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Il manifesto, 15 gennaio 2016,


Il progetto di costruire un nuovo partito della sinistra italiana procede faticosamente; da una parte, c’è un’attesa diffusa, che rischia di essere frustrata: dall’altra, le cronache politiche si soffermano sulle schermaglie tra i vari gruppi che dovrebbero dar vita al processo costituente. Un osservatore esterno, per quanto partecipe, non può che restare perplesso; e così pure le migliaia di potenziali aderenti. Beninteso, i problemi da risolvere sono obiettivamente tanti e complessi, ma non si può pensare di risolverli tutti e subito: un concreto avvio del processo costituente del partito (un partito, non una qualche altra vaga formula) appare urgente, se si vogliono incanalare e valorizzare energie e volontà.Tra le questioni da affrontare, ancora largamente irrisolta è quella della cultura politica del nuovo soggetto, ossia di quell’insieme di idee e di principi, schemi interpretativi e modelli valutativi, che costituiscano una cornice condivisa e riconoscibile, sia per chi che al partito aderisce, sia per coloro che ad esso possono guardare con interesse. Il richiamo alle ragioni della sinistra, per quanto necessario, non è sufficiente: che tipo di partito si vuole? Posto che un partito di mera testimonianza, per quanto nobile, oggi non ha alcuna potenzialità espansiva, quale potrebbe essere il profilo ideale, politico e programmatico, del nuovo soggetto?

Per cominciare ad abbozzare una risposta, forse è opportuno, anche in modo provocatorio, dare qualche modesto consiglio. Intanto, si lasci da parte la «carta dei valori»: la si scriva pure, se si vuole, ma sapendo che serve a poco. In genere, non la legge nessuno (qualcuno si ricorda la carta dei valori del Pd, faticosamente elaborata nel 2006–7?). Si può anche scrivere di riconoscersi nei valori della «libertà, dell’uguaglianza e della fraternità», o nel «valore del lavoro»… già, e poi? «Libertà» e «uguaglianza» sono parole terribili, che riempiono intere biblioteche, ma resta per intero il problema di capire in che modo, ad esempio, un ideale egualitario si possa tradurre in un determinato programma politico.

Un partito non è una creatura effimera se è in grado di proporre un proprio discorso pubblico, ossia un insieme di idee capaci di orientare e formare l’opinione pubblica, di farsi «senso comune», e di misurarsi efficacemente con altre idee. E il discorso pubblico di un partito si articola attraverso tre livelli, tra loro strettamente legati:

1 Il primo è quello che possiamo definire una «filosofia pubblica»: non un ideale, o un modello astratto della società futura, ma un insieme di idee e di schemi interpretativi sulla società presente, sui suoi conflitti, sui potenziali mutamenti. Un partito si radica e ha una funzione se riesce ad alimentare un dibattito politico e culturale che faccia emergere visioni alternative e diverse del «bene comune» o dell’«interesse generale», diversi sistemi di idee e di immagini della società e delle finalità del suo possibile sviluppo, a cui una comunità politica può ispirarsi.

2 Il secondo è quello che possiamo definire il «profilo programmatico», su grandi questioni e grandi aree di problemi: ad esempio, un’idea del welfare, dei suoi principi, di come concepire e orientare le sue finalità e la sua gestione.

3 Il terzo livello è quello delle «politiche», cioè delle specifiche proposte con cui si articolano una «filosofia pubblica» e un «programma».

Ebbene, il nuovo partito sarà in grado di dire qualcosa su ciascuno di questi livelli? Certo, è un compito di lunga lena, non si può essere troppo esigenti nell’immediato. E non bisogna cedere alla demagogia imperante della comunicazione facile: per rispondere adeguatamente occorrono studi, analisi, documenti anche ponderosi e faticosi. Occorre partire da un documento politico, articolato e ben strutturato, sulle cui singole tesi o formulazioni si possa discutere, nero su bianco, proporre modifiche, facendo anche emergere le differenze che certo si può facilmente prevedere esistano, ma che è bene circoscrivere dentro una cornice condivisa.

Ma, per questo, occorre predisporre subito le sedi in cui queste cose possano essere discusse e studiate. Ed anche per questo è necessario avere subito una qualche idea sulla forma del partito, cioè sul modo con cui il nuovo partito discute ed elabora «filosofie», «programmi» e «politiche»: non si può pensare che queste idee possono essere partorite da uno stato maggiore più o meno illuminato. Possono essere solo il frutto di una mobilitazione diffusa di idee, reti intellettuali, competenze ed esperienze. E la responsabilità dello «stato maggiore», da questo punto di vista, è decisiva: nel consentire, favorire e organizzare questa mobilitazione.
Ripresentiamo un testo su Pietro Ingrao scritto per questo sito il 6 aprile 2005. Già allora eravamo nella fase in cui molti - troppi - faticavano a credere che la politica sia un'attività nobile.

eddyburg, 28 settembre 2015 (reprint)

Anche per me, come per molti che lo conoscono e ne hanno scritto, di Pietro Ingrao sembra esemplare soprattutto lo stile: il modo in cui esercita, e vive, il difficile mestiere del politico. Pensare a Ingrao significa pensare alla possibilità che la politica sia qualcosa di diverso - di profondamente e radicalmente diverso - dall’immagine corrente della politica (e dei politici) di oggi. Oggi, che la politica è diventata nel migliore dei casi politique politicienne (possiamo tradurre “la politica politicante”), nei peggiori, politica affaristica – e nella media, politica come personale affermazione sociale.

Pietro Ingrao significa politica come mestiere nobile. Politica aperta, perciò, su tre versanti.

Sul versante del forte radicamento a ideali di miglioramento delle condizioni della vita, materiale e morale, dell’umanità. Lavori per il tuo vicino, ma lavori insieme per il mandarino lontano del quale non ti è affatto indifferente la morte; lavori per l’uomo di oggi, e lavori per l’uomo di domani, dei “domani che cantano”. Pietro Ingrao è infatti comunista, e italiano. Di quei comunisti italiano che furono così profondamente diversi da moltissimi altri comunisti, e da moltissimi altri italiani, come Enrico Berlinguer orgogliosamente rivendicò. Di quelli che maturarono la propria coscienza morale, e fecero il loro apprendistato politico, negli anni della lotta clandestina, della Resistenza, della costruzione della democrazia in Italia.

Sul versante della capacità di parlare ai suoi simili, agli uomini e alle donne ai quali sa trasmettere, insieme alle idee, l’entusiasmo per esse, e su questa base l’impegno per la loro diffusione, per il loro trionfo. Sul versante, quindi, del dare mani e piedi alle idee. Ricordo un comizio con lui a Roma, Centocelle, nel 1966. Ero un giovane e sconosciuto candidato come indipendente per le comunali; per farmi conoscere mi facevano partecipare a qualche comizio con i compagni più amati: Giancarlo Pajetta, Giorgio Amendola, e lui, Ingrao. Ricordo il suo discorso, trascinante sugli ideali dell’internazionalismo e la solidarietà con i popoli oppressi; e ricordo come poi i compagni più giovani, alla fine, lo presero in spalla dal palco, lo portarono in trionfo mentre lui tentava di schivarsi.

E sul versante dell’analisi, dell’apprendimento, dell’ascolto. Anche qui, un altro ricordo. Nel 1969, alla vigilia del grande sciopero generale su quei medesimi temi, un convegno del PCI su casa, urbanistica, servizi, al Teatro Centrale a Roma, organizzato dal suo vice, il bravo Alarico Carrassi. Ero tra i relatori, Ingrao presiedeva; seduto ad un angolo del lungo tavolo sul podio prendeva diligentemente appunto di tutti gli interventi, su un grande quaderno formato protocollo. Le conclusioni furono assolutamente di merito, entrando in ciascuna delle questioni che erano state sollevate, delle proposte che erano state formulate, degli interventi che erano stati pronunciati. Il merito delle cose: al di là delle etichette, degli schieramenti, dello slogan facile, era questo che contava. Con la pazienza, l’attenzione ai linguaggi diversi da quelli a lui consueti, la capacità di ascoltare, di comprendere, di proporre una sintesi.

Si può essere d’accordo con lui o no, nelle singole scelte e posizioni (per esempio, non ero d’accordo con una certa sua resistenza alla linea di Berlinguer alla fine degli anni Settanta), ma è certamente un esempio per chiunque creda che la politica serve agli uomini, e perciò bisogna essere uomini compiuti per esercitare questo difficile mestiere: utile come pochi altri. (E aggiungo in limine: nel Partito comunista italiano un esempio, non un’eccezione).

Proviamo a metterci nei panni dei profughi e a ragionare con rigore e immaginazione; potremo finalmente comprendere quale potrebbe essere un futuro positivo per l'Europa. L'autore ci riesce. Il manifesto, 7 agosto 2015


Immaginate di essere uno dei profughi accatastati a Calais, all’ingresso dell’Eurotunnel, e che ogni notte cercate di attraversarlo infilandovi sotto il rimorchio di un camion, per venirne ogni volta respinti. Oppure un migrante imboscato ai confini di Melilla in attesa di trovare il modo di scavalcare la rete che vi impedisce di entrare in Spagna. O un profugo siriano o afghano in marcia attraverso le strade secondarie della Serbia con quel che resta della sua famiglia che non sa ancora che ai confini con l’Ungheria troverà una rete a impedirgli di varcare il confine. O un eritreo imbarcato a forza, dopo mesi di attesa e violenze, nella stiva di una carretta del mare, che sa già che forse affonderà con quella, ma non ha altra scelta. O una donna aggrappata con i suoi figli agli scogli di Ventimiglia.

E’ un esercizio dell’immaginazione difficile e i risultati sono comunque parziali. Ma bisogna cercare lo stesso di farlo, perché “mettersi nei panni degli altri” serve sia a dare basi concrete a solidarietà e convivenza, sia a capire un po’ meglio dove va il mondo. Per lo stesso motivo è utile provare a immaginare che cosa passa nella testa (vuota) di uno come Dijsselblöm o in quella (troppo piena) di uno come Schäuble per cercare di “comprendere” meglio dove va l’Europa. Non che, in entrambi i casi, questo esercizio sia di per sé sufficiente; ma è anche vero che nelle cose di cui parliamo o scriviamo è troppo spesso assente questo risvolto, questo lavorìo dell’immaginazione.

La prima cosa che sapreste, mettendovi nei panni di quei profughi o di quei migranti (una differenza che da tempo esiste solo nella mente e nei discorsi abietti di uno come Salvini), è che nessuno vi vuole: non il paese da cui siete stati cacciati da guerre e miseria; non quello in cui vorreste arrivare, che vi respinge con crescente furore; non quello in cui siete temporaneamente in transito, che cerca solo di sbarazzarsi di voi. Per tutti loro, semplicemente, non dovreste esistere.

E’ una condizione che ormai riguarda, in Europa, decine di migliaia di persone, escluse dalla condizione di esseri umani. Qualcosa di più dell’apartheid. Sono sottouomini; persone per cui “non c’è posto” nel mondo; da eliminare. Il “come” non si è ancora deciso; o non si ha ancora il “coraggio” di deciderlo (quelli come Dijsselblöm o Schäuble per ora fingono, o forse sono convinti, di occuparsi d’altro). Ma nel Mediterraneo lo si lascia fare ai naufragi (la missione Triton, “sorvegliare le coste”, è stata concepita per questo): se ne lasciano affondare un po’ nella speranza (vana) che gli altri desistano: per doverne “salvare” di meno.

Ma non è una soluzione, come non lo è bombardare i barconi, portare la guerra in Libia o costruire altri muri e reticolati. Perché nessuno di loro può tornare – per ora; e per molti anni – da dove è scappato. Perché ai confini dell’Europa premono ormai almeno sei milioni di profughi (e domani saranno dieci e più: un intero popolo).

Sono il prodotto di guerre, occupazioni, devastazioni e contese per accaparrarsi risorse che l’Europa in parte ha promosso; in parte ha tollerato; e in parte se ne è resa complice, accodandosi a guerre volute o attizzate dagli Stati Uniti. Senza rendersi conto, però, che ormai la guerra, o uno stato di belligeranza continua prodotta dalla disgregazione di Stati che si voleva continuare a dominare, la circonda ormai da tutte le parti: a Est come lungo i confini del Mediterraneo. Se la Comunità, poi Unione, Europea era nata per porre fine alle guerre al proprio interno, le politiche adottate, insieme o separatamente, dai singoli Stati membri hanno ormai portato la guerra – o uno situazione che da un momento all’altro può sfociare o risfociare in guerra – ai suoi confini.

Una situazione così non può durare a lungo senza esplodere e l’ondata dei profughi, che non è destinata a finire, e che non si riesce a fermare, non ne è che la prima pesante avvisaglia. Anche se quelli come Dijsselblöm e Schäuble pensano che il futuro dell’Europa si decide solo saldando debiti che loro hanno creato.

Ma l’Europa non è solo quello di cui si occupano i suoi governanti; la lotta per scaricarsi a vicenda il “peso” di poche (finora) decine di migliaia di profughi divide tra loro gli Stati membri ben più della paura di subire domani il castigo inflitto oggi alla Grecia: che invece, finora, ha solo compattato i rispettivi Governi. Certo, il modo in cui la Grecia viene “aiutata” dall’Europa toglie non poco appeal a quel “aiutiamoli a casa loro” con cui, da Salvini alla Merkel, si crede, o si fa credere, di potersi sbarazzare del problema dei profughi.

Invece, mai come ora la situazione dell’Europa mette all’ordine del giorno il problema della pace. L’Europa sopravviverà, cambiando pelle anche sulle questioni di ordine interno, se saprà impegnarsi a cercare una soluzione a tutte quelle guerre; o ad aiutare gli interessati a trovarla.

Ma chi sono gli “interessati”? Prendiamo il caso della Siria: tutto è cominciato con una guerra di bande per impadronirsi di una rivolta popolare contro il regime dispotico di Assad: l’ultima delle “primavere arabe”. Ne è nato l’Isis, a lungo alimentato da quelli che ora sostengono di combatterlo, o fingono di farlo. E ha ridisegnato tutto il quadro del Medio Oriente, dalla Turchia alla Libia, passando, per ora, per Iraq e Yemen, fino a coinvolgere la Nigeria e altri paesi subsahariani.

Ma si potrà mai arrivare a una pace in Siria affidandola alle potenze che oggi se ne disputano il destino? Non c’è un’entità diversa dalle organizzazioni fantoccio come il Consiglio nazionale siriano o la Coalizione nazionale siriana - completamente controllati dai Governi che li hanno creati e li finanziano - a cui possano fare riferimento tutti coloro che, dentro e fuori il paese, vorrebbero la fine del massacro a cui sono esposti?

Quell’entità in realtà c’è; o, meglio, potrebbe esserci: sono i profughi siriani che hanno raggiunto l’Europa, o che cercheranno di raggiungerla domani, se solo nei loro confronti venisse adottata una politica di vera accoglienza; se gli si offrisse, in tutti i paesi dell’Europa, un posto e una condizione che ne legittimasse la presenza; che permettesse loro di organizzarsi e di far sentire la loro voce; di valorizzare i legami che mantengono o possono riallacciare con le famiglie e le comunità dei luoghi da cui sono fuggiti; di darsi una rappresentanza e sedere al tavolo delle trattative. E così per tutti quei contingenti in fuga da paesi in condizioni analoghe: Kurdistan, Iraq, Eritrea, Somalia, Sudan, Afghanistan, Nigeria e chissà quanti altri.

Certo, nell’immediato, non sarebbe una mossa risolutiva. Ma, “mettendosi nei loro panni”, sarebbe sicuramente una base per ricostruire una prospettiva di pace e un programma di rinascita delle loro comunità nazionali e delle loro terre, per restituire a tutti i loro connazionali l’idea di un’alternativa allo stato di cose presente. Una prospettiva che uscirebbe rafforzata garantendo dignità e diritti alle centinaia di migliaia di loro connazionali sfruttati come schiavi nei paesi europei.

L’Europa di domani, se ancora ci sarà come attore sullo scacchiere geopolitico globale, è questa: una comunità che abbraccia, idealmente e concretamente, tutti coloro che hanno cercato, che cercano e che cercheranno ancora nell’approdo alle sue coste o ai suoi confini una alternativa allo stato di caos dei paesi da cui sono fuggiti. Nessuno è “più Europa” di loro, che l’hanno cercata e inseguita con tanto impegno, mettendo a rischio la propria vita, la propria integrità fisica, il proprio futuro. Nessuno è più portatore di pace di coloro che fuggono le guerre anche a costo della propria vita. Nessuno minaccia l’integralismo su cui è stata costruita l’identità dello Stato islamico e dei suoi emuli, quanto le donne di questo popolo di fuggiaschi, se messe in condizioni di liberarsi dal gioco patriarcale sotto il quale le risospingono le discriminazioni a cui sono sottoposte nei nostri paesi.

E’ questa l’alternativa senza la quale l’intero edificio del pax europea, premessa e promessa dell’Europa disegnata a Ventotene, rischia di essere travolto. Ed è anche l’unica vera alternativa alla imminente frantumazione dell’Unione Europea perseguita dai Dijsselblöm e Schäuble.

Cambiare il mondo non è facile. «La sfida più grande: come fare procedere le cose dopo la fine della prima fase di entusiasmo, come fare il prossimo passo senza soccombere alla catastrofe della tentazione “totalitaria”. In breve, come superare Mandela senza diventare Mugabe».

Prima le persone online, 31 agosto 2015

Il filosofo italiano Giorgio Agamben ha detto in un’intervista che “il pensiero è il coraggio della disperazione” - un’intuizione pertinente in modo particolare al nostro momento storico, quando di solito anche la diagnosi più pessimista tende a finire con un cenno ottimista a qualche versione della proverbiale luce alla fine del tunnel.

Il vero coraggio non sta nell’immaginare un’alternativa, ma nell’accettare le conseguenze del fatto che un’alternativa chiaramente discernibile non c’è: il sogno di un’alternativa indica codardia teorica, funziona come un feticcio, che ci evita di pensare fino in fondo l’impasse delle nostre situazioni di difficoltà. In breve, il vero coraggio consiste nell’ammettere che la luce alla fine del tunnel è molto probabilmente il faro di un altro treno che ci si avvicina dalla direzione opposta. Del bisogno di un tale coraggio non c’è migliore esempio della Grecia, oggi.
La doppia inversione
della crisi greca
La doppia inversione a U imboccata dalla crisi greca nel luglio 2015 non può che apparire come un passo, non solo dalla tragedia alla farsa, ma, come ha notato Stathis Kouvelakis sulla rivista Jacobin, da una tragedia piena di ribaltamenti comici direttamente a un teatro dell’assurdo - c’è forse un altro modo di caratterizzare questo straordinario ribaltamento di un estremo nel suo opposto, che potrebbe abbacinare perfino il più speculativo tra i filosofi hegeliani? Stanca dei negoziati senza fine con i dirigenti UE, in cui si susseguiva un’umiliazione dopo l’altra, Syriza ha indetto un referendum per domenica 5 luglio, chiedendo al popolo greco di sostenere o rifiutare la proposta UE di nuove misure di austerità. Sebbene lo stesso governo avesse affermato chiaramente che sosteneva il No, il risultato è stata una sorpresa: una schiacciante maggioranza di più del 61 % ha votato No al ricatto europeo.
Hanno cominciato a circolare voci secondo cui il risultato - di vittoria per il governo - sarebbe stata una cattiva sorpresa per lo stesso Alexis Tsipras, che segretamente sperava che il governo perdesse, così che una sconfitta gli avrebbe permesso di salvare la faccia nell’arrendersi alle richieste UE (“rispettiamo la voce degli elettori”). Comunque sia, letteralmente il mattino dopo, Tsipras ha annunciato che la Grecia era pronta a riprendere i negoziati, e, giorni dopo, la Grecia ha accettato una proposta UE che era sostanzialmente la stessa che gli elettori avevano respinto (anche più dura in alcuni dettagli) - in breve, ha agito come se il governo avesse perso, e non vinto, al referendum.
Come ha scritto Kouvelakis:
«Com’è possibile che un devastante No alle politiche di austerità del memorandum sia interpretato come un semaforo verde per un nuovo memorandum? […] il senso dell’assurdo non deriva solo da questo inaspettato ribaltamento. Risalta soprattutto il fatto che tutto ciò si svolge davanti ai nostri occhi come niente fosse accaduto, come se il referendum fosse stato qualcosa come un’allucinazione collettiva che si interrompe improvvisamente, lasciandoci liberi di continuare quello che stavamo facendo prima. Ma dato che non siamo diventati tutti dei mangiatori di loto, facciamo almeno un breve riassunto di quel che è accaduto in questi ultimi giorni. […] Fin da lunedì mattina, prima ancora che i festeggiamenti per la vittoria terminassero di spegnersi nelle piazze del paese, è cominciato il teatro dell’assurdo. […]
«Il pubblico, ancora annebbiato dalla gioia di domenica, assisteva mentre i rappresentanti del 62 % di sottomettevano al 38 % all’indomani di una sonante vittoria per la democrazia e la sovranità popolare. […] Ma il referendum si è tenuto. Non è stata un’allucinazione da cui ora ciascuno è riemerso. Al contrario, l’allucinazione è il tentativo di degradarlo a un temporaneo ‘sfiatare il vapore per abbassare la tensione’, prima di riprendere la discesa verso un terzo memorandum».
E le cose hanno continuato a procedere in questa direzione. La sera del 10 luglio il parlamento greco ha conferito ad Alexis Tsipras l’autorità di negoziare un nuovo salvataggio per 250 voti contro 32, ma 15 parlamentari della maggioranza non hanno sostenuto il piano, il che significa che ha ottenuto più sostegno dai partiti dell’opposizione che dal proprio. Giorni dopo, la segreteria politica di Syriza, dominata dalla sinistra del partito, ha stabilito che le ultime proposte UE sono “assurde” ed “eccedono i limiti di sopportazione della società greca” - estremismo di sinistra?
Ma lo stesso FMI (in questo caso una voce di capitalismo minimamente razionale) ha detto esattamente la stessa cosa: uno studio del FMI, pubblicato il giorno prima, mostra che la Grecia ha bisogno di un alleggerimento del debito molto maggiore di quanto i governi europei abbiano voluto prendere in considerazione finora - i paesi europei dovrebbero concedere alla Grecia una moratoria di 30 anni prima di cominciare a pagare tutti i suoi debiti europei, inclusi nuovi prestiti, e di una sostanziale estensione temporale del periodo di pagamento…
Non meraviglia che lo stesso Tsipras abbia espresso pubblicamente i suoi dubbi riguardo al piano di salvataggio: «Non crediamo nelle misure che ci sono state imposte», ha detto in un’intervista alla TV, mettendo in chiaro che le sostiene per pura disperazione, per evitare un collasso totale economico e finanziario. Gli eurocrati usano queste confessioni con una perfidia da togliere il fiato: ora che il governo greco ha accettato le loro dure condizioni, mettono in dubbio la sincerità e la serietà del suo impegno. Come può Tsipras lottare davvero per attuare un programma in cui non crede?
Come può il governo greco essere realmente impegnato in un accordo che si oppone all’esito del referendum?
Comunque, prese di posizione come quella del FMI mostrano che il vero problema risiede altrove: crede davvero l’UE nel proprio piano di salvataggio? Crede davvero che le misure brutalmente imposte metteranno in moto la crescita economica e quindi permetteranno il pagamento dei debiti? O, invece, la motivazione ultima della brutale pressione estorsiva sulla Grecia non è puramente economica (dato che, in termini economici, è palesemente irrazionale), ma politico-ideologica — ovvero, come ha detto Paul Krugman sul New York Times, «la sostanziale resa non è sufficiente per la Germania, che vuole un cambiamento di regime e l’umiliazione totale — c’è una fazione importante che vuole solo buttar fuori la Grecia, e per la quale sarebbe più o meno benvenuto uno stato fallito, a far da monito per gli altri».
Si deve sempre tener presente quale tipo di orrore Syriza rappresenti per l’establishment europeo - un conservatore polacco, membro del parlamento europeo, si è perfino appellato direttamente all’esercito greco, invocando un colpo di stato per salvare il paese.
Perché questo orrore? Ai greci viene ora chiesto di pagare un alto prezzo, ma non per una realistica prospettiva di crescita. Il prezzo che viene chiesto loro di pagare è finalizzato a continuare la fantasticheria “estendi e fingi” [extend and pretend]. Viene chiesto loro di incrementare ulteriormente la loro attuale sofferenza al fine di sostenere il sogno di qualcun altro - degli eurocrati. Gilles Deleuze disse, decadi fa: «si vous etez pris dans le reve de l’autre, vous etez foutus» (“Se siete catturati nel sogno di un altro, siete fottuti”), e questa è la situazione in cui si trova ora la Grecia. Ai greci non viene chiesto di ingoiare molte pillole amare per un piano realistico di ripresa economica, viene chiesto loro di soffrire affinché altri possano continuare indisturbati a sognare il proprio sogno.
Chi ha bisogno ora di risvegliarsi non è la Grecia, ma l’Europa. Chiunque non sia perso in questo sogno sa cosa ci attende se il piano di salvataggio verrà messo in atto: altri 90 miliardi circa saranno gettati nel cestino greco, incrementando il debito greco a circa 400 miliardi di euro (e la maggior parte di quei miliardi tornerà velocemente in Europa Occidentale - il vero salvataggio è il salvataggio delle banche tedesche e francesi, non della Grecia), e ci possiamo aspettare che la stessa crisi esploda di nuovo tra un paio d’anni.
Ma è davvero fallimentare il risultato?
Ma è davvero fallimentare un tale risultato? A un livello immediato, se si confronta il piano con le sue conseguenze effettive, evidentemente sì. A un livello più profondo, però, non si può evitare il sospetto che il vero obiettivo non sia quello di dare una possibilità alla Grecia, ma di trasformarla in un semi-stato economicamente colonizzato, mantenuto in condizioni permanenti di povertà e dipendenza come avvertimento per gli altri. Ma a un livello ancora più profondo, troviamo di nuovo un fallimento - non della Grecia, ma dell’Europa stessa, dell’anima emancipatrice dell’eredità europea.
Il No al referendum è stato indubbiamente un grande atto etico-politico: contro una ben coordinata propaganda nemica che ha diffuso paure e bugie, senza una chiara prospettiva di quello che sarebbe accaduto dopo, contro tutte le probabilità “realistiche”, il popolo greco ha eroicamente rifiutato la pressione brutale dell’UE. Il No greco è stato un autentico gesto di libertà e di autonomia, ma certo la grande questione è cosa accade il giorno dopo, quando dobbiamo ritornare dalla negazione estatica agli sporchi affari quotidiani — e qui un’altra unità è emersa, l’unità delle forze “pragmatiche” (Syriza e i grandi partiti di opposizione) contro la sinistra di Syriza e Alba Dorata. Ma questo implica che la lunga lotta di Syriza è stata vana e che il No al referendum è stato solo un gesto sentimentale vuoto, destinato a rendere più dura la capitolazione?
Ciò che è realmente catastrofico, della crisi greca, è che nel momento in cui la scelta si è presentata come la scelta tra la “Grexit” e la capitolazione nei confronti di Bruxelles, la battaglia era ormai persa. Entrambi i termini di questa scelta si collocano all’interno della visione eurocratica predominante (ricordiamoci che anche i più duri sostenitori tedeschi della linea anti-greca, come Wolfgang Schäuble, preferiscono la Grexit!).
Il governo di Syriza non stava lottando solo per ottenere un maggiore alleggerimento del debito e una maggiore quantità di denaro fresco all’interno delle stesse sostanziali coordinate, ma per il risveglio dell’Europa dal suo sonno dogmatico. In questo consiste l’autentica grandezza di Syriza: finché l’icona dell’agitazione popolare erano le proteste di piazza Syntagma (“Costituzione”), Syriza si è impegnata nello sforzo erculeo di attuare lo spostamento da sintagma a paradigma: nel lungo e paziente lavoro di tradurre l’energia della ribellione in misure concrete che avrebbero cambiato la vita quotidiana delle persone. Dobbiamo essere molto precisi su questo: il No del referendum greco non era un No alla “austerità” nel senso di sacrifici necessari e duro lavoro, ma un No al sogno UE di continuare semplicemente con il business as usual.
L’ex-ministro delle finanze del paese, Yanis Varoufakis, ha messo ripetutamente in chiaro questo punto: non un altro prestito, ma un traino sostanziale, necessario per dare all’economia greca una possibilità di riprendersi. Il primo passo in questa direzione dovrebbe essere un aumento della trasparenza democratica dei nostri meccanismi di potere. I nostri apparati di stato democraticamente eletti sono sempre più duplicati [di fatto sostituiti] da una spessa rete di “accordi” e di organismi “esperti” non eletti che detengono il reale potere economico (e militare). Ecco il racconto da parte di Varoufakis di un momento straordinario nelle sue trattative con il negoziatore UE Jeroen Dijsselbloem:
«C’è stato un momento in cui il Presidente dell’Eurogruppo ha deciso di agire contro di noi e di fatto chiuderci fuori, e ha fatto sapere che la Grecia era essenzialmente sul punto di uscire dall’Eurozona. […] Esiste una prassi per cui i comunicati devono essere unanimi, e il Presidente non può semplicemente indire una riunione dell’Eurozona escludendo uno stato membro. E lui ha detto: ‘Oh, sono certo che posso farlo’. Quindi io ho richiesto un parere legale. Questo ha creato una certa agitazione.
«Per circa 5-10 minuti la riunione si è interrotta, impiegati e funzionari parlavano l’uno con l’altro e ai loro telefoni; infine un funzionario, un esperto legale, si è rivolto a me è mi ha detto le seguenti parole: "Beh, l’Eurogruppo non esiste per legge, non c’è un trattato che ha istituito questo gruppo". Quindi la situazione è quella di un gruppo inesistente che ha il più grande potere nel determinare le vite degli europei. Non deve render conto a nessuno, dato che non esiste per legge; non si tengono verbali; e [quel che viene detto] è confidenziale. Quindi mai nessun cittadino può arrivare a sapere quel che viene detto all’interno… Ci sono decisioni quasi di vita e di morte, e nessun membro deve render conto a nessuno».
L'Unione europea:
Una tirannide come quella della Cina
Suona familiare? Sì, a chiunque conosca come funziona oggi il potere cinese, da quando Deng Xiaoping ha messo in atto un sistema duale unico: l’apparato dello Stato e il sistema legale sono duplicati [di fatto sostituiti] da istituzioni del Partito che sono letteralmente illegali - ovvero, come ha detto sinteticamente He Weifang, un professore di legge di Pechino: «Come organizzazione, il Partito si trova all’esterno e sopra la legge. Dovrebbe avere un’identità legale, in altre parole: una personalità giuridica che sia possibile citare in giudizio, ma non è nemmeno registrato come organizzazione. Il Partito esiste completamente al di fuori del sistema legale»(Richard McGregor, The Party, London: Allen Lane 2010, p. 22). È come se, nelle parole di McGregor, la violenza fondatrice dello Stato rimanga presente, incarnata in un’organizzazione che ha uno status legale non definito:

«Sembrerebbe difficile nascondere un’organizzazione così grande come il Partito Comunista Cinese, ma questo coltiva con gran cura il suo ruolo dietro le quinte. Il personale di controllo dei dipartimenti del grande partito e i media mantengono volutamente un basso profilo pubblico. I comitati del partito (noti come ‘piccoli gruppi guida’) che indirizzano e dettano le politiche ai ministeri, che a loro volta hanno il compito di eseguirle, lavorano non visti, dietro le quinte. Nei media controllati dallo Stato si fa raramente riferimento alla composizione di tutti questi comitati e in molti casi perfino alla loro esistenza, men che meno alla discussione su come arrivano alle decisioni».

Non ci si meraviglia che a Varoufakis sia capitata la stessa cosa che a quel dissidente cinese, il quale, qualche anno fa, portò in tribunale il Partito Comunista Cinese, accusandolo di essere colpevole del massacro di Tienanmen. Dopo qualche mese, egli ottenne una risposta dal ministero della giustizia: non potevano dar corso al procedimento della sua accusa dato che non esiste alcuna organizzazione denominata “Partito Comunista Cinese” ufficialmente registrata in Cina.
Ed è cruciale notare come come la facciata di questa non-trasparenza del potere sia quella di un falso umanitarismo: dopo la sconfitta greca arriva, evidentemente, il tempo delle preoccupazioni umanitarie. Jean-Claude Juncker ha immediatamente affermato in un’intervista che era molto felice dell’accordo di salvataggio perché avrebbe immediatamente alleviato la sofferenza del popolo greco, che gli stava molto a cuore. Scenario classico: dopo il giro di vite, la preoccupazione umanitaria e l’aiuto…fino a posporre i pagamenti del debito.
Cosa si dovrebbe fare in una situazione così disperata? Si deve in particolare resistere alla tentazione di una Grexit come grande gesto eroico, di rifiuto di ulteriori umiliazioni e di uscita — verso dove? Verso quale nuovo ordine positivo staremmo entrando? L’opzione Grexit appare come il “reale-impossibile”, ovvero come qualcosa che porterebbe a un’immediata disintegrazione sociale. Krugman scrive: «Tsipras evidentemente si è fatto convincere, tempo fa, che un’uscita dall’euro fosse completamente impossibile. Sembra che Syriza non avesse nemmeno fatto una pianificazione di contingenza per una valuta parallela (spero di scoprire che non è vero). Questo l’ha messa in una posizione negoziale senza speranza».
Il punto sollevato da Krugman è che la Grexit è anche un “impossibile-reale”, che può avvenire con conseguenze impredicibili e che, proprio per questo, può essere rischiata. “Tutte queste ‘teste sagge’ che dicono che la Grexit è impossibile, che porterebbe a un’implosione completa, non sanno di che parlano. Quando dico questo, non intendo dire che abbiano necessariamente torto — io credo che ce l’abbiano, ma chiunque abbia delle certezze su questo inganna se stesso. Quello che invece voglio dire è che nessuno ha alcuna esperienza di ciò che stiamo considerando”.
Mentre in linea di principio questo è vero, ci sono tuttavia troppe indicazioni che un’uscita improvvisa della Grecia oggi porterebbe a una totale catastrofe economica e sociale. Gli strateghi economici di Syriza sono consapevoli che un tale gesto provocherebbe un’immediata ulteriore caduta dello standard di vita di un ulteriore 30 % (almeno), portando la miseria a un nuovo insopportabile livello, con il rischio di rivolta popolare e perfino di dittatura militare.
La prospettiva di tali atti eroici è quindi una tentazione a cui resistere.
Lo sgretolamento dell'Europa
Ci sono poi dei richiami affinché Syriza ritorni alle sue proprie radici: Syriza non dovrebbe diventare solo un altro partito parlamentare al governo, il vero cambiamento può solo venire dalla base, dal popolo stesso, dalla sua auto-organizzazione, non dagli apparati dello Stato…un altro caso di atteggiamento vuoto, dato che elude il problema cruciale di come gestire la pressione internazionale a proposito del debito, ovvero, più in generale, di come esercitare il potere e guidare uno Stato. L’auto-organizzazione di base non può rimpiazzare lo Stato, e la questione è come riorganizzare l’apparato dello Stato per farlo funzionare diversamente.
Ciononostante, non basta dire che Syriza ha lottato eroicamente, mettendo alla prova il possibile — la lotta continua, è appena cominciata. Invece di indugiare sulle “contraddizioni” della politica di Syriza (dopo il trionfante No, si accetta proprio il programma respinto dal popolo), e di restare intrappolati nelle mutue recriminazioni su chi è il colpevole (è stata la maggioranza di Syriza a commettere un opportunistico “tradimento”, o è stata la sinistra irresponsabile nel preferire la Grexit), ci si dovrebbe invece concentrare su ciò che il nemico sta facendo: le “contraddizioni” di Syriza sono un’immagine speculare delle “contraddizioni” dell’establishment UE, che stanno gradualmente sgretolando le fondamenta stesse dell’Europa unita.
Con l’aspetto delle “contraddizioni” di Syriza, l’establishment UE si sta meramente vedendo restituire il proprio stesso messaggio nella sua vera forma. E questo è ciò che Syriza dovrebbe fare ora. Con spietato pragmatismo e freddo calcolo, dovrebbe sfruttare ogni minima crepa nell’armatura dell’avversario. Dovrebbe usare tutti coloro che resistono alla politica UE predominante, dai conservatori britannici all’Ukip nel Regno Unito. Dovrebbe flirtare senza vergogna con la Russia e con la Cina, giocando con l’idea di concedere un’isola alla Russia come base militare nel Mediterraneo, solo per provocare la strizza [scare the shit out] degli strateghi NATO. Per parafrasare Dostoevskij, ora che Dio-UE ha fallito, ogni cosa è permessa.
Quando sentiamo i lamenti a proposito del fatto che l’amministrazione UE ignora brutalmente la grave condizione del popolo greco nella sua ossessione di umiliare e soggiogare i greci, che nemmeno i paesi sud-europei come l’Italia e la Spagna hanno mostrato alcuna solidarietà con la Grecia, la nostra reazione dovrebbe essere la seguente: qual è la sorpresa in tutto ciò? Cosa si aspettavano, i critici? L’amministrazione UE sta semplicemente facendo ciò che ha sempre fatto. E c’è poi riprovazione per il fatto che la Grecia cerchi l’aiuto di Russia e Cina — come se non fosse la stessa Europa a spingere la Grecia in quella direzione con la sua pressione umiliante.
C’è poi chi sostiene che fenomeni come Syriza dimostrano come la tradizionale dicotomia destra/sinistra sia superata. Syriza in Grecia è considerata estrema sinistra e Marine le Pen in Francia estrema destra, ma questi due partiti hanno effettivamente molto in comune: entrambi lottano per la sovranità, contro le multinazionali. È perciò del tutto logico che nella stessa Grecia, Syriza si trovi un coalizione con un piccolo partito di destra pro-sovranità. Il 22 aprile 2015, François Hollande ha detto in TV che Marine le Pen oggi ricorda George Marchais (un leader comunista francese) negli anni ’70 — la stessa patriottica difesa della gente comune francese sfruttata dal capitale internazionale — non c’è meraviglia che Marine le Pen sostenga Syriza… una bizzarra posizione, questa, che non dice molto più del vecchio adagio liberale che anche il fascismo è un tipo di socialismo. Nel momento in cui prendiamo in considerazione l’argomento dei lavoratori migranti, questo parallelo va completamente in frantumi.
La contraddizione di fondo
di chi vuole rovesciare
un regime autoritario
Il problema vero è molto più fondamentale. La storia ricorrente della sinistra contemporanea è quella di un leader di partito eletto con entusiasmo universale e con la promessa di un “mondo nuovo” (Mandela, Lula) - poi, però, presto o tardi, di solito dopo un paio d’anni, tutti inciampano sul dilemma cruciale: osar interferire con il meccanismo capitalista, oppure “giocarsela” secondo le regole [play the game]? Se si va a disturbare il meccanismo, si ottiene una pronta “punizione” sotto forma di perturbazioni del mercato, caos economico, eccetera.
L’eroismo di Syriza è stato che, dopo aver vinto la battaglia politica democratica, ha rischiato un passo ulteriore nell’andare a perturbare il fluido corso del Capitale. La lezione della crisi greca è che il Capitale, sebbene si tratti in ultima analisi di una finzione simbolica, è il nostro Reale. Ciò vale a dire che le proteste e le rivolte di oggi sono sostenute dalla combinazione e sovrapposizione di diversi livelli, e questa combinazione rende conto della loro forza: lottano per la (“normale”, parlamentare) democrazia contro regimi autoritari; contro il razzismo e il sessismo, specialmente l’odio diretto contro migranti e rifugiati; per il welfare state contro il neoliberismo; contro la corruzione in politica e nell’economia (aziende che inquinano l’ambiente, eccetera); per le nuove forme di democrazia che oltrepassano i rituali multipartitici (partecipazione, eccetera); e, infine, mettono in questione il sistema capitalista globale in quanto tale, e provano a mantenere viva l’idea di una società non-capitalista. Due trappole devono qui essere evitate: sia il falso radicalismo (“quel che realmente conta è l’abolizione del capitalismo liberal-parlamentare, tutte le altre lotte sono secondarie”), sia il falso gradualismo (“ora lottiamo contro la dittatura militare e per la semplice democrazia, mettete da parte i vostri ideali socialisti, quelli verranno dopo - forse….”).
Quando ci dobbiamo occupare di una lotta specifica, la questione chiave è: il nostro impegno o disimpegno in essa come andrà a influenzare le altre lotte? La regola generale è che, quando una rivolta inizia contro un regime semi-democratico oppressivo, come è stato per il Medio Oriente nel 2011, è facile mobilitare grandi folle con slogan generici che non si possono caratterizzare altrimenti che come accattivanti per la folla [crowd pleasers] - per la democrazia, contro la corruzione, eccetera. Ma poi gradualmente ci si avvicina a scelte difficili: quando la nostra rivolta ha successo nel suo obiettivo diretto, arriviamo a realizzare che ciò che realmente ci opprimeva (la mancanza di libertà, le umiliazioni, la corruzione sociale, la mancanza di una prospettiva di vita decente) prende un nuovo aspetto. In Egitto, i protagonisti delle proteste sono riusciti a liberarsi dall’oppressivo regime di Mubarak, ma la corruzione è rimasta, e la prospettiva di una vita decente si è allontanata anche di più.
Dopo il rovesciamento di un regime autoritario, possono svanire le ultime vestigia della protezione patriarcale per i poveri, e la nuova libertà ottenuta viene de facto ridotta alla libertà di scegliersi ciascuno la propria forma di miseria: la maggioranza non solo rimane in povertà, ma — oltre il danno la beffa - si sente rispondere che, dato che ora sono liberi, sono responsabili della propria povertà. In tale situazione, dobbiamo ammettere che c’era fin dall’inizio un problema nell’obiettivo della lotta, che questo obiettivo non era abbastanza specifico - vale a dire che la democrazia politica standard può anche servire proprio come forma di non-libertà: la libertà politica può facilmente fornire la struttura legale per la schiavitù economica, con i non-privilegiati che “liberamente” vendono se stessi come schiavi. In breve, dobbiamo ammettere che ciò che inizialmente abbiamo considerato come un fallimento nella completa realizzazione di un nobile principio è in realtà un fallimento intrinseco al principio stesso - imparare questo passaggio dalla distorsione di una nozione, la sua realizzazione incompleta, alla distorsione immanente a detta nozione è il grandepasso della pedagogia politica.
L’ideologia dominante mobilita il suo intero arsenale per impedirci di arrivare a questa radicale conclusione.
Cominciano col dirci che la libertà democratica porta con sé la propria responsabilità, che si ottiene a un prezzo, che non siamo ancora maturi se ci aspettiamo troppo dalla democrazia. In questo modo, scaricano su di noi la colpa del nostro fallimento: in una società libera, così ci viene detto, tutti siamo capitalisti che investono sulle proprie vite, che decidono di metter più risorse nell’istruzione piuttosto che nel divertimento se vogliamo aver successo, eccetera.
A un livello politico più diretto, la politica estera USA ha elaborato una strategia dettagliata su come esercitare il controllo dei danni nel re-incanalare una sollevazione popolare all’interno di accettabili vincoli parlamentari-capitalisti - come fu fatto con successo in Sud Africa dopo la caduta del regime dell’apartheid, nelle Filippine dopo la caduta di Marcos, in Indonesia dopo la caduta di Suharto, eccetera.
Nella precisa congiuntura attuale, una politica radicale di emancipazione si trova di fronte alla sfida più grande: come fare procedere le cose dopo la fine della prima fase di entusiasmo, come fare il prossimo passo senza soccombere alla catastrofe della tentazione “totalitaria” - in breve, come superare Mandela senza diventare Mugabe.
Il coraggio della disperazione è a questo punto cruciale.
Pubblicato su Prima le persone da Ugo Sturlese. I sottotitoli sono di eddyburg.
«I giudici di Strasburgo hanno esplicitamente ricordato le loro precedenti decisioni sul riconoscimento delle unioni civili, sì che nessun potrà dirsi colto di sorpresa o invocare la necessità di un adeguato tempo di riflessione».

La Repubblica, 22 luglio 2015 (m.p.r.)

La decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo sui diritti da riconoscere alle unioni tra persone dello stesso sesso, che già suscita polemiche, era prevedibile per chi conosce la giurisprudenza di quella Corte, la sua evoluzione, le novità introdotte proprio in questa materia anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Interviene in un momento in cui la discussione si è fatta sempre più accesa dopo l’annuncio del Presidente del Consiglio di arrivare prima delle ferie parlamentari all’approvazione, almeno da parte di una delle Camere, di una legge in materia. Siamo di fronte ad un invito esplicito al legislatore italiano, con indicazioni importanti e che non possono essere trascurate.

I giudici di Strasburgo hanno esplicitamente ricordato le loro precedenti decisioni sul riconoscimento delle unioni civili, sì che nessun potrà dirsi colto di sorpresa o invocare la necessità di un adeguato tempo di riflessione. Su questo punto la sentenza è chiarissima. I silenzi del Governo, la totale disattenzione di fronte agli espliciti inviti rivolti nel 2010 dalla Corte costituzionale e nel 2012 dalla Corte di Cassazione, l’assoluta inazione del Parlamento hanno determinato una grave violazione del diritto alla tutela della vita privata e familiare, riconosciuto dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. E qui le parole dei giudici di Strasburgo si fanno sferzanti. L’assoluto disinteresse di Governo e Parlamento per il gran lavoro fatto dalla magistratura italiana ha finito con il rappresentare una sua inammissibile delegittimazione, compromettendo il rispetto e l’effettività delle decisioni giudiziarie (a proposito: la somma indifferenza di Governo e Parlamento per l’elezione di tre giudici della Corte costituzionale non è forse già diventata una forma di delegittimazione di questa fondamentale e scomoda istituzione di garanzia?).
La decisione della Corte non può essere facilmente aggirata, ed è bene ricordare che essa è stata presa all’unanimità. Si dice e si ribadisce che siamo di fronte a diritti dal cui effettivo riconoscimento dipendono l’identità, la dignità sociale, la vita stessa delle persone. In questi casi, la Corte lo sottolinea più volte, il margine di discrezionalità del legislatore è ristretto. Alle unioni stabili tra persone dello stesso sesso deve essere assicurato un riconoscimento effettivo attraverso una “solenne istituzione giuridica”, unioni civili riconosciute o partnerships registrate, che le sottraggano alla casualità e alla inaffidabilità che caratterizzano oggi la situazione italiana. L’esistenza non può essere affidata all’incertezza o a semplici patti privati o a regole limitate agli aspetti patrimoniali del rapporto. Siamo di fronte ad un “dovere positivo”, che lo Stato deve integralmente rispettare, soprattutto perché solo così può essere cancellata una inammissibile discriminazione, fondata com’è solo sull’orientamento sessuale.
Nelle argomentazioni dei giudici di Strasburgo si coglie una particolare attenzione per lo scarto crescente, e sempre più evidente, tra dinamiche della realtà sociale e immobilità del diritto. La Corte mette in evidenza che la maggioranza dei paesi aderenti al Consiglio d’Europa, 23 su 47, hanno già disciplinato in forme adeguate unioni tra le persone dello stesso segno, segno di una tendenza da considerare ormai irreversibile. Così l’inaccettabilità della situazione italiana diviene particolarmente evidente, il suo protrarsi nel tempo è giudicato inammissibile, e questo spiega anche la ragione per la quale alle coppie ricorrenti è stato riconosciuto il diritto ad un risarcimento del danno che dovrà essere pagato dallo Stato italiano.
Nella sentenza viene anche citato un sondaggio dal quale risulta che la maggioranza degli italiani è favorevole ad una legge che riconosca le unioni tra persone dello stesso sesso. Ma i tempi non sono propizi né alle discussioni ragionate, né alla consapevolezza della centralità del riconoscimento dei diritti fondamentali. Già si sono manifestate reazioni scomposte, con insolenze nei confronti dei giudici di Strasburgo che dimostrano l’assenza di una cultura delle garanzie. Non consideriamole manifestazioni folkloristiche, come troppe volte si è fatto in passato, favorendo così la regressione culturale e politica. Ma più preoccupanti devono essere considerati i tentativi di svuotare dall’interno la riforma in discussione al Senato, nei quali si riflette anche una rinnovata pretesa di valutare le leggi in primo luogo secondo la morale cattolica, e non alla luce dei diritti delle persone. La buona politica, se c’è ancora, può trovare in questa sentenza di Strasburgo un forte sostegno.
Il passo avanti, che la sentenza impone, è significativo. Ma non è destinato a chiudere definitivamente la questione. Dal mondo LGBT viene sempre più perentoria la richiesta di un riconoscimento anche alle coppie di persone dello stesso sesso del diritto a contrarre matrimonio. Di questo bisognerà discutere, soprattutto dopo la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che ha imboccato decisamente questa strada. La Corte di Strasburgo ci ha ricordato che qui la discrezionalità del legislatore nazionale è più larga, perché solo 9 nazioni su 47 hanno accettato questa linea. Ma si può prevedere che questi numeri cambieranno presto, sì che le corti dovranno prendere atto della crescita di questo consenso. E ai nostrani polemisti bisognerà pur ricordare che l’Italia ha firmato, e il Parlamento ha votato, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il cui articolo 9 ha cancellato il requisito della diversità di sesso per tutte le forme giuridiche di costruzione di una famiglia.

«“Aiu­tia­moli a casa loro”. Ma certo! Aiu­tia­moli a casa loro. Allora c’è un solo modo per farlo: espel­lere dall’Africa ogni inte­resse colonialista». Il manifesto, 22 luglio 2015 (m.p.r.)

Gli scorsi giorni hanno visto in Ita­lia l’asfittico ripe­tersi del ciclo mono­tono «emer­genza migranti», guerra fra poveri, stru­men­ta­liz­za­zioni delle destre, nella fat­ti­spe­cie, Lega, Casa Pound, Fra­telli d’Italia. Il ciclo ricalca uno schema che ha già dato ampie prove di sé nel corso di tutto il Novecento. Que­sto schema si nutre sem­pre dello stesso veleno: nega­ti­viz­za­zione e cri­mi­na­liz­za­zione dell’altro in quanto tale.

Que­sto risul­tato si ottiene attra­verso mec­ca­ni­smi reto­rici di fal­si­fi­ca­zione, di gene­ra­liz­za­zione, attra­verso la dila­ta­zione e la mani­po­la­zione stru­men­tale di dati sta­ti­stici, attra­verso la pro­pa­ga­zione di allarmi sociali, l’evocazione di paure irra­zio­nali e la con­trap­po­si­zione ance­strale fra il noi e il loro come anta­go­ni­smo fra il legit­timo e l’illegittimo, fra la tito­la­rità e la clan­de­sti­nità. Da que­sto schema è espunto lo sta­tuto uni­ver­sale di dignità dell’essere umano. La poli­tica sta all’interno di que­sto cir­cuito per­verso o per soprav­vi­vere alla pros­sima cosid­detta emer­genza o per paras­si­tare qual­che van­tag­gio elet­to­rale con la pre­tesa di ergersi a pala­dina degli autoc­toni asse­diati dagli invasori.

Coloro che per ori­gine ideale dovreb­bero opporsi allo squal­lido tran­tran della poli­ti­chetta come mestiere non hanno nes­suna auto­re­vo­lezza o cre­di­bi­lità per farlo, non sanno ergersi oltre lo sta­tus quo, oltre la rou­tine media­tica. Alzare lo sguardo signi­fica ricor­dare che solo quarant’anni fa, nelle terre del nord, gli «altri» erano i nostri cit­ta­dini meri­dio­nali, i ter­roni, ricor­dare che nel corso di cento anni (1870–1970) gli «altri» sono stati gli ita­liani, 30 milioni di emi­granti (molti clan­de­stini) nelle Ame­ri­che, in Europa e in Australia.

È neces­sa­rio ricor­dare che cit­ta­dini autoc­toni simili in tutto e per tutto a quelli che oggi nel Veneto e alle porte di Roma non vogliono nel loro quar­tiere un pugno di migranti afri­cani, allora, con la stessa atti­tu­dine intol­le­rante, non vole­vano gli ita­liani, li descri­ve­vano come peri­co­losi, spor­chi, vio­lenti, criminali.

Chi oggi vuole respin­gere i migranti è por­ta­tore della stessa pato­lo­gica men­ta­lità di chi allora calun­niava, insul­tava e voleva ricac­ciare in mare i nostri con­cit­ta­dini che non sfug­gi­vano alle guerre ma alla fame ende­mica, alla dispe­ra­zione sociale, alla man­canza di futuro.

Nell’alluvione di reto­rica e fal­sità che accom­pa­gnano il pen­siero rea­zio­na­rio sulla «que­stione migranti» emerge come apo­teosi del rag­giro lo slo­gan fru­sto e truf­fal­dino: «Aiu­tia­moli a casa loro». Ma certo! Aiu­tia­moli a casa loro. Allora c’è un solo modo per farlo: espel­lere dall’Africa ogni inte­resse colonialista.

Il colo­nia­li­smo è stato, al di là di ogni pos­si­bile dub­bio, il più vasto e per­du­rante cri­mine della sto­ria dell’umanità. Il primo e più effe­rato cri­mi­nale anche se non il solo è stato l’Occidente e, per nulla pen­tito per­si­ste. Il cri­mine è per­du­rante e pro­se­gue nel nostro tempo con le guerre «uma­ni­ta­rie» o pre­ven­tive, con l’azione delle mul­ti­na­zio­nali, con la sot­tra­zione delle risorse più pre­ziose ai legit­timi tito­lari, impe­di­sce la sovra­nità ali­men­tare, idrica, arraffa terre ed è in com­butta con i gover­nanti più cor­rotti e tiran­nici. Vediamo que­sti poli­ti­ca­stri da quat­tro soldi se sono capaci di aiu­tarli a casa loro. Vediamo sotto i nostri occhi come sono capaci di con­tra­stare la schia­viz­za­zione dei lavo­ra­tori stra­nieri nei nostri campi di pomo­dori e nei nostri frut­teti. Ma fra le deva­sta­zioni più imper­do­na­bili con le quali la men­ta­lità colo­nia­li­sta ha inqui­nato il rap­porto fra uomini di cul­ture diverse c’è la con­ce­zione dell’altro visto come minore, sot­to­met­ti­bile, diseguale.

Prima l’ideologia colo­nia­li­sta si è auto asse­gnata il com­pito di civi­liz­za­zione di altre cul­ture defi­nite uni­la­te­ral­mente come inci­vili, oggi che le con­se­guenze dell’infestazione colo­niale por­tano grandi flussi migra­tori verso l’Europa, l’altro diventa inde­si­de­ra­bile, minac­cioso, da respin­gere. Ovvia­mente colui che mag­gior­mente viene ostra­ciz­zato è il più povero, il più dispe­rato, men­tre, per con­fon­dere le acque, ci si mostra dispo­ni­bili ad acco­gliere colui che è prov­vi­sto di attri­buti accet­ta­bili. Il raz­zi­sta e lo xeno­fobo odierni non vogliono essere defi­niti come tali, fin­gono di risen­tirsi con­tro chi li apo­strofa con l’epiteto che danno mostra di rite­nere insultante.

Ma oggi il vero spar­tiac­que fra chi, diciamo, crede nella piena dignità ed inte­grità dell’essere umano e chi con varie­gate moti­va­zioni, non lo crede risiede nelle con­trap­po­ste con­ce­zioni dell’emigrazione. Per chi acco­glie in sé la dignità dell’altro come bene supremo, l’emigrazione è pro­getto di tra­sfor­ma­zione per la costru­zione di una società di giu­sti­zia e soli­da­rietà. Per coloro che non per­ce­pi­scono in sé l’accoglienza dell’altro come oriz­zonte verso cui met­tersi in cam­mino l’emigrazione è pro­blema, emer­genza, tur­ba­tiva, invasione.

Chi, indi­vi­duo, asso­cia­zione, par­tito o movi­mento sostiene la piena dignità dell’altro e prende sul serio la «Dichia­ra­zione uni­ver­sale dei diritti dell’uomo» ha il dovere di radi­ca­liz­zare la pro­pria pero­ra­zione chie­dendo subito, come da tempo sug­ge­ri­sce il sin­daco di Palermo Leo­luca Orlando, l’abolizione uni­ver­sale del per­messo di sog­giorno. Il cam­mino sarà certo lungo ma è tempo di ini­ziarlo con decisione.

Il testo di una nobile lettera, contro i respingimenti dei rifugiati alla frontiera con l’Italia, del principale sindacato dei ferrovieri francesi, scelta e tradotta da Maria Cristina Gibelli

Il principale sindacato dei ferrovieri francesi si ribella alla politica di respingimento dei rifugiati in atto alla frontiera con l’Italia e scrive una lettera al Presidente della SNCF (l’azienda nazionale delle ferrovie francesi), ricordando a lui, e quindi anche a Hollande e al ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve, che fra il 1942 e il 1944, durante il governo di Vichy, 76.000 ebrei francesi furono deportati nei campi di sterminio nazisti utilizzando i treni merci delle ferrovie dello stato; e ricordando altresì che molti furono gli episodi di eroismo dei ferrovieri in difesa dei deportati. Ieri si era costretti a viaggiare verso la morte, oggi si impedisce di viaggiare verso la vita (m.c.g.).

Signor Presidente,

la Federazione CGT dei ferrovieri le ha scritto per esprimere la sua ira quando lei è andato a presentare le sue scuse negli Stati Uniti presso le lobby americane a proposito del ruolo giocato dalle ferrovie francesi durante la seconda guerra mondiale. Abbiamo detto che certamente la SNCF ha partecipato al trasporto dei deportati verso i campi di concentramento per ordine del governo di Vichy, ma sarebbe stato opportuno ricordare anche quanti ferrovieri, in maggioranza militanti della CGT, sono stati uccisi, feriti o internati per aver opposto resistenza.

Il governo francese si è impegnato per un rimborso rilevante (a priori, 60 milioni di euro) nei confronti dei deportati ebrei, o dei loro discendenti residenti negli Stati Uniti. Fino ad allora, la direzione della Ferrovie dello stato si era difesa sulla base del principio della requisizione obbligatoria imposta dallo Stato francese in quel periodo oscuro della nostra storia. Ma non dimentichiamoci che dei ferrovieri sono stati mandati a morte per aver rifiutato di obbedire, altri hanno svolto questo ignobile compito sotto la minaccia delle armi, altri ancora hanno organizzato l’evasione dei deportati a rischio della loro vita e hanno ottenuto la qualifica di “Giusti”.

Oggi si stanno costituendo delle associazioni per portare aiuto ai migranti che arrivano dall’Africa o dal Medio Oriente. E anche in queste organizzazioni sono impegnati dei ferrovieri per lo più aderenti alla CGT. Queste donne, questi bambini, questi uomini, spesso giovani, fuggono la guerra, la carestia e la morte; vanno in esilio perché braccati in quanto oppositori politici di dittature.

Sappiamo tutti che la situazione catastrofica dalla quale fuggono i migranti ha la sua origine nel capitalismo mondializzato e nella avidità delle grandi multinazionali. Sappiamo tutti che le potenze economiche del “mondo dei ricchi”, per lo più occidentali, obbediscono ciecamente alle imprese transnazionali che commerciano con dittatori e oppressori. Anche la stessa SNCF non firma forse contratti con alcune monarchie del Golfo o con lo Stato di Israele malgrado la sorte che esso riserva al popolo palestinese violando le convenzioni dell’ONU?

Ecco perché, e con estrema urgenza, occorre accogliere questi migranti, garantire loro sicurezza, cura e asilo in Europa; perché anche noi francesi abbiamo delle responsabilità nei confronti della politica internazionale portata avanti dal nostro governo e da alcune imprese nazionali.

Contemporaneamente, apprendiamo che la stazione ferroviaria di Menton Garavan, alla frontiera italiana, funziona come un “parco dei migranti” controllato dalle forze dell’ordine, per organizzare il respingimento di questi poveretti. Apprendiamo che i dirigenti locali della SNCF si nascondono dietro le ordinanze della prefettura per mettere questo luogo sotto il controllo della polizia, tutto come 70 anni fa. Forse può apparire aneddotico, ma apprendiamo che queste persone sono in regola con la SNCF perché sono titolari di un biglietto ferroviario che non gli è neppure stato rimborsato, mentre il prezzo di un biglietto costituisce per loro un impegno enorme data la situazione di estrema precarietà.

Signor Presidente, fra qualche anno uno dei vostri successori andrà a presentare le sue scuse sul suolo africano? O il principio di requisizione verrà di nuovo utilizzato per coprire fatti ignobili? Vi poniamo solennemente questa domanda e vi chiediamo di porla ai signori Hollande, Valls e Cazeneuve, Fabius e Macron nei loro rispettivi ruoli.

Ci auguriamo che lei si ribelli e faccia rapidamente opposizione a queste procedure riprovevoli e che la nostra Società porti soccorso e assistenza ai migranti e dia loro il diritto di viaggiare, piuttosto che servire una politica europea e francese che non si assume le sue responsabilità e non trova risposte altro che la repressione e la chiusura delle frontiere.

In certi casi, la disobbedienza è un dovere.

L'immagine qui sotto rappresenta l'ingresso di bambini ebrei francesi ai vagoni piombati diretti verso i lager nazisti, in partenza dalle stazioni delle ferrovie francesi. Una storia che non si vorrebbe veder ripetere oggi, nel paese della Liberté, Egalité, Fraternité.

«Non votano più. Per­ché non solo vanno tro­vate parole che scal­dino il cuore e la mente, che dicano di mondi da cam­biare, di giu­sti­zia da riven­di­care, di lotte da soste­nere. Ser­vono volti che quelle parole, quei mondi, quelle lotte le ren­dano rico­no­sci­bili».

Il manifesto, 21 giugno 2015

Chi vota a sini­stra pre­fe­ri­sce di no. È il mes­sag­gio più chiaro che viene dalle urne, dopo la defi­ni­tiva e amara chiu­sura di una tor­nata elet­to­rale che ancora una volta cam­bia le carte in tavola della scena poli­tica italiana.

Un mes­sag­gio che va oltre il tra­collo del Pd, tra­va­lica la bal­danza della destra con la fac­cia feroce di Sal­vini e della Lega, il con­so­li­da­mento nei ter­ri­tori dei M5S, pro­iet­tati su una dimen­sione di governo. Pre­fe­ri­scono di no, gli elet­tori e le elet­trici di sini­stra. Pre­fe­ri­scono non votare, e se votano, allora scel­gono M5S. Almeno sem­bra utile.

È la fine non della sto­ria, ma di una sto­ria, pro­prio come se fosse una sto­ria d’amore. E come nella fine degli amori quello che si perde sono le parole, i luo­ghi, i riti. Quello che aveva un senso unico e spe­ciale, e bril­lava di una chia­rezza lumi­nosa di imme­diata com­pren­sione, d’improvviso si spe­gne, ritorna parola e luogo ano­nimo, indi­stin­gui­bile tra gli altri. Si scio­glie il legame strin­gente, sem­bra che nulla rie­sca più ad accen­dere la pas­sione. Riman­gono ricordi, memo­rie, a volte brevi fiammate.

Il lin­guag­gio amo­roso resti­tui­sce e chia­ri­sce più di altri, a me sem­bra, quanto avviene. E ben di più dell’uso indi­scri­mi­nato della cate­go­ria dell’antipolitica rende ragione della fine dell’avventura. Non siamo negli anni Novanta, e nep­pure nel primo decen­nio del Due­mila. Non è solo né prin­ci­pal­mente il ran­core, che tanto si è ana­liz­zato in pas­sato, il motore della nuova asten­sione e dei nuovi flussi di voto. Gli elet­tori e le elet­trici che hanno pre­fe­rito di no, in que­sta tor­nata elet­to­rale, quelli con radi­cate scelte di sini­stra, come già si era visto in Emi­lia Roma­gna lo hanno fatto per scelta poli­tica. Quasi un atto estremo, dispe­rato, forse, ma l’unico pos­si­bile. Per dire che non ci cre­dono più. Non cre­dono più all’insieme di sigle che a ogni com­pe­ti­zione elet­to­rale si pre­sen­tano a garan­tire con i loro richiami al pas­sato comune la con­ti­nuità di una sto­ria. Per­ché in realtà non garan­ti­scono nulla. Da tempo. Per­ché quella sto­ria non c’è più.

È un punto di non ritorno, in cui è essen­ziale la com­pren­sione di quanto avviene, nel gioco delle forze come nel dispie­garsi dei sen­ti­menti. Per que­sto non è il momento di rin­vii o indugi. Biso­gna but­tarsi nell’impresa, dove si è, come si è.

Non ci sono truc­chi, for­mule magi­che, auto­rità esterne che pos­sano garan­tire alcun­ché. È l’atto di corag­gio che il pre­sente richiede. Quale impresa? Entrare con molta atten­zione nello spa­zio vuoto che gli elet­tori hanno creato. Con l’atto netto, auto­re­vole e umile di aprire ora, adesso un pro­cesso costi­tuente, in un’assemblea entro luglio. Indetta da parte di chi c’è, ora, adesso: forze poli­ti­che, gruppi, asso­cia­zioni, chi si muove nell’area aperta alla sini­stra del Pd. Con la con­sa­pe­vo­lezza che il gesto – neces­sa­rio – non è per nulla suf­fi­ciente. Per que­sto, tra le virtù richie­ste, l’umiltà è indi­spen­sa­bile. L’impresa più dif­fi­cile è essere cre­di­bili e con­vin­centi, mostrare nelle pra­ti­che che non ci si muove in una logica pat­ti­zia, che non si tratta di mano­vre in vista di nuovi car­telli elet­to­rali, per esem­pio per le ele­zioni della pros­sima pri­ma­vera in comuni impor­tanti come Milano e Napoli. Insomma, occorre un passo indie­tro. Biso­gna agire il para­dosso attuale, oggi assu­mersi respon­sa­bi­lità poli­tica signi­fica fare spa­zio, allar­gare, aprire. Non solo per­ché gli elet­tori non per­do­nano, quindi una scelta adot­tata per neces­sità tat­tica. Ma per con­vin­zione intima, auten­tica. È la parte più difficile.

Per­ché non solo vanno tro­vate parole che scal­dino il cuore e la mente, che dicano di mondi da cam­biare, di giu­sti­zia da riven­di­care, di lotte da soste­nere. Ser­vono volti che quelle parole, quei mondi, quelle lotte le ren­dano rico­no­sci­bili. Come in un romanzo, o in un film, o in una serie tv, sono i per­so­naggi che danno gambe alla sto­ria che si rac­conta. Che la ren­dono vera e potente, viva nella mente di chi par­te­cipa. E visto che non scri­viamo un romanzo, ma par­liamo di vite, di dolori, di rab­bia reale, sono le lotte in corso, i pro­ta­go­ni­sti e le pro­ta­go­ni­ste sociali a inter­pre­tare que­sta storia.

Tutto il movi­mento intorno alla scuola, com­preso il som­mo­vi­mento intorno alla pre­tesa «ideo­lo­gia di genere», le lotte per la casa, la nuova atten­zione ai beni comuni, il lavoro sem­pre più sva­lo­riz­zato. Che qui, in Ita­lia, si fac­cia fatica a fare spa­zio alle donne, che pure esi­stono, attive e auto­re­voli, fa parte del pro­blema. Che sia così arduo creare una mobi­li­ta­zione con­vinta intorno alla tra­ge­dia della migra­zione dice fino a che punto sono logori i legami, i vin­coli, per­fino le scelte ideali. È tempo di un nuovo amore.

Non ho usato volu­ta­mente ter­mini come coa­li­zione sociale e coa­li­zione poli­tica, non ho par­lato d’altro. Ciò che importa è lo spa­zio che si apre, in que­ste azioni che non pos­sono che intrec­ciarsi. Da cui pos­sono pas­sare sog­getti, movi­menti, per­sone che da troppo tempo vivono altrove e altri­menti. Fino a quando si potrà dire: pre­fe­ri­sco di sì.

«Spiccava ieri sui cartelloni innalzati in piazza - la negazione di ogni distinzione tra i sessi e la volontà di indirizzare i bambini e i ragazzi verso l’omosessualità o la transessualità, quasi che l’orientamento sessuale sia esito di scelte intenzionali e possa essere orientato dall’educazione». La Repubblica, 21 giugno 2015 (m.p.r.)

Quale sarà il grave pericolo per i bambini che ieri ha fatto scendere in piazza decine di migliaia di persone al grido di “salviamo i nostri figli”?

A sentir loro è l’indistinzione dei sessi, che sarebbe la conseguenza sia di una educazione che insegni a maschi e femmine a rispettarsi reciprocamente e a non chiudersi (e non chiudere l’altra/o) in ruoli stereotipici e rigidi, sia del riconoscimento della omosessualità come un modo in cui può esprimersi la sessualità, della legittimità dei rapporti di amore e solidarietà tra persone dello stesso sesso e della loro capacità genitoriale. Stravolgendo le riflessioni di sociologhe/i, filosofe/ i, antropologhe/i, persino teologhe/i sul genere come costruzione storico-sociale che attribuisce ai due sessi capacità, destini (e poteri) diversi e spesso asimmetrici, attribuiscono ad una fantomatica “teoria del genere” e alla sua imposizione nelle scuole - e la parola gender spiccava ieri sui cartelloni innalzati in piazza - la negazione di ogni distinzione tra i sessi e la volontà di indirizzare i bambini e i ragazzi verso l’omosessualità o la transessualità, quasi che l’orientamento sessuale sia esito di scelte intenzionali e possa essere orientato dall’educazione.

Timore, per altro, paradossale e contraddittorio in chi pensa che solo l’eterosessualità sia lo stato di natura. Rifiutando di distinguere tra conformazione sessuata dei corpi, ruoli sociali, orientamento sessuale, considerano chi propone questa distinzione come un pericoloso sostenitore tout court dell’androginia indifferenziata. Timorosi della “normalità”, e dello stigma e del disgusto che l’accompagnano, sono a loro agio solo nella perfetta, e unidimensionale, sovrapposizione delle tre dimensioni, che non dia adito a dubbi, in cui ciascuno “ sta al proprio posto”, assegnato da una natura priva di varietà, storia, cultura, intenzioni.
Per questo ce l’hanno tanto con l’omosessualità e il riconoscimento delle coppie omosessuali, perché non vi vedono solo uomini e donne che sono attratti da e amano persone del proprio sesso pur sentendosi rispettivamente maschi e femmine, ma uomini e donne che sconfinano dal proprio sesso, che non ne riconoscono le regole, sul piano della sessualità, ma anche della identità, incrinando perciò l’ordine di un mondo in cui maschile e femminile sono nettamente separati e l’eterosessualità non è solo una forma di sessualità, ma una norma sociale che assegna a ciascuno i propri compiti e posto in base al sesso di appartenenza.
In agitazione continua contro ogni proposta di riconoscimento delle coppie dello stesso sesso, a prescindere dalla affettività e solidarietà che le lega non diversamente dalle coppie di sesso diverso (migliaia di emendamenti alla proposta di legge Cirinná), da qualche tempo hanno aperto un fronte anche nei confronti della scuola, dalla materna in su. Se la prendono con le iniziative che mirano a contrastare sia il bullismo omofobico sia la stereotipia di genere (due fenomeni distinti, anche se la seconda può favorire il primo) e ad aiutare i bambini e ragazzi a comprendere la varietà delle forme famigliari in cui di fatto vivono. Purtroppo, come a suo tempo per l’educazione sessuale di cui hanno con successo impedito avvenisse a scuola, hanno trovato ascolto presso il ministero dell’educazione e la ministra Giannini, che dopo la manifestazione di ieri sarà ancora più attenta alle pressioni di chi non vuole che si tocchino questi temi a scuola.
Resta da vedere che cosa ha da dire il presidente Renzi, se si farà impaurire anche lui, che si propone come un innovatore, rimandando ancora una volta il riconoscimento delle coppie dello stesso sesso e lasciando fuori dalla “buona scuola” quei temi che, se affrontati serenamente e con consapevole legittimità, aiuterebbero ad evitare molte paure e molte violenze.
«Una manifestazione così massiccia come si è vista ieri a Roma contro «l’ideologia

gender», ha fatto esplodere un sentimento covato da una parte consistente del mondo cattolico, ma senza input dall’alto, senza la mobilitazione partita dai pulpiti». Ne siamo proprio sicuri? Corriere della Sera, 21 giugno 2015 (m.p.r.)

Parte del mondo cattolico ha manifestato la sua disperazione culturale per un modo di vedere le cose, il demonizzato «gender», che sradica l’umanità da se stessa. È stata fornita un’immagine implicitamente polemica verso l’atteggiamento «accomodante» del Papa.

Stavolta il mondo laico non se la può prendere come al solito con le ingerenze vaticane, le intromissioni della Chiesa, il confessionalismo delle gerarchie. Una manifestazione così massiccia come si è vista ieri a Roma contro «l’ideologia gender», indicata come tirannica manipolazione della natura e degli stessi fondamenti umani della società, ha fatto esplodere un sentimento covato da una parte consistente del mondo cattolico, ma senza input dall’alto, senza la mobilitazione partita dai pulpiti. È l’antitesi di ciò che è accaduto in Irlanda con il referendum sui matrimoni gay. Lì, in assenza di una massiccia partecipazione dell’episcopato di Dublino, l’elettorato cattolico ha disobbedito esprimendosi a favore. Qui, nella città che è il luogo simbolico dove il Vicario di Cristo è anche il vescovo di Roma, le strade si sono riempite di cattolici che hanno manifestato la loro disperazione culturale per un modo di vedere le cose, il demonizzato «gender», che a loro avviso sradica l’umanità da se stessa.
È la prima volta che accade nell’era di papa Francesco. È la prima volta che il sesso, il genere, ciò che è uomo e ciò che è donna, l’atto stesso del congiungimento carnale da cui scaturisce la procreazione entra a pieno titolo nei «valori non negoziabili», in quella sfera di scelte che riguarda le questioni prime e ultime della vita e della morte. È la prima volta che la piazza viene mobilitata e riempita non semplicemente per quello che è chiamata «unione tra coppie dello stesso sesso», ma in una sfera di interrogativi che hanno a che fare con la cultura, la concezione del mondo, l’idea stessa della natura.
È un terreno su cui papa Francesco ha deciso di non intervenire con forza. Certo, non per rinunciare ai fondamenti della visione cristiana delle cose, ma per non esasperare la conflittualità con il mondo secolare. La chiesa «infermeria» di papa Francesco non vuole fare altri feriti, non vuole scavare trincee contro lo spirito del tempo, non vuole scatenare la guerra santa contro la deriva secolarista. La manifestazione di ieri invece sì. È stata l’espressione di un fronte del rifiuto che è più esteso di quanto i media non riescano a immaginare. È stata la rinascita di un movimento di guerra culturale contro la modernità che sembrava essersi spenta con il nuovo papato. Ecco l’altra differenza con movimenti come quello francese «Manif pour tous». In quel caso l’episcopato francese spinse l’acceleratore della protesta, sancì l’armonia tra un sentimento diffuso e le istituzioni preposte alla irreggimentazione del mondo cattolico. Qui a Roma si è visto il segno di uno scarto, di una sottile linea di frattura, di una insofferenza che le gerarchie ecclesiastiche difficilmente potranno ignorare. Questo è il vero segnale d’allarme per il mondo laico, o comunque per quella parte dell’opinione pubblica che ritiene indispensabile il riconoscimento delle tutele e del diritto per le coppie dello stesso sesso che vogliono unirsi civilmente, senza discriminazioni.
La guerra culturale era invece alla base dell’azione del cardinale Camillo Ruini quando dirigeva l’episcopato italiano. Lui la chiamava «progetto culturale» e voleva ribadire l’idea che il cristianesimo non dovesse essere solo vissuto nel chiuso delle coscienze, nella dimensione privata, ma imponesse i suoi valori culturali nell’arena pubblica. La battaglia sui «valori non negoziabili» aveva questa base: la guerra sull’aborto, sulla fecondazione assistita, sulla difesa dell’embrione, sul rifiuto dell’eutanasia. Tutti temi che toccavano direttamente la sfera della vita e della morte, o meglio dell’intervento umano sull’origine della vita e sulla sua fine, la protesta contro una tecnoscienza che voleva prendere con prepotenza il posto del Creatore nella determinazione della vita e della morte.
Ma l’azione di Ruini aveva direttamente l’appoggio di due Pontefici: Giovanni Paolo II (che già all’inizio degli anni Ottanta assecondò la mobilitazione cattolica nel referendum poi perso, sull’aborto) e poi papa Ratzinger.
Oggi è tutto diverso. Una parte del mondo cattolico fa da sé, riempie le piazze senza un comando ecclesiastico, fornendo un’immagine di sé implicitamente polemica nei confronti dell’atteggiamento «accomodante» di papa Bergoglio. E lo fa su un tema, quello del «gender», che oramai nella sensibilità del mondo moderno, e di una parte stessa dell’universo cattolico come è accaduto in Irlanda, è stato assimilato senza più traumi e crisi di rigetto. L’idea che su una visione filosofica del mondo, considerata però essenziale per l’integrità della fede, il mondo cattolico manifesti come ieri una sensibilità esasperata e risentita, è una novità che tutti noi stentavano a considerare così sentita e centrale. Nel cattolicesimo italiano si è aperta una spaccatura profonda che arriva dritta al cuore delle istituzioni ecclesiastiche. La manifestazione antigender è insieme uno spauracchio e un avvertimento. La fonte di un nuovo, imprevisto conflitto. Il mondo laico non può dormire sonni tranquilli.
«Con que­sta enci­clica il gioco di far finta di non capire non sarà più pos­si­bile. Biso­gnerà stare o dalla parte di Fran­ce­sco o con­tro di lui, per­ché sta chie­dendo una scelta. E que­sto vale non solo per i poli­tici, per gli opi­nio­ni­sti, per i gior­nali, vale anche per i vescovi, per i car­di­nali. E vale anche per i sem­plici fedeli».

Il manifesto, 19 giugno 2015 (m.p.r.)

C’è un debito estero dei Paesi poveri che non viene con­do­nato, e anzi si è tra­sfor­mato in uno stru­mento di con­trollo mediante cui i Paesi ric­chi con­ti­nuano a depre­dare e a tenere sotto scacco i Paesi impo­ve­riti, dice il papa (e la Gre­cia è lì a testi­mo­niare per lui). Ma il “debito eco­lo­gico” che il Nord ricco e dis­si­pa­tore ha con­tratto nel tempo e soprat­tutto negli ultimi due secoli nei con­fronti del Sud che è stato spo­gliato, nei con­fronti dei poveri cui è negata per­fino l’acqua per bere e nei con­fronti dell’intero pia­neta avviato sem­pre più rapi­da­mente al disa­stro eco­lo­gico, all’inabissamento delle città costiere, alla deva­sta­zione delle bio­di­ver­sità, non viene pagato, dice il papa (e non c’è Troika o Euro­zona o Banca Mon­diale che muova un dito per esigerlo).

La denun­cia del papa («il mio appello», dice Fran­ce­sco) non è gene­rica e rituale, come quella di una certa eco­lo­gia “super­fi­ciale ed appa­rente” che si limita a dram­ma­tiz­zare alcuni segni visi­bili di inqui­na­mento e di degrado e magari si lan­cia nei nuovi affari dell’economia “verde”, ma è estre­ma­mente cir­co­stan­ziata e pre­cisa: essa arriva a lamen­tare che la deser­ti­fi­ca­zione delle terre del Sud cau­sata dal vec­chio colo­nia­li­smo e dalle nuove mul­ti­na­zio­nali, pro­vo­cando migra­zioni di ani­mali e vege­tali neces­sari al nutri­mento, costringe all’esodo anche le popo­la­zioni ivi resi­denti; e que­sti migranti, in quanto vit­time non di per­se­cu­zioni e guerre ma di una mise­ria aggra­vata dal degrado ambien­tale, non sono rico­no­sciuti e accolti come rifu­giati, ma sbat­tuti sugli sco­gli di Ven­ti­mi­glia o al di là di muri che il mondo anche da poco appro­dato al pri­vi­le­gio si affretta ad alzare, come sta facendo l’Ungheria. L’«appello» del papa giunge poi fino ad accu­sare che lo sfrut­ta­mento delle risorse dei Paesi colo­niz­zati o abu­sati è stato tale che dalle loro miniere d’oro e di rame sono state pre­le­vate le ric­chezze e in cam­bio si è lasciato loro l’inquinamento da mer­cu­rio e da dios­sido di zolfo ser­viti per l’estrazione.

Que­sta enci­clica rap­pre­senta un salto di qua­lità nella rifles­sione sull’ambiente, si potrebbe dire che apre una seconda fase nella ela­bo­ra­zione del discorso eco­lo­gico, così come accadde nel costi­tu­zio­na­li­smo quando dalla prima gene­ra­zione dei diritti, quelli rela­tivi alle libertà civili e poli­ti­che, si passò alla con­si­de­ra­zione dei diritti di seconda e terza gene­ra­zione, sociali, eco­no­mici, ambien­tali, e cam­biò il con­cetto stesso di democrazia.

Ora il discorso della giu­sti­zia sociale e della con­di­zione dei poveri, a cui nei Paesi del Sud «l’accesso alla pro­prietà dei beni e delle risorse per sod­di­sfare le pro­prie neces­sità vitali è vie­tato da un sistema di rap­porti com­mer­ciali e di pro­prietà strut­tu­ral­mente per­versi», viene intro­dotto orga­ni­ca­mente da papa Fran­ce­sco nella que­stione eco­lo­gica, sic­ché essa non riguarda più sem­pli­ce­mente l’ambiente fisico, il suolo, l’aria, l’acqua, le fore­ste, le altre spe­cie viventi, ma assume la vita e il destino di tutti gli esseri umani sulla terra, diventa un’«ecologia inte­grale», a cui è dedi­cato l’intero capi­tolo quarto dell’enciclica: «Non ci sono due crisi sepa­rate, una ambien­tale e un’altra sociale, bensì una sola e com­plessa crisi socio-ambientale», dice il papa; e la prima cosa da sapere, come dicono i vescovi boli­viani ma anche molte altre Chiese, è che i primi a essere col­piti da «quello che sta suc­ce­dendo alla nostra casa comune» sono i poveri. E il salto di qua­lità è anche nel rigore dell’analisi, nella cura con cui ven­gono ricer­cate tutte le con­nes­sioni tra i diversi feno­meni ed eco­si­stemi, e anche nell’onestà con cui si dice che non tutto pos­siamo sapere, che la scienza deve fare ancora un grande cam­mino, e che non si può pre­su­mere di pre­ve­dere gli svi­luppi futuri, sic­ché il prin­ci­pio di pre­cau­zione diventa un obbligo di sag­gezza e di rispetto per l’umanità di domani, con­tro l’ideologia della ricerca imme­diata del pro­fitto e dell’egoismo realizzato.

Si può capire allora come con que­sta enci­clica che comin­cia con un can­tico di san Fran­ce­sco e fini­sce con una pre­ghiera in forma di poe­sia, l’idillio del mondo ricco con papa Fran­ce­sco sia finito. «Tocca i cuori di quanti cer­cano solo van­taggi a spese dei poveri e della terra», dice il papa nella sua pre­ghiera. «Non occu­parti di poli­tica, per­ché l’ambiente è poli­tica», gli dicono i ric­chi. E men­tre da un lato quello che negli Stati Uniti non si fa chia­mare Bush per ripren­dersi in fami­glia il governo dell’America dice che non si farà det­tare la sua agenda dal papa, dall’altro quello che da noi pub­blica sulle sue felpe mes­saggi di raz­zi­smo e di guerra dice che non c’è pro­prio di che essere per­do­nati per le porte chiuse in fac­cia ai pro­fu­ghi e tutti i «clan­de­stini» vor­rebbe met­terli a Santa Marta.

«Que­sto papa piace troppo» diceva la destra più zelante, allar­mata al vedere masse intere di per­sone in tutto il mondo affa­sci­nate da un pen­siero diverso dal pen­siero unico. Però si faceva finta di niente, spe­rando che la gente non capisse. Il papa diceva che l’attuale sistema non ha volto e fini vera­mente umani, e sta­vano zitti. Diceva che que­sta eco­no­mia uccide, e sta­vano zitti. Diceva che l’attuale società, in cui il denaro governa (Marx diceva «il capi­tale») è fon­data sull’esclusione e lo scarto di milioni di per­sone, e sta­vano zitti. Diceva ai poli­tici che erano cor­rotti, e sta­vano zitti. Diceva ai disoc­cu­pati di lot­tare per il lavoro e ai poveri di lot­tare con­tro l’ingiustizia, e face­vano il Jobs Act.

Ma con que­sta enci­clica il gioco di far finta di non capire non sarà più pos­si­bile. Biso­gnerà stare o dalla parte di Fran­ce­sco o con­tro di lui, per­ché non sta facendo una pre­dica, sta chie­dendo una scelta. E que­sto vale non solo per i poli­tici, per gli opi­nio­ni­sti, per i gior­nali, vale anche per i vescovi, per i car­di­nali. E vale anche per i sem­plici fedeli per­ché, scrive Fran­ce­sco «dob­biamo rico­no­scere che alcuni cri­stiani impe­gnati e dediti alla pre­ghiera, con il pre­te­sto del rea­li­smo e della prag­ma­ti­cità, spesso si fanno beffe delle pre­oc­cu­pa­zioni per l’ambiente».

Quello che infatti da Fran­ce­sco è posto davanti al mondo è il pro­blema vero: «il grido della terra» è anche il «grido dei poveri», ma nel monito che si leva dai poveri per­ché la loro vita non vada per­duta, c’è un monito che riguarda tutti, per­ché senza un rime­dio, senza un cam­bia­mento, senza un’assunzione di respon­sa­bi­lità uni­ver­sale la vita di tutti sarà perduta.

Ed è per que­sto che l’enciclica di papa Fran­ce­sco è rivolta a «ogni per­sona che abita que­sto pia­neta»: non ai cat­to­lici, e nem­meno agli «uomini di buona volontà», come faceva la «Pacem in ter­ris» di Gio­vanni XXIII, in cui si poteva sospet­tare ancora un resi­duo di esclu­sione, nei con­fronti di qual­cuno che even­tual­mente fosse di volontà non buona. Qui papa Fran­ce­sco abbrac­cia vera­mente tutti (come ne sono figura essen­zia­lis­sima per il cri­stiano le brac­cia di Cri­sto aperte sulla croce) e si pone non come capo di una Chiesa, e nem­meno come pro­feta dei cre­denti, ma come padre della intera uma­nità. Per­ché il mes­sag­gio è il seguente: non que­sta o quella Potenza o Isti­tu­zione, non que­sto o quello Stato, non quel par­tito o movi­mento, ma solo l’unità umana, solo la intera fami­glia umana giu­ri­di­ca­mente costi­tuita e agente come sog­getto poli­tico può pren­dere in mano la terra e assi­cu­rarne la vita per l’attuale e le pros­sime generazioni.

«Con la morte della discus­sione poli­tica è morta per asfis­sia anche la mente col­let­tiva, come sog­getto cri­tico». L'accettazione dello slogan della politica come cosa sporca e l'indifferenza nei coinfronti del genocidio dei profughi dalla misera e dalla guerra sono due facce della stessa medaglia.

Il manifesto, 14 giugno 2015
Qual­che giorno fa sul Cor­riere della sera è apparso un arti­colo che si inter­ro­gava sulle radici della cor­ru­zione dila­gante in Ita­lia. Gio­vanni Belar­delli invi­tava a con­si­de­rare le fina­lità per­se­guite da uomini poli­tici «spinti in via esclu­siva da mise­ra­bili aspi­ra­zioni di arric­chi­mento per­so­nale» e pun­tava il dito sulla sca­dente qua­lità di una classe diri­gente «priva di ogni aspi­ra­zione od obiet­tivo di natura poli­tica, come non era invece nella Prima Repub­blica». L’ascesa di una razza padrona del tutto indif­fe­rente alle sorti della cosa pub­blica era indi­cata tra le cause prin­ci­pali del ver­mi­naio sco­per­chiato ogni giorno dalle cro­na­che politico-giudiziarie.

In que­sto argo­mento c’è indub­bia­mente del vero, ma è pro­ba­bile che esso vada svi­lup­pato sino a coin­vol­gere gli stessi corpi sociali. Forse il tra­monto della poli­tica aiuta a com­pren­dere un feno­meno tra i più allar­manti: che il paese con­vive paci­fi­ca­mente con quella cloaca a cielo aperto che in molti ter­ri­tori (a comin­ciare dalla capi­tale) e in tanti gan­gli dello Stato cen­trale ha di fatto sosti­tuito le isti­tu­zioni della poli­tica e dell’amministrazione pub­blica. Certo non tutti appa­iono cini­ca­mente indif­fe­renti. Ma anche la rea­zione anti­po­li­tica con­verge nella pas­si­vità, tra­dendo un radi­cale disin­canto. La poli­tica appare ai più una «cosa sporca» con la quale il paese è costretto a con­vi­vere. Se pen­siamo al trauma che fu, venti e rotti anni fa, la sco­perta di Tan­gen­to­poli, non c’è para­gone. Non solo la piaga della cor­ru­zione è oggi ben più vasta e infetta. Non c’è nep­pure l’ombra dell’indignazione che allora scosse l’opinione pubblica.

Il fatto è che se non c’è più la poli­tica – il con­fronto tra cul­ture, modelli di società, pro­getti, con­ce­zioni diverse dei valori e dei fini della con­vi­venza civile – suben­tra il natu­ra­li­smo. Ci si iden­ti­fica imme­dia­ta­mente con l’esistente senza nem­meno imma­gi­nare la pos­si­bi­lità di un’alternativa. Magari si mugu­gna e si pro­te­sta, cia­scuno nel suo pic­colo. Ma intanto, forse incon­sa­pe­vol­mente, ci si ras­se­gna, per­ché così va il mondo. Il tra­monto della poli­tica è la morte della cri­tica, o nel silen­zio del risen­ti­mento o nelle grida della depre­ca­zione fine a se stessa.

Tutto ciò aiuta a spie­gare anche un’altra vicenda scon­vol­gente all’ordine del giorno: la rispo­sta ver­go­gnosa, inau­dita delle lea­der­ship euro­pee (a comin­ciare dai prin­ci­pali paesi dell’Unione) alla dram­ma­tica emer­genza uma­ni­ta­ria costi­tuita dall’arrivo in massa dei pro­fu­ghi dall’Africa. Che i Came­ron, i Mer­kel, gli Hol­lande e i Rajoy, per non par­lare dei com­mis­sari euro­pei e degli altri capi di Stato e di governo, non siano dei giganti, non c’è dub­bio. Ma biso­gna rico­no­scere che essi non mil­lan­tano affer­mando che, ove deci­des­sero di coin­vol­gere i pro­pri paesi in que­sta tra­ge­dia, rischie­reb­bero di per­dere buona parte del con­senso di cui ancora godono, e fareb­bero per di più il gioco degli impren­di­tori poli­tici del raz­zi­smo, del nazio­na­li­smo e della xenofobia.

Piac­cia o meno, si tratta di un timore fon­dato e ciò dà la misura della gra­vità del pro­blema con il quale si tratta di fare i conti. La fuga in massa dalla guerra, dal ter­rore, dalla mise­ria e dalla fame non si arre­sterà. L’Europa rimarrà a lungo per decine di milioni di per­sone una meta irri­nun­cia­bile. Il diritto di chi chiede asilo non è nego­zia­bile, ma l’ipotesi di un’immigrazione illi­mi­tata non è rea­li­stica e il rischio di una rea­zione di stampo raz­zi­sta e fasci­stoide in gran parte dei paesi euro­pei appare con­creto. Si può discu­tere fin che si vuole sulle respon­sa­bi­lità di que­sto stato di cose. Chia­mare in causa chi nell’ultimo quarto di secolo ha con­tri­buito a sca­te­nare una guerra dopo l’altra tra Corno d’Africa e Asia cen­trale, pas­sando per l’Iraq, i Bal­cani, la Libia e la Siria. Denun­ciare l’insipienza delle élite poli­ti­che euro­pee che hanno sem­pre sot­to­va­lu­tato il pro­blema, illu­den­dosi di gover­narlo con misure di tam­po­na­mento. Resta che oggi nes­suno sa come risol­verlo senza vio­lare i diritti dei migranti e al tempo stesso evi­tando in Europa ter­re­moti sociali e poli­tici che potreb­bero resu­sci­tare gli spet­tri più inquie­tanti del nostro passato.

L’Europa si è illusa di essersi libe­rata dal far­dello della pro­pria sto­ria dopo la Seconda guerra mon­diale. In realtà le ceneri dalle quali è rinata non con­te­ne­vano sol­tanto la coscienza demo­cra­tica e l’universalismo, l’illuminismo e la cul­tura dei diritti indi­vi­duali e sociali, ma anche il colo­nia­li­smo, il raz­zi­smo e la xeno­fo­bia, il nazio­na­li­smo e il comu­ni­ta­ri­smo. Nella ten­sione tra que­ste com­po­nenti dell’identità euro­pea la rivo­lu­zione neo­li­be­rale ha influito in modo deci­sivo. Non gover­nati, gli spi­riti ani­mali hanno impo­sto un fine indi­scu­ti­bile nell’impiego delle enormi risorse mate­riali e umane dispo­ni­bili nel Vec­chio con­ti­nente. Hanno decre­tato il ridursi della poli­tica ad ammi­ni­stra­zione, asser­ven­dola alla sovra­nità del capi­tale pri­vato. Come mostra da ultimo la guerra della troika con­tro la Gre­cia, hanno cri­mi­na­liz­zato e messo al bando il con­fronto cri­tico sui valori, i cri­teri di giu­di­zio e i modelli sociali. Ma l’avvento della post­de­mo­cra­zia tec­no­cra­tica ha com­por­tato un prezzo ele­va­tis­simo in ter­mini di con­sa­pe­vo­lezza e di respon­sa­bi­lità – di qua­lità etica – delle popolazioni.

Con la morte della discus­sione poli­tica è morta per asfis­sia anche la mente col­let­tiva, come sog­getto cri­tico. Le società euro­pee rista­gnano ormai da decenni in una morta gora e nei corpi sociali, ter­ro­riz­zati dalla crisi e con­se­gnati alla ripe­ti­zione di un eterno pre­sente, dila­gano le ansie e il ran­core, e ferve una ricerca mal orien­tata di sicu­rezza. Ci si rin­chiude cia­scuno nel pro­prio micro­mondo pri­vato. Il fuori inquieta, l’importante è non esserne sfio­rati. A chi comanda – non importa se inca­pace o cor­rotto – non si chiede che di essere lasciati in pace. Ma così non solo la cor­ru­zione stra­ripa, non solo l’umana pietà dile­gua. Rischia di tor­nare anche la rimossa fasci­na­zione di un’Europa fatta di caste e gerar­chie e di comu­nità chiuse agli stra­nieri e ai diversi.

«Un forte richiamo a non dimenticare il senso della parola "politica" e a comprendere qual'è il focus di una nuova sinistra: a upe­rare le con­trad­di­zioni che divi­dono le sini­stre non può che essere la lotta con­tro l’incarnazione attuale del capi­ta­li­smo, il neo­li­be­ri­smo

». Il manifesto, 2 aprile 2015
Dalla pole­mica aperta su che cosa dovesse essere la “coa­li­zione sociale” e che cosa non dovesse essere o diven­tare è emersa una que­stione che è di fondo. Nien­te­meno che quella di … che cosa sia la poli­tica, fin dove si estenda, chi debba farla e chi no. Ed è scon­for­tante che sul signi­fi­cato, la por­tata, il deno­tato del ter­mine la sini­stra si possa dividere.

Scon­for­tante per­ché rivela che si è lasciata per­va­dere da una grossa misti­fi­ca­zione Quella che rita­glia la poli­tica, la spezza, ne recinge l’estensione, il campo, ne limita l’oggetto per ride­fi­nire il sog­getto. E, con­se­guen­te­mente, ne sce­glie i con­te­nuti defi­nen­doli leciti e li separa da quelli che con­danna come ille­citi, per poi det­tare le forme attra­verso cui solo la poli­tica può dispie­garsi, sele­zio­nando in tal modo gli attori. Li divide, li separa, e, sepa­ran­doli, fra­ziona insieme l’oggetto e il sog­getto della poli­tica. Sog­getto ed oggetto che da Ari­sto­tele a Gram­sci cento volte è mutato nei modi di con­fi­gu­rarsi, mai nella sua essenza di plu­ra­lità umana acco­mu­nata da una sto­ria e da un destino. La cui com­po­si­zione ed il modo come si con­fi­gura è l’oggetto della poli­tica così come il suo sog­getto. È chi, con chi e per chi e come gesti­sce, ripro­duce o modi­fica la con­fi­gu­ra­zione di tale oggetto.

Sap­piamo che dire sog­getto e oggetto della poli­tica è lo stesso che dire forma di stato e di governo. Sap­piamo anche che da due secoli almeno la sog­get­ti­vità della poli­tica ha var­cato le soglie che la rin­chiu­de­vano negli ambienti pros­simi ai troni e non è più pre­ro­ga­tiva esclu­siva dei re, dei loro mini­stri e cor­ti­giani, dei “con­si­gli delle corone”. La bor­ghe­sia se ne impa­dronì ma fu poi costretta ad accet­tare che que­sta sog­get­ti­vità si esten­desse, in modo più o meno ampio, fino a com­pren­dere tutti i desti­na­tari delle scelte che la poli­tica avrebbe potuto compiere.
Esten­sione che poteva però essere vir­tuosa o truf­fal­dina, quanto a forma, quanto cioè a sua reale e leale cor­ri­spon­denza all’universo dei sog­getti. Quell’universo che, nel defi­nire il suf­fra­gio, ne com­prende la com­po­si­zione. Com­po­si­zione che è plu­rale sì, ma di una plu­ra­lità arti­co­lata, se reale, effet­tiva, auten­tica, e per­ciò rive­la­trice delle dif­fe­renze, le tante dif­fe­renze, da quella di classe, a tutte le altre rile­vanti in una società com­plessa. Meno una sola, quella indi­vi­duale. Per­ché è quella che disar­ti­cola la sog­get­ti­vità, la smi­nuzza, per neu­tra­liz­zarla, liqui­darla, dissolverla.

Smi­nuz­zata, neu­tra­liz­zata, liqui­data e dis­solta è oggi la sog­get­ti­vità popo­lare in Ita­lia. Le leggi elet­to­rali vigenti da venti anni (e con esse quella che Renzi sta impo­nendo all’Italia) non sol­tanto hanno distorto la rap­pre­sen­tanza, hanno dis­solto il “rap­pre­sen­tato”. La tra­sfor­ma­zione è stata duplice. Da stru­mento di espres­sione dei biso­gni, delle aspet­ta­tive, dei pro­getti di vita delle donne e degli uomini, la rap­pre­sen­tanza è stata con­ver­tita in dispo­si­tivo di appro­pria­zione del potere di governo per uno uomo solo. Ne è deri­vata irri­me­dia­bil­mente la disper­sione del rap­pre­sen­tato e la sua con­danna alla soli­tu­dine nel subire o il ricatto nelle fab­bri­che, o la degra­da­zione nel pre­ca­riato, o la dispe­ra­zione nella disoc­cu­pa­zione permanente.

La soli­tu­dine ha pro­dotto la rot­tura del legame sociale. Il ricatto ha neu­tra­liz­zato l’istanza a riven­di­care nel luogo di lavoro con­di­zioni di dignità. La degra­da­zione e la dispe­ra­zione hanno gene­rato o ras­se­gna­zione e rinun­zia a lot­tare per una pro­spet­tiva di uscita dallo sta­dio di depres­sione o con­cor­renza tra i degra­dati e i dispe­rati nell’offrire forza-lavoro al prezzo più basso.

È que­sto lo sta­dio di regres­sione della con­di­zione umana in Ita­lia. Si sa che a deter­mi­narla con­tri­bui­sce enor­me­mente l’Europa della sovra­nità dei mer­cati. Ma è dal sog­getto della poli­tica e per­ciò della demo­cra­zia che biso­gna par­tire rico­struen­dolo nella sua auten­ti­cità plu­rale e rifon­dan­dolo alla base della società come tito­lare di una rap­pre­sen­tanza che si imponga nel quo­ti­diano della poli­tica, rap­pre­sen­tan­dosi dove si decide. Ad unire, a supe­rare le con­trad­di­zioni che divi­dono le sini­stre non può che essere la lotta con­tro l’incarnazione attuale del capi­ta­li­smo, il neo­li­be­ri­smo, domi­nante in Europa ed attuato in Ita­lia. Il com­pito, la ragion d’essere della coa­li­zione sociale dovrebbe essere pro­prio que­sto, la rifon­da­zione nella società del sog­getto che si oppone al capi­ta­li­smo neo­li­be­ri­sta e lo sfida

«E sarà stri­dente ascol­tare, dopo que­sta vicenda, le reto­ri­che invo­ca­zioni sull’Europa di pace e pro­spe­rità. Anche que­sta è una guerra. Con vit­time umane». Non una guerra, un suicidio collettivo.

Il manifesto, 13 marzo 2015

«Gliela faremo pagare». In que­sta frase che le cro­na­che sull’ultima riu­nione dell’Eurogruppo ci riman­dano c’è tutto il caso greco. Al di là di ogni que­stione di merito, è evi­dente che a Bru­xel­les si sta gio­cando una par­tita poli­tica di mas­sima impor­tanza e che ci riguarda: biso­gna punire chi, per la prima volta in 58 anni di sto­ria, ha osato sfi­dare i ver­tici dell’Unione euro­pea e ha messo in discus­sione i cri­teri di con­du­zione di quella che dovrebbe essere una comu­nità. Que­sto è quel che conta: non deve più acca­dere, chi ci ha pro­vato deve essere punito. Guai se si aprisse un varco alla poli­tica. Cioè alla condivisione.

Per­ciò il signor Jeroen Dijs­se­bloem ha alzato il ditino per dire no, sette riforme non ci bastano, ne vogliamo venti. La pros­sima volta diranno 25, chissà. Con­tro Varou­fa­kis ci sono dicias­sette robot che con­ti­nuano a chie­dere al governo Tsi­pras, forte di un appog­gio popo­lare senza pre­ce­denti, di pagare per le male­fatte accu­mu­late da chi sarà pur greco, ma è com­pa­gno di par­tito, e di casta, pro­prio di chi vor­rebbe impar­tire lezioni di mora­lità: i mini­stri del governo Sama­ras. Pro­prio nelle stesse ore in cui que­sta scena andava in onda uno di loro, anzi il più impor­tante per­ché l’ex mini­stro delle Finanze, Gikas Har­dou­ve­lis, veniva accu­sato di aver espor­tato ille­gal­mente 450 mila euro in un para­diso fiscale inglese. «Volevo met­tere al sicuro il capi­tale per i miei figli», si è scu­sato. Poveretto.

Non sono pas­sati nep­pure due mesi da quando ine­diti per­so­naggi, diver­sis­simi da chi da sem­pre aveva coman­dato il paese, hanno preso le redini della Gre­cia, tro­van­dosi a dover gestire un immane disa­stro eco­no­mico e ormai uma­ni­ta­rio. Ma la mera­vi­gliosa Europa non è dispo­ni­bile a dar­gli tempo affin­ché pos­sano ripa­rare e riav­viare lo svi­luppo del paese, nono­stante sem­pre più nume­rosi siano gli avver­ti­menti di eco­no­mi­sti euro­pei ed ame­ri­cani, che invi­tano Bru­xel­les a ragio­nare anzi­ché ad emet­tere editti imperiali.

La par­tita in atto è duris­sima. Del resto sape­vamo che così sarebbe stato. Ma è stato fon­da­men­tale avere accet­tato la sfida. Per la Gre­cia e per tutti noi che vor­remmo un’altra Europa. Final­mente la grande que­stione di cosa voglia dire essere una comu­nità, che è cosa diversa da un mer­cato, è stata posta sul tap­peto. Non si potrà più nascon­derla sotto. E sarà stri­dente ascol­tare, dopo que­sta vicenda, ripe­tere le reto­ri­che invo­ca­zioni sull’Europa che ha por­tato pace e pro­spe­rità. Anche que­sta in corso è una guerra. Con le sue vit­time umane.

Ci sono per­ples­sità, e anche cri­ti­che per come Varou­fa­kis e Tsi­pras hanno con­dotto le cose? Sì, certo. Pro­ve­nienti dal loro stesso par­tito e Con­si­glio dei mini­stri. È com­pren­si­bile. Credo però che esse siano ingiu­ste. Si tratta di una guerra di lunga durata, non di una rapida e con­clu­siva bat­ta­glia, desti­nata a cono­scere arre­tra­menti e passi in avanti, per molti versi una vera guer­ri­glia. Ma biso­gna tenere i nervi saldi: i risul­tati non pos­sono esser misu­rati nell’immediato, è già una vit­to­ria aver impo­sto un nuovo discorso, aver aperto con­trad­di­zioni (che nono­stante l’apparente unità del fronte di Bru­xel­les già emer­gono), aver forse, anche que­sto per la prima volta, ani­mato un movi­mento popo­lare dav­vero euro­peo in soli­da­rietà con Syriza, su un tema che riguarda tutti. È già molto. Ha dato corag­gio a tutti. Per que­sto rin­gra­ziamo i com­pa­gni di Syriza e li invi­tiamo a continuare.

«». Fondazione Critica Liberale, 1 marzo 2015


Parafrasando il noto motto dell’avv. Agnelli: “solo un governo di sinistra può fare cose di destra”, si potrebbe dire “solo un partito antiberlusconiano può attuare un programma berlusconiano”. E’ il caso dell’attuale Pd.

Riforme istituzionali, art. 18, responsabilità civile dei magistrati, e altro che è ancora allo stato di studio e delle bozze (vedi Rai), o di cui ancora non si parla, sono tutte norme che facevano parte del programma del cavaliere di Arcore. Idee di cui Berlusconi discorreva e deliberava con le ospiti delle serate bunga–bunga e che poi pretendeva che il Parlamento ratificasse.

Anche se posso sembrare grillino, che non sono, penso che poco a poco stia venendo fuori che le polemiche che ogni tanto Forza Italia fa con il governo è pura manfrina e che, come ho già scritto, se Renzi fa il “bravo” e attua il “programma”, il padrone di quel partito è disposto anche a sacrificare la sua creatura consentendo un travaso di voti al nuovo Pd.

L’attuale capo del governo e segretario del Pd dà sempre più l’impressione di essere etero diretto, di attuare un programma per conto di qualcuno, non sembra che porti avanti idee proprie, anche perché non so se sarebbe all’altezza di elaborarle.

Egli, e il suo principale antagonista attuale Salvini, sono cresciuti e si sono formati nell’epoca d’oro della Tv spazzatura. Se non erro, i giornali hanno riportato che entrambi hanno partecipato a quei programmi presi in giro da Arbore, dove rispondendo a domande come “quanto fa due più due” si potevano vincere milioni (“E’ così che si fanno i milioni, evviva le televisioni”, faceva cantare al coro il presentatore pugliese).

Berlusconi, grazie a quel tipo di Tv, ha costruito il suo impero economico e politico; poi, stanco, ha fatto andare avanti i suoi discepoli. Per chi ha avuto come mentore quella televisione, l’importante è avere sempre lo slogan giusto a portata di mano, tanto chi lo segue non andrà mai ad aprire un libro per documentarsi da sé, non andrà mai a verificare di persona se certe affermazioni corrispondono al vero, basta che la frase sintetica (il twitter) sia quella giusta.

E così Renzi può dire che la sua politica è a favore dei giovani, pur prendendo provvedimenti opposti, e i giovani gli credono. Salvini può dire che uscendo dall’Unione Europea staremo meglio e la gente gli crede. D’altro canto anche Mussolini diceva “spezzeremo i reni alla Grecia” o che “l’ora delle decisioni irrevocabili è giunta”, e la gente andava in estasi credendo che ci saremmo divisi il mondo noi e la Germania, salvo poi mandare in Russia soldati con le scarpe di cartone e con la raccomandazione di “portarsi una coperta da casa”.

A volte mi chiedo se ci sia una maledizione sulla testa di noi italiani: Crispi, Mussolini, Giannini, Craxi, Berlusconi, Renzi, Salvini. Politici che risolvono tutto nella parola che infatua le folle. Si dice: è il popolo italiano che è immaturo. Ma no! Il popolo è più o meno uguale dappertutto, quello che da noi è diversa è la cosiddetta classe dirigente, è questa che dovrebbe imprimere la svolta perché ne ha il potere e i mezzi. Ma purtroppo alla nostra borghesia danarosa, alla maggior parte dei nostri intellettuali, questa società, queste istituzioni, questi politici, vanno più che bene.

E i giovani continueranno a emigrare.


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«». La Repubblica, 23 febbraio 2015

LE RECENTI vicissitudini del fondamentalismo islamico confermano la vecchia intuizione di Walter Benjamin, e cioè che «ogni ascesa del fascismo testimonia di una rivoluzione fallita»: l’ascesa del fascismo rappresenta il fallimento della sinistra, ma al contempo testimonia di un potenziale rivoluzionario, un malcontento che la sinistra non è stata in grado di mobilitare. Non vale lo stesso per il cosiddetto «islamofascismo» di oggi? L’ascesa dell’islamismo radicale non è forse in perfetta correlazione con la scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani? Quando, nella primavera del 2009, i Taliban si impadronirono della valle dello Swat in Pakistan, il New York Times riferì che essi avevano architettato «una rivolta di classe sfruttando le profonde divisioni tra un gruppo ristretto di ricchi proprietari terrieri e i loro fittavoli senza terra».

Se «approfittandosi» della situazione dei contadini i Taliban hanno fatto «salire l’allarme circa i rischi che corre un Paese come il Pakistan, in gran parte ancora feudale», cosa impedisce ai liberal-democratici in Pakistan e negli Stati Uniti di «approfittare » della stessa situazione aiutando i fittavoli senza terra? La triste implicazione di tutto questo è che le forze feudali in Pakistan sono le «naturali alleate» della democrazia liberale…
Che dire allora dei valori fondamentali del liberalismo? Che ne è della libertà, dell’uguaglianza, ecc.? Il paradosso è che il liberalismo stesso non è abbastanza forte da preservarli dall’attacco del fondamentalismo. Il fondamentalismo è una reazione — una reazione falsa e mistificante, ovviamente — a un difetto reale del liberalismo, ed è per questo che il primo è sempre, di nuovo, generato dal secondo. Abbandonato al proprio destino, il liberalismo va incontro alla propria distruzione — la sola cosa che può salvare i suoi valori fondamentali è il rinnovamento della sinistra. Affinché questa tradizione fondamentale possa sopravvivere, il liberalismo ha bisogno dell’aiuto fraterno della sinistra radicale. Questo è il solo modo di sconfiggere il fondamentalismo, di minare il terreno su cui esso poggia.

È un’osservazione di senso comune che lo Stato Islamico sia solo l’ultimo capitolo di una lunga storia di risvegli anticoloniali (stiamo assistendo alla riconfigurazione dei confini tracciati arbitrariamente dalle grandi potenze dopo la Prima guerra mondiale), e allo stesso tempo un nuovo capitolo della resistenza ai tentativi del capitale globale di minare il potere degli Statinazione. A provocare tanto timore e sgomento è invece un altro tratto del regime dello Stato Islamico: le dichiarazioni delle autorità dell’Is indicano chiaramente che, a loro giudizio, l’obiettivo principale del potere statale non è il benessere della popolazione (sanità, lotta alla denutrizione ecc.) — ciò che realmente conta è la vita religiosa, che ogni aspetto della vita pubblica si conformi ai precetti religiosi. È per questo che l’Is rimane più o meno indifferente alle catastrofi umanitarie che avvengono all’interno dei suoi confini — il suo motto è «occupati della religione e il benessere provvederà a sé stesso». Qui appare lo scarto tra l’idea di potere praticato dall’Is e il concetto, occidentale e moderno, di «biopotere», di potere che regola la vita: il califfato dell’Is rifiuta totalmente la nozione di biopotere.

Ciò dimostra che l’Is è un fenomeno premoderno, un disperato tentativo di rimettere indietro le lancette del progresso storico? La resistenza al capitalismo globale non può ricevere impulso dal recupero di tradizioni premoderne, dalla difesa di forme di vita particolari — per il semplice motivo che un ritorno alle tradizioni premoderne è impossibile, considerato che la resistenza alla globalizzazione presuppone l’esistenza della globalizzazione stessa: chi si oppone alla globalizzazione in nome delle tradizioni che essa starebbe minacciando lo fa in una forma che è già moderna, parla già il linguaggio della modernità. Se il contenuto di queste restaurazioni è antico, la loro forma è ultramoderna.
Allora, anziché considerare l’Is come un caso estremo di resistenza alla modernizzazione, dovremmo semmai concepirlo come un caso di modernizzazione perversa. La nota fotografia che ritrae Al Baghdadi, leader dell’Is, con uno scintillante orologio svizzero al polso, è in questo senso emblematica: l’Is è ben organizzato in fatto di propaganda sul web e di operazioni finanziarie, ecc., malgrado faccia ricorso a queste pratiche ultramoderne per diffondere e imporre una visione ideologicopolitica che (più che conservatrice) appare come un disperato tentativo di stabilire chiare delimitazioni gerarchiche, in primo luogo quelle che disciplinano la religione, l’istruzione e la sessualità (regolamentazione strettamente asimmetrica della differenza sessuale, interdizione dell’istruzione laica…).
Tuttavia, anche quest’immagine di organizzazione fondamentalista severamente disciplinata e regolata non è priva di ambiguità: l’oppressione religiosa non è forse (più che) integrata dalla condotta delle unità militari locali dell’Is? Mentre l’ideologia ufficiale dello Stato Islamico fustiga il permissivismo occidentale, nella loro prassi quotidiana i reparti dell’Is compiono delle vere e proprie orge carnevalesche (stupri di gruppo, torture e uccisioni, rapine ai danni degli infedeli). La radicalità senza precedenti dell’Is riposa in questa brutalità ostentata, mostrata apertamente.
Questo articolo di Slavoj Zizek è tratto dal suo libro “L’Islam e la modernità. Riflessioni blasfeme (Ponte alle Grazie pagg. 92 euro 9)
«Sembra che il decreto faccia proprio un sentimento fortemente radicato in alcuni strati (minoritari, ma influenti) della opinione pubblica in base al quale l’evasione fiscale può anche essere perseguita, ma comunque non può essere considerata un reato, la vittima è lo Stato, che diamine!».

Lavoce.info, 7 gennaio 2015 (m.p.r.)

Il decreto sul penale tributario

Il decreto legislativo sul diritto penale tributario ha suscitato forti polemiche, tanto che il Consiglio dei ministri sarà chiamato a una nuova deliberazione. Tuttavia, al di là delle polemiche, sembra utile ragionare sulla ratio del provvedimento e sulle sue possibili conseguenze economiche. Secondo la teoria di base sull’evasione fiscale, l’entità e la certezza delle pene rappresentano un importante, anzi irrinunciabile, elemento di deterrenza nei confronti dei potenziali evasori. Se la sanzione, anziché solo pecuniaria, è anche penale e detentiva, l’effetto di deterrenza è ovviamente maggiore.

Nella situazione italiana attuale la percezione del cittadino comune nei confronti della normativa penale tributaria non è certo quella di un eccesso di severità; i detenuti per evasione fiscale (se esistono) non sono certo tanti da contribuire all’affollamento delle carceri. Quindi, l’attesa del cittadino comune non appare certo a favore di una generale depenalizzazione. È vero che in un paese ad alto tasso di illegalità fiscale bisogna evitare il rischio di ingolfare i tribunali con decine di migliaia di processi per evasione fiscale anche di modeste dimensioni, ma a questo fine è sufficiente prevedere limiti di punibilità adeguati e differenziati in base alla gravità del comportamento.

Comunque, è evidente che in questa materia sarebbe auspicabile una certa severità che, a rigor di logica, non dovrebbe essere inferiore a quella che si applica in altri paesi.

Depenalizzazione generalizzata

Il decreto nella formulazione uscita dal Consiglio dei ministri prevede invece una generale depenalizzazione di tutti i reati tributari. La prima questione che viene affrontata è quella del cosiddetto abuso del diritto, cioè dell’elusione fiscale, che viene totalmente depenalizzato (e a furor di popolo!). Se si guarda ai modelli degli economisti, in verità non è possibile riscontrare una differenza analitica tra evasione ed elusione fiscale: in ambedue i casi il contribuente evita di pagare le imposte dovute o violando direttamente la legge o schivandone sapientemente l’applicabilità. La sostanza non cambia; e infatti, non a caso, l’elusione viene definita “l’evasione dei ricchi”.

Naturalmente da un punto di vista giuridico si può sostenere che l’evasione è illegale e l’elusione no, ma questo è proprio l’argomento utilizzato dalle grandi multinazionali di internet nelle audizioni presso il Congresso americano per giustificare il fatto di non pagare praticamente imposte: “noi facciamo quello che le leggi dei diversi paesi ci consentono.”. Vi è quindi una certa contraddizione tra la decisione di depenalizzare tali comportamenti e al tempo stesso sostenere gli sforzi dell’Ocse e del G20 per venire a capo dell’elusione fiscale internazionale.

Le misure discutibili

Ma al di là dell’abuso del diritto che si esprime compiutamente nella eliminazione della “falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie” come fattispecie di reato, vi sono numerose altre misure inquietanti nel decreto:

1) Viene introdotto il limite di 1000 euro per la punibilità del reato di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture false o simili, come se da un punto di vista logico in una ipotesi del genere l’ammontare potesse avere una qualche rilevanza.

2) Si depenalizzano tutte le operazioni di simulazione, interposizione di persona (giuridica) e frodi finanziarie, mediante uso di derivati, strumenti finanziari ibridi, eccetera, richiedendo a questo fine che esse abbiano dato luogo “a flussi finanziari annotati nelle strutture contabili”. Cioè sempre. Si vanificano quindi gli effetti penali di molte operazioni poste in essere dalle banche negli anni passati.

3) Si alzano le soglie di non punibilità da 50 a150mila euro con finalità deflattive dei processi, ma depenalizzando di fatto evasioni fino a 3-400mila euro di base imponibile, il che sembra eccessivo.

4) Si stabilisce la non punibilità della dichiarazione di costi non inerenti alla attività dell’impresa, e cioè della pratica molto diffusa di imputare come costi consumi personali o familiari del contribuente.

5) Ci si dimentica di inserire tra i reati punibili l’ipotesi di omessa dichiarazione da parte dei sostituti di imposta.

6) Si introduce una franchigia del 3 per cento del reddito dichiarato (e analogo limite per l’Iva) per la punibilità di tutti i reati, vanificando l’intero sistema delle soglie di esclusione su cui è costruito il decreto che così diventano inutili e di fatto variabili in base al reddito dei contribuenti (maggior reddito, maggiore possibilità di evasione).

7) Si elimina la possibilità del raddoppio dei termini di accertamento per i casi di frode fiscale, con il rischio di una perdita di gettito immediata (e poi permanente) di molti miliardi in quanto verrebbero vanificati moltissimi accertamenti.

In sostanza, sembra che il decreto faccia proprio un sentimento fortemente radicato in alcuni strati (minoritari, ma influenti) della opinione pubblica in base al quale l’evasione fiscale può anche essere perseguita, ma comunque non può essere considerata un reato, e non può essere equiparata ai comportamenti lesivi della proprietà privata (furto, rapina, eccetera): la vittima è lo Stato, che diamine!

Il rimpallo di responsabilità

Infine, è inquietante il fatto che la responsabilità delle modifiche al testo originario preparato da una Commissione presieduta da Franco Gallo, rimbalzi tra il Tesoro e Palazzo Chigi. Il ministero responsabile della formulazione del provvedimento e della sua presentazione al Consiglio dei ministri è infatti quello dell’Economia e delle finanze (di concerto con la Giustizia). Se il testo uscito dal Consiglio dei ministri è stato modificato, delle due l’una: o il ministro dell’Economia era d’accordo, o (ipotesi più grave) né lui né i suoi collaboratori si sono accorti che il testo era stato cambiato.

In conclusione, speriamo che superato lo sconcerto attuale si possa tornare a una soluzione equilibrata. Infatti non va dimenticato che la reputazione del nostro paese e del nostro sistema economico all’estero non dipende soltanto dalla maggiore o minore flessibilità del mercato del lavoro, ma anche, e soprattutto, dal grado di legalità (o illegalità) prevalente nel sistema: evasione fiscale, corruzione, bilanci falsi, malavita organizzata rappresentano handicap molto gravi per l’Italia. Dare l’impressione di allentare le misure di controllo anziché inasprirle è molto pericoloso.

C'è qualcuno, in Italia, che vuole recuperare il ritardo della cultura nostrana rispetto a quella degli altri paesi del Primo e del Terzo mondo, nella ricerca sul lascito del grande intellettuale comunista. Si comincia dalle parole chiave. "ege­mo­nico/subal­terno", "ideo­lo­gia/ege­mo­nia", "società civile". Auguri di buon lavoro. Un articolo di Paolo Ercolani e un'intervista a Gianni Francioni.

Il manifesto, 9 settembre 2014

Le parole chiave della scuola estiva dedicata a Gramsci
di Paolo Ercolani
Pochi altri autori, al pari di Anto­nio Gram­sci, sono oggi in grado di susci­tare un inte­resse che varca i con­fini nazio­nali e, al tempo stesso, di for­nire validi stru­menti di com­pren­sione per un’epoca, quella della glo­ba­liz­za­zione, che sem­pre più sta sacri­fi­cando intere masse popo­lari sull’altare della teo­lo­gia eco­no­mica. Una teo­lo­gia che, alla stre­gua di tutte le dei­fi­ca­zioni, si serve di sacer­doti illu­sori e dis­si­mu­la­tivi come la dema­go­gia e il popu­li­smo, ben capaci di uni­for­mare menti e corpi sotto l’insegna ruti­lante di un pen­siero unico che mal tol­lera le cri­ti­che.
Ben con­sa­pe­vole che «se i gover­nati ne pos­sono sapere quanto i gover­nanti, le illu­sioni sono rese impos­si­bili», il teo­rico sardo ha saputo coniu­gare il nerbo della pro­pria spe­cu­la­zione (e atti­vità poli­tica) con un mes­sag­gio «peda­go­gico» ben pre­ciso: quello per cui «vera filo­so­fia può essere solo quell’attività politico-intellettuale-morale che met­tendo in campo, in qual­siasi con­te­sto sto­ri­ca­mente deter­mi­nato, il più ampio vet­tore pos­si­bile di uni­ver­sa­liz­za­zione, ha come scopo del suo agire la pro­du­zione della sog­get­ti­vità capace d’iniziativa sto­rica», per usare le parole illu­mi­nanti di Roberto Finelli.
Con que­sti pre­sup­po­sti ha preso ieri il via la prima scuola inter­na­zio­nale di studi gram­sciani (Ghi­larza Sum­mer School, Gss), ad opera della Fon­da­zione isti­tuto Gram­sci, della Casa museo di Anto­nio Gram­sci e dell’«International Gram­sci Society», e su ini­zia­tiva di un corpo docenti di tutto rispetto: James But­ti­gieg (Uni­ver­sity of Notre Dame, Indiana/Usa), Giu­seppe Cospito (Uni­ver­sità di Pavia), Gianni Fran­cioni (Uni­ver­sità di Pavia), Fabio Fro­sini (Uni­ver­sità di Urbino), Mar­cus E. Green (Otter­bein Uni­ver­sity, Usa), Guido Liguori (Uni­ver­sità della Cala­bria), Gian­carlo Schirru (Uni­ver­sità di Cas­sino), Gio­vanni Seme­raro (Uni­ver­si­dade Fede­ral Flu­mi­nense, Rio de Janeiro), Peter D. Tho­mas (Bru­nuel Uni­ver­sity, Lon­dra), Giu­seppe Vacca (Fon­da­zione isti­tuto Gram­sci, Roma).
Resa pos­si­bile da un finan­zia­mento della Fon­da­zione Banco di Sar­de­gna, la Gss si con­clu­derà il 12 set­tem­bre, carat­te­riz­zan­dosi come pas­sag­gio di un pro­getto che aspira a diven­tare per­ma­nente, riu­nendo ogni anno i mag­giori spe­cia­li­sti inter­na­zio­nali (in fun­zione di docenti) e quin­dici allievi sele­zio­nati con un pub­blico bando in tutto il mondo. I quin­dici stu­denti sono com­po­sti da 12 donne e 3 uomini com­presi fra i 23 e i 41 anni. Sette ita­liani, cin­que bra­si­liani, un argen­tino, un inglese e un mes­si­cano, da ieri appro­fon­di­ranno la cono­scenza di un grande inter­prete ita­liano del Nove­cento come Anto­nio Gram­sci.
«La nostra ambi­zione – spiega Fabio Fro­sini, fra i mem­bri del comi­tato docente – è quella di diven­tare il punto di rife­ri­mento mon­diale per gli studi gram­sciani; non sola­mente luogo d’incontro e di col­la­bo­ra­zione dei più impor­tanti stu­diosi di Gram­sci, ma anche lo spa­zio in cui la tra­di­zione storico-filologica ita­liana potrà fecon­da­mente dia­lo­gare con l’approccio teo­rico e ana­li­tico domi­nante nel mondo anglo­fono».
Le atti­vità della Gss si con­cen­tre­ranno ogni anno su una cate­go­ria del pen­siero di Gram­sci, scelta tra le più rile­vanti e influenti. Al ter­mine di ogni edi­zione della scuola verrà pro­dotto un volume mono­gra­fico che rac­co­glierà i risul­tati più impor­tanti del lavoro svolto. Tema di quest’anno è ege­mo­nico/subal­terno, men­tre nel 2015 si affron­te­ranno i lemmi ideo­lo­gia/ege­mo­nia e nel 2016 società civile.


Antonio Gramsci, lo straniero made in Italyintervista a Gianni Francioni

Anto­nio Gram­sci, con una forza spe­cu­la­tiva e coe­renza esi­sten­ziale dif­fi­cil­mente egua­glia­bili, è stato colui che ha mostrato al mondo come l’individuo che agi­sce pos­se­dendo una teo­ria che sup­porti tale azione (nesso inscin­di­bile e reci­proco di teo­ria e pra­xis), smette per ciò stesso di essere un ingra­nag­gio di ideo­lo­gie, dogmi e super­sti­zioni che vor­reb­bero degra­darlo da fine a mezzo per scopi che non sono i suoi. Qui ritro­viamo anche il suo mes­sag­gio peda­go­gico. Ne par­liamo con Gianni Fran­cioni, sto­rico della filo­so­fia a Pavia e tra i fon­da­tori della Ghi­larza Sum­mer School, la prima scuola inter­na­zio­nale di studi gramsciani.
Quale ritiene sia il metodo oppor­tuno con cui cogliere l’insegnamento essen­ziale del teo­rico sardo, in un con­te­sto così auto­re­vole e ambizioso?
Come per tutti i «clas­sici», anche Anto­nio Gram­sci può e deve essere letto in ogni epoca e da ogni angolo visuale con la mas­sima libertà. Ciò che la Ghi­larza Sum­mer School (Gss) si pre­figge, è di dare un con­tri­buto affin­ché tutto ciò sia rea­liz­za­bile nelle migliori con­di­zioni. Di più: la Gss aspira a diven­tare il punto di rife­ri­mento degli «studi gram­sciani» nel mondo. Si è discusso molto, qual­che anno fa, su come si dovesse «stu­diare» Gram­sci, oscil­lando tra un approc­cio totus poli­ti­cus e uno, quasi per con­trac­colpo, «depo­li­ti­ciz­zato». Ma è un’alternativa sba­gliata: trat­tare Gram­sci come un clas­sico non signi­fica con­fi­narne il lascito in uno spa­zio boni­fi­cato, paci­fi­cato. Al con­tra­rio, nella Gss rite­niamo che stu­diare i testi di Gram­sci e la loro col­lo­ca­zione nel tempo che fu loro, con gli stru­menti della cri­tica filo­lo­gica e della sto­ria del pen­siero, sia una pre­con­di­zione affin­ché la loro poli­ti­cità possa emer­gere con net­tezza, e il let­tore possa oggi avere tutti gli stru­menti per apprez­zarne il signi­fi­cato. Un’operazione demo­cra­tica, anti-retorica e, se vuole, anti-autoritaria.
In que­sti tempi di anni­ver­sari si stanno cele­brando le figure sto­ri­che del comu­ni­smo ita­liano, a par­tire da Togliatti e Ber­lin­guer. Ma la figura di Gram­sci, tra i fon­da­tori del Pci, non è meno impor­tante, tanto che a livello inter­na­zio­nale si mol­ti­pli­cano gli studi sul suo pen­siero e la sua azione politica.
Cer­ta­mente, anche se su que­sto punto pro­ba­bil­mente occorre distin­guere Gram­sci in quanto co-fondatore del PCd’I nel 1921, suo ri-fondatore nel 1923–26 e infine in quanto autore dei Qua­derni del car­cere. Quest’ultimo Gram­sci, come rico­nobbe Pal­miro Togliatti nel 1964, non appar­tiene sola­mente al Pci ma anche alla cul­tura ita­liana (e oggi pos­siamo senz’altro aggiun­gere euro­pea e mon­diale). È neces­sa­rio anche aggiun­gere che gra­zie a Gram­sci pos­siamo oggi rileg­gere le vicende del comu­ni­smo mon­diale dell’età di Sta­lin sfug­gendo alle clas­si­che alter­na­tive tra mar­xi­smo orien­tale o occi­den­tale, tra Sta­lin e Troc­kij, tra dit­ta­tura e demo­cra­zia. Il pro­getto dei Qua­derni fa emer­gere in modo asso­lu­ta­mente impar­ziale gran­dezza e limiti di quella sta­gione. Un fatto, mi pare, straor­di­na­rio, soprat­tutto se con­si­de­riamo la dif­fi­coltà che un com­pito del genere pre­senta agli sto­rici odierni.
Alcune inter­pre­ta­zioni recenti, a dire il vero sol­tanto ita­liane, hanno pro­po­sto un Gram­sci in forte con­tra­sto con Togliatti e con l’ortodossia comu­ni­sta in genere. Fino a par­lare di un approdo del pen­sa­tore sardo alla teo­ria libe­rale, con tanto di un Qua­derno ine­dito, sapien­te­mente nasco­sto dalla diri­genza comu­ni­sta, in cui egli avrebbe mani­fe­stato tutto il pro­prio dis­senso. Lei cosa ne pensa?
Sul pre­teso mistero del qua­derno scom­parso mi sono pro­nun­ciato pub­bli­ca­mente in un arti­colo pub­bli­cato dal quo­ti­diano l’Unità il 2 feb­braio 2012. Lì chia­rivo che il salto di nume­ra­zione dei qua­derni da parte di Tatiana accade per un suo errore mate­riale nel momento in cui, dopo la morte di Gram­sci, intra­prende la cata­lo­ga­zione del suo lascito. Pre­fe­ri­sco non tor­nare sui det­ta­gli di quella spie­ga­zione. Del resto, si può dispu­tare solo se tra i dispu­tanti – come ben sape­vano Ari­sto­tele e dopo di lui gli sco­la­stici – esi­stono comuni pre­sup­po­sti meto­do­lo­gici. In ogni caso, la com­mis­sione per lo stu­dio dei qua­derni gram­sciani, nomi­nata dalla Fon­da­zione Isti­tuto Gram­sci e della quale ho fatto parte insieme a Franco Lo Piparo, Luciano Can­fora, Giu­seppe Cospito, Fabio Fro­sini e Giu­seppe Vacca, è giunta ad accer­tare cir­co­stanze mate­riali che avva­lo­rano la mia tesi: Tatiana com­mette nume­rosi errori nell’etichettatura, torna indie­tro, rinu­me­rando vari qua­derni e finendo per aumen­tare la con­fu­sione. Al di là di que­ste con­sta­ta­zioni, non vedo come si possa soste­nere scien­ti­fi­ca­mente qual­che altra posizione.
Il tema por­tante di que­sto primo anno acca­de­mico riguarda due lemmi cen­trali nel pen­siero di Gram­sci: egemonia/subalternità. Quanto mai attuali in que­sta epoca di ritorno del popu­li­smo e della dema­go­gia. Come li affronterete?
È fon­da­men­tale con­si­de­rare il popu­li­smo e la dema­go­gia «gram­scia­na­mente», cioè come feno­meni impor­tanti, addi­rit­tura cen­trali nella poli­tica del XX e del XXI secolo (per come finora lo cono­sciamo). Come feno­meni, oso aggiun­gere, che richie­dono tutta la nostra ener­gia men­tale per affer­rarne la novità, il signi­fi­cato di novità (come Gram­sci fece negli anni Trenta dello scorso secolo). Detto ciò, non credo che nes­suno di noi imma­gini facili scor­cia­toie che con­du­cano dal testo dei Qua­derni a que­sto nostro mondo «grande e terribile».
In ambito inter­na­zio­nale (area anglo-indiana e anglo-americana) si è andata costruendo un’immagine del pen­sa­tore sardo che fini­sce col resti­tuir­celo for­te­mente cam­biato rispetto a come lo abbiamo cono­sciuto e stu­diato. Come vi col­lo­cate, voi della Scuola, rispetto a que­sto «Gram­sci glo­bale» che sem­bra emer­gere dagli studi stranieri?
Cre­diamo che gli studi gram­sciani deb­bano essere posti su di una base scien­ti­fica: di ciò vi è urgente biso­gno, anche per aiu­tare il «Gram­sci glo­bale» che oggi ritorna in Ita­lia dalle tra­du­zioni inglesi a cam­mi­nare su gambe più solide, e nutrirsi cioè di rife­ri­menti sto­rici meno super­fi­ciali ed estem­po­ra­nei. Ma cre­diamo anche che ciò possa acca­dere se i due ver­santi – sto­rico e teo­rico – sono por­tati a dia­lo­gare e a con­trarre obbli­ghi reci­proci. L’obiettivo che ci pre­fig­giamo è esat­ta­mente questo.
Su quali lemmi vi impe­gne­rete nei pros­simi anni e quali sono, in genere, gli argo­menti e le que­stioni su cui rite­nete che occorra con­cen­trare gli studi rispetto a un pen­sa­tore così cen­trale e con­tro­verso della sto­ria poli­tica e filo­so­fica internazionale?
Gram­sci è senza alcun dub­bio un pen­sa­tore cen­trale nel dibat­tito filo­so­fico e poli­tico inter­na­zio­nale, anche se l’Accademia ita­liana, sem­pre più chiusa nel suo orti­cello con­chiuso, sem­bra non riu­scire ad accor­ger­sene. Abbiamo pre­vi­sto di dedi­care il pros­simo anno alla que­stione dell’ideologia e il suc­ces­sivo alla società civile. Sono argo­menti di cui si dibatte, spesso con scarsa cogni­zione di causa. For­mando i gio­vani ricer­ca­tori di tutto il mondo, la nostra «offi­cina» intende get­tare i semi di una discus­sione e soprat­tutto di ricer­che future che squar­cino il velo delle frasi fatte, e inau­gu­rino, a par­tire dalle nuove forze, una sta­gione anch’essa nuova, all’insegna della sobrietà e dell’antiretorica

«Paul Krugman ha parlato di «mezzogiornificazione» delle periferie continentali. Sarebbe utile ristudiare cosa è accaduto in Italia quando i governi incitavano a emigrare, esattamente come oggi nel sud Europa». Il manifesto, 18 aprile 2014 (m.p.r.)

In un mondo con un’economia sem­pre più glo­ba­liz­zata era del tutto ragio­ne­vole che gli stati euro­pei si pro­po­nes­sero l’unificazione dell’Europa. È con que­sta con­si­de­ra­zione che si è arri­vati all’euro e all’attuale unione incom­piuta: il Par­la­mento euro­peo (da eleg­gere il 25 mag­gio pros­simo) conta assai poco e manca ancora un governo dell’Unione euro­pea. In que­sto pro­cesso di uni­fi­ca­zione, i paesi eco­no­mi­ca­mente più deboli – Por­to­gallo, Ita­lia, Gre­cia e Spa­gna (chia­mati sprez­zan­te­mente Pigs) — si sen­tono disar­mati di fronte alle eco­no­mie più forti, soprat­tutto Ger­ma­nia e Fran­cia, la cui pro­du­zione di merci è deci­sa­mente più com­pe­ti­tiva, e ci sono pres­sioni per tor­nare alle monete nazio­nali. La situa­zione attuale di que­sti paesi è sotto i nostri occhi: disoc­cu­pa­zione, imprese che chiu­dono, emi­gra­zione. Feno­meni que­sti che aggra­vano ulte­rior­mente le attuali dif­fe­renze di pro­du­zione e com­pe­ti­ti­vità. Si aggiunga che, al posto di uno stato uni­ta­rio euro­peo che batta moneta e rea­lizzi una sua poli­tica eco­no­mica per fron­teg­giare tali dispa­rità, c’è la mal­fa­mata Troika (Fondo mone­ta­rio, Banca cen­trale euro­pea, Com­mis­sione euro­pea), cioè il governo delle banche.

Rispetto a que­sta uni­fi­ca­zione euro­pea, noi ita­liani abbiamo la dura e sto­rica espe­rienza della nostra uni­fi­ca­zione nazio­nale e dell’ormai famosa “que­stione meri­dio­nale”. Oggi siamo di fronte alla que­stione meri­dio­nale euro­pea e que­sto giu­di­zio non è solo mio ma, molto più auto­re­vol­mente, di Paul Krug­man, pre­mio Nobel per l’economia, che già nel 1991 ha messo in evi­denza la «mez­zo­gior­ni­fi­ca­zione» delle peri­fe­rie euro­pee, dimo­strando che con la moneta unica l’Europa sarebbe stata inve­stita da intensi pro­cessi di con­cen­tra­zione della pro­du­zione e dell’occupazione nei paesi eco­no­mi­ca­mente più forti, men­tre le aree peri­fe­ri­che del con­ti­nente euro­peo sareb­bero state col­pite da feno­meni di deser­ti­fi­ca­zione pro­dut­tiva e di migra­zione verso l’estero.

La nostra que­stione meri­dio­nale nell’attuale situa­zione va ristu­diata. Prima della nostra unità nazio­nale le regioni del sud, ben­ché non come la Lom­bar­dia, non sta­vano tanto male: ave­vano la loro moneta e si pro­teg­ge­vano con le dogane e altro. Vale ricor­dare che il Regno di Napoli aveva un suo splen­dore e che in Ita­lia la prima linea fer­ro­via­ria vide la luce in Cam­pa­nia, tra Napoli e Por­tici e che la città di Napoli aveva un pre­sti­gio inter­na­zio­nale. È con l’unità nazio­nale che le regioni del Sud vedono chiu­dere le indu­strie e ven­gono inve­stite dalla fuga nell’emigrazione nelle Ame­ri­che e nel nord Europa. Una fuga migra­to­ria – non va dimen­ti­cato — che si è ripe­tuta subito dopo la fine della seconda guerra mon­diale, prima che si pen­sasse a una pur mode­sta riforma agra­ria e alla Cassa del Mez­zo­giorno. «Impa­rate le lin­gue» con­si­glia­vano i mini­stri di allora quando si reca­vano nel sud, per inco­rag­giare i meri­dio­nali ad emi­grare, ad andare a far fun­zio­nare le indu­strie del nord Ita­lia, e del nord Europa. Ed è lo stesso feno­meno di oggi che coin­volge i cit­ta­dini dei Pigs. Per gli spa­gnoli e i por­to­ghesi le vie dell’emigrazione sono le ex colo­nie, l’Angola, il Mozam­bico, il Bra­sile e i paesi latino-americani (non hanno nem­meno biso­gno di impa­rare le lin­gue!). Per gli ita­liani e i greci resta il nord Europa, con il risul­tato che così si allarga il gap tra Mez­zo­giorno d’Europa e Nord.

Insomma l’unificazione euro­pea non è ancora com­piuta e già si è aperta una que­stione meri­dio­nale a livello con­ti­nen­tale e molto più grave e peri­co­losa di quella ita­liana. E non dimen­ti­chiamo che non solo in Ita­lia, ma anche in Spa­gna, Por­to­gallo e Gre­cia ci sono stati governi fascisti. In Ita­lia la que­stione meri­dio­nale si è aperta con uno stato uni­ta­rio, con eguali diritti e doveri per tutti i cit­ta­dini e anche per tutte le ban­che. Uno stato uni­ta­rio che pro­dusse anche la Cassa del Mez­zo­giorno. Pen­sate se in Ita­lia (come oggi in Europa) ci fosse stata solo l’unificazione mone­ta­ria: la lira valida in tutte le regioni, ma con l’autonomia legi­sla­tiva di cia­scuna regione. In que­sta ipo­tesi le regioni auto­nome del Mez­zo­giorno sareb­bero state ancora di più con­dan­nate alla mise­ria. L’unificazione è solo mone­ta­ria, e quindi disa­strosa, e al con­tra­rio di quel che ci inse­gna­vano a scuola, non è più il sovrano che batte moneta, ma ormai sovrana è la moneta.

la Repubblica delle idee, 37 gennaio 2014. A partire dalla rivoluzione berlusconiana la politica non conta più per ciò che racconta, propone o promette, per l'apparenza del comportamento personale del leader

Si parla da alcuni anni di una trasformazione molecolare del modo di essere della politica e dell’etica pubblica nel nostro paese. La diagnosi si basa su alcuni segni distintivi riscontrabili all’interno dell’intero spettro politico e che appartengono al modo di operare in pubblico dei leader, allo stile del discorso dentro i partiti e nei media, alle pratiche di intervento nella sfera di formazione dell’opinione politica. Una trasformazione assai radicale della cui portata non ci rendiamo spesso conto perché è avvenuta gradualmente, in sordina. Essa si manifesta tra le altre cose nell’emergere di nuovi criteri generali nella valutazione dei fatti e nella scelta delle priorità politiche. Lo scontro di queste ore tra Matteo Renzi e Stefano Fassina è un episodio di questa più generale trasformazione. La più importante indicazione della quale è senza dubbio la pratica dirigenziale nell’uso degli organi della sfera pubblica, e cioè dei “corpi intermedi” del governo rappresentativo: i media e i partiti politici.

Chi voglia ricostruirne la genealogia dovrà partire ça va sans dire dalla rivoluzione berlusconiana, che consistette nella costruzione simultanea dell’impero mediatico e del partito-azienda. Al di là dell’unicità dell’impresa di Silvio Berlusconi, che rimane ineguagliata, resta il fatto che il modus operandi da essa inaugurato è diventato col tempo parte del comportamento pubblico: il successo politico gestito con uso dirigenziale dei corpi intermedi. Il modello privatistico dei comportamenti pubblici è la madre di una trasformazione che è diventata così profonda da essere quasi la nostra seconda natura, un costume normale che guida le azioni e le valutazioni politiche. Un modus operandi appunto, e che si avvale della democrazia dell’audience.

La democrazia dell’audience, cioè del pubblico che assiste allo spettacolo della politica, ha a poco a poco sostituito quella dell’identità di partito. Poco male, si dirà, anzi un segno di avanzamento democratico perché ha dimostrato che l’opinione della gente conta più di quella delle oligarchie di partito. Sennonché, l’idea che questo gentismo significhi più democrazia potrebbe valere al massimo nel mondo astratto della teoria. Nella realtà concreta, l’abito dirigistico che conquista l’audience può avere spiacevolissimi esiti se non incanalato da pratiche e regole virtuose che garantiscano sempre il pluralismo, il quale è l’anima della leadership, non il suo ostacolo. La vicenda italiana (che fa testo nei manuali universitari) parla per default di come la democrazia del pubblico rischi di trasformarsi in una mono-archia dell’opinione vincente nella gara del consenso mediatico
se non viene praticata l’arte del pluralismo, che è il bene primario da difendere affinché la democrazia sia “del” pubblico: questo è il primo comandamento del buon governo rappresentativo. Il pluralismo dei media e quello dei e nei partiti stanno insieme; essi corrispondono a un modus operandi che è diverso da quello dirigistico.

Ora, la creazione del partito-azienda, l’opera forse più rivoluzionaria nella storia della democrazia dei partiti, fu accompagnata da pratiche e comportamenti conseguenti, che inizialmente fecero scandalo e che si sono col tempo sedimentati nell’immaginario pubblico. Come per esempio il fatto che il capo di Forza Italia riunisse il partito in casa propria, ad Arcore prima e poi a Palazzo Grazioli, tanto che è probabile che pochi italiani sappiano dove si trovi la sede nazionale dei partiti gemmazione di Forza Italia. Un simile abito emerge nel Pd, la cui segreteria nazionale sente di potersi riunire nella sede dove il leader ha iniziato la sua corsa alla leadership del partito. Non si tratta questa volta di una sede privata. Ma è una sede comunque identificata con la dirigenza del leader.

Dirigere il partito è diventato col tempo simile a “tenere” il partito, non diversamente da come un bravo amministratore delegato “tiene” l’azienda che rappresenta (pur senza possedere): che significa, in senso classico, avere il controllo personale nel dettare l’agenda e nel selezionare il team più adatto a realizzarla. Il successo è più importante del modo in cui lo si ottiene; anzi liberare l’operato dagli orpelli delle regole di accountability appare come uno snellimento delle procedure per giungere a decisioni spedite. Abbiamo per anni denunziato il decisionismo dirigistico perché implicava prima di tutto la svalutazione del controllo, della dialettica interna al partito, della partecipazione delle varie opinioni alla costruzione della linea generale. Sono stati versati fiumi di inchiostro per sostenere la specificità della leadership politica rispetto ad altre. Una caratteristica di questa specificità sta nella libera discussione, che significa che il partito è luogo comune nel quale tutti, maggioranza e minoranza, possono sentirsi a casa propria (cosa non assimilabile al correntismo). Non è una questione di buonismo ma di logica della buona pratica, perché debilitare l’opposizione comporta inevitabilmente allentare il controllo sulla dirigenza che non essendo più incalzata e stimolata può perdere in energia innovativa. La trasformazione del partito per pratica dirigistica può rischiare di diventare un problema proprio per la leadership, poiché debilitare la critica indebolisce anche i vincitori più pugnaci.

Articolo tratto da "la Repubblica delle idee" qui raggiungibile in originale

«Un'antica possibilità di difesa individuale e collettiva dal potere costituito contemplata sin dal medioevo che sempre più viene evocata nell'azione politica in un mondo dove poche istituzioni e imprese globali hanno messo all'angolo la sovranità nazionale».

Il manifesto, 15 novembre 2013

Che cos'è il diritto di resistenza? Qual è il suo senso oggi? Esiste una interpretazione canonica di questo antico istituto avente per sua natura vocazione costituente? È possibile invocarlo oggi in modo rilevante, in via offensiva o difensiva, di fronte al protrarsi dell' illegalità costituzionale in tanti paesi europei incluso il nostro?

La ragione per aprire un dibattito su questo tema oggi è più profonda rispetto al fatto che episodi di ribellione «costituente» si stanno verificando un po' ovunque in Italia e che la magistratura e l'amministrazione stentano ad immaginare risposte diverse rispetto alla repressione penale. Infatti, da più parti è stato osservato che la crisi della sovranità statale ha determinato il risorgere di condizioni istituzionali «neo-medievali» nell'ambito delle quali si sta svolgendo un processo globale di concentrazione del potere dotato di valenza costituente. Proprio come nel corso della prima modernità gli Stati nazionali, pur con notevoli differenze l'uno rispetto l'altro, subivamo dall'alto la sfida dell'Impero e della Chiesa e dal basso quella delle rivolte contadine incentrate sui beni comuni, anche oggi, in piena postmodernità, la sovranità è contesa. I termini della contesa sono ovviamente diversi perché a metà del diciassettesimo secolo il capitalismo era nella sua fase nascente, mentre oggi è in una fase di tarda maturità in gran parte del mondo.

Tradizioni divergenti

La partita dunque è la concentrazione del potere in dimensioni più ampie rispetto alla statualità. Le soggettività sovranazionali in lotta, pubbliche o private, sono oggi immensamente più potenti in rapporto ai sovrani statali del Sacro Romano Impero, della Chiesa di Roma o delle Compagnie delle Indie. Quanto alle sfide «dal basso» è interessante domandarsi se la lunga stagione dei diritti e del costituzionalismo borghese le abbia rafforzate o piuttosto indebolite. È difficile negare che alcune garanzie costituzionali ed alcune innovazioni tecnologiche, prima fra tutti Internet, abbiano reso, almeno in certi contesti, la resistenza al potere costituito meno rischiosa di quanto non fosse un tempo. I contadini guidati da Thomas Muntzer e i Comuneros rivoltosi in Spagna nella prima parte del sedicesimo secolo, i Diggers e Levellers inglesi ai tempi dell'esercito di Cromwell oltre un secolo dopo e i Comunardi parigini rischiarono e subirono repressioni di durezza inaudita. Allo stesso tempo, però, l'appropriazione ideologica dell'illuminismo da parte del capitalismo realizzato e dei suoi cantori ha portato al trionfo ideologie individualizzanti che sono proprio quelle che hanno finito per depotenziare lo stesso senso del diritto di resistenza.

Vale perciò la pena di far tesoro delle conseguenze dell'apparente processo di democratizzazione del diritto di resistenza il quale fu teorizzato dal giusnaturalismo spagnolo, dalla tradizione calvinista e dalla distorsione interpretativa del pensiero luterano, nell'ambito di una visione dello Stato, della sovranità e del popolo molto diversa da quella moderna. Bisognerebbe tener presente che il filosofo e giurista francese Jean Bodin, arruolato fra gli inventori della sovranità moderna, considerava il corpo sociale non già come un aggregato di individui (come fece invece Thomas Hobbes) ma come un aggregato di «famiglie, collegi e corporazioni». In Spagna la stessa visione, condivisa dal giurista Francisco de Vitoria e dal gesuita Francisco Suarez (che da giurista cattolico invocò la resistenza anche armata contro Giacomo I d'Inghilterra che rivendicava sovranità divina) era quella neotomistica dello Stato come un corpo, unità organica.

Tale visione era accompagnata da una nozione trascendente di bene comune come qualcosa di diverso e superiore del semplice aggregato del bene individuale delle sue parti, portatrici di interessi divergenti che necessitavano di una sintesi. Il popolo, il cui governo era basato su leggi civili frutto di una cessione eterna di diritti naturali individuali al governante (era questa dell'irrevocabilità del consenso una visione condivisa dallo stesso Thomas Hobbes ma non da John Locke), era un corpo immortale superiore allo stesso Re. Gli individui muoiono ma il popolo come comunità rimane. Questa concezione del popolo rese possibile la convivenza di diritti naturali individuali con nozioni di sovranità assoluta, accompagnata tuttavia da un diritto di resistenza in casi estremi in cui il sovrano violasse profondamente le stesse ragioni che ne giustificavano il potere.

Durante la prima modernità questa concezione dello Stato, frutto di una visione medievale di diversi corpi politici in vario modo in conflitto per la sovranità, era ancora alla base tanto dei Cahiers de Doleance con cui gli avvocati del Terzo Stato rivendicavano sul finire del sedicesimo secolo di riequilibrare le disarmonie create dai privilegi eccessivi di clero e nobiltà, quanto delle stesse teoriche della resistenza, elaborate in Francia dai costituzionalisti ugonotti Francois Hotman, Theodore Beza (successore di Calvino a Ginevra) e Philippe Du Plessis Mornay, ai tempi delle guerre di religione esplose nel 1562. In tutte queste concezioni - spesso indicate come antenate del costituzionalismo borghese e che che affondavano le radici nella teorica di Niccolò Machiavelli - il diritto di resistenza non poteva configurarsi come individuale ma poteva soltanto appartenere a «magistrature inferiori» o «corpi collettivi» dotati di una pretesa di giurisdizione. Suarez per esempio riteneva necessaria l'autorizzazione del Papa per esercitare il diritto di resistenza; in ogni caso esso era riconosciuto con riluttanza estrema (da Lutero e fra i giuristi da Grotius); non era mai assegnato alla moltitudine popolare. La necessità di sterminare i ribelli, «come cani arrabbiati» secondo Lutero qualora questi si facessero portatori di istanze dal basso (come nel caso delle ribellioni contadine), pareva mettere d'accordo tutti. Fu la struttura istituzionale dell'Inghilterra a modificare in senso moderno il diritto di resistenza producendone quell'individualizzazione che soltanto superficialmente può considerarsi come una sua democratizzazione.

L'emancipazionismo liberale

In Inghilterra infatti la costruzione di uno Stato unitario fu compiuta molto presto e a differenza che in Spagna e Francia fu raggiunto fin dalla Magna Charta un accordo all'interno delle strutture dello Stato fra proprietà terriera e monarchia (naturalmente a spese dei beni comuni). La guerra civile e la Rivoluzione di Cromwell non furono dunque contese per definire quale fosse il luogo della sovranità (e dunque scontri costituenti) ma furono conflitti di potere anche molto aspri ma interni allo Stato costituito. Fu questa essenzialmente la ragione per cui nel sedicesimo secolo si sviluppò una tradizione di pensiero politico nell'ambito del quale gli individui senza mediazioni di corpi intermedi, potevano essere visti come parti costitutive della comunità statale (Commonwealth). Fu Sir Thomas Smith, ambasciatore di Elisabetta in Francia, in un libro pensato anche per il pubblico francese a definire il commonwealth o societé civil come «una società o un agire comune di una moltitudine di uomini liberi legati insieme da un comune accordo per la propria conservazione tanto in pace quanto in guerra», in contrasto chiarissimo con la visione di Bodin fondata sulle corporazioni.

Naturalmente, prima di salutare con il solito entusiasmo acritico le radici emancipative del pensiero liberale, occorre osservare come Smith mettesse in chiaro subito che ci sono uomini liberi che non contano, non governano, non votano, ma possono solo essere governati. Fra questi: «i lavoratori giornalieri, i mercanti e i commercianti che non hanno terra, gli artigiani e i contadini piccoli proprietari, i sarti, i calzolai, i carpentieri i muratori, i produttori di mattoni ecc.. questi non hanno né voce né autorità nel nostro commonwealth».

Ora, lasciando da parte la facile osservazione per cui costoro «contavano» eccome in Francia o in Italia qualora raccolti in corporazioni, merita di osservare che fu un allievo di Thomas Smith, il Vescovo John Ponet che elaborò per primo, correva l'anno 1556, una teoria della resistenza anche violenta ad opera di individui privati (naturalmente solo quelli parte del commonwealth di Thomas Smith) nel caso di usurpazione sovrana dei loro diritti. In materia di resistenza Ponet stava a Smith come i costituzionalisti ugonotti a Jean Bodin. Nelle concezioni inglesi al centro di tutto stava l'individuo (proprietario) portatore di diritti e di potere; altrove il «collegio o la corporazione», ossia un corpo collettivo portatore di doveri e di giurisdizione.

Nella gabbia dello Stato

È noto che fu l'individuo proprietario, principalmente il protocapitalista agrario, il protagonista vero della rivoluzione inglese, del protettorato di Cromwell e di quel grande compromesso del 1688 fra proprietà privata e sovranità pubblica «divisa» celebrato come rule of law. Il diritto di resistenza proprietario, mai proletario, venne mobilitato nel corso delle rivoluzioni del diciottesimo secolo e quando il suffragio elettorale fu finalmente esteso, a capitalismo ormai realizzato, la rule of law è stata guardiana, allora come oggi, di ogni ripensamento profondo dell'accumulo proprietario individuale. Doveva infine essere più di ogni altro John Locke a depotenziare attraverso un capolavoro di ipocrisia politica che gli fruttò fama eterna, ogni pretesa dei levellers (che comunque in gran parte non mettevano in discussione la proprietà privata ma lottavano per il suffragio elettorale) dei diggers e di ogni altra anelito di emancipazione dei subordinati. Egli chiuse così definitivamente, in solo apparente contrasto con Hobbes, la tenaglia dello stato e della proprietà privata su ogni istituzione del comune.

L'appropriazione capitalistica dell'illuminismo e la grossolanità di certa sua critica postmoderna, capace di appiattire luoghi e protagonisti quanto mai diversi, fece il resto fino a giustificare oggi visioni caricaturali dei beni comuni. In ogni caso adesso, quando non mi par tempo di moderazione, la sola politica degna di esser vissuta deve articolare nella teoria e nella prassi un diritto di resistenza collettivo che si emancipi dall'illusione individualistica e sappia interpretare la comunità come libertà.

«In Italia esiste una messinscena della politica. Politica e' confronto tra idee e progetti. Oggi mancano le idee e i progetti, e a maggior ragione manca il confronto. Dunque, manca la politica». Un’intervista di Luana Milella a uno dei promotori del 12 ottobre prossimo.

L’Unità, 6 ottobre 2013

Letta e la fine del ventennio? «Un’affermazione valida per la messinscena della politica». Lo scontro dentro il Pdl? «Vedo un tentativo di eliminare gli “incommoda”». Si va verso una nuova Repubblica? «Non vedo né la prima né la seconda né la terza». Berlusconi è finito? «Non mi interessa lui, ma i problemi che lui ha contribuito a creare». Il professor Gustavo Zagrebelsky non si smentisce. Caustico. Netto nel non assolvere “questa” politica. Ma pronto a negare la prospettiva di una prossima avventura nella politica.

Lei, Rodotà, don Ciotti, Landini e Carlassare. Nomi che fanno rumore se si ritrovano assieme. Come succede il 12 ottobre. Che accade, alla fine voi di Libertà e giustizia vi siete decisi a far nascere un nuovo partito?
«Sgomberiamo il campo fin da subito. La risposta è no e aggiungo, siccome da diverse parti si è fatto credere il contrario, che è un “no” evangelico: Quel che è sì è sì, quel che no è no, e tutto è opera del maligno ».

Però il Vangelo non mette mai un limite alla provvidenza...
«Se fosse sì, non sarebbe la provvidenza, ma la “sprovvidenza”. Ci mancherebbe solo che si pensasse di fare un nuovo, ulteriore, partitino».

Però... però... mi lasci dire, quando il manifesto dell’incontro, che non a caso si intitola “La via maestra”, parla di «miserie, ambizioni personali, rivalità di gruppi spacciate per affari di Stato» non può che venire in mente il rifiuto di “questa” politica. Che ne richiama una nuova.
«Certamente. Ma per operare un rinnovamento o addirittura un ribaltamento delle pratiche politiche e sociali che ci affliggono in questi anni non c’è bisogno “di nuovi soggetti politici” - espressione, tra le tante, che io odio -. C’è bisogno invece, secondo noi, che ciascuno, quale che sia il suo impegno nella società, faccia valere nelle sedi che gli sono proprie (politica, sindacato, cultura, scuola, tutto insomma ciò che ha riguardo con la vita civile) l’esigenza del rinnovamento. Comprenda e faccia comprendere che, continuando così, il nostro Paese si mette su un binario morto».

Lei, come sempre, è bravissimo nello scegliere espressioni e concetti forbiti, ma parliamo politichese: ci giura che un partito nuovo non nascerà?
«Nessuno di noi è profeta. Ma il 12 ottobre non c’è la fondazione di alcun partito. Anzi, il nostro intento è quello di raccogliere le preoccupazioni e le forze, non di dividerle ulteriormente».

Scusi se insisto, ma mi pare che qualcuno sia convinto che state proprio lavorando verso quell’approdo.

«Ribadisco, il nostro è un intento politico, ma non nel senso dei partiti. Se si può dir così, è un intento anche più ambizioso: lavorare alla rinascita di una politica, nel senso autentico della parola».

Lei non vede la politica “giusta” in Italia?

«In Italia esiste solo una messinscena della politica. La politica comporta il confronto tra idee e progetti. Oggi mancano le idee e i progetti, e a maggior ragione manca il confronto. Dunque, manca la politica. Venendo meno la politica, la democrazia stessa deperisce. Perché mai i cittadini si dovrebbero impegnare, anche solo nella cabina elettorale, se tanto tutto è destinato a restare quello che è? Viviamo da alcuni anni in stato di necessità. Ma la democrazia è lo stato della libertà».

Come mai, però, associazioni che pur avrebbero potuto rispondere al vostro appello solo rimaste silenti?
«L’adesione è larghissima. Chi si è tenuto in disparte, l’ha fatto, mi sia permesso di osservare, perché è caduto nell’equivoco del “nuovo soggetto politico”. Chiarito il quale, mi auguro che ci siano ripensamenti».

La nostra Costituzione. Lei torna lì, alla Carta del ‘48. Contestata, e che si cerca di riscrivere. Perché va tenuta ferma?
«C’è un paradosso. Tutti o quasi rendono omaggio alla prima parte della Costituzione, quella che tratta dei diritti, dei doveri, della giustizia, del lavoro, della libertà, della solidarietà. Quella parte descrive un tipo di società, molto lontana da quella in cui viviamo, che a noi invece pare tuttora di vivissima attualità. Proprio questa parte della Carta, però, è quella più largamente inattuata o violata. Le si può rendere omaggio in astratto perché ce ne si può dimenticare in concreto. C’è poi la seconda parte, che riguarda l’organizzazione della politica, e quindi i mezzi necessari per promuovere quel tipo di società. Oggi la discussione riguarda la riforma di questa seconda parte. Ma prima e seconda parte sono collegate e alcune delle modifiche che si prospettano, modifiche che definirei oligarchiche, si muovono nella direzione opposta all’attuazione della prima parte».

Costituzione e costituzionalisti. La Moralità pubblica. Che pensare quando si legge dello scandalo dei professori sotto accusa per i concorsi truccati?
«Nel campo universitario c’è un ineliminabile aspetto di cooptazione. Naturalmente, quella che dovrebbe essere cooptazione dei migliori può degenerare in corruzione. La linea di confine è labilissima. Anche se, oltre un certo limite, lo scandalo diventa evidente. Mi auguro che si chiarisca che quella linea di confine non è stata superata».

Letta ha detto che mercoledì «si è chiuso un ventennio». Alfano ha vinto su Berlusconi, il Parlamento ha confermato il governo. Davvero un ventennio è finito?«Chi e come lo si può dire?».

Letta lo dice.
«Temo che sia un’affermazione valida per la messinscena, quello che volgarmente si definisce il teatrino della politica. Quando evochiamo “ventenni” che si chiudono, credo che si debba pensare a quel rinnovamento profondo della politica di cui dicevo prima. Qualcuno potrebbe ipotizzare che si tratti solo di una razionalizzazione di ciò che ci sta appena alle spalle e che sta cercando di mettere ai margini gli “incommoda”».

A proposito di “incommoda”, guardiamo all’estate di Berlusconi, al disperato tentativo di evitare la condanna, una politica concentrata su questo mentre la gente è sempre più povera. Lei pensa davvero che si possa tornare indietro? Non c’è troppa prima repubblica, addirittura peggio della prima, in questa seconda?
«È difficile non vedere una profonda continuità nelle strutture e nelle concezioni profonde del potere politico, economico e sociale, e perfino criminale, della nostra società. Da questo punto di vista non c’è stata né una prima, né una seconda, né una terza Repubblica. Sono mutate le forme esteriori. Il 12 ottobre ci interrogheremo non sulle forme, ma sulla sostanza. E ci auguriamo che da qui possa nascere un vero rinnovamento».

Un giudizio flash su Berlusconi. È ancora “vivo” politicamente, ha ancora appeal da spendere o è politicamente già in archivio?
«A me non interessa tanto questo; mi interessa piuttosto che, Berlusconi o non Berlusconi, ci si occupi dei problemi del nostro Paese, la cui gravità Berlusconi ha contribuito ad accentuare e che rimarranno tali e quali davanti a noi, anche senza di lui».

Lo spauracchio delle elezioni. Minacciato da mesi. Che vantaggi avrebbero gli italiani da un nuovo voto?
«Un voto che riproduca la situazione attuale non serve a niente. Un voto che rimetta in moto il confronto politico sarebbe invece essenziale. Ma per questo occorrerebbe un’altra legge elettorale».

Il mistero avvolge l’assenza del gesuita Paolo Dall’Oglio. Ne pubblichiamo un testo recente, parole difficili di un prete schierato a difesa del suo popolo, drammatico equilibrio tra partecipazione alla lotta armata e ricerca della pace sconfiggendo i fanatismi.

Huffington post, 28 luglio 2013

(Padre Paolo Dall’Oglio, Huffington Post Italia). Un lettore desidera “la risposta del prete” alla questione sulla legittimità dell’uso della forza da parte della comunità internazionale per favorire il successo della rivoluzione democratica e islamista siriana.

Comincerò da prete e finirò da siriano. Nel mio cuore non c’è contraddizione.

La Chiesa conosce per esperienza dolorosa bimillenaria la debolezza del suo insegnamento sulla guerra giusta e la legittima difesa. Tuttavia, nonostante le riflessioni forti e utili in senso opposto, l’Autorità magisteriale ecclesiale ha sempre ritenuto di dover reinterpretare i versetti biblici che sembrerebbero consigliare ai cristiani di sottomettersi inermi e miti a mafie, regimi, imperi, colonie, feudalesimi, sistemi razzisti e via spadroneggiando. La Bibbia, di per sé ben contraddittoria, è letta in modo compatibile con il riconosciuto diritto-dovere di favorire la giustizia e, al limite, difenderla e promuoverla con le armi, per evitare la vittoria duratura del sopruso istituzionalizzato.

Con inspiegabile ritardo, la Chiesa si è ormai convinta che la democrazia faccia parte dei diritti inalienabili delle persone umane e che quindi, se da un lato è sicuramente meglio quando la si può difendere e ottenere in modo non violento, resta d’altro canto vero che l’uso della forza per difendere una democrazia in grave pericolo o liberarsi dalla dittatura è legittimo nel quadro dell’insegnamento cattolico. Esistono tuttavia delle condizioni da rispettare perché l’uso della forza resti legittimo… e questo da spazio a utili discussioni. Nel frattempo però vige il dovere per ciascuno nella situazione particolare di giudicare e di agire.

Quando dieci mesi fa il Papa Benedetto visitò il Libano disse, sicuramente per effetto delle opinioni dei prelati mediorientali favorevoli al regime del clan Assad, che era peccato mortale vendere le armi ai contendenti nella guerra intestina siriana. In quell’occasione twittai che se era peccato vendercele, allora bisognava darcele gratis! Visto che il regime torturatore, e distruttore del popolo con ogni mezzo, di armi ne ha più che abbastanza, per non parlare degli amici pronti a donargliele.

Sono sempre stato a favore delle azioni non violente per la rivendicazione e la promozione della giustizia. Tuttavia ciò non può giustificare una condanna della lotta dei siriani per la loro libertà, autodeterminazione e dignità umana. L’azione non violenta ha un significato ugualmente valido di accompagnamento, di correzione e di orizzonte prospettico per rompere il ciclo maledetto dell’odio armato.

Si registrano, è vero, delle derive criminali abominevoli in alcuni gruppi della rivoluzione siriana. Il fatto che siano probabilmente teleguidati dal regime non risolve il problema. È preciso dovere della comunità internazionale d’istituire fin d’ora una corte di giustizia per i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra in Siria. Essa sarà indipendente e perseguirà i crimini di tutti. Ciò che oggi ipocritamente e stupidamente si fa è il giustificare i crimini sistematici e istituzionali del regime con quelli episodici di gruppi e persone del campo rivoluzionario, commessi contro le stesse regole che il popolo insorto si è dato.

È lecito chiedersi se, vista l’orribile efficacia della repressione del regime siriano, nell’ambito dell’ignavia internazionale, non fosse più morale arrendersi al regime stesso per evitare il peggio. Certo questo corrisponderebbe eventualmente all’insegnamento etico ecclesiale sulla proporzionalità dell’uso della violenza, anche calcolato sulle possibilità ragionevoli di successo. Molti di noi si erano chiesti fin dall’inizio se fosse realistico insorgere in modo non violento contro un simile regime, ben conoscendone la crudeltà e mancanza di scrupoli. La deriva violenta poi, conseguenza della repressione, appariva come una prospettiva infinitamente dolorosa e pericolosa. In questo, certo, la mancanza di chiarezza dei democratici occidentali è stata una vera trappola. Ci hanno spinto a muoverci promettendoci protezione e solidarietà e ci hanno vigliaccamente abbandonato; poi ci giudicano se ci siamo rivolti malvolentieri ai loro nemici per salvarci dal genocidio promessoci dagli Assad.

L’eroismo dei siriani è ragionevole e dunque morale perché proporzionale alla mostruosità e durevole caparbietà del regime baathista-alawita. Inoltre, tale eroismo è ormai adeguato alla prospettiva di farci ammazzare in massa qualora rinunciassimo a proseguire la lotta fino ad una sostanziale vittoria. Ciò non significa che non vi sia il dovere di trovare vie negoziali per salvare l’essenziale della rivoluzione, senza finire in una guerra interminabile che comunque perderebbe il paese. Anche la determinazione sanguinaria del regime rappresenta qualcosa sul piano dell’autodeterminazione dei siriani, di un certo numero di siriani, di alcuni gruppi rilevanti di siriani… e dunque vige il dovere di pensare a delle soluzioni politiche negoziali, senza aspettare solo di vincere con le armi.

Infine uno sforzo di riflessione morale va fatto sull’uso del chimico in Siria. Che il regime degli Assad disponesse di armi chimiche è noto a tutti. Se avesse potuto dotarsi dell’atomica, o almeno di testate armate con materiale nucleare di scarto, non avrebbe mancato di farlo. Israele glielo ha impedito fisicamente. Quando il Presidente Obama ha fissato la linea rossa delle armi chimiche, ha di fatto consentito di utilizzare impunemente tutte le altre contro il popolo siriano. Infatti non si è battuto ciglio quando si sono spediti i missili balistici contro i nostri quartieri residenziali e zone industriali.

In diverse occasioni si è capito che la preoccupazione principe dell’Occidente non fosse di natura morale ma strategica. Si temeva infatti che le armi chimiche finissero in mano agli insorti e si diffidava il regime da un uso irresponsabile di tale arsenale. Si è detto senza peli sulla lingua che la priorità era quella di assicurare innanzi tutto la sicurezza dell’alleato israeliano.

Forse si temeva che, per agitare più efficacemente lo spauracchio terrorista islamico, il regime fosse tentato di farsi rubare un po’ di materiale pericoloso. E ciò affinché, una volta usato (come si pretende da parte dei Russi a gran voce sia avvenuto a Khan al-Asal ad Aleppo) si potesse dimostrare che il virtuoso regime siriano era il vero baluardo della civiltà di fronte alla barbarie terrorista islamista. Forse una simile linea rossa c’era, ma non tanto pubblicizzata, fin da quando i siriani inviavano i terroristi islamici in Iraq a farsi esplodere contro gli americani e i loro alleati…

Ma guardiamo alla cosa dal punto di vista etico della rivoluzione siriana. Ammettiamo per un istante che ci fossimo appropriati di armi chimiche sottratte agli arsenali di regime conquistati eroicamente. Immaginiamo di avere la capacità di usarle contro le forze armate del regime per risolvere il conflitto a nostro favore e salvare il nostro popolo da morte certa. Cosa ci sarebbe d’immorale? Tutte le armi possibili sono usate contro di noi. È ampiamente dimostrato che il regime fa esperimenti micidiali d’uso delle armi chimiche contro i partigiani rivoluzionari e la popolazione civile, proprio per vedere di superare quella maledetta linea rossa impunemente.

Chi volesse profittare della scusa dell’arma chimica usata da noi (noi, si fa per dire!) una volta (e non è affatto dimostrato) contro il regime, dovrà riconoscere di usare un argomento del tutto insostenibile e che gli si rivolge contro. Tutti questi che ci danno lezione di morale militare hanno gli arsenali pieni di nucleare, chimico, biologico e via ammazzando!

Se avete paura, giustamente intendiamoci, per la sicurezza dello stato di Israele, allora siate bravi, intervenite a pacificare la Siria, distruggete l’arsenale chimico, restituiteci il diritto all’autodeterminazione democratica e poi mettete alla giovane democrazia siriana quelle linee rosse che riterrete necessarie. In fondo per voi non cambia nulla sul piano della sicurezza se come partner regionale avete un regime assassino o una baldanzosa Siria democratica!

Invece se ci lasciate sbranare dal regime assassino, allora, ve lo promettiamo, la necessaria doverosa e disperata autodifesa ci consiglierà, ci obbligherà a costituire un tale micidiale pericolo alla sicurezza regionale da obbligarvi ad assumervi comunque le vostre responsabilità. Siete di fronte a gente che ha perso tutto, gli occhi sono accecati dalle croste delle troppe lacrime, i nostri figli sono crocefissi nelle galere del vostro alleato oggettivo. Abbiamo anche vissuto una guerra così sporca che i ragionamenti morali del Padre Paolo ci lasciano alla fine indifferenti. Solo un minimo di giustizia ci farà rinsavire. Solo un minimo di sincera autocritica da parte vostra ci permetterà di pensare a quel negoziato… che sappiamo in fondo necessario. Non è per minacciare, è invece per allarmare riguardo ad un pericolo oggettivo e già reale che mi lascio andare a propositi così drammatici. Ogni giorno, dei giovani rivoluzionari democratici, male armati e affamati, passano ai gruppi islamisti meglio organizzati, più motivati, meno digiuni, più addestrati e più garantiti di vita eterna in caso ci si debba sacrificare.

Per noi siriani della rivoluzione, la riconciliazione tra forze islamiste radicali e forze democratiche è una necessità strategica. Le scaramucce dolorose e i crimini insopportabili avvenuti tra noi devono trovare soluzione, essere riassorbiti, per presentarci uniti di fronte al pericolo totale rappresentato dal regime, appoggiato direttamente o indirettamente da troppi. Il tentativo di seminare guerra intestina tra le forze anti-Assad (a prescindere dal necessario intercettamento e disinnesco delle derive criminali) deve fallire. Questo gli agenti e i consiglieri militari americani farebbero bene a capirlo subito. Favorire i partner più affidabili, incoraggiare le evoluzioni più auspicabili è buono. Spingerci ad ammazzarci tra di noi non può esserlo.

Allorché l’Occidente, ma anche Russia e Iran, e l’Onu nel suo insieme, si pentiranno del crimine di complice irresponsabilità da loro commesso ai danni dei siriani, allora provvederanno a che Bashar al-Assad lasci Damasco e si ritiri coi suoi sulle montagne ancestrali, consegni i pieni poteri a un governo transitorio che prepari il vero passaggio democratico.

Le grandi potenze metteranno in grado le comunità locali siriane di assicurare la propria sicurezza, instaureranno efficacemente una corte internazionale di giustizia per la Siria, separeranno temporaneamente i contendenti del conflitto civile sulla base delle linee geografiche di appartenenza comunitaria, in vista d’una Siria unitaria confederale, assisteranno la massa dei civili diseredati e ridotti in miseria disperata, favoriranno l’evoluzione dell’islamismo politico nel suo plurale desiderio di democrazia musulmana, incoraggeranno le minoranze (proteggendole pure, è ovvio) a reinvestirsi nella cosa pubblica comune.

Quando questo succederà, allora noi vi promettiamo di fare di tutto per riassorbire la deriva violenta, radicale, islamista, qaedista! È nel nostro interesse. Essa infatti costituisce una non soluzione proprio per i ragazzi che vi ci sono arruolati. Sono nostri figli e non ci interessa perderli. Nessuna soluzione alla Tora Bora, neanche per i jihadisti stranieri!

La Siria sarà capace di elaborare una strategia pedagogica islamica di riassorbimento dell’estremismo. Non è la prima volta nella storia. Abbiamo la teoria e conosciamo la pratica. Non si può giocare il futuro del mondo sull’ipotesi islamo-pessimista. Lo sanno anche i politici che si fanno pubblicità a forza di xenofobia. Se non si vuole essere morali almeno si cerchi d’esser pratici. Razionalità sincera e moralità concreta vanno finalmente a braccetto.

Joe Stack, chi era costui? Cresciuto in un orfanatrofio nel vecchio quartiere industriale di Harrisburg, in Pennsylvania, dove ha visto intorno a sé l'impoverimento di quella che era la «classe operaia privilegiata», ha trascorso una vita travagliata tra debiti e tentativi falliti di autoimprenditorialità. Finché ha espresso il suo odio per il governo e i politici, per il salvataggio delle istituzioni finanziarie, per le multinazionali e le compagnie di assicurazione, in un suo «manifesto», consegnato ai posteri prima di lanciarsi nel febbraio 2010 con un piccolo aereo contro il palazzo dell'agenzia federale delle entrate ad Austin, in Texas. Per Noam Chomsky (intervistato da David Bersamian in Sistemi di potere. Conversazioni sulle nuove sfide globali, Ponte alle Grazie, pp. 185, euro 15) quella di Stack è «un'analisi profonda e convincente della società americana».

Non è facile inquadrare con precisione Chomsky. I suoi riferimenti intellettuali e politici, come bene emerge da queste conversazioni realizzate tra il 2010 e il 2012, vanno cercati soprattutto nella tradizione giuridica della Magna Carta e nell'orizzonte morale dell'illuminismo. Nelle sue analisi c'è tanto Dewey e poco materialismo, più Bakunin che Marx: l'attenzione è rivolta ai lati oscuri dei «sistemi di potere», come recita in modo azzeccato il titolo, mentre il capitalismo è tenuto sullo sfondo. Forse potrebbe essere definito un fustigatore della cattiva coscienza liberal americana, sempre pronto a denunciare l'incoerenza tra gli ideali propugnati dalla società a stelle e strisce e la realtà di oppressione che storicamente ne contraddistingue lo sviluppo. Da questo punto di vista, l'analisi di Chomsky è inequivocabile: a differenza delle altre nazioni, quella americana si ammanta di una missione «trascendente», da imporre con le armi e la conquista. È questa la teologia politica su cui poggia l'imperialismo degli Stati Uniti, a cui nessuno dei diversi governi si è sottratto. Vanno così in pezzi tutti i miti dei liberal americani: da John Kennedy allo stesso George Washington.

Chomsky invita alla prudenza nel parlare di declino americano: concede che ci siano state delle trasformazioni, ammette che si possa parlare di un indebolimento della capacità di attuare una politica egemonica (come il fallimento della guerra in Iraq dimostra), ma vede tutto sommato una continuità nelle forme del dominio imperialista. Insomma, i «sistemi di potere» emergono da queste pagine come immutabili e comunque invincibili.

Sono note le tesi chomskyane sul linguaggio, a cui è dedicato un capitolo specifico delle conversazioni: esiste nel cervello umano una facoltà innata che consente all'essere umano di apprendere il linguaggio, la cui acquisizione è dunque un fattore biologico. Non è questo il luogo per discutere tali tesi; va tuttavia segnalato l'apparente contraddizione tra lo scrupoloso impegno nello studio del linguaggio e il quasi completo disinteresse per la rete e i social media, liquidati come semplici sistemi dottrinari del potere volti a ridurre le persone alla passività e all'atomizzazione. I concetti dovrebbero essere strappati dall'empireo dell'astrazione indeterminata e immersi nella verifica dei processi materiali. Ma qui il discorso riguarderebbe i vizi del ruolo dell'intellettuale sopravvissuti all'esaurimento della sua funzione storica, e ci condurrebbe lontano.

Per restare sul punto, non si può dire che sia la produzione di soggettività al centro degli interessi di Chomsky. Il soggetto è sempre quello che ha in mano le leve del potere, così come la lotta di classe è esclusivamente quella condotta dai padroni. Chomsky è sicuramente attento ai movimenti, come le «primavere arabe» o Occupy Wall Street. E tuttavia, nel rimarcare la sostanziale caducità dei movimenti in termini di durata, Chomsky sottolinea a più riprese come a mancare siano il partito e il sindacato; solo questi possono restaurare un rapporto lineare tra lotte e sviluppo del welfare, come fu negli anni '30 con il New Deal.

Qui forse andrebbe prestata più attenzione a quello che lo stesso Chomsky sostiene in un'altra parte dell'intervista: «Circa la metà della popolazione pensa che tutti quelli che siedono al Congresso, compreso il loro stesso rappresentante, debbano essere mandati a casa. Per questo il centro non regge più». Non serve dunque limitarsi a denunciare le malefatte del potere o i drammatici rischi della fase attuale, ma dobbiamo anche saperne cogliere le potenzialità. Piaccia o meno, da questa scommessa radicale non c'è un fuori. Perciò l'alternativa alla disperazione nichilista di Stack non può che essere il ripensamento di una prospettiva di distruzione del capitalismo, che è un rapporto sociale di produzione e non solo un sistema di potere.
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