loader
menu
© 2024 Eddyburg




Caro eddyburg, oggi mentre leggevo il De Officiis di Cicerone, ho trovato questa frase "Atque utinam res pubblica stetisset quo coeperat statu nec in homines non tam commutandarum quam evertendarum rerum cupidos incidisset!" (Ah se fosse rimasta in piedi la repubblica nello stato in cui aveva cominciato ad essere e non si fosse imbattuta in uomini desiderosi non tanto di cambiare la situazione ma di sovvertirla!)

Strana coincidenza… in quel mentre il ddl Boschi sulla riforma costituzionale veniva approvato dalla Camera con 367 voti a favore e 7 contrari.

Con la sesta e ultima votazione il provvedimento, secondo quanto previsto dall'articolo 138 della Costituzione, non avendo ottenuto la maggioranza di due terzi dei componenti di ciascuna Camera, può essere sottoposto a referendum popolare, che si svolgerà in ottobre.

Adesso la parola passa a noi cittadine e cittadini che abbiamo la possibilità di bloccare questa sciagurata "deforma" che nel combinato disposto con l'Italicum priverà definitivamente i cittadini di una legittima rappresentanza e provocherà una deriva autoritaria!

Laura Di Lucia Coletti, Venezia, 13 aprile 2016


In questo mese di ottobre 2014, nelle Province italiane si insediano i primi consigli provinciali non eletti da parte dei cittadini, come voluto dalla Legge 56/2014, cosiddetta Legge Del Rio. Consigli un po' malinconici, senza presenze di pubblico (i cittadini non li hanno votati), solo qualche fotografo e i sindaci del territorio, loro grandi elettori di secondo grado. Questi sono i primi consigli non eletti direttamente dal popolo dalla nascita della Repubblica, in cui anche i nuovi componenti e i funzionari pubblici presenti manifestano un po' di disagio, un qualche imbarazzo, come dei sopravvissuti loro malgrado ad una altra epoca.

E allora, viene un tarlo nel pensiero: ma prima della nascita della Costituzione Repubblicana, prima della guerra e della Resistenza, come erano questi consigli provinciali? E quindi, anche ai pensierosi segretari e funzionari pubblici delle assemblee, viene in mente di andare a cercare, nella memoria degli studi giovanili, qualche aiuto, qualche spiegazione: per esempio, nel bellissimo libro di Ernesto Ragionieri, Politica e amministrazione nella storia dell'Italia unita, ed Riuniti, 1976.

Come era questa amministrazione provinciale nel periodo preunitario?

Partendo dal 1859, la legge Rattazzi sull'ordinamento comunale e provinciale del 23 ottobre 1859 prevedeva dei consigli provinciali elettivi, riservati al limitato suffragio del tempo, e cioè l'elettorato era riservato ai soli cittadini benestanti, maschi e che pagavano le tasse (elettorato per censo). Le varie leggi che si susseguono, come la legge Lanza del 1865 o Crispi, del 1888, (che istituisce la Giunta Provinciale amministrativa, definita dallo storico Merlino «una vera oligarchia che ha nelle sue mani tutte le libertà e i principali interessi della provincia" pag.174 , Ragionieri cit.), propendono per accentuare il decentramento burocratico piuttosto che il decentramento amministrativo, ma comunque i consigli provinciali continuano ad essere elettivi, fino al...».

Fino a che, con la legge maggioritaria Acerbo del 1923, e con le successive elezioni politiche del 1924, il Governo Mussolini,ormai solidamente padrone del Parlamento, con il pretesto della riforma della legge elettorale, (anche allora le cose erano strettamente legate) non rinvia le elezioni dei consigli provinciali che dovevano tenersi appunto nel 1924. Un rinvio prolungatosi sine die, perché allora i consigli provinciali furono sostituiti da Commissioni regie provvisorie, le province affidate a Presidi e Direttori di nomina governativa, e quindi inglobate nell'organizzazione dello stato fascista. Con la legge del 1926 il fascismo abolisce il carattere elettivo delle amministrazioni locali come spiega bene anche Domenico Gallo, nel suo bel libro Da sudditi a cittadini ed Abele, 2013.

Dunque, i consigli provinciali attuali, non eletti a suffragio universale del 2014, in qualche modo celebrano a distanza di 90 anni, la fine dei pur timidi e limitati Consigli provinciali del 1924, soppressi tacitamente dal Fascio. Una ricorrenza storica, i 90 anni della non elettività a suffragio universale, che deve far riflettere. Curiosamente, ci dice il Ragionieri, dal 1929 il regime fascista blocca anche le assunzioni nel pubblico impiego, realizzando così prima l'invecchiamento della burocrazia, e contemporaneamente la sua fascistizzazione. Corsi e ricorsi della storia, su cui Ragionieri, da grande storico quale è, ci fa riflettere con queste parole: «perciò il problema dell'ordinamento amministrativo dello stato, specchio e indice dei rapporti di classe e di potere (...) verrà riproposto ad ogni svolta e crisi decisiva della società italiana» (pag. 164).

Sonia Soldani, già Segretario comunale, è attualmente Vice Segretario della Provincia di Prato

n calce a "Puliamo gli alvei dei fiumi") per un dibattito sulle esondazioni è stato accolto. Riportiamo le considerazioni di Ugo Leone e Cristiano Manni. Altri commenti (Fausto Pradolesi, Pier Paolo Poggio, Maurizio Consoli, Enrico Ottolini, Sauro Turroni) in calce all'articolo di Nebbia

Ugo Leone, 15 novembre 2014
È, come al solito, interessante e stimolante di riflessioni l’intervento di Giorgio Nebbia “Puliamo l’alveo dei fiumi”. E a riflettere invitano anche le osservazioni di Fausto Pardolesi il quale, peraltro interviene anche come tecnico del settore.

Le due posizioni –«puliamo subito gli alvei», «stiamo attenti a non accelerare la velocità dello scorrimento»- mi sembrano separate solo, per così dire, dalla diversa cronologia delle azioni.
Personalmente ritengo che quali che siano i problemi che riguardano la sicurezza del territorio, bisogna innanzitutto intervenire con immediatezza prima di passare alle fasi più lunghe per quanto definitive.

È, per esempio, quanto dico e scrivo a proposito della cosiddetta “terra dei fuochi” nelle province di Napoli e Caserta per la quale i molti che vi abitano e che da mesi alimentano una fiera protesta, invocano la bonifica. Interventi di bonifica richiedono anni, mentre nel frattempo l'importante è delimitare le zone interessate, bloccare la produzione agricola, rimuovere i rifiuti velenosi e prima
di passare alla eventuale bonifica lasciare alla natura il suo corso...

Nel caso dei fiumi capisco le preoccupazioni di Pardolesi il quale verosimilmente avrà vissuto e vive personalmente i problemi che prospetta. Ma concordo con Nebbia nel sollecitare innanzitutto soluzioni immediate di pulizia. Se, poi, la pulizia degli alvei accelera la velocità di scorrimento dell'acqua, per lo meno questa non trasporterà anche tutto ciò che ne ostacola il deflusso. E che, peraltro, ostacolandolo non fa defluire l'acqua a valle ma la fa più facilmente esondare nelle terre circostanti.

Se, poi, tutto questo –come da diecine di anni andiamo dicendo, dalle alluvioni nel Polesine, ai disastri dell’Arno e via discorrendo di anno in anno; se tutto questo dando finalmente una “sistemata” definitiva al nostro territorio idrogeologicamente dissestato e, nel farlo, alimentasse l’occupazione di qualche diecina di migliaia di persone, finalmente, tanto meglio. Un new deal anche da noi potrebbe risolvere non pochi problemi di crescita virtuosa dell’economia.

Ugo Leone è presidente del Parco nazionale del Vesuvio


Cristiano Manni, 17 novembre 2014

Ho letto l'opinione di Giorgio Nebbia sulla pulizia dei fiumi sul vostro sito, di cui sono assiduo frequentatore, e che apprezzo molto.

Ho letto altri interventi del sig. Nebbia, e mi sono trovato quasi sempre a concordare con lui. Tuttavia in questo articolo egli esprime, forse inconsapevolmente, una posizione che anche l'opinione pubblica reputa giusta, ma che in realtà non lo è affatto. Nel settore delle scienze idrologiche ci sono due paradigmi che si scontrano: quello riduzionista-ingegneristico, che vede i fiumi come semplici condotti idraulici, e quello olistico-sistemico, che li inquadra invece nella teoria dei sistemi complessi. Un fiume è infatti non solo alveo, portata, corrivazione, sponde, bacino idrografico, coefficienti di scabrezza, ecc... ma è soprattutto un ecosistema, con tipiche piante di alveo, tipiche piante di sponda e tipiche piante di golena, tipica ittiofauna ed avifauna, tipici sistemi insediativi, economici, sociali, urbani, ecc...

L'approccio ingegneristico, che è l'unico che appare nei giornali, è fuorviante e spesso del tutto controproducente, poiché innesca fenomeni di riassetto e riequilibrio fluviale che non sono prevedibili, sempre secondo i principi dei sistemi complessi, ma che sono quasi sempre disastrosi, almeno se visti dall'ottica umana. Possono migliorare una situazione nell'immediato, ma rendono il sistema fluviale instabile, e a lungo e medio termine innescano fenomeni alluvionali o franosi con dinamiche di retroazione, sia positiva che negativa. Le scienze idrologiche parlano invece chiaro, ed anche la normativa tecnica delle varie regioni ammette l'importanza della vegetazione di sponda per la mitigazione del rischio idraulico, solo che non viene mai applicata, perché l'ingresso all'alveo avviene con grandi mezzi meccanici, che richiedono la totale "pulizia" non solo delle stesse piante di alveo, ma anche di quelle di sponda e di golena. Dopo il fenomeno di Sarno del 1998, si è dato il via, in tutto il paese, ad una politica idraulica dissennata e devastante, fatta di "ripuliture" dei fiumi, che ha distrutto bellissimi ed importantissimi ecosistemi e paesaggi, e che oggi è importante concausa del dissesto idrogeologico.

Oggi si parla molto, in ambiente scientifico (e mai sulla stampa!) d riqualificazione fluviale: interventi mirati al ripristino delle funzioni autopoietiche dei fiumi, con opere di ingegneria naturalistica, meandrizzazione, aree umide, vegetazione riparia. Ci vuole un nuovo equilibrio fra uomo e fiume, fatto di razionalità e saggezza.

Nel nord europa questi principi sono più sviluppati, poiché là si è attraversato il picco del paradigma ingegneristico già tra il XIX e il XX secolo. Si pensi che Berlino è immune da esondazioni, poiché il fiume che lo attraversa, la Sprea, ha un grandissimo bosco igrofilo a monte della città, un ambiente bellissimo, votato al turismo sostenibile, e che assorbe totalmente le piene del fiume, e che lascia i berlinesi dormire sogni tranquilli.

Gli alberi degli alvei sono flessibili, e contribuiscono a rallentare le acque di piena e ad aumentare i tempi di corrivazione (più lungo è tale tempo, più la piena sarà lenta e graduale). Gli alvei lisci sono come autostrade che portano "bombe d'acqua" a valle dove, se c'è un punto sensibile, si scarica tutta l'energia della piena.

Le piante che cadono sul fiume formano, coi loro tronchi e i loro rami, delle briglie naturali, creando ecosistemi di acque lente, consolidando le sponde franose con le radici e l'apposizione di sedimenti al piede, rappresentano punti di esondazione controllata, innescano la formazione di meandri fluviali.

Non a caso il Decreto legislativo 152 del 2006, che ha inglobato la prima legge organica sulla protezione del suolo, del 1989, auspica, nell'elencazione dei principi generali, che le aree golenali e ripariali dei fiumi divengano oggetto di tutela naturalistica. Tutta quella normativa è lettera morta. Stranamente e paradossalmente, la politica idraulica delle istituzioni segue la pancia dei cittadini

L'unica soluzione economicamente praticabile a lungo termine, se non vogliamo buttare tutti i sodi pubblici in vana "manutenzione" e "messa in sicurezza" del territorio, è avere il coraggio di spostare le infrastrutture dalle aree a rischio, e riconcedere al fiume i propri spazi.

Un saluto a Giorgio Nebbia, con l'auspicio che possa leggere e valutare ciò che ho scritto, e con la disponibilità ad un confronto.

Cristiano Manni si occupa di dissesto idrogeologico. Laureato in Scienze forestali a Firenze, si è specializzato presso la facoltà di ingegneria idraulica di Vienna.

eddyburg da Francesca Leder sul silenzio del mondo della ricerca di fronte allo scempio del territorio.


Abbiamo letto con grande interesse l' 'atto di accusa' di Francesca Leder nei confronti del Centro di studi palladiani dove abbiamo l'onere e l'onore di lavorare.Al di là delle osservazioni specifiche, vi abbiamo ravvisato una passione civile, che ci sentiamo senz'altro di condividere. Ci pare che questa, ripetiamo condivisibile, passione abbia portato però la dottoressa Leder a incorrere in valutazioni che - e non per difesa d'ufficio - ci sembrano onestamente non rispondenti alla realtà dei fatti. L'autrice ci accusa di essere asserragliati in una torre d'avorio a discettare di alta cultura, incuranti degli scempi selvaggi che accadono intorno a noi. Pur consci che, per quanto si faccia, nulla è mai sufficiente, pensiamo di aver diritto di rivendicare una serie di azioni concrete che ci sembra dimostrino che sappiamo e vogliamo sporcarci le mani, nel senso di operare sul campo con, e talvolta contro, potentati di varia natura, facendolo con l'obiettivo di contrastare derive negative. Lavorando e non solo discettando.

Rivendichiamo con forza l’azione a difesa dei contesti delle ville. Si è articolata negli anni da un lato con l'impegno scientifico di convegni e seminari, volti alla condivisione del concetto di villa come contesto e non come monumento isolato, e dall'altro con la collaborazione concreta con la Provincia di Vicenza affinché, nel Piano Provinciale Territoriale di Coordinamento fossero riconosciuti i "contesti figurativi", vasti ambiti di tutela intorno ad almeno 150 ville di particolare rilevanza, dove impedire nuove edificazioni. Ha significato la stesura di una scheda storica per ogni edificio, incrocio fra cartografia storica e sopralluoghi per ogni villa a definire e poi verificare i coni visuali da tutelare. E' stato un impegno di quasi un anno e dalle pressioni che ricevemmo da più parti per una compressione di quei contesti - a cui non cedemmo di un palmo – abbiamo tratto la convinzione di avere operato nel modo giusto.
Allo stesso modo non abbiamo mai lasciato soli i funzionari comunali nell'occasione degli interventi su Basilica palladiana, palazzo Chiericati e Teatro Olimpico, coordinando indagini conoscitive accuratissime affinché i restauri fossero basati su fondamenti scientifici e non sull’arbitrio dei progettisti. Lo stesso abbiamo fatto, sempre gratuitamente, nel caso di edifici palladiani privati, da villa Trissino a Meledo a villa Gazzotti a Bertesina.

Il logo del Palladio Museum affiancato al titolo del pezzo di Leder è in pieno contrasto con i contenuti del testo. Il Palladio Museum è il contrario della torre d’avorio. E’ uno strumento con cui la comunità degli studiosi si interfaccia con il pubblico e lo coinvolge nelle proprie attività, è il luogo dove raccontiamo quello che facciamo e lo condividiamo con la comunità, cercando di farlo diventare patrimonio di tutti. Senza ipocrisie: la grande sala dedicata alle ville palladiane è dominata da grandi immagini di un reportage di Filippo Romano che non ritraggono il Palladio delle favole, ma l’uso, spesso improprio, che se ne fa oggi e l’attacco che una urbanizzazione senza controllo porta alla integrità di un patrimonio unico.
Allo stesso modo nella mostra appena conclusa sulle vedute di Roma antica dal 500 al Novecento, alle incisioni di Ligorio e Piranesi si intrecciavano le immagini di "Mamma Roma" e di "La Ricotta" di Pasolini, per denunciare la perdita della memoria e di conoscenza del nostro patrimonio archeologico. Negli ultimi cinque anni abbiamo creato banche dati pubbliche che rendono disponibili in rete decine di migliaia di fotografie, rilievi, documenti che riguardano Palladio, Carlo Scarpa o l’architettura del Veneto.

Ciò che ci sembra non condivisibile nel ragionamento della dottoressa Leder, anche al di là delle accuse che riteniamo ingiuste, è l’affermazione che le istituzioni scientifiche non servano a nulla, che la ricerca sia autoreferenziale, un “sapere inutile”. Noi rivendichiamo invece l'importanza della ricerca, un atteggiamento che condividiamo con istituzioni sorelle come la Biblioteca Hertziana o il Kunsthistorisches Institut di Firenze. Nel nostro Centro palladiano la definizione dell'attività è affidata al consiglio scientifico, e non alla politica, che pure vigila attraverso il consiglio di amministrazione sull’uso dei fondi pubblici assegnati.Siamo convinti che la ricerca e la filologia, e la conoscenza che ne deriva, sono gli elementi basilari su cui impostare la difesa del nostro patrimonio, insieme alle istituzioni pubbliche preposte alla tutela e alla associazioni che vigilano e denunciano il degrado del territorio.

In un momento in cui sembra trionfare solo una idea di cultura – spettacolo, l’attacco alla ricerca ci sembra reazionario e retrivo. Come se al popolo dovesse essere offerta solo spazzatura. La miglior difesa dei monumenti è sempre la conoscenza da parte dei cittadini della loro importanza, e tutta attività culturale, didattica e divulgativa del Centro è esplicitamente diretta a questo.
Chi negli ultimi anni ha avuto modo di visitare le nostre affollatissime mostre su Palladio (2008-2009) o su Pietro Bembo (2013) credo abbia potuto misurare concretamente il successo del nostro impegno nel comunicare saperi complessi a un pubblico vasto, cercando di dare corpo un’altra idea di cultura.

Su una cosa però siamo d'accordo con Leder: l'area del nuovo Tribunale di Vicenza è uno scempio che deturpa un'area cruciale di Vicenza. La sua costruzione è stata una offesa a chiunque abbia a cuore il patrimonio del nostro Paese e ci rammarichiamo di non aver fatto abbastanza nella denuncia.

Guido Beltramini è direttore del C.I.S.A. Andrea Palladio
Howard Burns è presidente del Consiglio scientifico del C.I.S.A. Andrea Palladio

La incontravo spesso venendo a Roma e ne apprezzavo la ricchezza di attenzioni anche agli aspetti umani delle relazioni. Bruna, mia moglie, sorrideva quando mi passava le sue telefonate, immancabilmente in orari che ci coglievano negli spazi sereni del ritorno a casa, quasi fosse una di famiglia che, quando viene a trovarti, metti al tavolo con quello che c’è.

Ho scritto un libro con lei sulle 35 ore e la riduzione dell’orario di lavoro in cui c’era tutta l’esplosione di gioia per la possibilità di riappropriarsi di uno spazio di vita, di ambiente restituito alla riproduzione e alla rinnovabilità, di convivialità meritata. Carla era molto bella anche dopo gli ottant’anni: il che faceva sperare a tutti gli estimatori di non invecchiare mai. Non accomodante, ma gentile, non settaria, ma rigorosa, dialogante, ma irriducibile nelle sue convinzioni. Credo sia appartenuta ad una generazione che era in grado ancora di trasmettere a quelle successive: ora se ne va, leggera, senza vivere il dramma della mia generazione che viene “rottamata” perfino dagli amici, prima che dagli avversari. Carla mi ricorda Laura Conti, seppure nella profonda diversità di esperienze, carattere, rapporti con l’eresia in politica. Laura ci è rimasta compagna di viaggio, come lo sarà indubbiamente Carla.

Ti vediamo sorridente anche in questo momento triste. Ma, come per Bruna, a cui tu eri affezionata e di cui ti addolorava la morte, “la vita non finisce mai”. Mario

Spieghiamo che ci ha spinta a dare risalto al manifesto di giubilo con cui il comune di Napoli ha sottolineato i risultati della vendita del patrimonio abitativo pubblico. Non tanto il fatto che un comune “di sinistra” abbia deciso di alienare il patrimonio abitativo pubblico: l’ideologia della mercificazione d’ogni bene suscettibile di trasformarsi in moneta è diventata dominante in tutte istituzioni. Neppure perché, essendosi messo su quella strada, il comune si vanti dei risultarti raggiunti. Ciò che ci sconcerta è la palese contraddizione tra ciò che tra quel vistoso manifesto rappresenta ed esprime e il principio, più volte proclamato da esponenti di punta di quell’amministrazione, di voler assumere il concetto di “beni comuni” come asse della politica urbana: è del 18 aprile scorso l’approvazione del “Regolamento per il laboratorio Napoli per una costituente dei beni comuni”.

Conosciamo i motivi che hanno spinto la giunta De Magistris nella trappola fatale. Troverete la storia dei rapporti con l’immobiliarista Romeo in un articolo e due interviste che abbiamo ripreso dal manifesto e raccolto sotto il titolo Quel patto col diavolo che fa discutere Napoli. E’ noto a tutti che l’incarico alla società Romeo non è ascrivibile all’amministrazione De Magistris. Ma le sue conseguenze sono così devastanti che ci sembra incredibile che l’unica giustificazione del clamoroso cedimento sia quella di dichiararsi costretti al rispetto della continuità dell’azione amministrativa. Allora hanno ragione Monti e i suoi numerosi adepti, se anche quanti, “in linea di principio” lo contestano, ne condividono in pratica e ne applicano la logica? “Pacta sunt servanda a ogni costo? Con chiunque e da chiunque siano stati stipulati? Il “mercato”, ogni sua frazione quale che sia la sua limpidezza, deve sempre vincere?

Quando si agitano le bandiere di principi nuovi (come quello dei beni comuni) non si può contraddire così platealmente il messaggio di cui si vuole essere portatori. Non è certamente semplice trovare un rapporto giusto tra la radicalità della trasformazione che si invoca e la pesantezza della situazione reale (ne registriamo infiniti esempi in tutti gli episodi di conflitto che nascono dalla crisi del capitalismo. Forse per comprenderlo sarebbe utile studiare meglio, e riflettere con più attenzione, sul modo in cui come altri gruppi dirigenti, si comportarono per proporre la trasformazione dellla città e la società in una logica lontana sia dall’estremismo delle parole sia al cedimento all’ideologia corrente e alle conbseguenti pratiche.

E poiché parliamo di condizione urbana, ricordiamo della fatica e dell’impegno culturale, politico, sociale che fu necessario per tradurre la rivendicazione del “diritto alla “città” e della “casa coime servizio sociale” in un processo di riforma (di riforma strutturali) che fu arrestato solo da ll’azione congiunta delle bombe della destra neofascista, la complicità dei poteri annidati nello stato – e il tradimento di componenti di rilievo della cultura, in un clima mondiale non più condizionato dal compromesso tra capitalismo fordista e classe operaia ma dal nascente neoliberalismo. Sul perché quel processo si sia interrotto, e sulle ragioni che lo resero possibile, sui suoi lasciti, sarebbe utile ragionare oggi, se ad analoghe aspirazioni ci si propone di dare risposte positive, finslizzate al superamento radicale delle condizioni date e non al loro condimento con espressioni alla moda

Fahrenheit 451 è un romanzo di fantascienza scritto da Ray Bradbury nel 1951-1953. E’ ambientato in un ipotetico futuro nel quale leggere o possedere libri è considerato un reato. Esiste un apposito corpo dei vigili del fuoco che ha il compito di rintracciare chi si macchia del reato di lettura e di bruciare ogni volume. I cittadini che rispettano la legge devono utilizzare la televisione per istruirsi e informarsi ed il governo utilizza la televisione per definire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

Alla ricerca di risparmi la Direzione Generale Organizzazione della Regione Toscana ha proposto una decisione, assunta dalla giunta regionale il 6 agosto 2012, che prevede di “ricongiungere la biblioteca della giunta e quella del consiglio”. Ma, come vedremo, a ben vedere si tratta di soppressione della biblioteca della giunta perché per i libri e i documenti il posto non c’è.

I lavoratori della biblioteca della Giunta fanno notare che “la condizione indispensabile e imprescindibile per l’unificazione delle due strutture sono gli spazi e la nuova sede della biblioteca del consiglio in piazza dell’Unità, ma questa così come è attualmente progettata, non è assolutamente in grado di accogliere né il patrimonio documentario della giunta né il personale ad essa dedicato” (lettera del personale della biblioteca della giunta inviata al loro coordinatore Ravenni e per conoscenza alla RSU). L’insufficienza degli spazi per la biblioteca in piazza dell’Unità rischia tra l’altro di impedire la costruzione della mensa (di cui è nota la assoluta necessità e urgenza), senza tuttavia risolvere in alcun modo il problema. Altra perla della proposta è di spostare i libri della biblioteca della giunta che sono attualmente allocati in via Valdipesa nei locali di Ospedaletto (Pisa). Ovvio che non potranno più essere consultati, né presi in prestito.

Qualcuno ha pensato che due biblioteche siano un doppione, uno spreco, che un volume doppio vada mandato al macero (nella versione regionale dei roghi di Fahrenheit), ma un doppio volume vuole semplicemente dire che due persone possono leggere lo stesso libro contemporaneamente senza doverlo comperare. Due biblioteche significano maggiore possibilità di accesso. Molti studenti trovano i testi per studiare nella biblioteca della giunta. La biblioteca della giunta posta nel palazzo B sesto piano è stata rinnovata nel 2009 con una spesa ingente che verrà bruciata per ospitare uffici. Ma questo poco importa a chi non legge, non sa cosa sia la cultura e, forse non a caso, comanda e dirige in Regione Toscana.

Con questa fusione non vengono garantiti i livelli di servizio erogati prima degli interventi. Una biblioteca che esisteva non ci sarà più. In mancanza di posto molti documenti e libri andranno in fumo. Chi può pensare che la soppressione di una struttura con le sue reti di relazione lasci immutato “il livello dei servizi erogati”?

Come ci ricordano i colleghi che lavorano alla Biblioteca: “la biblioteca della giunta…come ogni biblioteca vive dei rapporti con la propria utenza, interna ed esterna; ha creato negli anni una solida rete di relazioni con gli enti regionali e con le biblioteche del territorio e delle università toscane; porta avanti progetti di innovazione tecnologica in campo documentario; soprattutto, conserva un inestimabile patrimonio documentario che rappresenta la memoria storica della regione”. La biblioteca della giunta coordina la rete delle biblioteche e delle strutture documentarie della Regione Toscana, delle sue agenzie e dei suoi istituti e la sua scomparsa determinerebbe un indebolimento delle strutture documentarie aderenti, sia dal punto di vista organizzativo che economico.

Questo inestimabile patrimonio di conoscenza e di cultura, questo luogo di rapporto fra Regione e cittadinanza, va difeso. La biblioteca è essenziale anche per noi lavoratori, almeno per quelli che sanno quanto sia (o dovrebbe essere) importante la conoscenza per il proprio lavoro.

La biblioteca della giunta è un bene comune da difendere!

Marvi Maggio, Delegata Cobas RSU Regione Toscana

Le strade attraverso le quali passa il mainstream sono infinite: dalle autostrade ai piccoli sentieri. Ma l’obiettivo è unico: spegnere sul nascere ogni pensiero critico, quindi impedire la diffusione della conoscenza. Per i sostenitori di TINA (There is no alternatives) le biblioteche e il loro accesso sono luoghi dai quali può nascere un focolaio di qualcosa che può essere… più grave del terrorismo. Siamo sicuri che chi ha deciso di unificare due importanti fonti d’informazione della Regione Toscana, e ridurne quindi la potenza complessiva, non condivide l’ intenzione repressiva che vogliamo denunciare, ma spesso sono proprio gli innocenti i migliori collaboratori delle azioni oggettivamente perverse.

Il riformismo urbano ha esaurito la spinta propulsiva. Certo, non mancano le iniziative brillanti di tanti amministratori ma non si vede ancora una capacità inventiva di policies almeno paragonabile a quella che si espresse nella rottura di Tangentopoli: rapporto diretto elettori-sindaco, l'apertura internazionale, le politiche della mobilità, le iniziative culturali, l'avvento dell'architettura contemporanea, l'introduzione del mercato nei servizi, le riforme del New Public Managment, ecc. Questi sono ancora oggi i capitoli fondamentali delle agende di governo delle amministrazioni locali - con l'unica aggiunta delle politiche della sicurezza - ma vengono attuate con fatica crescente a causa dei patti di stabilità e della bulimica produzione normativa statale.

Oggi ci troviamo ad un punto di rottura del sistema politico non meno significativo di quello del '93 e dovrebbero esserci le condizioni per un ripensamento delle politiche urbane. Soprattutto il PD dovrebbe essere protagonista di questa innovazione non solo in quanto forza centrale dell'alternativa, ma perché altrimenti la sua funzione di governo ne risulterebbe appannata. I segnali si sono visti nello smacco dei suoi candidati sindaci in città importanti come Milano, Napoli, Genova e Cagliari. Se ne è data una lettura superficiale, mettendo in rilievo le vicende del ceto politico e le regole delle primarie. Ma si è fatta sentire anche la crisi della cultura riformista.

Innovare significa anche dimenticare. Per scoprire nuove piste di ricerca bisogna mettere in discussione la stagione degli anni Novanta. Essa è stata una grande politica riformatrice e proprio per questo tende a conservare un primato teorico e pratico anche quando viene smentita dai fatti. Di tale difficoltà indico tre esempi.

Con la scusa del debito – Ai tagli dei bilanci si è risposto gonfiando i diritti edificatori per ottenere in cambio qualche opera pubblica. Si è inventata una zecca immobiliare che stampa una sorta di carta moneta attraverso la creazione di rendita urbana. I suoi plusvalori vengono scambiati tra imprese e banche anche a prescindere dalla effettiva realizzazione, come appunto una moneta circolante. Non solo, la ristrutturazione di grandi gruppi finanziari e la stessa solvibilità di molte banche dipendono dalla possibilità di esigere in futuro l’attuazione di quelle potenzialità edificatorie. Questa economia di carta e di mattone trova spesso giustificazione e impulso proprio nella scarsità di risorse delle amministrazioni comunali.

Ma perché le città si sono impoverite? Eppure negli ultimi venti anni c’è stato un boom edilizio paragonabile a quello del dopoguerra con una fortissima crescita dei valori immobiliari, non solo nelle nuove edificazioni ma soprattutto nel già costruito. Questo incremento di ricchezza è andato quasi tutto a vantaggio dei proprietari che lo hanno inserito nel circuito finanziario senza restituire granché in termini di investimenti collettivi.

Anzi, si è trattato spesso di un arricchimento immeritato, poiché frutto di una rendita di posizione che aumenta non in base alle iniziative del proprietario, ma solo in ragione del miglioramento generale della vita urbana. La ricchezza prodotta dalla cittadinanza operosa viene acquisita dal ceto parassitario. E tutto ciò introduce un fattore pesantemente distorsivo nell’economia urbana. Rispetto al profitto industriale la rendita immobiliare offre plusvalori di gran lunga superiori, senza neppure l'onere di organizzare un ciclo produttivo.L’acqua va dove trova la strada e in queste condizioni le risorse disponibili vengono attratte dagli usi speculativi a discapito delle attività produttive. La città diventa un’idrovora di rendite e per le innovazioni tecnologiche rimangono solo le retoriche dei convegni.

Nel contempo la diseguale appropriazione di valore che ha prodotto il debito si perpetua proprio con la scusa del debito. Infatti, le amministrazioni che non hanno saputo o potuto acquisire una parte significativa della ricchezza immobiliare - spesso determinata proprio dal loro buongoverno - sono costrette a mettere in circolazione ulteriore rendita per ottenere in cambio le opere pubbliche.

Ciò sembra un guadagno per l'interesse collettivo, ma i valori di quelle opere, spesso presentate come regali alle città, sono inferiori ai costi di gestione e di investimento che le nuove costruzioni autorizzate scaricano sulle casse comunali e costituiscono solo una briciola della valorizzazione acquisita dal proprietario. In questo modo la trasformazione urbana produce arricchimento privato e povertà pubblica in un circuito che crea il debito mentre sembra volerlo risolvere.

Una nuovo riformismo urbano deve invertire questo ciclo. La rendita prodotta dal buongoverno deve tornare in una quota significativa nella disponibilità collettiva in termini di investimenti pubblici. Questi renderanno più bella ed efficiente la città e di conseguenza aumenterà anche il suo valore, in un ciclo virtuoso che migliorerà sia la vita pubblica sia le opportunità private. Se la rendita viene ripartita equamente non solo non determina debito ma contribuisce al benessere della città.

La retorica competitiva – Ogni sindaco ha raccontato una storia di sviluppo alla propria città. Si è favoleggiato sulla new-economy, sulle classi creative, sulle innovazioni tecnologiche come se fossero processi reali e direttamente dipendenti dall'azione dei Comuni. Ma era solo un omaggio alla retorica economicistica del tempo. In realtà quasi tutte le città italiane hanno partecipato passivamente al declino della produttività determinato dalla difficoltà del Paese a misurarsi con le nuove dinamiche mondiali. Semmai, alle imprese che si ritiravano dalla competizione internazionale il tessuto urbano ha offerto il rifugio non solo della rendita ma anche dei monopoli pubblici privatizzati male (aeroporti, telefoni, energia ecc.).

Nella sfera del consumo, invece, il contributo delle città è stato significativo, in particolare con la diffusione dei grandi centri commerciali che hanno avuto effetti marcati sulla struttura urbanistica a favore dell'abbandono di vecchi quartieri e della diffusione dello sprawl a grande scala. Anche i modelli di consumo si sono fortemente divaricati - dal livello massificato a quello del loisir - fino a diventare quasi gli unici caratteri distintivi dei luoghi: dal mall dell'hinterland, al nail-shop della periferia, al loft dell'ex zona industriale. Inoltre, c'è stata un'azione molto positiva delle amministrazioni nella qualificazione dei consumi culturali e nell’attrazione dei flussi turistici.

Tutto ciò ha modificato gli stili di vita urbani ed ha conferito alle città immagini suadenti che sono state raccontate dai sindaci sul lato della produzione pur essendo maturate su quello del consumo. Oggi, però la crisi economica ha svelato l'insostenibilità di quel modello dei consumi. L'impoverimento dei ceti medi e dei lavoratori indebolisce la domanda e nel contempo l'ossessione dell'offerta consumistica approda ad una sovrapproduzione di merci.

È saltato quindi il rapporto tra produzione e consumo. Un contributo a ritrovare l'equilibrio potrebbe venire da nuove politiche urbane, non solo nel campo già positivamente fertilizzato delle iniziative culturali, ma in diversi altri settori: la mobilità sostenibile, il recupero urbanistico, il prendersi cura delle persone, la comunicazione digitale, la filiera corta dell'agricoltura, il ciclo dei rifiuti, la green economy, ecc. In tal senso le aziende dei servizi pubblici andrebbero ripensate come strumenti di politica economica proprio per stimolare nuovi modelli di consumo e di produzione, per creare lavoro curando i servizi della città.

Anche qui però bisogna liberarsi dalle dottrine del ventennio che per realizzare la mitica concorrenza hanno imposto una perenne e inconcludente riforma delle aziende locali. Almeno una volta l'anno il legislatore ha modificato le norme di riferimento ma i monopoli non sono stati scalfiti.

Tutto ciò ha distolto l'attenzione dei Comuni che si è rivolta più agli asset proprietari che alla qualità del servizio, più alle procedure che agli investimenti, più alle nomine che ai diritti degli utenti. E il paradigma competitivo è stato esteso addirittura all'intera città sempre più interpretata come un'impresa esposta alla concorrenza internazionale, anche se nessuna analisi ha mai dimostrato un’evidenza empirica di tale fenomeno. La competizione tra le città è una delle tante ideologie degli anni Novanta che rientrano nella categoria definita da Paul Krugman del Pop Internationalism (trad. it. Un'ossessione pericolosa, Etas).

Ma le retoriche politiche non sono mai senza conseguenze pratiche. Quel paradigma ha rappresentato la città come un attore unico che si muove nel teatro economico ed è servito alle classi dirigenti per raccontare il proprio primato, ma ha oscurato le differenze sociali e culturali che attraversano e talvolta lacerano la vita urbana. Spesso il risveglio è stato amaro, ad esempio, quando è finito il Modello Roma abbiamo scoperto improvvisamente una città frammentata dal disagio sociale e dalle tensioni dell'immigrazione.

Occorre tornare a vedere la città eterogenea, le sue striature civili, le sue mura invisibili, le sue ineffabili esclusioni. E la coesione sociale non può essere una retorica nuova che sostituisce la vecchia senza ripensare le politiche. Bisogna riscrivere le agende di governo portando al primo posto - per l'impegno di risorse economiche, amministrative e culturali - il compito di costruire un moderno welfare che è prima di tutto una questione urbana.

La solitudine dei sindaci – Non a caso il ciclo ventennale è iniziato con la stagione dei sindaci. Questa figura è uscita dalla riforma elettorale del '93 come il perno di qualsiasi intervento riformatore e nella transizione incompiuta di Tangentopoli ha svolto una funzione molto positiva, in gran parte di surroga dei partiti. Tutto ciò ha alimentato un sovraccarico di aspettative e di responsabilità che alla lunga rischiano di sfiancare la stessa funzione istituzionale. Qualche segnale di stanchezza si è palesato nell'ultima tornata amministrativa con un improvviso calo del tasso di conferma dei sindaci uscenti che invece in passato si era attestato sempre su alti livelli.

Bisogna aiutare i sindaci a uscire dalla perniciosa solitudine in cui sono stati rinchiusi a causa dei nodi irrisolti nel sistema politico italiano. E si deve uscirne sia in alto sia in basso. In alto, mettendo in discussione tutta l'impostazione dell'intervento statale che ha abbandonato i contenuti per dedicarsi soltanto alle procedure. I tagli lineari, le vacue promesse federaliste e l'ossessione normativa hanno dominato il campo portando quasi al collasso le amministrazioni locali. Nel contempo sono state abrogate le politiche pubbliche che si occupano della vita concreta della gente, dai trasporti, all'istruzione, ai servizi sociali. E le poche eccezioni hanno seguito indirizzi dannosi o inutili: la legge sulla casa è un paravento per nuove speculazioni edilizie mentre altri paesi europei si danno leggi per diminuire il consumo di suolo; i poteri ai sindaci sull'immigrazione sono indirizzati solo alla sicurezza, con risultati peraltro modesti, nella totale assenza di una strategia nazionale di integrazione dei migranti.

Si è affermata una malintesa autonomia locale che ha significato da un lato caduta di responsabilità dello Stato verso la condizione urbana e dall'altro un suo ipertrofico intervento legislativo sui bilanci e sulle amministrazioni degli Enti Locali. Fino al delirio dell'attuale governo che è arrivato a eliminare livelli istituzionali per risparmiare sui gettoni di presenza, senza avere alcuna idea sul modello di governo del territorio. Occorre rimettere in agenda grandi politiche nazionali per migliorare la condizione di vita urbana, come fanno tanti paesi europei e la stessa Unione con priorità nei programmi strutturali. Sarebbe curioso che non lo facesse proprio la nazione che più di altre ha sempre fatto scorrere la propria linfa vitale nelle reti delle città.

Ma la solitudine dei sindaci va superata soprattutto in basso verso nuove forme di democrazia cittadina. L'uomo solo al comando non ha funzionato nel Paese e ne abbiamo preso atto in modo traumatico. Ma non funziona neppure nelle forme più dolci del governo comunale. I vantaggi iniziali della forte personalizzazione si sono tramutati spesso in evidenti difetti. Doveva assicurare stabilità di lungo periodo, ma il sindaco quasi sempre spreca il secondo mandato pensando a cosa farà da grande. Doveva conferire potenza decisionale, ma quasi sempre questa viene spesa per interventi di corto termine e di sicuro impatto mediatico. Doveva assicurare una relazione diretta con i cittadini, ma più facilmente l'amministratore unico del Comune viene catturato dalle reti dell'establishment urbano.

Si riapre il problema di una democrazia governante, di una mediazione nel corpo sociale, di una influenza reale dei cittadini sulla cosa pubblica. I nuovi sindaci di Milano, Napoli e Cagliari sono stati eletti proprio con questa domanda di superamento dell'uomo solo al comando e i primi passi di quelle giunte hanno cercato di dare risposte concrete alle aspettative. Dalla prossima tornata elettorale potranno affermarsi altre amministrazioni decise intraprendere strade nuove.

Postilla

«Bisogna mettere in discussione la stagione degli anni Novanta», afferma l’autore, individuando alcuni nodi delle politiche urbane recenti che sono indubbiamenti quelli su cui è più urgente incidere. Non c’è dubbio che quella discussione debba essere aperta, e su eddyburg l’abbiamo fatto fin dall’inizio della vita di questo sito. Ma proprio l’averl seguita con attenzione la stagione degli anni Novanta fin dal suo inizio ci induce ad affermare che essa tutto fu ma certo non - come scrive Tocci - la stagione di «una grande politica riformatrice». Tutt’altro.

Essa è stata la fase della nostra storia nella quale, nel quadro della più generale politica neoliberista e in aperta reazione alla stagione, quella si, delle riforme degli anni Sessanta e Settanta, è proseguita la loro distruzione, iniziata già con la “strategia della tensione” e proseguita negli anni Ottanta. La spallata di Mani pulite ha scoperchiato la pentola del “sacco d’Italia” denominato Tangentopoli, ma non è stata colta dai partiti e dalle istituzioni come l’occasione per riformare la politica e il suo rapporto con il territorio (con l’habitat dell’uomo) e il suo governo. Il vento del neoliberismo ha continuato a imperversare in Italia – tra l’altro nella sua versione più indecente – e il comportamento pratico della sinistra (anzi, delle sinistre) non si è significativamente distinto da quello delle truppe di Berlusconi e Bossi. Troppe vicende delle politiche nazionali, regionali e locali, ampiamente ricordate e commentate su questo sito, lo testimoniano.

Se ripartire da un punto della nostra storia si può e si deve, non è nella stagione occorre ritrovare il punto di partenza. Continuiamo a discutere e a cercare come uscire dall’attuale crisi sociale, politica e culturale, ma non partiamo per favore dalla stagione che ha visto trionfare la svendita dei diritti comuni sul territorio, la dismissione della funzione pubblica, la personalizzazione della politica, la mercificazione di tutto ciò che a merce non può essere ridotto.

Se le elezioni amministrative e i successi delle rivendicazioni referendarie dicono qualcosa, è che nella società italiana – almeno, nella sua parte attiva – i due decenni che sono alle nostre spalle sono già condannati nell’ideologia che li ha nutriti e nella politica che ne ha tracciato il percorso (e.s.)

Caro Bottini, dannatissime cittadelle, hai ragione. Ma sorprende, nella proposta di Renzo Piano, la banalità e la falsa novità della soluzione urbanistico-tipologica. Ma come! Gli esperti di organizzazione ospedaliera, subito seguiti da certi architetti, da decenni hanno lamentato l'inefficienza del sistema insediativo a padiglioni bassi, appunto disposti ragionevolmente in spazi a giardini alberati, e perorato le soluzioni a monoblocco, a volumi alti, magari a grattacielo, ad ogni modo secondo densità ultra-urbane paragonabili a quelle di complessi per uffici, tutti funzionanti esclusivamente "da dentro", privi di qualsivoglia necessità di rapporto benefico con l'esterno. Piano sembra attribuire a sé una mirabile invenzione. Non sa che a Milano i vecchi ospedali erano (e in parte sono) come sembra volerli lui ora? Basta ricordare quattro casi. La sede centrale, addirittura "antica", del Policlinico fra Via Sforza (Cerchia del Naviglio) e Via Commenda. Ora massacrata dall'inserimento di sopralzi e nuovi volumi sproporzionati ma una volta costituita da edifici di due, tre, poi quattro piani, i più vecchi e bassi con paramento di mattoni a vista e di gusto neoromanico; ben distaccati fra loro, con aiuole e viali alberati. La sede di Niguarda, nientemeno che opera di Giovanni Muzio, famoso esempio, sia per ordinamento planimetrico che per controllo volumetrico degli edifici a media altezza, di compromesso fra Novecento e Razionalismo; sorta quasi come un ampio quartiere residenziale con giusto rapporto fra edificato e ampi spazi verdi alberati. L'Ospedale Sacco per malattie infettive in zona Roserio (N/W), a suo tempo incentrato su palazzetti come fossero abitazioni e oggi, nonostante i pesanti inserti, notevole per la quantità e il rigoglio delle alberature. Lo stesso si potrebbe dire per Villa Turro, fra viale Monza e via Padova (N/E), in origine casa di cura per malattie nervose, poi distaccamento del San Raffaele. Queste brevi osservazioni mi preme di trasmetterti, benché possano suonare di tonalità minore rispetto alla tua postilla in maggiore.

Per nulla marginali, queste tue osservazioni rafforzano l’idea di un approccio complessivamente poco meditato alla funzione, se il progettista può presentarli come pensata del tutto propria e non interpretazione di una domanda collettiva e pluridisciplinare, come in fondo erano i progetti di città sanitaria orizzontale a cavallo fra i due secoli scorsi. Così, messo in secondo piano l’aspetto socioeconomico e di servizio, quello territoriale metropolitano, anche quello delle scelte di organizzazione spaziale interna della “cittadella” pare rispondere a logiche lontane dai bisogni reali. Una corrispondenza tutta da recuperare, problema di cui forse si sta accorgendo anche la stampa di opinione: c’è qualche fondata speranza

(f.b.)

Buongiorno professor Salzano, le scrivo per aggiornarla sulla situazione del progetto autostradale Cimpello-Sequals-Gemona. Rispetto a due mesi fa nulla è cambiato dal punto di vista del progetto: dopo un anno dall’apertura delle buste, la Regione non ha ancora fatto sapere quale delle due ATI si sia aggiudicata l’appalto.

Tuttavia il nostro lavoro di informazione sul territorio continua e la protesta si sta allargando: a febbraio abbiamo consegnato in Regione 3.900 firme contro il progetto - in realtá ne avevamo raccolte 4.500 (ora sono oltre 5.000) ma la Regione non ha accettato quelle on line e quelle di chi non è nato o residente in FVG. Alla consegna hanno presenziato 5 consiglieri regionali (IdV, Cittadini, PD, Lega Nord e SeL) che hanno espresso il proprio sostegno all'iniziativa. Contestualmente è stata formulata la richiesta di audizione del Comitato in sede di IV Commissione.

Il mese scorso Luca Mercalli ha parlato di noi nella trasmissione di Rai3 Che Tempo Che Fa (ci eravamo incontrati con lui nel novembre scorso), il mese prossimo la nostra segnalazione verrà inserita dal giornalista Antonio Cianciullo nell'iniziativa di repubblica.it Vota la tua inchiesta e sempre per maggio abbiamo organizzato una conferenza con il professor Salvatore Settis.

Tra le iniziative di maggior rilievo che stiamo portando avanti, oltre all'inserimento del medio Tagliamento tra i siti dell'Unesco e alla riapertura di antichi sentieri sulle nostre montagne, ci sono collaborazioni con comitati per la mappatura dei siti in pericolo nell'intera regione e per la realizzazione di un documento a salvaguardia dei 32 SIC presenti in FVG.

Infine, visto che nella sua cortese risposta del 16 gennaio ha gentilmente aderito alla nostra protesta, vorrei chiederle il consenso ad annoverarla tra i nostri sostenitori. La ringrazio per la cortese attenzione e, nella speranza di risentirla presto, colgo l'occasione per augurarle una buona Pasqua. Cordialmente

Proprio stamattina ho inserito l’articolo di Gianni Barbacetto, dal Fatto quotidiano. Certo che confermo la mia adesione. Tenete aggiornato me e i frequentatori di eddyburg delle novità. Grazie e buon lavoro

Caro Edoardo, Ti leggo nella postilla a "Grigia Toscana...": «E, soprattutto, che succederà al territorio e ai suoi abitanti se non cesseranno le politiche di totale autonomia dei comuni nel governo del territorio, anche quando essi utilizzano i suoli come uno strumento per lo "sviluppo", cioè come un modo di spalmare l'edificabilità ottenendo in cambio qualche briciola di "oneri di urbanizzazione"...»

Ti ricorderai, anche tu amministratore in altri tempi (tuttavia meno lontani di quanto riguardi me), che ci battevamo per l'autonomia democratica locale. Dovevamo, tra l'altro, liberarci dalle vessazioni dei prefetti.

Ma, da sindaci e da assessori, nulla potevamo decidere se non passando dal dibattito, spesso lotta senza esclusione di colpi con la DC, in Consiglio comunale. Dove non eravamo maggioranza e non detenevamo il potere agivamo senza tregua in ogni frangente per evitare gli abusi di democristiani e soci. Insomma, per un senso o per l'altro, il controllo esisteva, sindaci e giunte non potevano decidere senza render conto al Consiglio e ai cittadini. Poi, man mano, per ragioni che non rivango qui, è cominciato l'indebolimento dei Consigli, fino a che la riforma delle leggi elettorali per Regioni e Comuni, d'accordo tutti i partiti (quindici anni fa?) ha stabilito pazzeschi poteri "personali" a sindaci, governatori e relative giunte (formate anche da personaggi non eletti): possono farne di tutti i colori specie in materia di territorio e di edilizia, sprezzando le eventuali opposizioni dei disarmati consigli; del resto ormai per lo più afoni, essendo il principio dei maggiori poteri di comando ai vertici comunali, regionali, nazionale ("ampi poteri al premier!...") ormai quasi diventato senso comune. Temo che non ci sia più possibilità di "tornare indietro". Mancava il super-premier, ora ci stanno pensando PD, PDL e UDC con la loro orribile proposta di legge elettorale, altro che porcellum.

Tornare indietro naturalmente non si può. Ma andare avanti si. Ristabilire alcuni principi che nel passato hanno funzionato bene e che sono stati traditi o abbandonati si può, e di deve fare: non si va mai avanti se non si impara dalla storia.

Tra principi da ricordare e recuperare porrei quello dell’esistenza di diversi
livelli ai quali si manifestano le esigenze, i problemi e le soluzioni e quindi diversi necessari livelli di governo che devono esistere. I padri costituenti ragionarono a lungo sui rapporti tra i diversi livelli di governo; molti anni dopo se ne ragionò a livello della comunità europea, e si introdusse un principio (il principio di sussidiarietà) che, correttamente applicato, avrebbe consentito di attribuire sensatamente le responsabilità ai diversi livelli (Europa e stati e, in Italia, stato, regione, provincia, comune). Come spesso accade negli ultimi decenni, in Italia si abbandonò la fedeltà alla Costituzione repubblicana e si interpretò a rovescio la lezione europea: si proclamò “tutto il potere al livello inferiore”. Nel frattempo, si manifestarono forme nuove di centralismo surrettizio(sia statale sia, soprattutto, finanziario) travolgendo ogni ponderato equilibrio.

Ancor più rilevante fu l’altra “innovazione” introdotta negli anni 80 e 90, connessa alla medesima ideologia neoliberista: il primato assegnato alla “governabilità” sulla democrazie. Ciò comportò lo spostamento di ogni potere democratico dagli organismi collegiali a quelli monocratici (dal consiglio al sindaco e così via), l’abbandono del pluralismo, il rifiuto della dialettica tra le parti – e insomma gli altri aspetti del degrado delle istituzioni e della politica dei partiti.

Di fatto si è espressa, ed è divenuta egemonica, una nuova ideologia, largamente bipartisan, contro la quale bisogna lottare costruendo pezzi di contro-egemonia (per adoperare i termini gramsciani). A mio parere non si può farlo senza recuperare – naturalmente rivivendoli nella nuova temperie – alcuni dei principi colpevolmente traditi o frettolosamente abbandonati. E’ certamente un lavoro di lunga lena, e probabilmente non ne vedremo la fine né tu né io. Ma è così che cammina spesso la storia, quando non fa salti imprevedibili. L’importante, per ciascuno di noi, è camminare nella direzione giusta. (e.s.)

Cari amici, E non poteva mancare l'Olanda ad insegnare il restauro e la cultura della tutela proprio a noi italiani? No. E' l'Europa che ce lo chiede? Faccio volentieri riferimento al fortunato tormentone del programma satirico di Serena Dandini che meglio dei centoquaranta-caratteri-centoquaranta di Twitter, sintetizza le politiche della "Trimorti" governativa, fase esantematica della malattia berlusconiana italiana.

E pensare che la moderna cultura del restauro italiana da Cesare Brandi in poi è oggi tradotta anche in Cina. Insegna che il restauro è l'ultima delle opzioni, che è necessaria innanzitutto la manutenzione, che i centri storici sono organismi omogenei da considerare nella loro unitarietà non solo con un approccio architettonico-edilizio, ma invece con uno sguardo urbanistico tout-court, composto da valutazioni economiche, sociologiche, antropologiche, ambientali.

Siamo ben lontani dunque dall'approccio mussoliniano ai centri storici, composti solo e soltanto dai quei monumenti degni di esser tramandati ai posteri (non si sa bene in base alle valutazioni di chi, ma si può immaginarlo) o "da isolare nella necessaria solitudine" . Mussolini aveva in mente più che una città, l'immaginario del suo partito e... la città di Washington. Proprio la storia ha insegnato successivamente che si sbagliava di grosso. La storia e il presente delle più rinomate istituzioni internazionali come l'Iccrom, l'Unesco e l'Icomos confermano quello che già nell'italia degli anni 60' diviene consapevolezza diffusa: Conservare è modernità. Perchè pone di fronte i decisori politici e i garanti del pubblico interesse al principio di responsabilità verso la loro comunità, il patrimonio lasciato loro in "custodia" e da tramandare ai posteri per garantire a tutti (anche e soprattutto quelli dopo di noi), il diritto al bello, alla storia, alla leggibilità delle vicende materiali, storiche ed architettoniche delle città.

Conservare è moderno perché utilizza il principio di precauzione e di reversibilità degli interventi. Proprio perché non ci troviamo di fronte ai diktat del dittatore di turno o di chissà quale "commissario straordinario alle emergenze" (qui l'ironia è voluta).

Consapevolezza che mancava invece agli antichi. Oggi, per esempio, non polverizziamo le antiche statue per ricavare la calce di cui abbisognamo o non fondiamo complessi equestri per ricavarne cannoni. Qualche barbaro "autoctono", per dirla alla Flaiano, preferirebbe venderlo il nostro patrimonio, ma questa è un altra vicenda che dimostra semmai la persistenza e l'imperitura attualità delle idee antiche e balsane.

Tutto questo, leggendo il bell'articolo di Vezio De Lucia, sembrerebbe mancare agli organismi economici e alle Università straniere che sono state richiamate a proporre progetti e soluzioni su quella che più che una città è stata presentata sin dall'inizio come una sorta di "esperimento" bio-politico-urbanistico. Il fatto stesso che il progetto venga presentato nei laboratori dell'Istituto nazionale di Fisica del Gran Sasso, lascia capire che forse più che all'uomo o al cittadino, si pensi qui alla centralità del progetto edilizio, dello spazio da occupare e al "decoro" tutto scenografico-televisivo delle facciate delle case e dei palazzi. Il rischio, a mio avviso, è che l'Aquila divenga una sorta di "parco a tema" della correcy urbanistica internazionale tra archistar e furbetti del "cantierino" nostrani. Il "facciatismo" è poi una delle caratteristiche essenziali dell'approccio olandese ai centri storici. Ma è ben lontano dalla realtà italiana. L'Aquila dunque una "vetrina" (senza offese per gli amici olandesi) per vendere meglio un nuovo modello di approccio alle città italiane?...Magari da ratificare con un prossimo "colpetto" legislativo della Trimorti?

Non credo che l’Olanda c’entri molto nella vicenda. Credo invece che essa sia un’ulteriore testimonianza di un devastante pensiero corrente, divenuto egemonico, per il quale l’oggi conta più del passato e del futuro, l’apparenza conta più della sostanza, l’episodico conta più del sistematico, l’eccezionale conta più del normale, l’evento conta più della durata (e quindi la ristrutturazione è meglio della manutenzione, l’architettura è meglio dell’urbanistica, il gesto che improvvisa è meglio della paziente applicazione). Della storicità non importa l’insegnamento profondo (e quindi il rispetto del patrimonio storico come testimonianza di un passato capace di rivivere trasformandosi nel rispetto delle regole della sua formazione), ma – come dici giustamente – come scenario catturabile dal mass media più alla moda nel momento dato. Lo rivela in molti episodi degli ultimi vent’anni anni quello che avviene a Venezia, divenuta ormai solo scenario da vendere ai mercanti di qualsiasi cosa (e in particolare a quelli di valori immobiliari), cancellando giorno per giorno regole ispirate alla “modernità della conservazione”, e i modernissimi principi della precauzione e della reversibilità, posi dalla Repubblica Serenissima alla base delle sue politiche territoriali.

Il lavoro da fare per restituire buonsenso al cervello delle persone è dunque lungo e impegnativo. Resistere agli scempi che volta per volta avvengono è necessario - anzi, indispensabile – ma non basta. Purtroppo da decenni si è lavorato per trasformarci in uomini di paglia (ricordi la bella poesia di Eliot?), e in Italia ce ne siamo accorti quando gran parte del danno era già stato compito. Ma non è mai troppo tardi, come ci lasciano sperare le tensioni che agitano le società in vasta parte del mondo. (e.s.)

Sui giornali della capitale è comparsa la notizia, proveniente dalla Corte dei Conti, secondo la quale per esaurimento dei fondi disponibili verrebbero sospesi i lavori della linea “C” prevista nell’attuale piano regolatore. Se non erro per ora si tratta solo dei lavori di assaggio del sottosuolo nel tratto Colosseo – San Pietro, di attraversamento del Centro Storico, ma la notizia ha destato sorpresa e incertezza per ciò che resta da fare, anche se non più di tanto per i romani che conoscono la loro città.

Nella non breve vicenda dei Piani regolatori di Roma la rete metropolitana sembra tenere il ruolo della collana di perle o brillanti,che la signora bene aggiunge a completamento e prezioso abbellimento dell’abito da sera con cui mostra le proprie bellezze. Nella elaborazione dei Prg. la rete di trasporto pubblico su ferro viene per ultima come completamento e adempimento finale dei disegni di piano. Cosi è stato per il Prg 1962 e cosi è dell’ attuale in corso di approvazione.

Il fatto è che se si guarda la città di Roma come è oggi e sarà domani non sono pochi gli interrogativi che vengono dal disegno della rete metropolitana proposta. All’origine dei dubbi sta sicuramente la preminenza data alle urbanizzazioni nello studio del piano, secondo una logica che considera il Pr. soprattutto come distributore di rendite immobiliari, e guarda in subordine la rete di trasporto senza vedere che in questa come in uno schema si riflette la configurazione stessa della città, in specie se ha raggiunto la dimensione metropolitana caratterizzata da forti e diffusi flussi di mobilità.

Poi ci sono i principi a cui si è ispirato il disegno di rete; e qui di pregiudizi che vengono dal passato non sono minori dei dubbi presenti, come nel caso della linea “B” originalmente a servizio del Sistema Direzionale Orientale: una previsione che allo stato presente (e forse un po’ troppo corrivamente) sembra morta e sepolta per sempre.

Infine ci si può chiedere perché nel disegno della rete metropolitana si è trascurato un principio che se ben applicato può far risparmiare opere e denaro e viene sempre conclamato a parole: la città del futuro sarà il risultato di un opera di recupero e riuso di quella esistente prodotta nel corso della storia. Allora perché non adottare questo principio fin dal disegno della rete metropolitana futura sviluppandola da quella esistente, che già serve una parte se pure insufficiente del territorio, e come in altre città può essere estesa su opportune biforcazioni risparmiando percorsi e costi.

Ovviamente qui non finiscono gli interrogativi, ma questi dovrebbero bastare a ben ricominciare. Non è immaginabile Roma oggi e ancor meno domani senza una sua adeguata rete metropolitana.

Capita al momento giusto l'intervento di Franco Girardi, quando si sta aprendo il confronto per le elezioni amministrative dell'anno prossimo. In una città le cui aree centrali sono sempre più vuote di abitanti e piene di nuove attività, il tema della metropolitana è d'importanza vitale. (v.d.l.)

Caro Fabrizio, perfetta la tua postilla all'articolo del Corriere sulle seconde case. Ti segnalo un grave inganno nell'articolo circa il "peso" percentuale di queste. Non può essere solo il 10,5% (ci sarebbe un numero spropositato di abitazioni totali). Per maggior certezza ho dato un'occhiata al censimento 2001, ultimi dati abbastanza sicuri. Abitazioni totali 27,3 milioni, abitazioni non occupate 5,6 milioni (numero quasi uguale ai 5 milioni e 782 mila nel Corriere considerati seconde "case"). Abitazioni non occupate, dunque, 21 % del totale. Se togliamo un 5% solitamente attribuibile ad appartamenti vuoti ma non classificabili fra gli alloggi "per vacanze e fine settima" (Istat), ci avviciniamo alla realtà. Ad ogni modo nel 2005 il Coordinamento europeo per l'alloggio sociale indicava nel 24% la quota di appartamenti vuoti in Italia (V. quotidiani del 20 ottobre).

Buon lavoro, Lodo

Caro Lodo, utilissima e puntuale la tua precisazione, che conferma la superficialità con cui la stampa di informazione affronta certi problemi anche importanti. Del resto il vero e proprio schieramento di gran parte dei giornali sul fronte dello “sviluppo” a tutti i costi (vedi il caso Tav in queste ultime settimane, ma non solo) la racconta abbastanza lunga sulla voglia di fare chiarezza su questioni come l’utilità di tutte questa case, seconde terze o quarte che siano. Per non parlare dei secondi capannoni, ovvero di quelle zone industriali su terreni ex agricoli volute da intraprendenti sindaci, dove si vanno insediare effimere attività che spesso ne hanno lasciati vuoti a non troppi chilometri di distanza. E questa, purtroppo, non è neppure un’altra storia …. (f.b.)

Ho provato una grande tristezza alla notizia della morte di Lucio Magri. Considero il dolore un fatto privato e non sarei intervenuta se non fossimo stati importunati dai consueti giudici del bene e del male che hanno emesso le loro sentenze dalle scene del servizio pubblico Rai e da altri media su come Magri ha deciso di morire.

Ho avuto la fortuna di incontrare molte volte Lucio Magri, a Roma e a Sassari, prima ai tempi della costruzione del Pdup e poi con il rientro nel Pci, avendo egli intravisto nel partito di Enrico Berlinguer la possibilità di recuperare una funzione a sinistra. Allora erano tanti i giovani che come me ne subivano il fascino, non solo fisico (era sicuramente un bell’uomo) ma soprattutto intellettuale: il suo pensiero era tanto rigoroso quanto raffinato. Ho assistito a molte accese discussioni tra Lucio Magri, Marcello Lelli (colui che dopo la laurea sarebbe diventato il mio maestro) e Giovanni Meloni, di cui, lo confesso, capivo assai poco. Memorizzavo invece i riferimenti e l’indomani andavo a cercare i libri nella Biblioteca Centrale dell’Università. Se scoprivo che la lettura era interessante, allora andavo nella libreria Dessì, dove il dottor Pulina mi aveva aperto un credito illimitato: a fronte di ben 5 mila lire, potevo prendere tutti i libri che volevo.

Le loro discussioni non erano mai ideologiche, seppure avessero in sé una specifica visione del mondo, quella che un tempo si definiva Weltanschauung; anzi, il rigore e il metodo dell’analisi erano il binario principale, qualunque fosse l’oggetto del contendere. Ho un debito verso queste discussioni che per me sono state fonte di sollecitazione. Oggi si direbbe un percorso di alta formazione.

Di Magri ricordo con nettezza il suo rapporto conflittuale con il fumo e l’umiltà con cui si rapportava ai giovani. Egli era, infatti, un accanito fumatore che non aveva mai sigarette in tasca. Regolarmente le chiedeva a noi che, squattrinati come eravamo, gli opponevamo un po’ di resistenza, dicendogli “ma perché non le compri, non sarai mica un avaro?”. E regolarmente lui ci rispondeva “sto cercando di smettere”. Ricordo anche che lo si andava a prendere in aeroporto, talvolta con automobili improbabili e che con noi mangiava panini caldi appena sfornati imbottiti di pancetta sfrigolante. Non l’ho mai visto con scorte o bodyguard, come si usa ora, nonostante fosse un personaggio pubblico importante, riconosciuto e amato dalla cosiddetta gente comune.

La resa finale di Magri è avvenuta in Svizzera, ma egli si era arreso ben prima, quando ha rinunciato ad essere un uomo pubblico, togliendo così ad altre generazioni di giovani il piacere della politica, quella autenticamente necessaria a cambiare e a rendere migliore il mondo e che non può fare a meno dello studio e della ricerca. E, citando Richard Sennett, il declino dell’uomo pubblico, di questo uomo, non ha reso la società italiana più giusta.

Caro Direttore, sulle pagine di Repubblica Milano è stato pubblicato un intervento del professor Giuseppe Boatti, che esprime giudizi generali sullo stato dell’urbanistica italiana e milanese, e in questo quadro presenta il Politecnico di Milano come luogo in cui prevale il pensiero unico e sono marginalizzate le posizioni critiche. Una risposta ci sembra necessaria in merito alla complessa questione delle tendenze prevalenti della cultura urbanistica italiana. La capacità di governo delle trasformazioni del territorio non è indipendente dalla cultura di governo che un paese è in grado di esprimere. Non vi è dubbio che in questi anni sia in crisi la possibilità di un’azione urbanistica legittima, rigorosa ed efficace; ma l’immagine dell’urbanista eroico, capace da solo di contrastare il corso della realtà, rischia di diventare un facile alibi, mentre è più complicato continuare a impegnarsi in un paziente processo riformista.

Inoltre, presentare il Politecnico come sede di un pensiero unico, o, peggio, di atteggiamenti collusivi con i poteri costituiti, è in palese contraddizione con l’attività quotidiana dei nostri docenti e ricercatori, con l’impegno a sostegno della costruzione di politiche pubbliche per la città e il territorio e con lo sforzo di alimentazione della riflessione pubblica. Un dipartimento, una scuola o un ateneo non sono partiti politici o lobby professionali. Pluralismo, trasparenza, cura del confronto pubblico sono requisiti inderogabili per qualunque università vera: la nostra attività di ricerca e di formazione e la stessa reputazione pubblica delle nostre istituzioni valgono dunque come la risposta più semplice e chiara.

Può essere utile aggiungere qualche considerazione relativamente all’impegno delle nostre istituzioni sui temi della città, pubblicamente espresso negli ultimi anni. Vari gruppi di colleghi hanno pubblicato testi rilevanti sul tema, tra i quali segnaliamo almeno "Per un’altra città. Riflessioni e proposte sull’urbanistica milanese" (2009, un libro a cui ha contribuitolo stesso Giuseppe Boatti); e più recentemente "Milano al futuro", testo sulle prospettive urbanistiche della città che sarà divulgato tra poche settimane. In questi volumi e in altre attività di ricerca e formazione docenti e ricercatori del Politecnico provano, in modo non ideologico, ad affrontare i complessi problemi del governo urbano, sostenendo la necessità di promuovere l’innovazione sociale, garantire abitabilità e qualità ambientale, favorire la coesione sociale. Il lettore interessato potrà dunque verificare se davvero le nostre istituzioni sono afflitte da pensiero unico, o se invece sono in grado di contribuire ad alimentare il dibattito sulla città con la critica e con la proposta.

Postilla

Svelta come il baleno l’Accademia nel difendersi (debolmente: «abbiamo pubblicato un libro a cui ha contribuitolo stesso Giuseppe Boatti »). Lenta, anzi, immobile come un elefante in coma, nel difendere l’espressione della libertà di critica dagli attacchi intimidatori.

Del resto, è difficile aspettarsi altro da chi ritiene il termine “ideologia” non significa “insieme di principi e convinzioni condivisi da un determinato gruppo sociale” ma è sinonimo di dogmatismo e ottuso preconcetto: operazione semantica messa in opera da chi ha voluto imporre, come unica ideologia, quella dominante. Il “pensiero unico”, appunto, che Boatti ha denunciato nella sua lettera aperta. Insomma, viene il sospetto che, nel dire "no all'urbanista eroico", i due professori abbiano voluto dire "si" al pensiero unico.

Vedi qui il racconto e il commento sull'evento che ha provocato la polemica

Caro eddyburg, ho letto e confrontato la cosiddetta “legge casa” del Governo e quella della regione Lazio e ne ho tratto la conferma, oltre che ovviamente della dissennatezza di chi ci governa, dei dubbi che ho sempre avuto sul valore e l’utilità del potere legislativo delle regioni ancorché sancito dall’art. 117 della Costituzione. Detto in breve e in generale: se la legislazione regionale si discosta o contrasta quella dello Stato è un gran male e fonte di disordine; se la ripete tante volte quante sono le regioni è superflua e in definitiva inutile.

Ho letto attentamente la “legge casa” nel testo governativo (bozza) e mi sono chiesto se in sostanza non sia un incentivo all’ abusivismo o almeno una sua giustificazione per chi lo ha praticato e lo praticherà in futuro, e questo non solo per la lettera del testo dove ricorre spesso il termine “in deroga”, ma per la sua logica di base che attribuisce un potere di incentivazione economica al mero incremento quantitativo dell’edificato, che per parte sua è la molla di tanto abusivismo.

Orbene, la stessa logica l’ho trovata nella legge regionale (né allo stato delle cose poteva essere altrimenti) forse con qualche tentativo di attenuarne gli effetti più dannosi, ma con l’aggravante (ed è questo che intendo segnalare) di appesantire la lettera della legge e con ciò la lettura e l’osservanza di chi la deve rispettare; e si sa per esperienza che la fatica di lettura di un testo legislativo è un incentivo prima a non leggerlo, poi a non osservarne il dettato, e soprattutto è fonte di facili contestazioni per chi ha interesse ad approfittarne.

Una buona “legge casa” (chiamiamola sempre così) sia governativa che regionale, a mio giudizio dovrebbe basarsi su un’altra logica, che mi arrischio a riassumere nei punti seguenti.

1. Impegnare l’ente pubblico (soprattutto lo Stato) a farsi carico di un piano sull’esempio (tra i non pochi) del vecchio “Fanfani”.

2. Definire un sistema di finanziamento, indispensabile per alimentare lo stesso piano. Ed è cosa non facile che ne rileva l’aspetto economico (considerato sul medio-lungo periodo

3. Nel nostro specifico caso dell’edilizia, dovrebbe esaltare la finalità del piano, che in quello sopra citato a esempio era l’incremento dell’occupazione, mentre ora si dovrebbe cominciare a considerare il tema della razionalizzazione produttiva nell’industria delle costruzioni (Dio ne scampi dalla vieta prefabbricazione pesante).

4. Last but non least. Avviare, anche solo di un primo passo, la riforma del nostro regime immobiliare, responsabile di tanta parte del costo della casa, impedendo ai più di godere di un bene che si proclama un diritto; e non giovando certo alla produttività del corrispondente settore di produzione economica.

Franco Girardi, studioso e attento osservatore delle cose urbanistiche, muove giuste critiche (in parte già note ai nostri lettori) alle diverse declinazioni del cosiddetto piano casa. E contrappone alla sguaiate proposte del governo e delle regioni ipotesi alternative completamente diverse, che si rifanno alle migliori esperienze dell'edilizia pubblica italiana dei primi decenni del dopoguerra. Come non essere d'accordo. (v.d.l.)

Se oggi è stata una giornata no, se vi sentite un po' tristi, vi regalo un minuto di 'riso amaro'. Istituita la Commissione Piazze e la Commissione Grattacieli dal Sindaco di Roma Capitale, Gianni Alemanno. :-)))))))))))))))))))))))))))))))))))))))

A quando la Commissione Catacombe, l'unica parte edilizia ancora da 'sanare' ? In fondo le catacombe sono i primi abusi edilizi realizzati nella Roma cristiana. Ormai hanno costruito quasi ovunque in superificie, mancano solo i 'formicai'.

Dopo aver molto letto sull'expo di Milano, sui costi della aree, sulla discussione su cosa fare successivamente allo svolgimento dell'evento, pochi giorni fa ho avuto un lampo: tutta la discussione e le polemiche ruotano e trovano la loro base essenzialmente intorno al valore delle aree: se le aree valgono settanta milioni di euro allora (a parte trovare ORA questi soldi) POI dovranno essere realizzate abbastanza cubature con adeguate destinazioni per ripagare l'investimento. Ma a nessuno è venuto in mente che il buco nero di tutta la discussione è il dare per scontato quel valore? Secondo quanto è noto le aree sono attualmente a destinazione agricola e, a seguito di una necessaria variante per permettere la realizzazione dell'expo, dovranno essere destinati a servizi di scala cittadina, destinazione preordinata all'esproprio.

Se espropriati questi terreni costerebbero non più di sette/otto euro al metro quadro, essendo più che generosi, in quanto da considerarsi non edificabili ai sensi del testo unico delle espropriazioni, della giurisprudenza dei tribunali, della corte di cassazione e della corte costituzionale, e quindi da pagare a partire dai VAM.

Capisco che, come a Roma, anche a Milano, auspice gli autori del PRG ancora oggi vigente, sono state introdotte nella prassi urbanistica insostenibili orrori quali le compensazioni e la perequazione, infaustamente teorizzate dall'INU già negli anni Ottanta, ma qui stiamo parlando di qualcosa che è pericolosamente vicino ad un reato. Come chiamare altrimenti la decuplicazione del valore riconosciuto al proprietario? Ed il fatto che lo stesso sia un ente parapubblico a mio parere peggiora la situazione. Oramai gli ultimi anni hanno dimostrato che non si possono dare devastanti speculazioni senza l'attivo, compiacente e compiaciuto concorso delle amministrazioni responsabili della gestione del territorio.

Sono completamente d’accordo con le sue valutazioni nella loro sostanza. In particolare, sull’iniquità dell’appropriazione privata dei rilevantissimi incrementi della rendita per effetto di decisioni e investimenti, storici e attuali, della collettività. Sono anche perfettamente d’accordo con lo stigmatizzare il comportamento degli amministratori che operano accettando supinamente – e anzi agevolando – l’incremento della rendita. In questo sennso parlare di £reato” mi sembra del tutto ragionevole, e anzi ovvio. Ho viceversa qualche perplessità sull’aspetto giuridico. La propaganda che urbanisti infedeli e amministratori stupidi (ma sono questi, in Italia, che “fanno opinione”) hanno fatto ai cosiddetti presunti “diritti edificatori”, il trend del sistema capitalistico nella sua fase attuale (ha letto il bel saggio di Walter Tocci?) e l’omogeneizzazione che, con la sentenza europea, si è fatto di regimi patrimoniali del tutto diversi, temo che tutto ciò abbia provocato qualche modifica nella giurisprudenza, o almeno nei comportamenti della magistratura. Non sono un giurista, il mio è solo un sospetto, e mi piacerebbe che qualcuno lo confermasse o, meglio, lo fugasse, con riferimenti precisi.

Sarebbe bello se qualche parlamento approvasse una legge che stabilisse, in modo chiaro e non più equivocabile, che “la facoltà di costruire appartiene alla collettività”, e ne facesse discendere tutte le logiche conseguenze. Ma i tempi non mi sembrano maturi. E non lo diventeranno mai se non ci fosse qualcuno che, con petulanza, ricordasse e cercasse di far comprendere ai più quello che i miei maestri avevano compreso a proposito delle rendite, e soprattutto di quelle urbane: come e perché sono perniciose alla società e agli uomini, oltre che alla buona economia e al territorio.

Si chiede Gad Lerner in un recente aricolo su Repubblica, opportunamente ripreso da eddyburg, “in base a quale criterio il manager Franco Pronzato poteva fare il consigliere d'amministrazione dell' Enac, ricoprendo contemporaneamente l' incarico di coordinatore nazionale del trasporto aereo nel PD?” La stessa domanda può esser fatta a riguardo di Riccardo Conti, ex assessore al territorio della Regione Toscana, coordinatore nazionale per le infrastrutture nel PD e da qualche mese consigliere di amministrazione di F2i - Fondo italiano per le infrastrutture - in rappresentanza del Monte dei Paschi di Siena. Fondo quanto mai attivo in Toscana perché ha cercato di acquistare una quota del capitale sociale dell'aeroporto di Peretola. Ma Monte dei Paschi è anche presente (21%) nello scalo di Siena, l'aeroporto di Ampugnano, di cui sostiene l'ampliamento contro comitati e ambientalisti. Nel frattempo la 'banca rossa', azionista di riferimento di F2i, è entrata nel capitale di Sat, concessionaria dell'autostrada tirrenica, con quasi il 15%, mentre il 25% è stato acquistato da Holcoa (holding di concessionarie autostradali creato proprio per entrare in Sat da vari costruttori emiliani e da Ugf Merchant che è la banca d’affari del gruppo bolognese Unipol). Sat ha presentato da poco un nuovo progetto di tracciato autostradale che dovrà essere discusso con la Regione Toscana, la Provincia di Grosseto e i Comuni coinvolti. In quale veste interverrà Riccardo Conti? Come coordinatore per le infrastrutture del PD? Come consigliere di amministrazione di F2i? Sarà sordo agli interessi di Monte dei Paschi e dei costruttori emiliani? O agirà come rappresentante unico di tutti i vari soggetti? In questo caso si dovrebbe parlare non di conflitto, ma di macroscopica collusione di interessi. E Bersani che ne pensa? Eppure il Codice etico del PD recita esplicitamente che gli appartenenti al partito devono “rinunciare o astenersi dall’assumere incarichi esecutivi nel Partito qualora, a causa del ruolo ricoperto in imprese, associazioni, enti o fondazioni, aventi scopo di lucro o titolarità prevalente di interessi economico-finanziari, possa configurarsi un conflitto di interessi tale da condizionare i propri comportamenti”. Ma forse il segretario del PD se ne è dimenticato; e non si rende conto che questo intreccio di interessi, in cui pubblico e privato si confondono, è il brodo di coltura della corruzione; e che è meglio intervenire prima che stracciarsi (si fa per dire) le vesti dopo.

Da tempo siamo tra quanti sostengono che la politica (quella dei partiti) si è appiattita sull’economia: per di più, su quell’economia del neoliberismo straccione, all’italiana, che prospera saccheggiando i patrimoni collettivi con la logica non di Arsenio Lupin ma di Ghino di Tacco. Sempre più la rocca dalla quale si compiono le scorrerie non è quella di Radicofani, ma la rete di poteri aziendali che una volta si chiamava Parastato. Poche sono le voci che si sottraggono a questo andazzo, meno ancora i poteri. La rabbia cresce tra chi subisce e paga le conseguenze. Speriamo che il vento della protesta sia capace di esprimere una politica nuova, e non si rovesci in una tempesta reazionaria.

Caro "Eddyburg", anche da fuori, oltre l'Alpe, un saluto di speranza per una nuova fase della storia d'Italia ( ma forse resta solo come una storieta...). Ma è vero, finalmente si parla anche in Germania non più solo su Berlusconi e le sue donne. 'La primavera italiana' di 2011 diventa ( forse...) un modello per altri paesi europei; p.e. per la vostra importantissima lotta contro la privatizzazione dell' acqua. Va bene anche la vostra netta posizione contro la energia nucleare ma per questo la Germania ha gia fatto molto. Adesso anche la Merkel porta un buttone "Atomkraft- Nein Danke!" È ridicolo, ma talvolta la storia è ridicolo o come hai scritto tu «la speranze è rinata [...] Mi sembra che siamo giunti a una fase molto interessante della vita del nostro paese, e che le vicende dell'urbs, della civitas e della polis meritino di essere seguite con il massimo d'attenzione». Sono d'accordissimo... Da Monaco di Baviera un caro saluto di solidarietà e di speranza.

Caro Eddyburg, consenti anche a me di esprimere qualche considerazione sull'intervista del prof. Cervellati sulla sua propensione di voto alle prossime amministrative per il comune di Bologna. L'intervista mi ha indotto a riflettere ancor più sulla situazione nella quale siamo chiamati a scegliere i nostri amministratori (e più in generale i governanti) e sulle relazioni tra la scelta che compiamo e l'impegno che mettiamo nel nostro agire quotidiano. É indubbio che si sia prodotta una crepa profonda tra la ricerca e la proposta culturale di chi, come Cervellati, è portatore per la sua stessa storia personale, e la rappresentanza politica che questa elaborazione doveva raccogliere, far diventare consapevolezza diffusa da parte dei cittadini-elettori, assumere in programma politico e, infine, tradurrre in iniziative e atti di governo. Siamo, oggi, in una situazione confusa e pericolosa nella quale non vi sono più riferimenti politici solidi (direbbe Bauman) e il lungo e appassionato impegno per un uso del territorio sottratto alle logiche mercantili non trova approdi convincenti nel magma di un mercato politico deprimente. Su questo, credo, conveniamo tutti Cervellati e Bandoli compresi.

Quello che non convince nell’ annunciata scelta di Cervellati di sostenere il candidato bolognese della Lega Nord è che il professore mostra di accettare comunque le “condizioni” in cui la scelta si svolge rivestendo la propria decisione di pragmatismo, localismo e, infine, un po' di rassegnazione che gli fa sostenere il meno peggio dell'offerta amministrativa odierna. Pragmatica è l'affermazione che le ideologie si sono dissolte e occorre guardare solo al merito delle proposte.

Sono convinto che le ideologie non sono morte ma che una ha vinto sulle altre. Con la conseguenza che essa può oggi definirsi la “realtà” e mettere fuori gioco le opzioni che non ne accettano i suoi presupposti. Tutti noi sappiamo bene come la vulgata liberista sia pura ideologia abilmente travestita da “realtà fattuale”, indiscutibile. Le conseguenze le vediamo nell'opera sistematica di distruzione dei territorio, dei beni comuni, di tutte le forme di convivenza sulle quali il lavoro di persone come Cervellati si è fondato. Il pragmatismo, in sé, non è un atteggiamento disprezzabile. Anzi, spesso ha consentito di affrontare fasi difficili, passaggi storici critici in cui serviva duttilità per superare momenti di debolezza della nostra lotta per ripartire, subito dopo, con più vigore.

Sono convinto, tuttavia, che il pragmatismo dentro questo quadro politico ci consegna un messaggio sbagliato: ha il sapore dell'arrendevolezza al di là delle intenzioni di chi lo propone.

A me pare un boccone amaro che non siamo costretti ad ingoiare. E anche la riduzione localistica del significato della scelta non contribuisce a depotenziare il valore della rinuncia. Non c'è una distanza tra il 'merito' delle questioni da affrontare sul piano amministrativo e i principi generali secondo una dicotomia tutto sommato accettata anche da Bandoli nel suo intervento pur critico. La chiusura localistica è un modo per delimitare la propria sfera di iniziativa e sfuggire –illusoriamente - alle dimensioni richieste dal problema che si ha di fronte. Non è proprio un economista come Claudio Napoleoni che ci ha insegnato che i problemi, posti a un livello inferiore, non trovano risposta?

Non si può cavarsela guardando i programmi locali (quali poi?) a prescindere dalle azioni condotte da chi li proclama. E non accampo nemmeno le considerazioni di politica generale che già Bandoli ha tirato in ballo riguardo alla Lega Nord. Stiamo pure al ‘merito’ della gestione della città e del territorio. Dov’è la originalità e in che cosa consiste la prospettiva coltivata da questa formazione politica? Non conosco le posizioni del candidato sindaco di Bologna che ha conquistato le simpatie di Cervellati: può darsi pure che sia una degnissima persona con la quale si possa anche intrattenere un dialogo proficuo. Io so che vivo e opero in una terra che della Lega Nord è la culla e non noto alcun esempio di politica del territorio che giustifichi un qualche apprezzamento. La verità è che il nodo della difesa dei valori pubblici non viene nemmeno affrontato da questa formazione e il rapporto con gli interessi che si coagulano e premono sul territorio viene eluso.

Il nervosismo di fronte a certe denunce sulla presenza della criminalità economica al nord - soprattutto nell'uso e gestione delle risorse territoriali - è un segnale importante. Le scelte locali, da queste parti, sono improntate alle più viete riduzioni dell’identità a vernacolo, della tutela e promozione della qualità del territorio a marketing, in un impasto di folclore inventato, sagre da strapaese e soliti (e solidi) riconoscimenti agli interessi diffusi. Fedele proiezione del suo elettorato, la Lega Nord, mostra una gestione minuta e minuziosa di interessi polverizzati con effetti d’insieme di rilevante impatto sulla qualità della pianificazione.

Si potrebbe ragionare a lungo del profilo della politica territoriale leghista ma v’è un altro aspetto della intervista di Cervellati che, secondo me, andrebbe considerato. La delusione e l’amarezza che traspaiono sembrano riflettere la figura di una persona con un lungo e intenso passato di impegno professionale e culturale segnato da un forte ‘collateralismo’ con forze politiche oggi dissolte senza lasciare eredi. É un sentimento che credo appartenga a molti. Ma non vedo come da ciò possa derivare la necessità di reperire, un po' frettolosamente, un altro approdo (anche se solo per tattica elettorale) per dare sbocchi all'impegno, ai progetti, alle speranze che ci animano. Non è indispensabile rassegnarsi al meno peggio, si può anche ‘saltare un giro’ e dedicarsi alla costruzione di qualcosa di nuovo. Il panorama non è poi così desolante a patto che si guardi fuori dai confini dell’attuale offerta politica. Non devo ricordarlo su Eddyburg che ne è la prova vivente ma, oltre il perimetro dei partiti più o meno istituzionali, c’è una galassia di persone che producono idee e progetti straordinari che meritano attenzione, studio ed elaborazione e che sono già ora i germi di un rinnovamento più radicale e convincente. Si potrebbe obbiettare che, purtuttavia, si vota qui e oggi e che anche il voto per un’amministrazione locale può fornire l’occasione per una scelta tattica che può dare qualche frutto. Ma è una illusione che sacrifica un orizzonte più vasto e, certo, anche più impegnativo e rischia di consolidare una fase di risacca gratificando posizioni politiche che non lo meritano.

Concordo con le tue valutazioni. La decisione di Cervellati induce a una riflessione nella quale gli spunti che tu proponi sono parte essenziale. Non solo sul piano dell’analisi dell’effettiva politica del territorio della Lega, e delle ragioni che stanno dietro alle stesse scelte di merito ragionevoli, ma anche su un piano più generale. Mi riferisco alla tua oservazione sul travestimento dell’ideologia in fattualità. La delegittimazione dello stesso termine “ideologia” - cioè della necessaria esistenza di un insieme di principi, convinzioni, valori, interessi comuni a un insieme di persone, e diversi da altri – ha contribuito a costruire un discorso per il quale quegli elementi (principi, convinzioni, valori, interessi) non hanno senso né peso, poichè vale solo “il fatto”, e ciò che è non ha alternative. La consapevolezza dell’esistenza un pensiero corrente quasi egemonico (è condiviso da un blocco che comprende non solo la destra, ma gran parte della sinistra), e l’abbandono della nozione stessa di ideologia, spingemolti a rifugiarsi nell’egoismo della scelta individuale (“contro” quel blocco, e magari alla componente più vicina), anziché sforzarsi nella ricerca di un’alternativa. Eppure ogni ideologia provoca germi di ricerca di un’ideologia opposta, e quindi di una diversa egemonia. Questi germi, nell’Italia di oggi, esistono. Per noi sono la speranza di un domani possibile. Chi la speranza l’ha persa, sceglie altre strade; se è onesto, lo ritroveremo sulla nostra strada.

Ho letto e riletto “Le mie città”, di Vezio De Lucia, attratto da ciò che l’autore narra di mezzo secolo di urbanistica e anche dalle non poche concordanze di sentimenti, speranze, illusioni che ho ritrovato nelle nostre due vite di urbanisti.

Sentimenti a parte, il libro solleva molte questioni (e altre ancora se ne potrebbero aggiungere) sulle quali un vivo dibattito sarebbe sicuramente utile e opportuno. Per tre ragioni almeno. Se ogni dottrina ha bisogno di verifica e aggiornamento continui, la nostra urbanistica lo ha in modo particolare; inoltre l’avanzamento teorico, confermandone e irrobustendone le ragioni, offrirà nuove e più affilate armi contro i suoi avversari di oggi e di domani; infine questo avanzamento, se opportunamente pubblicizzato risveglierà l’interesse oggi carente (dai politici al semplice cittadino) per la stessa urbanistica e le sue ricadute. Penso che il modo migliore per avviare questo dibattito sia di farlo attraverso eddyburg.

Comincio a caso con una questione che non è certo la più importante, ma ha una sua rilevanza e trovo nella domanda (pag.161): “che significa professione privata di urbanista pubblico?” Per il contesto di riferimento e la modalità con cui è posta, la domanda sembra ammettere che in certi casi (di professione privata appunto) la figura e il ruolo dell’urbanista possano assumere una connotazione privatistica. Ossia che l’urbanista, in quanto tale possa operare nel mero e solo interesse privato. A mio parere tale idea và accuratamente scansata. E De Lucia lo ha fatto molto bene scegliendo di operare solo per la pubblica amministrazione. Scelta validissima, praticata anche da Benevolo a Brescia; ma che non ha valore categoriale (tra l’altro ci vogliono amministratori come Bozoli o Rosania); non copre l’intero campo dell’operare urbanistico.

Fai il caso che in una città o sua parte, priva di piano regolatore, una impresa di costruzione cooperativa (una delle tante “rosse”) si rivolga a te per realizzare un programma di abitazioni sociali, dalla stessa impresa proposto e sul quale ci sia il pieno assenso del comune competente. In questo caso i soggetti in campo sono privati (l’impresa cooperativa, il progettista). Di pubblico, e non è poco, c’è l’interesse collettivo dell’opera proposta (interesse sancito nelle dovute forme). Detto di passata: magari una simile cosa l’avessero fatta sistematicamente le suddette cooperative, secondo un loro preciso piano di produzione industriale. Il non averlo fatto torna, a mio giudizio, a loro debito.

Vengo dunque alla domanda e rispondo: esercitare la professione di urbanista (indipendentemente dalla figura degli attori) significa operare nell’interesse pubblico. Se manca questa connotazione si fa altro che urbanistica : si fa una mala urbanistica. Fare urbanistica per

interesse privato è semplicemente contraddittorio (come per esempio praticare l’arte medica per far star male i pazienti..

Mi rendo conto che questa mia distinzione è forse un po’ troppo ideale, ma non è sottile, anzi è ben grossa come sa chi l’ha sperimentata. E’ sicuramente scomoda perché porterebbe (parlo sempre idealmente) a sfoltire non poco negli albi professionali degli urbanisti, e a mettere in giusta luce le varie “urban promo” dalle quali siamo sommersi.. Tornando alla storia di mezzo secolo, se andiamo indietro di altri vent’anni troviamo la medesima grossa distinzione nell’idea di fondazione dell’INU, se a indirizzo pubblicistico o accademico professionale privato.

Grazie della lettera e delle belle cose che scrivi di me. Sono assolutamente d’accordo, l’urbanistica di cui ci occupiamo dovrebbe essere solo quella funzionale all’interesse pubblico. Ricordo che nel consiglio direttivo nazionale dell’Inu rinnovato dopo la contestazione studentesca del 1968 decidemmo addirittura che poteva essere ammesso all’istituto chi dimostrava di aver svolto attività professionale solo per conto di pubbliche amministrazioni. Sappiamo bene che ciò non basta, conosciamo tutti pubbliche amministrazioni che perseguono sordidi interessi privati (e ci sono anche, al contrario, soggetti privati - come nel caso da te citato – che operano a favore dell’interesse generale). Dovremmo adesso dire che cos’è l’interesse pubblico in urbanistica, esiste una definizione per noi convincente? So solo che tanti delitti si compiono in suo nome, (v.d.l.)

Caro eddyburg, forse qualcuno dei frequentatori del vostro sito ha voglia di trascorrere un po’ di tempo all’aria aperta, in compagnia, ragionando con altri su un tema che sta a cuore a molti: “ Aria, acqua, terra, biodiversità, saperi: beni essenziali da vivere e da condividere”. Questo è infatti l’argomento della settimana estiva della decrescita che l' associazione Respira La Terra, in collaborazione con l’associazione per la Decrescita (www.decrescita.it) organizza a Torraca (SA), nel Parco Nazionale dei Cilento, dal 26 giugno al 2 luglio 2011. La settimana sarà articolata in escursioni naturalistiche e visite guidate alle aree archeologiche e ai borghi antichi più significativi, spazi di lavoro in gruppi e in plenaria su temi legati ai beni comuni, lavoro in orto e in cucina, momenti di riflessione, meditazione e ginnastica bioenergetica. Chi volesse informarsi o iscriversi può rivolgersi a
respiralaterra@gmail.com

© 2024 Eddyburg