerà le loro condizioni di vita.

    1. Il progetto sottoposto a VIA è un Master Plan e non un progetto definitivo, come vuole la legge. La Regione Toscana accetterà questo strappo alle regole o chiederà al Proponente di rispettare quanto prescrive il Codice dell’ambiente?

    2. La pista del nuovo aeroporto sarà di 2000 metri, come stabilito nel Piano di indirizzo territoriale, o di 2400 metri come richiesto dal Proponente?

    3. La Regione Toscana si è impegnata ufficialmente a promuovere un Dibattito Pubblico sull’aeroporto, ma finora non ha rispettato il suo impegno. Lei si adopererà affinché possa finalmente svolgersi questo processo partecipativo?

    4. Secondo il parere tecnico degli uffici regionali, il rifacimento del Fosso Reale e dell’intero sistema idrografico della bonifica comporterà un rischio idraulico non adeguatamente calcolato. Saranno richiesti al Proponente studi più approfonditi?

    5. Nonostante il Proponente abbia affermato che la nuova pista sarà esclusivamente monodirezionale verso ovest, nel Master Plan questa risulta prevalentemente monodirezionale, con una percentuale non trascurabile di atterraggi e decolli in direzione di Firenze, il cui centro storico è patrimonio Unesco. Lei può dire qualcosa di definitivo in proposito?

    6. Il Proponente dice che col nuovo scalo inquinamento atmosferico e acustico diminuiranno, ma ciò appare incongruente rispetto alla previsione d’incremento dei voli e della dimensione degli aerei. La Regione intende fare chiarezza su questo punto?

    7. Il nuovo scalo non interferirà solo sul reticolo idrografico discendente da Monte Morello, ma anche sulla viabilità Nord/Sud della Piana, decretando ad esempio la cancellazione di via dell’Osmannoro: sono state adeguatamente valutate le conseguenze (funzionali, sociali, economiche) sul sistema della mobilità metropolitana?

    Tommaso Addabbo, WWF Toscana
    Paolo Baldeschi, Coordinatore della Rete dei comitati per la difesa del territorio
    Fausto Ferruzza, Presidente Legambiente Toscana
    Sibilla della Gherardesca, Presidente Fai Toscana
    Maria Rita Signorini, Presidente Italia Nostra Toscana

    LE RISPOSTE DEL PRESIDENTE

    qui puoi scaricare il file .pdf della risposta del presidente Enrico Rossi



    LA REPLICA: GRAZIE DELLA DISPONBILITA'
    MA LEI CONFERMA I NOSTRI DUBBI
    Firenze, 26 febbraio ’16
    GentilePresidente Enrico Rossi,
    La ringraziamo per aver risposto alle nostre domande, dimostrando unasensibilità istituzionale che volentieri Le riconosciamo. Dobbiamo, tuttavia,esprimere il nostro disappunto per il loro contenuto, più preoccupato dellacorrettezza delle procedure adottate, che della loro “sostanza” politica. E,affinché Lei non pensi che il nostro disappunto nasca da pregiudizi o da presedi posizione ideologiche, vogliamo entrare, sia pur brevemente, nel meritodelle Sue risposte.
    Alla prima domanda, se Lei accetterà che sia sottoposto a VIA unMasterplan e non un progetto definitivo, come prescrive il Codicedell’Ambiente, Lei risponde che così si fa per ‘prassi consolidata’, comesostiene lo stesso ENAC. Inutile ricordarLe che nessuna prassi consolidata puògiustificare una così plateale “deroga” alle regole.
    Alla seconda domanda, sulla lunghezza della pista –2000 metri, come prescriverebbe il PIT, o 2400 metri, come vuole imporre l’ENAC– Lei sposa completamente il parere di quest’ultimo ente, che alle osservazionidell’Università di Firenze ha risposto: “Ladefinizione della lunghezza della nuova pista di volo di Firenze non può derivare da valutazioni di carattereprettamente urbanistico-territoriale, ma discende da valutazioni di carattereaeronautico di competenza dell'ENAC.” Vale a dire che non è l’aeroporto che deve adattarsi al territorio,bensì, viceversa, il territorio che deve piegarsi alle esigenze dell’aeroporto.
    Alla terza domanda, sulmancato Dibattito Pubblico, Leirisponde che questo importante strumento partecipativo non è obbligatorio perle opere d’iniziativa privata. Tuttavia, a parere unanime dei giuristi cheabbiamo consultato, la legge 46/2013 ne sancisce l’obbligatorietà qualora, comein questo caso, l’iniziativa privata comporti opere la cui realizzazione egestione abbiano caratteri palesemente pubblici. D'altra parte,Lei sembra dimenticare che è proprio la Variante al Pit sul Parco della Piana,approvata dalla Regione Toscana, a prevedere il Dibattito pubblicosull'aeroporto.
    Alla quarta domanda, sulle carenze dello Studio diImpatto Ambientale relativamente al rischio idraulico, Lei risponde che laRegione ha richiesto che siano individuate dalcompetente Ministero dell'Ambiente le successive fasi in cui siano presentatigli sviluppi progettuali e le relative verifiche che il proponente è tenuto aottemperare e che consentano lo svolgimento delle attività di controllo e monitoraggiodegli impatti ambientali, valutando anche la costituzione di uno specificoOsservatorio". Questa è, appunto, la strategia seguita fin qui dall’ ENAC: rimandaretutti gli approfondimenti e le modifiche al progetto, a successive fasi, non più controllabili. Poco o niente può fare unOsservatorio che, nel migliore dei casi, agisce ex post. La disastrosa esperienza dell’Osservatorio TAV in Mugelloe il mutismo dell’Osservatorio sul sottoattraversamento di Firenze, dimostranoahinoi l’inefficacia di questi istituti.
    Allaquinta domanda, sulla monodirezionalità della pista, Lei ribadisce ciò che l’ENACha dichiarato ufficialmente, ma che ècontraddetto sia da tabelle presenti nello SIA (che prevedono un 18-20% disorvoli su Firenze), sia dalla seguente risposta dell’ENAC alle osservazionidell’Università di Firenze: “L'operativitàdella pista con uso ‘prevalente’ suuna direzione di decollo e atterraggio è, invece, essenzialmente legata alleprocedure di volo pubblicate in AIP, che nel progetto presentatoprevedono atterraggi e decolli sulla direttrice da/verso Prato.” “Uso prevalente”, perciò, e non “esclusivamente mono/direzionale”, népotrebbe essere altrimenti a causa dei dati anemometrici e della mancanza diuna pista di rullaggio che impedisce l’agibilità di uno scalo monodirezionale.
    Alla sesta domanda, sull’inquinamento atmosfericoche, nonostante l’aumento del numero dei voli e delle dimensioni degli aerei,dovrebbe, secondo l’ENAC diminuire, Lei sostanzialmente non risponde. Né la VAS(effettuata su una previsione di pista di 2000 metri) ha mai trattato effettivamentela questione.
    Alla settima domanda, che chiedeva se fosse statostudiato l’impatto del progetto sul sistema complessivo della mobilitàmetropolitana, Lei risponde che la Giunta Regionale ha condizionato il proprioparere favorevole al progetto, alla sottoscrizione di un Accordo di Programma tra tutti i soggetti interessati, per larealizzazione di una serie di opere infrastrutturali – dalla terza corsiaautostradale, fino alla realizzazione del ponte sull’Arno a Signa, etc. Lei,tuttavia, sa benissimo che gli accordi di programma non comportano alcunimpegno istituzionale (tanto meno da parte dei privati, come Autostrade per l’Italia) e che, senzarisorse finanziarie è come se fossero scritti sulla sabbia.
    Sulla base di queste considerazioni, le Associazionifirmatarie della lettera a Lei rivolta, non possono che dichiararsi delusedalle Sue riposte che, in gran parte, riproducono le posizioni dell’ENAC,lasciando sostanzialmente intendere che non si farà sufficiente chiarezza su unprogetto palesemente incompleto, contradditorio, proceduralmente iniquo e, aparere dei tecnici, dannoso per la sicurezza del territorio e dei suoiabitanti. Non si tratta, ci creda, di posizioni aprioristiche, ma anzi ampiamentedocumentate da pareri tecnici e scientifici ‘super partes’. In ballo, ci creda, non c’è soltanto la salutee la sicurezza dei cittadini, bensì la credibilità stessa delle istituzioni dicui Lei è, in questo frangente, il primo garante. Detto ciò, saremo felici,come Lei auspica nella sua lettera, di poter proseguire questo confronto inmodo proficuo e costruttivo.
    Cordialmente,

    Tommaso Addabbo, WWF Toscana
    Paolo Baldeschi, Coordinatore della Rete dei comitati per la difesa del territorio
    Fausto Ferruzza, Presidente Legambiente Toscana
    Sibilla della Gherardesca, Presidente Fai Toscana
    Mariarita Signorini, Presidente Italia Nostra Toscana

    La crescente collusione tra criminalità organizzata e amministrazioni locali (dal Mare di Sicilia alle Alpi) impone di intervenire su molti aspetti: ecco tre temi su cui si propone di lavorare. Il dibattito è aperto

    Quarto, Bagheria e Brindisi sono solo gli ultimi episodi che vedono coinvolti sindaci e assessori comunali in vicende poco chiare che rendono evidente come, nel corso degli ultimi decenni, i settori legati al mondo dell'edilizia hanno giocato una parte sempre più rilevante nella costruzione del consenso a livello locale e molte volte anche nella selezione della classe dirigente.

    In particolare le intercettazioni della magistratura sulle vicende di Quarto sono paradigmatiche per descrivere dinamiche elettorali che si sono consolidate in alcuni contesti locali; qui l’imprenditore Cesarano - sospettato di essere colluso con la camorra - detta la strategia per sostenere al ballottaggio la candidata dei Cinquestelle, Rosa Capuozzo, chiarendo da subito le sue condizioni: "Comincia a chiamarlo. Ha preso 890 voti, è il primo degli eletti. Noi ci siamo messi con chi vince, capito?” E ancora: “L’assessore glielo diamo noi praticamente. E lui ci deve dare quello che noi abbiamo detto che ci deve dare. Ha preso accordi con noi. Dopo, così come lo abbiamo fatto salire così lo facciamo cadere”.

    Il riferimento di Cesarano è al consigliere comunale De Robbio che, secondo la Direzione distrettuale antimafia di Napoli, avrebbe tentato di convincere la Sindaca ad affidare la gestione del campo sportivo comunale ad una società vicina al suo "sponsor elettorale", ricorrendo a un presunto abuso di famiglia per minacciare la stessa Capuozzo. Sempre a Cesarano, De Robbio avrebbe poi promesso la nomina di una persona di fiducia all'assessorato all'urbanistica, per favorire al meglio i suoi affari.

    Siamo a Quarto, piccola cittadina della provincia napoletana, con poco più di 40.000 abitanti ma le sue tristi vicende sono simili a quelle riscontrabili in altri contesti comunali nell'Italia degli oltre 8000 campanili.

    Né la collocazione geografica né l'appartenenza a questo o quello schieramento politico può più rappresentare un valido e sicuro argine a fenomeni di questo tipo. Le indagini della magistratura spaziano dalla Valle d'Aosta alla Sicilia, passando anche da una Milano dove l'ex sindaca Moratti, pochi giorni prima del maxi arresto legato all'inchiesta Parco Sud avvenuto nel luglio del 2010 alle porte del capoluogo lombardo, strillava che "la mafia a Milano non esiste" e nessun partito, neppure chi ha fatto della legalità e della trasparenza il proprio mantra elettorale, può ritenersi immune da pericolose collusioni.

    Che i settori legati al ciclo dell'edilizio rappresentino gli ambiti principali per le infiltrazioni mafiose (al Sud come al Nord Italia) non è certo una novità, come testimonia l'elenco dei consigli comunali sciolti per mafia, per la maggior parte dei quali le motivazioni sono legate a questioni urbanistiche o a violazioni dei piani regolatori e purtroppo gli esiti spaziali di queste relazioni pericolose sono evidenti in termini di spreco edilizio, abusivismo, degrado ambientale e scarsa qualità degli spazi urbani e suburbani.

    La relazione perversa tra interessi mafiosi, amministrazioni comunali e ciclo edilizio può essere affrontata, a mio avviso, agendo su tre aspetti diversi differenti: il primo è di natura elettorale, il secondo amministrativo e il terzo più strettamente urbanistico.

    Il primo aspetto riguarda i criteri di selezione della classe dirigente politico-amministrativa: nei contesti territoriali locali è progressivamente venuto meno il ruolo dei partiti di massa, sia in termini di elaborazione di idee e sia in termini di formazione dei propri iscritti, e tale vuoto ha creato una generalizzata improvvisazione sui temi amministrativi. Inoltre le sedi locali dei partiti sono diventati luoghi in cui le discussioni sono asfittiche, ideologiche e molto spesso rincorrono rancori e recriminazioni personali anziché differenti posizioni politiche. Ecco allora che un curriculum non politico di un candidato sindaco può diventare un enorme punto di forza nella competizione elettorale in quanto indicatore di pragmatismo, di civismo e di una leadership che può essere esercitata senza dover rendere conto a nessuno del proprio operato. In queste dinamiche però il rischio è duplice: da un lato c'è quello di eleggere sindaci impreparati, inadeguati e non all'altezza di guidare processi amministrativi e burocratici anche complessi (e la bassa qualità dei governi locali ha spesso conseguenze dirette anche sulla qualità dei progetti di trasformazione territoriale), dall'altro la ricerca di nuove forze elettorali dalle quali farsi sostenere può portare a legami pericolosi che poi, solitamente, presentano il conto. In un contesto storico caratterizzato dalla crisi di rappresentanza e di fronte a un'appartenenza politica sempre più "liquida", occorre che i partiti nazionali intraprendano una seria riflessione sulle modalità di selezione della propria classe dirigente, a partire da quella locale. In questi tempi si parla spesso di tematiche trasversali e di nuove geografie politiche, l'auspicio è che la legalità non diventi tema contendibile nelle prossime campagne elettorali ma piuttosto sia un impegno chiaro e condiviso per tutti i partiti politici.

    Il secondo aspetto riguarda le competenze delle amministrazioni comunali. In una fase di progressivi tagli alle amministrazioni locali, un Paese in cui il 70% dei Comuni ha meno di 5.000 abitanti non è più sostenibile. Una strategia nazionale che spinga verso gestioni di servizi ad una scala che consenta ottenere economie di scala (le Centrali Uniche di Committenza per gli acquisti delle pubbliche amministrazioni non possono bastare) ed esercizio di funzioni urbanistiche a una dimensione pertinente per poter pianificare in modo coerente e sostenibile i diversi sistemi territoriali (ambientale, infrastrutturale e insediativo) sembrano scelte non più prorogabili se si vuole impedire che gli ambiti comunali diventino nuovi feudi a conduzione familiare, soggetti a pressioni economiche (ma anche criminose) difficilmente controllabili anziché luoghi nei quali elaborare politiche per l'erogazione dei fondamentali servizi alla persona.

    Il terzo aspetto riguarda il sistema normativo urbanistico vigente: le leggi urbanistiche regionali, approvate a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, hanno progressivamente elaborato norme in nome della semplificazione e dello snellimento burocratico che si sono tradotte nei fatti da un generalizzato laissez-faire. Questa de-regolamentazione é diventata uno dei principali varchi per le infiltrazioni mafiose nel mondo delle amministrazioni comunali anche considerando che l'edilizia è il settore ideale per riciclare e ripulire denaro sporco derivante da altri traffici criminosi.

    L'Italia è molto indietro rispetto alle normative in vigore nei paesi del Nord Europa dove da almeno un decennio si trattano i temi della rigenerazione urbana, si lanciano bandi di idee tra progettisti per le opere pubbliche e i grandi progetti di riqualificazione urbana, si coinvolgono i rappresentanti della società civile nei progetti infrastrutturali più importanti (débat public francese), si hanno strumenti di valutazione anche economica dei progetti di trasformazione urbana (modello SoBoN di Monaco di Baviera), si affida la funzione di governo del territorio a una dimensione territoriale adeguata e comunque sovracomunale (schemi di coerenza territoriale francesi) per una pianificazione tra fabbisogni insediativi, accessibilità infrastrutturali, dotazione ambientale. Alcuni invocano strumenti speciali, come un ampliamento di competenze dell'ANAC guidato da Raffaele Cantone, che seppur utilissimi per enfatizzare l'attenzione su questi temi, non possono essere la soluzione strutturale a questo problema.

    Il nostro Paese non ha più bisogno di norme speciali ma di amministratori locali competenti, preparati e consapevoli (oltre che onesti), di una razionalizzazione complessiva del sistema degli enti locali e di una complessiva riforma urbanistica, che abbia tra i suoi principi (a cui devono corrispondere adeguati strumenti) la trasparenza, la partecipazione e una regia sovracomunale nei processi di trasformazione del territorio. Solo in questo modo si potrà finalmente rompere la catena che lega gli interessi speculativi, mafiosi e non, al settore dell'edilizia e fare in modo che i Sindaci debbano sì rispondere del proprio operato, anche più di quanto sono chiamati a fare ora, ma solo nei confronti dei propri cittadini.

    La denuncia di una vergognosa operazione delle giunte Orsoni e Brugnaro, con la complicità della grande maggioranza del consiglio comunale, delle diverse istituzioni coinvolte, delle associazioni che non hanno promosso una vigorosa protesta e della stampa cittadina che ha dato voce solo ai liquidatori del patrimonio pubblico. Italianostravenezia.org, 4 febbraio 2016 (m.p-r.)

    Lunedì 1 febbraio il Consiglio comunale ha purtroppo approvato, con tre soli voti contrari – uno del Movimento Cinque Stelle e uno del Pd -, la delibera del passaggio in proprietà al Comune di Venezia dell’Isola della Certosa e del Forte di Sant’Andrea. Il sindaco e il suo capogruppo volevano convincere l’opposizione e il pubblico di cittadini che nella delibera si discutesse solo il passaggio di proprietà dallo Stato al Comune delle due isole, per cui lamentavano l’assurdità dell’opposizione a questo “regalo” del Demanio.

    Peccato però che l’Accordo di valorizzazione, senza il quale non si può attuare il passaggio di proprietà (Accordo firmato a metà dicembre dai rappresentanti del Demanio, del Mibact, arch. Codello, e del Comune di Venezia, vicesindaco Colle, Lega), così reciti: «Il Comune di Venezia si impegna, anche attraverso la partecipazione di soggetti privati, a realizzare integralmente il Programma di valorizzazione presentato che si allega sotto la lettera C del presente accordo per farne parte integrante».
    Cosa contemplano gli allegati C (che le opposizioni e i cittadini evidentemente avevano ben letto)? L’allegato C3 (Integrazione al Programma di valorizzazione), redatto nel 2015, divide gli interventi da realizzarsi nel Forte in più momenti, il primo della durata di 3 e 5 anni prevede interventi minimi e obbligatori (quali bonifica, messa in sicurezza dei percorsi, sfalcio dell’erba, cartellonistica, etc.) del partner privato che si aggiudicherà la gara, per il costo di un solo milione di euro; le tranche seguenti dei lavori, di medio-lungo termine fino a 25 anni, prevedono interventi solo «a facoltà de partner» e per «la sostenibilità socio economica del progetto». In una parola, facoltativi e a favore del partner, e fra questi c’è il progetto del restauro del Forte, il restauro dello stesso, un albergo, un anfiteatro, un ristorante, un bar etc. Per assurdo, il partner che si aggiudicherà la gara potrebbe attuare gli interventi minimi per un milione di euro e lasciare il Forte al suo degrado per altri 25 anni.
    L’altro allegato, C2, del 2011, prevede interventi anche sull’area alle spalle del Forte, area che fa parte dell’idroscalo Miraglia, ancora in gestione al Ministero della Difesa ma in via di dismissione. Sono interventi pesantissimi, definiti dall’allegato C3 «un considerevole compendio di nuova edificazione nell’area di pertinenza del Forte, verso nord»: e cioè due alberghi, un centro benessere e pure una piscina a filo d’acqua (proprio alle spalle del limite del bastione nord, fronte Laguna). L’opposizione, in particolare la documentata e precisa Monica Sambo, ha chiesto dunque di stralciare, eliminare l’allegato C2 che prevedeva queste edificazioni nell’area esterna, non compresa nel presente passaggio di proprietà. Niente da fare. La maggioranza non ha voluto eliminare l’allegato C2, pur dichiarando che tali interventi non si faranno.

    Leggiamo l’Accordo di valorizzazione, vincolante (perché se non realizzato lo Stato si riprende il bene): «Qualora al Comune di Venezia pervenga la disponibilità di spazi acquei, rive, banchine, etc. …, pertinenziali alle isole, che come detto non rientrano nel presente accordo ai fini del trasferimento, lo stesso Comune si impegna a destinarli ad usi compatibili ed integrati con i progetti di valorizzazione sopraccitati».

    Cioè quando il Demanio Militare dismetterà l’area alle spalle del Forte, ecco già ratificato il Piano di Valorizzazione C2, con alberghi, centro benessere, altro ristorante, piscina a pelo d’acqua: un resort di lusso per turisti di alta fascia, che sorridenti e festosi, sorseggiando aperitivi sul bordo della piscina guarderanno i nostri figli in barchetta al Bacan,la spiaggia semisommera alla Bocca di Lido dove i veneziani "normali" vanno a bagnarsi - ndr] in perfetta continuità concettuale con l’operazione Fontego dei Tedeschi della giunta precedente.

    Una vicenda locale che meriterebbe attenzione nazionale: leggi ad personam nell'epoca Renzi. Pescaranews.net, 28 novembre 2015


    La società dei figli dell'avvocato difensore di D'Alfonso e di tanti altri politici abruzzesi ha vinto al Consiglio di Stato e quindi potrà costruire sulla riviera sud (lato mare) accanto alle aree ex-Cofa tre palazzi alti 21 metri. Quando passeranno davanti a quel muro di cemento sul mare i pescaresi potranno prendersela con Comune, Regione e parlamento che hanno fatto di tutto per rendere possibile un intervento illegittimo.

    Innanzitutto va detto che la società dei Milia e Mammarella ha vinto perché il Consiglio di Stato ha ritenuto non legittimati i vicini ricorrenti che avevano vinto al TAR. Cosa che non sarebbe accaduta se a ricorrere in difesa della sua pianificazione urbanistica fosse stato il Comune di Pescara. Purtroppo la Giunta Alessandrini si è costituita ma per sostenere il progetto edilizio scegliendo di essere complice e sostenere l’operazione che era stata autorizzata all’epoca della giunta Mascia.

    Il TAR aveva bocciato il permesso dando ragione a quanto sostenuto da Rifondazione Comunista: il tribunale amministrativo aveva confermato che le norme del “decreto sviluppo” di Berlusconi, rese permanenti da una pessima legge regionale di recepimento, non si applicano nelle aree sottoposte a piani particolareggiati.

    Ma non basta prendersela con l’amministrazione di centrodestra che rilasciò il permesso e quella Alessandrini che lo ha difeso. Infatti in soccorso di Milia-Mammarella è sceso in campo lo stesso parlamento. Infatti – come da me denunciato dopo che per mesi avevano tenuta nascosta la cosa – nel dicembre 2014 è stato approvato un emendamento alla legge di stabilità con un'interpretazione autentica (quindi retroattiva) che sembrava scritta ad hoc per sbloccare il progetto. Infatti la norma precisa che le deroghe e i premi di volumetria si applicano anche all’interno dei piani particolareggiati. La norma è stata ovviamente brandita dai privati e dagli stessi avvocati del Comune contro la sentenza del TAR.

    Come è stata approvata in parlamento questa cosa? A presentare l’emendamento in Senato è stato un senatore siciliano, a recepirlo è stato il governo Renzi che l’ha inserito nel maxi-emendamento alla legge di stabilità su cui il governo ha chiesto la fiducia. La norma che cancella ogni regola pianificatoria pubblica è stata votata in parlamento dalla maggioranza NCD-PD .

    La relatrice di maggioranza sulla legge di stabilità era la senatrice pescarese Federica Chiavaroli che quando il sottoscritto ha scoperto la “porcata” dopo mesi dall’approvazione ha detto di non saperne nulla. Ricordo che essendo ancora in vigore la legge regionale scritta dai palazzinari pescaresi e fatta approvare con grande impegno dai consiglieri di centrodestra ma che piace anche al PD che non l'ha abrogata la nuova norma di interpretazione autentica si applica a tantissime altre situazioni con effetti devastanti (in pratica vengono superati tutti i piani attuativi comunali). Le regioni in cui sono in vigore analoghe leggi sono Abruzzo, Campania, Calabria e Sicilia. Forse Lazio.

    Ricordo che per studiare una progettazione unitaria del piano particolareggiato il Comune di Pescara negli anni scorsi ha speso centinaia di migliaia di euro.

    Quando mesi fa ho lanciato l'allarme c'è stata totale omertà politica: nessun partito, esponente politico, parlamentare, consigliere comunale o regionale ha ritenuto di intervenire nonostante le aree siano da anni considerate strategiche e oggetto di ampio dibattito pubblico. Ora speriamo si svegli qualcuno per abrogare questa legge vergogna.

    «Quello delle spiagge è un rito che si ripete puntuale ogni anno. La questione è vecchia, e risale al 2006, quando il governo Prodi nella Finanziaria decise di mettere ordine sulla materia rivedendo i canoni legati alle attività turistico-balneari, spiagge comprese». Il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2015 (m.p.r.)

    Bene che vada, ci sarà il condono bis, a prezzi di saldo. Male che vada, le spiagge - o meglio gli spazi di “pertinenza economica” degli stabilimenti balneari (bar, ristoranti, palestre, piscine ecc. La vera polpa delle concessioni) - verranno vendute, o meglio, “sdemanializzate”, per usare il linguaggio tecnico dei proponenti. In pratica, peggio di quello che provò a fare il governo Berlusconi nel 2006 - il prolungamento di 50 anni delle concessioni - senza però riuscirci anche per l’opposizione del centrosinistra.

    Ora la manovra è concentrica e il mezzo sono una serie di emendamenti fotocopia alla manovra in discussione in commissione Bilancio al Senato: Pd, Ncd e Forza Italia provano, o meglio riprovano, a condonare i canoni non pagati ai proprietari delle aree di pertinenza, mentre Forza Italia - a firma Maurizio Gasparri - punta al colpo grosso, tanto clamoroso quanto tecnicamente ben congegnato, sfilare al demanio marittimo quelle aree per poi affidarle al sistema delle “cartolarizzazioni”, il nome tecnico per le vendite di pezzi dello Stato, con diritto di prelazione per i “conduttori”, cioè chi ci sta già dentro.
    Quello delle spiagge è un rito che si ripete puntuale ogni anno. La questione è vecchia, e risale al 2006, quando il governo Prodi nella Finanziaria di fine anno decise di mettere ordine sulla materia rivedendo i canoni (di proroga in proroga mai ritoccati da decenni) legati alle attività turistico-balneari, spiagge comprese. E un adeguamento anche per le aree di pertinenza commerciale (bar, ristoranti, etc), calcolato sul valore del mercato immobiliare della zona. Apriti cielo “Abbiamo subìto aumenti stellari”, denunciano i balneari. Ma prima le pertinenze non pagavano nulla. Pena la perdita della concessione. Da lì sono partiti i contenziosi. A fine 2013 - governo Letta - nella manovra passa un emendamento che condona il passato: per chiudere i conti con il Fisco dal 2006 i concessionari possono scegliere di pagare il 30% subito o il 60 spalmato su sei anni. La sanatoria si è chiusa nel 2014.
    Ora Fi e Ncd puntano a prorogarla per altri due anni, fino a fine 2016. L’emendamento Pd - a prima firma Manuela Granaiola, una vera pasionaria dei balneari, già autrice di vari tentativi di privatizzare le spiagge - fa invece anche di più: sospende i provvedimenti di revoca delle concessioni e riapre quelli del condono ad libitum; cancella la rivalutazione in base al mercato immobiliare di zona; e, per il futuro, lo stesso canone, in favore di un pagamento una tantum tra i 2 e i 4 mila euro. Una pietra tombale sui tentativi avviati dai tempi di Prodi di far pagare il giusto a chi fino ad allora se l’era cavata a prezzi di saldo.
    Basti pensare che dal “demanio marittimo”, cioè dalle spiagge, lo Stato nel 2014 ha incassato 101 milioni, meno dell’anno prima e meno di quanto riscuoteva nel 2009. Nel 2013, per aggirare le accuse di voler privatizzare le spiagge, la Granaiola tirò fuori il coniglio dal cilindro: la proroga delle concessioni per 30 anni. La palla passava insomma ai nipoti degli attuali proprietari. Il tutto per aggirare gli obblighi europei imposti da un’apposita direttiva, che prevede di mettere le concessioni a gara pubblica, senza diritto di prelazione per il titolare precedente. Dal 2010 di proroga in proroga la direttiva non è mai entrata in vigore, con la procedura di infrazione europea costretta a ripartire di volta in volta da zero, l’ultima grazie al governo Monti che ha prolungato le concessioni da fine 2015 al 2020. Una blindatura minacciata però da due ricorsi, uno in Lombardia e uno in Sardegna, i cui rispettivi Tar hanno deciso di interpellare la Corte di Giustizia Ue, che si pronuncerà il 2 dicembre: in caso positivo, le concessioni tornerebbero subito sul mercato.
    Niente paura, qui entra in gioco l’emendamento Gasparri, che risolve il problema alla radice sfilando le aree di pertinenza al demanio per poi venderle a chi già le usa. Chi partecipa a un bando per aggiudicarsi la gestione dei una spiaggia i cui bar, ristoranti e servizi sono occupati dal vecchio proprietario? Ieri Gasparri ha risposto insultando il leader dei Verdi Angelo Bonelli che ha svelato il suo emendamento: “È un fallito, nessuno vende nulla, vogliamo solo fornire certezze normative”. Ieri fonti parlamentari riferivano che almeno sul primo punto - il condono - l’accordo è in fieri. Sul resto, si vedrà.

    Cominciano a capire che cos'è il project financing all'italiana. C'è chi lo predica da decenni, e noi pagheremo tutto perché chi decide non sente. La Nuova Venezia, 2 novembre 2015

    IL PM ORDINA LA PERIZIA SUI COSTI

    Mestre. A quasi tre anni da quando Piergiorgio Baita (arrestato per le tangenti Mose) parlò dell’affaire Ospedale dell’Angelo a Mestre, la Procura di Venezia cerca ancora di capire se anche in quell’operazione ci fu un malaffare traducibile in reati da contestare. Da mesi un commercialista sta passando al setaccio il project finacing che ha permesso di realizzare l’opera nella periferia di Zelarino. Le indagini sull'ospedale dell'Angelo, nate da una “costola” della maxi inchiesta sullo scandalo Mose, alimentarono, fin da subito, attraverso le dichiarazioni di Baita, una serie di sospetti su l’opera realizzata attraverso la finanza di progetto. Sospetti, peraltro, estesi anche a tutte le altre opere realizzate o previste in Veneto con analoghe modalità contrattuali.

    Il sostituto procuratore Laura Cameli, alla quale è stato affidato il fascicolo nel 2013, ha disposto una consulenza tecnica, affidata ad un commercialista mestrino. C’è il sospetto che l’intervento sia stato troppo vantaggioso per i privati che lo hanno realizzato anticipando il denaro. Il dubbio: se il profitto per le imprese è stato esagerato, chi lo ha garantito politicamente potrebbe averne tratto beneficio. Su questo si indaga. L’operazione, per le casse della Regione e quindi dei cittadini, è stata decisamente poco conveniente; lo hanno detto in molti e la stessa Corte dei Conti da tempo ha ficcato il naso.
    Sono ben cinque le indagini della magistratura contabile sull’ospedale mestrino. Le sta conducendo la Procura regionale della Corte dei conti per verificare la legittimità di alcune spese e, di conseguenza, accertare la possibile sussistenza di un danno erariale. La più rilevante riguarda, appunto, l’operazione finanziaria che ha permesso la costruzione del polo ospedaliero di via Paccagnella, costruito in gran parte con soldi di una cordata alla quale l’Ulss 12 è impegnata a versare un canone, in parte relativo all’ammortamento, in parte ai servizi dati in gestione (riscaldamento, rifiuti, mensa, lavanderia); 248 milioni sborsati dai privati a fronte di oneri per 1 miliardo e 200 milioni spalmati in 24 anni. Decisamente troppo.

    ZAIA: «VIA LA POLIITICA, DECIDANO I TECNICI»

    di Filippo Tosatto

    VENEZIA Le procedure di finanziamento del nuovo ospedale di Padova, la querelle giudiziaria e amministrativa sui costi abnormi dell’Angelo di Mestre, il piano infrastrutturale “dormiente” in Regione: si riaccende così lo scontro sui project financing, i contratti “misti” che nella lunga stagione galaniana hanno sancito l’accesso dei capitali privati alle grandi opere pubbliche, consentendo la realizzazione di obiettivi importanti (dalla sanità alle strade) ma rivelandosi troppo spesso punitivi per le casse del Veneto e “vulnerabili” sul versante della legalità. Che fare allora?

    In tempi di tagli alla spesa, come si conciliano trasparenza, tutela dell’interesse pubblico e raccolta delle risorse necessarie a finanziare i progetti strategici? «La prima legge approvata dalla nuova assemblea regionale l’ho presentata io e riguarda la revisione sistematica dei contratti di finanza di progetto», afferma il governatore Luca Zaia «la volontà è quella di riesaminare tutti i project in fieri e accertarne sia l’effettiva necessità che la sostenibilità sul piano economico. Intendiamoci, i project non sono entità demoniache ma contratti adottati in tutto il mondo: possono risultare vantaggiosi per il pubblico oppure devastanti, come accaduto in passato. Dipende dalle clausole previste. Ai cittadini dico questo: chi è ladro, ruba dappertutto, anche le elemosine in chiesa. Servono poche regole chiare, il procuratore Nordio ha ricordato che l’attuale giungla di leggi e burocrazia in materia di appalti non scoraggia, anzi favorisce le tangenti».
    Nel frattempo, i contratti-capestro stipulati zavorrano i conti pubblici... «Cercheremo in ogni modo di rinegoziarli ma per ridiscutere un accordo firmato, occorre essere in due oppure rassegnarsi a pagare i danni». Ma cosa cambierà d’ora in poi? «Che la politica resterà fuori dalla finanza di progetto. La scelta della proceduta di finanziamento per le nuove opere avverrà in modo comparativo, con atti certificati, rispetto alle opzioni disponibili: accesso al credito ordinario, richiesta di mutuo alla Banca europea investimenti, ricorso al project. La stella polare sarà il vantaggio istituzionale e l’ultima parola spetterà ai tecnici, qualificati a decidere e pagati per farlo». È tutto? No. Nei giorni scorsi il deputato padovano del Pd Alessandro Zan ha attaccato duramente il governatore leghista, imputandogli amicizie poco chiare con personaggi coinvolti nello scandalo Mose: «Dignità e coerenza vorrebbero che Zan rinunciasse all’immunità parlamentare per favorire un sereno dibattito penale e provare le accuse che mi muove. Così non è, perciò sarò io a recarmi presso la Procura della Repubblica ma anche dal giudice civile.
    Per non aggiungere squallore a un dibattito che esito a definire politico, eviterò di ricordare all’onorevole quanti, nel suo partito, hanno avuto a che fare con l'inchiesta Mose e su quali tipi di rapporti diciamo cosi “ambientali” le Procure hanno meritoriamente fatto luce». Chi assume una posizione drastica sulla vicenda è il M5S: «Siamo contro i project financing senza se e senza ma», scandisce il capogruppo Jacopo Berti «perché si sono rivelati l’alveo naturale di sprechi, corruzione e mangiatoie, senza alcun beneficio per il tessuto sociale. Un esempio per tutti, l’ospedale di Mestre: i privati hanno versato 248 milioni, la Regione li ripagherà con 1,2 miliardi nell’arco di 24 anni. È uno strumento finanziario perverso, che assicura profitti esagerati agli investitori in assenza di ogni rischio imprenditoriale»; i pentastellati, si diceva, non ammettono eccezioni: «Se governassimo noi, stracceremmo anche i contratti in vigore, meglio pagare la clausola rescissoria e voltare pagina».

    Il progetto del nuovo aeroporto di Firenze è un concentrato di illegalità. Un masterplan, cioè un progetto preliminare, presentato ... (continua a leggere)

    Il progetto del nuovo aeroporto di Firenze è un concentrato di illegalità. Un masterplan, cioè un progetto preliminare, presentato alla Valutazione di impatto ambientale al posto del progetto definitivo. Uno studio di impatto ambientale lacunoso e su dati non completi o non aggiornati. Una Valutazione ambientale strategica su una pista di 2000 metri e non di 2400 come quella sottoposta a VIA. Un piano di utilizzo delle terre di scavo assente, nonostante che per legge la sua presentazione «deve avvenire prima dell'espressione del parere di valutazione ambientale» (art 5, Decr. Min. 161/2012): con la beffa del Comune di Firenze che chiede che il piano sia elaborato «nelle fasi successive della progettazione», cioè quando nessuno potrà controllare alcunché, seguendo una prassi che è stata sperimentata con risultati disastrosi nella realizzazione della Tav in Mugello. Queste sono solo alcune delle torsioni, omissioni, forzature che Enac e Aeroporto di Firenze stanno perpetrando ai danni dei cittadini con la regia del Ministero dell'Ambiente e nel colpevole silenzio della Regione Toscana, che così anticipa la "riforma Boschi", quando le opere di interesse nazionale saranno di esclusiva competenza dello Stato.

    Di fronte a un progetto che impatta violentemente sulla sicurezza idraulica della piana fiorentina e sulla salute degli abitanti, i Comuni interessati e le associazioni ambientaliste hanno chiesto all'Autorità alla partecipazione lo svolgimento di un Dibattito pubblico, previsto dalla legge toscana, prendendo, ahiloro, seriamente, un impegno ufficiale della Regione Toscana, sancito nella Variante al Pit che ha dato il via all'aeroporto; richieste rigettate, con la motivazione che avendo rifiutato Adf di mettere a disposizione il progetto e di partecipare, il dibattito sarebbe stato inutile. L'Autorità, tuttavia, in una lettera indirizzata al Presidente Rossi ha ritenuto “auspicabile” che la Regione Toscana promuovesse “una consultazione pubblica, volta a permettere ai cittadini e alle cittadine di essere informati debitamente sul progetto in questione e ad esprimersi su di esso". Ma Rossi ha taciuto e tace tuttora, mandando un chiaro segnale politico; né l'Autorità ha avuto uno scatto di orgoglio, prendendo una propria iniziativa.

    Vanificato il Dibattito pubblico nonostante gli impegni, rimaneva un'ultima chance, che uno o più Comuni chiedessero all'Autorità di indire un "processo partecipativo", una forma minore di dibattito che tuttavia non necessita della collaborazione del proponente; così ha fatto il Comune di Calenzano, con l'adesione delle associazioni, ambientaliste. Ma è notizia freschissima che anche questa richiesta sarà probabilmente respinta perché nel frattempo la Regione ha operato un robusto taglio ai fondi a disposizione dell'Autorità. Nessuna forma di partecipazione allora? I diretti interessati non hanno neanche diritto a essere informati? Lo sta facendo Toscana Aeroporti , che ha nel frattempo inglobato Adf, con una mostra nella centralissima piazza della Repubblica di Firenze, dove i cittadini vengono edotti che il nuovo aeroporto ridurrà il rischio idraulico, migliorerà la qualità dell'aria, produrrà più di 2000 nuovi posti di lavoro, un vero toccasana. Toscana Aeroporti riempie a pagamento la pagine dei grandi quotidiani nazionali e, conseguentemente, viene censurata ogni voce di dissenso. La Regione non mantiene fede né alle sue leggi, né alle sue delibere. Il messaggio è chiaro: una vera forma di partecipazione non s'ha da fare, né domani, né mai. Lasciamo ai lettori indovinare chi è il don Rodrigo che dall'alto del suo castello conduce la manovra; e chi è don Abbondio. Quanto ai bravi ve ne sono così tanti che è impossibile individuarli tutti.

    Le recenti imprese di un protagonista del gruppo di potere dominante nell'economia e nella politica veneziane: il «king maker dello "svi­luppo" che vola insieme alle colate di cemento». Il manifesto, 26 agosto 2015, con ampia postilla

    E poi c’è il king maker dello «svi­luppo» che vola insieme alle colate di cemento. Enrico Mar­chi, tre­vi­giano di Ser­na­glia della Bat­ta­glia, classe 1956, con una ven­tina di pol­trone dichia­rate fra cda e società varie, dal 1 giu­gno 2000 guida Save tra­sfor­mando la mera gestione dell’aeroporto Marco Polo in una «piat­ta­forma» che vola dall’urbanistica ai ser­vizi di mobi­lità, da Cen­to­sta­zioni al busi­ness da viaggio.

    Mar­chi è pre­si­dente Save (35,9 milioni di euro di capi­tale) quo­tata in Borsa da dieci anni, che detiene il 27,65% dell’aeroporto belga di Char­le­roi ed è entrata nella spa che gesti­sce gli scali di Verona e Bre­scia. Fino ad otto­bre 2016, Mar­chi può con­tare sul patto para­so­ciale con Agorà Inve­sti­menti e Marco Polo Hol­ding (entrambe società con sede a Cone­gliano). Ed è riu­scito per­fino a pie­gare il finan­ziere franco-americano Joseph Oughour­lian (pre­si­dente di Amber Capi­tal Ita­lia Sgr) che con il 20% delle azioni Save aveva attac­cato senza pietà la gestione del «Marco Polo» da parte dello staff di Marchi.

    Ma il qua­drante di Tes­sera con­ti­nua a rap­pre­sen­tare, da lustri, il core busi­ness dell’urbanistica a senso unico. Fin dalla «svolta» in Save con gli enti pub­blici locali bef­fati dal gover­na­tore Galan che inco­rona Mar­chi: è la pri­va­tiz­za­zione, per­fino a dispetto di Paolo Sini­ga­glia (pre­si­dente di Veneto Svi­luppo). Così oggi il pre­si­dente di Save sfo­dera un’altra ope­ra­zione in grande stile: il master­plan che ridi­se­gna tutto, con oriz­zonte finale 2021.

    Con­tiene un mega-hotel di fronte al pro­get­tato ter­mi­nal acqueo che da solo vale 630 milioni di inve­sti­mento. Il com­mis­sa­rio Zap­pa­lorto aveva dato il via libera, ma sono insorti i comi­tati dei cit­ta­dini di Tes­sera e Cam­palto. L’albergo è pre­vi­sto in un’area di 10 mila metri qua­drati: il 30 set­tem­bre scade il ter­mine della mani­fe­sta­zione d’interesse. Un ana­logo pro­getto era già con­te­nuto in «Porta di Vene­zia» fir­mato dall’architetto cana­dese Frank O. Gehry e rima­sto let­tera morta per assenza di finan­zia­menti. L’idea dell’hotel viene rispol­ve­rata accanto alla spe­cie di Croi­sette con vista laguna.

    Il 22 luglio il comi­tato cit­ta­dini di Tes­sera e Cam­palto con­tro l’inquinamento acu­stico, atmo­sfe­rico e ambien­tale da traf­fico aero­por­tuale ha depo­si­tato in com­mis­sione Via ulte­riori 17 pagine di cri­ti­che al master­plan Save. «Non può essere l’Enac il pro­po­nente di una istanza di Via di un Master­plan redatto dal gestore aero­por­tuale, poi­ché all’Enac è attri­buito per conto dello Stato il com­pito pri­ma­rio di con­trol­lare e vigi­lare sull’operato e le scelte del gestore», spie­gano evi­den­ziando il con­flitto d’interesse. Il comi­tato si pre­oc­cupa anche del rumore not­turno all’interno della muni­ci­pa­lità: «La fre­quenza dei sor­voli in allon­ta­na­mento è desti­nata ad aggra­varsi con l’aumento del 30% dei sor­voli a bassa quota». Save pro­mette una doz­zina di opere di miti­ga­zione a Tes­sera? «Abbiamo con­ferma dalla con­tro­de­du­zione del dub­bio espresso nelle nostre pre­ce­denti osser­va­zioni: il com­plesso delle opere di miti­ga­zione e com­pen­sa­zione è stato ela­bo­rato e inse­rito pro forma. Appare chiaro che è un col­lage pub­bli­ci­ta­rio, per imbo­nire i cittadini».

    postilla

    L’area di Tessera è un punto nodale della strategia diprivatizzazione e della città e della sua Laguna. Da un punto di vistaterritoriale è uno dei tre poli sui quali si concentrano grandi operazioniimmobiliari. A Tessera sono state avviate con una serie di modifiche dellastrumentazione urbanistica e di acquisizioni immobiliare finalizzata avalorizzare economicamente un enorme complesso di aree. Nel gigantescocomplesso immobiliare dell’Arsenale di Venezia, di eccezionale valorestorico-artistico, sono in atto da tempo iniziative di privatizzazione e“valorizzazioni” degli immobili oggi di proprietà pubblica. Al Lido di Veneziasono in corso iniziative di “valorizzazione” turistica basata essenzialmentesulla privatizzazione di complessi immobiliari pubblici. I tre poli dovrebberoavere il loro collegamento funzionale con la metropolitana sub lagunare,intervento devastante per l’impatto sullastruttura geologica di base dellacittà (il “caranto”) e per l’ulteriore apporto di flussi turistici verso unacittà già alle soglie del collasso.

    Al disegno territoriale (il cui avvio avvenne alla finedegli anni 80 quando il gruppo di potere allora dominante propose il progettoper l’Expo 2000 a Venezia (Tessera doveva esserne proprio la “porta” d’accesso) si èaccompagnata una strategia di potere che ha visto il connubio, sempre più, di amministratoripubblici e portatori di consistenti interessi privati, fortemente solidale nelpromuovere una politica di trasferimento dal pubblico al privato sia diresponsabilità decisionali sia di patrimoni immobiliari.
    Il progetto Tessera-Arsenale-Lido non è il solo nella strategia territoriale edi potere che ha come polpa Venezia e la sua Laguna. Con esso concorrono (nelsenso che corrono insieme) altri due progetti: quello condotto dal gruppoBenetton, che ha come suoi nodi territoriali Piazzale Roma-Ferrovia-Rialto(Fontego dei Tedeschi)-Piazza San Marco (ex complesso San Marco), e quellocondotto con tenacia dal Presidente dell’Autorità portuale di Venezia, oggi colforte sostegno del nuovo sindaco Brugnaro: consolidare e incrementare l’accessodei Grattacieli del mare al cuore della città, devastando ulteriormente laLaguna. Marchi e Costa, e Benetton sono indubbiamente oggi, iprincipali esponenti del gruppo di potere dominante, non solo per le treprincipali infrastruttured’accesso alla città che controllano (aeroporto, porto, stazione ferroviaria),ma per la rete di connessioni che sono riusciti a stabilire con i poteriistituzionali comunale e regionali e con gli steakholders minori nei settori dei promotori immobiliari, del turismo e del commercio.

    Forse è giunta l'ora di affidare ai privati, per project financing, la realizzazione e gestione delle istituzioni, fino a oggi attribuita al popolo dalla costituzione della Repubblica italiana. Il Sole 24ore, "Edilizia e Territorio", 3 marzo 2015

    Per la prima volta un carcere in project financing. Accadrà a Bolzano: la Società Italiana per Condotte d'Acqua – in raggruppamento temporaneo di imprese con Inso (società controllata dal Gruppo Condotte) – si è aggiudicata la gara della Provincia autonoma (il bando era del 15 luglio 2013) per la progettazione, la costruzione e gestione della nuova casa circondariale della città altoatesina.
    Il valore complessivo della gara è di 54 milioni di euro, il 67% dei quali a carico del privato (36,18 milioni) e il rimanente 33% (17,82) a carico del pubblico. La durata della concessione sarà di 18 anni, di cui due anni e tre mesi previsti per la realizzazione dell'opera. La struttura – che sorgerà nella zona sud di Bolzano, vicino all'aeroporto, su un'area di 18mila metri quadrati – potrà ospitare 220 detenuti, 100 operatori di polizia penitenziaria, con 30 posti per agenti in caserma e 25 unità di personale civile. Fuori dalla cinta muraria – precisa una nota di Condotte – sono previsti il controllo accessi, la direzione e i relativi alloggi e la sezione dei detenuti semiliberi. All'interno, invece, oltre alla sezione di reclusione, saranno ricavati l'infermeria, gli spazi per il lavoro, una sala polivalente, un campo da calcio a sette, una palestra, la cucina e la lavanderia.
    La fase gestionale prevede più servizi: la manutenzione ordinaria e straordinaria, la gestione delle utenze, i servizi mensa, lavanderia e pulizia, nonché la gestione delle attività sportive, formative e ricreative. «È una novità assoluta in Italia – commenta Duccio Astaldi , presidente di Condotte – e ci affascina l'idea di essere pionieri in questo settore, come ci è più volte capitato nella nostra storia in mercati e Paesi diversi. L'eterogeneità dei servizi previsti dalla gara non è un problema, ma al contrario esalta la nostra natura di general contractor».

    Quelli che Condotte gestirà per la nuova casa circondariale di Bolzano sono servizi che il terzo general contractor italiano già svolge in altre situazioni. Nel caso specifico del carcere di Bolzano, sono richiesti protocolli di sicurezza molto stringenti. I detenuti, oltre a essere impiegati in alcuni servizi interni (mensa, pulizia), saranno coinvolti in laboratori teatrali e musicali e in corsi professionalizzanti. Ora è solo questione di tempi: si parte dalla conferenza dei servizi per poi giungere all'approvazione del piano esecutivo definitivo.

    Ecco per chi appesantiamo le nostre città, devastiamo i nostri paesaggi, peggioriamo le nostre condizioni di vita , cediamo i nostri poteri di decisione, rendiamo più amaro il future dei nostri figli (e nipoti). La Repubblica, 27 febbraio 2015

    La Hines sgr, guidata da Manfredi Catella, ha annunciato la transazione: passa di mano il 60% dei nuovi palazzi che costellano la zona tra il quartiere Isola e la nuova sede di Unicredit. Il valore commerciale dell'area è di 2 miliard

    I grattacieli di Milano passano in mano agli emiri: il fondo sovrano del Qatar diventa il proprietario unico di Porta Nuova, l'area del capoluogo lombardo dove sono sorti numerosi nuovi grattacieli. Lo ha annunciato in conferenza stampa Manfredi Catella, a capo di Hines sgr. "È il padrone di casa", ha aggiunto, spiegando che il fondo controllava il 40% ed è salito al 100%. "Una delle transazioni più importanti degli ultimi tempi", l'ha definita ancora Catella.

    Il fondo emiratino subentra quindi agli investitori iniziali: Hines, Unipol Sai, ed i fondi Mhrec, Hicof, Coima e Galotti. L'entità dell'investimento non è stata resa nota: l'area oggetto del progetto di riqualificazione comprende tutta l'area attorno a Porta Garibaldi, e nel suo complesso i 25 edifici hanno un valore di mercato di oltre 2 miliardi. "Gli investitori in Porta Nuova hanno guadagnato il 30%", ha detto Catella. "E' una delle transazioni più importanti a livello europeo - ha infatti aggiunto - ci sarà in futuro la possibilità di un ingresso di altri fondi sovrani in posizione di minoranza


    Porta Nuova comprende 25 edifici tra cui la torre che ospita la sede di Unicredit, ed il cosiddetto 'Bosco Verticale' che è già stato venduto al 65%. La parte residenziale di Porta Nuova comprende 380 unità abitative in 13 edifici. Tra le società che già hanno scelto Porta Nuova come sede ci sono: Nike, Google e molte griffe della moda. Hines Italia Sgr continuerà a gestire i fondi d'investimento di Porta Nuova, property e project management invece sarà gestita da Coima della famiglia Catella.

    «Sono solo affari. In fondo non ammazzano nessuno. Cioè quasi nessuno, ma comunque gente loro. In fondo qui non chiedono il pizzo. Cioè quasi, ma solo a gente immigrata dal sud. Alla fine, si tratta soltanto di soldi. Sappiamo che non è così». La Repubblica, 30 gennaio 2015 (m.p.r.)

    Fino a poco tempo fa c’era un solo posto in Italia in cui si diceva ancora che la mafia non esiste, ed era il Nord, in particolare l’Emilia Romagna. L’idea che qua fossimo diversi e che la nostra diversità offrisse una barriera insormontabile al radicamento mafioso era così forte dal mettere al bando chiunque ne parlasse e con le stesse accuse rivolte a chi trent’anni fa ne parlava per il sud: procurare un immotivato allarme e screditare ingiustamente il territorio. Roberto Saviano, Beppe Sebaste e tanti altri giornalisti e scrittori - compreso il sottoscritto - bollati da prefetti, politici e anche alcuni magistrati come visionari e paranoici, deformati da una concezione esageratamente e volutamente noir di questa nostra isola così felice.

    Eppure. Eppure da tempo ogni operazione antimafia di carattere nazionale finiva per avere numerosi arresti anche in Emilia Romagna, e quasi sempre con conti correnti sequestrati a San Marino.
    Eppure storici, studiosi e associazioni come Libera - solo per citarne una - lanciavano allarmi continui su una situazione attentamente monitorata e che da tempo vedeva praticamente le sedi sociali di ‘ndrine calabresi e della mafia di Casal di Principe stabilirsi in provincia di Reggio Emilia e di Modena. Eppure da tempo chi si fosse trovato a parlare con sindaci, amministratori o imprenditori delle nostre zone così diverse e così felici, si sarebbe sentito dire, timidamente, ecco, io veramente avrei un problemino.
    Senza contare incendi di macchine nei cantieri, intimidazioni di amministratori, persone incaprettate nei bauli di auto bruciate e un giornalista come Giovanni Tizian - per citare l’esempio più noto - minacciato di morte e costretto a vivere sotto scorta, proprio qui da noi. Ma perché qui da noi avrebbe dovuto essere tutto così diverso? È dai tempi dell’inchiesta in Sicilia di Sonnino e Franchetti - 1876 - del rapporto Sangiorgi e del libro di Colajanni su Il Regno della Mafia - 1900 - che sappiamo come le mafie abbiano sempre trattato col potere politico ed economico diventandone parte loro stesse. E andando sempre a cercare i soldi là dove stavano.
    Qui da noi, in Emilia Romagna, i soldi c’erano e un po’ ce ne sono ancora. E tra tanta, tantissima gente per bene, tra tante associazioni sindacali, cooperative, imprenditori e lavoratori attenti, che non scenderebbero mai a compromessi, c’è anche qualcuno che in nome del pragmatismo tipicamente attribuito agli emiliani romagnoli ha accettato soldi e lavoro senza farsi troppe domande. Bancari, imprenditori, amministratori, i primi che hanno pensato ma in fondo sono solo affari hanno aperto falle enormi in quella nostra presunta barriera di diversità.
    In fondo sono solo affari. In fondo qui non ammazzano nessuno. Cioè quasi nessuno, ma comunque gente loro. In fondo qui non chiedono il pizzo. Cioè quasi, ma comunque solo a gente immigrata dal sud. In fondo lavorano in fretta e bene. Cioè, bene no, ma non importa, il mondo è quello che è. Alla fine, si tratta soltanto di soldi. Sappiamo che non è così. Lo sappiamo da tanto tempo. Mi ricordo un convegno nei primissimi anni ‘90, per esempio, in cui l’allora presidente della Commissione Antimafia Luciano Violante parlò della presenza mafiosa in questa Emilia Romagna così apparentemente diversa. State cercando l’animale sbagliato, disse. Cercate la piovra, come al sud, e invece dovreste cercare un pescecane, che non controlla il territorio militarmente ma si mangia politica ed economia. Morale, etica e salute. Futuro.
    E invece abbiamo continuato a cercare la piovra e visto che non la trovavamo abbiamo continuato a parlare di tentativi di infiltrazione mafiosa, soltanto tentativi. Qualcuno di noi ci ha fatto inchieste sopra e qualcuno ci ha anche scritto romanzi, molto credibili, ma si sa, i romanzi sono solo romanzi, soprattutto se noir. E così qualche mese fa mi sono trovato ad assistere all’udienza di un processo a Bologna, quello nato dall’inchiesta “Black Money”, che cerca di far luce su ‘ndrangheta e gioco d’azzardo tra Emilia e Romagna, e tante altre cose tra cui le minacce di morte a Giovanni Tizian.
    Sono seduto tra il pubblico e accanto a me ho due veterani di processi di quel genere, profondi conoscitori di mafie, come Attilio Bolzoni e Lirio Abbate, a cui tante volte ho chiesto aiuto per farmi raccontare personaggi e luoghi, dove sta quella borgata, quanto dista da Palermo o da Catania, come è fatta quella strada a Corleone.
    Ecco, in quel processo si parlava di luoghi che stanno a pochi chilometri da dove vivo, e quella volta a spiegare ad Attilio e Lirio come era fatta quella strada e dove stava quel parcheggio, ecco, quella volta ero io. Quando me ne sono accorto ho provato un senso di doloroso stupore. E poi mi sono chiesto: ma perché me ne stupisco. Perché ce ne stupiamo. Perché ora, quando l’ennesima retata arresta più di cento persone attorno a casa nostra. Perché non prima, quando era già così evidente?

    «Alcune dichiarazioni fanno scattare per lo scrittore una denuncia da parte della società francese che realizza la Torino-Lione. L'accusa è "istigazione pubblica a commettere delitti" per aver detto che la TAV va sabotata. "Ma chi è davvero minacciato dall'incriminazione che mi è stata rivolta è l'articolo 21 della Costituzione». Altreconomia.it, 7 gennaio 2015 (m.p.r.)

    Nel settembre 2013, la LTF, ditta francese costruttrice della linea TAV Torino-Lione, annuncia una denuncia contro lo scrittore Erri De Luca, per le dichiarazioni rese all'Huffington Post Italia e all'Ansa. La denuncia viene effettivamente depositata il 10 settembre 2013 presso la Procura della Repubblica di Torino. «La Tav va sabotata», aveva detto Erri De Luca. Il 5 giugno 2014 sì è svolta la prima udienza preliminare, a porte chiuse. Il 9 giugno 2014 viene stabilito il rinvio a giudizio, per il 28 gennaio 2015. L'accusa è di aver «pubblicamente istigato a commettere più delitti e contravvenzioni ai danni della società LTF sas», come si legge nell'avviso di garanzia.

    A due settimane dall'inizio del processo, il 14 gennaio 2015, uscirà in Italia e Francia un piccolo libretto di 64 pagine. Si intitola La parola contraria, è edito da Feltrinelli e costa 4 euro. È la “pubblica difesa” dello scrittore. Lo abbiamo intervistato.

    Erri De Luca, quella in Val di Susa è una «lotta massicciamente diffamata e repressa». Perché?
    La Val di Susa è un caso unico per la resistenza che la vallata ha saputo opporre a una 'grande' opera. In altri territori le ruspe e le trivelle sono passate con più facilità. È un caso unico per la qualità della resistenza civile degli abitanti di questa valle. È una lotta di pura e legittima difesa, indispensabile in un Paese come l'Italia. Ma attenzione, non è una lotta di retroguardia, semmai di avanguardia. Gli abitanti della Val di Susa dimostrano e stabiliscono il diritto di sovranità delle popolazioni locali sulle risorse, sull'aria, sull'acqua, sulla salute. Le loro voci sono minacciate dalla strafottenza pubblica nei confronti della vita civile. È una lotta di lunga durata ormai: una lotta esemplare per quel che riguarda il Paese e l’Europa. Una volta archiviato il cantiere, credo che verrà studiata nei libri di scuola.

    Riflettendo sulla “istigazione” di cui l'accusano, lei scrive: «Vorrei essere lo scrittore incontrato per caso, che ha mischiato le sue pagine ai nascenti sentimenti di giustizia che formano il carattere di un giovane cittadino. […] Istigare un sentimento di giustizia, che già esiste ma non ha ancora trovato le parole per dirlo e dunque riconoscerlo. […] Di fronte a questa istigazione cui aspiro, quella di cui sono incriminato è niente».
    Lo scrittore è una voce pubblica, che ha il compito di proteggere il diritto di tutti a esprimere la propria. Io mi considero un cittadino sia della Val di Susa sia di Lampedusa: posti nei quali la tenacia popolare ha smentito la diffamazione che è stata rivolta loro. I valsusini sono definiti "montanari" contrari al treno e all’alta velocità, amanti forse del calesse. La verità è che difendono il loro territorio da quello che ho definito '"stupro", in una delle più intense e durevoli lotte di prevenzione popolare contro la distruzione. È quindi ovvio che non possano transigere, che non siano trattabili la vallata e la loro salute. Non possono cambiare la loro posizione. Possono solo essere deportati. Non si può transigere sul diritto ad abitare quel suolo.

    Il processo cui va incontro è un processo sulla libera informazione e sulla libertà di parola.

    Nel nostro Paese l'informazione è piuttosto compromessa. Io la chiamo informazione 'embedded", al seguito delle truppe, del bollettino di guerra degli stati maggiori. I giornali sono aziende la cui linea è dettata dal cda, dove i giornalisti sono impiegati. La libertà di stampa si è ridotta a termini simili a quelli precedenti alla Seconda guerra mondiale. Solo che oggi siamo sotto la dittatura dell’economia. Anche i nostri rappresentanti politici sono stati scelti in base alle loro fortune economiche. La tradizione di idolatria dell’economia è recente. Ma chi è davvero minacciato dall’incriminazione che mi è stata rivolta è l’articolo 21 della Costituzione. Le accuse nei miei confronti sono un tentativo di imporre il silenzio nei confronti degli altri. Nei miei confronti ovviamente non funziona. Qui è in discussione la libertà di parola contraria. Finché è ossequiosa e rispettosa delle autorità e delle malefatte, la libertà di parola è sempre ben accetta. Quella contraria invece è sottoposta a giudizio o censura.

    Ci sono montagne di documentazione che dimostrano, da anni, che la TAV in Val di Susa è inutile e dannosa. Allora perché tanti si ostinano a sostenerla, e lo Stato la considera un'opera “strategica”?
    Si tratta di motivi di uniformità alle direttive economiche. Si tratta dei vantaggi delle imprese che devono realizzarla. Non la faranno mai, ma finché dura continueranno a lucrarci, anche a cantiere svuotato continueranno a guadagnarci. Un po' come accade con il Ponte sullo stretto di Messina. Sul fatto che sia strategica per lo Stato, registro che però io sono stato denunciato da una ditta privata. Sfido allora la pubblica autorità a costituirsi parte civile contro di me. Manca questo tassello a completare l’intimidazione. Non è detto che non lo facciano entro il 28 gennaio.

    Tuttavia non si ritiene una vittima, né di aver subito un torto.
    '"Vittima" è una parola che mi dà fastidio. Io sono testimone di un abuso nei miei confronti e nei confronti di una comunità. Se verrò condannato, non ricorrerò in appello -i miei avvocati sono ormai rassegnati-. I miei ragionamenti sono quelli contenuti nel libro: se non saranno sufficienti in primo grado non vedo il motivo per andarmi a cercare una seconda aula in cui ripetere gli stessi argomenti cercando migliore udienza. Se quello di cui sono accusato è un reato, allora mi dichiaro reo confesso e recidivo. Ho scelto anche di non cambiare tribunale (per incompatibilità ambientale, ndr), poiché per i processi No Tav non è mai stato fatto. La linea difensiva è svolgere il dibattimento il prima possibile, senza presentare obiezioni né testimoni. Le mie sono parole che ho sempre pronunciato. Non era la prima né l’ultima volta che le pronunciavo: sono convinto della ragioni della Val di Susa. Per me prendere la parola a favore di una comunità è un dovere. Fa bene alla mia salute. Se mi censuro, censuro il mio vocabolario, mi danneggio. Le leggi dicono che potrei andare in carcere.

    In questi mesi ha ricevuto molto sostegno. «I tempi cambiano», scrive nel suo libro.
    C'è stata molta solidarietà nei miei confronti a partire sin da giugno. Molte persone hanno letto in pubblico le mie pagine. È la cosa più bella che mi sia capitata in questa vicenda. Non si tratta di solidarietà sull’argomento, ma affetto nei confronti delle pagine scritte. È questa la mia linea difensiva: se ci sono dei precedenti di istigazione vanno cercati nella scrittura, non nella mia biografia. Io ho espresso una mia opinione, che è stata criminalizzata. Inoltre c'è stata la solidarietà degli editori, che hanno deciso per un prezzo così basso per il libro. Col resto ci si prende un caffè.

    «Appalti, cemento, progettazioni di opere nate con questi presupposti daranno benefici scarsi, una sicura ferita all’ambiente e tanto consumo di suolo ma però faranno tanto consenso. Adesso questa politica, se non la corregge Renzi, dovranno pagarla gli italiani». Ilfattoquotidiano.it, 22 luglio 2014

    Nel sistema nazionale dove la regolazione pubblica delle vecchia rete autostradale vede il Ministero delle infrastrutture nel ruolo più di spettatore che di programmatore e concedente di concessioni autostradali, anche la nuova rete in costruzione ne subisce un’influenza negativa. Contribuisce la frammentazione di 23 società che gestiscono in concessione i 7 mila km di rete autostradale, sia pubbliche che private, a rendere disorganico il quadro per la viabilità e gli utenti. Le concessionarie hanno una forte influenza politica (appalti, progettazioni, assunzioni), pagano canoni risibili allo Stato e si sono garantite, con i diversi governi che si sono succeduti, tutti disattenti, un automatismo tariffario con pedaggi salasso che generano extra-profitti.

    Ciò grazie alla promessa di un maxi piano (sulla carta) di potenziamento della rete autostradale esistente che assicura rendite di posizione monopoliste con rinnovi delle concessioni automatici che evitano le gare suggerite dall’Europa. E’ in questo contesto che vanno valutati i sette grandi project-financingautostradali affidati negli anni passati e messi in “legge obiettivo”. Essi prevedevano investimenti complessivi per 15,3 mld e per i progetti più complessi lo Stato aveva stanziato un allettante pacchetto di risorse: oltre due miliardi di euro.

    Ora, dopo tanti avvertimenti di esperti ed ambientalisti, questi progetti sono in grave difficoltà finanziaria. Si tratta della Pedemontana Veneta e Lombarda, della Tem milanese, dell’Asti Cuneo, della Tirrenica Nord della Cispadana e della Brebemi. Tutti questi progetti scontano non solo la grave crisi economica che si è abbattuta sul Paese ma anche l’inasprimento delle condizioni finanziarie poste dalle banche che non si sono più rese disponibili per prestiti a lungo termine se non con quote di equity, e quindi di rischio, degli azionisti che non hanno mai sottoscritto. Nel corso della progettazione e della realizzazione delle opere le banche sono diventate azioniste di controllo come nel caso di Tem e di Brebemi e i closing finanziari sono avvenuti durante il corso delle opere grazie ai prestiti di istituti pubblici come la Bei e Cassa Depositi prestiti.

    Ma in questi anni i nodi della “grandeur autostradale privata” sono venuti al pettine facendo saltare i piani economico-finanziari. Ecco perché ora queste 7 concessionarie hanno richiesto complessivamente 2,9 miliardi di aiuti pubblici; o attraverso la defiscalizzazione o attraverso stanziamenti a fondo perduto e con l’allungamento della durata della concessione. Le previsioni di traffico erano state sovrastimate e i costi di realizzazione sottostimati per giustificare le tratte da realizzare. Le difficoltà a raccimolare le risorse per avviare i cantieri e la modifica dei progetti chiesta dagli enti locali e dalle valutazioni ambientali hanno allungato i tempi di anni.

    Ciò ha incrementato il peso degli interessi sul costo dell’opera. Per esempio per Brebemi, i costi sono triplicati passando da 800 milioni a 2,4 mld di cui ben 800milioni di soli interessi ed oneri finanziari. All’atto dell’apertura della direttissima Brescia Milano, parallela alla A4 Milano Brescia, si è scoperto che le tariffe saranno doppie rispetto a quelle già salate di autostrade per l’Italia. Tra abbassare le tariffe per aumentare i volumi di traffico o tenerle alte Brebemi ha scelto la seconda opzione. E cosi anche l’utilità sociale, oltre a quella trasportistica, vengono meno. Con un traffico previsto di 20mila veicoli giornalieri, contro gli 80mila stimati, il Project -financing non poteva che essere “aggiustato” spostando sulla spesa pubblica i maggiori costi e le minori entrate.

    Puntuale è arrivata la richiesta al Cipe di Brebemi di defiscalizzazione per 497 milioni di euro e di allungamento della durata della concessione di 10 anni, cioè da 20 a 30 anni. Così verrebbe modificato il Project financing e stravolta le condizioni della gara fatta nel 2007, la stazione appaltante perderebbe ulteriormente di credibilità e ciò spiega il motivo per cui in questi 7 Project -financing che ora chiedono 2,9 miliardi non c’è un euro di una banca straniera. Appalti, cemento, progettazioni di opere nate con questi presupposti daranno benefici scarsi, una sicura ferita all’ambiente e tanto consumo di suolo ma però faranno tanto consenso. Adesso questa politica, se non la corregge Renzi, dovranno pagarla gli italiani. E’ cosi che i Project financing fatti per non gravare sullo Stato finiscono per essere modificati dagli stessi promotori delle opere e subiti (con entusiasmo) dai committenti pubblici Ministero delle Infrastrutture, Anas e Regioni.

    Dario Balotta è esperto di trasporti e ambiente

    «L'imbeccata è oggi della Corte dei Conti, ma sarebbe bastato ascoltare in questi anni la voce dei No Expo per capire dove saremmo andati a parare». Se la stampa facesse il suo mestiere...

    Mancano poco meno di undici mesi ad Expo e finalmente - complice il fragore di un'inchiesta che ha portato in carcere 7 persone per corruzione - l'Esposizione universale in programma a Milano dal primo maggio 2015 può essere letta anche dai grandi media con spirito "critico". C'è da dire, però, che si arriva in grave e palese ritardo. Rendendo inutile, o sterile, il portato di editoriali o di inchieste giornalistiche (perché quando sono imbeccate dalle carte di una Procura, significa che il "danno" c'è già stato).

    Avrebbero potuto, in particolare Il Corriere della Sera e la Repubblica, incalzare il "sistema Expo" nel lungo intervallo di una luna di miele iniziata nel marzo del 2008, dopo l'assegnazione a Milano dell'organizzazione di Expo 2015 e maggio 2014, con gli arresti che provano ciò che molti a Milano e non solo sostengono da tempo: questo Expo senz'anima (come lo ha definito Carlin Petrini di Slow Food nel corso di un convegno ospitato dall'ISPI) è stata solo una "grande opera", anzi un insieme di grandi opere che costeranno almeno 11 miliardi di euro.

    Le parole di Petrini sono lo spunto per un corsivo pubblicato il primo giugno dal Corriere della Sera, ma chi lo firma, Giangiacomo Schiavi, meno di tre mesi fa sedeva a intervistare Sala, ad di Expo, Pisapia, sindaco di Milano, Maroni, presidente di Regione Lombardia, e Martina, ministro dell'agricoltura a Milano, e non ha incalzato nessuno dei quattro su ritardi (la cancellazione della linea metropolitana M4, la mancata inaugurazione di M5; i cantieri "indietro tutta" di Pedemontana), né sul rischio di una Expo "dimezzata": come scrive Lorenzo Bagnoli su Altreconomia di maggio 2014, i Paesi ospiti non dovranno pagare alcuna penale se rinunciano a realizzare il loro padiglione, e se continua così - per i cantieri "preliminari" della Piastra espositiva siamo a quasi due anni di ritardo - alcuni potrebbero rinunciare.

    Schiavi, pur con distinguo, continua però a difendere Expo, definisce "rubagalline" gli arrestati, ma basterebbero due collegamenti - il dovere del giornalista è quello della "memoria"- per evidenziare la debolezza di questa lettura. In aiuto, arriva uno scoop di Repubblica, sugli extracosti legati a una gestione "commissariale" ed "emergenziale" degli appalti. L'imbeccata è - oggi - della Corte dei Conti, ma sarebbe bastato ascoltare in questi anni la voce dei No Expo per capire "dove saremmo andati a parare". A meno di non rinunciare a questa mega-macchina mangia soldi, pagando - fino ad aprile 2013 - una penale di poche decine di milioni di euro, irrisoria rispetto allo spreco di denaro pubblico che è già stata e sarà Expo.

    Invece, siamo ancora qui, a 11 mesi dall'evento, ad ascoltare senza colpo ferire un ministro in carica parlare di Expo come di una "scommessa". Se è davvero tale, dopo sei anni, è già persa. Avvertite Maurizio Martina.

    Dopo oltre trent'anni di veleni e morti «per far emergere verità inoppugnabili, c’è stato bisogno dell’intervento della magistratura che ha riconosciuto colpevoli i massimi dirigenti dell’Enel. Left, 8 febbraio 2014

    C’è stato un periodo dello sviluppo industriale del nostro paese in cui gli impianti pericolosi venivano “confinati” in zone distanti dalla vista, ma, sfortunatamente, mai abbastanza dai polmoni delle popolazioni residenti sotto il cono di ricaduta dei fumi inquinanti emessi dai camini. Accadeva così che aree di grande pregio naturalistico venissero sacrificate alle ragioni della produzione. Uno dei casi più macroscopici è certamente quello della centrale termoelettrica dell’Enel a Porto Tolle, la più grande d’Italia con i suoi 2.640 MW, costruita nei primi anni ’80 in mezzo al delta del Po (successivamente riconosciuto Parco naturale interregionale e Zona protetta di interesse comunitario).

    Per trent’anni ha “marciato” ad “olio pesante” (combustibile ad alto contenuto di zolfo) sforando i limiti di legge dei particolati inalabili grazie a compiacenti deroghe ministeriali. Le tenaci popolazioni del Polesine sono state costrette ad una lunghissima battaglia condotta con esposti, ricorsi e proteste contro il colosso energetico vergognosamente spalleggiato da tutte le maggiori forze politiche e sindacali, le istituzioni locali, regionali e i vari governi che si sono succeduti. Anche in questo caso, per far emergere verità inoppugnabili, c’è stato bisogno dell’intervento della magistratura che già quattro anni fa ha riconosciuto colpevoli i massimi dirigenti dell’Enel di aver deliberatamente aggirato le disposizioni di legge condannandoli per danni ambientali e costringendoli alla chiusura degli impianti non “ambientalizzati”.
    L’Enel, pur di non rinunciare a fonti energetiche primarie a basso costo, ha allora tentato la via di una improbabile “riconversione a carbone pulito” della centrale andando però a sbattere prima contro il Consiglio di Stato e poi, finalmente, contro il parere negativo della Commissione di Valutazione di Impatto Ambientale ministeriale.

    Parallelamente, le ragioni dei cittadini inquinati costituitisi parti civili sono state verificate da una scrupolosa pubblico ministero, Emanuela Fasolato, che, sulla scorta di studi epidemiologici delle Asl e dei consulenti del tribunale, ha chiesto il riconoscimento del nesso causale tra inquinamento dell’aria e patologie respiratorie riscontrate specie sui bambini, oltre ad una mortalità in eccesso per tumore su tutte le fasce della popolazione.

    I responsabili dell’Enel, tra cui Tatò, Scaroni e Conti, sono stati nuovamente chiamati a giudizio nel processo in svolgimento a Rovigo questa volta dovranno anche rispondere per danni sanitari quantificati dall’Ispra in 3 miliardi e 600 milioni. Giorgio Crepaldi è l’animatore del comitato Cittadini liberi di Porto Tolle: “La soddisfazione più grande è aver dimostrato che il ‘carbone pulito’ non esiste”.

    ACCUSE IN BELLAVISTA

    L’imprenditore fermato mentre era dal sindaco. I pm: illeciti nella costruzione del porto di Imperia. Indagato Scajola

    di Ferruccio Sansa

    Doveva incontrare il sindaco di Imperia. Ma ad accoglierlo ha trovato anche la Polizia Postale che lo ha arrestato. Parabola amara per Francesco Bellavista Caltagirone, patriota della cordata Alitalia: anni fa nel Ponente ligure era visto come il salvatore, l’uomo che aveva realizzato il porto voluto da Claudio Scajola. Ieri è uscito dal Comune in compagnia degli investigatori. Un terremoto per il regno di Scajola, “u ministru” come continuano a chiamarlo qui. Un epilogo, però, non inatteso: il porto di Imperia da due anni è sotto inchiesta, con costi lievitati da 80 a 200 milioni.

    Insieme con Caltagirone Bellavista è finito in prigione Carlo Conti, ex direttore della Porto d’Imperia spa (pubblico-privata) considerato vicino a Scajola. L’accusa per entrambi è truffa aggravata. Indagati anche Paolo Calzia, già direttore generale del Comune di Imperia, Delia Merlonghi, legale rappresentante di Acquamare (società di Caltagirone), Domenico Gandolfo, ex direttore della Porto di Imperia e Beatrice Cozzi Parodi. Sì, la compagna dell’immobiliarista, soprannominata “nostra signora dei porticcioli” perché impegnata da sola o con Caltagirone nella realizzazione e nella gestione di 5 scali imperiesi. Uno scandalo che mette in discussione il sistema di porticcioli che hanno ricoperto le coste liguri di moli e cemento, con la benedizione di centrodestra e spesso centrosinistra.

    Truffa aggravata, quindi. Si tratta della pista finanziaria della più ampia inchiesta sul porto che vede indagato in un altro filone anche Scajola. Secondo i pm imperiesi, l’ex ministro sarebbe tra gli ispiratori di un’associazione a delinquere finalizzata alla turbativa d’asta (per l’aggiudicazione non ci fu bando di gara). Ma questa è un’altra storia. Al centro dell’ordinanza che ha portato agli arresti di ieri c’è il contratto di permuta con cui le società costruttrici in cambio della realizzazione del porto hanno ottenuto la concessione su gran parte delle opere. Lasciando, sostiene l’accusa, il socio pubblico a becco quasi asciutto: secondo gli accordi, ricostruiscono Polizia Postale e Finanza, i privati avrebbero ottenuto il 70% dell’opera. Alla società Porto di Imperia spa (di cui il Comune detiene appena un terzo) sarebbe rimasto il restante 30%.

    Racconta Beppe Zagarella (Pd), una delle poche voci critiche: “Le società realizzatrici hanno ottenuto l’85% della parte residenziale del progetto, alla Porto di Imperia sono restati i capannoni per la cantieristica e una discoteca. Poi c’è il porto: ai privati sarebbe andato il grosso dei posti barca, mentre al pubblico restano i moli per le imbarcazioni in transito e quelli per la nautica sociale”. Non basta: i pm si sono anche concentrati sui costi del megaprogetto . Si è passati da 80 a 200 milioni. C’è poi il capitolo legato al mutuo da 140 milioni ottenuto dalle società realizzatrici (oggetto di polemiche politiche, ma non ancora di formale indagine). Ricorda Zagarella: “Finora le rate non sono state pagate. Gli istituti hanno concesso una proroga”. Il finanziamento è garantito con un’ipoteca da 280 milioni, ma i creditori cominciano a essere impazienti. Tra le banche interessate all’operazione la parte del leone spetta alla Cassa di Risparmio di Genova e Imperia (Carige). L’opposizione ricorda che il vicepresidente è Alessandro Scajola, fratello dell’esponente Pdl, mentre nella fondazione siede Pietro Isnardi (consuocero di Alessandro Scajola). Il vice-presidente è Pierluigi Vinai, uomo stimato dagli Scajola e appena scelto come candidato sindaco del centrodestra a Genova.

    È il 2003 quando le cronache cominciano a parlare del porto. Mancano ancora anni all’aggiudicazione della concessione, ma Caltagirone Bellavista già vola sopra Imperia in elicottero sognando affari. Con lui ci sono Claudio Scajola e Gianpiero Fiorani che in Liguria sogna di reinvestire i soldi delle sue operazioni finanziarie. Alla fine ecco il via libera: 1440 posti barca più capannoni e residenze. Presto, però, cominciano i guai: i costi crescono, le magistrature indagano. Oltre alla Procura di Imperia c’è anche quella di Sanremo che teme il coinvolgimento di imprese in odore di ‘ndrangheta nei subappalti per la bonifica e il movimento terra dei porti di Imperia e Ventimiglia (inchieste, va sottolineato, alle quali Caltagirone Bellavista, Cozzi, Scajola e le persone citate in questo articolo sono estranei).

    Ma chi osa avanzare perplessità viene messo a tacere. Come Claudio Porchia, all’epoca segretario Cgil di Imperia: “Tu sei il capo di un gruppo parassitario che non conta un tubo e non prende un voto”, replica Scajola.

    Adesso l’aria sembra cambiata. E l’eco dell’inchiesta arriva in mezza Italia. Perché le società di Caltagirone Bellavista dominano il mercato dei porticcioli. Dal litorale laziale, Civitavecchia e Fiumicino, ancora con benedizione bipartisan, alla Sicilia (Siracusa). Ma per il futuro si parla di Toscana e Dalmazia.

    L’AMICO DI FIORANI

    MATTONE, SALOTTI E INCHIESTE

    di Stefano Feltri

    Per lui Maria Angiolillo, l’animatrice del salotto romano più ambito, era “Amica. Sorella. Compagna”, come fece scrivere nel suo necrologio. Perché Francesco Bellavista Caltagirone (doppio cognome perché nato illegittimo da Ignazio Caltagirone e poi riconosciuto), 73 anni, arrestato ieri a Imperia, è molte cose, ma soprattutto è un uomo di relazioni. É più facile ricostruire la sua rete di relazioni che l’assetto proprietario del suo gruppo, l’Acqua Marcia, che si perde tra Lussemburgo e Malta, dove c’è l’ultima scatola, l’oscura Ignazio Caltagirone Trust.

    Le sue donne sono tante, decisivo un matrimonio con Rita Rovelli, figlia del finanziere Nino. Le sue frequentazioni sono molte: Marcello Dell’Utri, Sergio D’Antoni, Marcello Pera, l’ex comandante della Finanza Roberto Speciale, l'ex presidente di Confcommercio Sergio Billè. E ovviamente Claudio Scajola. Fino a qualche anno fa prestava i suoi aerei privati a Gianpiero Fiorani, fino al 2005 arrembante banchiere della Popolare di Lodi. Nei primi mesi dell’anno dei “furbetti del quartierino” Bellavista usa una società delle Isole Vergini, la Maryland, per aiutare l’amico Fiorani: finanziato dalla Popolare di Lodi, rastrella azioni di Antonveneta (che la Bpl stava scalando), all’insaputa dei piccoli azionisti e della Consob. Con il più famoso cugino Francesco Gaetano Caltagirone, immobiliarista , editore e finanziere, non è in rapporti. E l’Ingegnere, come si fa chiamare il Caltagirone potente, è assai infastidito dall’omonimia.

    Anche perché il gruppo Acqua Marcia non se la passa affatto bene da alcuni anni. Nel 2009 i debiti ammontavano già a 650 milioni, troppi a fronte di un fatturato di 260. Nel giro di due anni i debiti salgono ancora fino a 900 milioni. E Bellavista discute con le 16 banche creditrici, con l’intermediazione di Rothschild, un piano di cessioni per ripianare almeno parte dell’indebitamento. L’eterogeneo gruppo Acqua Marcia ora rischia lo spezzatino. Si parla della cessione del settore turistico-alberghiero e dei servizi aeroportuali.

    Quando nel 1994 Bellavista rileva la “Società dell’Acqua Pia Antica Marcia”, questa è soprattutto un’azienda immobiliare con una lunga storia. Recita il sito web: “Con oltre 140 anni di storia l’Acqua Marcia rappresenta oggi la più antica società immobiliare italiana, una società non solo di costruttori ma anche di realizzatori di grande opere e di interventi di recupero e riqualificazione di complessi industriali di pregio storico”. Negli anni diversifica, pur mantenendo una presenza solida nell’immobiliare, tra Milano, Roma e il Veneto. A Milano la magistratura ha sequestrato un’area di 300 mila metri quadri di proprietà dell’Acqua Marcia e della Residenza Parchi Bisceglie. Quei terreni, dove si stavano costruendo alcuni palazzi, erano niente altro che una discarica bonificata (secondo l'accusa) solo in parte.

    Bellavista controlla alcuni degli alberghi più esclusivi d’Italia, in Sicilia: Villa Igiea e Des Palmes, a Palermo, il San Domenico a Taormina, l’Excelsior di Catania. Il Molino Stucky di Venezia è il pezzo pregiato della lista visto che, come si legge sul sito, è “il più grande albergo 5 stelle della laguna”. Me è nelle infrastrutture che Bellavista è più attivo: oltre al porto di Imperia, affare per il quale è stato arrestato ieri, ci sono i lavori per la costruzione dei porti di Fiumicino e Siracusa. E poi il business dei servizi di terra in aeroporto, con le controllate Ata Handling e Ali: dalla gestione dell’aeroporto privato di Linate a Malpensa, Bologna, Catania, Venezia. Comprensibile che un imprenditore così esposto verso la politica e interessato al settore aereo nel 2008 venga incluso da Bruno Ermolli tra i patrioti dell’Alitalia: un gettone quasi simbolico, l’1,77 per cento. Giusto per esserci, nonostante i debiti.

    © 2024 Eddyburg