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Un articolo finalmente tradotto in italiano dal blog del premio Nobel per l'economia, ribadisce la natura complessa della bancarotta nell'ex capitale dell'auto: metafora della crisi finanziaria e della cattiva governance attraverso la quale si crede (o si vuol far credere) di uscirne. La Repubblica, 29 luglio 2013, postilla (f.b.)

QUANDO Detroit ha dichiarato fallimento, o quanto meno ha cercato di farlo – la situazione si è complicata dal punto di vista legale – , so di non essere stato l’unico economista ad avere avuto una sensazione sconfortante sul probabile impatto che ciò avrà sul nostro dibattito politico. Saremo di nuovo punto e daccapo come la Grecia? Naturalmente, ad alcuni piacerebbe che accadesse una cosa del genere. Quindi cerchiamo di orientare questa conversazione nella direzione giusta, prima che sia troppo tardi.

Di che cosa sto parlando? Come forse ricorderete, alcuni anni fa la Grecia è precipitata nella crisi fiscale. Si è trattato di un evento negativo, ma avrebbe dovuto avere effetti limitati sul resto del mondo. L’economia greca, dopo tutto, è alquanto piccola (in effetti è una volta e mezzo circa quella dell’area metropolitana di Detroit). Purtroppo, molti politici e policy maker hanno sfruttato proprio la crisi greca per fare cambiare direzione al dibattito, cambiando l’oggetto dalla creazione di posti di lavoro all’integrità fiscale.

Beh, in verità quello della Grecia era un caso molto speciale, dal quale si potevano trarre pochi insegnamenti, forse nessuno, per la politica economica nel suo complesso. E perfino in Grecia i deficit di bilancio erano soltanto una parte del problema. Ciò nondimeno, per qualche tempo il dibattito politico in tutto il mondo occidentale è stato completamente “ellenizzato”: tutti erano la Grecia. Tutti stavano come minimo per trasformarsi nella Grecia. E questa errata convinzione ha inferto enormi danni alle prospettive di una ripresa economica.

Quindi ora gli irascibili del deficit hanno un nuovo caso da fraintendere. Non conta che la prevista crisi fiscale statunitense abbia ripetutamente mancato di materializzarsi; che il brusco calo nei previsti livelli di indebitamento degli Stati Uniti e il modo col quale buona parte della ricerca che gli irascibili utilizzavano per legittimare i loro rimproveri abbiano perso completamente credito… continuiamo pure a ossessionarci per i budget municipali e gli obblighidi spesa per le pensioni statali! Oppure, anzi, lasciamo perdere.

Le sventure di Detroit sono la soglia oltre la quale inizia la crisi nazionale delle pensioni pubbliche? No. Le pensioni statali e locali indubbiamente sono sotto-finanziate, e gli esperti del Boston College stimano che la carenza complessiva di finanziamenti sia nell’ordine dei mille miliardi. Ma molti governi stanno prendendo vari provvedimenti per far fronte a quelle carenze. Questi sforzi, tuttavia, non sono ancora sufficienti. Le stime del Boston College indicano che quest’anno i contributi complessivi per le pensioni saranno inferiori di circa 25 miliardi di dollari rispetto a quello che dovrebbero essere. In un’economia da 16mila miliardi di dollari, tuttavia, questa cifra non è esorbitante, e anche se si facessero stime ancora più pessimistiche, come alcuni contabili – ma non tutti – dicono che si dovrebbe fare, continuerebbe a non essere una cifra abnorme.

Ma allora, Detroit è stata soltanto irresponsabile? Ancora una volta no. Detroit sembra aver avuto una governance particolarmente cattiva, ma in linea di massima la stragrande maggioranza della città è stata soltanto vittima innocente delle forze del mercato.

Come? Le forze di mercato fanno vittime? Naturale. Certo. Dopo tutto, i fanatici del libero mercato adorano citare Joseph Schumpeter quando parla dell’inevitabilità della “distruzione creativa”, ma sia loro sia l’opinione pubblica che dà loro retta immutabilmente si dipingono come distruttori creativi, non come creativamente distrutti. Beh, indovinate un po’! C’è sempre qualcuno che finisce coll’essere l’equivalente moderno di un produttore di frustini per calessi, e quel qualcuno potreste essere voi.

Talvolta i perdenti di un cambiamento economico sono individui le cui competenze diventano superflue. Talaltra sono aziende che servono nicchie di mercato che vengono a sparire. E qualche altra volta ancora sono città intere, che hanno perso il posto che occupavano nell’ecosistema economico. Il declino può accadere. Certo, nel caso di Detroit la questione pare essere stata notevolmente aggravata dall’inefficienza politica e sociale. Una delle conseguenze di questa inefficienza è stato il grave caso di irregolarità nello sviluppo dei posti di lavoro nell’area metropolitana, con alcuni posti di lavoro che abbandonavano il cuore urbano anche quando l’occupazione cresceva nella Detroit più ampiamente intesa, e anche quando altre città assistevano a una sorta di rinascita del centro città. Meno di un quarto dei posti di lavoro disponibili si trovano nell’area metropolitana di Detroit in un raggio di sedici chilometri dal tradizionale quartiere centrale degli affari. Nell’intera area di Pittsburgh, altro colosso industriale del passato i cui giorni di gloria sono ormai alle spalle, il numero corrispondente di posti di lavoro in centro è di oltre il 50 per cento. E la relativa vitalità del nucleo centrale di Pittsburgh può contribuire a spiegare perché l’ex capitale dell’acciaio stia dando segni di rinascita, mentre Detroit continua a sprofondare.

Di conseguenza, cerchiamo in tutti i modi di discutere seriamente di come le città possono gestire la transizione quando le loro tradizionali forme di vantaggio concorrenziale vengono meno. Cerchiamo anche di discutere con altrettanta serietà dei nostri obblighi, come nazione, nei confronti dei nostri concittadini che hanno avuto la sfortuna di trovarsi a vivere e a lavorare nel posto sbagliato nel momento sbagliato, perché, come ho già detto, il declino può accadere, e alcune economie regionali finiranno col contrarsi, forse anche drasticamente, a prescindere da quello che faremo.

La cosa più importante è non lasciare che questa discussione sia dirottata, come nel caso della Grecia. Ci sono molte persone influenti e autorevoli che vorrebbero farvi credere che il tracollo di Detroit è in primo luogo dovuto all’irresponsabilità fiscale e/o all’avidità dei dipendenti pubblici. Non è così. In grandissima parte, è soltanto una delle cose che accadono, ogni tanto, in un’economia in costante cambiamento.

Traduzione di Anna Bissanti © 2013, The New York Times

postilla

Val la pena subito richiamare come quella dell'inefficienza della gestione pubblica (pensioni, servizi ecc.) sia stata immediatamente la tesi dei commentatori della destra Repubblicana e dei liberisti a oltranza, ripresi del tutto acriticamente anche dal vicedirettore e corrispondente dagli Usa per il Corriere della Sera, Massimo Gaggi, che non ha fatto un bel servizio all'informazione presentando la bancarotta di Detroit secondo una prospettiva parziale e faziosa. Purtroppo questo contributo di Krugman è solo uno dei tanti che ha dedicato all'argomento, ma pur se solo accennati in coda i motivi della grave crisi urbana sono ribaditi: dispersione insediativa, frammentazione circoscrizionale (se ne ricordino gli entusiasti abolitori nostrani delle Province), e naturalmente il sistema fiscale, che applica in forma abbastanza estrema certe idee molto in voga anche da noi, delle “tasse che devono restare sul territorio”. In pratica è successo che lo sprawl suburbano ha portato fuori dai limiti amministrativi della città le famiglie e le imprese che pagano le tasse, lasciando invece abbondanza di vuoti urbani e poveracci nullatenenti. L'eventuale inefficienza pubblica al massimo peggiora la situazione, non la crea. Sbagliato anche lo slogan (usato in un titolo da Krugman e rilanciato anche qui da noi) secondo cui è “colpa dello sprawl”: no, a Houston per esempio non sarebbe successo, per via della circoscrizione amministrativa più ampia che consente sia di disperdersi, sia di continuare a versare le tasse nei medesimi forzieri. Insomma prima di spararle grosse bisognerebbe pensare, anche se non è tanto di moda (f.b.)

Il Lupi non perde né il pelo né il brutto vizio: servire i più arretrati interessi nelle trasformazioni del territorio, in un demente, istituzionalizzato, molecolare padroni a casa nostra. Chissà che faranno i suoi lupacchiotti sparsi a sinistra; se continueranno a tenegli bordone. L'Unità, 19 luglio 2013

Un fantasma si aggira silenzioso nel «decreto del fare», è il capitolo intitolato «rigenerazione urbana» ma promette, più che di rigenerare di scardinare ope legis il già abbastanza sgangherato sistema di regole che disciplinano la libertà di costruire tenendo conto del contesto, del paesaggio, delle esigenze di servizio pubblico, dai trasporti ai rifiuti, alle fogne. C’è stata battaglia, mercoledì fino a notte fonda e poi nel pomeriggio di ieri, fra i parlamentari del Pd della commissione ambiente (senza diritto di voto in commissione bilancio, dove il provvedimento era in discussione) e il ministro Maurizio Lupi. Ma il ministro delle Infrastrutture che ha anche, sebbene nessuno se ne fosse accorto, la delega all’urbanistica, ha giocato tutte le carte, dalla minaccia ai parlamentari romani di ritirare i fondi per la metropolitana C a quella di mandare tutto all’aria con le prevedibili drammatiche ripercussioni sulla tenuta del governo.

L’oggetto del contendere è la possibilità, prevista dal decreto, spiega il deputato Pd Roberto Morassut, «di demolire e ricostruire singoli edifici modificandone le sagome, i prospetti e le destinazioni d'uso attraverso la Scia». Una norma, aggiunge, che «al di là delle intenzioni, è un grimaldello spaccatutto», in tutte le città, compresi i delicati tessuti «dei centri storici e delle città d’arte». Un regalo ai costruttori che sin qui non era stato possibile fare, tanto che la famigerata legge urbanistica della Lombardia, ispirata al governatore Formigoni dall’attuale ministro Lupi, è stata bocciata dalla Corte costituzionale proprio perché violava le norme nazionali. Per capire cosa significhi questa radicale deregulation edilizia bisogna immaginare un vecchio palazzo dai soffitti alti: se lo demolisci e lo modifichi, riduci l’altezza fra un piano e l’altro e aumenti la superficie. Oppure, denuncia l’Inu, si portano in superficie i volumi interrati, le cantine, i garage degli anni Cinquanta e Sessanta, persino le gallerie minerarie e come per magia i locali tecnici si trasformano in superfici utili, in barba agli strumenti urbanistici dei comuni e delle regioni. Infatti il provvedimento non

piace all’Anci che, a Torino, ha chiesto di stralciare l’articolo 30 del decreto (il presidente dell’Anci è il sindaco di Torino Piero Fassino) perché così «non si controlla la politica urbana», dello stesso parere l’Anci di Firenze. Non solo, c’è stato il parere negativo del ministro dei Beni culturali, Massimo Bray. Ma nessuno è riuscito a fermare Maurizio Lupi. «Una pagina negativa, una conduzione arrogante che pone un problema politico generale al Pd», dice Roberto Morassut. Arroganza e mancanza di rispetto verso il lavoro parlamentare, la commissione Ambiente, infatti, ha presentato un emendamento con voto unanime, espressione di un compromesso volto a tutelare, almeno, le zone A, i centri storici delle città. Ma in commissione Bilancio l’emendamento è sparito, per quanto il parere positivo sul decreto del governo fosse condizionato proprio dall’accoglimento delle modifiche richieste.

Finora la norma prevedeva che non si può demolire se non si ricostruisce «come prima», proprio per tutelare i paesaggi urbani. Il bello è, spiega Giuseppe De Luca, urbanista e segretario dell’Inu, che lo strumento giuridico per costruire in modo diverso esiste e si chiama «sostituzione». Ma l’ente locale deve poter dire se si può, se è utile, o se si deturpa sul piano storico, artistico o visivo un determinato paesaggio. Invece, spiega Giuseppe De Luca, con questa legge avviene il contrario, saranno comuni e regioni, che fin qui stabilivano le regole, a doversi adeguare. Così, quella che doveva essere rigenerazione urbana, «con una visione d’insieme dei cambiamenti necessari soprattutto nelle aree degradate dice Morassut diventa una rigenerazione edificio per edificio».

E con effetti perversi sul piano dell’equità, spiega Giuseppe De Luca: «Io ho un palazzo con cantine e garage e lei, che abita nel palazzo vicino no. Io posso demolire e ricostruire aumentando i volumi, lei no». E il problema, aggiunge De Luca, non esiste solo nei centri storici: «Negli anni Settanta i villini liberty di Palermo furono sostituiti da palazzoni perché la legge non li proteggieva, non erano nelle Zone A». La protesta dell’Inu si esprime in un comunicato ufficiale, quello che sta accadendo «potrebbe essere un attentato alla storia edilizia dell'Italia, alle forme delle sue città e dei suoi paesi, alla sua cultura materiale e immateriale che tanto contraddistinguono il paesaggio urbano italiano ed in fin dei conti anche allo stesso paesaggio territoriale. Inoltre si metterebbe immediatamente in crisi la pianificazione urbanistica vigente con incalcolabili ricadute a catena nella gestione degli insediamenti».

Lo Stato continua il saccheggio del territorio privatizzando anche il patrimonio comune già pubblico: "valorizzazione" e svendita, i classici passaggi nell'Italia finalmente "pacificata "all'insegna del neoliberismo. Il manifesto, 31 maggio 2013

Secondo l'Agenzia del Demanio, che utilizza i dati del Censimento per l' Agricoltura 2010, l'estensione dei terreni agricoli demaniali in Italia ammonta ad oltre 338.000 ettari, per un valore che oscilla fra i 5 e i 6 miliardi di euro.
Un patrimonio importante che, grazie alla sua equa distribuzione geografica, consentirebbe la messa a punto di un progetto nazionale per una diversa agricoltura, per una conseguente salvaguardia e manutenzione idrogeologica del territorio e per il rilancio di nuova occupazione, in particolare giovanile, durevole e di qualità. Riflessioni che non sfiorano l'attuale Ministra dell'Agricoltura De Girolamo, che ha recentemente incontrato i vertici dell'Associazione bancaria italiana (Abi) e il presidente della Cassa Depositi e Prestiti, Franco Bassanini, per mettere a punto un programma di "valorizzazione" e (s)vendita dell'immenso patrimonio agricolo demaniale.
Replicando quanto sta già proponendo agli enti locali in merito alla svendita del patrimonio immobiliare, Cassa Depositi e Prestiti avrebbe la funzione di assegnare un prezzo ai terreni demaniali, di acquisirli consentendo allo Stato di fare cassa e di metterli successivamente sul mercato.

Incredibile l'obiettivo dichiarato dalla Ministra De Girolamo : «(..) un'occasione per sbloccare la situazione e mettere nuovi terreni a disposizione soprattutto dei giovani, perché senza terra da lavorare non è possibile pensare ad un vero rilancio del comparto». Altrettanto incredibile è che per questo ulteriore processo di colossale espropriazione di patrimonio pubblico si utilizzino le risorse del risparmio postale affidato dai cittadini alla Cassa Depositi e Prestiti.
Davvero si pensa che i giovani disoccupati (oltre il 35%) siano provvisti di capitale e non attendano altro, per trasformarsi in futuri agricoltori, che divenire proprietari dei terreni da coltivare?
Davvero si pensa che privare la collettività del bene terra, di inestimabile valore pubblico e sociale, corrisponda a «servizio di interesse economico generale», qualifica cui dovrebbe attenersi ogni investimento di Cassa Depositi e Prestiti (art. 10, D. M. Economia 6/10/1994)? Possibile che non si pensi ad un piano per un'agricoltura di qualità e per una nuova occupazione giovanile attraverso il mantenimento della proprietà collettiva del demanio agricolo, l'affidamento dei terreni ai giovani con affitti calmierati e l'intervento di Cassa Depositi e Prestiti per il sostegno dell'avvio di attività (start up di impresa) e dei primi investimenti in mezzi, tecnologie, impianti e sementi per consentire alle diverse nuove aziende un funzionamento a regime?

Ancora una volta l'obiettivo è quello di consegnare patrimonio pubblico alle banche e beni comuni alla speculazione finanziaria, con il paradosso di renderlo possibile attraverso l'utilizzo dei risparmi dei cittadini. La socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti e la sua gestione territoriale, democratica e partecipativa diventa un obiettivo sempre più urgente, che da oggi dovrà vedere coinvolte in prima fila tutte le esperienze e reti dell'altra economia, dei gruppi di acquisto solidale, dell'agricoltura autogestita e di qualità, del commercio equo e solidale.

Attac Italia

«Una raccapricciante illustrazione del funzionamento di una grandissima fabbrica, e della sua influenza sull’umanità di dentro e di fuori. La città di Taranto è la piccola appendice di un gigantesco monnezzaio». E' il capitalismo, baby anche se assistito. La Repubblica, 25 maggio 2013

TANTO piovve, che diluviò. In applicazione di una legge del 2001 che prevede «la confisca del profitto che l’ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente», la Gip Patrizia Todisco, accogliendo la richiesta della Procura di Taranto, ha deciso un sequestro senza precedenti: non degli impianti o dei prodotti, come già avvenuto, ma del patrimonio dei Riva, nella misura enorme di 8 miliardi e 100 milioni. Per intenderci, il doppio della restituzione dell’Imu… Qualunque decisione prenda il consiglio d’amministrazione convocato per stamattina, non c’era e non c’è un futuro per l’Ilva con la proprietà dei Riva. Il decreto “salva-Ilva”, in vigore da dicembre, prevedeva, in caso di inadempienza, fino al passaggio all’amministrazione straordinaria. Fumo negli occhi, allora, diventato ora reale e urgente, e passato da Clini e Passera a Orlando e Zanonato. Un’amministrazione straordinaria con una ridotta continuità produttiva e una effettiva bonifica costa. I miliardi sequestrati (ammesso che la Finanza li trovi tutti) non sono comunque disponibili, e il saldo dei materiali dissequestrati – circa 800 milioni – non basta. Se l’imminente piano europeo, cui lavora l’italiano Tajani, prevedesse uno speciale finanziamento bancario, non lo attuerebbe comunque, con lo spauracchio di un sequestro così enorme, senza un impegno

Intanto nelle 46 fitte pagine del decreto di sequestro si trova una raccapricciante illustrazione del funzionamento di una grandissima fabbrica, e della sua influenza sull’umanità di dentro e di fuori. La città di Taranto è la piccola appendice di un gigantesco monnezzaio. Il provvedimento tocca i responsabili delle misure di prevenzione degli “incidenti rilevanti” (che mettono a repentaglio immediato o futuro persone e ambiente dentro e fuori da uno stabilimento, coinvolgendo più sostanze pericolose), della sicurezza dei lavoratori, e della tutela di ambiente e popolazione. Sono Emilio Riva e i figli Nicola e Fabio, l’ex direttore Capogrosso, il dirigente Archinà (indagati anche per associazione a delinquere, tutti già agli arresti, salvo Fabio latitante a Londra), il presidente Ferrante, i dirigenti Andelmi, Cavallo, Di Maggio, De Felice, D’Alò, Buffo, Palmisano, Dimastromatteo.

Fra i reati loro imputati, commessi fra il 1995 e oggi, si cita l’omissione di un piano di emergenza nell’eventualità di un incidente rilevante: a un’obiezione su questo punto, responsabili dell’Ilva replicarono che il rischio di incidente rilevante equivaleva a zero, e questo avvenne alla vigilia del giorno del tornado! Si sottolinea come l’azienda abbia ignorato le disposizioni dei custodi nominati dal giudice. Si ricorda la morte di tre operai nel giro di pochi mesi. La lista è lunga: emissioni cospicue nell’area dei rottami ferrosi; sversamento delle scorie liquide di acciaieria sul terreno non pavimentato; rilascio di sostanze tossiche dovute allo “slopping” e al “sovradosaggio ossigeno” (è il fenomeno che provoca i fumi di colore rosso cupo, per gli ossidi di ferro non smaltiti nell’impianto di aspirazione); frequenti emergenze all’acciaieria, ai rottami e agli altoforni, per le emissioni vaste e prolungate convogliate (le “torce”, i camini coi bruciatori in testa) e diffuse (tetti degli altoforni); inadeguata manutenzione dei sistemi di recupero del gas in torcia ai convertitori; mancata comunicazione alle autorità delle gravi conseguenze degli incidenti; costante smaltimento di emissioni gassose equivalenti a rifiuti attraverso i sistemi di emergenza; scarico di rifiuti liquidi nel deposito fossili, immettendo inquinanti dal suolo non pavimentato alla falda superficiale e al mare; recupero di fanghi contaminati da diossine, furani e idrocarburi policiclici aromatici, o dei liquami derivati dalla pulizia dei nastri trasportatori, nel processo di sinterizzazione (la compattazione delle polveri); l’incredibile smaltimento di polvere di catrame e fanghi attivi, oltre che di loppa (il residuo della produzione di ghisa in altoforno) nei forni delle cokerie; miscelazione illegale di catrame con benzolo e naftalene, col doppio vantaggio di venderla e risparmiare le spese di smaltimento di rifiuti speciali; attuazione di vere discariche abusive di rifiuti pericolosi e di pneumatici su suoli non impermeabilizzati, nelle acque superficiali e sotterranee; scarichi di acque reflue industriali pericolose, oltre che nelle aree industriali, «in tutte le superfici esterne destinate a residenze e servizi, nelle strade, piste, rampe, piazzali» — cioè dovunque; e così via. Le cokerie, che già sono, con l’agglomerazione, il reparto siderurgico più nocivo, vengono abitualmente adibite a immondezzai di incinerimento di solfuri, scaglie di laminazione, fanghi di depurazione delle polveri di desolforazione (“anche da stabilimenti esterni”!). Il lessico non è fatto per essere padroneggiato dal lettore profano, ma non offusca la sostanza: praticamente tutta l’attività produttiva si svolge secondo l’accusa in modi dolosamente illegittimi. Ciascun addebito menziona le prescrizioni impartite dai custodi, e inattuate: ai parchi minerari, ai modi di bagnatura dei cumuli, alla chiusura nastri trasportatori — e agli effetti sugli abitanti del rione Tamburi. I Gestori (poi decaduti) Ferrante e Buffo, denunciando un “allarmismo” seminato da magistrati e custodi, imputavano a questi ultimi di aver causato effetti devastanti, riducendo gli sbarchi di materie prime: in realtà impedendo la speculazione sulle tariffe e dimezzando le giacenze dei parchi minerari, con un sensibile miglioramento dentro e fuori lo stabilimento.

«Tutto ciò ha procurato negli anni un indebito vantaggio economico all’Ilva, ai danni della popolazione e dell’ambiente». È questo indebito profitto che la magistratura decide di confiscare, escludendone però quello che serve alla prosecuzione della produzione. L’onere, calcolato sommando gli interventi necessari alle varie aree, ammonta a 8.100.000.000 di euro, cui andrà aggiunto il costo per bonifica di acqua e suolo ai parchi minerari, impossibile da stimare oggi.

L’alleanza fra Ilva e governo Monti credeva di aver segnato punti decisivi: lo scorporo dell’Ilva dall’Ilvafire e dalla cassaforte della famiglia Riva, la sentenza della Consulta sulla legge salva-Ilva. Intanto però la Cassazione, che già aveva dato seccamente ragione a procura e gip di Taranto sugli arresti per i Riva e i dirigenti, aveva confermato anche l’esclusione di Ferrante dal ruolo di custode giudiziario. Proprio attorno al lavoro dei custodi — tre ingegneri, Barbara Valenzano (39 anni, gestore delle aree a caldo), Manuela Laterza (26) e Claudio Lofrumento (39), e un commercialista, Mario Tagarelli — e della Guardia di Finanza e dei carabinieri del Noe, gira la prosecuzione dell’azione di procura e gip di Taranto. Per giunta, alla vigilia era stata la procura di Milano a sequestrare ai Riva un miliardo e cento milioni per frode fiscale e truffa allo Stato. A quello Stato che aveva deliberato su misura dei Riva una legge così controversa. L’affiancamento della procura (e della guardia di Finanza) di Milano metterà in imbarazzo quelli secondo cui a Taranto i magistrati sono strani e matti.

Intanto, l’Ilva ha consegnato all’operaio Stefano Delli Ponti, che ha contratto per due volte un carcinoma al collo, il primo versamento di ventimila euro, corrispettivo di novemila ore di lavoro devolute dai suoi compagni. La loro solidarietà per equivalente.

Saviano: «Scempio di cui è responsabile anche il Pd». La “pacificazione” e le “larghe intese” sono il collante della “città della rendita”. Guai a toccare i suoi eroi! La Repubblica, 23 maggio 2013

Dopo aver disertato l’apertura del dibattimento dieci giorni fa, aveva assicurato che avrebbe partecipato alle altre udienze e che si sarebbe difeso nel processo. Ma ieri, Filippo Penati è stato evocato in aula, senza successo, dal presidente del tribunale, poi dal suo avvocato che ha cercato di raggiungerlo al telefono, infine dal pm che — quando tutto era ormai deciso — ha sbottato verso il legale dell’ex presidente Pd della provincia di Milano: «Scusi, è sempre qui, ora è sempre fuori città? Poteva presentarsi anche l’altra volta...». Pochi minuti prima, il presidente del tribunale, Letizia Brambilla,aveva dichiarato la prescrizione per il politico, che è stato anche capo della segreteria di Pierluigi Bersani.

Evaporano così i tre capi d’imputazione sulle presunte tangenti per la riqualificazione delle aree Falck e Marelli di Sesto San Giovanni, dove Penati è stato sindaco dal 1994 al 2001, il filone più corposo dell’inchiesta dei pm di Monza, Franca Macchia e Walter Mapelli. «Una prescrizione “suo malgrado” — ha scritto Roberto Saviano su Facebook — Quella di Penati è una triste mistificazione». Prima di dichiarare la prescrizione, il giudice Brambilla ha chiesto al difensore di Penati, Matteo Calori, se Penati intendesse presentarsi in aula per dichiarare un’eventuale rinuncia. L’avvocato ha tentato di contattare, senza riuscirci, l’ex politico. «Penati non verrà, non posso dire altro sulla sua volontà» ha detto il legale. «Dobbiamo interpretarlo come una non rinuncia alla prescrizione? », ha chiesto ancora il giudice. «Non ho mandato per dire qualcosa su questo. Non posso assumere la responsabilità di una sua decisione», è stata la risposta di Calori.

Il tribunale non ha avuto scelta: Penati esce dal processo per le imputazioni più vecchie relative alle aree Falck e Marelli, mentre dovrà rispondere di quelle più recenti. Innanzitutto, le accuse relative alla compravendita del 15% della Milano-Serravalle, che la Provincia acquistò dai Gavio, garantendo al gruppo di Tortona una maxiplusvalenza di 179 milioni. Era il 2005, e poco dopo gli stessi Gavio parteciparono con 50 milioni alla scalata, poi fallita, di Unipol. Sotto inchiesta anche un’altra operazione con una società dei Gavio, Codelfa: l’appalto per la concessione dei lavori della terza corsi della A7. E ancora più recenti sono le ipotesi di finanziamenti illeciti incassati dalla fondazione di Penati, “Fare Metropoli”: contributi arrivati nel 2009 a banchieri come Massimo Ponzellini (ex Bpm) e imprenditori come Enrico Intini e Roberto De Santis,vicini al Pd pugliese. Ieri in udienza, imputato di corruzione, c’era anche Antonino Princiotta, l’ex segretario generale della provincia di Milano, difeso dall’avvocato Luca Giuliante. La sua posizione, insieme a quelle di Penati, confluirà a giugno nel procedimento principale, accanto agli imputati che non hanno optato per il rito immediato. Tra loro, Giordano Vimercati, capo di gabinetto di Penati; Bruno Binasco, manager dei Gavio; il grande accusatore del “Sistema Sesto”, Piero Di Caterina.

Oltre ad accusare duramente Penati, Roberto Saviano prende di mira anche il Pd. «Non solo ha dolosamente contribuito alla modifica della legge, nascosta nel “pacchetto anticorruzione”, che ha ridotto i termini per la prescrizione, consentendo questo scempio, ma oggi nessuna voce si alza a stigmatizzare questa falsificazione della realtà. Se voleva rinunciare alla prescrizione, Penati avrebbe potuto farlo subito salvando non solo la sua dignità, ma quella di un intero partito, oggi smarrita».

La coppia che esprime meglio il carattere bipartisan del governo Letta. Sarebbe bello se tutte le componenti della sinistra (dentro e fuori dal PD) lo comprendessero, e si comportassero in conseguenza. il manifesto, 7 maggio 2013, con postilla

Se è vero che la priorità programmatica del governo Letta è quella della creazione di nuovi posti di lavoro per i giovani, il ministero delle Infrastrutture è una delle chiavi fondamentali per tentare di riuscirci. Per tre motivi. Perché gestisce un pacchetto di finanziamenti consistente. Più di cento miliardi di euro finora destinati alle grandi opere spesso inutili, mentre al sistema delle città è stata assegnata la misera cifra di 2 miliardi. Il secondo motivo sta nella ricostruzione delle regole urbanistiche, unico modo per riportare legalità e trasparenza in un paese dove da venti anni ha trionfato la più oscura discrezionalità. Il terzo, il più importante, è quello di scongiurare la vendita del patrimonio immobiliare pubblico.
Il ministro è Maurizio Lupi, convinto sostenitore delle grandi opere. Egli è stato anche autore della famigerata legge che prese il suo nome. Nel precedente decennio quella proposta fu approvata dalla Camera dei Deputati e fu bloccata al Senato per un puro caso, altrimenti oggi l'Italia avrebbe abrogato addirittura il diritto di tutti i cittadini ad avere una quantità minima di servizi e verde, la storica conquista degli standard urbanistici del 1968. Mentre una sempre più ampia parte del paese discute della possibilità di ampliare il concetto di beni comuni, nel dicastero di Porta Pia siede un ministro che voleva abrogare uno dei pilastri della civiltà urbana italiana.
Ma evidentemente non bastava. Da Milano dobbiamo spostarci nel profondo sud e dal sistema Comunione e Liberazione dobbiamo passare al Pd. Il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, noto per la ferrea volontà di realizzare grandi opere tra le quali una mostruosa colata di cemento in atto sul lungomare occidentale della città, è stato nominato vice ministro.
Ecco, fresco di nomina, una dichiarazione di De Luca: «Cercheremo di portare a Roma le caratteristiche dell'esperienza fatta qui a Salerno, specialmente nella direzione della sburocratizzazione (...). A Salerno andrà avanti tutto il programma delle grandi opere, nella speranza che arrivino presto le risorse necessarie (...) perché a questo programma è legato il futuro economico della nostra città e, più, in generale dell'Italia».
È noto a tutti che la vera emergenza del paese è quella di ricostruire la pubblica amministrazione e arriva un viceministro che parla, come ai raduni di Pontida, di sburocratizzazione. Ancora non basta il disastro fin quì provocato? Non c'è poi persona normale che non sappia che la cultura delle grandi opere e della cancellazione delle regole hanno prodotto un solo risultato: che i comuni italiani sono sull'orlo del fallimento economico. Roma ha 15 miliardi di debito a causa del laissez faire urbanistico; Torino grazie alle grandi opere come le Olimpiadi invernali del 2006 ne ha 3; Parma grazie alla «sburocratizzazione» aveva creato oltre trenta società che hanno portato a 1 miliardo il deficit della città. E mentre cresce la richiesta di passare all'unica grande opera che serve, quella del rinnovo urbano, si guarda ancora al passato.
E veniamo alla terza leva, quella davvero fondamentale se si vuole salvare l'Italia. Grandi opere e deregulation non hanno portato soltanto al tracollo della finanza locale, ma anche prodotto un gigantesco arricchimento di pochi gruppi di proprietari e di immobiliaristi. Gli stessi che - insieme al sistema del credito fortemente esposto nei loro confronti: si pensi alla vicenda Ligresti - spingono oggi per acquistare a pochi soldi le proprietà pubbliche.
Siamo un paese in declino perché abbiamo i valori immobiliari più alti d'Europa: è questo il macigno che non permette l'apertura di nuove attività imprenditoriali, specie da parte di giovani che hanno competenze e voglia di fare ma non hanno i mezzi per accedere al mercato immobiliare privato. Il patrimonio immobiliare pubblico non deve dunque essere svenduto ai soliti noti: deve essere invece il volano che può rimettere in moto il paese. Per calmierare i prezzi immobiliari e salvare le città. E di fronte ai due dioscuri di Porta Pia, speriamo che siano le forze di opposizione presenti in Parlamento a scongiurare questo atto che affosserebbe definitivamente ogni ipotesi di futuro dell'Italia.
Postilla

Tutto sacrosanto. E purtroppo l'intesa bipartisan ha radici più profonde di quelle che appaiono oggi. vedi in proposito il documento conclusivo del governo Monti sulla questione urbana, cui abbiamo dedicato gran parte dell'eddytoriale 156. Una sola imprecisione: la Legge Lupi non «fu bloccata al Senato per un puro caso», ma perchè l'allora vicepresidente della commissione parlamentare, Sauro Turroni, riuscì a far udire alla commissione le voci critiche (a partire da quelle raccolte da eddyburg) che l'altro ramo del Parlamento aveva ignorato e che nella commissione senatoriale trovarono invece orecchie attente.

«La nomina di Lupi caratterizza il governo Letta in modo netto: chiude la strada a ogni ripensamento sulla politica delle grandi opere. L’ex assessore milanese è sempre stato schieratissimo in favore di ogni iniziativa che abbia un significativo contenuto di cemento. Il Fatto quotidiano online, 29 aprile 2013
Il superministero di Corrado Passera non c’è più. Forse per esigenze di spartizione, forse per presa d’atto dei fallimentari risultati del banchiere prestato alla politica, Enrico Letta torna all’antico, separando Sviluppo economico da Infrastrutture e trasporti. Sul primo spezzone chiama il sindaco di Padova, Flavio Zanonato, bersaniano per fede politica e anche per riconosciuto pragmatismo. Sul secondo lascia accomodare Maurizio Lupi, 53 anni, uomo di Cl, da sempre vicinissimo a Roberto Formigoni e alla Compagnia delle Opere.

La nomina di Lupi caratterizza il governo Letta in modo netto: chiude la strada a ogni ripensamento sulla politica delle grandi opere. L’ex assessore milanese è sempre stato schieratissimo in favore di ogni iniziativa che abbia un significativo contenuto di cemento. Il Tav prima di tutto, ma anche il ponte sullo Stretto di Messina, il Mose di Venezia, strade e autostrade e via elencando. I critici della nuova ferrovia alta velocità della Val di Susa sono considerati da Lupi «un’Italia del no che non si rassegna e continua a lavorare contro il bene del Paese”, come disse nel giugno del 2011 dichiarandosi solidale con le forze dell’ordine» impegnate in queste ore a fermare una guerriglia inutile e dannosa». Invece i critici del ponte sullo Stretto sono classificati dall’amico di Formigoni come «la sinistra dei no che bloccherà il Paese annullando tutti i passi avanti che abbiamo fatto in questi anni», come spiegò nel 2006 all’insediamento del governo Prodi.
Lupi sarà adesso impegnato in spettacolari derby con i suoi colleghi di governo. Al ministero dell’Ambiente il tecnico Corrado Clini lascia in eredità al giovane turco Pd Andrea Orlando le delibere già pronte della commissione Via (impatto ambientale) che dovrebbero mettere la pietra tombale sul Ponte. Riuscirà Lupi a far riaprire la pratica in nome del sogno berlusconiano di indebitarci per generazioni per unire (ammesso che il progetto regga) Scilla e Cariddi?
Ancora più interessante è il derby che si profila con Zanonato. Il sindaco di Padova, 62 anni, è quello che si dice un vecchio comunista. La sera del 7 giugno 1984 era, giovane segretario provinciale del partito, a fianco di Enrico Berlinguer in piazza delle Erbe, quando il leader del Pci al termine del comizio fu colpito dal malore che gli risultò fatale. La sua carriera politica è legata quasi completamente alla città, salvo una parentesi a Roma, come responsabile dell’immigrazione, nei Ds guidati da Piero Fassino. È sindaco dal 2004, ma lo è già stato dal 1993 al 1999. Zanonato è uno degli uomini forti dell’Anci, l’associazione dei Comuni, che entra al governo anche con il uo presidente, il sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio. E negli ultimi mesi il pragmatismo bersaniano di Zanonato si è ben sposato con la battaglia degli enti locali contro il miope rigorismo del governo Monti. Due le rivendicazioni principali: lasciare ai Comuni il gettito Imu, del tutto o in parte, e allentare il patto di stabilità interno per consentire almeno a chi può di fare qualche investimento che faccia girare l’economia locale. Zanonato ha fatto la campagna elettorale sulla linea di Bersani: basta con le grandi opere inutili e costose, sono le piccole manutenzioni urbani che fanno girare l’economia e creano posti di lavoro. Mentre il ministero unico di Corrado Passera è stato del tutto consacrato a buttare altri miliardi nelle grandi opere (Torino-Lione e Terzo valico soprattutto), con i due ministeri distinti sarà subito duello tra il ciellino e il bersaniano su come usare le poche risorse disponibili: per far ripartire l’economia o per accontentare grandi imprese di costruzioni? Arbitreranno l’incontro Enrico Letta e, naturalmente, Giorgio Napolitano.

«Prevale insomma l’idea berlusconiana che ognuno sia “padrone in casa propria”: gli industriali di inquinare, i coltivatori di usare concimi avvelenati, i Comuni di chiudere un occhio, anzi due». La Repubblica, 23 aprile 2013

La retorica dei grattacieli, in ritardo di un secolo rispetto ai suoi modelli americani, comporta profonde escavazioni, che spesso mettono in comunicazione due o più falde acquifere, favorendo la subsidenza e la contaminazione delle acque e dei suoli (ancor più grave dove insistono discariche miste, con forti presenze di sostanze organiche). 

Rifiuti industriali liquidi e semiliquidi, spesso scaricati nel terreno per risparmiare sui costi, si infiltrano in terreni già compromessi, e i veleni si spargono per ogni dove, raggiungono le acque e le radici degli alberi, alterano il nostro cibo. I controlli pubblici, pur segmentati e diseguali, dovrebbero crescere di fronte a tanto disastro, e invece sono in ritirata, perché il vangelo è risparmiare a ogni costo, anche a costo della vita dei cittadini. La riduzione delle risorse pubbliche è un aspetto di quello smontaggio dello Stato che i governi della legislatura appena chiusa (compreso il governo “tecnico”) hanno perseguito senza rimorsi, etichettandolo cinicamente come “riforme” (un bel libro di Ugo Mattei, Contro riforme [Einaudi] ne propone un’analisi serrata). Come nel caso di Taranto, si è imposta alla politica una regola non scritta, ma improntata alla massima illegalità: che, cioè, quando siano in ballo interessi economici, la protezione della salute passa in secondo piano. E se un magistrato osa aprire un’inchiesta su costruttori senza scrupoli o su industrie che inquinano, c’è subito chi lo accusa di lesa maestà e invoca le borse, i mercati, l’Europa e quant’altro pur di scodinzolare senza pudore all’indirizzo dei padroni del vapore.

La risposta a tanto disastro dovrebbe essere in primo luogo il rilancio dell’agricoltura, che è la miglior possibile tutela dei suoli: ma nemmeno questo rimedio è più garantito, visto che l’industrializzazione delle coltivazioni intensivizza l’uso dei suoli usando pesantemente fertilizzanti chimici senza prevedere il loro impatto sul regime idrogeologico. La segmentazione delle competenze amministrative e l’insistenza sulla piena autonomia di ciascun Comune nella pianificazione del proprio territorio impedisce una visione “dall’alto” dei problemi, e dunque anche una qualsiasi soluzione. I confini amministrativi fra Comuni (ma anche fra Regioni) sono del tutto arbitrari, e non coincidono mai con la distribuzione naturale delle risorse ambientali, meno che mai con la mappa dei problemi, delle violazioni, dei pericoli.

Dal ministero dell’Agricoltura è venuta almeno una proposta di legge sui suoli agricoli con molti aspetti positivi, ma travolta dalla fine legislatura; mentre il ministero dell’Ambiente troppo spesso si adagia in una passiva trincea di mera osservazione.

Prevale insomma l’idea berlusconiana che ognuno sia “padrone in casa propria”: gli industriali di inquinare, i coltivatori di usare concimi avvelenati, i Comuni di chiudere un occhio, anzi due. Il più prezioso dei nostri beni comuni, il suolo in cui viviamo, anziché esser gestito a beneficio della comunità dei cittadini, viene segmentato in funzione dell’esercizio del potere locale, della distribuzione di favori e benefici, del voto di scambio, dell’esazione di gabelle. Sparisce lentamente dall’orizzonte dei cittadini, dalla nostra etica quotidiana, perfino dai nostri sogni e speranze, ogni traccia di senso civico, ogni rispetto del bene comune.

Ma è al bene comune che la Costituzione è orientata, dalla prima parola all’ultima. Essa subordina la proprietà privata e la libertà d’impresa all’utilità sociale (artt. 41-42), «tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art. 32), pone sicurezza e dignità in cima alla lista dei diritti, e non in fondo. Fra le “larghe intese” che a quel che pare ci attendono, quali sono le priorità? La salute dei cittadini o la loro condanna? Il
rispetto della Costituzione o il suo stravolgimento?

La necessità del potere locale per uscire dalla crisi, il suo svuotamento, la delusione dei sindaci "nuovi" e la speranza di «iuna mobilitazione contro questi meccanismi infernali di produzione della miseria in un paese che potrebbe essere prospero». Il manifesto, 20 aprile 2013

Oggi, se non si mette al centro di ogni ragionamento, discorso o iniziativa l'ampiezza, la profondità e la gravità della crisi che stiamo attraversando in Italia, in Europa e nel mondo, si rischia di essere assimilati alla «casta», al mondo della politica così come ormai viene percepita dalla grande maggioranza della popolazione: un mondo che si occupa solo di se stesso e non delle sofferenze dei governati. E' un rischio che comincia a erodere il consenso del movimento 5 stelle, che peraltro sembra culturalmente poco attrezzato per affrontare il tema in modo radicale.Occupazione, redditi da lavoro diretti o differiti (pensioni e ammortizzatori sociali), welfare state, scuola, università ma anche buona parte dell'apparato produttivo e delle strutture amministrative del paese hanno raggiunto un punto di non ritorno. Ma nessuno arriva ad ammettere che ormai non c'è ripresa che possa far tornare le cose «come erano prima».

L'esempio più calzante di questa irreversibilità lo si vede in ciò: in Italia la disoccupazione giovanile è al 40 per cento, in Grecia e in Spagna al 50; ma è eccezionalmente elevata quasi ovunque, senza contare la diffusione del precariato. È un segno evidente che l'assetto che il sistema economico ha assunto e consolidato nell'ultimo trentennio non è più in grado di offrire una prospettiva alle nuove generazioni. Questi giovani tra qualche anno saranno degli adulti, e in parte già lo sono; ma non per questo troveranno di meglio. È un'intera prospettiva di vita - casa, famiglia, figli; ma anche occasioni per far valere e riconoscere le proprie capacità - che si dissolve; e già ora essi sanno che li attendono una vita e una vecchiaia di miseria senza lavoro, senza pensione e senza reddito. Ma è anche un intero sistema produttivo che «si svuota» di capacità, di saperi, di saperfare; e che emargina così una quota crescente e tendenzialmente maggioritaria della popolazione dal perimetro stesso di una «Repubblica fondata sul lavoro».

Un'infinita elaborazione del lutto

Cogliere la dimensione soggettiva di questo disastro - la rabbia, lo scoramento, la depressione, o i cedimenti al ricatto o al cinismo; ma anche e soprattutto la percezione che ci vuole un cambiamento radicale, che niente o quasi del vecchio mondo è degno di sopravvivere - comporta per tutti coloro che ne condividono le ragioni un complesso lavoro di elaborazione: non solo teorico e «strategico», ma innanzitutto pratico ed emotivo. Una «elaborazione del lutto» imposta dallo stato di cose presente che sia capace di mettere in gioco anche molte delle abitudini, degli atteggiamenti e soprattutto delle autorappresentazioni personali di ciascuno. Da un lato, dunque, abbiamo rabbia, frustrazione, senso di impotenza, ma anche spirito di rivolta di una popolazione sottoposta a una «macelleria sociale» continua e sistematica.

Dall'altro un potere ormai globale della finanza che fa sentire e percepire impotenti ogni giorno di più non solo lavoratrici e lavoratori occupati e disoccupati e cittadine e cittadini esclusi da ogni possibilità di incidere sulle scelte di chi decide; ma anche Stati, governi, imprese (o gran parte di esse), partiti e amministrazioni locali: tutti incatenati alla macina del debito, dei patti di stabilità, dei tassi di interesse, degli spread. Per restituire efficacia e concretezza a un agire condiviso occorre dunque cogliere il punto in cui la vita quotidiana e i sentimenti di rigetto e di rivolta della maggioranza delle persone ferite da questo regime si confrontano e si scontrano con i poteri imperscrutabili della finanza. Al centro di questo immane squilibrio tra poteri globali ed esperienza quotidiana si ritrovano soprattutto i territori e i loro governi locali, perché uno degli oggetti principali delle politiche di austerità, oltre all'erosione del potere contrattuale e del reddito delle classi lavoratrici - e a maggior ragione di quelle escluse è l'appropriazione e la privatizzazione dei beni comuni. In particolare dei servizi pubblici locali. Che sono però, potenzialmente, il perno di quella riconversione ecologica delle imprese e dei loro mercati che il capitale finanziario non avvierà mai; ma che rappresenta l'unica possibilità di salvaguardare insieme ambiente, occupazione, redditi, consumi sostenibili ed equità; ma anche il tessuto produttivo ( know-how , professionalità, esperienza e gran parte degli impianti e delle attrezzature) che le politiche economiche e le scelte gestionali attuali stanno condannando a una rapida dissoluzione.

Lo svuotamento del governo locale

L'effetto principale delle politiche di austerità imposte in Italia con il patto di stabilità interno è lo svuotamento totale dei governi locali. Un Comune è tale - cioè «comune» - se fornisce ai cittadini i servizi di cui la vita associata ha bisogno: energia, acqua, gestione dei rifiuti, strade e mobilità, ristorazione collettiva (ma anche facilitazioni per gli approvvigionamenti individuali), case a prezzi accessibili, nidi e scuole materne, edifici scolastici che non crollino, assistenza agli anziani, spazi di socialità, integrazioni del reddito e così via. Un Comune che non è più in grado di fare non dico tutte, ma nessuna di queste cose non serve a niente; e questa inutilità si traduce in una «politica» che provvede solo più a perpetuarsi in modo parassitario. Ma la politica locale è il vivaio di quella nazionale, quindi.

I sindaci di Nottingham

Tuttavia nella fase attuale la centralità dei livelli locali di governo dipende anche da altri fattori. Innanzitutto il Comune, in quanto livello dell'amministrazione pubblica più a diretto contatto con la cittadinanza, diventa il bersaglio della rivolta e del rancore di chi viene escluso dai servizi e dalle politiche di promozione o di sostegno all'occupazione di cui dovrebbe farsi parte attiva. Invece oggi il Comune riscuote persino delle tasse inique per conto del Governo, come lo sceriffo di Nottingham, senza riceverne adeguati ristorni. Così fa da scudo al Governo nazionale, alla Bce e all'Ue - e sostanzialmente all'alta finanza - troppo lontani per essere anche solo contestati in forme appropriate.

Per esempio, la rivolta dei commercianti di Napoli contro la Ztl (l'intervento della camorra va da sé) è il prodotto di un Comune che non riesce nemmeno più a pagare la benzina del trasporto pubblico. Ma la Ztl non è altro che la sostituzione di un servizio pubblico efficiente alla mobilità individuale. Se il primo non c'è, la Ztl non ha alcun senso. Eppure è solo a livello comunale - per ora - che si possono sperimentare nuove forme di governo partecipato, sia dei servizi pubblici che del bilancio municipale; ed è da lì che si può organizzare una mobilitazione vincente contro i vincoli finanziari - patto di stabilità, fiscal compact , pareggio di bilancio, two packs - da cui discendono le politiche che privano sindaci dei loro poteri e che, attraverso di essi, espropriano lavoratrici, lavoratori e cittadinanza dei loro diritti e della loro dignità.

In secondo luogo il governo locale del territorio, e in particolare la gestione dei servizi pubblici, sono il perno fondamentale della riconversione ecologica, cioè dell'avvio di un diverso meccanismo economico che faccia dei servizi locali il punto di raccordo tra la promozione di nuovi modelli di consumo ecocompatibili, fondati sulla condivisione e la partecipazione - nel campo dell'energia, della mobilità, della gestione dei rifiuti, della ristorazione, e quindi anche dell'agricoltura, dell'edilizia popolare, della salvaguardia dei suoli e degli assetti idrogeologici - e la riconversione delle aziende senza più mercato alla produzione dei materiali, degli impianti, dei beni e dei servizi necessari a questa transizione.

Infine soltanto i Comuni - o Consorzi di Comuni - potrebbero assumersi la responsabilità politica ed economica, ma soprattutto la titolarità giuridica, nel rilevare la gestione delle imprese in crisi, di quelle che chiudono, di quelle dove il management abbandona (magari portando all'estero macchinari, know-how , brevetti e controllo dei mercati). I sindaci sono tutti molto riluttanti a farlo e molti non ci pensano proprio; e non solo perché non hanno risorse né poteri sufficienti in materia. Ma un maggiore ricorso agli istituti dell'esproprio e della requisizione va messo all'ordine del giorno; e un primo passo è una battaglia politico-culturale per imporglielo.

Bisogno di futuro

Certo in questo approccio c'è qualcosa che non funziona: la maggioranza dei sindaci e delle amministrazioni dei Comuni sono membri a pieno titolo del sistema partitico, se non della «casta». Anche i nuovi sindaci del 2011-12 - staremo a vedere quelli del 2013 - sono rimasti impigliati in qualche progetto faraonico e inutile, nei debiti pregressi e nel patto di stabilità che li espropria dei loro poteri; e si sono adeguati. E tuttavia sono i sindaci vecchi e nuovi che devono mettersi alla testa di una mobilitazione contro questi meccanismi infernali di produzione della miseria in un paese che potrebbe essere prospero; oppure devono venir costretti dalla mobilitazione popolare ad assumerne la rappresentanza adottandone le rivendicazioni. Promuovere e sostenere una battaglia come questa, lavorando al coordinamento di tutte le forze che in Italia e in Europa la condividono, significa praticare un obiettivo di carattere generale a partire dall'agire locale, quello più immediatamente accessibile a tutti.

Questo obiettivo generale è la costruzione di un'Europa diversa a partire dalla revisione radicale delle regole finanziarie che la governano e dal congelamento selettivo di un debito pubblico che è insostenibile per tutti: sia ora che nei decenni a venire. In una recente assemblea è stata citata una scritta su un muro che dice: «Basta fatti, vogliamo promesse!». In questo paradosso di sapore surrealista (o situazionista) possiamo riconoscere il sacrosanto bisogno di non soccombere di fronte alle miserie dello stato di cose presente grazie a uno sguardo «lungo», capace di restituire ruolo e peso alla dimensione utopica del nostro agire.

Una volta era un modello di buon governo del territorio. Ora il F-VG sta diventando il peggio del peggio. Non sarà mica tutta colpa di Tondo? Una documentata denuncia nel comunicato stampa di Legambiente del Friuli Venezia Giulia, 15 aprile 2013

Si chiede la riduzione del Sito di interesse comunitario “Pineta di Lignano” per far posto a 830mila metri cubi di cemento. Questa edilizia non crea crescita e non rinnova la proposta turistica.

A Lignano sopravvive ancora qualcosa del particolare ambiente naturale delle dune costiere con le loro vegetazioni endemiche, tanto da aver condotto al riconoscimento di un Sito di interesse comunitario, che fa parte delle Rete europea di Natura 2000 che raccoglie e tutela tutte le migliori caratteristiche ambientali, faunistiche e territoriali europee. A Riviera resistono ancora prati di stipa veneta, specie in via di estinzione ed endemica nella costa friulano-veneta. Proprio attorno e dentro quest’area si sta progettando una nuova espansione edilizia fino alla riva del Tagliamento, su una superficie di circa 200 ettari per un totale di 830mila metri cubi di nuovo edificato!

Attorno alla proposta di realizzare un nuovo percorso da 18 buche su 40 ettari, si pensa in realtà, come accade già altrove in Friuli, a nuove case per 80mila mc, residenze terra-mare per altri 80mila; un centro termale per 7mila, alberghi per 57mila mc e attività commerciali per 11mila mc. Ed inoltre si progetta una darsena di 35mila mq da collegare al canale di Bevazzana e un nuovo bacino d’acqua di 45mila mq a sua volta collegato con la darsena, perché altrimenti non si possono costruire le residenze terra-mare, che fanno più chic di una casa normale.

Ci sono poi, in altra area, gli “interventi trasformativi” del Sito di interesse comunitario “Pineta di Lignano”, dove si intende “realizzare un parco naturale di 81 ettari, riqualificando l’area SIC”. Peccato che se ne preveda anche la riduzione di superficie e lo si voglia circondare con altri 175mila mc di residenze, 175mila mc di altre residenze terra-mare, 25mila mc di attività commerciali, 15mila mc per un altro centro termale, 55mila mc di alberghi e 125mila mc di residenze turistiche alberghiere, probabilmente con alcune torri di 20 piani ciascuna. Anche qui è indispensabile un ulteriore bacino di circa 35 ettari e, infine, si prevede una nuova viabilità, non quantificata in chilometri, per nuovi collegamenti con la viabilità esistente e con 9 rotatorie ed un bel ponte di 30 metri sopra la darsena, comprensivo questo di una bella pista ciclabile protetta.

Chi lo presenta, un pool di sei società, descrive il progetto come “un programma che sarà in grado di contribuire al rilancio del sistema turistico non solo comunale attraverso la messa a sistema delle risorse naturali, ambientali ed infrastrutturali presenti in un’area strategica della fascia litoranea dell’alto Adriatico”, per il quale, quindi, sarà necessario anche qualche investimento pubblico, per quanto ancora da definire.

A gente semplice come noi di Legambiente sembra, invece, una presa in giro. Non solo perché strumentalizza l’esistenza degli ultimi brandelli di naturalità e biodiversità ancora rintracciabili a Lignano, prevedendo pure di ridurli ulteriormente. Anche perché è l’ennesima speculazione edilizia inutile che arricchirebbe solo chi costruisce senza migliorare l’offerta turistica complessiva dell’area, non aggiungendo nulla di nuovo, di moderno, di caratteristico e di competitivo. A Rimini, ad esempio, in realtà simili risulta che l’attuale Sindaco abbia impostato la propria attività con l’obiettivo della crescita zero in campo edilizio.

L’ampliamento della stagione turistica sulla costa regionale e la ricerca e creazione di un nuovo target turistico può essere ottenuto con investimenti molto minori, e senza nessun nuovo metro cubo di cemento, con una semplice gestione coordinata, pochi miglioramenti strutturali e una forte adeguata promozione della rete di riserve ambientali lagunari e delle loro risorse ambientali uniche, a cui agganciare le risorse di ospitalità e di offerta culturale, archeologica ed enogastronomica del territorio. Per ora risulta che questo progetto sia fermo nei cassetti del Comune e che non ci siano gli entusiasmi che i proponenti probabilmente si aspettavano.

Questo potrebbe essere un segnale di cambio di marcia per tutto l’arco costiero regionale, viste le altrettanto imponenti cascate di cemento che si annunciano a Grado con il quasi raddoppio della capacità abitativa, e che si comincia a pensare che il futuro non possa essere il semplice proseguimento del recente passato, ma debba essere animato da idee e proposte nuove. E che l’attività edilizia sia orientata, piuttosto che a nuovi progetti di ulteriore ampliamento edilizio dei due poli turistici marini, al recupero ed alla riqualificazione dell’ampio patrimonio esistente.

Si spera in qualche segnale concreto, dai Comuni e dalla Regione, per l’approvazione dei Piani di gestione dei Sic, primo di tutti quello della Laguna, e per la gestione e promozione delle riserve regionali esistenti. Progetti semplici ma nuovi ed utili, che potrebbero usufruire, a Lignano, di percentuali del 75% di contributo comunitario se si avviasse un progetto LIFE per il ripristino naturalistico dell’area, visto che quel Sic è l’unico in regione ad ospitare una specie prioritaria su un habitat, le dune grigie, a sua volta prioritario. Ci potrebbero essere, visti i precedenti in regione, ben oltre un milione di euro di disponibilità.

Il veneziano Ponte di Calatrava non è l’unico caso di opera inutile per i cittadini e costosa per i contribuenti. Lo dimostra la Corte dei Conti, nella relazione annuale, il cui testo integrale potete scaricare in calce. La Nuova Venezia, 11 febbraio 2013
L’Italia delle truffe o dei soldi buttati via: dal ponte di Venezia scivoloso, alle barche senza pilota, ai palazzi mai utilizzati

Oltre all’Italia delle tangenti e dei condoni, c’è anche quella degli sprechi pubblici, dei furbi con relativi complici. La Corte dei Conti ha messo in fila una serie impressionante - in qualche caso incredibile - di frodi e scialo di denaro pubblico. Un elenco che va dal ponte di Venezia scivoloso al ladro di merendine in una materna, dal parcheggio sotto sequestro perché realizzato in area vincolata alle mazzette nelle camere mortuarie degli ospedali milanesi.

L’Italia degli sprechi e delle frodi è stata fotografata in un dossier preparato dalla procura generale della Corte dei conti, quantificando il danno all’erario in poco più di 293 milioni di euro. Oltre ai casi classici di malasanità, corruzione, consulenze fasulle ci sono le spericolate operazioni con i derivati e persino omissione nella riscossione dei tributi. I casi sono numerosi e riguardano tutta l’Italia. A Venezia, per cominciare col primo esempio, il ponte della Costituzione, realizzato dall’archistar Santiago Calatrava è scivoloso e causa cadute e ruzzoloni al punto che il danno erariale è di 3 milioni e mezzo di euro grazie ai «comportamenti colpevoli del progettista e del direttore dei lavori».

La citazione per un danno di circa 43 milioni ha riguardato invece la gestione del contratto per la bonifica e lo stoccaggio dei rifiuti nel litorale Domizio Flegreo e nell’Agro Aversano. In Abruzzo i faldoni più cospicui riguardano i contributi per i lavori avviati dopo il terremoto del 2009. Ma le vertenze in corso d’istruttoria sono state avviate anche per la «mancata riscossione di contravvenzioni al codice della strada da parte di diversi Comuni « grazie ad «amicizie tra multati e funzionari pubblici». In Sicilia la Regione è sotto inchiesta per presunti illeciti nella nomina dei consulenti, per danni riguardanti il patrimonio immobiliare: sarebbero state assunte delle persone per determinati incarichi senza avere i necessari requisiti professionali.

La Regione Sardegna ha invece acquistato un certo numero di barche che sono rimaste ormeggiate per la mancanza di personale adeguato. Sempre in Sardegna, un funzionario di un Comune affidava lavori ad un’impresa chiedendo in cambio opere per la propria abitazione. C’è il caso del Museo di Trieste: un contributo di 600 mila euro dalla Regione Friuli venezia Giulia è stato erogato a una «nota Fondazione di fotografie antiche» ma non è mai stato realizzato. Danno consistente di 6 milioni di euro è invece stato causato in Molise: la società mista della Regione era irregolare ed è dunque saltato il collegamento Termoli-Croazia. L’ufficio Inail distaccato a Casalecchio di Reno deve rispondere di un danno erariale di 3,3 milioni a causa dell’acquisto, sovrastimato e sovradimensionato, di un palazzo mai utilizzato. Ombre si allungano sul Grinzane Cavour che avrebbe sottratto illecitamente fondi della Regione Piemonte. Emerge anche il caso del G8 di Genova: la Corte dei Conti del Lazio sta indagando per accertare «l’ipotesi di possibile danno erariale subita dall’amministrazione per gli Interni». A Firenze infine premi a pioggia ad addetti comunali per 50 milioni. Per errore.

Nota

A proposito del Ponte di Calatrava (o "ponte di debole costituzione" come è ironicamente titolato il libretto di Elena Vanzan per la collana "occhi aperti su Venezia") vedi su eddyburg numerosi articoli nella cartella Vivere a Venezia.. Per connessione di materia vedi anche gli articoli su Benettown, digitando la parola sull'apposita finestrella di ricerca in cima alla pagina. Il testo integrale del documento della Corte dei Conti è scaricabile qui

Che i programmi elettorali si siano dimenticati anche dell'urbanistica se ne sono dimenticati anche i giornalisti più attenti. Corriere della sera, 2 febbraio 2013



Non sono solo l'antica Sibari coperta dalle acque del Crati esondato e la «Pompei preistorica» di Nola allagata da una falda perché la pompa è rotta da anni: è tutto il patrimonio storico, monumentale, artistico a essere sommerso. Dalla verbosità di una campagna elettorale che parla d'altro.

Nell'ultimo mese, dice l'archivio Ansa, Mario Monti si è guadagnato 2.195 titoli dei quali due abbinati alla cultura, Berlusconi 1.363 (cultura: zero), Bersani 852 (cultura: uno), Grillo 323 (cultura: zero), Ingroia 477 (cultura: zero), Giannino 74 (cultura: zero). Vale a dire che in totale i sei leader in corsa hanno avuto 5.284 titoli di cui solo 3 (tre!) che in qualche modo facevano riferimento alla cosa per la quale l'Italia è conosciuta e amata nel mondo.

Per carità, può darsi che anche i giornalisti si eccitino di più a dettare notizie sugli insulti e le scazzottate. Può darsi. Ma la stessa verifica sui leader principali estesa all'ultimo anno dice che su 5.803 notizie titolate su Berlusconi quella in cui il Cavaliere parla di «beni culturali» è una, quando ospitò a villa Gernetto il Fai (Fondo Ambiente Italiano). E lo stesso si può dire di Bersani (5.562 notizie, due sul tema citato) o di Monti: 13.718 lanci, nei quali una volta si disse dispiaciuto di non poter «sostenere maggiormente le iniziative» dello stesso Fai, una seconda promise il rilancio di Pompei e una terza, alla fiera del Levante, discettò che «il binomio turismo-beni culturali è ovviamente un binomio vincente». Ovviamente...

Una manciata di accenni su quasi venticinquemila notizie titolate su di loro. Tutta colpa dei cronisti? Ma dai! I programmi presentati per il voto del 24 febbraio, del resto, confermano: la cultura è per (quasi) tutti un tema secondario.

Certo, nella sua Agenda, Mario Monti (il primo a dar ragione a Ernesto Galli della Loggia e Roberto Esposito sul ministero della Cultura) dedica un capitoletto all'«Italia della bellezza, dell'arte e del turismo», dove vengono dette cose di buon senso come quella che per noi è «una scelta strategica "naturale" puntare sulla cultura, integrando arte e paesaggio, turismo e ambiente, agricoltura e artigianato, all'insegna della sostenibilità e della valorizzazione delle nostre eccellenze». È difficile però dimenticare come il decreto Cresci Italia montiano, in 188 pagine, non facesse cenno alla Cultura. Della serie: fatti, please.



E il Partito Democratico? Tra i dieci capitoli del programma su www.partitodemocratico.it (Europa, democrazia, lavoro, uguaglianza, libertà, sapere, sviluppo sostenibile, diritti, beni comuni, responsabilità) i beni culturali non ci sono. Anzi, non c'è un solo accenno manco sparpagliato qua o là ai musei, alle città d'arte, ai siti archeologici, alle gallerie, alle biblioteche... Niente. Che siano sotto la voce «Sapere»? No, lì si parla di istruzione, ricerca, formazione... Tutti temi fon-da-men-ta-li, sia chiaro: ma le proposte sul patrimonio culturale dove sono? Pier Ferdinando Casini si allinea. Ha qualcosa da dire sulla famiglia e la vita, la scuola e il lavoro, le imprese e la casa, la salute e la sicurezza, il federalismo e l'immigrazione... E la cultura? No. Assente.

La parola cultura è quasi assente anche nel decalogo degli «Io ci sto» della «Rivoluzione civile» di Antonio Ingroia. Movimento impegnato, legalità e solidarietà, laicità e sanità, università e antimafia e un mucchio di altre cose ma sul nostro tema assai stitico: «Vogliamo che la cultura sia il motore della rinascita del Paese». Fine. Che ci sia qualcosa nel programma dell'Idv? Mai la parola cultura, mai beni culturali, mai patrimonio culturale...


E nel programma de «La Destra» di Storace? «Lo stiamo scrivendo...», spiegano. Per ora, a tre settimane dalle elezioni, c'è solo il «Manuale della sovranità» dove si parla di tutto, dal ritorno alla lira alla lotta alla corruzione, dalla giustizia all'immigrazione, tranne che di queste cose. La Lega Nord? Unica proposta, abolire le Soprintendenze per «attribuire alle Regioni ogni potestà decisionale in materia di beni culturali, trasferendo le competenze ai territori». Nessuna meraviglia: su 16.064 notizie Ansa in cui lui è nel titolo a partire dal 1992, Maroni si è occupato del tema pochissime volte, di cui una per Varese e un paio per invocare la stessa cosa di oggi. Per dire: abbinando Bobo alle parole calcio e Milan di notizie ne escono 110.



Anche il «Movimento 5 Stelle» è interessato ad altro. Nulla nei capitoli principali (Stato e cittadini, energia, economia, informazione, trasporti, salute, istruzione) nulla sparso qua e là. Propongono di tutto, i grillini. Dall'abolizione dei rimborsi elettorali alla «incentivazione della produzione di biogas dalla fermentazione anaerobica dei rifiuti organici», dallo studio dell'inglese alle materne fino ai ticket sanitari proporzionati al reddito. Decine e decine di proposte. Ma non un cenno, nel programma online, ai beni culturali, al patrimonio artistico, ai musei, ai siti archeologici...



Nichi Vendola e Giorgia Meloni: sono loro a formare la coppia più inaspettata. Loro quelli che, nel programma di Sel e di Fratelli d'Italia, dedicano più spazio alla necessità di puntare sulla cultura per uscire dalla crisi. Loro a ribadire con più convinzione che non solo devono essere coinvolti i privati ma che lo Stato deve investire di più, puntare sulle intelligenze, la creatività, i giovani.


E il Pdl di quel Berlusconi che in uno spot diceva che l'Italia ha «il 50% dei beni artistici tutelati dall'Unesco» decuplicando (ne abbiamo 47 su 936) per vanità patriottica la nostra percentuale? Dedica al tema, in coda, 7 righe su 379. Dove sostiene che vanno separati cultura e spettacolo «nell'assegnazione di risorse pubbliche», che i musei devono «svuotare le cantine» (tesi assai controversa) o che occorre «avviare la sperimentazione dell'affidamento in concessione ai privati dei musei più in difficoltà». Ma si guarda bene dal promettere il ripristino degli investimenti, crollati dal 2001 al 2011, decennio berlusconiano (con parentesi prodiana) dallo 0,39 allo 0,19% del Pil. Il contrario di quanto ha fatto in Germania (tirandosi addosso, paradossalmente, perfino la critica di aver un po' esagerato) la «nemica» Angela Merkel.

Peccato. Se la cultura non entra nel dibattito politico neppure in campagna elettorale...

Come volevasi dimostrare, la variante laziale del provvedimento voluto da Berlusconi, rende ancora più semplici le speculazioni edilizie. La Repubblica, ed. Roma, 15 genaio 2013 (m.p.g.) Un’operazione in grande stile. Sui sei ettari dell’ex Fiera di Roma, Investimenti Spa, la società guidata da Camera di Commercio con Comune e Regione, sta per realizzare case di lusso per 216.450 metri cubi, e altri 45 mila di housing sociale.
E lo farà non più sulle ali di una variate al piano regolatore, una delibera già presentata dalla giunta Alemanno in Consiglio che rischiava di arenarsi come gli altri provvedimenti urbanistici contro un’opposizione disposta a tutto per fermarli.

No, la via sarà più semplice. Il progetto passerà grazie all’interpretazione di due commi dell’articolo 3ter della legge regionale sul Piano Casa, il numero uno e il numero tre. Ma con una scorciatoia. Poiché proprio al comma 3 si dice che per usufruire dei benefici del Piano, aumenti di cubatura in cambio della costruzione di una percentuale di housing sociale, ovvero case ad affitti agevolati, la superficie non dovrebbe superare i 15 mila metri quadrati, è stata trovata una soluzione: i capannoni disseminati sull’ex Fiera sono accatastati diversamente, allora usufruiranno in modo distinto della legge.

«Abbiamo ricevuto una proposta in questo senso da parte di Investimenti Spa e gli abbiamo comunicato» spiega l’assessore all’Urbanistica Marco Corsini «che l’ipotesi di utilizzare il Piano Casa è percorribile. Ma ci siamo riservati tutti gli approfondimenti possibili quando sarà presentato il progetto vero e proprio. Ci sono due punti su cui dobbiamo insistere: un contributo straordinario per la valorizzazione dell’area destinato al territorio e il rispetto della qualità architettonica mediante un concorso di architettura». I due commi prevedono che il premio di cubatura, un 30%, sia destinato all’housing sociale. E questo è l’altro nodo: Investimenti Spa infatti propone di costruire la metà delle abitazioni ad affitti calmierati, si calcola che in tutto saranno circa 90 mila metri cubi, sui terreni di sua proprietà accanto alla Nuova Fiera di Roma, sull’autostrada Roma-Fiumicino.
«Nel prossimo consiglio di amministrazione» spiega il presidente di Investimenti Tagliavanti «valuteremo: una delle opzioni è proprio quella di portare in parte alla Nuova Fiera l’housing sociale perché l’area centrale dell’ex Fiera sia valorizzata e appetibile il più possibile».

Ma sull’operazione, che cementificherà tutti i sei ettari d’oro sulla Cristoforo Colombo dell’ex Fiera, a poca distanza dalle Mura Aureliane e dal Centro, i consiglieri regionali radicali hanno fatto una battaglia, per ora vana, a colpi di interrogazioni, firmate da Rocco Berardo e Giuseppe Rossodivita, per il fatto che un intervento in una parte così centrale della città sia affidato al Piano Casa senza una variante. «L’assessore Ciocchetti» afferma Berardo «è stato il principale sostenitore delle richieste di Investimenti Spa e ha esercitato una notevole pressione affinché il Comune abbandonasse la strada della variante urbanistica. A questo punto non ci resta che attendere che il Campidoglio rilasci il permesso di costruire, per poi promuovere un’azione di fronte al Tar».

Salvatore Settis si dimette per protesta contro la candidatura della presidente Fai nella lista Monti: un governo che ha dimostrato assoluta indifferenza per patrimonio culturale e paesaggio. Ma « c’è poco da stare tranquilli se, chi dovrebbe giocare la partita a favore della causa, crede che la cultura sia, naturalmente dopo il lavoro, naturalmente dopo l'emergenza dei nostri conti, naturalmente dopo altre emergenze, una delle grandi priorità del Paese».Il Giornale dell’Arte, gennaio 2013 (m.p.g.)

All’entusiasmo del lancio delle Primarie della Cultura, che nei primi due giorni hanno registrato ben 20mila voti, con oltre 46mila visite al sito dedicato, è seguita l’autosospensione della presidentessa Ilaria Borletti Buitoni dalle attività operative e ufficiali della Fondazione, a seguito alla comunicazione della sua candidatura nella lista civica del Presidente Monti. E a stretto giro di posta sono arrivate le dimissioni, immediate e irrevocabili, di Salvatore Settis dal Consiglio di Amministrazione del Fondo Ambiente Italiano. «Non posso né comprendere né condividere, spiega nella sua lettera di dimissioni, il fatto che la Presidente in carica del Fai appoggi in modo tanto esplicito un Presidente del Consiglio che in oltre un anno di governo non ha mostrato la minima sensibilità per i problemi dell’ambiente, dei beni culturali, della scuola, dell’università, della ricerca, della cultura. Inoltre, cosa forse perfino più grave, il Presidente Monti non ha mostrato alcuna attenzione a questi problemi nemmeno nella sua Agenda, con ciò confermando che, qualora tornasse alla guida del governo, proseguirebbe l’opera di sistematico smantellamento delle strutture statali della tutela e di privatizzazione del patrimonio pubblico».

Nella lettera di autosospensione del 9 gennaio la Borletti Buitoni esprime la propria visione in merito alle prossime elezioni quale «occasione storica per portare in Parlamento persone capaci di promuovere una fase costituente di riforme strutturali di cui il Paese ha bisogno. Cultura, paesaggio, beni culturali sono ambiti trascurati e maltrattati dall'azione di tutti i precedenti Governi, questo incluso, rendendoli così sempre di più una grande emergenza nazionale».
Una questione di scelte, dunque, ma anche di priorità. E c’è poco da stare tranquilli se, chi dovrebbe giocare la partita a favore della causa, crede che «la cultura sia, naturalmente dopo il lavoro, naturalmente dopo l'emergenza dei nostri conti, naturalmente dopo altre emergenze, una delle grandi priorità del Paese». Come da lei annunciato durante il programma radiofonico condotto da Massimo Valli su Radio Montecarlo.

I pasticci che accadono quando si vuole colpire indiscriminatamente situazioni fortemente discriminate. Ma questi professori (e legislatori) moderni non avevano mai letto "il blocco edilizio" di Valentino Parlato? o semplicemente riflettuto sulla distribuzione socialedella rendita immobiliare? Articoli di Anna Maria Merlo e Leo Lancari, il manifesto, 9 gennaio 2013. In calce, un link utile

Giallo Imu, la Ue prima la boccia poi ci ripensa
di Anna Maria Merlo

L'operato del governo Monti, ex commissario Ue, non si tocca a Bruxelles, che prima boccia l'Imu, considerata in buon sostanza ingiusta, perché non è progressiva e addirittura passibile di aumentare il rischio di cadere nella trappola della povertà per i cittadini italiani, poi ci ripensa. La critica alla tassa sulla casa si capiva leggendo il Rapporto 2012 sull'occupazione e lo sviluppo sociale della Commissione Ue, a pagina 267. Ma in serata, visto il polverone sollevato in Italia a causa del ruolo centrale dell'Imu nella campagna elettorale in corso, da Bruxelles hanno confusamente precisato, per non irritare Monti, che i riferimenti erano all'Ici, cioè alla situazione del 2006. Il Rapporto parla di ben altro, pubblica dati sulla disoccupazione e sulla situazione sociale che si degrada con la crisi economica, ma ha un breve capitolo sulle tasse italiane sugli immobili. La Commissione ricorda che l'Imu era stata introdotta nel 2012 «a seguito di raccomandazioni sulla riduzione di un trattamento fiscale favorevole per le abitazioni», che un punto favorevole è stata la revisione (al rialzo) dei valori catastali, che è positivo che sia stata fatta una distinzione tra casa principale e abitazione secondaria, che ci sia la deduzione di 200 euro per la residenza principale e per i figli a carico. Ma la modalità con cui è stata concepita l'Imu rischia di aumentare «le diseguaglianze sociali» in Italia (l'altro esempio fatto dalla Commissione è l'Estonia): Bruxelles vorrebbe che il riferimento fossero i «valori di mercato» degli alloggi e non quelli catastali, notoriamente bassi in Italia. Il commissario agli Affari sociali, Laszio Andor, ha rifiutato di commentare il testo del Rapporto rispetto all'Imu, perché «è argomento di campagna elettorale» e la Commissione non vuole immischiarsi. In Europa non esiste l'armonizzazione fiscale (la prova: l'esilio fiscale di molti ultra-ricchi francesi verso il Belgio o la Gran Bretagna, malgrado sulle prime pagine ci sia sempre il caso praticamente unico di Gérard Depardieu in Russia.

La Commissione non suggerisce certo una patrimoniale in Italia, ma raccomandando una maggiore «progressività» delle tasse sui beni immobiliari, fa riferimento all'equità, che non deve mai essere dimenticata in campo fiscale per non distruggere il consenso all'imposta, che è una delle basi della democrazia.

In Europa, una tassa iniqua sulla casa ha già fatto cadere un governo: era l'anno 1990 e Margaret Thatcher ha dovuto rinunciare dopo le rivolte del mese di marzo contro la poll tax imposta nell'89. John Major, che la sostituì alla testa del governo conservatore, l'ha poi abolita. La poll tax aveva lo stesso difetto dell'Imu: non era progressiva, colpendo così proporzionalmente molto di più i poveri che i ricchi, oltre ad avere anche altri aspetti di ingiustizia, variando enormemente a seconda del luogo.

Sull'Imu Bruxelles aveva già avuto modo di pronunciarsi. Lo ha fatto prima di Natale, per approvare il regalo fatto da Mario Monti alla chiesa cattolica. La Commissione europea ha chiuso la procedura di infrazione aperta contro l'Italia per «aiuti di stato illegali» alla chiesa cattolica negli anni 2006-2011 relativa alle esenzioni dell'Ici e ha ritenuto che la nuova tassa, l'Imu, «non implica aiuti di stato dal momento che le esenzioni si applicheranno solo agli immobili dove sono condotte attività non economiche». E' la prima volta "in assoluto", ha comunque precisato il commissario alla Concorrenza, lo spagnolo Joaquim Almunia, che la Ue non chiede il recupero di aiuti di stato illegali.

L'imbarazzo di Monti: «Ce l'ha chiesta la Ue»
di Leo Lancari

Per molte ore le critiche di Bruxelles sull'Imu vengono vissute da palazzo Chigi come il classico fuoco amico. E sarà per questo che la bocciatura di uno dei cavalli di battaglia del governo tecnico lascia a lungo Mario Monti in silenzio. Fino a sera, infatti, né dal premier dimissionario, né da nessun membro del governo arriva un commento all'accusa di «iniquità» con cui l'Europa stronca la tassa. Un'accusa che al leade della neonata «Lista civica» brucia particolarmente anche perché cade nel bel mezzo della campagna elettorale che fa delle tasse uno dei temi principali. E quando finalmente si decide ad affrontare la questione, le parole di Monti non nascondono amarezza, ma anche imbarazzo per quanto accaduto. Al punto che il professore sembra quasi prendere le distanze dall'operato del suo governo: «La frase fondamentale - spiega - dice che la tassa sugli immobili è stata introdotta su richiesta dell'Unione europea, poi apprezza alcuni aspetti della forma dell'Imu adottata, e poi parla di progressività. Ecco messa nella giusta prospettiva questa 'clamorosa' notizia...». Di introdurre l'Imu ce l'ha chiesto l'Europa, questa è la giusta prospettiva per il professore.
La vicenda sembrerebbe finita, ma non è così. Alle 20,30, quando sono passate sei ore dal momento in cui le agenzie hanno battuto la notizia della bocciatura dell'Imu da parte della Commissione sull'occupazione, arriva la smentita da Bruxelles. Segno che le proteste avanzate nel frattempo da palazzo Chigi hanno avuto affetto, seppure con estrema lentezza. «Mai bocciato l'Imu», fa sapere la commissione con un ritardo a dir poco sospetto.
E dire che non è passato molto tempo da quando lo stesso Monti salutava come un successo gli incassi derivanti dalla tassa sulla casa, 25 miliardi di euro secondo le stime (dieci con la prima rata di giugno), che hanno fatto impennare le entrate per lo Stato nel 2012. A scapito delle famiglie più bisognose e creando nuova povertà, dice oggi Bruxelles confermando una realtà che è sotto gli occhi di tutti.
E non a caso il centrodestra ha gioco facile nell'attaccare il professore, tornando a promettere l'abolizione della tassa sulla casa, mentre Tremonti, ora leader della «Lista lavoro e libertà» invita i cittadini a chiedere il rimborso dei soldi pagati. «Non serviva un genio per capire che l'Imu avrebbe aumentato la povertà. Ora che lo dice l'Ue cosa dice Lei, Senatore (a vita)?» twitta l'ex ministro dell'Economia. Per il Pdl, invece, Gasparri ironizza sull'attaccamento all'Europa del professore.« L'Ue ha bocciato l'Imu dell'europeista Monti», dice il capogruppo al Senato. «Ora anche l'Europa lo bacchetta, segno che ha sbagliato tutto, proprio tutto».
Seppure con qualche difficoltà in più, critiche arrivano anche dal Pd. Solo due giorni fa il segretario Pierluigi Bersani aveva escluso una possibile abolizione della tassa sulla casa («20 miliardi non sappiamo dove prenderli», aveva detto), ammettendo però la necessità di un intervento che alleggerisse gli importi sulla prima casa colpendo maggiormente i grandi patrimoni «a partire da 1,5-2 milioni di euro». E' toccato a Stefano Fassina tornare sull'argomento ribadendo il concetto con un po' più di coraggio: «Va eliminata per le classi medie e i redditi bassi - ha detto il responsabile economico del partito - per concentrarla sui grandi patrimoni».

Meno diplomatici Nichi Vendola e Antonio Di Pietro. Il leader di Sel, che Monti vorrebbe «silenziare» e contro il quale è intervenuto anche ieri, non lesina critiche al premier: «L'Europa ci prende a sberle per l'iniquità dell'Imu», attacca. «Quando parlavamo nei mesi scorsi di abolirla per le fasce di reddito più basse, quando parlavamo di un insopportabile spread sociale, venivamo tacciati come la solita sinistra conservatrice. Quanto ipocrisia e malafede».

Va giù duro contro Monti anche Antonio Di Pietro: «La verità è che tutte le riforme di Berlusconi prima e di Monti dopo sono state inique, inutili e hanno impoverito famiglie e onesti cittadini», ha detto il leader dell'Italia dei valori. «Monti non si nasconda dietro il dito dell'Ue perché la verità è che ha fatto tornare i conti, in modo ragionieristico, facendoli pagare alle fasce più deboli della popolazione ma salvaguardando evasori, corruttori e chi, fino a oggi, ha vissuto nell'illegalità».

Molti articoli archiviati nella vecchia edizione di eddyburg sono dedicati alla rendita immobiliare. Cercate in particolare nella cartella Rendita, Suolo urbano

La distorsione del vocabolario al servizio dei padroni di sempre: speculazione e deregulation. In Liguria come altrove. Il Fatto Quotidiano on-line, 2 gennaio 2012 (m.p.g.) “Noi siamo per la conservazione attiva del territorio”. La chiamava così Massimo Caleo, sindaco Pd di Sarzana, mentre con la giacca della Protezione Civile addosso parlava del suo Comune alluvionato per l’ennesima volta. Appena un mese fa. Che cosa il sindaco intenda è presto detto: il progetto di un mega porticciolo da quasi mille posti barca, 750 residenze, 200 esercizi commerciali, 25 stabilimenti balneari. Cemento. Una conservazione “molto attiva”, un progetto caro al centrosinistra. I maligni sottolineano che a realizzarlo è una società di cui fanno parte la “banca rossa” del Monte dei Paschi di Siena e le cooperative. Ricordano che quando l’idea fu lanciata nel consiglio di amministratore sedeva il cassiere della campagna elettorale di Claudio Burlando (Pd).

Avanti tutta, finché ci si mette di mezzo l’alluvione che un anno sì e l’altro pure fa macelli alle foci del Magra. Dove dovrebbe sorgere il porticciolo. “Conservazione attiva del territorio”, un’espressione che presto potrebbe entrare nel vocabolario (e negli incubi) degli ecologisti. O di chi semplicemente ha cura del paesaggio. Che poi significa anche turismo, cioè lavoro e anche sicurezza. Quindi vita.

In Liguria a tredici mesi dalla grande alluvione, tanti sembrano essersene dimenticati: le ruspe della cementificazione non hanno smesso di lavorare. Nella vicina Monterosso intanto i cantieri hanno continuato a scavare anche mentre si cercavano i morti del 2011. Le ha fermate la Procura della Spezia che ha sequestrato il cantiere per un maxi-parcheggio per 300 auto all’ingresso del paese, a 4 metri da un rio: dove le norme imponevano, salvo studi aggiuntivi qui assenti, una distanza di 40 metri. E quando la Regione, dopo l’alluvione, ha stoppato il cantiere, il Comune ha acconsentito che proseguisse. Il sindaco Angelo Maria Betta (Pdl, fedele dell’onorevole Luigi Grillo che qui ha casa) ha dichiarato: “Quella non è una zona alluvionata”. Chissà. Di sicuro a pochi metri c’è scappato il morto.

Stessa scena in val di Magra, sequestrato il cantiere per un centro commerciale. A pochi chilometri c’è anche il progetto per il mega outlet di Brugnato, che vede coinvolte figure vicine ai vertici del centrosinistra. L’assessore regionale all’Ambiente, Renata Briano, dopo l’alluvione 2011 dichiarava: “Intendiamo salvaguardare la zona con l’inedificabilità assoluta”. Nella stanza accanto la sua collega all’Urbanistica Marylin Fusco (Idv, poi dimessasi perché travolta da scandali e inchieste) rispondeva: “L’area di costruzione non è vicina a zone esondabili”. Per capire quale fosse davvero la situazione basta guardare le fotografie dell’alluvione 2011 in val di Vara, con i suoi morti.Ma anche l’outlet ha sponsor molti forti.
Un altro esempio di “conservazione attiva del territorio”. In attesa della prossima alluvione.

Appunti per chi si candida a governare - si spera con qualche radicale diversità dagli ultimi e dai penultimi. L'Unità, 24 dicembre

Ad ogni pioggia appena più forte mezza Italia viene giù facendo vittime e sottraendo ai nostri paesaggi parti bellissime. Ma la legge sulle Autorità di Distretto, voluta dalla UE, giace nei cassetti. Né fa passi avanti un piano (anche del lavoro, segretario Bersani, anche del lavoro!) per la “ricostruzione” di colline e montagne che franano, smottano, colano a valle. Poi c’è il flagello degli incendi a “cuocere” insieme boschi e terreni con incendiari prezzolati dagli inesausti speculatori. Ma i Vigili del Fuoco, amati dagli italiani per solerzia e cortesia, hanno mezzi e remunerazioni indecenti. Nei centri storici – finora per lo più conservati – si stanno insinuando politiche di demolizione/sostituzione, laddove gli edifici non sono vincolati dalle deboli Soprintendenze (a Roma dentro la medioevale, centralissima Tor Sanguigna hanno lasciato infilare una pizzeria). Il consumo di suolo divora zone agricole. Si invoca tanta edilizia, i Comuni tamponano le falle dei bilanci ordinari con gli oneri di urbanizzazione, e la gente muore, a Palermo o a Ischia, sotto il cemento abusivo.

Il dolente catalogo potrebbe continuare. Tanto sono stati inetti, volti a privatizzare il patrimonio pubblico, ministri come Urbani, Bondi, Galan e, de profundis, Ornaghi, che il prossimo governo dovrà “ricostruire” – attorno all’articolo 9 della Costituzione, sempre sottolineato da Napolitano – il Ministero creato nel 1974-75, con giustificate ambizioni, da Giovanni Spadolini “per i Beni Culturali e Ambientali”, dovrà ridurre un corpo centrale rigonfio, ridare ruolo e personale tecnico alle Soprintendenze territoriali di settore. Per quelle ai Beni architettonici, le pratiche edilizie sono diventate talmente tante che ogni funzionario dovrebbe essere sbrigarne almeno 5 al giorno (andando però sul cantiere rigorosamente in bus o in tram), col picco di 79 pratiche giornaliere per ogni tecnico a Milano. Una impotenza grottesca. Così trionfano affaristi, speculatori, abusivi di tutta Italia.

Ecco perché alla Camera e al Senato la rappresentanza di parlamentari dotati di cultura paesaggistica, ambientale, urbanistica, storico-artistica non può, non deve ridursi, ma anzi essere potenziata. Soprattutto nel Partito Democratico. I Verdi vengono dalla crisi infinita consumatasi con Pecoraro Scanio e tendono a sciogliersi, come l’IdV, negli Arancioni. Ben venga da loro un forte impegno per la tutela del patrimonio storico, artistico e paesaggistico, ricchezza d’Italia tanto declamata a parole quanto intaccata o minacciata di essere trattata come “il nostro petrolio” (frase storica del ministro Mario Pedini, Loggia P2). Ma il cuore della ripresa, della ricostruzione morale, culturale, ambientale sarà il Pd. “Rifare l’Italia”, incitava Filippo Turati subito dopo la guerra mondiale esortando con illuminata passione al rimboschimento della montagna, contro il disastro delle alluvioni. Ci sono uomini e donne giovani, o giovani mature, nell’area del Pd, che gli anziani come me hanno visto crescere al fuoco delle lotte per la tutela del Belpaese, dotate degli strumenti necessari. Sarebbe grave se il partito dei progressisti ne sottovalutasse ruolo e importanza.

La terra è finita, diceva Mark Twain. Ora lottizzano anche il mare: una specie di caricatura di Dubai, in pratica l’ennesimo porticciolo, però staccato dalla costa, così la stupidaggine si nota di meno. Corriere della Sera, 30 novembre 2012

RICCIONE (Rimini) — L'ultima (e unica) volta che ci provarono finì con un'esplosione che scosse l'intera costa del divertimentificio, da Rimini a Cesenatico. Si chiamava Isola delle Rose (dal nome del suo creatore, l'ingegnere bolognese Giorgio Rosa), piattaforma di 400 metri quadrati piazzata nel mare Adriatico, a 11 chilometri e rotti dalle coste, fuori dalle acque territoriali italiane, ma dentro, saldamente ancorata, a quella stagione di contestazioni e utopie che fu il Sessantotto. Doveva essere una micro-nazione, con tanto di moneta, governo e lingua ufficiale: visse 55 giorni, finché Digos e guardia di Finanza, bracci armati di uno Stato che si sentiva schiaffeggiato, non ne presero possesso, facendola saltare in aria nel febbraio del '69 con 1000 chili di esplosivo.

Ora ci riprovano, leggermente più a sud, davanti a Riccione. Non un'isola: addirittura un atollo. Non una micro-nazione, né un'avanguardia di chissà quale progetto secessionista, ma qualcosa di ambizioso in termini di progettazione e spirito d'impresa. Far sorgere dal nulla, in mezzo all'Adriatico, a 3 miglia in linea d'aria da viale Ceccarini, un atollo di 1 chilometro di diametro in grado di ospitare un porto (con terminal per le navi da crociera in viaggio tra Venezia, Grecia e Croazia) e poi hotel, residence, centri di ricerca in tema di green economy, parchi, negozi: il tutto, per una popolazione di circa 3 mila persone e con possibilità di balneazione assolutamente inedite, dato che la profondità del mare, a quella distanza dalla costa, è di 12 metri.

Meglio sorvolare sui pensieri che devono avere attraversato le menti dei funzionari ministeriali romani quando Luca Emanueli, che dirige un centro di ricerca sui sistemi costieri presso il dipartimento di Architettura dell'Università di Ferrara, e Cristian Amatori, capo di gabinetto del sindaco di Riccione, il pd Massimo Pironi, misero per la prima volta sul tavolo l'idea. «Superato il primo attimo di sconcerto e viste le carte — racconta Amatori —, l'approccio è stato, non solo collaborativo, ma entusiastico». Da allora, con l'avvento del governo Monti, l'idea ha cominciato a marciare. Quattro sono i ministeri interessati: Infrastrutture, Ambiente, Sviluppo e Beni culturali (con l'aggiunta di quello per la Coesione sociale per eventuali contributi comunitari). Il progetto, come racconta il Carlino Rimini, non è ancora stato presentato. Lo sarà in febbraio con un convegno all'università di Ferrara. Ma è già in corso l'istruttoria per attivare la procedura di Valutazione di impatto ambientale. Il costo è di un miliardo di euro. Cifra pazzesca, di questi tempi. Da reperire sotto l'ombrello del project financing: «Abbiamo già ricevuto l'interessamento — afferma il sindaco Pironi — di imprenditori sauditi e di alcuni fondi d'investimento inglesi e olandesi».

Chi pensasse al modello Dubai è fuori strada. «Non sarà un'oasi ad esclusivo beneficio di vip — prosegue Amatori —. L'intento è integrare e ampliare l'offerta turistica di Riccione senza togliere nulla al patrimonio esistente sulla costa, che ha ormai raggiunto la saturazione». Di fatto, un'estensione del territorio: «Trattandosi di un progetto senza precedenti — dice Emanueli, che lavora con specialisti di varie discipline —, si sono dovute esplorare nuove strade sotto il profilo urbanistico e legislativo. Fondamentali inoltre gli studi sull'andamento del moto ondoso e dei fondali». Per ora non c'è traccia di comitati anti-atollo. «Ma forse perché il progetto non è ancora ufficiale», ride Amatori. In compenso gli amanti della sabbia si mettano il cuore in pace: «Le spiagge non sono previste: il mare ne farebbe un sol boccone...».

Un video reportage per denunciare l’insostenibilità dell’ennesima “grande opera”, grandemente devastante: l’autostrada Orte-Mestre. L’Altreconomia, novembre, 2012 (m.p.g.) “Il casello incantato” è un video-reportage a passo lento da Mestre ad Orte, lungo i territori che verrebbero attraversati dalla “nuova Autostrada del Sole”, la Orte-Mestre. Quattrocento chilometri per dieci miliardi di euro, dal Veneto al Lazio, attraversando cinque Regioni.

Un progetto di cui si parla da oltre vent’anni, che oggi ha subito un’accelerazione. Manca ancora, però, il piano economico e finanziario, e i flussi di traffico attesi sono modesti: per questo comitati e associazioni ambientaliste si battono contro la cementificazione di alcune delle aree agricole più fertili d’Italia, quelle del Polesine. Altreconomia li ha incontrati, muovendosi sul tracciato della nuova autostrada per realizzare un reportage fotografico pubblicato sul numero di novembre della rivista.

Qui il video reportage.
E qui il reportage geo-localizzato lungo la Orte-Mestre.

Intervistato da Luca Aterini, il noto sociologo espone i motivi per cui l’approccio del governo alla crisi è inadeguato: ci vuole un vero e proprio New Deal. Greenport 23 novembre 2012

Gli ultimi dati Istat rivelano per l'Italia un tasso di disoccupazione record, registrato al 10,8% (35% negli under25): ufficialmente, sono 2,8 milioni gli italiani senza un lavoro. Un incremento del 25% in 12 mesi, e il peggior dato da 20 anni. E le previsioni per il 2013 sono ancora più nere. Nel frattempo, ampie parti del Paese crollano sotto il peso crescente del dissesto idrogeologico e della mancanza di cure per il fragile territorio dello Stivale. Molto fragile: nella Toscana Felix la percentuale di comuni a rischio idrogeologico raggiunge addirittura il 98%, e le ultime alluvioni hanno dato ampia e triste prova di cosa questo significhi. Il territorio devastato appare uno specchio del tessuto sociale italiano che si disfa, sotto i colpi pesanti di una crisi economica che continua da troppo tempo. Né la cronica disoccupazione né la mancanza di prevenzione e tutela del territorio (davanti al mutevole scenario dettato dal cambiamento climatico) sono fatalità ineluttabili. È nostro dovere prendere coscienza di questa realtà, e agire di conseguenza per porvi rimedio. Come?
Il sociologo Luciano Gallino ha qualcosa da dire, in merito.

Ritiene lecito affermare che le conseguenze delle bombe d'acqua che hanno colpito l'Italia e l'aumento del termometro della disoccupazione siano legati da uno stesso filo rosso? Quello dell'inazione, della mancanza di pianificazione.

«Le alluvioni che hanno recentemente colpito il nostro Paese sono in parte un risvolto del cambiamento climatico, che ne aumenta frequenza e intensità. Non dobbiamo dimenticare che questo fenomeno dipende anche dalla nostra attività economica, con l'immissione in atmosfera di gas climalteranti. A loro volta, le conseguenze delle alluvioni sono amplificate dalle mancate contromisure: non abbiamo agito per tutelare il nostro territorio dal dissesto idrogeologico, spingendoci spesso in tutt'altra direzione. E anche per quanto riguarda la disoccupazione, non abbiamo messo in campo politiche efficaci per contrastarla».

Un grosso aiuto, per tentare di dare una riposta ad entrambi i problemi, potrebbe essere comune. Mi riferisco alla sua proposta di un'Agenzia per l'occupazione, lanciata ormai mesi fa. Potrebbe riassumerne le fondamenta, e i costi?

«Quella di un'agenzia per l'occupazione è una proposta che fa riferimento ad una vasta letteratura e a precedenti concretamente realizzati, come negli Stati Uniti durante il New Deal, quando tre agenzie statali - la Federal emergency relief administration, la Civil works administration e la Works progress administration - riuscirono a creare molti milioni di posti di lavoro. Nel contesto in cui ci troviamo, raggiungere numeri enormi sarebbe impossibile, ma creare 1 milione di nuovi posti di lavoro sarebbe l'obiettivo minimo a cui tendere.

Tramite un'agenzia per l'occupazione, declinata in vari centri a livello degli enti locali, lo Stato dovrebbe assumere direttamente disoccupati e precari, impiegandoli nei molti lavori ad alta intensità di lavoro - anche qualificato - di cui il nostro Paese ha bisogno. Tra questi sarebbero sicuramente da annoverare interventi per il riassetto idrogeologico del territorio, ma anche quelli inerenti la ristrutturazione dell'edilizia scolastica, o della tutela dei beni culturali, spesso abbandonati in modo delittuoso, e altri ancora.

A proposito dei costi, l'agenzia dovrebbe offrire un salario medio, e comprendere il costo dei contributi sociali. Ipotizzando una cifra pari a 25mila euro a occupato, per un milione di disoccupati avremmo un totale di 25 miliardi. Questa cifra non sarebbe però un costo, ma creerebbe anzi ricchezza: andrebbe nelle tasche di cittadini altrimenti disoccupati, intervenendo a favore della loro capacità di spesa e dunque alleviando quel deficit di domanda che è il grande freno a fermare la ripresa dalla crisi economica. Inoltre, molte aziende private sarebbero felici di partecipare dei costi, assumendo una parte dei disoccupati a fronte del pagamento di una parte dello stipendio da parte dello Stato. Un ulteriore risparmio verrebbe poi, ad esempio, dalla cessazione dei sussidi di disoccupazione per i neoassunti».

I detrattori sarebbero pronti a ribattere: non ci sono i soldi per realizzarla; non possiamo, abbiamo firmato il fiscal compact richiesto dai nostri partner europei; lo Stato non può assumersi un tale ruolo ed è già un datore di lavoro, spesso cattivo. Cosa risponderebbe loro?

«Innanzitutto, che la firma del fiscal compact è stata una forma di suicidio economico, e si rivelerà inattuabile. Per rispettarne i dettami, dovremmo portare avanti tagli alla spesa pubblica enormemente maggiori rispetto agli attuali (per i quali comunque già si parla di lacrime e sangue), nell'ordine dei 50 miliardi di euro l'anno. Soltanto prospettando per l'Italia un futuro di miseria nei prossimi 20 o 30 anni saremmo forse in grado di farvi fronte.

Riguardo il resto delle obiezioni, rispondo che l'ostacolo più serio all'implementazione di un'agenzia per l'occupazione non sono i fondi, ma le idee attualmente dominanti degli economisti e assimilate da nove politici su dieci. La visione neoliberista dell'economia e delle risposte alla crisi è un'ideologia - quella dell'affamare la bestia, lo Stato, per allargare i margini dell'interesse privato - è una visione del mondo che non ammette risposte alternative. Le risorse economiche, al contrario, volendo si potrebbero trovare. Con più di 7 milioni di persone che non hanno uno stipendio o lo hanno troppo basso e precario, in Italia, crede che sia opportuno acquistare 90 cacciabombardieri F35, per una spesa di circa 15 miliardi di euro? Oppure investire una cifra che oscilla attorno ai 20 miliardi di euro per ridurre di mezz'ora il tempo di percorrenza Torino-Lione, realizzando la Tav? Non sono questi gli interventi di cui ha bisogno il Paese».

La sua proposta per sanare almeno in parte la ferita economica e sociale della disoccupazione sembra molto distante da un'altra ipotesi molto in voga di questi tempi, la flexicurity rilanciata da Pietro Ichino e Matteo Renzi...

«Direi che si tratta di cose completamente diverse tra loro. È necessario concentrasi sulla difesa del lavoro, non del singolo posto di lavoro. Ma le politiche attive per l'occupazione proposte sono paragonabili ad una corsa di una folla di persone alla caccia di un posto a sedere su di un aeroplano che ha una capienza di cento posti. Se ad attendere al gate ci sono cinquecento persone, si promette un posto di lavoro solo ai primi cento. Gli altri rimangono a terra, non si crea nuovo lavoro».

Secondo l'Ilo, il passaggio verso una economia più verde potrebbe generare tra i 15 e i 60 milioni di nuovi posti di lavoro nel mondo nei prossimi vent'anni. Lasciarci la crisi alle spalle riconvertendo in chiave ecologica l'economia: condivide questa prospettiva?

«Dipende a quale economia verde si fa riferimento. Fare riferimento a pannelli fotovoltaici e pale eoliche, piuttosto che ad altro, non è un grande passo avanti se le dimensioni energivore della nostra economia rimangono immutate. Lo stesso vale per le risorse materiali, oltre che energetiche. Oltre al nostro, non abbiamo un altro pianeta dal quale attingerne. Non auspico certo una vita ascetica o di rinunce, ma credo che la riconversione ecologica dell'economia debba mettere al centro la riduzione dei consumi per spostare l'attenzione sulla qualità della vita. È impensabile sperare di tornare a produrre e consumare come in passato. Abbiamo davvero bisogno della moltitudine di beni non durevoli - come un telefonino da cambiare dopo pochi mesi dall'acquisto - o di suppellettili dai quali siamo circondati?

Un'inversione di rotta in questo campo presuppone una chiara scelta politica, ma non vedo in giro politici che abbiano il coraggio di farsene carico. Anche i cittadini hanno le loro responsabilità in merito, certo, ma occorre osservare come vengano spesi 600 miliardi di dollari l'anno in pubblicità, per indurre bisogni che probabilmente altrimenti non sarebbero percepiti come tali».

Per perseguire questo obiettivo sono necessarie chiare scelte politiche. Nel frattempo, qualcos'altro cresce senza controllo: nonostante la crisi, il Financial stability board riferisce che - dati 2011 - il sistema bancario ombra vale ormai 67mila miliardi di dollari, con un +6mila miliardi l'anno. È ancora possibile controllare la finanza?

«È un obiettivo fondamentale da perseguire. Non è il primo rapporto che il Financial stability board pubblica su questi toni, ma arriva comunque molto in ritardo. Dall'inizio della crisi, ancora non è stata portata avanti alcuna vera riforma del sistema finanziario. Sono statti compiuti dei tentativi, come nel 2010 negli Usa, col Dodd-Frank Act. Un progetto che si è rivelato eccessivamente farraginoso, e si è arenato. Per non lasciarci andare completamente ad un nero pessimismo, possiamo dire anche in Europa qualche passo avanti è stato compiuto, ma è ancora troppo poco. Alla progressiva liberalizzazione del sistema finanziario ha contribuito la politica stessa a partire dagli '80, e adesso una forte attività di lobbying neoliberale - dalla produzione di think tank fino a pressioni vere e proprie - combatte strenuamente qualsiasi riforma».

Dal Manifesto per un soggetto politico nuovo a Cambiare si può - che si riunirà il 1° dicembre - passando per A.l.b.a.: c'è la volontà di costruire una proposta politica che si cristallizzi attorno a questi temi?

«Nell'appello Cambiare si può! Noi ci siamo si ritrovano molti elementi fatti propri da A.l.b.a. Dopotutto, molte le firme che hanno aderito all'uno si ritrovano anche nell'altra. A.l.b.a. si configura però come una proposta politica per il futuro, con un orizzonte a lungo termine. "Cambiare si può" guarda ad una lista civica per le prossime elezioni politiche, che si terranno tra pochi mesi. È una prospettiva difficile, ma penso che entrambe queste realtà portino avanti una proposta - confrontata col documento programmatico del Pd, ma anche con quegli elementi fatti propri dal Movimento 5 Stelle - più attenta ai problemi reali del Paese e, se posso dirlo, anche più di sinistra. L'appello ha già registrato migliaia di firme: il 1° dicembre si terrà la prima Assemblea nazionale, al teatro Vittoria di Roma. Vedremo come andrà, ma sono convinto che ci sarà un'adesione importante, soprattutto da parte dei giovani».

Parole e indicazioni giuste. Ma nessuno ricorda che il territorio è un sistema in cui tutte le parti (suolo acqua boschi e coltivi, case e scuole, fabbriche e strade, ferrovie e ospedali) interagiscono, e solo adottando un metodo sistemico (la pianificazione) si può governarlo con equità ed efficacia. La Repubblica, 15 novembre 2012

Nelle Langhe, tutte le volte che pioveva molto, e per alcuni giorni di fila, si diceva che i contadini iniziassero a “portare l’acqua a spasso”. Sulle colline e su qualsiasi altro terreno in pendenza gli agricoltori, armati di zappa, scavavano stretti e lunghi solchi pieni di curve: così aiutavano l’acqua a “camminare” per un po’ prima che scendesse a valle. Una precauzione perché non acquisisse forza distruttiva, sia per le coltivazioni sia, a valanga e nei casi più gravi, per le costruzioni.
Torna questo frammento di memoria, che tanti anni fa sembrava più che altro un racconto colorito riferito alla civiltà contadina, ogni volta che in Italia un territorio va sott’acqua o un fiume esonda portando danni, tristezza e purtroppo morte. E viene da pensarci sempre più spesso, perché capita regolarmente ogni autunno da un po’ di anni a questa parte, e molte volte anche a fine inverno. Per curiosità, basta controllare l’elenco delle alluvioni di una certa importanza avvenute in Italia, che si trova facilmente su internet.
Salta subito all’occhio come i fenomeni gravi in termini di danni materiali e di vite umane si siano molto intensificati a partire dal secondo dopo-guerra. Guardando quell’elenco, poi, si capisce che l’Italia è da sempre un Paese naturalmente soggetto a questi eventi, ma una tale escalation non è spiegabile se non con una riflessione riguardante la nostra cura per il territorio e i luoghi in cui viviamo.
Sarebbe forse troppo facile — ma anche poco serio senza un adeguato supporto scientifico — chiamare in causa il cambiamento climatico, anche perché i disastri legati al meteo si sono moltiplicati in tutto il mondo. Sicuramente qualcosa sta mutando nella prevedibilità e nella frequenza di fenomeni atmosferici eccezionali, è evidente, ma se guardiamo a come abbiamo trattato il nostro Paese negli ultimi due secoli, e maggiormente negli ultimi sessant’anni, non si può non pensare che siamo stati incauti, se non scellerati, nel depredarlo, abbandonarlo, coprirlo di cemento, nel costruire senza criteri preventivi rispetto a cataclismi cui ormai dovremmo essere un po’ abituati, e anche preparati, da almeno qualche centinaio di anni.
Non ci vuole un genio per capire certe cause e non ci vorrebbe neanche un genio della politica per cercare di correre subito ai ripari. Un piano nazionale di messa in sicurezza del territorio italiano dovrebbe essere la priorità di qualsiasi governo, dovrebbe essere in qualsiasi programma elettorale, dovrebbe mettere d’accordo tutte le forze politiche. E invece no. Ogni autunno bisogna ricordare, di fronte a questi drammi, chi “portava l’acqua a spasso”.
Parlare di civiltà agricola del passato non è irrispettoso, non è un caso o un esercizio trito da maniaci delle contadinerie. Studi storici ci spiegano che su un territorio geomorfologicamente fragile come il nostro abbiamo iniziato un paio di secoli fa con il disboscamento a tappeto delle aree collinari e montane. Questo ha peggiorato molto la sicurezza dei terreni e reso più pericoloso il deflusso delle acque, ma quanto meno si era fatto spazio a un’agricoltura che era pur costretta a prendersi cura del territorio in maniera capillare e sistematica. Il tutto su base locale ma con una sapienza che quando in casi eccezionali doveva lamentare danni e perdite, almeno poteva inveire a ragione contro la malasorte, perché si era fatto tutto il possibile per prevenire.

Poi, con l’avvento dell’era industriale, l’inizio dell’irreparabile: prima l’abbandono delle zone più difficili da coltivare o dove mal si adattava l’agro-industria, illusoria portatrice di una troppo agognata modernità. Montagne, colline, aree considerate “arretrate” hanno visto arrivare il deserto umano, l’incuria, infine il tentativo molto problematico della Natura di riprendersi i suoi spazi. Non smetto di ricordare ciò che ha detto una volta Tonino Guerra: «L’Italia non è più bella come una volta, è inutile che mi rompano le scatole, perché una volta c’era chi la curava. Non erano dieci persone messe lì e pagate dallo Stato, erano quelli che l’abitavano: i contadini». Con l’abbandono di queste campagne si è rotto un equilibrio che è esploso a valle e nelle pianure con il boom edilizio e delle aree industriali: un’altra escalation direttamente proporzionale a quella dei disastri che ormai a torto continuiamo a chiamare “naturali”. Abbiamo assistito a una cementificazione virale che, com’è stato più volte ricordato su queste pagine, non ha mai accennato a fermarsi, e negli ultimi trent’anni è anche peggiorata con 6 milioni di ettari di suolo fertile strappati al nostro Paese. Il tutto a fronte di dati che ci parlano di dieci milioni di case vuote, sfitte o inutilizzate. E non sindachiamo sulla qualità di queste costruzioni. Un disegno di legge per fermare il consumo di suolo, proposto dal ministro delle politiche agricole e forestali Mario Catania, è pronto ed è stato molto migliorato dalla Conferenza Stato-Regioni anche in base a richieste della società civile: voglio sperare che venga approvato celermente da questo governo entro i termini di scadenza della legislatura, a maggior ragione dopo i fatti degli ultimi giorni.

Continuando con la storia, invece, l’abbandono delle campagne è proseguito anche in pianura: i contadini sono diventati sempre meno e sempre più soli, alle prese con un’agricoltura industriale che bada al territorio (cioè lo sfrutta) soltanto nella misura in cui rappresenta un fattore produttivo, dunque senza attenzione per le opere che potrebbero avere un interesse per la collettività. Infine c’è stata anche la dismissione delle aree industriali: non posso non pensare a quegli spettri di territorio che sono diventati certi punti della Valle Bormida o che presto lo diventeranno, come il tarantino.

Quasi nessuno si prende più cura dell’Italia. Legambiente ha stimato nel 2010 che l’82% dei comuni italiani è a rischio idrogeologico, in cinque Regioni siamo al 100%. Nemmeno lo Stato, che potrebbe fare tanto, fa il suo mentre insegue testardamente “grandi opere” che ormai suonano sempre più come una presa in giro. Non si può non urlare la richiesta di un piano serio e moderno di messa in sicurezza del territorio nazionale. Piano che agisca a livello locale non soltanto con opere minime e semplici (ma queste sì, grandi) di cura e manutenzione: anche attraverso la tutela dei suoli fertili e la rimessa in produzione di quelli compromessi (con forme di neo-agricoltura per l’industria, come coltivazioni per bioplastica in terreni inquinati). Oppure attraverso gli incentivi per un ritorno alla campagna da parte delle nuove generazioni e un premio a chi, attraverso l’attività agricola, serve ancora la Nazione con quei lavori che sanno “portare a spasso l’acqua”. Questa è vera modernità, questo è ciò di cui si parla veramente quando si parla di paesaggio, di agricoltura sostenibile o di economia locale. Non è poesia o nostalgia. Sono cose che genererebbero più occupazione e Pil di quanto non ne facciano i disastri. Perché è terribile dirlo — e non è un caso che ci sia chi è stato colto a gioire e ridere per un terremoto — ma un disastro “innaturale” fa quote di Pil attraverso la ricostruzione o magari anche con forme di assicurazione privata che ora, guarda caso, alcuni vorrebbero obbligatorie per tutti.
Il governo tecnico "riordina" a modo suo le circoscrizioni, col solito criterio contabile, ma forse è meglio di niente. La Repubblica edizione nazionale e Milano, 1 novembre 2012 (f.b.)

la Repubblica ed. nazionale
Province, la scure del governo: da 86 a 51
di Silvio Buzzanca

ROMA — Il governo ha deciso con un decreto legge: dal primo gennaio le province delle regioni a statuto ordinario passano da 86 a 51. Comprese 10 aree metropolitane costruite intorno alle grandi città. Restano in piedi, per il momento, gli organismi delle regioni a statuto speciale. Ma il governo ricorda che ha ancora sei mesi di tempo per intervenire. Arriva così una novità epocale. «È una scelta irreversibile », spiega il ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi. E con buona pace dei ricorsi che sono arrivati e quelli che arriveranno, commenta il ministro, perché «noi andiamo avanti con il nostro timing». Un decreto che fa tirare un sospiro di sollievo a pochi. Come quelli di Arezzo e di Sondrio che si salvano. O getta nello sconforto pisani e livornesi, accorpati con Lucca e Massa Carrara. Con un patema enorme: non si sa ancora se il capoluogo sarà sul mare o sotto la Torre pendente. Intanto da Teramo minacciano la marcia su Roma. Sindaci e amministratori di Crotone erano già ieri davanti al Quirinale. E Roberto Cenni, sindaco di Prato che non vuol saperne di andare con Firenze, ha protestato ricevendo i giornalisti seduto su un water. Proteste arrivano anche dal Veneto e dal Piemonte. Monza non vuole andare con Milano, preferirebbe Lecco, Varese e Como. Benevento protesta con vigore perché non vuole essere congiunta ad Avellino.

Lo scadenzario preparato dal governo prevede infatti l’azzeramento delle giunte provinciale il primo gennaio. Da quel momento il presidente potrà nominare solo tre consiglieri per gestire la fase di transizione. Gli organi elettivi restano in piedi, ma nel caso qualcuno non volesse adeguarsi scatterà la nomina di un commissario ad acta. Nel frattempo entra in vigore subito l’impossibilità di sommare emolumenti provinciali e comunali. Il prossimo step prevede elezioni provinciali di secondo livello, nel novembre del 2013 e l’entrata in vigore delle nuove norme nel gennaio del 2014. In parallelo inizierà anche la cancellazione degli enti territoriali dello Stato: prefetture, questure, motorizzazione civile e così via. Risparmi previsti? Il governo non anticipa cifre e dice che si vedrà quando tutto il progetto andrà in porto. La domanda che aleggia intorno al provvedimento è proprio questa: andrà mai in porto? Domanda lecita visto il tam tam della protesta. I parlamentarti lucani del Pdl, per esempio, non vogliono più votare la fiducia al governo Monti. Ma forti dubbi esprimono il deputato piemontese del Pd Giorgio Merlo o quella toscana Susanna Cenni. Molti presidenti di provincia scrivono all’Upi, l’Unione delle province che annuncia mobilitazione. Peccato che il suo presidente, il catanese Giuseppe Castiglione, proprio ieri si sia dimesso per correre alle prossime politiche.

Di seguito un articolo che espone in bella vista vari casi locali di colpi di coda: ad esempio Monza, che ci fa un capoluogo provinciale a qualche centinaio di metri dal capoluogo della più importante area metropolitana del paese? E tra l’altro vorrebbe essere capoluogo di un territorio pedemontano col quale non ha nulla da spartire? Rattrista che a sostenere l’insostenibile ci siano i sedicenti progressisti del Pd, spinti da logiche in fondo non molto diverse da quelle che ci hanno portato alle inefficienze attuali, e che evidentemente vorrebbero riproporre (f.b.)

la Repubblica ed. Milano
Via cinque Province su dodici e a Monza è già ribellione contro l’annessione a Milano
di Franco Vanni

UN MESE di tempo non è servito per “salvare” Monza e Brianza, che ora si ribellano. Come annunciato a inizio ottobre, quando al Pirellone arrivò la bozza del governo sul riordino amministrativo, la Provincia brianzola nata nel 2004 e operativa dal 2009 scompare, aggregata alla città metropolitana milanese. Le critiche più dure, nell’ora della conferma, sono per Roberto Formigoni: «L'iniziativa del presidente di Regione Lombardia di includere Monza e Brianza nella città metropolitana, escludendola dalla provincia con Como e Varese, non incontra consenso » scrivono al governatore il sindaco varesino Attilio Fontana e quello di Monza Roberto Scanagatti.
L’accusa a Formigoni, che la respinge come «del tutto infondata », punta sul fatto che fra scandali e crollo del Consiglio regionale il Pirellone non avrebbe avuto la forza per ottenere le deroghe che avrebbero salvato la Provincia monzese, troppo piccola, e quella di Mantova, troppo poco popolosa, e per questo aggregata a quelle di Lodi e Cremona, che diviene capoluogo. E ancora: l’annessione di Lodi alla nuova entità del sud-ovest lombardo deve essere stata decisa all’ultimo se è vero, come denuncia il presidente della Provincia lodigiana Pietro Foroni, che «nella cartina mostrata dai ministri era visibile una scandalosa correzione a penna».

Ed è questa l’unica vera novità del decreto del governo che ieri ha portato le Province lombarde a scendere di numero, da 12 a 7. Lodi infatti, secondo le bozze, avrebbe dovuto essere associata a Pavia. E il presidente della Provincia mantovana, Alessandro Pastacci, pur di sfuggire alla “odiata” Cremona immagina un referendum per aggregarsi a Brescia, che mantiene la Provincia come pure Bergamo. La settima Provincia lombarda è Sondrio, deroga concessa a causa del territorio montuoso.
I presidenti e gli assessori delle Province si lamentano, intanto, per l’azzeramento delle giunte dal prossimo 1° gennaio. Per Guido Podestà, numero uno di Palazzo Isimbardi, «il governo fa scelte incomprensibili, che non generano risparmio ma riducono i servizi ai cittadini». Un peana identico in tutta Italia, in vista di ricorsi (molti già presentati) e manifestazioni di piazza. E se 11 delle 12 Province lombarde hanno lasciato per protesta l’associazione nazionale Upi, il presidente dell’Unione province lombarde se la prende con il governo per le «istanze ignorate della Lombardia».
Ma il vero problema resta quello monzese. Aggregandosi a Lecco, Como e Varese la città conserverebbe lo status di capoluogo, anziché tornare satellite di Milano. Questo farebbe felici non solo i monzesi, che per avere una Provincia hanno lottato per decenni, ma anche amministrazioni e cittadini di Lecco e Varese. Nell’attuale conformazione, infatti, capoluogo della Provincia del nord lombardo è Como: una scelta che per ragioni logistiche e campani-listiche è difficile far digerire a lecchesi e varesini. Dario Allevi, presidente della giunta di centrodestra della Provincia monzese, attacca: «I brianzoli, che hanno sempre lavorato in silenzio, non meritano questo. Abbiamo un dialetto, siamo 850mila, non ci arrenderemo ». La Provincia si stava
dotando solo ora di servizi cardine come questura, comando dei carabinieri e dei vigili del fuoco. L’unica voce non del tutto contraria al ritorno di Monza a Milano è quella di Marco Accornero, presidente dell’Unione artigiani: «Monza e Brianza avevano le condizioni per restare Provincia autonoma - dice - ma se ciò non è avvenuto meglio la città metropolitana che l'unione con il nord della Lombardia. L’economia di Monza e Brianza è in parte verso l’estero e in parte verso Milano; meno verso Varese, Como e Lecco».
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