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«Per salvare e rilanciare l’Italia occorre rilanciare il concetto dell’interesse pubblico umiliato e sotterrato dalla nostra sciagurata classe dirigente, si chiami essa Pd o Forza Italia»

. Il Fatto Quotidiano/ bolg / di Fabio Marcelli, 27 gennaio 2017 (c.m.c.)

In questi momenti di disagio e sofferenza determinati da eventi catastrofici ma anche da crisi economica e culturale, determinate persone assurgono a simbolo di quello che è nel bene e nel male, il nostro Paese. Soffermarsi a riflettere su questi esempi può essere utile per identificare la via da percorrere se vogliamo risanare, salvare e rilanciare l’Italia (non vuote chiacchiere renziane ma fatti concreti e scelte inevitabili nella giusta direzione).

Cominciamo dagli elementi negativi. Uno dei fattori principali di stress e sofferenza di questi giorni è costituito, a detta delle autorità locali e dei cittadini che hanno la sfortuna di risiedere nelle zone colpite da terremoto e maltempo, è costituito dal funzionamento di un ente fondamentale come Enel che si è rivelato incapace di fornire l’essenziale servizio di fornitura dell’energia elettrica a un numero enorme di famiglie.

Si scopre quindi che la rete elettrica è obsoleta e che elementari operazioni di manutenzione non sono state adeguatamente condotte. Al punto che sono in molti gli amministratori locali e regionali che chiedono oggi esplicitamente la cacciata dell’amministratore delegato Starace mentre si annunciano le prime inchieste penali e sostanziose richieste di risarcimento dei danni. Si tratta d’altronde dello stesso personaggio passato qualche mese fa alla cronaca per aver teorizzato la necessità di terrorizzare gli oppositori interni per affermare il proprio potere. Un programma ben eseguito, sembrerebbe.

Ironia a parte, è chiaro che questo modello di concepire le relazioni aziendali e quelle con il pubblico, basato non sul soddisfacimento dell’interesse generale ma sull’alimentazione del proprio personale potere, è in buona misura alla base di molti fallimenti dell’Italia di oggi. E’ a ben vedere la stessa logica delle privatizzazioni selvagge con le quali si è distrutto un patrimonio pubblico accumulato nel corso di decenni a costo di molti sacrifici. Si tratta quindi di un modello da rovesciare immediatamente. Non solo Starace, del resto, ne è il rappresentante, se è vero che tutti i manager insediati da Renzi sono oggi sotto accusa per una ragione o per l’altra, tutte riconducibili peraltro in ultima istanza a tale modello perversamente autoreferenziale di direzione aziendale.

Un esempio positivo è invece costituito da tutti coloro che, operando in condizioni di estrema difficoltà, sono riusciti a portare aiuto alle popolazioni colpite. In primo luogo l’eroico corpo dei vigili del fuoco e poi anche le forze dell’ordine nel loro complesso e la moltitudine dei volontari, tra i quali voglio sottolineare il ruolo di taluni richiedenti asilo che si sono mobilitati anch’essi con efficacia. Si tratta di categorie bistrattate ed umiliate da tutti i governi. Basti ricordare, per quanto riguarda i vigili del fuoco, la vicenda delle pensioni, con il mancato riconoscimento del carattere usurante delle mansioni svolte, o quella dei rischi ambientali, in particolare dovuti ad esposizione ad amianto, non adeguatamente contrastati.

L’attuale agonizzante governo Gentiloni, nato sulle macerie del renzismo che sarebbe ora di sgombrare definitivamente dalla scena, continua ovviamente a caratterizzarsi per assecondare gli aspetti negativi e frustrare quelli positivi della situazione che stiamo attualmente vivendo. Non è un caso che in Italia oggi prosperino le inaccettabili diseguaglianze sia nel reddito che nel patrimonio. Non c’era del resto da aspettarsi nulla di diverso da un governo che è nato facendo orecchie da mercante rispetto alla richiesta di radicali cambiamenti che è venuta dalla valanga di No al referendum del 4 dicembre. Rovesciare le politiche in questione appare invece sempre di più un imperativo urgente e su ciò devono riflettere ed attrezzarsi le forze dell’alternativa.

Per salvare e rilanciare l’Italia occorre rilanciare il concetto dell’interesse pubblico umiliato e sotterrato dalla nostra sciagurata classe dirigente, si chiami essa Pd o Forza Italia. Sollecitando e gratificando le enormi energie sociali e politiche di lavoratori, giovani e donne oggi disperse e sprecate, cominciando con il referendum contro il Jobs Act e attuando politiche redistributive ed egualitarie. Non c’è bisogno di “uomini forti”. Chi li invoca dovrebbe ricordarsi della storia del nostro Paese.

Nelle elezioni in Francia si presentano come alternative le candidature di Le Pen (destra nazionalista ) e di Mélenchon (sinistra radicale). Il rischio è che i media «si accontentino di fustigare queste due candidature e fare di ogni erba un fascio definendole 'populiste'» È l'errore che portò alla vittoria di Trump.

la Repubblica, 17 gennaio 2017

Fra meno di quattro mesi, la Francia avrà un nuovo presidente. O una presidente: dopo Trump e la Brexit non si può escludere che i sondaggi ancora una volta si sbaglino, e che la destra nazionalista di Marine Le Pen si stia avvicinando alla vittoria. E anche se si dovesse riuscire a evitare il cataclisma, esiste un rischio reale.

Il rischio Le Pen riesca a posizionarsi come la sola opposizione credibile alla destra liberale per il round successivo. Sul versante della sinistra radicale, si spera naturalmente nel successo di Jean-Luc Mélenchon, ma purtroppo non è lo scenario più probabile.

Queste due candidature hanno un punto in comune: rimettono in discussione i trattati europei e il regime attuale di concorrenza esacerbata fra Paesi e territori, e questo attira molti di coloro che la globalizzazione ha lasciato indietro. Ci sono anche delle differenze sostanziali: nonostante una retorica distruttiva e un immaginario geopolitico a tratti inquietante, Mélenchon conserva malgrado tutto una certa ispirazione internazionalista e progressista.

Il rischio di queste elezioni presidenziali è che tutte le altre forze politiche - e i grandi media - si accontentino di fustigare queste due candidature e fare di ogni erba un fascio definendole «populiste». Questo nuovo insulto supremo della politica, già utilizzato negli Stati Uniti con Sanders, con il successo che sappiamo, rischia una volta di più di occultare la questione di fondo.

Il populismo non è nient’altro che una risposta, confusa ma legittima, al sentimento di abbandono delle classi popolari dei Paesi sviluppati di fronte alla globalizzazione e all’ascesa della disuguaglianza. Bisogna fare affidamento sugli elementi populisti più internazionalisti (e dunque sulla sinistra radicale, incarnata nei diversi Paesi da Podemos, da Syriza, da Sanders o da Mélenchon, indipendentemente dai loro limiti) per costruire risposte precise a queste sfide: altrimenti il ripiegamento nazionalista e xenofobo finirà per travolgere tutto.

Sfortunatamente è la strategia della negazione quella che si apprestano a seguire i candidati della destra liberale (Fillon) e del centro (Macron), determinati tutti e due a difendere lo status quo integrale sul fiscal compact, il patto di bilancio europeo firmato nel 2012. Non che la cosa stupisca, visto che uno lo ha negoziato e l’altro lo ha applicato. Tutti i sondaggi lo confermano: questi due candidati seducono innanzitutto i vincitori della mondializzazione, con sfumature interessanti (i cattolici col primo e i borghesi radical- chic col secondo), ma in definitiva secondarie rispetto alla questione sociale. Pretendono di incarnare il perimetro della ragione: quando la Francia avrà riguadagnato la fiducia della Germania, di Bruxelles e dei mercati, liberalizzando il mercato del lavoro, riducendo la spesa pubblica e i disavanzi, eliminando la patrimoniale e aumentando l’Iva, allora sarà finalmente possibile chiedere ai nostri partner di venirci incontro sull’austerità e sul debito.

Il problema di questo discorso che appare ragionevole è che non lo è affatto. Il trattato del 2012 è un errore monumentale, che imprigiona l’Eurozona in una trappola mortifera, impedendole di investire nel futuro. L’esperienza storica mostra che è impossibile ridurre un debito pubblico di questo livello senza fare ricorso a misure eccezionali. A meno di condannarsi a registrare avanzi primari per decenni, zavorrando sul lungo periodo qualsiasi capacità di investimento.

Dal 1815 al 1914, il Regno Unito ha passato un secolo a registrare eccedenze di bilancio enormi per rimborsare i suoi rentier e ridurre il debito esorbitante prodotto dalle guerre napoleoniche. Quella scelta nefasta produsse investimenti in formazione inadeguati e un ulteriore stallo del Paese. Tra il 1945 e il 1955, al contrario, Germania e Francia sono riuscite a sbarazzarsi rapidamente di un debito di proporzioni analoghe con una combinazione di misure di cancellazione del debito, inflazione e prelievi eccezionali sul capitale privato, mettendosi nelle condizioni di investire sulla crescita. Bisognerebbe fare lo stesso oggi, imponendo alla Germania un Parlamento della zona euro per alleggerire i debiti con tutta la legittimità democratica necessaria. Se così non sarà, il ritardo negli investimenti e la stagnazione della produttività già osservati in Italia finiranno per estendersi alla Francia e a tutta l’Eurozona (ci sono già dei segnali in tal senso).

È rituffandoci nella storia che riusciremo a uscire dallo stallo attuale, come hanno appena ricordato gli autori della magnifica Histoire mondiale de la France, ottimo antidoto ai ripiegamenti identitari tricolori. In modo più prosaico, e meno divertente, bisogna accettare anche di tuffarsi nelle primarie organizzate dalla sinistra di “governo” (la chiameremo così visto che non è riuscita a organizzare primarie con la sinistra radicale, cosa questa che rischia, in primo luogo, di allontanarla stabilmente proprio dal governo).

È essenziale che queste primarie designino un candidato deciso a rimettere drasticamente in discussione le regole europee. Hamon e Montebourg sembrano più vicini a questa linea rispetto a Valls o a Peillon, ma a condizione che superino le loro posizioni sul reddito universale e il made in France e formulino finalmente delle proposte precise per sostituire il patto di bilancio del 2012 (evocato solo di sfuggita nel primo dibattito televisivo, forse perché cinque anni fa lo hanno votato tutti: ma è proprio per questo che è tanto più urgente chiarire le cose presentando un’alternativa dettagliata). Non tutto è perduto, ma bisogna agire in fretta, se si vuole evitare di mettere il Front national in una posizione di forza.

«La buona politica deve essere sempre in tensione fortissima con una visione del mondo. I tecnici sono utili ma non sufficienti: in politica non basta riparare il rubinetto come fa un bravo idraulico».

Il Fatto quotidiano, 11 gennaio 2017

In un’epoca che premia i politici che parlano di pancia e alla pancia, Giuseppe Laterza sembra fuori fase. Dire che “la cultura ci rende cittadini migliori” non garantisce popolarità. Proprio per questo è da lui che bisogna partire per capire dove si può trovare una classe dirigente per questo Paese. Alla fine la crisi della politica sta tutta lì: la parabola del renzismo è stata così rapida perché si reggeva sui compagni di scuola di Matteo Renzi. A Roma il Movimento 5 Stelle arranca soprattutto perché privo di un personale politico all’altezza delle sfide che ha davanti. Le elezioni non sono lontane e bisogna rispondere in fretta a una domanda: come si trova una classe dirigente adeguata?

Giuseppe Laterza, la caduta di Matteo Renzi e del suo Giglio Magico, poi le disavventure dei Cinque Stelle a Roma e Bruxelles sembrano avere un tratto in comune: c’è il potere, ma non la classe dirigente per amministrarlo.
«Oggi la politica è spesso ridotta a mera comunicazione, oppure a competenza. Se è così, il massimo che si può sperare è di ritrovarsi con un sindaco iperbolico come Luigi De Magistris o ‘pragmatico’ come Giuseppe Sala. Ma la buona politica deve essere sempre in tensione fortissima con una visione del mondo. I tecnici sono utili ma non sufficienti: in politica non basta riparare il rubinetto come fa un bravo idraulico, bisogna definire i propri valori di riferimento».

Se non basta la competenza, la risposta è la cultura?
«Non ci si può fermare ai trattati di management o ai manuali fai da te. Chi ha le responsabilità della classe dirigente deve leggere anche Zygmunt Bauman e Amartya Sen, Tony Atkinson e Tony Judt. La cultura è dubbio metodico, ti spinge a mettere tutto in questione continuamente, così si prendono anche meno cantonate. Questa è la cultura che manca alla nostra classe dirigente».

Bauman e Amartya Sen insegnano a governare Roma?
«Se sei un grande amministratore delegato o il direttore di un ospedale, sono proprio quelle letture non direttamente legate alla tua competenza che si rivelano essenziali per compiere le scelte importanti. Altrimenti non c’è differenza con l’idraulico. Purtroppo, i nostri manager leggono poco, quasi solo fiction».

Primo punto: più libri.
«Piero Calamandrei, in un articolo del 1953 sul Ponte scriveva che ‘tutte le società sono di élite, anche la democrazia, che però a differenza delle altre deve essere aperta, contendibile, tutti i governati che ne hanno la capacità devono poter diventare governanti’. Capacità morali, tecniche e intellettuali che si iniziano a sperimentare a scuola, come ripeté per tutta la vita Tullio De Mauro».

Anche se in Italia i lettori sono pochi rispetto a Germania o Svezia, di gente con alti consumi culturali ce n’è parecchia.
«Sono i 2-3 milioni di persone che si informano, vanno a teatro e alle mostre, i giovani che trovi a migliaia negli incontri del Festival di Internazionale a Ferrara. Ma i loro numeri di telefono non sono in quella rubrica di 4-5.000 cellulari in perenne contatto tra loro per gestire il potere. Questa di cui parlo, è una élite potenziale che non coincide (se non in minima parte) con i parlamentari, con gli amministratori pubblici ma neanche con i manager privati».

E quindi?
«Bisogna che si faccia sentire, che prenda il potere. Il primo punto è riconoscere la propria esistenza, smettere di piangersi addosso. Finora ci siamo detti ‘siamo pochi, non contiamo niente’. Non è vero. In tutti i Paesi c’è una minoranza che guida la maggioranza. Questa élite può essere aperta o chiusa: l’élite chiusa si illude di stare in un fortilizio che invece è pieno di crepe ormai evidenti a tutti. E in Italia è rassicurata da una casta giornalistica, che spesso non conosce altro che il linguaggio della politica italiana e che insorge invece contro Vivendi dimenticando Alitalia, con opinionisti muti di fronte al tentativo di trattare Mediaset come patrimonio nazionale».

Pensa a qualche forma di mobilitazione come i girotondi negli anni di Berlusconi?
«Il mio compito non è certo quello di organizzare i girotondi, ma credo che le idee debbano passare anche attraverso la politica e la rappresentanza. Ci sono persone che hanno provato a farsi sentire nella politica italiana ma sono rimaste ai margini. Possono ancora essere protagoniste, con il sostegno della società civile: la stampa, le case editrici, le infinite associazioni, incluse quelle di categoria che hanno grandissime responsabilità nell’aver avanzato soprattutto ragioni di corporativismo. La leadership deve venire da tanti punti della società».

Qual è il suo ruolo di editore?
«Diffondere le buone idee e farle diventare senso comune. Lo si può fare con i libri ma anche in tanti altri modi, online e offline, ad esempio nei festival come in quello del diritto di Stefano Rodotà o dell’Economia di Tito Boeri o con le lezioni di storia. Pensi all’idea di società liquida di Bauman che dai suoi libri è diventata senso comune, fino al punto che ormai la si cita (anche a sproposito) indipendentemente dall’autore. Quest’anno vorrei organizzare incontri con i lettori forti ma anche con professionisti, imprenditori, commercianti. Per convincerli che investire in cultura cambia un Paese: dove si leggono più libri si fa più raccolta differenziata e prevenzione sanitaria…»

C’è una responsabilità di questa classe dirigente potenziale nel non aver accompagnato l’ascesa dei M5S, lasciando in balia della propria inesperienza?
L’establishment intellettuale ha bollato i Cinque Stelle con il marchio dell’infamia. E questo è un atteggiamento sbagliato. Come ha scritto ieri Travaglio, a Torino la società civile ha cooperato con Chiara Appendino e questo mi sembra un bene. Io posso essere del tutto in disaccordo con quanto dice Grillo, ma non posso ignorare che i suoi elettori, secondo i dati raccolti da Ilvo Diamanti nel libro Salto nel voto sono i più giovani, professionalmente attrezzati e scolarizzati.

Se il M5S fallisce, cosa c’è dopo Grillo?«Grillo non ha mai detto a nessuno di sfasciare le vetrine. Ma non è detto che non si arrivi a quello, quando il sentimento di esclusione raggiungerà il punto di non ritorno. Ma non succederà se sapremo fare la rivoluzione pacifica della cultura».

Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2016 (p.d.)

Memphis, Tennessee, 2 ottobre 1983. Verso le 9 del mattino alcuni uomini armati fanno irruzione in un supermercato. Durante la rapina, partono dei colpi di arma da fuoco e il proprietario, Joe Belenchia, rimane ucciso sul colpo. Testimoni raccontano di aver visto i criminali fuggire a bordo di un’auto rosso scura. Grazie a questo dettaglio, la polizia rintraccia il colpevole. Si chiama Ndume Olatushani, ha 24 anni, è afroamericano. Dice che quella mattina era a casa da sua madre in un’altra città, St. Louis, a 5 ore di macchina dal luogo della rapina. Eppure la polizia afferma di aver trovato le sue impronte digitali sul vetro posteriore. Il processo si conclude quasi due anni dopo: Ndume viene condannato alla pena di morte. Come si scoprirà negli anni, condannato da innocente. “Sono rimasto in prigione per 28 anni, nel braccio della morte per due decenni”, dice Ndume, il cui calvario giudiziario è terminato, dopo numerosi appelli e due nuovi processi, solo nel 2012. I giudici hanno riconosciuto che le prove e le testimonianze contro di lui erano state falsificate.

“Al di là della crudeltà e ingiustizia, la sola attesa del patibolo nel braccio della morte è già di per sé una pena terribile. E in attesa si può rimanere per tempi lunghissimi”, osserva Eleonora Mongelli, che prima di entrare della Lega italiana dei Diritti dell’Uomo (Lidu), ha lavorato per Ensemble contre la Peine de Morte (Ecpm). Con Nessuno Tocchi Caino e altre ong, tra cui Sant’Egidio e Amnesty. Ecpm fa parte della World Coalition against the Death Penalty, rete di associazioni che si battono per contrastare l’applicazione delle pena capitale o tenta di prevenirla.

Anche grazie agli sforzi di queste ong l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato alla vigilia di Natale una risoluzione che chiedela moratoria del patibolo in tutto il mondo. E che è stata approvata a grande maggioranza: 117 in favore, 40 contrari e 31 astenuti. Un voto non vincolante, purtroppo, che si scontra con la triste realtà. Secondo dati di Ecpm, nel solo 2015 ci sono state 1634 esecuzioni e quasi 2.000 condanne a morte in 61 Paesi: record rispetto agli ultimi 25 anni, spesso giustificato da governi autoritari con motivazioni antiterroristiche.

L’ultimo rapporto di Nessuno tocchi Caino – storicamente legato al Partito Radicale Transnazionale – stima come in Cina sono state eseguite almeno 1200 condanne, 657 in Iran, 174 in Pakistan e 102 in Arabia Saudita. Eppure, la tendenza generale è quella verso l’abolizione della pena di morte: sono oltre 100 Paesi che hanno deciso di eliminare, di diritto o di fatto, il patibolo. Poche settimane fa Antonio Stango, del direttivo di Nessuno tocchi Caino, ha guidato una delicata missione in Kenya Zambia Malawi e Swaziland. Tappe importanti per la battaglia abolizionista: da anni questi Paesi africani osservano una moratoria, anche se per ragioni di consenso nell’opinione pubblica si erano astenuti dal voto contro la pena di morte in sede Onu, mentre ora hanno votato a favore della moratoria.

“Come ha insegnato Cesare Beccaria, la certezza del diritto e non la pena capitale è un efficace deterrente contro il crimine”, osserva Stango. “Solo l’abolizione riduce il tasso complessivo di violenza e facilita il passaggio dalla vendetta alla giustizia. Un elemento fondamentale per definire una civiltà giuridica moderna”.

«Donald Trump è stato eletto alla presidenza Usa perché ha saputo intercettare l’insofferenza della classe media bianca verso le minoranze, dalle donne agli immigrati. I parametri della politica a cui eravamo abituati sono stravolti. Il teorico dello storytelling ne discute con la filosofa americana Judith Butler

». La Repubblica, 24 dicembre 2016 (c.m.c.)

Molti scrittori e intellettuali, negli Stati Uniti e in Europa, si sono pronunciati sul fenomeno Trump, il più delle volte per esprimere la loro costernazione o riprovazione, condannare i suoi eccessi linguistici o allarmarsi per le sue proposte, come la costruzione di un muro al confine con il Messico o l’espulsione di milioni di immigrati clandestini. Ho voluto discutere di questo con Judith Butler, filosofa americana che ha studiato gli effetti delle parole nel discorso politico a partire dal suo testo fondamentale Parole che provocano: per una politica del performativo.

Mi sembra che Trump sia una sorta di figura simbolo delle analisi che lei produce da vent’anni. Trump come “oggetto butleriano” per eccellenza, è d’accordo?
«Non sono sicura che Trump sia un oggetto adeguato per le analisi che ho l’abitudine di condurre. Non penso, per esempio, che vi sia una fascinazione legata alla sua personalità. E se prendiamo in considerazione la sua retorica, allora è necessario analizzare piuttosto gli effetti che produce su una frangia della popolazione americana.

Ricordiamoci che è stato eletto da meno di un quarto della popolazione, e che è solo grazie all’esistenza di un collegio elettorale arcaico che si appresta a diventare presidente. Non dobbiamo quindi immaginarci che Trump goda di un largo sostegno popolare. C’è una disillusione generale nei confronti della politica e un certo disprezzo nei confronti dei due principali partiti statunitensi. Tuttavia Hillary Clinton ha ottenuto più voti di Trump. Perciò, quando ci poniamo la questione dei sostenitori di Trump, la cosa che ci dobbiamo chiedere è come sia riuscita una minoranza della popolazione americana a portare Trump al potere.

Quello su cui ci interroghiamo è un deficit di democrazia, non un’ondata di consenso popolare. La minoranza che ha sostenuto Trump, la minoranza che è riuscita a strappare un successo elettorale, ha potuto farlo non soltanto in virtù della propria disaffezione verso la politica, ma anche in virtù della disaffezione di quella metà circa di elettori che non sono andati a votare. Forse il tema di cui dovremmo parlare è la perdita di democrazia partecipativa negli Stati Uniti.

La mia opinione è che Trump ha scatenato una rabbia che ha diversi oggetti e diverse cause. Lo stato di devastazione economica e di delusione, la perdita di speranza nei confronti di un futuro economico determinato da movimenti economici e finanziari che devastano intere comunità hanno senza dubbio un ruolo importante. Ma altrettanto si può dire per l’accrescimento della complessità demografica degli Stati Uniti e le forme di razzismo, sia vecchie che nuove. Il desiderio di “fermezza” riguarda da una parte l’accrescimento del potere dello Stato contro gli stranieri, i lavoratori clandestini, ma si accompagna anche al desiderio di liberarsi del peso dello Stato, slogan che torna utile al tempo stesso all’individualismo e al mercato».

Se il fenomeno Trump può essere paragonato al fascismo è soprattutto rispetto al rapporto del leader con le masse che lo producono. In fondo, i grandi leader fascisti non avevano inventato il fascismo, ma si erano appropriati di uno scenario, quello di una piccola o media borghesia che viveva molto male il declassamento provocato dalla sconfitta militare e dalla crisi degli anni Venti, e la cui frustrazione si espresse, si saldò e trovò sfogo nell’odio per il proletariato. È un fenomeno comparabile a quello che si sta producendo negli Stati Uniti e in Europa, con il risentimento del piccolo bianco disprezzato e dimenticato a vantaggio delle minoranze visibili, nere, ispaniche, dei profughi senza documenti, delle donne e degli omosessuali.
«Forse è il momento di fare la distinzione tra le vecchie forme di fascismo e le nuove. Quelle che lei ha descritto sono le forme del fascismo europeo nella parte centrale del XX secolo.

Con Trump abbiamo una situazione differente, ma che definirei comunque fascista. Da una parte Trump è ricco, mentre la maggioranza di quelli che hanno votato per lui non lo sono. Eppure i lavoratori si sono identificati con lui, perché ha usato il sistema e ha avuto successo. Prendiamo l’esempio di com’è riuscito a sfruttare i debiti per non dover pagare le tasse. Hillary Clinton si sbagliava pensando che le persone comuni, che pagano le tasse, ne sarebbero state oltraggiate. In realtà si è guadagnato la loro ammirazione per aver trovato il modo di non pagare le tasse.

Loro vorrebbero essere come lui! Il lato fascista arriva, tuttavia, quando si arroga il potere di espellere milioni di persone, o addirittura di mandare Hillary in galera dopo il suo insediamento (su questo punto al momento ha fatto marcia indietro), di stracciare gli accordi commerciali a suo piacimento, di insultare il governo cinese, di chiedere la reintroduzione del waterboarding e di altre forme di tortura. Quando parla in questo modo, agisce come se avesse il potere esclusivo di decidere sulla politica estera, di decidere chi va in prigione, di decidere chi dev’essere espulso, di decidere quali accordi commerciali dovranno essere onorati, quali politiche estere dovranno essere disattese e quali ratificate. Allo stesso modo, quando afferma che vorrebbe picchiare o ammazzare qualcuno che lo interrompe tra la folla, rivela un desiderio omicida che, per dirlo sinceramente, tocca corde sensibili in molte persone.

Quando banalizza il sesso non consensuale o definisce Hillary una “donna meschina”, dà voce a una misoginia molto radicata, e quando giudica gli immigrati messicani degli assassini dà voce a un razzismo di vecchia data. Molti di noi hanno preso la sua arroganza, la sua boria ridicola, il suo razzismo, la sua misoginia, le sue tasse non pagate, per tratti caratteriali autodistruttivi, ma la verità è che per molte delle persone che hanno votato per lui erano cose eccitanti. Nessuno è sicuro che abbia letto la Costituzione, o che gliene importi qualcosa. È proprio questa indifferenza arrogante che attira la gente verso di lui. E questo è un fenomeno fascista. Se trasformerà le sue parole in atti, allora avremo un governo fascista».

Donald Trump ha fatto campagna elettorale in gergo, come tutti i leader fascisti, inventando il proprio “discorso sociale”, un miscuglio di facezie, smorfie, allusioni scatologiche, borbottii, slogan e anatemi.
Più che attraverso un discorso strutturato comunica attraverso segnali, un amalgama di slogan e insulti branditi come una potente arma di delegittimazione delle minoranze. Che analisi fa dello slogan di Donald Trump nel suo reality “The Apprentice”: “You’re fired” (sei licenziato, sei fuori)?
«Ancora una volta, l’atto del linguaggio presuppone che lui solo sia in grado di rifiutare alle persone il loro impiego, la loro posizione o il loro potere. Quello che è riuscito a fare, in parte, è comunicare questo sentimento di potere che si è autodelegato. Ricordiamoci anche che la collera contro le élite culturali prende la forma di una collera contro il femminismo, contro il movimento dei diritti civili, contro la tolleranza religiosa e il multiculturalismo.

Trump ha “liberato” l’odio dai movimenti e dai discorsi pubblici di condanna del razzismo: con Trump, si è liberi di odiare. Si è messo nella posizione di colui che era pronto ad affrontare la condanna pubblica per il suo razzismo e il suo sessismo e sopravvivervi. Anche i suoi sostenitori vogliono vivere il proprio razzismo senza vergogna, e questo spiega l’impennata improvvisa dei reati motivati dall’odio per strada e nei trasporti pubblici, subito dopo le elezioni: le persone si sono sentite “libere” di esprimere il loro razzismo come volevano. Partendo da qui, cosa possiamo fare per liberarci a nostra volta di Trump, “il liberatore”?».

A concentrarsi troppo sulla retorica, il lessico e la grammatica trumpiane si rischia di dimenticare una seconda dimensione, quella corporale, l’enorme “corporeità” delle sue performance nei comizi o nei talk show. Non serve aggiungere altro sulla sua pettinatura o il suo “orangismo”, ma c’è anche una gestualità molto particolare, il movimento delle mani, della bocca, un manierismo che si esprime attraverso mimiche inadatte, gesti ampollosi, una sovraesposizione della sua persona tipica dell’universo dei reality. Le statue di Trump nudo che si sono diffuse sulle piazze pubbliche delle città americane non sono la consacrazione di una forma di sacralità kitsch che prende di mira una sorta di contagio astioso, di provocazione corporale?Vedendolo pensavo alla frase di Kafka: “Uno dei più efficaci mezzi di seduzione del male è l’invito alla lotta”. Come analizza lei l’irruzione sulla scena politica di questa figura da reality?
«Sembra evidente che la presidenza diventa sempre più un fenomeno mediatico. C’è da chiedersi se molte persone non affrontino il voto con lo stesso approccio con cui affrontano le opzioni “Mi piace” e “Non mi piace” di Facebook.

Trump occupa spazio sullo schermo e questo genere di potenza minacciosa si nutre anche delle sue pratiche di molestie sessuali. Va dove vuole, dice quello che vuole e prende quello che vuole. Così, anche se non è carismatico nel senso tradizionale del termine, occupando lo schermo come fa lui guadagna in levatura e in potenza personale. In questo senso, consente un’identificazione con qualcuno che infrange le regole, fa quello che vuole, guadagna soldi, ha rapporti sessuali quando e dove vuole.

La volgarità riempie lo schermo così come vuole riempire il mondo. E molti si rallegrano di vedere questa persona maldestra e così poco intelligente pavoneggiarsi come se fosse il centro del mondo, e conquistare potere per mezzo di questa postura».

Di fronte alle accuse di menzogne, Trump si è difeso dicendo di praticare la cosiddetta “iperbole reale”, “un’esagerazione innocente, ma una forma efficace di promozione”. I media europei utilizzano sempre più spesso l’espressione “post-truth politics”, politica della post-verità, per designare l’assenza di distinzione tra vero e falso, tra realtà e invenzione, caratteristica che secondo Hannah Arendt era il tratto distintivo del totalitarismo. I social network avrebbero creato un nuovo contesto caratterizzato dall’apparizione di bolle informative indipendenti le une dalle altre, spazi chiusi che si prestano alle dicerie più folli, al complottismo e alla menzogna. E impermeabili al “fact-checking” dei media. Durante la sua campagna Trump ha saputo rivolgersi, attraverso Twitter e Facebook, alle sue piccole repubbliche del risentimento, e federarle creando un’onda sovreccitata. Lei che cosa pensa del concetto di “politica della post-verità”?
«In un modo o nell’altro, non riesco a credere che siano parole dello stesso Trump, ma di qualcuno che cerca di normalizzare e perfino di approvare la sua relazione disinvolta con la verità. Non sono sicura che ci troviamo in una situazione di post-verità.

A me sembra che Trump si scagli contro la verità, e metta bene in chiaro che non pretende di sostenere le sue affermazioni con le prove, né le sue proposte con la logica. Le sue dichiarazioni non sono totalmente arbitrarie, ma è pronto a cambiare posizione continuamente, legandosi unicamente all’occasione, al suo impulso e alla sua efficacia. Per esempio quando ha detto di Hillary Clinton che una volta diventato presidente la “getterebbe in prigione”, è stato acclamato da quelli che la odiavano, anzi questo ha consentito loro di odiarla ancora di più.

Naturalmente non ha il potere di “gettarla in prigione”, e non ne avrà il potere neanche come presidente, senza una procedura penale piuttosto lunga e il giudizio di un tribunale. Ma in quell’istante lui è al di sopra di qualsiasi procedura giuridica, esercita la sua volontà come crede e traccia il modello di quella forma di tirannia che non si preoccupa realmente di sapere se Hillary abbia commesso un reato penale. Al momento, i fatti sembrano indicare che non è così. Ma lui non vive in un mondo di fatti. Le sue affermazioni sul fatto che Hillary Clinton non avrebbe vinto il voto popolare senza i milioni che illegalmente hanno votato per lei non possono essere dimostrate, ma in quel momento lui espone in pubblico la sua ferita narcisistica e cerca di delegittimare il voto popolare.

Contestualmente, scarta del tutto l’idea che i voti in suo favore possano essere illegali. Ha poca importanza se si contraddice o se si capisce che rigetta esclusivamente le conclusioni che intaccano il suo potere o la sua popolarità. Questo narcisismo sfrontato e ferito e questo rifiuto di sottomettersi ai fatti e alla logica lo rendono ancora più popolare. Lui vive al di sopra della legge, ed è così che molti dei suoi sostenitori vorrebbero vivere».

Dopo il 2011 abbiamo visto rinascere, su scala internazionale, movimenti di piazza come Occupy, gli Indignados, la Nuit Debout, le Primavere Arabe… Nel suo ultimo libro, “Notes toward a Performative Theory of Assembly”, lei analizza le condizioni che hanno portato alla comparsa di questi movimenti e le loro implicazioni politiche, estendendo le sue analisi sulla performance politica. Quando dei corpi si radunano in piazza, scrive, sono dotati di un’espressione politica che non si riduce alle rivendicazioni o ai discorsi tenuti dagli attori. Quali sono le forze che impediscono o rendono possibile un’azione plurale di questo genere? Qual è la natura democratica di questi movimenti?
«“Comparsa” forse non è la parola più adatta per tradurre l’inglese appearance, ma bisogna convivere con i fantasmi della lingua.

Le manifestazioni e le riunioni spesso non bastano a produrre dei cambiamenti radicali, ma modificano la nostra percezione di cos’è il “popolo” e affermano le libertà fondamentali che appartengono ai gruppi nella loro pluralità. Non può esserci democrazia senza libertà di manifestazione, e non può esserci manifestazione senza libertà di movimento e di riunione.

Questa libertà presuppone dunque la mobilità fisica e la capacità. Tante manifestazioni pubbliche contro l’austerità e la precarietà presentano dei gruppi, in strada e allo sguardo del pubblico, che subiscono essi stessi un declassamento e una privazione di diritti. Inoltre, manifestando in quel modo affermano l’azione politica collettiva. Perciò, se siamo in grado di pensare alle assemblee parlamentari come parte integrante della democrazia, siamo in grado anche di comprendere il potere extraparlamentare delle manifestazioni di modificare la concezione pubblica di cos’è il popolo.

Soprattutto quando compaiono persone che teoricamente non dovrebbero comparire ci rendiamo conto che in qualsiasi discussione su chi è il popolo la sfera dell’apparenza e i poteri che controllano le sue frontiere e le sue divisioni vengono dati per scontati».

Michel Foucault analizzava la crisi della democrazia a cavallo del V e del IV secolo avanti Cristo ad Atene al tempo stesso come un problema discorsivo, il paradosso del “parlare con franchezza” in democrazia (la “parrèsia” è pervertita) e come uno spostamento della “scena” del politico dall’agorà all’“eklèsia”, cioè dalla città dei cittadini alla corte dei sovrani. Lo sviluppo di queste nuove scene democratiche comparse a partire dal 2011 può essere considerato una rivincita dell’agorà sull’“eklèsia”?
«Prima di chiederci che cosa significa parlare con franchezza al potere dobbiamo chiederci chi può parlare.

A volte, la presenza stessa di coloro che teoricamente dovrebbero restare muti nel discorso pubblico finisce per oltrepassare queste strutture. Quando gli immigrati clandestini manifestano, o quando le vittime di espulsioni si riuniscono, o quando quelli che subiscono la disoccupazione o tagli drastici alla loro pensione si mettono insieme, si iscrivono nell’immaginario e nel discorso in un modo che ci dà un’idea di cos’è o cosa dovrebbe essere il popolo. Certo, presentano delle richieste specifiche, ma mettersi insieme è anche un modo di presentare una richiesta fisica, una rivendicazione che prende corpo nello spazio pubblico e una richiesta pubblica ai poteri politici.

Quindi, in un certo modo, dobbiamo entrare nel dibattito prima di poter parlare con franchezza al potere. Dobbiamo spezzare i vincoli della rappresentanza politica, per svelare la sua violenza e opporci alle sue esclusioni. Fintanto che l’argomento della “sicurezza” continua a servire come giustificazione per l’interdizione e la dispersione delle manifestazioni, delle riunioni e degli accampamenti, la sicurezza sarà usata per decimare i diritti democratici e la democrazia stessa. Solo una mobilitazione su larga scala, una forma di coraggio incarnato e transnazionale, si potrebbe dire, riuscirà a sconfiggere il nazionalismo xenofobo e i vari alibi che oggi minacciano la democrazia».

Traduzione di Fabio Galimberti

«La politica richiede capacità di guardare lontano, la politica impone di interrogarsi sulle conseguenze degli atti compiuti, e trarne le conclusioni». E invece, questi che hanno occupato il Palazzo...

MicroMega online, 23 dicembre 2016 (c.m.c.)

Lo so, dovremmo esserci abituati, dovremmo avere ormai gli anticorpi, dovremmo non stupirci più. E forse neppure arrabbiarci. Eppure... Eppure, al di là della rabbia, rimane un doppio quesito a cui non è facile trovare soluzione. Il primo riguarda il totale scollamento della classe politica, specialmente quella di governo (centrale e locale), dalla società: i rappresentanti dai rappresentati, gli eletti dagli elettori. Quando poi gli eletti lo sono grazie a una legge incostituzionale, oppure non hanno ricevuto alcun mandato parlamentare, neppure per tal via (si ricordi il caso clamoroso di Matteo Renzi), la cosa diventa evidentemente più grave.

In breve, lor signori se ne infischiano di quello che "la gente", ossia il popolo, il demos fondamento della "democrazia", chiede. Hanno "straperso" (cito Renzi) al referendum, e hanno fatto in tutta tranquillità un governo del "Sì". Hanno conservato al potere tutti coloro che si erano contraddistinti per accanimento nella campagna per l'approvazione della "riforma costituzionale", e addirittura hanno promosso la signora Maria Elena Boschi: un vero e proprio calcio in faccia a 20 milioni di cittadini e cittadine. E così, vanno avanti per la loro strada, incuranti, ciechi, sordi, insopportabilmente autoreferenziali, o semplicemente piegati ai veri loro "elettori": grandi banche, alta finanza, cartelli di imprenditori, BCE, e così via.

Ieri in Parlamento si è votato di nuovo a favore del TAV, opera sciagurata, costosissima, e fonte di guai, per tutti. Ogni studio di settore, geologico, economico, sociologico, paesaggistico, ha dimostrato, con numeri veri (non quelli fasulli del fasullo “Osservatorio” governativo), che il “supertreno” in Val di Susa non ha senso, e potrà portare benefici finanziari a pochi, sostanzialmente le ditte appaltatrici, e danni a tutti gli altri cittadini, e in primis ai valsusini, vessati, oppressi, da una vera e propria occupazione militare del territorio che dura da troppo tempo, con un incredibile accanimento di magistratura (la Procura di Torino) e forze dell’ordine, che in questo caso davvero sembrano le forze dell’ordine padronale. E allora: perché non sospenderla? perché non impiegare le risorse nelle opere utili, necessarie, improcrastinabili? Messa in sicurezza del territorio, misure di prevenzione antisismica, riassetto idrogeologico, per esempio... No. Si va avanti, imperterriti.

Altro esempio; i voucher, un insulto a chi lavora, un abominevole ritorno all’indietro, culturale prima che ideologico, e il Jobs act, un fallimento clamoroso, secondo dati certificati dall'Istat e da altri istituti: un ceto politico responsabile cancellerebbe gli uni e l'altro. Invece no, si va avanti. E l'orrido Poletti, ministro dei miei Lavoro, dopo aver lodato voucher e Jobs Act, se ne esce con una frase che è un capolavoro di imbecillità, un vero e proprio atto di guerra a una generazione che quelli come lui hanno costretto alla fuga da questo Paese condannato.

Non nuovo a uscite come l’ultima, del 19 febbraio scorso, Poletti, che ha un curriculum scolastico di Istituto tecnico (e basta!), si permette di deridere i giovani che stanno fuori. Giovani con tanto di lauree, spesso dottorati e master, che la classe politica ha deciso scientemente di espellere, incurante dei danni sociali di medio e lungo termine che una tale decisione comporterà. Pochi giorni prima sempre lui, il “ministro cooperativo”, come è stato etichettato felicemente, aveva sentenziato: «110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21 anni. Se si gira in tondo per prendere mezzo voto in più, si butta via del tempo che vale molto di più di quel mezzo voto».

Non ci ha neppure spiegato quale laurea si possa raggiungere a 21 anni (ma è poco pratico di università….: allora glielo spiego: a quell’età anche il più solerte studente potrebbe al massimo una Triennale che vale come il 2 di picche) E ha un’altra aggravante, quella di suo figlio, ultraquarantenne (non laureato, ça va sans dire!) che non ha avuto bisogno di emigrare, lavorando per uno dei tanti gangli del sistema cooperativistico una volta detto “rosso”, e in particolare per una cooperativa giornalistica che gode di lauti finanziamenti pubblici. Un altro insulto alle migliaia di giovani bravi, che si arrabattano con collaborazioni giornalistiche retribuite con oboli miserandi, non retribuite affatto. E naturalmente leggo sui giornali “il governo fa quadrato intorno al ministro del Lavoro”…

Ma cambiamo settore: e dal Lavoro (o meglio dal Non lavoro) passiamo all'istruzione? Stiamo aspettando che la nuova ministra, anch’essa priva di uno straccetto di laurea (forse persino di un vero diploma di Scuola superiore) cancelli la "Buona scuola": lo farà? No, non lo farà, magari al massimo proverà ad escogitare “aggiustamenti”, che forse finiranno per essere le classiche toppe peggio del buco. E, rimanendo nel settore, poiché non viene immediatamente ritirata la “riforma Gelmini”, che ha devastato gli atenei italiani? Oltre tutto una legge voluta e realizzata (la sola!) da Berlusconi. Allora il PD, sia pure senza barricate, era formalmente contrario.

Da anni è al governo. Perché l’ha tenuta, quell’osceno “ridisegno” dell’Università italiana? Esiste l’istituto dell’abrogazione: la sola cosa da fare, in casi di leggi cattive e dannose, è tirare un tratto di penna: abrogare la Legge Gelmini, abrogare il Jobs act, abrogare la “buona scuola”, e aggiungo la cosiddetta “riforma della Pubblica Amministrazione, firmata dalla ministra Madia, bocciata clamorosamente dalla Corte costituzionale: risultato? La legge è là, operante, e la Madia è stata confermata al suo dicastero.

E così seguitando, in un infinito elenco di scorrettezze istituzionali, all’insegna di una gigantesca stoltezza politica. In fondo non ha senso lamentarsene. Questi governanti sono in grado di essere altro da sé? Possono essere all’altezza dei ruoli che ricoprono? La risposta è nei loro atti. In ciò che fanno quotidianamente e in ciò che non fanno. La politica richiede capacità di guardare lontano, la politica impone di interrogarsi sulle conseguenze degli atti compiuti, e trarne le conclusioni. Dopo la vittoria clamorosa del “No”, nessun ministro del governo Renzi avrebbe dovuto essere confermato. Si sarebbe dovuto fare un governo istituzionale il cui unico compito era portare il Paese alle elezioni. Si è fatto un Renzi bis senza Renzi, ma nella sua ombra. Scandalosamente, tanto più per coloro che (Boschi, Fedeli…) avevano garantito le proprie dimissioni dal governo o addirittura dal Parlamento in caso di bocciatura della “riforma”.

Sono là, promosse entrambe. E vanno coi loro sodali avanti per la loro strada che non è la nostra. Vanno avanti, incuranti, sordi e ciechi davanti ai bisogni più evidenti del Paese, alle richieste più drammatiche della società, di quella parte sempre più ampia (dati Istat alla mano) di vecchi e nuovi poveri, di disoccupati, inoccupati, cassintegrati, di giovani o ex giovani senza futuro. I Poletti (un nome e direi anche ormai un volto simbolo), vanno avanti per una strada senza uscita, resistono alle loro scrivanie, mentre la casa brucia. Il Palazzo non si piega alla Piazza. Anche se nel Palazzo restano in pochi e la Piazza pullula di umanità scontenta e furiosa. Ma i Poletti sono tranquilli. Procedono. Restano. Governano. Un cupo “muoia Sansone con tutti i filistei” sembra guidare il loro agire.

Il secondo problema che mi pongo, riguarda la provenienza politica di larga parte di costoro, quelli del “Sì”, quelli del Tav, quelli del Jobs Act, quelli che l’articolo-18-è-superato, quelli della “Costituzione va aggiornata”, quelli dell’ “abbiamo una banca”…: ebbene, costoro da dove vengono? Dal PCI-PDS. E allora ti chiedi: ma come? Si sono formati nel Partito comunista? In quello di Enrico Berlinguer!? Certo non sono nati politicamente nel 1989. Allora qualche domanda su quella tradizione, o meglio sugli esiti di quella tradizione nel passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta, quanto meno, bisognerà porsela.

Quando Berlinguer nella famosissima intervista a Eugenio Scalfari nel 1981, parlava della “degenerazione” dei partiti, divenuti mere “macchine di potere”, quanta consapevolezza aveva che il suo proprio partito era divenuto esattamente così? Forse era un timore che non osava confessare pubblicamene, forse un monito ai suoi e un avvertimento. Non lo sapremo mai, ma sappiamo che con la sua morte, pochi anni dopo, il freno che la sua figura in sè stessa costituiva, venne meno. E fu campo libero per le centinaia, le migliaia di Poletti che vivevano nel sottobosco della tradizione del PCI, una tradizione che col comunismo aveva ben poco a che fare, e che invece si era mischiata e fusa con ambienti del socialismo craxiano, con ambienti bancari, imprenditoriali, ecclesiastici (a cominciare dalla cattolicissima Compagnia delle Opere).

La mutazione genetica del Partito non è iniziata con la Bolognina di Achille Occhetto, ma era in corso da tempo, da molto tempo. E oggi, ahinoi, dobbiamo constatare che proprio coloro che ne provengono sono i più fervidi esecutori delle politiche di aggressione alla democrazia e delle pratiche di disgregazione sociale. Un tragico paradosso per chi aveva creduto nella giustizia, nell’eguaglianza, nella libertà. Per fortuna, potremmo concludere, sono tutti morti. E i sopravvissuti non sembrano aver conservato neppure memoria di un tempo in cui essere comunista significava, essenzialmente, due cose: essere onesti e stare “dalla parte” del proletariato.

«E' stata dunque la politica stessa ad affidarsi ai giudici come “decisori finali”, azzerando in questo modo per se stessa i vincoli di moralità e di responsabilità propriamente politica. Ma questa constatazione porta ad un interrogativo: come restituire alla politica l’etica perduta» Forse, restituendo la politica al popolo.

La Repubblica, 17 dicembre 2016

TRA una politica che fatica a presentarsi in forme accettabili dai cittadini e un populismo che di essa vuole liberarsi, bisogna riaffermare una “moralità” delle regole attinta a quella cultura costituzionale diffusa la cui emersione costituisce una rilevantissima novità.
Mai nella storia della Repubblica vi era stata pari attenzione dei cittadini per la Costituzione, per la sua funzione, per il modo in cui incide sul confronto politico e le dinamiche sociali. I cittadini ne erano stati lontani, non l’avevano sentita come cosa propria. Nell’ultimo periodo, invece, si sono moltiplicate le occasioni in cui proprio il riferimento forte alla Costituzione è stato utilizzato per determinare la prevalenza tra gli interessi in conflitto.

Dobbiamo ricordare che nell’articolo 54 della Costituzione sono scritte le parole “disciplina e onore”, vincolando ad esse il comportamento dei «cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche». I costituenti erano consapevoli del fatto che il ricorso al diritto non consente di economizzare l’etica. Non si affidarono soltanto al rigore delle regole formali, ma alla costruzione di un ambiente civile all’interno del quale potessero essere esercitate le “virtù repubblicane”. Colti e lungimiranti, guardavano alla storia e al futuro. Non avevano solo memoria del fascismo. Rivolgevano lo sguardo ad un passato più lontano, anch’esso inquietante: agli anni del “mostruoso connubio” tra politica e amministrazione denunciato da Silvio Spaventa.

Così la questione “morale” si presenta come vera e ineludibile questione “politica”. Lo aveva messo in evidenza in passato Enrico Berlinguer. L’intransigenza morale può non piacere, ma la sua ripulsa non può divenire la via che conduce a girare la testa di fronte a fatti di corruzione anche gravi. Altrimenti la caduta dell’etica pubblica diviene un potente incentivo al diffondersi dell’illegalità e a una sua legittimazione sociale.

In questi anni il degrado politico e civile è aumentato. È cresciuto il livello della corruzione, in troppi casi la reazione ai comportamenti devianti non è stata adeguata alla loro gravità. Tra i diversi soggetti che istituzionalmente dovrebbero esercitare forme di controllo, questa attività si è venuta concentrando quasi solo nella magistratura. Ma la scelta del ceto politico di legare ad una sentenza definitiva qualsiasi forma di sanzione può produrre due conseguenze negative. Non solo la sanzione si allontana nel tempo, ma rischia di non arrivare mai, perché non tutti comportamenti censurabili politicamente o moralmente costituiscono reato.

Non ci si è accorti dell’ampliamento del ruolo che da ciò derivava per la magistratura, eletta a unico e definitivo “tribunale della politica”. E questo non è un segno di buona salute, perché i sistemi politici riescono a mantenere equilibri democratici solo quando vi è il concorso di tutti i soggetti istituzionali ai quali questi equilibri sono affidati.

È stata dunque la politica stessa ad affidarsi ai giudici come “decisori finali”, azzerando in questo modo per se stessa i vincoli di moralità e di responsabilità propriamente politica. Ma questa constatazione porta ad un interrogativo: come restituire alla politica l’etica perduta?

«Il "nuovo" governo. Il responso referendario e il suo valore costituente. Il campo è aperto. La geografia del voto lo mostra in tutta la sua estensione e asperità. Chi avrà il coraggio di incominciare a esplorarlo ne sarà premiato».

il manifesto, 13 dicembre 2016 (c.m.c.)

Lo spettacolo è francamente inguardabile, a una settimana dal voto che ha travolto Matteo Renzi e il suo governo. Intendo lo spettacolo pubblico, recitato «in alto» dall’intero establishment. Il modo con cui nasce il governo Gentiloni, le procedure del suo incarico (con le cosiddette consultazioni parallele tra il Colle e Palazzo Chigi, cose mai viste!). E poi la sua composizione (fotocopia)

Sono un insulto al voto degli italiani, al principio di realtà, alla stessa Costituzione miracolosamente salvata il 4 dicembre: al suo articolo 1 naturalmente, e al meno noto articolo 54 (che impone, per le funzioni pubbliche «il dovere di adempierle con disciplina ed onore», cioè accettando i verdetti popolari e rispettando verità e parola data). Che a Palazzo Chigi sieda un «uomo di Renzi», che il governo Renzi succeda a se stesso nella maggior parte dei suoi membri, soprattutto che Matteo Renzi continui a detenerne la golden share mantenendo la segreteria del Partito e di lì accanendosi a inquinare la vita politica, dopo aver dichiarato che in caso di sconfitta si sarebbe ritirato da tutto, è un danno d’immagine devastante non solo per lui e il suo partito, ma per l’intero Paese.

Sembra fatto apposta per confermare la peggiore immagine degli italiani, furbeschi e infingardi. Non un buon viatico per le nostre banche e i nostri conti. In fondo David Cameron, che pure non era un granché, è sparito dalla scena dopo la Brexit (perduta peraltro per un soffio), e con lui i suoi uomini più fedeli, altro che Lotti ministro (con delega all’editoria) e Maria Elena più che mai in sella! Diverso il quadro «in basso».

Il voto – quel NO urlato nelle urne – comunica un messaggio politico potentissimo. Parla alla politica con il linguaggio duro dei cataclismi naturali.

E lo fa anche, e soprattutto, perché ha, alla sua radice, un fortissimo, durissimo, connotato sociale. Lo dicono tutte le analisi dei flussi: la mappa del NO ricalca, fedelmente, la mappa del disagio. Anzi, dei disagi: sociale, generazionale, di genere, territoriale. Il No cresce, esponenzialmente, col diminuire del reddito disponibile, coll’aumentare della disoccupazione, in particolare di quella giovanile, con il passaggio dai centri alle periferie delle grandi città, e naturalmente con l’esplosione del Sud.

Si potrebbe dire che il populismo dall’alto renziano – la sua baricchesca narrazione – si è schiantato contro un popolo impastato di realtà. E di sofferenza, materiale ed esistenziale. È stato, quel voto che in tanti vorrebbero mettere in soffitta, una gigantesca porta sbattuta in faccia a tutti gli establishment, nazionali ed esteri.

Si potrebbe dire che non è cosa nuova. Che già il voto inglese, e in parte quello americano, avevano alla radice quello stesso reticolo di rabbia sociale, malessere, impoverimento e risentimento dei fargotten contro le rispettive élites. Ma per l’Italia vale un dato diverso, e originale. Qui è avvenuto il «miracolo» per cui quella rabbia e quel disagio hanno trovato, come punto di convergenza e comun denominatore, la Costituzione.

La Costituzione democratica, egualitaria e antifascista intorno a cui hanno dovuto raggrupparsi tutti, anche quelli che, per appartenenza politica, starebbero da un’altra parte. Non è poco. Anzi, direi che è (quasi) tutto. Significa che le parti dolenti della nostra società, i settori più fragili e più provati, il mondo del lavoro, i ceti medi impoveriti, quelli che stanno fuori dalle narrative di potere, sentono la Carta Costituzionale come «loro»: un ombrello e una protezione sotto cui ripararsi. Per questo credo si possa dire che, per le dimensioni della partecipazione e per il segno inequivoco del responso, il Referendum costituzionale del 4 dicembre assume carattere «costituente».

Costituente all’interno, nei confronti della politica italiana, perché dice forte e chiaro che nessuno deve più azzardarsi a tentare di manomettere la nostra Costituzione e di deformarne forma di governo e sistemi di garanzie istituzionali. E costituente verso l’esterno, verso l’Europa in primis, perché dice che non sono più ammissibili intromissioni volte a stravolgere l’assetto istituzionale del Paese, a ledere i diritti costituzionalmente garantiti e a limitare o deformare il principio di rappresentanza. Non si tratta di adeguare la Costituzione italiana ai trattati internazionali, ma di riconoscere solo quei trattati che ne rispettano le linee guida.

Costituente, in fondo, anche, nel nostro piccolo, per noi. «Abbiamo difeso la Costituzione, adesso imponiamo di attuarla!». Questo potrebbe essere il programma comune di quella ampia, variegata, creativa area che su un versante radicalmente democratico si è battuta per il NO. La premessa per trasformarla nell’embrione di una proposta di rappresentanza elettorale.

Ma non nascondiamocelo: è un’impresa impegnativa. Che richiederà molti passi indietro e ancor più passi avanti. Perché non è cosa da frammenti di vecchie identità infrante. Richiederà soprattutto la necessità di assumere una logica da «anno zero». Nuovi linguaggi, nuove pratiche, nuove forme di ascolto di un sociale diventato indecifrabile per le consuete culture politiche: un esodo dalle macerie avendo però, come ragione, finalmente una vittoria.

Tutto, ma davvero tutto, si è consumato, compresa quell’ombra lunga di centro sinistra cui ancora molti superstiti sembrano guardare (e che con l’estremo endorsement di Prodi si è definitivamente inabissato); compresa la patetica nostalgia di Giuliano Pisapia per un Pd che non c’è più come se lì, dopo il bagno renziano, non si fosse consumata una vera mutazione antropologica… Il campo è aperto. La geografia del voto lo mostra in tutta la sua estensione e asperità. Chi avrà il coraggio di incominciare a esplorarlo ne sarà premiato.

».

ilmanifesto, 11 dicembre 2016 (c.m.c.)

Abbiamo evitato il peggio. E ora? Nessuno si illuda, la strada è ancora in salita. Se non vogliamo cadere non possiamo star fermi, dobbiamo continuare ad arrampicarci. Soprattutto evitiamo d’inciampare. Non lasciamo che una nobile e non scontata vittoria della democrazia costituzionale, da noi così faticosamente costruita, sia ricondotta alle miserie della cronaca, per poi svanire nel nulla. Il rischio è di ritrovarci, tra qualche anno, ancora sotto assedio, di nuovo a difendere i principi costituzionali da un sistema politico che da tempo si mostra insofferente ai limiti che le leggi supreme pongono ai sovrani di turno.

I primi commenti, dopo il referendum, sono tutti orientati a valutare le ripercussioni politiche immediate; concentrati sulla crisi di governo, sui nuovi equilibri all’interno delle diverse forze politiche, sul futuro personale di Renzi. Molti partiti cercano di cavalcare la vittoria, per ottenere un successo fulmineo, andando alle elezioni. Persino il partito responsabile della débâcle referendaria tenta di risorgere dalle ceneri, mettendosi il più rapidamente possibile alle spalle la questione della costituzione e della sua riforma, per ripresentarsi agli elettori come se nulla fosse accaduto.

C’è un gran bisogno di qualcuno che guardi più in là se si vuol far sì che il referendum abbia un seguito non effimero. Una decisione popolare sulla costituzione deve intervenire sul corso della storia politica e sociale di questo paese che da oltre vent’anni arretra: può legittimare un cambiamento radicale. Arrestare il lungo regresso, è questo il compito ampio, ambizioso, ma ineludibile, che la cesura espressa dal voto popolare ci affida. Un’impresa che non può essere semplicemente delegata ai partiti, perlopiù screditati e compromessi; un obiettivo che non può essere barattato neppure con la vittoria alle prossime elezioni.

Sarebbe probabilmente una vittoria di Pirro, che condannerebbe comunque i vincitori ad operare entro un sistema istituzionale e culturale compromesso a tal punto da rendere assai probabile il fallimento. Inutile nasconderlo: dobbiamo attrezzarci ad una lunga marcia.

Per cambiare finalmente strada, muovendosi nella giusta direzione, bisogna anzitutto comprendere il senso profondo del voto che si è espresso contro la riforma Renzi-Boschi. Esso deve essere interpretato come la volontà di riaffermare i principi della costituzione, determinazione espressa con uno spirito tutt’altro che conservatore. Solo la retorica del potere poteva far credere che si era contro questa riforma perché soddisfatti dello stato di cose presenti.
Nessuno ha difeso l’odierno bicameralismo agonico, né l’attuale regionalismo caotico, in caso s’è compreso che la riforma avrebbe peggiorato la crisi. Il rifiuto ha riguardato la pretesa di accentrare il potere, contrapponendo un’altra idea di costituzione. Un voto arrabbiato, in caso, ma non certo arreso. Tant’è che contro la riforma si sono espressi soprattutto i più giovani e i meno abbienti, da sempre il motore del cambiamento. Ma – si potrebbe replicare – anche i fautori della riforma intendevano «cambiare».

È vero: la riforma avrebbe indubbiamente prodotto una profonda trasformazione dell’assetto istituzionale definito in costituzione. Dunque, a ben vedere, si sono scontrati due diversi modi di intendere il rapporto tra governanti e governati, diverse visioni di democrazia costituzionale. Da un lato, coloro che ritengono essenziale semplificare la complessità sociale e rendere autoreferenziale il sistema politico e le istituzioni rappresentative (seguendo il modello classico della democrazia d’investitura), dall’altro chi crede si debba estendere la partecipazione e legittimare i conflitti sociali, rendendo le istituzioni rappresentative il luogo della composizione e del compromesso politico (secondo un diverso e altrettanto tipico modello di democrazia pluralista e conflittuale). La prima prospettiva è quella perseguita negli ultimi vent’anni non solo in Italia. La seconda ha vinto il referendum.

Entro questo secondo schema dovremmo dunque lavorare, non sarà facile dare forma e sostanza al modello indicato. D’altronde, non può pretendersi che il rifiuto del 4 dicembre si trasformi come d’incanto in un progetto costituzionale inverato. Sta a noi costruirlo. Un viatico però c’è, ed è la costituzione, che non a caso esprime proprio quel certo modello di democrazia pluralista e conflittuale che da tempo si vuole sterilizzare. Sono dunque i suoi principi che ci indicano la rotta. Tutti coloro che in questi anni si sono adoperati per favorire un cambiamento contro la costituzione avranno difficoltà a comprendere che essa possa oggi rappresentare la leva della trasformazione radicale della realtà. Ma non può invece stupire chi conosce la forza prescrittiva (“rivoluzionaria”) che i testi costituzionali hanno espresso nella storia. E che ancora possono dispiegare.

Certo per impegnarsi in questa direzione diventa necessario recuperare una solida cultura costituzionale. Essa sembrava essere scomparsa, affogata nella retorica del revisionismo costituzionale dominante. E invece l’abbiamo ritrovata – anche con qualche meraviglia – nei tanti incontri che hanno caratterizzato questa lunga, interminabile campagna referendaria. In fondo un merito grande dobbiamo riconoscerlo ai nostri improvvidi revisionisti. Grazie a loro di costituzione abbiamo discusso per mesi e il popolo ha risposto non solo nelle urne, ma anche nelle piazze. In giro per l’Italia sono sorti comitati, si sono impegnati in riflessioni, né facili né consuete, gruppi sociali, associazioni, singoli individui. Una riscoperta del valore della costituzione c’è stata.

Se questo è il quadro, qual è l’agenda? Quali, in concreto, le rivendicazioni possibili? Quali i cambiamenti pretesi? Non è difficile indicarli, anzi lo abbiamo già fatto in tutti i nostri incontri prima del referendum.

La riforma sepolta voleva ridurre ulteriormente l’autonomia e il ruolo costituzionale del parlamento a favore di una idea distorta e impropria di stabilità dei governi. Noi abbiamo rilevato la necessità di recuperare la centralità dell’organo della rappresentanza politica e quella delle persone concrete. Se veramente vogliamo invertire la rotta non rimane che mettere in pratica le misure necessarie:

una legge elettorale che permetta ai diversi soggetti sociali di trovare una rappresentanza istituzionale e che ricolleghi l’elettore all’eletto, senza cedere all’eccesso di frammentazione (ovverosia un sistema proporzionale uninominale con sbarramento);

il rafforzamento degli istituti di partecipazione diretta che si affianchino alle istituzioni di democrazia rappresentativa (non si tratta solo di ripensare i referendum, ma anche dare contenuto agli strumenti d’iniziativa popolare che devono essere discussi dagli organi della rappresentanza, come una semplice modifica dei regolamenti parlamentari potrebbe garantire);

nuove regole di discussione parlamentare (il che vuol dire riscrivere i regolamenti parlamentari, abbandonando le attuali logiche “decidenti”, per adottare nuovi principi che assicurino, da un lato, alcune prerogative della maggioranza, dall’altro, la possibilità delle opposizioni di partecipare a pieno titolo alla decisione garantendo l’esame approfondito delle proposte di tutti);

la limitazione dell’invasività del governo in parlamento (basterebbe impedire – sempre per via regolamentare – la possibilità di proporre maxiemendamenti e limitare l’abuso delle richieste di fiducia sui disegni di legge, si dovrebbe inoltre dare applicazione alla normativa e alla giurisprudenza costituzionale esistente per limitare la decretazione d’urgenza);

la ridefinizione dei ruoli costituzionali del legislativo e dell’esecutivo (con una riduzione del numero delle leggi grazie ad una legislazione solo di principio e una semplificazione della fase di attuazione della normativa da affidare ai governi);

la razionalizzazione dei rapporti tra Stato centrale e enti territoriali, in base ad una coerente scelta di sistema (che può portare alla abolizione del Senato e alla riorganizzazione della Conferenza Stato-autonomie, ovvero alla definizione di un equilibrato regionalismo solidale).

Questo è un primo incompleto elenco delle possibili innovazioni con riferimento all’organizzazione dello stato, quella su cui si voleva intervenire con la riforma sconfitta. Possibili cambiamenti in nome della costituzione, opposti a quelli che si volevano imporre contro di essa. Ma, il nostro riformismo radicale non può certo accontentarsi di riorganizzare lo Stato-apparato: non abbiamo mai creduto alla favola della costituzione fatta a fette. La prima parte sui diritti intangibile e buona di per sé, la seconda sui poteri liberamente modificabile e nella totale disponibilità del revisore. Un modo per sterilizzare la costituzione nel suo complesso.

Il rilancio della cultura costituzionale deve voler dire anche abbandonare queste mistificazioni. Una migliore organizzazione dei poteri serve in primo luogo per dare effettiva attuazione ai diritti costituzionali. È da qui che possiamo partire. Non sarà facile vista la drammatica assenza di una rappresentanza politica a sinistra. Ciò non toglie che ciascuno dovrà fare la sua parte ed assumersi le proprie responsabilità. Soprattutto a sinistra.

«Questo è il domani che ci aspetta. Con la vittoria del no abbiamo vinto la battaglia. Ma la guerra continua e i signori dell’èlite plutocratica mondialista stanno riorganizzando il conflitto». Il Fatto Quotidiano, il blog di Diego Fusaro, 8 dicembre 2016 (c.m.c.)

State pronti: il gruppo finanziario JP Morgan, l’Ue e gli Usa non hanno ottenuto il risultato sperato, giacché in Italia ha vinto il No al referendum costituzionale.

Non è passata la loro linea, supportata dal nostro partito governativo atlantista ed euroservo, atta a destrutturare lo Stato nazionale, a desovranizzare e a spoliticizzare la politica, di modo che il fanatismo economico finanziario possa svilupparsi senza residui ostacoli e senza i lacci e i lacciuoli degli Stati.

Il piano dei signori globalisti neofeudali e neo-oligarchici è fallito. Ora stanno lavorando per ottenere per altra via il loro obiettivo, cioè distruggere la sovranità nazionale, la Costituzione e i diritti sociali: stanno lavorando per imporre un “governo tecnico” (si legga: colpo di Stato finanziario ) all’Italia, con tanto di troika in casa.

Questo è il domani che ci aspetta. Con la vittoria del no abbiamo vinto la battaglia. Ma la guerra continua e i signori dell’èlite plutocratica mondialista stanno riorganizzando il conflitto.

È notizia di oggi, prontamente negata e smentita: come nei tradimenti amorosi, i colpevoli agiscono negando fino alla fine. Padoan chiederà un prestito miliardario al fondo salva stati: l’Italia come la Grecia entra nel girone dell’indebitamento, con annesso ingresso della troika nel Paese e distruzione in un colpo solo della Costituzione e della sovranità nazionale.

Ciò che non sono riusciti a fare – la riforma costituzionale – lo faranno ora con una giunta militare di tipo economico, con una dittatura finanziaria il cui compito sarà la distruzione finale della sovranità nazionale con annesse “riforme” di adeguamento dell’Italia alla linea europea: distruzione dello stato sociale, tagli salariali, ulteriori aggressioni al mondo del lavoro e dei diritti sociali. I signori del mondialismo continuano nella loro lotta di classe ai danni delle masse precarizzate che subiscono in silenzio.

«E poi è arrivato Fidel, la cui storia è talmente folle che sembrerebbe finta, se non fosse invece reale e documentabile. Si cita spesso “La Storia mi assolverà”».

Contropiano, da Haramlik, il blog di Lia, 27 novembre 2016 (c.m.c.)

Io non ho amato Cuba, nei tre anni trascorsi a studiare lì. Tanto è vero che mi spostavo in Messico ogni volta che potevo, e alla fine a Cuba ci avrò trascorso un anno e mezzo in totale. Non l’ho amata perché amo poco le isole, in generale, e perché i cubani mi davano sui nervi, parecchio. E la pativo: l’embargo è uno stillicidio di cose che non funzionano, che non si trovano, che sono difficilissime da fare.

L’embargo crea paesi logoranti dove la sopravvivenza è legata all’organizzazione che ti dai, e dove tu, straniero, sei sempre in torto: perché hai più soldi – credono loro – e vieni dalla parte di mondo che la vorrebbe vedere cadere, Cuba, e l’isola risponde togliendoti ogni tratto umano e trasformandoti in un portafogli che cammina, caricaturizzandoti nel cliché dello straniero a Cuba che, nove volte su dieci, non è una bella persona. Io, quindi, ogni volta che potevo prendevo il mio Cubana de Aviación e in 50 minuti ero in Messico, dove la gente era normale e non si aspettava di essere pagata anche solo per rispondere a un “buongiorno”. E dove, perdonatemi, mangiavo: un’insalata che non fosse di cavolo, una minestra che non fosse sempre e solo di riso con fagioli, un frutto che non fosse l’unico che si trova a Cuba di trimestre in trimestre.

Un’introvabile patata. Un gelato che non fosse stato scongelato e ricongelato quaranta volte. A Cuba, a meno che tu non voglia spendere molti soldi – e anche lì, uhm – apprendi cos’è la deprivazione sensoriale, dopo mesi passati a provare un sapore solo. Io a Cuba una volta sono quasi svenuta in un supermercato, dopo due giorni trascorsi all’infruttuosa ricerca di un pomodoro. Il corpo ti chiede certe vitamine, certi sali minerali, e tu non riesci a darglieli. Atterravo in Messico e, i primi due giorni, mi strafogavo.

Eppure, Cuba funzionava. A modo suo. Davanti a ogni facoltà, all’università, c’era una targa che ringraziava la tale Comunità Autonoma spagnola che aveva finanziato il sistema elettrico. All’interno della facoltà sembrava di essere negli anni 50 dopo un bombardamento: banchi, cattedre, lavagne, tavoli sbilenchi, lampadine a intermittenza, computer e telefoni arcaici, sedie metalliche incongruenti, tutto in rovina, tutto cadente, e in mezzo a tutto questo professori trasandati, sciupati, malvestiti, che però ti facevano lezioni durante cui il tempo volava, che sapevano quello che facevano, che erano bravi. A volte proprio bravi.

L’assoluta incongruenza tra lo squallore del luogo e la qualità delle parole. E la serietà, la severità, l’inflessibilità dietro la trasandatezza. La gente che ho visto bocciare all’esame di dottorato. L’incongruenza che tu, straniera, avvertivi tra come si presentava il tutto e la loro altissima considerazione di sé. Perché i cubani hanno un’immensa stima di sé. I cubani si sentono speciali, bravissimi, una specie di razza eletta. E questo non te lo aspetti, da un paese che cade a pezzi. E siccome te la fanno pesare, la loro presunzione, la loro certezza di essere degli immensi fighi, un po’ li strozzeresti e un po’ ti ritrovi ad ammettere che tutti i torti non ce li hanno. Li strozzeresti per i modi, ma poi devi ammettere che la loro forza è tutta lì. Nel sentirsi i migliori di tutti e quelli che non hanno paura di nessuno.

E’ difficile, per una come me, arrivere all’aeroporto praticamente in fuga, pregustando il mondo normale che riabbraccerai entro un’ora, sopportare con odio le ultime angherie cubane prima di entrare nell’aereo (un assorbente dieci dollari di cui otto te li metti in tasca tu, negoziante cubana che abusa del mio stato di straniera in difficoltà?) e poi, nel momento esatto in cui l’odio ti trabocca da dentro, vedere gli sportelloni di un aereo angolano che si aprono e i passeggeri che cominciano a scendere: in sedia a rotelle, in barella, uno più sciancato dell’altro. Africani che vanno a curarsi a Cuba.

Gente che noi, in Europa, lasciamo morire con indifferenza se non soddisfazione, e che la poverissima Cuba invece accoglie e cura. E tu che fai? Guardi, ti rendi conto, e che te ne fai più del tuo odio? Ti accorgi che sei una straniera viziata o, peggio, che non sei proprio nessuno. Che la Storia, da quelle parti, non sei tu, non passa per l’Europa. Tu sei lo spettatore pagante, se ti va bene, oppure aria, vattene. Cuba mette a fuoco altro da te.

L’Europa, in effetti, è lontanissima. Ed è straniante sentire gli europei che parlano di Cuba e dicono sempre, puntualmente, tutto il contrario di quello che vedi tu. Dai massimi sistemi a quelli minimi. Cominciamo dai primi: «E’ una dittatura, la gente vuole fuggire, gli omosessuali perseguitati, i dissidenti». In realtà, l’immagine di dittatura cubana che si ha all’estero è quella dei primi anni 70, del cosiddetto “quinquenio gris” che la stessa ortodossia politica della Cuba di oggi definisce come «intento de implantar como doctrina oficial el Realismo socialista en su versión más hostil.» La definizione è diEcuRed (la Wikipedia cubana, per intenderci) ma io stessa ho sentito criticare, addirittura ridicolizzare quell’epoca nelle aule universitarie dell’Università dell’Avana. Sono passati 35 anni da allora, gente. Cuba non è quella cosa lì. I cubani fanno il diavolo che gli pare. E pure gli stranieri.

Diceva la mia padrona di casa: «Tre cose non si possona fare, a Cuba: le droghe, lo sfruttamento dei bambini e, se sei straniero, una smaccata propaganda antistatale. Per il resto, se vuoi camminare per strada nudo e a testa in giù nessuno ti dice niente.» I dissidenti? Avranno una dignità quelli legati alla Chiesa, suppongo, ma credo che tutti sappiano che le varie Damas en Blanco, per non parlare poi della Sanchez, prendono soldi per ogni manifestazione che fanno (famoso un loro sciopero perché non erano pagate abbastanza). Io non ho conosciuto nessuno, letteralmente nessuno, che ne parlasse con un minimo di rispetto.

E’ gente pagata, punto, chiusa la questione. Poi, certo, la gente parla di poltica, immagina il futuro, esprime idee. C’è chi ama (amava, gessù…) Fidel e chi lo detesta/detestava. E chi, la maggior parte, ha sentimenti ambigui, tra l’ammirazione e il rancore. Chi cambia idea ogni secondo. Perché, di fondo, i cubani sono orgogliosi delle loro conquiste. Sono orgogliosi di quello che hanno combinato. E fanno catenaccio, sono uniti, sono isolani. Ecco, sono isolani. Non capisci Cuba se non ti metti in testa questo: che sono isolani, e per loro il mondo è Cuba e tutto il resto c’è se serve, sennò può pure affondare. Vogliono scappare? In realtà vogliono viaggiare. Perché sono isolani, appunto. C’è tanto mondo che non hanno mai visto. E poi, certo, vogliono soldi. Vogliono comprare cose. Vogliono guadagnare, come è umano che sia. Ma poi vogliono tornare. I cubani muoiono di nostalgia, lontano da casa, dalla famiglia, dalla loro gente, dal loro riso e fagioli. Sono uniti da fare schifo, i cubani. E se si sentono minacciati, di più.

Ne sanno qualcosa gli USA, che inasprirono l’embargo nel momento esatto in cui cessarono gli aiuti dall’URSS e a Cuba fecero, letteralmente, la fame. Speravano in una rivolta, gli USA. Si ritrovarono con un popolo che si rimboccò le maniche per l’ennesima volta e ne uscì in piedi, come sempre. Inventandosi cose come il pastrocchio di soia, ripugnante intruglio distribuito alla popolazione come “proteinas para el pueblo“. Perché poi sono pratici: il corpo ha bisogno di proteine, vitamine, carboidrati? In qualche modo li ingurgitavano. E nei parchi ci sono gli attrezzi per fare ginnastica, tipo palestra.

E se non ci sono medicine, ricorrono alle piante, alla medicina naturale. Ne escono sempre. E si concedono pure il lusso di esportare i loro medici in Venezuela, come altri esporterebbero, chessò, rame, in cambio di petrolio venezuelano. Questo, hanno fatto i cubani: hanno esportato medici in cambio di petrolio. Perché questo è quello che hanno: la loro formidabile, benché odiosissima, gente. Suona retorico, lo so. Odio scriverlo, odio dirlo. Però è vero. Incredibilmente, è vero. Come, poi, questi medici, questi professionisti cubani riescano ad essere bravi nonostante ristrettezze di ogni genere (falla tu, ricerca, in un paese con internet a pedali) io non lo so e non l’ho capito. Ma ce la fanno.

Gli omosessuali, poi: a Cuba si celebra il Pride, per dire. Sono finiti gli anni 70, “Fresa y chocolate” fu girato con sovvenzioni statali, non scherziamo. Ma, soprattutto, ricordo una pubblicità progresso dello Stato, dei cartelloni esposti nelle farmacie che mi colpirono molto. Era una cosa sulla prevenzione dell’AIDS e c’era la foto di due gay che si baciavano. Ma a differenza dell’Europa, dove i due gay sarebbero stati giovani e bellissimi, nella foto cubana c’erano due signori di mezz’età, bruttini, normali. Due comuni cittadini, come li avresti potuti incontrare sul pianerottolo. Né giovani, né belli, né magri, niente. Due signori che si baciavano e un pacato invito all’amore che non escludeva la prevenzione. Sobrio. Rispettoso. Bello. Mi sembrò un esempio da seguire. Del resto, Cuba è molto poco patinata. Non ha neanche la pubblicità, se è per questo. Solo pubblicità progresso e grosse scritte motivazionali un po’ ovunque. E’ il buono dell’avere molto poco da comprare, nessuno cerca di convincerti a farlo.

Altrettanto stranianti mi paiono poi i discorsi degli stranieri che celebrano i cubani come un popolo di felici danzerini sempre di buon umore e simpatici, uh, che simpatici. Di buon umore? Io, gente stronza come all’Avana ne ho vista poca, in vita mia. Quando diventa chiaro che non li vuoi scopare, che non gli vuoi offrire da bere, che non ti caveranno una lira, tu diventi trasparente ma attorno a te si dispiega la realtà: gente affaticata, incazzosissima, arrogante o, semplicemente, con i cazzi suoi a cui pensare, come è giusto e normale che sia. No, non sono ciarlieri: puoi farti un’ora su un taxi collettivo strapieno senza che nessuno parli con nessuno.

Puoi andare mille volte allo stesso bar senza scambiare una parola col barista. Ricevere una gentilezza gratis è rarissimo, ricevere un sorriso non interessato di più. Se sei in difficoltà attiri gli squali. E più è giovane, la gente, e più è stronza. Ecco, questa è una cosa importante: il divario tra i vecchi e i giovani, a Cuba. Con la crisi degli anni Novanta, il sistema scolastico cubano si ritrovò a piedi, come molte altre cose. Con il grosso dei maestri esportati in giro, ci si ritrovò con i ragazzi più grandi a fare lezione ai più piccoli, per dire, e a un generale decadimento dell’istituzione. Per questo e altri motivi, si percepisce uno stacco culturale importante tra i cubani da una certa generazione in giù. I giovani non valgono quanto i loro padri.

E questo sarà un problema, in prospettiva. Poi, è vero, la gente fuori dall’Avana (o da Varadero, gessù) è meglio. Molto meglio. Ma i cubani sono, dicevo, isolani. Cocciuti, orgogliosi, quello che vuoi tu, ma non amichevoli. Ma manco per il cazzo, proprio. Se sono amichevoli, anzi, è meglio che ti preoccupi. Avranno i loro motivi, e sono motivi che non ti convengono. Esagero? Sì, un po’. Sintetizzare crea stereotipi, è ovvio. Però, ecco, stereotipo per stereotipo, quello dello stronzo mi pare più azzeccato di quello del felice danzerino. Fermo restando che ballano benissimo, è ovvio.

Ma siamo sempre lì: se da una parte io li detestavo – a un certo punto li detestavo proprio tutti, senza eccezioni – dall’altra, poi, mi accorsi in fretta che, nel resto dell’America Latina, potevo usare il mio status di residente a Cuba come un’onoreficenza, una cosa che mi distingueva in positivo dalla massa europea. Soprattutto in Nicaragua. In Nicaragua, quando la gente scopre che vivi a Cuba si emoziona. Manca solo che ti abbracci. Perché, in un modo o nell’altro, tutti debbono qualcosa ai cubani. «Io mi sono laureato a Cuba, gratis!» «Mio padre è stato salvato da un medico cubano!» Una folla. Il Nicaragua trabocca di gente che in gioventù è stata presa e spesata da Cuba per studiare, che ha avuto vitto e alloggio gratis per anni, che ha con l’isola un debito a vita. E se tu vivi a Cuba, pare che ce l’abbiano anche con te, il debito. Ti trattano bene. Ti rispettano. I cubani sono rispettati, in America Latina. Se lo sono guadagnato. E alla fine, è questo: li rispetti. Io li rispetto. Non li amo, ma li rispetto.

E quando hai girato per tutto il Centro America, e non ne puoi più di vedere bambini coperti di stracci, bambini che in Chiapas vanno a lavorare trascinandosi zappe più grandi di loro, bambini che circondano il Ticabus a ogni sosta della Panamericana armati di stracci e si mettono a lavarlo in cambio di un’elemosina, finisce che non vedi l’ora di tornarci, a Cuba, e di vedere finalmente bambini normali (la normalità è un concetto molto mobile), con l’uniforme lavata e stirata, belli pettinati con la riga a lato o le treccine e che vanno, tutti, A SCUOLA. Oppure a giocare. E che non lavorano. Mai. Riatterri a Cuba che trabocchi di rispetto. Lo dici al taxista che ti riporta all’Avana e lui è contento, rincara la dose: «E’ vero, noi ci lamentiamo e ci dimentichiamo del buono, ma è proprio vero. Anche i nostri portatori di handicap, non c’è confronto. E che dire della delinquenza, del narcotraffico? Siamo fortunati, noi.»

Sì, sono fortunati, loro. Perché è una questione di prospettiva: se nasci povero, malato, sfortunato, è meglio se nasci a Cuba. Molto meglio, proprio. Fuori da lì, muori e muori male. Un povero non vuole essere guatemalteco, haitiano, dominicano. Vuole essere cubano, credimi.

Cosa si può dire di Fidel nel giorno della sua morte? Questo, probabilmente: che ha dato un senso allo sfuggente concetto di “cubanità”. Concetto che i cubani inseguivano da un secolo, prima che arrivasse lui. Che ha preso un popolo che lottava per la sua indipendenza da cent’anni – prima contro gli spagnoli e subito dopo, come una grottesca beffa, contro gli USA che ne presero il posto – e lo ha reso, per la prima volta nella sua storia, indipendente. Parliamo un po’ di questo, di cosa è la “cubanità”. I cubani sono figli di due popoli entrambi sradicati, spagnoli e africani, piombati su un’isola dove gli indigeni erano scomparsi praticamente subito e senza quasi lasciare traccia.

Sono il risultato dell’incontro/scontro e poi mescolanza di europei venuti a fare soldi e di africani trascinati come schiavi. Sarebbero un’accozzaglia di storie e culture diverse, di radici sradicate, di bianchi e neri, schiavisti e schiavi, violentatori e violentati, se tutte queste storie e queste culture non si fossero mischiate, se tutti non fossero andati a letto con tutti, se l’immenso meticciato che ne è derivato non si fosse unito, a un certo punto, nel nome della lotta per l’indipendenza. Cuba è giovane. Diceva uno dei suoi grandi intellettuali, Fernando Ortiz: «Tutto quello che in Europa è successo nell’arco di millenni, a Cuba è successo in soli quattro secoli».

Cuba non ha storia che non sia di appena ieri, non ha spiritualità come la intendono i popoli antichi, non ha religione che non sia un minestrone di riti mischiati, non ha un colore, una faccia, un’identità che non sia quella dell’essere cubani, appunto. Qualsiasi cosa ciò voglia dire. E diceva sempre Ortiz: «La cubanità non la dà la nascita, in un paese come il nostro, né la residenza, il colore, non te la dà nessun dato oggettivo. La cubanità te la dà la volontà di essere cubano».

E’ cubano chi ha voluto costruire Cuba. E Cuba, quindi, ha cominciato a nascere nel 1860, quando bianchi e neri insieme hanno cominciato a lottare contro la Spagna. Insieme, questo è importante. Lì è stato lo spartiacque. E l’hanno combattuta per 30 anni, fino al 1898. Quando sono arrivati gli USA, che fino ad allora se ne erano rimasti a guardare tifando per lo più Spagna, e hanno sfilato la vittoria ai cubani. Hanno dichiarato guerra a una Spagna ormai sfiancata, l’hanno sconfitta e si sono presi Cuba. I cubani, quindi, invece di una vittoria si sono trovati davanti a un passaggio di consegne. Invece della loro costituzione si sono ritrovati l’Enmienda Platt, e un padrone nuovo a cui obbedire.

Però i cubani sono cocciuti, come dicevo. Per i cinquanta anni successivi si sono rotti la testa studiando, protestando, guerreggiando – la rivoluzione fallita del ’30 – e ancora e ancora, tra due dittature e mille governi-fantoccio, mentre la loro economia dipendeva dagli USA, mentre persino il razzismo si accodava a quello degli USA impiantando l’apartheid che gli spagnoli mai avevano conosciuto, mentre sull’isola dilagavano il gangsterismo e la corruzione e le carceri erano piene – allora, mica oggi! – di oppositori politici.

E poi è arrivato Fidel, la cui storia è talmente folle che sembrerebbe finta, se non fosse invece reale e documentabile. Si cita spesso “La Storia mi assolverà”, credo il più delle volte senza averlo letto. E’ l’autoarringa con cui lui, ben prima della Rivoluzione, spiegò ai giudici che lo avrebbero condannato il perché dell’assalto alla caserma Moncada, fatto da lui, il fratello piccolo Raul e un manipolo di studenti, studentesse, ragazzi vari, e finito malissimo. E’ la fotografia della Cuba sotto Batista e gli USA.

E’ una dichiarazione di intenti – o, all’epoca, di sogni – ed è, soprattutto, l’autoritratto di un gigante. E’ molto difficile leggerlo, sapere che quell’uomo stava entrando in carcere e non sentire un rispetto immenso. Poi vennero l’uscita dal carcere, l’esilio in Messico, l’acquisto di una barchetta (Il Granma) con cui partire, stipandola all’inverosimile, all’assalto di Cuba, lo sbarco (su cui il Che disse: «Fu più che altro un naufragio»), la polizia di Batista che stermina i naufraghi, Fidel che alla fine si ritrova con – boh, vado a memoria – meno di venti superstiti e dice: «Ce l’abbiamo fatta, vinciamo sicuro.» E vince. Sul serio. E, per la prima volta nella sua storia, Cuba diventa uno Stato sovrano. Questo, è stato il punto.

E poi vince ancora, e ancora, e ancora. Contro gli USA. Prendendoli sempre, incessantemente, per il culo. Gli USA proiettano propaganda anticastrista sul loro palazzone all’Avana? Castro fa circondare il palazzone da bandiere più alte, una per ogni stato che all’ONU si è dichiarato contrario all’embargo, e così lo impacchetta rendendolo praticamente invisibile. Gli USA mandano navi al largo di Mariel per prendere dissidenti in fuga e mostrarli al mondo? Fidel fa svuotare tutte le carceri e i manicomi di Cuba e ne spedisce gli ospiti tutti da loro, riempiendo gli USA di matti e delinquenti comuni cubani. La lista è infinita, la vicenda umana di Fidel anche. Il rapporto tra USA e Cuba, alla fine, è strano. Ma strano forte.

Gli USA e Cuba si amano e si odiano, sembrano parenti in lite. I primi hanno sempre voluto mettere le mani sui secondi, prima cercando di comprare Cuba alla Spagna, poi prendendosela con le cattive. I secondi hanno sempre sofferto l’ingombrante ombra e le mire squalesche dei vicini, e hanno fatto tutto quello che un popolo può umanamente fare per farsi trattare alla pari. Cuba non ha voluta fare la fine di Puerto Rico, tutto qui. Non ha voluto essere una colonia.

Ma, alla fine, la sua storia recente è stata comunque pesantemente condizionata dagli USA. Avrebbero chiesto aiuto all’URSS, virando fortemente sulle posizioni sovietiche, se non avessero dovuto difendersi dagli USA? Avrebbero avuto bisogno di un partito unico per 50 anni se non avessero avuto bisogno di essere tanto compatti dinanzi a un nemico tanto potente? E come sarebbe, oggi, Cuba, se non uscisse da 60 anni di embargo? Se è riuscita a dare cibo, salute e istruzione a tutti i suoi cittadini NONOSTANTE l’embargo, cosa avrebbe fatto senza il limite, l’impoverimento a cui è stata condannata? Voi lo sapete? Io no, francamente. Quello che so, è che l’embargo li ha compattati ancora di più. E, conoscendoli, non era difficile da capire.

Però ho visto un sacco di cittadini USA, a Cuba, e ben prima che Obama aprisse il paese. Col cappello in mano e colmi di ammirazione, li ho visti. Che arrivano per dei corsi di studio all’università, o da soli, passando per il Messico per non farsi scoprire dalle proprie autorità. Perché gli statunitensi non potevano andare a Cuba per ordine degli USA stessi, ma lo Stato cubano li ha sempre fatti entrare, facendo col visto lo stesso giochino che Israele fa con chi non vuole il timbro d’entrata sul passaporto: te lo dà su un pezzo di carta. E ho visto un sacco di cubani che desideravano andarci, negli USA, e fare soldi, vedere l’abbondanza, visitare i parenti. Sono talmente vicini, in linea d’aria, che sembra incredibile.

Io, alla fine – e concludo questa lunga riflessione che oggi mi era proprio necessaria – di Cuba ho capito questo: che la devi rispettare, sennò prendi calci in culo. Tiri fuori il peggio dai cubani, se li prendi contropelo. E che questo orgoglio infinito, cocciuto, cazzuto, fa parte del sentire dell’isola ma Fidel lo ha saputo compattare, dargli sfogo e direzione. Lui ha preso un popolo costretto a passare da una bandiera all’altra e ne ha fatto una cosa diversa: il popolo che ha vinto, quello che si è guadagnato l’indipendenza e l’ha difesa, quello che ha ottenuto le uniche, grandi conquiste sociali dell’America Latina, quello che più si è schierato contro il razzismo, quello che ha fatto sognare mezzo pianeta, quello che non si capisce come abbia fatto ma, in qualche modo, ce l’ha fatta. Ha preso una colonia e ne ha fatto uno Stato. Molto, molto orgoglioso di sé. Ha commesso errori? Certo. Avrebbe potuto fare di meglio? Sì. I cubani hanno sofferto? Sì, ma l’alternativa era essere Puerto Rico o peggio. E avevano combattuto troppo, e troppo a lungo, per potere accettare di essere Puerto Rico. So’ gente orgogliosa, che gli vuoi dire.

Per quanto possa sembrare paradossale, io non pensavo che Fidel potesse morire. Pensavo che avrebbe seppellito pure me. Mi fa proprio uno strano effetto, questa morte, ed essendo io una donna del Novecento penso che, stavolta, di giganti non ne rimane proprio nessuno. Ora: i cubani di oggi, i giovani cubani di oggi, saranno all’altezza della storia incredibile che gli lascia Fidel? Io credo che lui abbia cercato anche, riuscendoci spesso, di tirare fuori il meglio dal proprio popolo. Di dargli disciplina, serietà, educazione, cultura. Di fare di un popolo caraibico il popolo serio per eccellenza di tutta l’area. Operazione non facilissima, va detto.

Lascia un popolo povero ma viziato, nonostante la cura da cavallo degli anni Novanta. Che non paga bollette, che ha la sopravvivenza assicurata, che si crede ‘sto cazzo. E che è umanamente e culturalmente in declino da un po’. Dove le differenze razziali, dagli anni novanta in poi, si sono accentuate. Da quando le rimesse dell’estero sono diventate vitali, e si dà il caso che il grosso dei cubani emigrati fosse bianco e abbia, quindi, mandato denaro alle famiglie bianche, mettendo loro e solo loro in condizione di partire con la piccola impresa. Un popolo che ha più aspettative che voglia di lavorare, e a cui il turismo – soprattutto quello italiano, e va detto a nostro disonore – ha fatto un gran male.

Non so cosa ne sarà di Cuba, se i suoi “difetti” la aiuteranno anche stavolta o se, senza il carisma del suo Padre della Patria, diventerà il paesello qualsiasi che tanti sperano che diventi. Temo la generazione cresciuta negli anni Novanta. Se Cuba va al macero, sarà per loro. Ma se questo dovesse accadere, sarebbe una gran perdita per il mondo intero. Sono degli stronzi, pensano solo agli affari loro, ti venderebbero al macello se solo potessero – e lo fanno appena possono – e tuttavia, pur di essere fighi, hanno dato tanto. Per un’italiana che non li regge ci sono cento cittadini del Terzo Mondo che devono loro qualcosa. Da sessanta anni, rendono il pianeta più vario e più vero.

Io credo che si sentano abbastanza male, oggi, i cubani. E che ne abbiano tutti i motivi.

Tocca invece invidiare un po’ il Padreterno, se c’è, ché finalmente se lo vede là, ‘sto famoso Fidel, e finalmente può farci due chiacchiere. Non ha aspettato poco, decisamente. E mi piace immaginare che, tra i due, il più curioso sia il Padreterno.

http://www.ilcircolo.net/




L'associazione della quale sono presidente uscente, "Altra Europa - laboratorio Venezia" ha organizzato a Venezia (Ateneo Veneto, 12 novembre 2012) una presentazione del libro Costituzione! Perchè attuarla è meglio che cambiarla. Dopo la magistrale illustrazione che ne ha fatto l'autore, che ne ha raccontato la storia come se fosse un trascinante libro giallo, ho spiegato perché AE-laboratorio Venezia ha deciso di mutare focus e formato. Ecco perché crediamo oggi più che mai, che la Politica, con la maiuscola, è necessaria

Per una«libera scuola di libera politica

Come ho dettoall’inizio di questo incontro il nostro Laboratorio è nato, un paio d’anni fa,con l’intenzione di proseguire l’esperienza iniziata con la lista L’altraEuropa con Tsipras, ai cui principi ispiratori siamo fedeli. A conclusione diquesto primo periodo di attività stiamo ripensando al focus e al formato nostroimpegno.

1. La politica

Crediamo di aver individuato il focus della nostra attività nel tema – anzi, nella dimensione - della politica, e la forma della nostra attività nella scuola: una scuola in cui tutti siano al tempo stesso discenti e docenti “Libera scuola di libera politica” potrebbe essere il nostro motto, o il nuovo nome della nostra associazione

Vogliamo parlare e ragionare di politica. Bisognerebbe avere una concezione molto ristretta della politica per pensare che essa abbia a che fare solo con i "partiti", e per di più quelli di oggi, e per di più quelli della "sinistra” di oggi. Per noi la Politica è una dimensione della vita e dell'attività della persona umana che viva nella sua realtà sociale.

Ricordando ciò che ha scritto Lorenzo Milani si può affermare che l'esigenza della nasce in ciascuno di noi quando scopre che il suo problema è quello di molti, e che solo mettendosi insieme si può sperare di affrontarlo.

Il contrario della "politica", secondo lo stesso autore, è l'avarizia: il rinchiudersi nella difesa dei propri individuali interessi: che è ciò che stanno producendo l'ideologia del neoliberalismo - avviato Von Hajek e Milton Friedman, Von Mises, e Walter Lippman -e le sue conseguenze politiche,

2. Politicanti e diffidenti

Non molti condividono la nostra visione della politica.

Alcuni, una parte consistente, lo fanno perché hanno una visione della politica diversa dalla nostra: diversa, e anzi opposta. Vedono la politica come mera tecnica di gestione del potere in vista dell’affermazione e del rafforzamento dell’interesse e del potere proprio o del gruppo, sociale o di classe, cui si appartiene

Altri, e sono forse la maggioranza, lo fanno perché non immaginano, scottati dall’esperienza degli ultimo decenni, che sia possibile praticare un’altra poliica

I primi, i “politici politicanti”, sono i nostri avversari. I secondi, i diffidenti, saranno i nostri alleati, se riusciremo a convincerli che un’altra politica, una buona politica, è possibile.

3. Due eventi: Trump e Bergoglio

Due eventi sono accaduti nelle ultime settimane, che danno entrambe conferme alle nostre scelte. Due eventi di segno diverso: le elezioni negli USA; il discorso di papa Bergoglio sulla politica..

Le elezioni in USA

Ciò che è successo nelle elezioni negli USA ci incalza a muoverci in fretta e conferma la nostra direzione di marcia. Il potenziale di rabbia e di disagio sociale che è nato perfino nelle aree del benessere è tale che, se non trova altri canali, dà peso politico alle forze che esprimono quanto c’è di più reazionario, xenofobo, razzista, maschilista nella società di oggi.

Condividiamo le preoccupazioni che la vittoria di Donand Trump ha provocato. Ma non condividiamo affatto l’opinione di chi vede nell’establishment rappresentato da Hillary Clinton e Barack Obama un efficace contrasto ai Trump del mondo.

Chi ha seguito un po’ la geopolitica degli ultimi decenni ha imparato che sia l’ex segreteria di stato sia l’ex presidente degli USA sono stati, nei fatti se non nelle parole, i prosecutori di una vecchia politica della globalizzazione capitalistica. Non hanno abbandonato l’impiego della guerra come strumento per l’accrescimento del potere, né lo sfruttamento delle risorse altrui, né il saccheggio di quelle del pianeta, e neppure gli strumenti dell’imperialismo culturale.

Credo che si possa dire che, al di là delle parole, Obama è stato di fatto il continuatore della dottrina Truman: “il modello del capitalismo occidentale è l’unico valido, abbiamo il dovere e il diritto di esportarlo e imporlo a tutti i popoli, a tutte le civiltà”.

Come si può pensare che persone e aree politiche cha hanno prodotto i danni e le paure che alimentano la demagogia dei Trump siano idonei a combatterle? Lo ha scritto Barbara Spinelli oggi sul Fatto Quotidiano: «La vittoria del tycoon è frutto di rigetto dell’establishment globalizzato e delle sue politiche neoliberali»

Il discorso di papa Bergoglio

Spero che abbiate letto il discorso di papa Bergoglio sulla politica. Un papa che ha proclamato a le parole che la sinistra storica non sa più dire, e la pseudosinistra renziana reprime. Vi consiglio di leggerlo nella versione integrale, su eddyburg, dove lo trovate se digitate :”Popolo, Democrazia e Politica”. Ne riporto alcuni passaggi:

«Non abbiate paura di entrare nelle grandi discussioni, nella Politica con la maiuscola ha detto Bergoglio alle “organizzazioni degli esclusi. «Il divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia si allarga sempre più come conseguenza dell’enorme potere dei gruppi economici e mediatici che sembrano dominarle.»

Nel sollecitare il popolo a entrare nella politica con la maiuscola ha messo in guardia contro due rischi che ruotano attorno al rapporto tra i movimenti popolari e politica: il rischio di lasciarsi incasellare e il rischio di lasciarsi corrompere.

«Finché vi mantenete nella casella delle ‘politiche sociali’ – ha osservato -, finché non mettete in discussione la politica economica o la politica con la maiuscola, vi si tollera. Quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai i poveri, mai dei i poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a volte una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema.
«Invece quando si osa «mettere in discussione le ‘macrorelazioni’, quando strillate, quando gridate, quando pretendete di indicare al potere una impostazione più integrale, allora non ci si tollera più tanto perché state uscendo dalla casella, vi state mettendo sul terreno delle grandi decisioni che alcuni pretendono di monopolizzare in piccole caste».

4. Da dove partire

Partire dal popolo, partire dai movimenti nei quali si esprime in forma collettiva il rifiuto del disagio nel quale la stragrande maggioranza delle persone vive.

Ha completamente ragione chi individua la possibile matrice di una nuova politica nel fiorire ed espandersi della miriade di luoghi, di aree e di problemi che provoca il nascere di organizzazioni e movimenti piccoli o grandi, che si dissolvono in pochi anni o che durano con una tenacia e una continuità maggiore di tanti governi (voglio ricordare la Val di Susa), che vivono nell’isolamento o che sono capaci di aggregarsi in ampie reti (voglio ricordare quella che unisce il pezzo d’ Italia che va da Mestre a Orte)

Ciò che questo vasto e mutevole mondo esprime non è ancora "politica” in senso pieno, ma rappresenta certamente la base di una possibile alternativa al sistema economico-sociale dominante: diciamolo chiaramente: una alternativa al capitalismo le cui velenose radici si esprimono oggi nella figura del neoliberalismo.

5. Historia magistra

Poiché Historia magistra, ci proponiamo anzitutto di riflettere su qual era la forza antagonista a quel sistema nei secoli passati, e su quale era la radice ideale e sociale della sua forza.

Non per crogiolarci in un’atmosfera nostalgica, ma per comprendere, da ciò che stato, come si può pensare e agire in una direzione che sia giusta e possibile .

Io partirei domandami chi erano gli sfruttati ieri e chi sono gli sfruttati oggi. Altri percorsi sono possibili, ma io credo che è dalla storia che occorre partire, facendo in sostanza l’operazione opposta a quella che fece Margaret Thatcher quando, per sostenere che There Is No Alternatives, cancellò la storia, cioè il vivente deposito delle alternative possibili.

Ci proponiamo, ovviamente, una riflessione che non si limiti a esplorare ciò che esiste nei recinti del cosiddetto Primo mondo (Recinti che oggi gli Usa di Trump e l'Europa della UE vogliano munire di più temibili muraglie), ma si estenda alla vastissima area dove moltitudini di persone sono sfrattate dalle loro terre e cacciate verso sponde lontane.

Penso oggi soprattutto al dramma di quelli, più fortunati di moltissimi altri, che arrivano da noi come “migranti” e da noi vengono respinti con odio e paura.

6. Lo spazio pubblico e Venezia
Perché la riflessione sia possibile, occorre che ci sia lo spazio pubblico nel quale essa possa svolgersi liberamente. “Libera scuola di libera politica”, ha bisogno dello spazio pubblico della democrazia: e di una democrazia più sostanziale di quella che abbiamo conosciuto. Una democrazia simile a quella che hanno immaginato i Padri della nostra costituzione del 1949, che i loro successori non hanno saputo completare. Anche per questo il tema della difesa e del completamento della nostra Costituzione ci sembra oggi essenziale, e anche per questo abbiamo chiesto a Salvatore Settis di parlarcene, a partire dal suo ultimo libro.

Ma noi – e tutto il mondo dei movimenti, delle associazioni, delle persone che vogliono lavorare insieme per contribuire a cambiare il mondo) abbiamo bisogno anche di spazi fisici. A Venezia questo è sempre più difficile

Venezia, e soprattutto la città antica, è diventata una città nella quale ogni aspetto dello spazio è sottratto agli usi di tutti (alla contemplazione e all’incontro, alla cultura praticata all’uso alle attrezzature del welfare) a causa delle due facce della peste del 21° secolo: il turismo sregolato di massa e il turismo di lusso, che occludono da una parte e privatizzano all’altra spazi che per secoli sono stati comuni, entrambi tenacemente agevolati da chi ci governa.

Tant’è che oggi, per trovare una sala in cui riunirci abbiamo dovuto affidarci alla cortesia dell’ Ateneo Veneto, e pagarne le spese, in solido con gli amici di “Campo aperto” e di “Scelgo no”, con i quali abbiamo organizzato questo incontro e che ringraziamo molto anche per questo.

Venezia, 12 novembre 2016

».ytali online, 22 novembre 2016 (c.m.c.)

«Che ne pensi del nuovo sindaco?» chiedo al giovane autista che mi conduce attraverso una Valparaíso ancora prigioniera della garúa, la nebbiolina che avvolge le città che si affacciano sul Pacifico. Conferendo un aspetto un po’ spettrale e freddo perfino alla miriade di murales che trasformano il centro cittadino in un museo d’arte a cielo aperto, in attesa di assistere di lì a poco al trionfo del sol matador che infonde calore alle storie multicolori che i muri raccontano.

«Es muy joven y esperamos que lo haga bien». Non ha votato Antonio, che guidando scende con sicurezza dal Cerro Artillería e mi porta al Puro Café in Plaza Victoria, il luogo dove Jorge Sharp Fajardo, sindaco eletto con quasi il 54 per cento dei voti, ma ancora non entrato in carica, ha deciso di incontrarmi. Antonio fa parte di quella maggioranza di cileni che il 23 ottobre non è andata a votare, un 65 per cento che urla la lontananza del paese dalla politica, e che di converso ha permesso l’inaspettata vittoria di Sharp. Il quale, in condizioni di minor astensionismo, forse mai e poi mai avrebbe potuto fare il miracolo.

E portare al governo del secondo centro urbano cileno, la città sede della Marina che per prima mosse contro Allende nell’alba drammatica dell’11 settembre del 1973, una coalizione arcobaleno. Suona e canta le canzoni degli Inti Illimani, il trentunenne Sharp, che si è laureato in diritto nella Pontificia Universidad Católica di Valparaiso. Ma ancor più si è formato nelle lotte studentesche che hanno percorso il paese dal 2006 in poi, di cui è stato un leader indiscusso.

Signor nessuno prima della vittoria alle elezioni municipali, ora se lo contendono giornali e televisioni nazionali. Le sue uscite riempiono i notiziari, e già appare nelle vignette satiriche pubblicate dai giornali cileni. Ha letteralmente seminato il panico tra i suoi concittadini quando ha affermato in televisione che taglierà i fuochi d’artificio di Capodanno. Quegli stessi che Pablo Neruda non mancava mai di seguire da La Sebastiana, la casa che il poeta possedeva in città nel Cerro Bellavista.

Originario di Magallanes, la regione antartica, ha fondato Izquierda Autónoma che ha mandato al parlamento Gabriel Boric e Giorgio Jackson, per poi lasciarla e fondare il Movimiento Autonomista. Proiettando Valparaíso sulla scena nazionale e facendo parlare la stampa del nuovo Pablo Iglesias cileno che è riuscito a mettere assieme il popolo arcobaleno della città ma anche spezzoni di elettorato moderato schifato dai due schieramenti tradizionali.

Eletto sindaco con il contundente compito di provocare una scossa sismica capace di cancellare i dodici anni di Jorge Castro, suo predecessore di destra. Ma anche le ricette di un centro-sinistra sempre più prigioniero delle teorie neo-liberali. Per la sua giovane età, per la sua parlantina fluente, per il suo essere un perfetto animale mediatico, e finalmente per la novità di cui rappresenta la punta di un iceberg che si suppone dormiente nel paese, farà di tutto per rottamare i vecchi canoni della politica ormai estranei al sentire della gente.

Partendo da una città con mille problemi, in primo luogo quello della pulizia urbana, e con in ballo decisioni sull’area portuale che determineranno i prossimi decenni di vita di Valparaíso. E con la concreta possibilità, se saprà risvegliare il gusto della partecipazione nei suoi concittadini, di essere chiamato a giocare un ruolo futuro ben al di là dei confini della città che lo ha eletto.

Simpatico e diretto, arriva all’appuntamento al Puro Café con un quarto d’ora di ritardo accompagnato da Javier, collega del movimento, e quando già sto lentamente rassegnandomi a dover rinunciare all’intervista. Entra, informale e rapido, e senza indugio si dirige sorridendo al mio tavolo apostrofandomi con un “Hola compañero” e mi abbraccia. Quel che segue è la sintesi di quanto ci siamo detti nell’accogliente penombra di un caffè del centro di Valparaíso in una mattina di novembre.

Dalle lotte studentesche alla carica di sindaco della seconda città cilena. Jorge, come te lo spieghi?
Penso sia dovuto a un processo di maturazione che si è vissuto in questi anni a Valparaíso e nel paese e che dimostra come siamo stati capaci di passare dalla mobilitazione e dalla protesta a rappresentare alternativa politica. In questo processo hanno agito differenti movimenti sociali con un ruolo chiave, dal movimento studentesco al quale ho appartenuto come dirigente della federazione, al movimento ambientalista, e in ultimo al più esteso movimento No más AFP (Administradora de fondos de pensiones) che si batte contro il modo in cui il governo paga le pensioni. C’è stata una domanda trasversale per mettere fine alla situazione per cui il sistema pensionistico cileno è in mano al privato, per arrivare a una ripartizione maggiormente solidale. Tutti questi movimenti sociali esprimono un ciclo di mobilitazione di dieci anni nel paese. Io faccio parte di questo processo.

Ma nel successo che ha premiato te e il movimento che ti sostiene, visto che nel resto del Cile la destra ha vinto le amministrative del 23 ottobre, quello di Valparaíso non potrebbe essere un caso isolato?
Hai ragione, la destra ha avuto un successo elettorale ma da almeno dieci anni la sua egemonia è messa in discussione. La capacità di mobilitazione che ha avuto la stampa di destra in questi ultimi anni si è ridotta. Per quanto riguarda la Nueva Mayoría (la coalizione di centro sinistra che ha eletto presidente Michelle Bachelet, ndr) il risultato negativo che ha ottenuto in queste elezioni si spiega con il divorzio e la sua distanza da tutti questi movimenti sociali che hanno proposto un’agenda di cambiamenti. In pratica Nueva Mayoría ha voluto prescindere da tutte queste istanze, e tutte le riforme fatte da Bachelet non hanno voluto coinvolgere i movimenti che le hanno richieste.

All’indomani della tua vittoria, hai affermato che il duopolio tra UDI e Nueva Mayoría è finito. Intendevi dire che è terminato qui in Valparaíso o che tale situazione riguarda l’intero paese? E inoltre, esiste un processo di unificazione a livello di paese che riguardi le forze della sinistra alternativa che possa in qualche modo far intravedere una loro partecipazione alle elezioni presidenziali del prossimo anno?

Effettivamente per quanto riguarda la carica di sindaco in Valparaíso il duopolio è finito. Eravamo abituati da venticinque anni che moros o cristianos, rossi o verdi si alternassero in municipio. Ora invece irrompe una nuova forza politica e sociale che si fa carico della gestione del comune. È interessante analizzare quello che qui è successo nelle alleanze che siamo riusciti a fare, con il risultato che ne è uscito uno schieramento che è ben più ampio e travalica l’area della sinistra. E con adesioni anche da settori socialisti, socialdemocratici e perfino liberali.

Questo è stato il frente amplio che ha permesso il risultato a Valparaíso. È evidente che all’interno di questo schieramento la sinistra mantiene un proprio ruolo, con una visione più critica della trasformazione democratica. In tal modo io credo che questa formula possa essere proposta su scala nazionale anche in previsione del 2017 proponendo un’alleanza che sia davvero ampia. Ma condividendo l’idea matrice di questa alleanza, che è il suo essere differente e distante dai partiti tradizionali.

E credi che questo frente amplio di cui parli possa colloquiare con le parti meno compromesse di Nueva Mayoría?
Io credo che abbiamo bisogno di costruire un nuovo campo politico. Diverso dalla Nueva Mayoría. Penso che oggi come oggi la possibilità di qualche intesa sia assolutamente preclusa. Questo non significa che settori di base di Nueva Mayoría e suoi dirigenti intermedi non possano collaborare. Che è poi quello che è successo a Valparaíso, dove molta gente che votava Nueva Mayoría ha votato per noi. Insomma quello di cui abbiamo bisogno in Cile è un nuova realtà che consegni un nuovo luogo politico dove si possano spingere e realizzare le riforme che ancora non sono state fatte.

Di te la stampa ha parlato come del nuovo Pablo Iglesias cileno. Quanto pesa nella vostra esperienza l’esempio della spagnola Podemos, e come gioca nella vostra pratica politica il pensiero di Antonio Gramsci?
[Scoppia in una risata] Io non mi sento nessun Pablo Iglesias cileno. Credo che quello che dobbiamo fare qui è la via cilena, come la chiamiamo a Valparaíso, la via porteña. Come ha detto José Carlos Mariátegui che già ha postulato una via peruviana al socialismo con caratteristiche proprie, e tenuto conto delle debite differenze, noi dobbiamo costruire questa forma per affrontare il problema politico che abbiamo. Che è quello di costruire una forza politica che proponga un modello di società che non sia neo liberale.

Ci serve guardare alla Spagna? Sì! Ci è utile guardare agli esempi latinoamericani? Sì! Ai cambiamenti in corso nel laburismo inglese? Sì! Ma alla fine della giornata, quello che dobbiamo fare in Cile deve esprimere naturalmente la realtà cilena. L’influenza di Gramsci in Cile è fortissima perché egli ci ha permesso di avvicinarci a una lettura della realtà del paese con molti più strumenti di quello che ci può essere fornito da letture di autori più ortodossi. Io credo che Gramsci abbia una visione inedita, e non a caso ci siamo formati nella lettura dei Quaderni dal carcere, ed è uno strumento molto interessante per sapere come affrontare la nostra realtà.

Parliamo un attimo di Valparaíso. Suppongo che tu sia ben conscio dei problemi che presenta.

Si assolutamente. Partendo da un problema strutturale che è la disuguaglianza. Ci sono donne che non lavorano e non studiano, vecchi abbandonati, giovani che non trovano lavoro, gli stipendi sono bassi, e gli imprenditori sono pieni di code di gente che cerca un impiego. Valparaíso è una città profondamente diseguale che ha una concezione del progresso circoscritta in due o tre mani. Il turista che sbarca dalle crociere o dall’aereo non si rende conto di questo quando visita il Cerro Concepción o il Cerro Alegre. La realtà cittadina è molto diversa da questi due posti. Che hanno comunque i loro problemi.

C’è molta disoccupazione?

Siamo tra i dieci comuni con la più alta percentuale di disoccupazione. È chiaro che la municipalità ha dei poteri molto specifici, ma possiamo lavorare assieme al governo centrale, alla società organizzata e all’università per favorire un modello di città che si faccia carico di questo problema attraverso uno sviluppo che sia rispettoso del patrimonio urbano e dell’ambiente. E che dia impulso alla partecipazione democratica affinché porteños e porteñas siano gli attori protagonisti della forma che deve avere la loro città. È in corso un processo di trasformazione che la via cilena ha imposto e che riguarda le aree portuali. E questo processo si è costruito alle spalle della gente. E sono decisioni di una importanza tale che interesseranno le prossime cinque generazioni di cittadini. Quello che fondamentalmente dobbiamo fare è rendere protagonista la gente.

Valparaíso mi sembra una città sporca.
Valparaíso è una città sporca e con problemi di sicurezza, con poco verde pubblico, mancano medici, gli ambulatori hanno liste di attesa, ai professori non vengono pagati i contributi pensionistici, negli edifici scolastici piove dentro. Ci sono anche funzionari comunali che lavorano in pessime condizioni. Insomma i problemi non mancano.

Tocchiamo un tema più leggero. Ti ho visto eseguire con un discreto successo le canzoni degli Inti Illimani. Continuerai a cantare?
Completamente. Il canto è una parte di me stesso, appartiene a quello che sono. Mi piacciono molto gli Inti Illimani, mi piace molto il tango, Frank Sinatra, i Beatles.

Ti senti un uomo solo al comando o sei in buona compagnia?
Mi sento parte di uno progetto collettivo. Credo che la politica non sia una attività da Don Chisciotte. Non possiamo fare nulla se la gente non sarà protagonista di tutti i processi di cambiamento. Ma lasciami tornare per un attimo alla sfida che abbiamo davanti per quanto riguarda il frente amplio. La sinistra deve avere la capacità di tenere almeno tre cose in considerazione per approfittare di questa finestra di opportunità che esiste in Cile. Generata dal ciclo di mobilitazione che dura da almeno dieci anni che ha messo in discussione l’impianto neo liberale. E dalla delegittimazione della classe politica. In primo luogo deve saper sviluppare un programma di trasformazione democratica.

La sfida che abbiamo davanti è quella di costruire un campo politico che si faccia carico di proporre un modello differente da quello neo liberale. In secondo luogo è molto importante la strategia di alleanze con altri che non la pensano come noi. La sinistra è abituata ad essere d’accordo con se stessa. E in questo può essere utile l’esempio di Valparaíso dove la nostra alleanza va dalla sinistra a settori liberali. Ma con il minimo comune denominatore di essere alternativi al duopolio. Ci sono delle differenze, ma è come fosse una partitura con tonalità differenti.

Terzo?
Terzo ed ultimo punto, non basta semplicemente presentarsi alle elezioni. Dobbiamo essere capaci di costruire una forza sociale organizzata. Dobbiamo essere capaci di passare dal malessere o dalla indignazione alla costituzione di una forza sociale organizzata.

State già parlando a livello nazionale di un progetto politico comune?

Sono in corso delle riunioni, stiamo dialogando con molte forze extra duopolio. Posso dire che in questo momento c’è molto dialogo.

. il manifesto, 23 novembre 2016 (c.m.c.)

La festa è finita, adesso pensiamo alle cose serie. Soldi e potere, non necessariamente in quest’ordine. Donald Trump è andato in televisione per delineare il suo programma di governo, interessante soprattutto per le cose che non ha detto. Non ha parlato del muro al confine con il Messico. Non ha parlato del divieto per i musulmani di entrare negli Stati uniti. Né di deportazioni di massa. Per queste tre promesse elettorali ci sarà tempo. Ciò di cui ha parlato sono le cose che non richiedono un voto da parte del Congresso.

Nell’elenco: ritiro dai negoziati del trattato di libero scambio Tpp, cancellazione delle restrizioni alla produzione di petrolio e carbone, deregolamentazione (che interessa soprattutto le banche, non a caso le grandi beneficiarie dell’ottimismo di Wall Street dopo le elezioni). Quello che Trump prepara per i suoi quattro anni di mandato è un sequel della presidenza Reagan 1981-1985: tagli delle tasse per i milionari, spesa per le infrastrutture, atteggiamento aggressivo verso i partner commerciali (ora ce lo siamo dimenticato, ma Reagan introdusse sanzioni e manipolò il valore del dollaro contro il Giappone, l’amico/nemico di allora).

I repubblicani in Congresso, dopo aver fatto ostruzionismo per otto anni contro i progetti di Obama di riparare strade, ponti e ferrovie, ora sembrano pronti a dimenticare tutti i discorsi sui terribili pericoli del deficit di bilancio e a spendere per creare buoni posti di lavoro.

Quello di Reagan era un «keynesismo militare», quello di Trump potrebbe essere un «keynesismo edilizio», basato sulle consuete ricette dei palazzinari: abolizione o aggiramento dei vincoli ambientali e urbanistici, via libera alla finanza creativa, incentivi fiscali a pioggia per le imprese. «Una truffa» lo ha prontamente definito Bernie Sanders, che pure continua a sottolineare la disponibilità dei democratici in Senato ad appoggiare un piano di ricostruzione delle obsolete infrastrutture americane, trascurate da decenni.

Si parla di investimenti per 1.000 miliardi di dollari ma è difficile che il Congresso a maggioranza repubblicana sia in grado di varare un piano così vasto in tempi brevi, anche perché Camera e Senato avranno il loro da fare per mantenere le promesse di cancellare ogni singolo provvedimento dell’era Obama. Per esempio, l’odiatissima razionalizzazione del sistema sanitario, l’Affordable Care Act, non può essere cancellato con un tratto di penna senza privare di cure 20 milioni di americani e provocare un terremoto di Borsa (la spesa sanitaria corrisponde a circa il 16% del Pil degli Stati Uniti).

Ci vorranno quindi un paio d’anni per trovare una soluzione che non sia immediatamente percepita come una catastrofe per i lavoratori a reddito medio-basso, tanto più che nel novembre 2018 si vota per Camera e Senato e le elezioni di metà mandato sono sempre difficili per il partito del presidente.

Oltre alla sanità, l’amministrazione Trump dovrà occuparsi di nominare un giudice per il posto vacante alla Corte Suprema e questo potrebbe essere più difficile del previsto se in Senato i democratici ricorreranno all’ostruzionismo, com’è prevedibile. La maggioranza repubblicana, 52 a 48, potrebbe non essere sufficiente per raggiungere l’obiettivo di ricreare una solida maggioranza conservatrice nella Corte, che è stato un tema fortemente mobilitante per gli elettori repubblicani, terorizzati dall’idea di un potere giudiziario nelle mani dei democratici per un’intera generazione se Hillary Clinton fosse stata eletta.

Le promesse elettorali sono facili, le soluzioni legislative difficili, e in materia di immigrazione tutto è ancora più complicato. Trump ha fatto degli immigrati, in particolare dal Messico, il capro espiatorio ma non è chiaro come la nuova amministrazione intenda concretamente affrontare il problema.

Spettacolarizzare le espulsioni di chi ha commesso reati non costa nulla, rimandare in America Latina centinaia di migliaia di bambini e ragazzi che hanno seguito i genitori alla ricerca del Sogno americano potrebbe essere un boomerang.

Senza contare che immigrati ci sono perché fanno dei lavori umilianti per pochi dollari al giorno: se li si caccia le lobby dell’agricoltura si faranno sentire ancora più rapidamente delle organizzazioni di difesa dei diritti civili.

La sconfitta della Clinton ha il merito di mostrare innanzi tutto ciò che era evidente agli osservatori non accecati dai miti. Il bipartitismo del sistema politico americano è da tempo la più colossale finzione della democrazia rappresentativa della nostra epoca».

il manifesto, 22 novembre 2016 (c.m.c.)

La recente vittoria di Trump è anche un caso di studio per tanti aspetti illuminante. Pur nelle sue ambiguità e contraddizioni, il successo di questo personaggio eterodosso ci parla innanzi tutto di noi, delle nostre modeste capacità di lettura della società americana e del capitalismo dei nostri anni. Non si tratta dell’incapacità previsionale del risultato elettorale, che ha riguardato quasi tutti gli istituti demoscopici, ma del conformismo politico, della cecità moderata con cui non solo i gruppi di centrodestra, ma anche la sinistra tradizionale ha guardato agli Usa negli ultimi anni.

La sconfitta della Clinton ha il merito di mostrare innanzi tutto ciò che era evidente agli osservatori non accecati dai miti. Il bipartitismo del sistema politico americano è da tempo la più colossale finzione della democrazia rappresentativa della nostra epoca. Come aveva denunciato, tra tanti altri, il giornalista britannico Will Hutton, nel brillante quadro comparativo Europa vs USA.

Perché la nostra economia è più efficiente e la nostra società è più equa (Fazi 2003), da tempo il Partito democratico e quello repubblicano conducono la stessa politica di centro. Considerati i costi altissimi delle campagne elettorali americane, Hutton mostrava come la raccolta dei fondi da parte dei candidati dei due partiti finisse col legare il loro successo ai finanziamenti da parte del potere economico. Annacquando le pretese riformatrici del Partito democratico e integrando nell’establishment politico-economico-finanziario-militare che da decenni costituisce un unico blocco alla guida degli Usa.

Al posto della competizione si è creato un monopolio politico. Un monopolio che neppure Obama ha scalfito più di tanto. E milioni di cittadini americani lo hanno da tempo certificato disertando le urne.

Per questo quando Walter Veltroni e i suoi compagni fondarono il Partito democratico si ispiravano a una esperienza storica ormai esaurita. Hanno inseguito e raggiunto un treno finito in un binario morto. Un abbaglio non casuale, anzi rivelatore dell’incapacità di quella sinistra di afferrare ciò che stava accadendo nel corpo profondo del capitalismo contemporaneo. Così Veltroni dichiarava di non essere stato mai comunista prendendo le distanze da un rapporto privilegiato con la classe operaia. Rapporto fondativo del Pci e condizione imprescindibile per la comprensione dei fenomeni sociali.

Infatti se ci si nega l’analisi di ciò che accade al lavoro non si comprende nulla delle trasformazioni in atto nelle società. Come tanti osservatori non solo italiani, i novatori del nostro sistema politico non capirono quel che stava accadendo ai lavoratori americani. Non soltanto i jobs, anche i più qualificati, sono diventati precari, permanently temporary, permanentemente temporanei, secondo uno splendido ossimoro.

Ma una massa considerevole di operai sopra i 55 anni fu espulsa da fabbriche e servizi con le ristrutturazioni degli anni’90. La giornata del lavoro si è pesantemente allungata: «Neppure la maggioranza degli schiavi nel mondo antico – denunciò lo storico B.Hunnicutt – e i servi durante il medioevo lavoravano così duramente, cosi’ regolarmente, e così a lungo come noi» (Take back your time, 2003).

Ai primi del nuovo millennio i lavoratori americani lavoravano in media 200 ore in più all’anno rispetto ai due-tre decenni precedenti. Tutto questo ben prima della grande crisi del 2008. In realtà da tempo, chi aveva occhi per guardare, poteva scorgere l’ attacco che non solo negli Usa, ma su scala mondiale, veniva mosso al lavoro umano in tutte le sue molteplici espressioni sociali.

L’incapacità di comprendere ciò che accadeva e accade alla classe operaia americana, componente fondamentale della middle class, è diventata cronica anche negli anni di «uscita» dalla crisi. I rassicuranti bollettini riportati dalla grande stampa sul Pil che «torna a crescere» e sulla «disoccupazione ai minimi», nasconde la stagnazione dei redditi popolari, l’indebitamento crescente delle famiglie, la precarietà del lavoro e il suo sfruttamento intensivo, le disuguaglianze vertiginose, la fine della mobilità sociale. Non poteva durare la struttura del sistema politico a fronte della distruzione del blocco sociale che lo aveva fin qui sostenuto.

La vittoria di Trump è la paradossale rottura di un sistema che doveva avvenire per mano di Bernie Sanders. È evidente che i Democratici americani e quelli del Pd, sono, a vario titolo, agenti essi stessi della crisi della democrazia rappresentativa del nostro tempo. Puntare sulle cosiddette riforme, cioè sulla trasformazione del sistema politico, è un surrogato rispetto alla necessità di sanare le disuguaglianze, ridare centralità al mondo del lavoro. Il resto lo fa la sinistra radicale, capace di leggere i fenomeni, ma dispersa e divisa e perciò impotente.

». il manifesto, 18 novembre 2016 (c.m.c.)

Sul segno reale della vittoria di Donald Trump, le opinioni in merito paiono tanto polarizzate quanto la società che l’ha prodotta. È l’incedere della crisi che sta stravolgendo non solo la vita materiale di milioni di persone, ma anche subculture politiche consolidate e sistemi istituzionali tra i più stabili. Il disfacimento della Obama coalition e l’affermazione del fenomeno Trump proietta una luce globale sul Midi francese già roccaforte del Pcf e ora bacino di consensi per la vandea lepenista; o ancora sull’Emilia fu rossa che alza barricate contro un pugno di donne e bambini migranti.

La crisi attuale, nella lettura che, per certi versi anticipandola, ne è stata data da Giovanni Arrighi, è la piena epifania della crisi del sistema egemonico della grande fabbrica integrata e imperniato sugli Stati uniti d’America, in realtà già avviata alla metà degli anni Settanta del secolo scorso. Il modello di Arrighi prevede che ogni ciclo espansivo del capitalismo giunga a saturazione per una doppia pressione che si scatena sui profitti: pressione orizzontale dovuta alla concorrenza tra imprese, pressione verticale dovuta alla spinta delle rivendicazioni delle classi subalterne.

Si produce dapprima una «crisi-spia» del sistema egemonico, cui il capitale tende a sfuggire tramite il ricorso alla finanziarizzazione. Il boom borsistico dà luogo ad una euforia dei mercati mondiali che rende possibile un momentaneo superamento della crisi (le belles époques). Ma allo scoppio della bolla la crisi esplode con violenza ancor maggiore, con la conseguenza della ripresa del conflitto sociale, questa volta allargato dai subalterni alle classi medie, cioè a quei gruppi sociali che avevano costituito il collante del precedente regime di accumulazione; che avevano fatto sì che esso si instaurasse in termini di egemonia e non di puro dominio.

Il tema della condizione di questa classe media, delle sue aspirazioni e delle sue frustrazioni, è oggetto di una contesa egemonica all’interno dei Paesi a capitalismo maturo e tra le cosiddette economie emergenti. Nel corso della belle époque le disuguaglianze sono in genere socialmente tollerate, ma nel momento in cui le prospettive di stagnazione si fanno «secolari» non possono più esserlo. A determinare l’esito politico dei processi sociali innescati concorre la capacità dei soggetti organizzati di politicizzare e attrarre a sé nuovi protagonisti del conflitto sociale.

Negli Stati uniti di questo primo scorcio di XXI secolo il tema è tornato in auge. Uno studio del 2012, a cura del Pew Research Center, recava l’eloquente titolo The lost decade of the middle class. Il dato econometrico sulle disuguaglianze ha ben presto lasciato il passo alla disputa politica tradizionale tra democratici e repubblicani. Lungi dal rappresentare un’alternativa reale al cosiddetto establishment, Trump ne è una particolare e nuova incarnazione, nel tentativo di sussumere e neutralizzare reali istanze sociali.

Lo sfarinamento delle classi medie, e l’emergere di nuovi protagonisti, sta introducendo tuttavia mutamenti massicci nei sistemi politici liberal-democratici. Quello dell’impermeabilità dello scontro partitico a quanto si muove nella società non è uno scenario sostenibile. Iniziarono già ad inizio secolo i regimi oligarchici latinoamericani a crollare sotto l’urto della crisi. Seguì la Grecia, con la pratica scomparsa di uno dei pilastri del regime liberale, il Pasok, e di lì a breve saltarono altri sistemi bipolaristi, come quello spagnolo sorto dalla Transizione e quello italiano che aveva caratterizzato la seconda repubblica. E già la V Repubblica francese si avvia a essere sconvolta dall’ondata lepenista.

Se il bipartitismo made in Usa sarà in grado di assimilare la presidenza Trump e la contemporanea spinta radicale manifestatasi nel corso delle primarie nel sostegno al socialista Sanders è forse ancor presto per dirlo. Di sicuro c’è che la governance neoliberale, l’estremo centro in cui ci sono spazio e risorse per rispondere a tutte le più disparate istanze provenienti da una società frantumata, o meglio ancora inesistente, crollano assieme all’illusione dell’eternità della belle époque.

«La crisi – annotava Gramsci – crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifici, si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere».

La caduta dei pilastri di un ordine che tramonta può essere gravida di grandi pericoli, ma allo stesso tempo di altrettanto grandi opportunità di riarticolazione politica del sociale. Un terreno del tutto nuovo che le forze democratiche non possono permettersi di lasciare in balia dei tanti Trump che si candidano a monopolizzarlo.

PLa Repubblica, 17 novembre 2016

Si può dire in tanti modi: i fatti non contano più, la menzogna e la diceria hanno rimpiazzato la verità, la gente crede alle frottole. “Post-truth”, post-verità, riassume il concetto ed è diventata la «parola internazionale dell’anno». L’ha scelta l’Oxford Dictionary, bibbia e punto di riferimento della lingua anglosassone (e non solo), definendola come «l’aggettivo che descrive una situazione in cui i fatti obiettivi sono meno influenti sull’opinione pubblica rispetto agli appelli emotivi e alle convinzioni personali».

E’ il termine che in un certo senso ha deciso le due elezioni cruciali degli ultimi dodici mesi: il referendum britannico sulla Brexit e le presidenziali americane. Ma incarna un fenomeno ancora più ampio, va dalla politica alla società, dal pubblico al privato, dall’Occidente ai paesi emergenti. Domina il web, in particolare i social network, come sottolinea ilmea culpain questi giorni di Facebook e Twitter, ma dilaga anche su altri media, la tv, i talk-show radiofonici, i giornali, nelle battute che si ascoltano al bar, sul bus, in ufficio.

Il suo uso, affermano gli esperti del dizionario di Oxford, è aumentato del 2000% nel 2016 rispetto all’anno precedente, trainato da eventi come il referendum della Gran Bretagna per uscire dall’Unione Europea e la corsa alla Casa Bianca, nei quali i dati di fatto sono stati sommersi da una propaganda priva di riferimenti reali e in cui, ha osservato qualcuno, il cuore (o meglio la pancia) ha surclassato il cervello.

La scelta della parola dell’anno, da parte della “madre di tutti i dizionari” (la prima edizione risale al 1857), mira a riflettere sull’evoluzione del linguaggio. Qualche volta la parola selezionata dalla versione inglese e da quella americana del dizionario divergono, ma quest’anno ha prevalso “post-verità” in entrambi i casi. C’erano altri contendenti per il titolo, fra cui “alt-right”, diminutivo di “alternative right” (gruppo ideologico di destra estremamente reazionario e conservatore) e “brexiteer”, brexitiano o brexitiere. Ma “post-truth” ha superato tutti, come sottolineano fra l’altro una recente copertina dell’Economist dedicata al tema e un’infinità di articoli che lo analizzano e denunciano su giornali di mezzo mondo. «Non mi sorprenderei se diventasse una delle parole che caratterizzano il nostro tempo», commenta Casper Grathwohl, presidente dell’Oxford Dictionary.

Secondo i ricercatori, la parola fu usata per la prima volta nel ‘92 in un saggio del commediografo serbo- americano Steve Tesich per il settimanale The Nation, ma allora era intesa come ”dopo che è emersa la verità”, non nel senso attuale di “indifferenza alla verità”. Il termine segnala anche, osserva il dizionario, la crescente diffusione di espressioni con il prefisso “post” seguito da trattino. Peccato che a seguirlo, in questo 2016 di incredibili sorprese politiche, sia la “verità”, intesa come qualcosa di cui si può fare a meno.

Riferimenti
Qui il link al testo della Riforma costituzionale Renzi-Boschi scaricabile in formato .pdf

«». La Repubblica 12 novembre 2016 (c.m.c.)

I radar dei media che fanno opinione — il New York Times in testa — sono stati spenti o mal posizionati, almeno nell’ultima parte della campagna elettorale che si è conclusa con la vittoria di Donald Trump. E il Times fa pubblica ammenda e parla di errore di “bersaglio” che «significa molto di più dell’aver sbagliato i sondaggi, perché si è trattato dell’incapacità di percepire la rabbia ribollente di una parte così vasta dell’elettorato americano, che si sente abbandonato con una ripresa economica che non coinvolge tutti e tradito da una serie di accordi commerciali che considera una minaccia al proprio posto di lavoro voluta dall’establishment di Washington, da Wall Street e dagli organi di informazione».

I radar dei media liberal erano mal posizionati perché tirati dentro il gorgo della battaglia partigiana fino al punto di diventare essi stessi organi di propaganda — della parte buona, certo, moralmente buona. Ma la bontà dell’obiettivo non li assolve. Gli organi di informazione — quelli di larga diffusione nazionale in primo luogo — dovrebbero avere la funzione di comprendere (e far comprendere) quel che avviene nella società, studiarlo nei suoi fattori e nelle possibili manifestazioni e conseguenze, infine anche esprimere giudizi, certo, e, in questo senso, orientare.

Il giudizio non può essere taciuto né soppresso perché il “fatto” non è un dato oggettivo che si trova per strada (diceva Antonio Labriola che i fatti non sono «come caciocavalli appesi» che si trovano già fatti). Ed è proprio perché fatti e giudizio politico sono così strettamente legati che il lavoro dei media è di grande responsabilità e di delicata combinazione di analisi e comprensione critica.

Il New York Times ha chiesto scusa ai lettori per il cattivo servizio. Tradendo addirittura la sua consuetudine, che consiste nel tenere solo l’ultima pagina per i commenti di giudizio, dedicando tutto il resto a dare conto di umori e fatti facendo parlare direttamente i protagonisti, ai problemi e a chi li avverte e soffre. Ad un certo punto della campagna elettorale, specialmente dopo che Trump ha cominciato a parlare delle donne come “gli uomini quando sono nello spogliatoio”, i media come il Times hanno chiuso l’auricolare su tutto il resto e si sono concentrati solo sul carattere e sui pregiudizi di Trump. E hanno iniziato a gettare discredito su quella parte di America che più facilmente poteva rientrare nella logica di Trump (la stessa Hillary Clinton, che ha definito lui e quelli come lui «disprezzabili», è caduta nella trappola).

L’America non amata, luogo inospitale per chi è incivilito dalla cultura urbana — quei milioni di cittadini lavoratori che in passato hanno votato Obama — non è stata considerata né studiata, non dal punto di vista dei problemi economici e sociali che l’angustiano, semmai solo per i pregiudizi che Trump diceva di rappresentare.

Del resto, la rabbia del Midwest era poco comprensibile per gli opinionisti liberal, per i quali la crisi è stata superata e l’economia è tornata a marciare. Aveva senso andare alla ricerca della scontentezza di chi, negli Stati una volta industriali, assiste impotente alla scomparsa del lavoro o alla sua progressiva delocalizzazione dove costa ancora meno di dieci dollari l’ora? L’altra America, di cui si ha quasi paura nell’America liberal delle due coste, è fatta di una popolazione che sta fuori da ogni comprensione; ad essa non è stata data la stessa attenzione dedicata ai racconti del truce Trump, alle sue bugie e volgarità. E la trappola del rozzo Trump ha funzionato perché ha contato sul fatto, provato, che l’élite non ama il popolo (e viceversa).

L’élite non ama il popolo, come si è visto anche con la Brexit. Il divorzio tra élite e popolo è il pericolo che le democrazie devono temere di più — perché questi due fattori del potere danno il peggio di sé se marciano separati. Il compito dei media è appunto quello di unire élite e popolo nella comune opinione pubblica, che non deve per questo coincidere mai con l’opinione di partito. Non deve legittimare quel divorzio. Far conoscere e analizzare i problemi della società larga è il lavoro dei media.

La rivolta dell’élite contro i molti nasce anche da un modo di considerare la democrazia che è a dir poco problematico: come un sistema di procedure fatte al fine di giungere a decisioni “buone” o “giuste”. Come se solo a questa condizione la conta dei voti dei molti sia legittima. Ma le decisioni sono buone perché prese secondo le procedure condivise non necessariamente per i loro contenuti, che possono anche essere non buoni: sono buone perché ci garantiscono la libertà di cambiare le decisioni prese e chi le prende (governi e maggioranze). Condizionare l’apprezzamento delle regole democratiche alla bontà del loro esito è l’anticamera del divorzio delle élite dal popolo e, infine, di governi non democratici.

La pre-determinazione della scelta buona ha accecato i radar dei media come il Times. Certo, la decisione buona era votare Hillary. E non vi è nulla di male nel fatto che un giornale mostri questa preferenza. Ma poi, il modo migliore per farla capire a tutti (anche ai non-liberal) non è imporla come verità auto-evidente (come i caciocavalli di Labriola), ma portarla alla comprensione a partire proprio dall’analisi dei problemi della vita ordinaria, la quale è fatta anche di luoghi comuni e pregiudizi.

Sapere già tutto in anticipo fa spegnere i radar. Ora, se l’arroganza è dei politici, essa non fa notizia, poiché parte dei loro “vizi”. Ma se sono gli operatori dell’opinione pubblica ad indossare quella casacca, allora si fanno evangelisti e perdono la loro funzione, che è appunto quella di seguire umilmente e comprendere quel che avviene nel mondo largo della società. Dare voce, invece che coprire con la propria voce. Per scongiurare, tra l’altro, che sia un Trump qualunque a dar voce.

«». il manifesto, 10 novembre 2016 , con postilla

Illudersi che a fronte di una società che non è mai stata così spaccata dalla disuguaglianza come oggi non ci sarebbe stata, prima o dopo, una reazione che avrebbe terremotato il quadro politico è stato ridicolo. Qualcuno, quando Trump ha iniziato la sua avventura, aveva cominciato a rendersene conto.

Michael Moore, fra gli altri, che da mesi aveva previsto che «quel miserabile ignorante e pericoloso pagliaccio» sarebbe stato «ahimé – il nostro presidente». Ma il regista che meglio di ogni altro ha dipinto la società americana contemporanea aveva guardato i volti scuri dei blue collars espulsi dalle fabbriche della Rust Belt (il Michigan – lo stato della mitica Detroit – il Wisconsin, l’Ohio, la Pennsylvania); le facce non più annerite dei minatori resi obsoleti dalle sacrosante misure ecologiche mai però accompagnate da progetti di rioccupazione; la nuova miseria dei più giovani, spappolati nel precariato e privati della speranza dell’avanzamento sociale.

L’establishment no, di questa umanità che pur ha gridato la sua protesta nelle piazze americane assieme a «Occupy Wall Street» – l’1% di straricchi che si affianca al 99% dei sempre più impoveriti – non ne ha tenuto conto, annebbiati dalla arrogante sicurezza che ha finito per rimuovere ogni loro preoccupazione.

Eppure era chiaro che stava salendo una domanda non rinviabile di cambiamento, una svolta comunque sia. Che aver introdotto, come Obama ha cercato di fare, un po’ di assistenza sanitaria non sarebbe bastato (i sondaggi ci dicono che il 77% degli elettori l’ha considerata troppo gracile ); né è bastato l’aver adottato una politica economica che ha abbassato il tasso di disoccupazione ma ha continuato a chiudere nel ghetto della marginalità milioni di giovani.

L’establishment – democratico ma anche repubblicano – è diventato il nemico da colpire perché titolare del capitalismo finanziario globale, quello che dà via libera alle scorribande del capitale e desertifica intere regioni un tempo ricche di industria. Né vale giustificarsi dicendo che i guai sono derivati dalla crisi, perchè la crisi non è piovuta dal cielo, è stata generata da questo sistema.

È la radicalità di questa voglia di svolta, di una risposta convincente che si faccia carico per davvero della sofferenza che dilaga e che non è stata colta dall’establishment democratico (e repubblicano, preso a sua volta alla sprovvista dal candidato che gli è toccato sostenere).

Avevano ragione i più acuti commentatori del New York Times quando, in occasione delle primarie, scrissero che aveva più probabilità di vincere le elezioni l’«estremista» Bernie Sanders che la moderata Hillary Clinton. Il vecchio socialista era infatti riuscito a mobilitare per la prima volta una larga area giovanile che generalmente diserta il voto e forse non ha alla fine ubbidito il suo leader quando, restata in campo solo la Clinton, li ha invitati a far convergere il proprio voto su di lei. E così si sono sottratte energie alla mobilitazione democratica, smentendo l’ortodossia corrente secondo cui si vince se si sta al centro.

Il voto americano è un buon campanello d’allarme per i nostri governanti europei, siano democristiani o socialdemocratici come in Germania, socialisti come in Francia, o (non so più bene cosa siano) quelli italiani. O questa voglia di rottura viene raccolta da una sinistra capace di proporre una svolta seria, o, se non c’è, alimenterà il peggio. E c’è poco da arricciare il naso se il loro paladino in America lo hanno trovato in chi viene irriso da tutte le più rispettabili figure del paese per la disinvoltura con cui infrange le norme del politically correct con volgarità che noi diremmo da «carrettiere» e che in America chiamano «da spogliatoio».

Le prossime elezioni in Francia rischiano di ripetere lo scenario americano, con qualche variante culturale. Anche lì, comunque, coi soliti pericolosi devianti ingredienti che accompagnano da sempre le proteste rimaste prive di uno sbocco politico realmente alternativo: il razzismo innanzitutto.

Varrebbe la pena che su tutto questo riflettessero quelli che hanno sempre paura della destabilizzazione. (Adesso, ove vincesse il NO). Il pericolo c’è se il disagio sociale non trova canali politici adeguati e democratici. In Italia l’antipolitica ha per fortuna trovato uno sbocco meno perverso nel M5stelle (che solo Scalfari può pensare di equiparare a Trump!). Con tutta la mia distanza dalla cultura dei grillini so bene che sono altra cosa, anche rispetto a Marine Le Pen e soci. Ma occorre ben altro e bisogna avere il coraggio di continuate a provare a costruire un’alternativa di sinistra. Adeguata.


Sacrosanto l'appello alla "sinistra" che non c'è. Ma per il resto non c'è mica tanto da illudersi sulla capacità/possibilità dell'establismant e dei «nostri governanti europei», dagli Usa alla Francia alla Germania (e giù giù fino all'Italia di Renzi) ad allearsi con una sinistra che rappresenti davvero gli "sfruttati della Terra" di oggi - o il 99% di Occupy Wall Street. Quelli che dovrebbero ravvedersi e stipulare un'alleanza onesta con i Barnie Sanders, (se ce ne fossero tanti) sono proprio i rappresentanti ufficiali di Wall Street e dintorni. A partire da Hillary Clinton, che il filosofo Slavoy Zizek ha così precisamente descritto.

«Allo stato attuale, di là e di qua dall’oceano, l’unico “popolo” che aspiri a incanalare dichiaratamente a sinistra la rivolta contro gli effetti perversi della globalizzazione, della finanziarizzazione del capitale, del neoliberalismo» è quello di Bernie Sanders.

Internazionale on line, 8 novembre 2016 (m.p.r.)

L’America è cinema, e nel grande schermo americano siamo tutti abituati a rispecchiarci e proiettarci da più di un secolo. Dunque non può stupire che nel kolossal della grande corsa alla Casa Bianca ci rispecchiamo anche noi europei, vedendoci ingigantiti tutti i segni della crisi politica e sociale che accomuna le democrazie occidentali di qua e di là dall’Atlantico. Del resto, i ruoli dei protagonisti sono così ben riusciti, anche e soprattutto nelle loro contraddizioni interne, da sembrare pensati a tavolino. Da una parte Donald il populista, businessman alla conquista del potere politico, maschio bianco alla riconquista del potere patriarcale, nativo all’assalto dello straniero, outsider all’arrembaggio del proprio partito; dall’altra parte Hillary la prima donna, politica navigata ma troppo d’establishment, femminista ma troppo moglie, progressista ma troppo neoliberal.

Un plot perfetto per riconoscervi il presente e l’assai probabile futuro prossimo del vecchio continente: populismo contro establishment, fratture sociali contro rappresentanza, leadership personali contro partiti storici, xenofobia contro globalizzazione, muri contro società aperta. Se aggiungiamo il magistrale taglio inserito nella sceneggiatura al momento giusto dal capo dell’Fbi, il quadro si completa con lo scivolamento della divisione dei poteri in imprevedibile guerriglia tra i medesimi, altro guaio che infetta le democrazie costituzionali su tutt’e due le sponde dell’oceano. Di qua e di là il catalogo è questo, ed è quanto basta per lanciarsi nella facile profezia che di là come di qua non ci aspettano tempi facili, anche se, com’è auspicabile, il kolossal americano si concluderà, secondo la regola ferrea dell’happy end, con la magari non facile, magari risicata, magari al cardiopalma vittoria dei buoni sui cattivi, ovvero di Hillary, la prima donna, contro Donald, l’ultimo uomo.

Eppure, a un secondo sguardo, tra il vecchio e il nuovo continente le cose non sono così uguali, né seguono sempre la regola aurea del nuovo che anticipa il vecchio: con le merci, i soldi, le persone e i confini la globalizzazione rimescola anche i tempi, in un’inedita circolarità fatta tanto di sovrapposizioni e somiglianze quanto di scarti e differenze. Prendiamo il fenomeno Trump, tanto nuovo e stupefacente per gli osservatori americani quanto intriso di déjà vu per noialtri marchiati dal ventennio del Cavaliere: del quale Trump ricalca, com’è stato detto e ripetuto, tutto o moltissimo, dal tratto “alieno” del tycoon che piomba sull’arena politica (tratto che Berlusconi a sua volta ricalcava, a proposito di circolarità, da Ross Perot) alla fusione tra l’azione politica e il brand industriale, dal linguaggio rivolto alla pancia più che al cervello alla post-truth politics, dall’ostentazione della trasgressione fiscale all’uso e all’abuso della potenza sessuale come viagra del messaggio politico. Sì che quando i commentatori statunitensi si stupiscono delle identificazioni consce e inconsce che una figura fuori degli standard della moralità e della legalità come Trump riesce a suscitare, noi sappiamo purtroppo molto bene che queste identificazioni con il lato oscuro di un leader sono possibili, e possono essere molto tenaci.

Così come non ci stupisce, come ha scritto qualche giorno fa Jill Filipovic sul New York Times, che le donne statunitensi si siano paradossalmente trovate a pagare la vittoria femminista della prima candidata alla Casa Bianca con la campagna elettorale più sessista della storia. Le rivoluzioni non procedono mai linearmente e quella femminista non fa eccezione: il caso Trump negli Stati Uniti come il precedente Berlusconi in Italia dimostrano che quando gli uomini, cito ancora Filipovic, “non stanno al passo” del cambiamento femminile, la reazione maschile alla perdita di potere e identità può essere selvaggia. Tanto più se, come nel caso americano che in questo è diverso dal nostro, in questa perdita di identità le ragioni legate al mutamento di genere si mescolano a quelle di ordine demografico e razziale, e l’uomo bianco, assediato non solo dal vantaggio femminile ma dalle ex minoranze che diventano maggioranze e dai neri che si sono già presi la Casa Bianca, si sente davvero l’ultimo uomo: non più il metro di misura di tutti i subalterni, superiore per natura e vincente per definizione, ma un precario residuale e declinante. Uno spleen suprematista e razzista che non pare ancora altrettanto diffuso in Europa ma potrebbe diventarlo, come annuncia l’isteria xenofoba che fiorisce per ogni dove.

Passiamo facilmente, da qui, al principale fattore che fa la differenza tra la scena americana e quella europea. E che sta, lo si voglia o no, nell’eredità simbolica della presidenza Obama. Che essa sia in gioco a livelli ben più profondi della continuità di partito e di governo incarnata da Hillary Clinton, lo dimostra precisamente la virulenza dell’attacco di cui è stata ed è oggetto da parte di Trump e dei suoi, con i corollari della guerra ai neri e agli islamici, alla società multiculturale, al policentrismo in politica estera, al “politically correct” sul piano culturale. Il che, invece di condurre all’affrettata conclusione, molto in voga tra i commentatori di casa nostra, di un “fallimento” di Obama, dovrebbe piuttosto farci riflettere sulle modalità sotterranee e carsiche con cui sovente si forma e si esprime il conflitto nella società americana, meno incline di quella europea a dargli immediata rappresentazione politica. Se non bastasse l’esempio attuale dei gruppi di suprematisti, alt right, birtherist, cospirazionisti, antielitisti che hanno preparato l’exploit di Trump su canali extrapolitici come i siti Breitbart, si può tornare con la memoria ai network neocon e teocon che covarono a lungo sotto lo splendore progressista dell’impero clintoniano degli anni novanta, senza che in Europa nessuno ci facesse caso finché non divennero i pilastri ideologici di George W. Bush e della sua politica revanscista successiva all’11 settembre.

Il conflitto, d’altra parte, in questa lunga campagna elettorale non ha avuto solo la faccia di Donald Trump. Ha avuto anche quella di Bernie Sanders, troppo frettolosamente cancellata dalla inevitabile polarizzazione tra i due candidati degli ultimi mesi. Ma Sanders continua a contare, e non solo perché conteranno oggi, uno per uno, i voti dei suoi sostenitori, millennial soprattutto, che riuscirà o non riuscirà a dirottare su Hillary Clinton. Conterà in seguito, se proseguirà la sua battaglia per spostare a sinistra il Partito democratico e obbligherà Hillary a mantenere gli impegni programmatici presi con lui al lato della convention democratica di luglio. Conterà, soprattutto, se riuscirà a mantenere attivo il movimento che ha costruito, o meglio, cui ha saputo dare rappresentanza, non su base estemporanea ma grazie alla sedimentazione di una catena di aggregazioni e di lotte che vanno dalla mobilitazione per la prima elezione di Obama a Occupy Wall street a Black lives matter alle agitazioni nei campus universitari. Allo stato attuale, di là e di qua dall’oceano, l’unico “popolo” che aspiri a incanalare dichiaratamente a sinistra la rivolta contro gli effetti perversi della globalizzazione, della finanziarizzazione del capitale, del neoliberalismo. E forse l’unico che può riuscire nel miracolo di dare la sveglia alla sinistra europea, prima che a dargliela spunti anche da queste parti un altro Trump.

l testo integrale del primo discorso esplicitamente rivolto da papa Francesco alla politica, di tale forza dirompente da essere del tutto ignorato sia dai media italiani, che parteggiano per la politica che Bergoglio aspramente critica, sia da quelli che forse si vergognano di non aver saputo pronunciare parole simili. Ci riferiamo in particolare ai paragrafi 4 e 5 del testo.


DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

AI PARTECIPANTI AL 3° INCONTRO MONDIALE DEI MOVIMENTI POPOLARI
Aula Paolo VI Sabato, 5 novembre 2016
Fratelli e sorelle buon pomeriggio!
In questo nostro terzo incontro esprimiamo la stessa sete, la sete di giustizia, lo stesso grido: terra, casa e lavoro per tutti. Ringrazio i delegati che sono venuti dalle periferie urbane, rurali e industriali dei cinque continenti, più di 60 Paesi, che sono venuti per discutere ancora una volta su come difendere questi diritti che radunano. Grazie ai Vescovi che sono venuti ad accompagnarvi. Grazie alle migliaia di italiani ed europei che si sono uniti oggi al termine di questo incontro. Grazie agli osservatori e ai giovani impegnati nella vita pubblica che sono venuti con umiltà ad ascoltare ed imparare. Quanta speranza ho nei giovani! Ringrazio anche Lei, Cardinale Turkson, per il lavoro che avete fatto nel Dicastero; e vorrei anche ricordare il contributo dell’ex Presidente uruguaiano José Mujica che è presente.
Nel nostro ultimo incontro, in Bolivia, con maggioranza di latinoamericani, abbiamo parlato della necessità di un cambiamento perché la vita sia degna, un cambiamento di strutture; inoltre di come voi, i movimenti popolari, siete seminatori di cambiamento, promotori di un processo in cui convergono milioni di piccole e grandi azioni concatenate in modo creativo, come in una poesia; per questo ho voluto chiamarvi “poeti sociali”; e abbiamo anche elencato alcuni compiti imprescindibili per camminare verso un’alternativa umana di fronte alla globalizzazione dell’indifferenza: 1. mettere l’economia al servizio dei popoli; 2. costruire la pace e la giustizia; 3. difendere la Madre Terra.
Quel giorno, con la voce di una “cartonera” e di un contadino, vennero letti, alla conclusione, i dieci punti di Santa Cruz de la Sierra, dove la parola cambiamento era carica di gran contenuto, era legata alle cose fondamentali che voi rivendicate: lavoro dignitoso per quanti sono esclusi dal mercato del lavoro; terra per i contadini e le popolazioni indigene; abitazioni per le famiglie senza tetto; integrazione urbana per i quartieri popolari; eliminazione della discriminazione, della violenza contro le donne e delle nuove forme di schiavitù; la fine di tutte le guerre, del crimine organizzato e della repressione; libertà di espressione e di comunicazione democratica; scienza e tecnologia al servizio dei popoli. Abbiamo ascoltato anche come vi siete impegnati ad abbracciare un progetto di vita che respinga il consumismo e recuperi la solidarietà, l’amore tra di noi e il rispetto per la natura come valori essenziali. È la felicità di “vivere bene” ciò che voi reclamate, la “vita buona”, e non quell’ideale egoista che ingannevolmente inverte le parole e propone la “bella vita”.
Noi che oggi siamo qui, di origini, credenze e idee diverse, potremmo non essere d’accordo su tutto, sicuramente la pensiamo diversamente su molte cose, ma certamente siamo d’accordo su questi punti.
Ho saputo anche di incontri e laboratori tenuti in diversi Paesi, dove si sono moltiplicati i dibattiti alla luce della realtà di ogni comunità. Questo è molto importante perché le soluzioni reali alle problematiche attuali non verranno fuori da una, tre o mille conferenze: devono essere frutto di un discernimento collettivo che maturi nei territori insieme con i fratelli, un discernimento che diventa azione trasformatrice “secondo i luoghi, i tempi e le persone”, come diceva sant’Ignazio. Altrimenti, corriamo il rischio delle astrazioni, di «certi nominalismi dichiarazionisti (slogans) che sono belle frasi ma che non riescono a sostenere la vita delle nostre comunità» (Lettera al Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, 19 marzo 2016). Sono slogan! Il colonialismo ideologico globalizzante cerca di imporre ricette sovraculturali che non rispettano l’identità dei popoli. Voi andate su un’altra strada che è, allo stesso tempo, locale e universale. Una strada che mi ricorda come Gesù chiese di organizzare la folla in gruppi di cinquanta per distribuire il pane (cfr Omelia nella Solennità del Corpus Domini, Buenos Aires, 12 giugno 2004).
Poco fa abbiamo potuto vedere il video che avete presentato come conclusione di questo terzo incontro. Abbiamo visto i vostri volti nelle discussioni su come affrontare “la disuguaglianza che genera violenza”. Tante proposte, tanta creatività, tanta speranza nella vostra voce che forse avrebbe più motivi per lamentarsi, rimanere bloccata nei conflitti, cadere nella tentazione del negativo. Eppure guardate avanti, pensate, discutete, proponete e agite. Mi congratulo con voi, vi accompagno e vi chiedo di continuare ad aprire strade e a lottare. Questo mi dà forza, questo ci dà forza. Credo che questo nostro dialogo, che si aggiunge agli sforzi di tanti milioni di persone che lavorano quotidianamente per la giustizia in tutto il mondo, sta mettendo radici.
Vorrei toccare alcuni temi più specifici, che sono quelli che ho ricevuto da voi e che mi hanno fatto riflettere e che ora vi riporto, in questo momento.
1. Il terrore e i muri
Tuttavia, questa germinazione, che è lenta – quella alla quale mi riferivo -, che ha i suoi tempi come tutte le gestazioni, è minacciata dalla velocità di un meccanismo distruttivo che opera in senso contrario. Ci sono forze potenti che possono neutralizzare questo processo di maturazione di un cambiamento che sia in grado di spostare il primato del denaro e mettere nuovamente al centro l’essere umano, l’uomo e la donna. Quel “filo invisibile” di cui abbiamo parlato in Bolivia, quella struttura ingiusta che collega tutte le esclusioni che voi soffrite, può consolidarsi e trasformarsi in una frusta, una frusta esistenziale che, come nell’Egitto dell’Antico Testamento, rende schiavi, ruba la libertà, colpisce senza misericordia alcuni e minaccia costantemente altri, per abbattere tutti come bestiame fin dove vuole il denaro divinizzato.
Chi governa allora? Il denaro. Come governa? Con la frusta della paura, della disuguaglianza, della violenza economica, sociale, culturale e militare che genera sempre più violenza in una spirale discendente che sembra non finire mai. Quanto dolore e quanta paura! C’è – l’ho detto di recente – c’è un terrorismo di base che deriva dal controllo globale del denaro sulla terra e minaccia l’intera umanità. Di questo terrorismo di base si alimentano i terrorismi derivati come il narco-terrorismo, il terrorismo di stato e quello che alcuni erroneamente chiamano terrorismo etnico o religioso. Ma nessun popolo, nessuna religione è terrorista! È vero, ci sono piccoli gruppi fondamentalisti da ogni parte. Ma il terrorismo inizia quando «hai cacciato via la meraviglia del creato, l’uomo e la donna, e hai messo lì il denaro» (Conferenza stampa nel volo di ritorno del Viaggio Apostolico in Polonia, 31 luglio 2016). Tale sistema è terroristico.
Quasi cent’anni fa, Pio XI prevedeva l’affermarsi di una dittatura economica globale che chiamò «imperialismo internazionale del denaro» (Lett. enc. Quadragesimo anno, 15 maggio 1931, 109). Sto parlando dell’anno 1931! L’aula in cui ora ci troviamo si chiama “Paolo VI”, e fu Paolo VI che denunciò quasi cinquant’anni fa, la «nuova forma abusiva di dominio economico sul piano sociale, culturale e anche politico» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 44). Anno 1971. Sono parole dure ma giuste dei miei predecessori che scrutarono il futuro. La Chiesa e i profeti dicono, da millenni, quello che tanto scandalizza che lo ripeta il Papa in questo tempo in cui tutto ciò raggiunge espressioni inedite. Tutta la dottrina sociale della Chiesa e il magistero dei miei predecessori si ribella contro l’idolo denaro che regna invece di servire, tiranneggia e terrorizza l’umanità.
Nessuna tirannia si sostiene senza sfruttare le nostre paure. Questo è una chiave! Da qui il fatto che ogni tirannia sia terroristica. E quando questo terrore, che è stato seminato nelle periferie con massacri, saccheggi, oppressione e ingiustizia, esplode nei centri con diverse forme di violenza, persino con attentati odiosi e vili, i cittadini che ancora conservano alcuni diritti sono tentati dalla falsa sicurezza dei muri fisici o sociali. Muri che rinchiudono alcuni ed esiliano altri. Cittadini murati, terrorizzati, da un lato; esclusi, esiliati, ancora più terrorizzati, dall’altro. È questa la vita che Dio nostro Padre vuole per i suoi figli?
La paura viene alimentata, manipolata… Perché la paura, oltre ad essere un buon affare per i mercanti di armi e di morte, ci indebolisce, ci destabilizza, distrugge le nostre difese psicologiche e spirituali, ci anestetizza di fronte alla sofferenza degli altri e alla fine ci rende crudeli. Quando sentiamo che si festeggia la morte di un giovane che forse ha sbagliato strada, quando vediamo che si preferisce la guerra alla pace, quando vediamo che si diffonde la xenofobia, quando constatiamo che guadagnano terreno le proposte intolleranti; dietro questa crudeltà che sembra massificarsi c’è il freddo soffio della paura. Vi chiedo di pregare per tutti coloro che hanno paura, preghiamo che Dio dia loro coraggio e che in questo anno della misericordia possa ammorbidire i nostri cuori. La misericordia non è facile, non è facile… richiede coraggio. Per questo Gesù ci dice: «Non abbiate paura» (Mt 14,27), perché la misericordia è il miglior antidoto contro la paura. E’ molto meglio degli antidepressivi e degli ansiolitici. Molto più efficace dei muri, delle inferriate, degli allarmi e delle armi. Ed è gratis: è un dono di Dio.
Cari fratelli e sorelle, tutti i muri cadono. Tutti. Non lasciamoci ingannare. Come avete detto voi: «Continuiamo a lavorare per costruire ponti tra i popoli, ponti che ci permettano di abbattere i muri dell’esclusione e dello sfruttamento» (Documento Conclusivo del II Incontro mondiale dei movimenti popolari, 11 luglio 2015, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia). Affrontiamo il terrore con l’amore.
2. l'Amore e i ponti

Il secondo punto che voglio toccare è: l’Amore e i ponti.
Un giorno come questo, un sabato, Gesù fece due cose che, ci dice il Vangelo, affrettarono il complotto per ucciderlo. Passava con i suoi discepoli per un campo da semina. I discepoli avevano fame e mangiarono le spighe. Niente si dice del “padrone” di quel campo… soggiacente è la destinazione universale dei beni. Quello che è certo è che, di fronte alla fame, Gesù ha dato priorità alla dignità dei figli di Dio su un’interpretazione formalistica, accomodante e interessata dalla norma. Quando i dottori della legge lamentarono con indignazione ipocrita, Gesù ricordò loro che Dio vuole amore e non sacrifici, e spiegò che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato (cfr Mc 2,27). Affrontò il pensiero ipocrita e presuntuoso con l’intelligenza umile del cuore (cfr Omelia, I Congreso de Evangelización de la Cultura, Buenos Aires, 3 novembre 2006), che dà sempre la priorità all’uomo e non accetta che determinate logiche impediscano la sua libertà di vivere, amare e servire il prossimo.
E dopo, in quello stesso giorno, Gesù fece qualcosa di “peggiore”, qualcosa che irritò ancora di più gli ipocriti e i superbi che lo stavano osservando perché cercavano una scusa per catturarlo. Guarì la mano atrofizzata di un uomo. La mano, questo segno tanto forte dell’operare, del lavoro. Gesù restituì a quell’uomo la capacità di lavorare e con questo gli restituì la dignità. Quante mani atrofizzate, quante persone private della dignità del lavoro! Perché gli ipocriti, per difendere sistemi ingiusti, si oppongono a che siano guariti. A volte penso che quando voi, i poveri organizzati, vi inventate il vostro lavoro, creando una cooperativa, recuperando una fabbrica fallita, riciclando gli scarti della società dei consumi, affrontando l’inclemenza del tempo per vendere in una piazza, rivendicando un pezzetto di terra da coltivare per nutrire chi ha fame, quando fate questo state imitando Gesù, perché cercate di risanare, anche se solo un pochino, anche se precariamente, questa atrofia del sistema socio-economico imperante che è la disoccupazione. Non mi stupisce che anche voi a volte siate sorvegliati o perseguitati, né mi stupisce che ai superbi non interessi quello che voi dite.
Gesù che quel sabato rischiò la vita, perché, dopo che guarì quella mano, farisei ed erodiani (cfr Mc 3,6), due partiti opposti tra loro, che temevano il popolo e anche l’impero, fecero i loro calcoli e complottarono per ucciderlo. So che molti di voi rischiano la vita. So – e lo voglio ricordare, e la voglio ricordare – che alcuni non sono qui oggi perché si sono giocati la vita… Per questo non c’è amore più grande che dare la vita. Questo ci insegna Gesù.
Le 3-T, il vostro grido che faccio mio, ha qualcosa di quella intelligenza umile ma al tempo stesso forte e risanatrice. Un progetto-ponte dei popoli di fronte al progetto-muro del denaro. Un progetto che mira allo sviluppo umano integrale. Alcuni sanno che il nostro amico il Cardinale Turkson presiede adesso il Dicastero che porta questo nome: Sviluppo Umano Integrale. Il contrario dello sviluppo, si potrebbe dire, è l’atrofia, la paralisi. Dobbiamo aiutare a guarire il mondo dalla sua atrofia morale. Questo sistema atrofizzato è in grado di fornire alcune “protesi” cosmetiche che non sono vero sviluppo: crescita economica, progressi tecnologici, maggiore “efficienza” per produrre cose che si comprano, si usano e si buttano inglobandoci tutti in una vertiginosa dinamica dello scarto… Ma questo mondo non consente lo sviluppo dell’essere umano nella sua integralità, lo sviluppo che non si riduce al consumo, che non si riduce al benessere di pochi, che include tutti i popoli e le persone nella pienezza della loro dignità, godendo fraternamente la meraviglia del creato. Questo è lo sviluppo di cui abbiamo bisogno: umano, integrale, rispettoso del creato, di questa casa comune.
3. Bancarotta e salvataggio

Un altro punto è: Bancarotta e salvataggio.

Cari fratelli, voglio condividere con voi alcune riflessioni su altri due temi che, insieme alle “3-T” e all’ecologia integrale, sono stati al centro dei vostri dibattiti degli ultimi giorni e sono centrali in questo periodo storico.
So che avete dedicato una giornata al dramma dei migranti, dei rifugiati e degli sfollati. Cosa fare di fronte a questa tragedia? Nel Dicastero di cui è responsabile il Cardinale Turkson c’è una sezione che si occupa di queste situazioni. Ho deciso che, almeno per un certo tempo, quella sezione dipenda direttamente dal Pontefice, perché questa è una situazione obbrobriosa, che posso solo descrivere con una parola che mi venne fuori spontaneamente a Lampedusa: vergogna.
Lì, come anche a Lesbo, ho potuto ascoltare da vicino la sofferenza di tante famiglie espulse dalla loro terra per motivi economici o violenze di ogni genere, folle esiliate – l’ho detto di fronte alle autorità di tutto il mondo – a causa di un sistema socio-economico ingiusto e delle guerre che non hanno cercato, che non hanno creato coloro che oggi soffrono il doloroso sradicamento dalla loro patria, ma piuttosto molti di coloro che si rifiutano di riceverli.
Faccio mie le parole di mio fratello l’Arcivescovo Hieronymos di Grecia: «Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza, la “bancarotta” dell’umanità» (Discorso nel Campo profughi di Moria, Lesbos, 16 aprile 2016). Cosa succede al mondo di oggi che, quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla, ma quando avviene questa bancarotta dell’umanità non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto? E così il Mediterraneo è diventato un cimitero, e non solo il Mediterraneo… molti cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di sangue innocente. Nei giorni di questo incontro – lo dite nel video – quanti sono i morti nel Mediterraneo?
La paura indurisce il cuore e si trasforma in crudeltà cieca che si rifiuta di vedere il sangue, il dolore, il volto dell’altro. Lo ha detto il mio fratello il Patriarca Bartolomeo: «Chi ha paura di voi non vi ha guardato negli occhi. Chi ha paura di voi non ha visto i vostri volti. Chi ha paura non vede i vostri figli. Dimentica che la dignità e la libertà trascendono la paura e trascendono la divisione. Dimentica che la migrazione non è un problema del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale, dell’Europa e della Grecia. È un problema del mondo» (Discorso nel Campo profughi di Moria, Lesbos, 16 aprile 2016).
E’, veramente, un problema del mondo. Nessuno dovrebbe vedersi costretto a fuggire dalla propria patria. Ma il male è doppio quando, davanti a quelle terribili circostanze, il migrante si vede gettato nelle grinfie dei trafficanti di persone per attraversare le frontiere, ed è triplo se arrivando nella terra in cui si pensava di trovare un futuro migliore, si viene disprezzati, sfruttati, addirittura schiavizzati. Questo si può vedere in qualunque angolo di centinaia di città. O semplicemente non si lasciano entrare.
Chiedo a voi di fare tutto il possibile; di non dimenticare mai che anche Gesù, Maria e Giuseppe sperimentarono la condizione drammatica dei rifugiati. Vi chiedo di esercitare quella solidarietà così speciale che esiste tra coloro che hanno sofferto. Voi sapete recuperare fabbriche dai fallimenti, riciclare ciò che altri gettano, creare posti di lavoro, coltivare la terra, costruire abitazioni, integrare quartieri segregati e reclamare senza sosta come la vedova del Vangelo che chiede giustizia insistentemente (cfr Lc 18,1-8). Forse con il vostro esempio e la vostra insistenza, alcuni Stati e Organizzazioni internazionali apriranno gli occhi e adotteranno le misure adeguate per accogliere e integrare pienamente tutti coloro che, per un motivo o per un altro, cercano rifugio lontano da casa. E anche per affrontare le cause profonde per cui migliaia di uomini, donne e bambini vengono espulsi ogni giorno dalla loro terra natale.
4 Il rapporto tra popolo, democrazia e politica

Dare l’esempio e reclamare è un modo di fare politica, e questo mi porta al secondo tema che avete dibattuto nel vostro incontro: il rapporto tra popolo e democrazia. Un rapporto che dovrebbe essere naturale e fluido, ma che corre il pericolo di offuscarsi fino a diventare irriconoscibile. Il divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia si allarga sempre più come conseguenza dell’enorme potere dei gruppi economici e mediatici che sembrano dominarle. I movimenti popolari, lo so, non sono partiti politici e lasciate che vi dica che, in gran parte, qui sta la vostra ricchezza, perché esprimete una forma diversa, dinamica e vitale di partecipazione sociale alla vita pubblica. Ma non abbiate paura di entrare nelle grandi discussioni, nella Politica con la maiuscola, e cito di nuovo Paolo VI: «La politica è una maniera esigente – ma non è la sola – di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 46). O questa frase che ripeto tante volte, e sempre mi confondo, non so se è di Paolo VI o di Pio XII: “La politica è una delle forme più alte della carità, dell’amore”.

Vorrei sottolineare due rischi che ruotano attorno al rapporto tra i movimenti popolari e politica: il rischio di lasciarsi incasellare e il rischio di lasciarsi corrompere.
Primo, non lasciarsi imbrigliare, perché alcuni dicono: la cooperativa, la mensa, l’orto agroecologico, le microimprese, il progetto dei piani assistenziali… fin qui tutto bene. Finché vi mantenete nella casella delle “politiche sociali”, finché non mettete in discussione la politica economica o la politica con la maiuscola, vi si tollera. Quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei i poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a volte una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema. Quando voi, dal vostro attaccamento al territorio, dalla vostra realtà quotidiana, dal quartiere, dal locale, dalla organizzazione del lavoro comunitario, dai rapporti da persona a persona, osate mettere in discussione le “macrorelazioni”, quando strillate, quando gridate, quando pretendete di indicare al potere una impostazione più integrale, allora non ci si tollera, non ci si tollera più tanto perché state uscendo dalla casella, vi state mettendo sul terreno delle grandi decisioni che alcuni pretendono di monopolizzare in piccole caste. Così la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino.
Voi, organizzazioni degli esclusi e tante organizzazioni di altri settori della società, siete chiamati a rivitalizzare, a rifondare le democrazie che stanno attraversando una vera crisi. Non cadete nella tentazione della casella che vi riduce ad attori secondari o, peggio, a meri amministratori della miseria esistente. In questi tempi di paralisi, disorientamento e proposte distruttive, la partecipazione da protagonisti dei popoli che cercano il bene comune può vincere, con l’aiuto di Dio, i falsi profeti che sfruttano la paura e la disperazione, che vendono formule magiche di odio e crudeltà o di un benessere egoistico e una sicurezza illusoria.
Sappiamo che «finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 202). Per questo, l’ho detto e lo ripeto, «il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. E’ soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento» (Discorso al II incontro mondiale dei movimenti popolari, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015). Anche la Chiesa può e deve, senza pretendere di avere il monopolio della verità, pronunciarsi e agire specialmente davanti a «situazioni in cui si toccano le piaghe e le sofferenze drammatiche, e nelle quali sono coinvolti i valori, l’etica, le scienze sociali e la fede» (Intervento al vertice di giudici e magistrati contro il traffico di persone e il crimine organizzato, Vaticano, 3 giugno 2016). Questo è il primo rischio: il rischio di lasciarsi incasellare e l’invito a mettersi nella grande politica.
Il secondo rischio, vi dicevo, è lasciarsi corrompere. Come la politica non è una questione dei “politici”, la corruzione non è un vizio esclusivo della politica. C’è corruzione nella politica, c’è corruzione nelle imprese, c’è corruzione nei mezzi di comunicazione, c’è corruzione nelle chiese e c’è corruzione anche nelle organizzazioni sociali e nei movimenti popolari. E’ giusto dire che c’è una corruzione radicata in alcuni ambiti della vita economica, in particolare nell’attività finanziaria, e che fa meno notizia della corruzione direttamente legata all’ambito politico e sociale. E’ giusto dire che tante volte si utilizzano i casi corruzione con cattive intenzioni. Ma è anche giusto chiarire che quanti hanno scelto una vita di servizio hanno un obbligo ulteriore che si aggiunge all’onestà con cui qualunque persona deve agire nella vita. La misura è molto alta: bisogna vivere la vocazione di servire con un forte senso di austerità e di umiltà. Questo vale per i politici ma vale anche per i dirigenti sociali e per noi pastori. Ho detto “austerità” e vorrei chiarire a cosa mi riferisco con la parola austerità, perché può essere una parola equivoca. Intendo austerità morale, austerità nel modo di vivere, austerità nel modo in cui porto avanti la mia vita, la mia famiglia. Austerità morale e umana. Perché in campo più scientifico, scientifico-economico, se volete, o delle scienze del mercato, austerità è sinonimo di aggiustamento… Non mi riferisco a questo, non sto parlando di questo.
A qualsiasi persona che sia troppo attaccata alle cose materiali o allo specchio, a chi ama il denaro, i banchetti esuberanti, le case sontuose, gli abiti raffinati, le auto di lusso, consiglierei di capire che cosa sta succedendo nel suo cuore e di pregare Dio di liberarlo da questi lacci. Ma, parafrasando l’ex-presidente latinoamericano che si trova qui, colui che sia affezionato a tutte queste cose, per favore, che non si metta in politica, che non si metta in un’organizzazione sociale o in un movimento popolare, perché farebbe molto danno a sé stesso, al prossimo e sporcherebbe la nobile causa che ha intrapreso. E che neanche si metta nel seminario!
Davanti alla tentazione della corruzione, non c’è miglior rimedio dell’austerità, questa austerità morale, personale; e praticare l’austerità è, in più, predicare con l’esempio. Vi chiedo di non sottovalutare il valore dell’esempio perché ha più forza di mille parole, di mille volantini, di mille “mi piace”, di mille retweets, di mille video su youtube. L’esempio di una vita austera al servizio del prossimo è il modo migliore per promuovere il bene comune e il progetto-ponte delle “3-T”. Chiedo a voi dirigenti di non stancarvi di praticare questa austerità morale, personale, e chiedo a tutti di esigere dai dirigenti questa austerità, che – del resto – li farà essere molto felici.
5. contrastare la paura

Care sorelle e cari fratelli, la corruzione, la superbia e l’esibizionismo dei dirigenti aumenta il discredito collettivo, la sensazione di abbandono e alimenta il meccanismo della paura che sostiene questo sistema iniquo.

Vorrei, per concludere, chiedervi di continuare a contrastare la paura con una vita di servizio, solidarietà e umiltà in favore dei popoli e specialmente di quelli che soffrono. Potrete sbagliare tante volte, tutti sbagliamo, ma se perseveriamo in questo cammino, presto o tardi, vedremo i frutti. E insisto: contro il terrore, il miglior rimedio è l’amore. L’amore guarisce tutto. Alcuni sanno che dopo il Sinodo sulla famiglia ho scritto un documento che ha per titolo “Amoris laetitia” – la “gioia dell’amore” – un documento sull’amore nelle singole famiglie, ma anche in quell’altra famiglia che è il quartiere, la comunità, il popolo, l’umanità. Uno di voi mi ha chiesto di distribuire un fascicolo che contiene un frammento del capitolo quarto di questo documento. Penso che ve lo consegneranno all’uscita. E quindi con la mia benedizione. Lì ci sono alcuni “consigli utili” per praticare il più importante dei comandamenti di Gesù.
In Amoris laetitia cito un compianto leader afroamericano, Martin Luther King, il quale sapeva sempre scegliere l’amore fraterno persino in mezzo alle peggiori persecuzioni e umiliazioni. Voglio ricordarlo oggi con voi; diceva: «Quando ti elevi al livello dell’amore, della sua grande bellezza e potere, l’unica cosa che cerchi di sconfiggere sono i sistemi maligni. Le persone che sono intrappolate da quel sistema le ami, però cerchi di sconfiggere quel sistema […] Odio per odio intensifica solo l’esistenza dell’odio e del male nell’universo. Se io ti colpisco e tu mi colpisci, e ti restituisco il colpo e tu mi restituisci il colpo, e così di seguito, è evidente che si continua all’infinito. Semplicemente non finisce mai. Da qualche parte, qualcuno deve avere un po’ di buon senso, e quella è la persona forte. La persona forte è la persona che è capace di spezzare la catena dell’odio, la catena del male» (n. 118; Sermone nella chiesa Battista di Dexter Avenue, Montgomery, Alabama, 17 novembre 1957). Questo lo ha detto nel 1957.
Vi ringrazio nuovamente per il vostro lavoro, per la vostra presenza. Desidero chiedere a Dio nostro Padre che vi accompagni e vi benedica, che vi riempia del suo amore e vi difenda nel cammino dandovi in abbondanza la forza che ci mantiene in piedi e ci dà il coraggio per rompere la catena dell’odio: quella forza è la speranza. Vi chiedo per favore di pregare per me, e quelli che non possono pregare, lo sapete, pensatemi bene e mandatemi una buona onda. Grazie.
© Copyright – Libreria Editrice Vaticana

Riferimenti

Il testo è tratto dal sito del Vaticano. Lo abbiamo ripreso dal sito di Anna Maria Bianchi Missaglia, che ringraziamo di avercelo indicato. Il titolo dell'articolo e i sottotitoli 4 e 5 sono nostri. Potete trovare una sintesi del discorso in eddyburg qui

Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2016 (p.d.)

La verità, vi prego, sulle mafie al nord. Se pensiamo che la narrazione della realtà, sia alla base della nostra consapevolezza, dobbiamo iniziare a pesare le parole che usiamo. Operazioni antimafia imponenti come “Crimine-Infinito”, portata avanti dalle procure di Reggio Calabria e Milano, o il processo Minotauro, celebrato a Torino o ancora, le ultime indagini sulla spartizione degli appalti dell’Expo, ci dicono con chiarezza che la mafia al nord è una realtà. Queste inchieste ci hanno svelato il sistema di potere delle organizzazioni criminali che hanno legami e parentele con la massoneria, con i colletti bianchi e soprattutto con la politica. Un lavoro silenzioso, costruito nel tempo con il supporto di funzionari corrotti, di comuni accondiscendenti e di enti doppiogiochisti. La storia giudiziaria degli ultimi 30 anni ci spiega che la mafia, fuori dalle sue Regioni d’origine, “interagisce”e non si infiltra, come erroneamente spesso riporta la cronaca. Una leggerezza che induce a immaginare un omino di lombrosiana memoria che s’insinua in un eccellente consiglio comunale per allungare le mani verso appalti ed elezioni. Poi un giorno qualcuno si accorge di lui e urla: “Un infiltrato!”, sottolineando la sorpresa e soprattutto la propria estraneità ai fatti.
La società che ha gestito l'Expo di Milano è stata messa su quando c'era ancora Letizia Moratti a Palazzo Marino. La sindaca non sentì la necessità di organizzare una commissione antimafia ad hoc, sicura che dalle sue parti non si sarebbe certo corso il rischio di fare o’babàcon un appuntamento così importante. La cronaca di oggi ci restituisce una realtà diversa, con le 'ndrine a intascare appalti e subappalti, a dettare legge sui lavori al punto da millantare di aver gestito il 70% di quel cantierone.

La mafia è una società di servizi alla quale le aziende del nord fanno fatica a rinunciare, specie in tempo di crisi. Le aziende sporche entrano in contatto con realtà imprenditoriali apparentemente pulite per far quadrare il fatturato, con emissioni di fatture false e fondi neri, eventuale recupero crediti e, per abbattere i costi, specializzandosi in attività altrimenti particolarmente onerose, come lo smaltimento dei rifiuti pericolosi (ricavi per 19,6 miliardi di euro). È un abbraccio cercato e voluto, che si conclude quasi sempre nel consegnare l’azienda nelle mani delle associazioni criminali.

A Reggio Emilia, dove si tiene uno dei più grossi processi di mafia del Nord, addirittura gli imprenditori indebitati con le cosche negano l’evidenza di alcune intercettazioni telefoniche, dalle quali emergono esplicite minacce di morte subìte. “Toni amichevoli”, precisa l’imputato , un po’ come Silvio Berlusconi dopo l’attentato mafioso alla sede Fininvest del 28 novembre 1986. Ipotizza sia stato il suo “stalliere”, Vittorio Mangano, ma con l’amico Dell’Utri sottolinea: “una cosa fatta con molto rispetto, quasi con affetto”. Si trattava di una bomba.

Se il traffico degli affari “leciti” tracciabili della sola 'ndrangheta è sopra i 53 miliardi di euro l'anno, significa che sotto ce ne sono almeno il doppio in nero. Un volume che tira su il Pil nazionale di 3,5 punti percentuale. Un'azienda capace di trattare armi, droga, frutta, verdura, fiori, movimento terra, sfruttamento della manodopera clandestina e ogni altro business appetibile per la 'ndrangheta Spa.

Da vocabolario il termine “infiltrazione”, rimanda a un “passaggio lento e continuo, consentito dalla permeabilità o dalla scarsa capacità di tenuta” delle condutture, in caso di liquidi. In questo caso la scarsa capacità di tenuta è della società che ha permesso e accettato di fare affari con la criminalità organizzata. Lo ha detto il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, intervistato da Lilli Gruber: “Nell'arco di 5 anni si potrebbero abbattere le mafie del 70%, ma non ci sono i numeri in Parlamento per risolvere il problema, perché il potere non vuole essere controllato”.

Ecco perché parlare di “infiltrazioni” è un’ipocrisia. Dovremmo chiamarle scelte, opportunità, presenze radicate, per restituire all’opinione pubblica, e alla politica, una rappresentazione della realtà più fedele possibile. Mentre le mafie negli anni sono cresciute, il Paese continua a fronteggiarle con gli stessi metodi dei tempi di coppole e lupare. Abbiamo bisogno di strumenti normativi adeguati, di polizie specializzate, che possano mettere sotto la lente le amministrazioni pubbliche e private e anche di una magistratura più esperta. Un lessico onesto renderebbe il dibattito più costruttivo. Per dirla con Thomas Reid, “non esiste più grande impedimento per l’avanzare della conoscenza che l’ambiguità delle parole”.

Il manifesto, 25 ottobre 2016 (p.d.)

La cacciata dei migranti dalla cosiddetta «giungla di Calais» è l’ennesimo, odioso, atto di repressione di un governo dell’Unione Europea che pensa di guadagnare consensi usando le maniere forti con i deboli, i disperati, i profughi che scappano dalle guerre che noi abbiamo provocato e gestito. Purtroppo, anche i governi di centrosinistra inseguono la destra estrema sul piano della durezza della repressione verso i migranti, accettando lo slogan diventato un luogo comune: ci stanno invadendo.

Ma, chi invade chi? Quanti migranti entrano in Italia in un anno, quanti sono i rifugiati nella Ue? Non lo sa nemmeno l’1 per mille della popolazione. La stragrande maggioranza della gente non conosce i numeri dei flussi migratori, e viene bombardata ogni giorno dal telegiornale che quantifica gli sbarchi giornalieri, con un ritmo incalzante, ma non fornisce dati sul fenomeno nel suo complesso, sia a livello nazionale che nel bacino del Mediterraneo. In tal modo è stato costruito lentamente, ma costantemente, un immaginario collettivo assolutamente falso e deviante.

Pochissimi sanno, o non vogliono sapere, che su quasi sei milioni di profughi siriani l’Ue ne accoglie solo il 15%, con i suoi 400 milioni di abitanti, per lo più concentrati in Serbia e in Germania, mentre un paese come la Giordania ne accoglie 700mila su una popolazione di 7,5 milioni. E addirittura il Libano ne accoglie 1,3 milioni con una popolazione di 4,5 milioni di abitanti! In proporzione è come se in Italia fossero arrivati 18 milioni di profughi! Provate a immaginare cosa sarebbe successo…

Su questa emergenza inventata si stanno costruendo le fortune politiche di partiti e leader razzisti e carichi di odio, si sta portando tutta l’Europa verso un processo di autodistruzione, strappando la trama istituzionale e culturale che in decenni era stata lavorata. L’Europa dei diritti, del welfare per tutti, del «sogno» che dieci anni fa ci ha raccontato Jeremy Rifkin, si sta sciogliendo velocemente come la neve sull’Etna dopo una giornata di scirocco. Come ci ricorda una famosa poesia di Bertol Brecht, prima è toccato agli ebrei, ai Rom, ai «neri», ora tocca ai profughi e domani… domani toccherà a noi, ai nostri poveri, esclusi, marginalizzati.
Infatti, in tutto l’Occidente, e non solo, si alzano muri per chilometri e chilometri, barriere di filo spinato, controlli spietati alle frontiere per respingere non lo straniero, ma i poveri che scappano dalle guerre e dalla fame.

I ricchi, i trafficanti di armi e droga, di qualunque nazionalità, colore della pelle, hanno invece diritto a entrare in qualunque paese del mondo. Per loro non ci sono muri e barriere che siano siriani o afgani, palestinesi o libici: sono i dannati della terra che devono restare fuori.

È la «nuova guerra ai poveri» che è scoppiata in tutto il mondo e che ci riporta al XVII secolo, il secolo della Grande Reclusione come è stato definito dal grande Fernand Braudel : «Questa ferocia borghese si aggraverà smisuratamente verso la fine del Cinquecento, e ancor più del Seicento. Il problema consisteva nel mettere i poveri in condizione di non nuocere (…) A poco a poco, attraverso tutto l’Occidente si moltiplicano le case per i poveri e indesiderabili, in cui l’internato è condannato al lavoro forzato: le Workhouses come le Zuchthauser, o le Maison de force, sorta di prigioni riunite sotto l’amministrazione del Grande Ospedale di Parigi fondato nel 1656. Questa “grande reclusione” dei poveri, dei pazzi, dei delinquenti, e anche dei minori, è uno degli aspetti psicologici della società razionale, implacabile nella sua ragione, del secolo XVII».

Il Fatto Quotidiano online, 21 ottobre 2016 (p.d.)

Bene. Hashi Omar Hassan, che era stato condannato per concorso nell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, è innocente. Si è fatto oltre 17 anni di prigione per nulla e finalmente, nel processo di revisione, è stato assolto e liberato. Per lui la fine di un incubo. Ci auguriamo che chieda e ottenga un lauto risarcimento dallo Stato italiano per una condanna a cui non aveva mai creduto nessuno. Nemmeno i genitori di Ilaria Alpi. I suoi 17 anni di vita non glieli restituirà nessuno, resi ancora più amari da un iter giudiziario che andrebbe definito da farsa, se non stessimo parlando di questioni troppo serie.

Ora speriamo che le motivazioni dicano chiaramente quello che va detto: che il povero Hashi è stato un capro espiatorio, premeditatamente intrappolato per tentare di dare in pasto un colpevole alla famiglia Alpi e all’opinione pubblica che chiedeva verità e giustizia. La sua assoluzione ci dice già che giustizia non è stata fatta, ma dice anche – e soprattutto – che con messa in stato d’accusa di Hashi si è voluto depistare dalla verità. Depistare, ossia spostare l’attenzione dalle piste che stavano portando alla verità sulle ragioni dell’omicidio dei due giornalisti, e occultare quindi gli indizi e gli elementi che avrebbero fatto luce sui veri esecutori e sui mandanti del duplice assassinio di Mogadiscio.

Non va dimenticato, infatti, che le vicende che hanno condotto all’arresto dell’(allora) giovane somalo sono il punto di svolta, cruciale, del caso “Alpi-Hrovatin”. Tutto accadde nel 1997, a soli tre anni dall’omicidio, quando i fatti erano recenti e i testimoni tutti ancora in attività e raggiungibili.

In quell’anno c’era stata una grande accelerazione nelle indagini: il magistrato Giuseppe Pititto, affiancato ad Andrea De Gasperis nell’inchiesta della Procura di Roma, aveva compiuto importanti passi d’indagine, aveva effettuato interrogatori rilevanti, era arrivato a identificare quattro testimoni oculari attraverso un delicato e complesso lavoro investigativo della Digos di Udine, li stava facendo arrivare in Italia per deporre. L’inchiesta era decollata. Già, a luglio 1997 pareva che il muro di gomma si stesse squarciando. E invece…

Invece l’inchiesta fu tolta a Pititto e De Gasperis da parte del Capo della Procura di Roma Salvatore Vecchione, giusto prima che potessero sentire i testimoni oculari. Mentre nelle stesse settimane veniva alla luce il cosiddetto “Diario Aloi”, un scritto di un maresciallo dei carabinieri che aveva operato in Somalia e che faceva prendere nuovo vigore alle furiose polemiche sulle presunte torture commesse dai militari italiani in Somalia. Uno scandalo, guarda caso, scoppiato in quello stesso 1997, che si stava spegnendo nel nulla se non fosse stato, appunto, per il “diario Aloi”.

È a causa di quel sospetto testo che la commissione ministeriale istituita per indagare sulle torture decide di identificare un certo numero di testimoni somali da far venire in Italia. Nel gennaio 1998 i 12 testimoni – selezionati fra oltre 140 che, in Somalia, avevano raccontato presunti episodi di violenza – sono pronti a partire. Ai 12 viene aggiunto all’ultimo minuto Hashi Omar Hassan. Viene in Italia, parla alla Commissione, e viene arrestato. La trappola è scattata. Due testimoni lo accusano di aver fatto parte del commando che uccise Ilaria e Miran: il primo è l’autista dei giornalisti, che presenta una versione contraddittoria e imprecisa dei fatti. L’altro è un somalo, Ahmed Ali Rage detto Jelle, che presenta le sue accuse agli agenti di polizia giudiziaria di Roma e sparisce ancora prima che inizi il processo. La condanna a 26 anni di Hashi Omar Hassan, di cui 17 espiati in carcere, si basa su questo, e solo su questo: un testimone contraddittorio e un altro che non si è nemmeno presentato in aula (e le cui dichiarazioni non sono state neppure registrate dalla polizia).

La sua assoluzione, oggi, Hashi la deve al fatto che Chiara Cazzaniga, giornalista di Chi l’ha visto, l’ha rintracciato e intervistato in Inghilterra. E lui, Jelle, nell’intervista, ha ammesso di aver accusato falsamente Hashi. Non solo. Confessa di averlo fatto perché pagato dalle istituzioni italiane. Speriamo che le motivazioni della sentenza ci dicano qualcosa su quali uomini delle istituzioni hanno “comprato” un testimone falso, e sul perché l’hanno fatto; che ci dicano come mai polizia e carabinieri che si sono succeduti in questi anni non sono mai riusciti a rintracciare Jelle (che ha sempre vissuto nella vicinissima Gran Bretagna), mentre una giornalista c’è la fatta; che ci dicano quale interesse aveva il nostro Paese a orchestrare un tale gigantesco depistaggio allo scopo di occultare le ragioni dell’assassinio di due giornalisti italiani in terra somala.

Forse è chiedere troppo alle motivazioni di questa sentenza. Ma la risposta a queste domande va data. Dal punto di vista giudiziario, infatti, si torna all’anno zero, dopo 22 anni. Indegno, per un Paese civile. Un vero scandalo, per le sue istituzioni.

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