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«Il 27 ottobre 2009 si è svolto in Roma, a cura della Fondazione della Camera dei Deputati, un seminario dal titolo “Cercate ancora. La lezione di Claudio Napoleoni”. Introduzione di Fausto Bertinotti; relazioni di Riccardo Bellofiore, Raniero La Valle; approfondimenti tematici (introdotti da Mario Tronti) di Alessandro Montebugnoli, Giorgio Ruffolo, Gian Luigi Vaccarino, Silvano Andriani, Giorgio Cremaschi, Vittorio Tranquilli, Carla Ravaioli. Di seguito la relazione di Tranquilli»

Di Claudio Napoleoni si potrebbe dire – fatte le debite proporzioni – ciò che disse Engels davanti alla tomba di Carlo Marx: è stato un economista perché è stato innanzitutto un rivoluzionario.
Negli anni Ottanta però, e particolarmente negli ultimi anni della propria vita (morì il 31 luglio 1988), Napoleoni si trovò di fronte a mutamenti del sistema capitalistico tanto profondi da rendergliene difficile una interpretazione, con indicazione di prospettive superatrici, in termini di teoria economica. Erano i tempi – ricordiamolo – in cui cominciavano a farsi chiari gli effetti della svolta neo-liberista voluta dalla Thatcher e da Reagan; in Italia c’era stata, nel giugno dell’85, la sconfitta del referendum contro l’abolizione della scala mobile.

Si profila allora in Napoleoni una crisi non soltanto teorica, ma spirituale, che lo porterà a riprendere – come testimoniato dal colloquio con Raniero La Valle a due mesi dalla morte (1) – l’heideggeriano «Solo un Dio ci può salvare».

«Ha ragione Riccardo Bellofiore – scrive La Valle nell’introduzione a Cercate ancora – quando osserva che “l’interrogazione teologica dell’ultimo Napoleoni trova la sua origine in questo dissolversi dello stesso pensiero rivoluzionario inteso come critica scientifica e rivoluzionaria del capitalismo”»(2).

E’ qui evidentemente in gioco, nell’"ultimo Napoleoni", il problema grossissimo della laicità della politica. Ma su questo problema egli non poteva non confrontarsi a fondo con la posizione di Franco Rodano (anche per l’impegnata collaborazione avuta con lui per almeno un decennio, cioè per tutti gli anni Sessanta). Scrisse infatti Piero Pratesi che la frequentazione di Rodano

«rimase un segno indelebile in Claudio Napoleoni. Non solamente restava sostanzialmente lo stesso il fine del pensare, la ricerca appunto del fulcro e della leva della rivoluzione possibile, ma l’esito finale della riflessione di Claudio Napoleoni, sparsa in conversazioni e appunti dell’ultima stagione, è caratterizzato da un continuo confronto con il pensiero rodaniano, oltre le ragioni dell’economia in senso stretto»(3).

Nel libro “Cercate ancora”, in effetti, sono riportati due documenti che confermano quanto fosse importante, per Napoleoni, questo confronto: parlo della “Lettera a Ossicini”(4) e dell’incompiuto “Saggio [appunto] su Rodano”(5). Non mi è quindi possibile, in questa sede, parlare di laicità – che è il tema assegnatomi – senza fare io pure riferimento a Franco Rodano.

La questione della laicità della politica non poteva non essere fondamentale e anzi fondante nella riflessione di Rodano, profondamente radicato nella fede cristiana e militante convinto del Partito comunista italiano.

«La ricerca dei modi e delle condizioni della laicità della politica – si legge sull’ultimo numero dei Quaderni della Rivista Trimestral, dedicato a ricordarlo – è stata suo sforzo precipuo e costante, fin dagli anni della giovinezza: discendeva infatti dal carattere peculiare della situazione e dell’esperienza che egli, e il gruppo di compagni da lui guidati, si trovavano a vivere già durante la guerra, e anche prima»(6).

Quale sia stata, di preciso, la posizione di Rodano, è bene espresso, ad esempio, in un saggio degli stessi Quaderni, anno 1977. Per fare positivamente i conti con Marx e col suo escatologismo rovesciato in termini di “assoluto umano” nella prospettiva della “società comunista”, e quindi per salvaguardare il “kerigma” cristiano dalla critica anti-religiosa dello stesso Marx, Rodano afferma – in quel saggio – la necessità che tale “kerigma”

«sia inteso e praticato in modo da accettare e rispettar sino in fondo l’autonomia, la “bontà” e la sufficienza di principio, per l’uomo, della realtà e delle operazioni “naturali” di esso (compresa dunque la politica); cosicché l’umana situazione storicamente alienata risulti passibile di un superamento rivoluzionario […] pienamente fondato e del tutto capace di sbocco vittorioso sul piano stesso della “natura” e su di esso soltanto»(7).

Ma espressioni di questo tenore sono assai frequenti in Rodano, anche a prescindere dal confronto con Marx. Ovviamente, qualunque posizione, specialmente su un tema così delicato e vessato come la laicità della politica, è soggetta a critiche. Quella di Rodano fu criticata, tra l’altro, da Giuseppe Ruggieri in un suo libro del 1978(8). Non posso entrare adesso, rispettando i 10 minuti, nel merito di questa critica, e tanto meno, più in generale, delle tesi di Ruggieri esplicitamente condivise da La Valle nella sua “Introduzione” al libro Cercate ancora(9).
Devo però soffermarmi su un brano dell’intervento di La Valle nel citato fascicolo dei Quaderni in ricordo di Rodano. Egli vi scrisse che, in uno dei suoi «rari incontri» con Rodano, lo sentì
«singolarmente sensibile e stimolato dalle riflessioni di Ruggieri sull’esperienza della Sinistra cristiana […]. Giudicò il saggio critico di Ruggieri pertinente e “intrigante”, intendendo dire – così interpreta La Valle - che il teologo catanese era entrato assai in profondità e attendibilmente nell’intrico dei problemi con cui Rodano si era misurato nel suo approccio alla “questione cattolica”»(10).

Questa sensazione avuta allora da La Valle, lo indusse a parlare di un “ultimo Rodano” che si sarebbe messo – proseguo la citazione - «intensamente e umilmente in cammino» verso, in buona sostanza, una revisione della sua posizione sulla laicità. Rodano, cioè, si sarebbe finalmente reso conto dell’inadeguatezza di tale sua posizione, la quale avrebbe patito – sto ancora citando - una «incapacità ecclesiale» imputabile «a tutta la storia cristiana degli ultimi secoli e degli ultimi decenni», e che sarebbe stato tempo oramai, dopo il Concilio, di riformulare radicalmente, in termini più rigorosi e corretti(11).

A questo punto vorrei allora concludere con una mia personale testimonianza. Con Franco Rodano ho avuto un rapporto di collaborazione stretta e di amicizia per oltre 40 anni, dalla comune partecipazione alla lotta antifascista clandestina e dalla Resistenza, fino alla morte di lui nel 1983. Posso assicurare tre cose:

che Rodano fu cattolico praticante nel corso dell’intera sua vita (compreso il periodo dell’interdetto dai sacramenti comminatogli sotto papa Pacelli e toltogli sotto papa Roncalli);
che Rodano, iscritto al PCI dal 1946 alla morte, vi militò con adesione tanto schietta quanto criticamente propulsiva verso l’uscita da strettoie ideologistiche;
che il pensiero di Rodano sulla laicità della politica venne sviluppandosi in modo lineare, su basi costanti, senza alcuna scoraggiata cesura né “intrigato” ripensamento.

Questa mia testimonianza è suffragata dagli scritti di Rodano posteriori al libro di Ruggieri, buona parte dei quali è stata poi raccolta nel volume a mia cura Franco Rodano: Cattolici e laicità della politica, Editori Riuniti 1992.
Non è perciò accettabile l’idea di un "ultimo Rodano" entrato in crisi proprio sul punto fondante dell’intera sua opera.
N O T E
(1) In Cercate ancora, a cura dello stesso La Valle – Editori Riuniti 1990, p.107-135.
(2) P. XXII.
(3) Claudio Napoleoni: coniugando economia e teologia, in “Regno Attualità” 1989, n. 2, p.55. Citato da Vittorio Tranquilli in Fede cattolica e laicità della politica in Franco Rodano, saggio pubblicato nel n. 2/1991 di “Teoria politica”.
(4) Cercate ancora cit, p. 5 sgg.
(5) Ivi, p. 17 sgg.
(6) Ricordo di Franco Rodano – Quaderni della Rivista Trimestrale n. 75-77/1983, p. 169
(7) Franco Rodano, Vittorio Tranquilli: La politica come assoluto, in “Quaderni” cit., n.51/1977, pp. 3-54.
(8) G. Ruggieri, R. Albani: Cattolici comunisti? Ed. Queriniana 1978.
(9) Cfr. pp. XXXI-XXXII, XXXVI.
(10) P. 53.

NENA news l'urbanizzazione neoliberista in Istanbul e altre città, il regista racconta la vita in Turchia nello stato di emergenza. La trasformazione urbana è una questione sistemica nel sistema socio-economico attuale. (i.b)

Il 21 luglio 2016, a meno di una settimana dal tentato golpe in Turchia, il presidente Erdoğan dichiara l’attuazione per tre mesi dello stato di emergenza (Ohal), rinnovato poi di tre mesi in tre mesi e ancora in vigore. Nel luglio 2017, con due anteprime una a Berlino e poi a Istanbul, viene presentato il documentario “La Turchia sull’orlo dell’abisso (Uçurumun kıyısında Türkiye)”, un film che racconta l’anno appena trascorso nello stato di eccezione.

Un anno denso di avvenimenti, migliaia di persone costrette alle dimissioni, giornalisti, politici, scrittori, attivisti fermati, arrestati, processati dopo mesi sempre con l’accusa di affiliazione a organizzazione terroristica ma con prove scarse o inesistenti. Un anno in cui la libertà di espressione ha subito i più gravi attacchi e nonostante ciò la popolazione è stata invitata ad esprimersi con il voto su una questione delicata e decisiva: la riforma costituzionale per il passaggio a un regime presidenziale.

Imre Azem, regista del film e già autore del pluripremiato Ecumenopolis. City without Limits (Ekümenopolis. Uçu olmayan şehir), dopo essersi dedicato per anni al tema delle trasformazioni urbane, della speculazione immobiliare come forma di manifestazione di politiche neoliberiste, ha deciso di narrare un anno di Turchia nello stato di emergenza seguendo quattro persone, quattro attivisti coinvolti in diverse battaglie politiche e impegnatisi in prima linea nella campagna elettorale del referendum.

In La Turchia sull’orlo dell’abisso in compagnia del giornalista Fatih Polat, l’architetta Mücella Yapici, l’attivista Deniz Özgür e la docente Gül Köksal, lo spettatore può vedere da vicino non solo gli effetti dello stato di emergenza ma anche percepire la tenacia e la forza con cui, nonostante tutto, le persone in Turchia non si danno per vinte e continuano la loro battaglia per il rispetto dei diritti democratici.

Alla vigilia della prima italiana del film La Turchia sull’orlo dell’abisso, in una serata organizzata da Kaleydoskop – Turchia cultura e società abbiamo incontrato il regista Imre Azem per porgli alcune domande.

Come nasce l’idea di questo documentario?

Noi abbiamo sempre realizzato documentari sulla città, nel 2011 è uscito Ekümenopolis dopo di che abbiamo prodotto brevi documentari sempre sulle trasformazioni urbane, però in tempi più recenti, in particolare dopo Gezi, abbiamo cominciato a realizzare documentari su questioni più legate alla società, alla politica. All’inizio del 2016 eravamo tornati a fare dei documentari sulla società e volevamo fare un altro film che come Ekümenopolis affrontasse il rapporto tra il mondo della finanza e lo sviluppo urbano, ma a livello globale, e per questo siamo andati negli Stati Uniti, per parlare con gli investitori di Wall Street; siamo rimasti tre mesi, stavamo facendo delle ricerche quando, proprio allora, è avvenuto il colpo di Stato.

Con il golpe in Turchia l’atmosfera è cambiata di colpo e noi abbiamo pensato che, considerato ciò che stava accadendo nel nostro paese, invece di fare le riprese in America, in Europa e in altre grandi città del mondo come avremmo dovuto fare, abbiamo deciso che questo progetto non poteva continuare, lo abbiamo abbandonato, siamo tornati in Turchia per cercare di capire come raccontare quello che stava succedendo.

Nel frattempo una produzione che ci conosceva in Germania ci ha contattato. Subito dopo il golpe, infatti, c’è stato un grosso interesse in Europa verso la Turchia e tutti volevano fare qualcosa su quello che accadeva. Noi abbiamo spiegato loro che tipo di progetto avevamo in testa e che secondo noi per capire dove stava andando la Turchia, parlare con un rappresentante dell’Akp, con uno dell’Hdp, con ognuno dei partiti politici, intervistare i politici e confrontare le loro posizioni sarebbe stata una cosa senza senso. La nostra è stata una posizione chiara, abbiamo inisistito che fosse necessario un punto di vista specifico perché pensiamo che sia importante capire che influenza abbia lo stato di emergenza sulla vita di tutti i giorni, sull’attivismo. Così solo è possibile raccontare in modo più chiaro e trasparente il futuro del paese. Loro hanno accettato questa nostra proposta e quindi abbiamo cominciato a lavorarci.

Questo progetto ha anche molto di personale perché lo racconto dal mio punto di vista e lo faccio attraverso persone che conosco direttamente, che appartengono alla mia cerchia. Non ho scelto queste persone perché in generale cercavo dei profili come i loro e basta ma perché io conosco queste persone, in particolare dopo Gezi abbiamo condiviso la lotta per la democrazia e nel documentario racconto le persone attorno a me, persone con cui ci siamo battuti insieme.

Per me è un film sincero, personale, ma visto che non nascondo il punto in cui ci siamo fermati, essendo coinvolto anch’io in prima persona, anche come voce narrante, per lo spettatore tutto è più chiaro. In questo senso spiega meglio il punto in cui siamo arrivati in Turchia e dove possiamo andare. È un film che dà più informazioni.

Il documentario s’intitola La Turchia sull’orlo dell’abisso. Una definizione inquietante per un paese che solo qualche anno fa, a livello internazionale, rappresentava un modello esemplare di sviluppo economico, democrazia e islam. Ci spieghi come sei giunto a questo titolo?

La prima volta che ho cominciato a pensare a questo film ho cominciato a scrivere di getto il testo, ho scritto molto e il titolo del film è stato di fatto il primo titolo che avevo dato al testo. Di fatto esprimeva il sentimento che provavo rispetto alla Turchia. Non è una condizione nuova, e certamente si è sviluppata piano piano in un lungo processo, però tutto d’un tratto ci siamo ritrovati su un baratro, sull’orlo dell’abisso, e la trasformazione a questo punto può diventare molto difficile: in questo senso parlo di abisso. Per la Turchia l’abisso può essere una guerra civile; io penso che ci siamo arrivati davvero molto vicini e a un certo punto tornare indietro sarà molto difficile. Tuttavia ci sono ancora speranze, penso che non siamo ancora a questo punto.

La Turchia sull’orlo dell’abisso è stato realizzato dalla Kibrit Film, fondata insieme a Gaye Günay, grazie a una produzione tedesca, la gebrueder beetz filmproduktion in collaborazione con ZDF e Arte. Che valore hanno avuto questi fondi stranieri, europei per la precisione, in un momento di grande censura per il cinema indipendente?

Abbiamo cominciato a lavorare alle riprese del film prima di accordarci con la produzione tedesca e Arte, ma avevamo ovviamente molte spese da affrontare: noleggio attrezzature, costi per i tecnici… senza fondi l’avremmo fatto comunque ma probabilmente in un formato molto più breve e meno complesso, invece così grazie ai fondi messi a disposizione abbiamo potuto dedicarci per sei mesi completamente al film oltre a un sostegno tecnico perché abbiamo avuto la disponibilità di un montatore e di una seconda camera. Riuscendo a sostenere i costi abbiamo avuto la possibilità di avere una equipe. Forse l’avremmo fatto lo stesso ma non in modo così completo e dettagliato.

Per molti anni il tuo lavoro e quello della tua casa di produzione, la Kibrit Film, si è concentrato sul tema della speculazione urbana e il suo legame con le politiche neoliberiste. Trovi qualche connessione con quello che hai raccontato finora e la deriva politica dell’ultimo periodo?

In tutti i lavori che abbiamo fatto prima d’ora, abbiamo cercato di raccontare come la trasformazione urbana sia una questione sistemica. In Turchia il processo di trasformazione urbana è stato un riflesso del sistema economico e politico e in questo senso l’amministrazione politica che è cambiata diventando sempre più autoritaria si rispecchia nella gestione della città. Anche nella trasformazione urbana ad esempio si ricorre allo stato di emergenza, con la scusa dello stato di emergenza non si accettano alcune opposizioni, non si dà il permesso per le manifestazioni, anche i procuratori usano lo stato di emergenza e con la scusa fanno passare nuove leggi…

Proprio come ora con i decreti di emergenza e senza nessun rispetto della legge, persino della costituzione, è possibile far passare le leggi che si vogliono. Questo succede anche con i progetti di trasformazione urbana, per esempio nei confronti della natura, la legge sulle miniere, per questioni ambientali; vengono avviati progetti fuori legge, anche non approvati, e in questo senso era già possibile vedere nelle città la condizione dello stato di emergenza.

Il film è uscito ufficialmente a luglio ma è da ottobre che sta girando per la Turchia in un circuito indipendente e autorganizzato. Come sta andando? Come organizzate le proiezioni?

L’anteprima del film è stata a Berlino, la seconda a Istanbul, il 12 luglio nel Ses Tiyatrosu, e ora, infatti, stiamo organizzando proiezioni in tutta la Turchia… in realtà non siamo noi che le organizziamo ma abbiamo dato la nostra disponibilità, così veniamo contattati e invitati a presentarlo. Abbiamo avuto già molte richieste: sono previste proiezioni a Mersin, Ankara, Izmir, Eskişehir, in diverse università, e anche all’estero, negli Stati Uniti, in Germania.

Il film gira quindi grazie a proiezioni private, su iniziativa di singoli o di gruppi, e per noi queste proiezioni sono molto importanti perché uno dei messaggi del film è che la lotta per la democrazia si fa insieme, stando uniti, per essere più forti. Organizzare le proiezioni con gruppi che si battono per i diritti democratici e si riuniscono, si ritrovano e discutono anche stimolati dal documentario per noi è molto importante. Soprattutto perché oggi, a parte i social network, siamo in un periodo in cui dobbiamo davvero ritrovarci, stare insieme, darci una mano e creare occasioni è fondamentale. Poi probabilmente per queste persone il film non racconta nulla di nuovo, perché sono già persone sensibili, coinvolte, ma con le proiezioni si ha modo di discutere e soprattutto si aprono barlumi di speranza, per una lotta comune. Così come, io credo, si contribuisce alla costruzione di una narrazione comune, collettiva, che è ciò di cui abbiamo bisogno.

***

Il documentario La Turchia sull’orlo dell’abisso sarà proiettato per la prima volta in assoluto in Italia venerdì prossimo, il 17 novembre alle ore 20 a Napoli, presso l’ex Asilo Filangieri. La proiezione è parte del primo evento di lancio della rivista online Kaleydoskop – Turchia, cultura e società , una rivista nata quest’estate grazie a una riuscita campagna di donazioni dal basso e online da metà settembre. Fondata da una piccola redazione di cinque donne Kaleydoskop.it, progetto indipendente, racconta la vita culturale e la società in Turchia. Un progetto di cooperazione, di sostegno a forme di cittadinanza attiva in un paese, la Turchia, che sta attraversando un periodo molto critico in cui, giorno dopo giorno, si riducono sensibilmente gli spazi e le possibilità per esprimersi liberamente. Kaleydoskop.it racconta di letteratura, cinema, fotografia, satira, creazioni e documentari sonori, festival, musei, mostre, iniziative, radio, associazioni, lo fa con una costante collaborazione con artisti, giornalisti, fotografi, illustratori turchi.

Dopo la proiezione napoletana è possibile organizzare altre proiezioni del documentario contattando la redazione di Kaleydoskop via email (info@kaleydoskop.it).

Riferimenti
Qui il link al trailer di Turkey on the edge.
Per chi si fosse perso Ecumenopolis. City without limits, qui il video.

milex.org
I dati provvisori degli allegati tecnici al disegno di legge di Bilancio 2018 (1) mostrano un incremento annuo del 3,4% (circa 700 milioni) del budget previsionale del Ministero della Difesa (2), che passa dai 20,3 miliardi del 2017 ai quasi 21 miliardi del 2018. Un aumento che rafforza la tendenza di crescita avviato due anni fa: +8% (circa 1,6 miliardi) rispetto al bilancio Difesa del 2015.

Fonte: milex.org

Analizzando il dettaglio delle voci di spesa previste per il 2018, spicca un aumento di quasi il 10% dei fondi ministeriali per gli investimenti in nuovi armamenti e infrastrutture (2,3 miliardi). In aumento del 4,6% anche la spesa per il personale di Esercito, Marina e Aeronautica (10,2 miliardi) nonostante la riduzione degli organici dettata dalla Riforma Di Paola, a causa degli aumenti stipendiali per gli ufficiali superiori previsti dal recente riordino delle carriere. Ne risulta una tripartizione della Funzione Difesa di 74% per il personale, 9% per l’esercizio e 17% per gli investimenti (secondo la Riforma Di Paola dovrebbe essere rispettivamente 50%-25%-25%). A questo si aggiungono 341 milioni per la pensione ausiliaria (3) e oltre 100 milioni per le funzioni esterne (1/4 per i voli di Stato) (4).

L’aumento delle spese italiane per la Difesa risulta ancor più consistente se si tiene conto di tutte le altre voci di spesa militare ‘extra-bilancio’ sostenute da altri ministeri ed enti pubblici: i 3,5 miliardi (+5% rispetto al 2017) dei contributi del Ministero dello Sviluppo Economico per l’acquisizione di nuovi armamenti ‘made in Italy’ (5) (contributi pari al 71,5% del budget totale MiSE per la competitività e lo sviluppo delle imprese italiane), i circa 1,3 miliardi di costo delle missioni militari all’estero sostenute dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (6), gli oltre 2 miliardi del costo del personale militare a riposo a carico dell’INPS (7) e il mezzo miliardo di spese indirette per le basi USA in Italia (8). Aggiungendo queste voci di spesa e sottraendo invece i costi non propriamente militari (3 miliardi per i Carabinieri in funzione di polizia e ordine pubblico (9) e quasi mezzo miliardo per i Carabinieri in funzione di guardia forestale), il gran totale delle spese militari italiane per il 2018 raggiunge i 25 miliardi: un miliardo in più rispetto al 2017 (+4%), due miliardi in più rispetto al 2015 (+9%).

Fonte: milex.org

Ciò si traduce in un lieve incremento anche in termini di percentuale del PIL: 1,42 (contro l’1,40 del 2017) che potrebbe avvicinarsi all’1,5 se le ottimistiche stime previsionali del governo per il PIL 2018 (10) non si realizzeranno. Ancora lontani dall’assurdo obiettivo imposto dalla NATO del 2% del PIL (ritenuto irraggiungibile dallo stesso Ministero della Difesa, che riporta il dato dell’1,2% riferito al solo bilancio ministeriale di 21 miliardi), ma decisamente più di importanti alleati come Canada (1%), Germania e Spagna (entrambe all’1,2%). Insensato il confronto con le potenze nucleari francese e britannica — anche se l’Italia spende non poco per proteggere l’arsenale atomico USA della base bresciana di Ghedi (23 milioni nei prossimi anni) e per mantenere aggiornata la capacità nucleare dei bombardieri Tornado (parte dei 254 milioni previsti fino al 2031 per l’adeguamento dell’intero comparto bellico chimico-biologico-radiologico-nucleare).

Sommando gli stanziamenti 2018 della Difesa e del Mise per il ‘procurement’, il prossimo anno verrano investiti in nuovi armamenti complessivamente 5,7 miliardi, +7% rispetto al 2017. Qualche esempio (11): oltre 700 milioni stanziati per l’acquisto di altri 3 o 4 bombardieri F-35; 300 milioni per la nuova portaerei Thaon de Revel, dal costo di 1,2 miliardi e quasi 400 milioni per i nuovi pattugliato d’altura; un centinaio di milioni per l’avvio dei programmi di acquisizione di 350 nuovi carri Ariete e Centauro (oltre 2 miliardi il costo totale) e di 2.000 nuovi blindati Lince (un miliardo il costo complessivo) e 50 nuovi elicotteri da attacco (mezzo miliardo solo per lo sviluppo).

Nel 2018 la tripartizione effettiva della spesa militare sarà quindi 60% per il personale, 13% per l’esercizio e 28% per gli investimenti in armamenti e infrastrutture.

Note

(1) http://www.rgs.mef.gov.it/VERSIONE-I/Attivit–i/Bilancio_di_previsione/Bilancio_finanziario/2018/Disegno-di-Legge-di-Bilancio/Allegato-t-18-20/

(2) http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Attivit–i/Bilancio_di_previsione/Bilancio_finanziario/2018/Disegno-di-Legge-di-Bilancio/Allegato-t-18-20/2018-DLB-04-AT-120-Difesa.pdf

(3) Il collocamento in ausiliaria consiste nella possibilità, al raggiungimento dell’età pensionabile o dei 40 anni di anzianità contributiva, di essere congedati dal servizio attivo con disponibilità ad eventuale richiamo in servizio per un periodo massimo di 5 anni. Il militare in ausiliaria percepisce (dal Ministero della Difesa) una pensione maggiorata dalla cosiddetta indennità di ausiliaria, pari al 50 per cento (70 per cento fino al 2014) della differenza tra il suo ultimo stipendio e la pensione stessa.

(4) Questa suddivisione canonica del budget della Difesa, propria dei Documenti programmatici pluriennali, è ricavabile rielaborando le diverse voci di spesa contenute nei bilanci previsionali nel modo seguente:
• “Funzione Sicurezza”: somma di “Approntamento e impiego Carabinieri per la difesa e la sicurezza” e “Approntamento e impiego Carabinieri per la tutela forestale, ambientale e agroalimentare”
• “Funzione Difesa”: budget ministeriale totale al netto della suddetta Funzione Sicurezza e di “Interventi non direttamente connessi con l’operatività dello Strumento Militare”
• “Pensioni provvisorie in ausiliaria”: “Trattamenti provvisori di pensione”
• “Funzioni Esterne”: “Interventi non direttamente connessi con l’operatività dello Strumento Militare” al netto dei trattamenti provvisori di pensione.
Per le sotto-voci della “Funzione Difesa”:
• “Personale”: somma dei “redditi da lavoro dipendente” e delle “imposte pagate sulla produzione” esclusi quelli relativi ai Carabinieri in funzione difesa-sicurezza e forestale
• “Investimenti”: somma di “Ammodernamento, rinnovamento e sostegno delle capacità dello Strumento Militare” e “Ricerca tecnologica nel settore della difesa”
“Esercizio”: residuo della “Funzione Difesa”.

(5) Lo stanziamento del Ministero dello Sviluppo Economico destinato ai programmi di procurement di armamenti è riportato nel bilancio previsionale del MiSE (http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Attivit–i/Bilancio_di_previsione/Bilancio_finanziario/2018/Disegno-di-Legge-di-Bilancio/Allegato-t-18-20/2018-DLB-04-AT-030-MISE.pdf) alla voce “Programmi di sviluppo e innovazione tecnologica nel settore dell’aeronautica, dello spazio, difesa e sicurezza” (missione 11, programma 5, obiettivo 8). Il dettaglio dei programmi finanziati si trova nell’allegato tecnico del bilancio previsionale del MISE (fino al 2015 era la ‘Tabella E’ allegata alla Legge di Stabilità) ai capitoli di spesa 7419, 7420, 7421/7423 e 7485, cui si aggiungono altri sei diversi capitoli (5311, 5312, 5313, 9706, 9707 e 9708) riguardanti il pagamento delle rate dei mutui contratti dal MISE con diversi istituti di credito (Intesa, Bbva e Cassa Depositi e Prestiti i principali).

(6) Si considera qui un stima previsionale a costo invariato rispetto a quello delle missioni internazionali per l’anno 2017 contenuto nella Deliberazione del Consiglio dei Ministri del 14 gennaio 2017 (http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/1000608.pdf), al netto delle spese relative alle iniziative di cooperazione allo sviluppo e sminamento umanitario (111 milioni nel 2017) e agli interventi di sostegno ai processi di pace e stabilizzazione e alla connessa partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali (34 milioni nel 2017).

(7) Il costo del personale a riposo è calcolato sottraendo al valore annuale delle pensioni erogate dall’INPS al comparto militare (riportato nei rendiconti generali INPS: https://www.inps.it/nuovoportaleinps/default.aspx?itemDir=46801) il valore dei contributi versati all’INPS dal Ministero della Difesa (riportato nei conti annuali del Tesoro: http://www.contoannuale.tesoro.it).

(8) Si considera qui un stima previsionale a costo invariato rispetto all’anno 2017. L’Italia contribuisce al 41% delle spese di stazionamento delle truppe USA nelle 59 basi americane nostro Paese – quinto avamposto statunitense nel mondo per numero d’installazioni militari, dopo Germania, Giappone, Afghanistan e Corea del Sud (http://comptroller.defense.gov/Portals/45/Documents/defbudget/fy2017/fy2017_OM_Overview.pdf e https://www.dmdc.osd.mil/appj/dwp/dwp_reports.jsp) per un importo di circa 520 milioni di euro per l’anno 2017, extra bilancio Difesa.

(9) Qui si considera solo il costo dei Carabinieri in funzione di “difesa militare”, non quello dei Carabinieri in funzione di “ordine pubblico e sicurezza”, così come indicati nella divisione funzionale riportata nel bilancio previsionale della Difesa, sezione di “Riepilogo delle dotazioni secondo l’analisi funzionale”, programma 5.1 “Approntamento e impiego Carabinieri per la difesa e la sicurezza”.

(10) La stima previsionale del PIL 2018 è quella contenuta nella Nota di Aggiornamento al DEF 2017 dello scorso 23 settembre (http://www.dt.tesoro.it/modules/documenti_it/analisi_progammazione/documenti_programmatici/def_2017/NADEF2017.pdf)

(11) Tratto dalle previsioni di spesa contenute nel Documento Programmatico Pluriennale della Difesa 2018-2020 (https://www.difesa.it/Content/Documents/DPP/DPP_2017_2019_Approvato_light.pdf)

il manifesto,

Questa sceneggiata dei “pontieri” che provano a stringere attorno a Renzi una alleanza riparatrice, che va da Alfano alla sinistra, è così grottesca che poteva anche essere risparmiata. Contribuisce solo al degrado culturale della politica che declina nella sua autorevolezza non per la grande tattica, ma per le inutili finzioni di un tatticismo sterile di tante anime belle che blandiscono con amorevoli aperture e però nascondono il pugnale per strapazzarti.

Se l’idea di una lista unitaria di sinistra sarà confermata dopo tanti venticelli ostili, dovrebbe compiere una azione di bonifica per sminare il terreno.Sminarlo dagli esplosivi depositati dai media che inventano trattative in extremis, fantasticano su straordinarie aperture programmatiche concesse dal disperato quartier generale del Nazareno, costruiscono un clima d’ansia per denunciare, chiunque non si accodi agli ordini di Renzi, come un folle estremista degli anni Trenta che spalancò la via del potere al nazismo.

Questa invenzione mediatica di padri nobili che da un piedistallo si lanciano in prediche edificanti e divagano in sollecitazioni ecumeniche a ritrovarsi, svela che il re è nudo e che solo con la paura cerca di resistere. Scomodare il pericolo totalitario e annunciare tragedie dietro l’angolo per colpa di un libero voto degli elettori è segno di una irresponsabile visione della politica.

Cosa c’è da temere? Che un governo padronale, con una spudorata provocazione, cancelli l’articolo 18? Un qualche potere terribile potrebbe strapazzare il diritto del lavoro e regalare ai padroni la libertà di licenziare dietro una simbolica remunerazione monetaria? O c’è da tremare dinanzi all’inquietante idea che una maggioranza occasionale approfitti del plusvalore politico dei numeri per manipolare la costituzione?

A creare spavento è l’immagine di un capo pseudo-carismatico che con disciplina militare maltratta la Carta e poi organizza un plebiscito sulla propria leadership personale? O forse il pericolo incombente è che qualche politicante, a pochi mesi dal voto, imponga, con il voto di fiducia richiesto alla camera e al senato, una nuova legge elettorale che regala il governo alla destra? Si potrebbe affacciare lo spettro di un potere demagogico che aggredisce istituti tecnici come la Banca d’Italia esponendo il sistema monetario e finanziario a rischi immensi?

Dinanzi a cose già viste, questo accanimento dei media unificati per costruire un allarme cosmico si rivela pittoresco. Non ci sono catastrofi da scongiurare con unioni sacre giurate al cospetto di un improbabile negoziatore. La sola alternativa che sta dinanzi alla sinistra è di perdere sotto il comando poco amico di Renzi, lasciando così immutato un sistema dei non-partiti ormai incancrenito, o di sfidare l’imperativo del successo immediato per ricostruire una proposta politica combattiva che consenta di ripartire per un nuovo scenario.

La sinistra deve costruire una alternativa di sistema. La folle legge elettorale, che rilancia le coalizioni insincere, è un ostacolo che però non può indurre alla rinuncia di inseguire cose nuove. La dissoluzione del Pd è avvenuta per limiti oggettivi del progetto originario e per una propensione all’oblio imputabile alla leadership renziana. L’ideologia della rottamazione che porta al potere solo perché si ha un corpo giovane si è avventata in modo catastrofico sulle forme della politica già in sofferenza.

Machiavelli non escludeva i “giovanissimi” dal comando politico e militare. «E quando uno giovane è di tanta virtù che si sia fatto in qualche cosa notabile conoscere, sarebbe cosa dannosissima che la città non se ne potessi valere». La moltitudine per questo dovrebbe «eleggere uno giovane», senza attendere che svanisca «quel vigore dell’animo e quella prontezza» che lo caratterizzano. Però questo giovane capo deve essersi prima distinto per «qualche nobilissima azione». Con il suo populismo giovanilista, Renzi ha invece esaltato solo il corpo con la camicia bianca e ha lodato l’inesperienza, l’estraneità, la semplicità, il nulla della comunicazione.

Cucire attorno al suo populismo distruttivo una finta alleanza, solo per apparire più competitivi al voto, non serve a nulla. Il Pd espugnato dal comitato d’affari è un esperimento fallito e nessun soccorso rosso potrebbe rianimarlo. Dal passaggio ineluttabile verso la disgregazione di un velleitario partito personale sprovvisto della proprietà di azienda e media, è possibile trovare risposte costruttive. Senza attendere il tonfo della sconfitta annunciata, dovrebbe subito prendere corpo una soggettività della sinistra capace di riorganizzare il conflitto per immettere nella politica interessi collettivi e sottrarla all’abbraccio mortale con il capitale, la finanza, il malaffare.

Nella odierna postdemocrazia, il denaro occupa le istituzioni, privatizza la legislazione. La politica è tramontata come luogo della decisione autonoma, il personale politico segue oscuri percorsi di carriera e appannati canoni di legittimazione. La sinistra dovrebbe essere una prima risposta al declino in una democrazia minore che abbandona il territorio al nichilismo della antipolitica disperata.


L’assemblea generale del percorso del Brancaccio convocata a Roma per sabato prossimo, 18 novembre, è annullata. Mi scuso personalmente con tutti coloro che, non di rado con sacrificio, hanno già acquistato il biglietto del treno o dell’aereo.

E mi scuso con tutti i cittadini che sarebbero venuti a discutere la redazione finale del progetto di Paese che è uscito dalle Cento Piazze per il Programma.
Il fatto è che sono sparite una ad una, nelle ultime ore, le condizioni minime per tenere un’assemblea democratica e per pensare che l’itinerario del Brancaccio possa arrivare a raggiungere il suo scopo.

***

Ricordo quale fosse il progetto del Brancaccio, nelle parole della relazione di apertura che ho pronucniato nell’assemblea del 18 giugno: «Se fossimo convinti che la forma partito è sufficiente, oggi non saremmo qua: non si tratta di rifare una lista arcobaleno con una spruzzata di società civile. C’è forte l’esigenza di qualcosa di nuovo, e di qualcosa di più grande. Lo diciamo con le parole di Gustavo Zagrebelsky: è necessaria la “più vasta possibile unione che sorga fuori dei confini dei partiti tradizionali tra persone che avvertano l’urgenza del momento e non siano mosse da interessi, né tantomeno, da risentimenti personali: come servizio nei confronti dei tanti sfiduciati nella politica e nella democrazia”». Un’alleanza tra cittadini e partiti, dunque. Ma oggi sento il dovere di denunciare pubblicamente che i vertici dei partiti della Sinistra hanno deciso che, semplicemente, non vogliono questa unione più vasta possibile. Non vogliono questa alleanza con chi sta fuori dal loro controllo.

I segretari di Mdp, Possibile e Sinistra italiana hanno scelto un leader. E questo ha ‘risolto’ tutti i problemi: nella migliore tradizione messianica italiana.

Poi hanno lanciato un’assemblea, che si sta costruendo come una spartizione di delegati tra partiti, con equilibri attentamente predeterminati. E per di più un’assemblea che potrà decidere, sì e no, il nome e il simbolo della lista: ma non certo la leadership (scelta a priori, dall’alto e dal dentro), non il programma (collage di quelli dei partiti), non le liste (saldamente in mano alle segreterie). Un teatro, che copre l’obiettivo reale: rieleggere la fetta più grande possibile degli attuali gruppi parlamentari. Vorrei molto essere smentito: ma ho fortissimi argomenti per credere che, quando saranno note le liste, tutti potranno constatare che le cose stanno proprio così.
Certo non me lo auguro, ma temo che questa inerziale riedizione nazionale della coalizione che in Sicilia ha sostenuto Claudio Fava (per di più senza Rifondazione Comunista) non avrà un enorme successo elettorale.
È anche per questo che quella dei vertici di Mdp, Possibile e Sinistra italiana a me pare una scelta drammaticamente miope. Non è nemmeno più questione di ‘alto e basso’, o di ‘vecchio e nuovo’: la logica è quella per cui chi è ‘dentro’ il sistema della politica professionale si chiude ermeticamente verso chi è ‘fuori’.
È la logica del partito che garantisce se stesso. E il partito che è stato lasciato fuori dall’accordo, Rifondazione Comunista, ha reagito in modo identico. Dopo aver sostanzialmente preso in ostaggio l’assemblea provinciale del Brancaccio a Torino, Rifondazione ha fatto capire di voler fare altrettanto con quella del 18 a Roma: «prendiamoci il Brancaccio», si è letto sui social.

Non ci sono, dunque, le condizioni minime di lealtà e serenità per garantirvi che l’assemblea non si trasformi in un campo di battaglia tra iscritti a diversi partiti.
In quella assemblea avremmo voluto chiedere, pubblicamente e con forza, come ultima possibilità di una unione più vasta fuori dai confini dei partiti, l’adozione di un percorso veramente democratico (in cui fossero contendibili la leadership, il programma, i criteri di innovazione per le liste): quel percorso dettagliato che avevamo mandato ai responsabili di Mdp, Possibile e Sinistra italiana, senza peraltro ottenere risposta. Rifondazione Comunista (l’unico partito che a questo punto avrebbe partecipato all’assemblea) ci ha annunciato che, invece, avrebbe preteso di votare su una proposta incompatibile con il senso stesso del Brancaccio: e cioè quella di porre condizioni agli altri partiti, come se fossimo un’altra forza politica in cerca di alleanze.

E invece no: il Brancaccio non è una componente. È uno stile, un metodo, un modo di fare politica. Avrebbe avuto successo se fosse riuscito ad essere il motore di un’alleanza tra partiti e forze civiche, tra iscritti a partiti e cittadini senza tessera, non uno strumento per fare alleanze
A questo punto lo scopo del Brancaccio, lo scopo per cui vi avevamo convocati a Roma, è irraggiungibile in ogni caso: e non saremmo responsabili se non dicessimo che un’assemblea senza più nulla da decidere sarebbe solo un rissoso palcoscenico offerto all’impeto autodistruttivo dell’ultimo partito rimasto. L’unica cosa che potrebbe essere partorita ora, infatti, sarebbe una piccola lista di Rifondazione, riverniciata di civismo: ma il Brancaccio era un percorso per una vasta alleanza civica che tenesse insieme i partiti e andasse ben oltre. Qualunque risultato diverso da questo tradirebbe il mandato condiviso da tutti noi: non può e non deve finire con una seconda lista improvvisata, destinata all’irrilevanza e alla coltivazione del risentimento.
È per questo che oggi scendo dal famoso ‘autobus’. Lo avevo promesso a tutti voi, il 18 giugno: «questa ‘cosa’ nasce per ambire a percentuali a due cifre: perché ambisce a recuperare una parte dell’astensione di sinistra. E se dovesse ridursi a una lista arcobaleno con davanti le sagome della cosiddetta ‘società civile’ saremo i primi a dire che il tentativo è fallito». Ecco: oggi, lealmente, vi dico che è così.

***

Se almeno un successo possiamo riconoscerci è stato quello di aver parlato una lingua nuova, radicale, diretta.
Di aver saputo indicare con forza le contraddizioni insanabili del progetto che partì da Piazza Santi Apostoli il 1° luglio. Di aver denunciato la follia di un centrosinistra composto con il Pd; e di aver indicato con forza la necessità di un quarto polo di sinistra radicalmente alternativo a tutto il resto.
Ebbene, questa prospettiva è stata vincente: anche per merito della presenza inedita e indiscreta del Brancaccio. A dimostrarlo è il testo della ‘lettera di intenti’ che è stata sostanzialmente ‘imposta’ a Mdp, e alla cui redazione abbiamo contribuito in modo decisivo (nel pieno rispetto del mandato del 18 giugno: quello di verificare le condizioni per una lista unica e credibile).
Quel testo demolisce tutti i ‘risultati’ del centrosinistra, e anzi impegna a ribaltarli: delineando il profilo di una sinistra radicale in Italia.
Dopo questo indiscutibile successo, è però subito arrivata la totale chiusura sul percorso democratico e sull’innovazione delle liste.
E questo è per noi inaccettabile. Perché in un’assemblea costituita con metodo democratico, cioè veramente libera dal controllo dei partiti, avremmo chiesto con forza 4 vincoli: la presenza nei posti concretamente eleggibili della lista proporzionale di un 50% di donne; di un 30 % di under 40; di un 50% di candidati mai stati in Parlamento; e infine la non candidabilità di chi ha avuto ruoli di governo.
Sono sicuro che un’assemblea libera avrebbe considerato con interesse queste minime prove di credibilità. Prove di credibilità necessarie, perché se versi il vino nuovo in otri vecchi, e compromessi, accade quel che accade in queste ore: mentre si annuncia una forza politica di Sinistra alternativa al Pd, si legge che Bersani tratta in segreto con Renzi un’alleanza di fatto. Vero, falso? Un dilemma che non esisterebbe se la guida fosse rinnovata, e democraticamente scelta.

Ma non ci arrendiamo: la forza del manifesto su cui avrebbe potuto fondarsi una lista davvero nuova era la forza del progetto di Italia che è venuto fuori dalle cento assemblee del programma.
Quello che, nella nostra ingenuità, avremmo voluto discutere e approvare il 18: prima di essere travolti dall’onda del cinismo del ceto politico.

È per questo che ci impegniamo a restituirvi tutti i materiali che ci avete inviato, rifusi in un progetto unitario che potremo discutere pubblicamente, insieme, in un incontro che fisseremo nei prossimi mesi: per misurare su quel metro radicale i programmi delle liste che andranno alle elezioni.
E per ripartire da lì.

***

Perché vogliamo ripartire. Innanzitutto comprendendo fino in fondo i nostri errori.
Lo diciamo con sincerità: se non siamo riusciti a condurre in porto il nostro progetto non è solo a causa del cieco egoismo dei partiti.
Il 18 giugno avevamo detto: «C’è chi teme che i partiti controllino questo processo, come burattinai da dietro le quinte. Questo rischio esiste. E l’esito di questo processo dipende tutto da quanti saremo, e da quanto determinati saremo. Vogliamo costruire una vera ‘azione popolare’. Ma ci riusciremo solo se la partecipazione senza tessere sarà così ampia da superare di molte volte quella degli iscritti ai partiti. Una lista di cittadinanza a sinistra: questo vogliamo costruire».

Ebbene: non è stato così. Le nostre assemblee in tutta Italia sono state tante, bellissime, importanti. E non abbiamo parole per ringraziare tutti coloro che hanno investito il loro tempo e la loro passione in questa breve stagione di entusiasmo civico e politico.
Ma – noi due per primi – non siamo stati capaci di ‘travolgere’ i partiti suscitando un’ondata di partecipazione nuova e senza etichette. Se nessuno dei segretari di partito cui ci siamo rivolti ha compreso minimamente la vitale importanza di cedere sovranità a un progetto più grande, è stato perché il popolo della sinistra non li ha costretti a farlo con la forza della partecipazione.
Eppure – nonostante tutti questi fatali limiti – in questi mesi abbiamo sentito spirare un vento nuovo: in quanti ce lo avete detto, e scritto!
Ebbene, vorremmo che questo spirito, questo entusiasmo che non si vedeva da tanto tempo, continui a soffiare. Anzi vorremmo riuscire a contagiare più cittadini possibile.

Per questo abbiamo Anna ed io abbiamo costituito un’associazione, che si chiama Democrazia ed Eguaglianza, ed è in quella associazione che, subito dopo le elezioni, vogliamo riprendere il cammino, organizzandoci e moltiplicandoci.
Accogliendo tutti coloro che vorranno partecipare: donne e uomini, con o senza tessere politiche o associative in tasca. Ma senza un ruolo dei partiti come tali, e senza i loro apparati, questa volta: perché sbagliando si impara. Intendiamoci: tanti, anche nei partiti, si sono impegnati con generosità in questo percorso, convinti che la funzione delle proprie forze politiche fosse quella di convergere insieme a tutti gli altri in un unico spazio comune e democratico. Ma queste aspirazioni sono state tradite dai vertici di quegli stessi partiti.
Come dicono parole antiche, piene di saggezza profetica: «non apparteniamo oggi ad una città stabile: lavoriamo per costruire la città futura».

È dunque l’ora di costruire una Sinistra dal basso, una coalizione sociale e civica. Per costruirla sulle strade, nelle periferie, nelle povertà. Attraverso la reciprocità e la cooperazione. Per costruirla con la conoscenza, la critica, la capacità di accendere e collegare tanti fuochi di azione popolare. Per metterla in grado, quando sarà il momento, di riportare nei comuni e in Parlamento il popolo italiano. Per attuare la Costituzione, per rovesciare il tavolo delle diseguaglianze, per invertire la rotta.
Ora serve inevitabilmente un impegno di medio periodo: per questo c’è l’associazione, e ci sarà un nuovo cammino da affrontare insieme.
Ma il percorso, così come lo avevamo proposto al Brancaccio e discusso insieme, non c’è più. Questo non vuol dire che si debba cedere alla rassegnazione. Nonostante la situazione in cui siamo, in tante e tanti non hanno alcuna intenzione di mollare. Lo abbiamo capito dalla pioggia di messaggi queste ultime, difficili, ore: e anche di questa vi ringraziamo.
Dopo aver promosso assemblee, dato battaglia nei propri partiti, coinvolto esperienze civiche e comitati o lavorato con determinazione a far collaborare persone diverse in nome di un obiettivo comune, l’impegno di tante e tanti continua: perché solo le spinte dal basso possono modificare uno spartito già scritto, e sorprendere tutti.

Mentre la sinistra che già c’è continua il proprio cammino, purtroppo solitario, in tanti continueranno a dare battaglia nella società, nelle associazioni e anche nei partiti per invertire la rotta, e iniziare dar corpo e forza alla sinistra che non c’è ancora, e di cui questo Paese ha tremendamente bisogno.
Grazie a voi tutti, e scusatemi per tutti i miei errori e i miei limiti,


Tomaso Montanari

il manifesto,

Molte volte nella storia dell’Italia le elezioni regionali siciliane hanno anticipato mutamenti che poi si sono registrati a livello nazionale. Dal Milazzismo, al berlusconismo.

Il Milazzismo anticipò in qualche modo nel lontano 1958 il «compromesso storico» tra una parte della Dc e del Pci, il berlusconismo perché la strepitosa avanzata di Berlusconi avvenne proprio in Sicilia dove collezionò la più grande vittoria elettorale della sua carriera conquistando 60 seggi su 60 alle politiche del 2001.

Per arrivare a Grillo che proprio in quest’isola cinque anni fa stupì, non tanto per lo spettacolo dell’attraversamento a nuoto dello Stretto, quanto perché era riuscito in pochissimo tempo a diventare il primo partito della Sicilia.

Fu proprio questo successo del M5S alle regionali dell’ottobre 2012 ad allarmare il Pd che non seppe correre ai ripari e perse di fatto, con Bersani leader, le politiche del febbraio 2013, con il M5S che divenne il primo partito italiano.

Se vuoi capire dove va l’onda politica nel nostro paese devi guardare a quello che succede in Sicilia. Sul perché accade questo possiamo avanzare un’ipotesi, rifacendoci alla tormentata storia siciliana.

Dopo la strage di Portella della Ginestra, il 1 maggio del 1947, il movimento di lotta nelle campagne siciliane subì un duro colpo e in pochi anni scomparve, grazie anche alla Riforma agraria, alla Cassa per il Mezzogiorno ed alla autonomia siciliana che consegnava alla regione ampie risorse. Ci fu in sostanza un passaggio storico dalle lotte contadine e bracciantili al più capillare sistema clientelare che esista in Italia.

Chi non si adeguava, chi restava abbarbicato ai suoi valori o faceva parte della area “rivoluzionaria” del Pci e della Cgil veniva discriminato e non gli restava altro che emigrare. Ci fu un rigurgito di lotte contadine dopo il terremoto del Belice del 1968 e di lotte operaie a cavallo degli anni ’70, ma poi lo scontro si spostò sul terreno della lotta alla mafia e dell’opposizione dei missili a Comiso che fece sorgere un importante movimento pacifista nell’isola, che contò anche sul coraggio e la determinazione di Pio La Torre che coniugava l’impegno pacifista con una vera lotta alla mafia riuscendo, grazie al suo sacrificio, a fare approvare una legge che porta ancora il suo nome.

Dopo il nulla, ovvero la sopravvivenza guardando le onde del mare: se il vento è di tramontana o di scirocco, di libeccio o il grecale. A seconda di come spira il vento della politica nazionale la maggioranza dei siciliani si adegua, sale sul carro del vincitore potenziale. Non c’è solo un atteggiamento servile, c’è anche un calcolo razionale in una fase di grande crisi economica e sociale: se non ci sono alternative a questo sistema meglio affidarsi alle vecchie clientele che almeno sono capaci di far girare il denaro.

Questo comportamento elettorale oggi è comune alla Calabria ed a una gran parte del paese, ma la Sicilia, per un strano karma dell’isola, anticipa i tempi e prefigura quello che verrà.

Certo non tutti si adeguano. In tanti si sono astenuti , oltre la metà degli aventi diritti al voto che non hanno trovato una proposta e un leader che la incarnasse in maniera credibile. L’impetuoso vento “grillino” che in Sicilia aveva avuto il suo battesimo si è leggermente ridimensionato per via di tante polemiche che hanno attraversato il M5S dalla Sicilia al resto del paese, ed anche per aver perso una parte del voto di sinistra che vi era confluito nelle scorse elezioni regionali prima che Grillo e Di Maio assumessero posizioni razziste nei confronti dei migranti. Pertanto il M5S rischia di essere sconfitto, anche sul piano nazionale dove la coalizione del centrodestra, se manterrà questa strumentale unità, dovrebbe vincere a man bassa, anche grazie alla nuova legge elettorale.

Il Pd, come era largamente scontato ne esce con le ossa rotte, anche grazie al travaso di voti verso i “Cento passi” di Claudio Fava che raccoglie un 6 per cento e lancia un chiaro segnale nazionale al PdR (Partito di Renzi): o cambi rotta o chi ha ancora una cultura di sinistra non vota più per il Pd. Piuttosto si astiene.

Rimane la tristezza di un isola dove serpeggia una grande disperazione sociale, dove chiunque abbia governato la regione non è riuscito a incidere su una elefantiaca macchina amministrativa che esiste solo per bloccare, ricattare, e fare clientele con i suoi 15.000 addetti, di cui 1700 dirigenti, su una popolazione di meno di cinque milioni di abitanti, quando la Lombardia con quasi dieci milioni ha meno di 5.000 addetti. Ne deriva un senso di impotenza insieme alla mancanza di credibili alternative che spinge la maggioranza dell’elettorato a disertare le urne: è il fallimento della democrazia rappresentativa.

E’ su questo dato che bisognerebbe ragionare e ripensare a che significa oggi fare politica.

il manifesto, 3 novembre 2017 «Cercare voti nel 50% che non va più a votare o spostare consensi in chi si recherà al seggio? È la scelta che dovrà fare chi lavora per una lista unica della sinistra», con postilla

Le elezioni di primavera si avvicinano. Ciononostante il dibattito sulla praticabilità e le condizioni di una lista unica a sinistra, alternativa al Pd, non decolla. O, più esattamente, tutti ne parlano ma prevalgono i tatticismi e i non detti, i silenzi sui contenuti programmatici e sul metodo per arrivarci, i ballons d’essai per un “federatore” o un leader. Se si continua così la lista unica non si farà o sarà una aggregazione di vertice assai simile a quelle ripetutamente sconfitte nel decennio scorso. Conviene dunque, come si dice, mettere i piedi nel piatto.

Nelle decine e decine di dibattiti a cui ho partecipato dopo l’assemblea del Brancaccio del 18 giugno ho incontrato migliaia di persone, prevalentemente con i capelli bianchi ma anche giovani, provenienti da forze politiche ma ancor più “cani sciolti” delusi dalla politica e dai suoi interpreti.

La richiesta è stata unanime: ci vuole una lista unica (perché separati non si va da nessuna parte e si perde tutti) e in assoluta discontinuità con il passato (perché di personalismi, di accordi di vertice, di contenuti ambigui, di riproposizione degli stessi metodi e delle stesse facce non se ne può più). E poi: se non si farà una lista rispondente a entrambi quei requisiti non andremo a votare (come nelle elezioni scorse o per la prima volta).

So bene che quel che ho toccato con mano non è un campione statistico ma credo si tratti di un sentire assai diffuso, non solo nello zoccolo duro della sinistra.

Ci sono, del resto, dati univoci che lo confermano. In un quadro generale di fuga dal voto, chi se ne allontana di più è il popolo della sinistra (o quello che un tempo era il popolo della sinistra). Nelle ultime elezioni regionali (novembre 2014-maggio 2015) la più bassa affluenza alle urne si è verificata nella rossa Emilia Romagna, dove ha votato il 37,71 per cento dei cittadini (poco più di uno su tre), e in quelle amministrative della primavera scorsa la fuga dal voto ha riguardato soprattutto roccaforti storiche della sinistra (che, non per caso, hanno smesso di essere tali).

Basta guardare Genova e La Spezia, dove, al secondo turno, ha votato rispettivamente il 42,6 per cento (al primo 48,3) e il 46,5 per cento (55,3) degli aventi diritto.

Una parte consistente degli elettori della sinistra e di quelli a cui tradizionalmente la sinistra si è rivolta (cioè chi sta peggio) non vota più o guarda altrove: al Movimento 5Stelle e alla Lega, beneficiari di un voto di rancore sociale e di vendetta nei confronti di una classe politica ritenuta, nel suo insieme, responsabile della crisi e della disuguaglianza senza freni.

Questo trend ha avuto una inversione solo nel referendum costituzionale del 4 dicembre in cui il voto ha raggiunto la percentuale del 65,47 per cento, assolutamente inedita per quel tipo di consultazione: in cifra assoluta 33.244.258 votanti, 4.250.000 in più di chi ha votato nelle tanto celebrate elezioni europee del 2014.

Ovviamente non tutto quel surplus di elettori e della connessa valanga dei No ha sposato un progetto politico di sinistra. Ma una parte consistente lo ha fatto, manifestando con quel voto la propria contestazione nei confronti di un establishment (Governo, poteri economici e finanziari, grandi giornali) vissuto come estraneo e ostile. E si è trattato di uomini e donne, soprattutto giovani, che hanno trovato – lo si è toccato con mano nella campagna referendaria – entusiasmo e motivazioni che sembravano definitivamente perdute. La loro irruzione sulla scena pubblica è il fatto nuovo che può sconvolgere gli equilibri e aprire le porte al cambiamento.

Oggi la scelta per la sinistra è, dunque, chiara: rivolgersi a quel popolo per costruire insieme un’alternativa o muoversi nello spazio stretto del 50 per cento che ancora vota cercando di spostare qualche punto percentuale (magari approfittando del cupio dissolvi di altri, come sta accadendo per il centrosinistra in Sicilia).

Per una sinistra minimamente consapevole l’opzione non può che essere la prima. Ma non basta dirlo. Occorre praticarlo con scelte esplicite di rottura e di discontinuità Anzitutto con un programma essenziale e comprensibile a tutti fondato sul protagonismo del pubblico negli investimenti e nella creazione di posti di lavoro, su una effettiva progressività fiscale, sulla messa in sicurezza del territorio, sull’abbandono delle grandi opere e l’abbattimento delle spese militari, sul ripristino delle tutele fondamentali del lavoro, sul rilancio della scuola pubblica e del welfare, sulla centralità della questione morale, su politiche di accoglienza serie e responsabili.

Con una profonda novità di metodo comprensiva di un passo indietro dei partiti (reale e non gattopardesco), della definizione partecipata e dal basso delle candidature, di una leadership collegiale e rispettosa della parità di genere, di un impegno per la riduzione delle spese della politica. Su queste basi si può e si deve costruire una lista unica.

Subito – ché il tempo è ormai poco – e senza perdersi in discussioni sulle alleanze e nella ricerca di leader più o meno improbabili. Altrimenti quel che si profila sono soltanto divisioni o ammucchiate inconcludenti e impresentabili. Se così fosse è facile prevedere che saranno (saremo) in molti a tirarsi fuori dall’ennesimo suicidio annunciato.


Pepino ha ragione, ma non la dice tutta. Non basta riferirsi ai valori, alle formule, ai protagonisti della sinistra dei secoli scorsi- e agli sfruttati da loro difesi. Ciò che occorre per raccogliere il disagio e la rabbia degli sfruttati di oggi è molto diverso da quello del passato, e ben diverse sono le sfide che deve raccogliere una forza politica che voglia svolgere nel passato la Sinistra. Ci siamo ampiamente interrogati sulla questione nell'articolo La parola Sinistra, cui rinviamo (e.s.)

InternazionaleThe Guardian. “Cosa nostra ha perso il controllo del mercato della droga. E ora vuole prendersi i terreni agricoli minacciando i proprietary” (i.b.)
Le sorelle Napoli conservano quell che resta del raccolto in un barattolo di vetro su un tavolo in salotto. Dentro ci sono solo una decina di spighe. Il resto del grano – 80 tonnellate – è stato distrutto dalla mafia. La famiglia Napoli lo coltiva a Corleone, in Sicilia, da tre generazioni.

Processi e arresti hanno spinto cosa nostra a tornare alle sue origini rurali. Ora la mafia vuole riprendersi le terre che le appartenevano. La prima minaccia a Marianna, Ina e Irene Napoli è arrivata nel 2009. Il padre era morto da pochi mesi quando 80 mucche e 30 cavalli hanno invaso i campi della famiglia, distruggendo il raccolto. “Abbiamo pensato a un incidente”, racconta Ina, “ma in fondo sapevamo come funzionano le cose da queste parti”.

Il pascolo non autorizzato è la più antica forma di intimidazione mafiosa in Sicilia. Poco tempo dopo cosa nostra recapitò nella fattoria due cani avvelenati e decine di carcasse di bue. Due trebbiatrici sono state distrutte e l’invasione di bestiame è andata avanti per quasi otto anni. Ogni tanto qualcuno si presentava a casa delle sorelle offrendo cinquemila euro all’anno per “gestire” i loro 90 ettari di terra. Cosa nostra pensava di poter sottomettere facilmente le sorelle, nubili.

La mafia siciliana è in crisi: dal 1990 sono stati arrestati più di quattromila affiliati e i nuovi mafiosi non hanno l’autorità di chi li ha preceduti. Il traffico di droga è ora nelle mani della ’ndrangheta. Inoltre secondo l’Associazione nazionale costruttori edili (Ance), l’industria edile siciliana, da cui in passato la mafia ricavava molto denaro, dal 2007 ha perso più di un miliardo di euro.

Lontano da Palermo, nascosta nell’entroterra siciliano, cosa nostra sta cercando di ripartire da zero. “È come se cosa nostra, spinta dalla crisi, si fosse ritirata nelle campagne”, spiega Sergio Lari, procuratore generale di Caltanissetta.

Gli aiuti dell’Unione europea all’agricoltura, fino a mille euro per ettaro, forniscono un incentivo per l’attività del crimine organizzato. A febbraio le forze dell’ordine di Caltanissetta hanno arrestato nove persone affiliate ai clan di Cesarò e Bronte, che secondo gli inquirenti avevano costretto gli agricoltori a vendere centinaia di ettari di terra. Il processo è in corso.

Emanuele Feltri nel 2010 ha fondato un’azienda per l’agricoltura biologica nella valle del Simeto, che poco dopo è stata data alle fiamme dai mafiosi. “Chiedono il pizzo agli agricoltori, da 50 a 500 euro al mese. Cercano di portarli alla bancarotta distruggendo il raccolto o bruciando i campi. Per poi comprare la terra a prezzi stracciati e incassare gli aiuti europei”.

Produzione azzerata

La terra delle sorelle Napoli vale circa un milione di euro. Oltre ai campi di grano ci sono un lago artificiale e una sorgente d’acqua potabile. Prima della morte del padre l’azienda agricola produceva 36 tonnellate di grano e diverse tonnellate di ieno, per un profitto annuo di 35mila euro. Oggi produce solo 330 balle di fieno, mentre la produzione di grano è a zero. I debiti hanno raggiunto i centomila euro.

“Quest’anno abbiamo guadagnato 660 euro”, racconta in lacrime Marianna. Dal 2014 le sorelle Napoli hanno presentato 28 denunce ai carabinieri, ma da quando hanno scelto di rivolgersi alle autorità sono state emarginate dalla comunità. “La gente non ci saluta più. I braccianti non vogliono lavorare per noi”, spiega Ina. “Una persona è venuta a chiederci di ritirare le denounce per evitare che la situazione peggiori, ma non abbiamo accettato”. Pochi mesi fa la mafia ha consegnato un altro macabro regalo alle sorelle Napoli: la pelle di tre pecore. I responsabili di queste intimidazioni restano liberi.

Le autorità siciliane sono alle prese con decine di casi sulla mafia del bestiame, ma la campagna d’intimidazione in corso da otto anni contro le sorelle Napoli non è uno di questi. I casi individuali di pascolo illegale vengono considerati reati minori, puniti con multe di appena 300 euro. “Qualcuno deve indagare su tutti i casi dal 2009 a oggi, altrimenti i colpevoli dovranno pagare solo qualche multa”, spiega Giorgio Bisagna, avvocato delle sorelle.

Tra qualche mese i loro terreni saranno messi sotto la protezione di Libera terra, un’associazione che gestisce i terreni coniscati alla mafia. “I boss pensavano che rubare a due zitelle sarebbe stato facile come rubare una caramella a un bambino”, racconta Irene. “Ma si sono messi contro le zitelle sbagliate”

Sbilanciamoci.info

C’è qualcosa di terribile, e spaventoso, nelle circostanze che stiamo vivendo. Forse le più drammatiche da un secolo in qua. L’innegabile aria di famiglia tra fascismo e populismo non deve far dimenticare le diversità che separano l’un dall’altro. Fascismo e nazismo smantellarono il regime rappresentativo grazie alle milizie private che avevano costituito, sfruttando, con la tolleranza dello Stato, il know how violento che si era accumulato nelle trincee. A fornir loro la base decisiva di consenso fu il risentimento della classe media, frustrata dagli esiti del primo conflitto mondiale e timorosa di essere declassata dall’incedere dei partiti di massa.

Ciò malgrado, l’aria di famiglia rimane. Nella condizione attuale mancano le milizie private, ma sovrabbondano i motivi di risentimento, manipolando i quali, come dimostrano i casi recenti di Francia, Germania e Austria, i populisti stanno già trovando pacificamente quel successo elettorale che fascismo e nazismo ottennero con la violenza. Il cosiddetto populismo si sta infatti rivelando pienamente compatibile con le istituzioni rappresentative e democratiche, la cui adattabilità anche a forze politiche palesemente in contrasto con i principi cui esse s’ispirano non è mai stata considerata a sufficienza.

Quanti scrissero le costituzioni del dopoguerra si premunirono affinché l’abuso del principio di maggioranza non aprisse la strada a un nuovo regime autoritario. Non immaginavano che valori e principi fascisti potessero aggiornarsi, essere smussati e convivere con le istituzioni da essi progettate. Il Brasile ha appena dimostrato come siano possibili colpi di Stato formalmente legali. Forse è venuto il tempo di smetterla di mitizzare la democrazia: che sarà pure il peggiore dei sistemi di governo, tranne tutti gli altri, ma è davvero molto scadente.

Lungo è il catalogo degli odierni motivi di risentimento, che si sovrappongono, s’intrecciano e si stanno pure coagulando elettoralmente: grazie ai populisti, ma pure grazie ai partiti convenzionali (come i popolari austriaci), i quali da un lato nella loro azione di governo, ossequiente alle regole europee, alimentano i motivi di risentimento, dall’altro fanno concorrenza ai populisti adottandone e adattandone alcune istanze e spesso anche lo stile. Alcune vene di risentimento sono antiche: con ogni probabilità non sono le più cospicue. Sono le nostalgie fasciste che resistono in qualche angolo delle società contemporanee. C’è il risentimento antifiscale di alcuni ceti, ravvivato dalla denigrazione simbolica cui l’azione dello Stato è sottoposta dal neoliberalismo. C’è il risentimento conservatore di alcuni ambienti che hanno mal digerito i progressi sul piano dei diritti civili dell’ultimo mezzo secolo: i tentativi di rimuovere le disuguaglianze di genere e il riconoscimento dei diritti Lgtb.

Più recente, e ben più insidioso, è il risentimento fondato sulle paure di declassamento delle classi medie, che stavolta non temono più la concorrenza della classe operaia, ma vedono invece aprirsi innanzi a sé, e ai propri figli, la china dell’impoverimento e della mala occupazione. Sono risentite le classi medie più fortunate di paesi come l’Austria, l’Olanda, la Svizzera, che intendono mantenere la loro condizione di privilegio, e quelle che in paesi come l’Italia e la Francia la loro condizione di privilegio ritengono in pericolo. Enorme è il risentimento che hanno suscitato le politiche di austerità: sono risentiti in special modo i ceti popolari, da tempo non più protetti dalle politiche di welfare e di piena occupazione, nonché orfani dell’azione di rappresentanza dei partiti di massa e dei sindacati e su cui l’austerità ha scaricato gran parte dei costi della grande crisi finanziaria.

Aggiungiamo ancora il risentimento antipolitico e quello anti-migranti. I privilegi di cui il personale politico gode, le sue continue prove d’immoralità e la stigmatizzazione di quest’ultima, da parte di forze politiche che sfruttando i media ne hanno fatto il loro tema preminente, senza mai interrogarsi sulle cause, né tantomeno tentare di curarle, hanno reso questo risentimento vastissimo e anche profondamente radicato. Il risentimento più insidioso infine è quello che si appunta contro i disperati che in condizioni drammatiche attraversano il mare o si assiepano ai confini dei paesi più avanzati.

L’impatto dell’ultima ondata migratoria sulle società europee, anche le più esposte, è modesto. La condizione lavorativa, già pessima, non è peggiorata a causa degli immigrati. Le statistiche sulla criminalità non hanno subito oscillazioni apprezzabili. La pubblica assistenza non è stata più di tanto deviata verso i nuovi arrivati a scapito di altri. Né il paesaggio si è popolato di minareti. Ma la diffidenza verso l’estraneo è congenita. Soprattutto se esasperata dal terrorismo mediatico dei populisti, che, nel silenzio – è l’ipotesi più generosa – degli altri partiti, convoglia contro l’estraneo, e con proprio vantaggio, gli altri motivi di risentimento.

In Usa, in Francia e in Germania questa deriva è apparsa evidente: il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di vasti strati sociali ha favorito i successi dell’estremismo di destra. Non è in realtà da escludere che una parte del consenso che i populisti raccolgono sia da intendere più come una testimonianza di sofferenza inascoltata, che non come una prova di razzismo. Lo dimostrerebbe il fatto che allorquando un’alternativa si è profilata in Inghilterra i populisti dell’Ukip sono usciti di scena. Solo che una simile alternativa non riesce a maturare da altre parti.

Cosa possano fare i populisti al governo non è un mistero insondabile. C’è da aspettarsi che in un paese di frontiera come l’Italia mettano in atto spietate, e criminali, politiche di respingimento. Ma le ricette populiste per trattare il disagio sociale sono fatte di rigorose politiche pro-market, magari condite con una dose di sovranismo improbabile. Il presidente Macron, singolare esempio di populisme caviar, o dell’establishment, ha dato una stretta alle politiche di accoglienza, ha ridotto le tutele del mondo del lavoro e promette di ridurre l’imposizione sui ceti abbienti.

Un orientamento analogo aveva assunto la Lega nei suoi anni di governo, mettendoci di suo qualche misura di decentramento, invero assai poco funzionale. Nel caso americano, la politica di Trump si sta mostrando rischiosamente muscolare in politica estera, ma nulla sembra intenzionata a fare a beneficio dei ceti popolari che pure lo hanno votato, tranne che abbattere qualche tutela ambientale. La dice lunga sulla pretesa indigeribilità dei populisti il brillante andamento della borsa americana. L’esito di eventuali governi populisti promette pertanto di essere da un lato un clima inquietante di avvelenamento simbolico, a spese degli immigrati, dall’altro un ulteriore aggravamento delle condizioni dei ceti popolari e di quelli intermedi, che potrebbe a sua volta alimentare ulteriori rigurgiti razzisti e autoritari.

È questo il futuro che si prospetta anche per l’Italia? I giornali ventilano la possibilità di una coalizione centrista, che associ Pd e Forza Italia. I precedenti lasciano pensare piuttosto che se il centrodestra, guidato da Berlusconi, riuscisse a ottenere anche un solo voto di maggioranza in parlamento, grazie a una legge elettorale che smaccatamente lo favorisce, lascerebbe il Pd con un palmo di naso: Berlusconi non è tipo da pagare i suoi debiti se proprio non è costretto.

Al paese toccherebbe invece un disastroso ritorno alla condizione del 2011, che era segnata, oltre che dalla crisi del debito, da una profonda diffidenza internazionale verso i governanti del momento. Che l’atteggiamento dell’Unione e di molti governi nei confronti dell’Italia e dei paesi del Sud Europa sia stato vessatorio è indiscutibile. Che le misure introdotte abbiano solo tamponato la crisi, infliggendo una mazzata all’economia e alla coesione sociale, è certo: la crescita non riprende più di tanto e le disuguaglianze sono aumentate. Ciò non toglie che la diffidenza, invero tardiva, dei partners europei verso il governo di centrodestra guidato da Berlusconi fosse fondatissima.

Adesso le summenzionate misure adottate dai governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni (condite negli ultimi due casi da molte mance elettorali e infiniti favori agli imprenditori) sono paradossalmente riuscite a riabilitare Berlusconi, frettolosamente dato per spacciato, e a sovreccitare tutti quei motivi di risentimento di cui prosperano i populisti. Tutto fa pensare che il successo dei populisti in altri paesi europei, e l’involuzione verso destra dei loro governi, ricreeranno, aggravandolo, il clima di diffidenza. È allarmistico parlare di una condizione emergenziale?

Quel che colpisce è come non sia alle viste alcun credibile tentativo di contrastare tale prospettiva. Con l’arroganza che gli è consueta Renzi ha imposto una legge elettorale non solo mediocre, ma che soprattutto avvantaggerà il centrodestra. Sarebbe elementare buon senso che le disperse componenti dell’ex-centrosinistra si ritrovassero e negoziassero un onesto compromesso. Se n’è ha accorto finanche Veltroni. Ma non è aria. A parte il rifiuto di Renzi di trattare con un po’ di rispetto le forze alla sua sinistra, è forse vero che il Pd, gran parte dei suoi quadri e probabilmente pure una quota dei suoi elettori, sono ormai divenuti più omogenei, sociologicamente e culturalmente, al centrodestra per negoziare alcunché: è sorprendente quanto poca attenzione tra i simpatizzanti del Pd si dedichi alla condizione del lavoro e alla povertà in Italia. Non bastasse, gli odi personali fanno aggio sui progetti politici.

A furia di coltivare il pensiero liberal e quello Third way, invece della cultura socialdemocratica e del solidarismo cattolico, il Pd è divenuto un partito di ventura, prigioniero dei deliri di onnipotenza del suo capo e di un mito della leadership salvatrice coltivato nella pubblica opinione ormai da decenni. Ove ve ne fosse stato bisogno la propensione al servilismo ha appena trovato due conferme nel ricorso al voto di fiducia per far passare la legge elettorale alla Camera e nella mozione contro il governatore di Bankitalia, che avrà anche le sue colpe, ma che è irresponsabile processare in questo modo. Pare non conti nemmeno il fatto che, passata la sbornia delle europee, Renzi abbia inanellato una disfatta appresso all’altra. Per contro il centrodestra offre le consuete prove di pragmatismo affaristico e si ricompone.

Se però il Pd si è condannato alla sconfitta, le forze alla sua sinistra non si decidono a rompere gli indugi. Il tempo stringe e la prossima partita elettorale promette tempesta. Forse però si potrebbero ridurre i danni proponendo agli elettori una forza politica unitaria, inequivocabilmente contrapposta alle politiche pro-market, sforzandosi di radicarla nel paese. Non tutto è media, né tradizionali né social. Si può parlare ai cittadini in molti modi, perfino faccia a faccia. Che sia chiaro: se niente accadrà e a sinistra resterà un buco nero, nessuno sarà senza colpa. Gravissime sono già quelle del Pd, ma lo saranno pure quelle della sinistra che non trova la forza di mettere a tacere le proprie differenze, dopotutto secondarie alla luce delle circostanze e indecifrabili per la gran parte dei loro potenziali elettori, per decidersi a far causa comune nell’interesse di un largo segmento della società italiana.


C'è chi spera ancora che i residui, gli slogan, le strategie delle sinistre del millennio scorso servano ancora per combattere le forze dello sfruttamento globale di tutte le risorse sopravvissute: dall'aria alle persone, dalla terra all'acqua, dalle memoria all'etica. Noi abbiamo compreso che la parola Sinistra è obsoleta, e che il nuovo sfruttamento può essere battuto da nuove parole, nuove consapevolezze, nuove forme organizzative. Lo abbiamo scritto qui;
"La parola Sinistra". (e.s.)

vocidall'estero, di Stephen Metcalf dal The Guardian il neoliberalismo. (c.m.c.)

«Sul The Guardian, un approfondimento che risale alle origini del neoliberalismo per rintracciarne le caratteristiche peculiari e sottolineare l’ambizione di trasformare completamente la visione del mondo contenuta in quella “Grande Idea” di Von Hayek, che alla fine è riuscita a permeare completamente la società di oggi. Il neoliberalismo è divenuto l’idea dominante della nostra era, che venera la logica del mercato, deprivandoci delle capacità e dei valori che ci rendono più propriamente umani.

La scorsa estate, ricercatori del Fondo Monetario Internazionale hanno messo fine a una lunga e aspra disputa sul “neoliberalismo”: hanno ammesso che esiste. Tre importanti economisti dell’FMI, un’organizzazione non certo nota per la sua imprudenza, hanno pubblicato un documento che si interroga sui benefici del neoliberalismo. Così facendo, hanno contribuito a ribaltare l’idea che la parola non sia altro che un artificio politico, o un termine senza alcun reale potere analitico. Il paper ha chiaramente individuato un’ “agenda neoliberalista” che ha spinto la deregolamentazione delle economie in tutto il mondo, forzato l’apertura dei mercati nazionali al libero commercio e alla libera circolazione dei capitali e richiesto la riduzione del settore pubblico tramite l’austerità o le privatizzazioni. Gli autori hanno dimostrato con dati statistici la diffusione delle politiche neoliberali a partire dal 1980 e la loro correlazione con la crescita anemica, i cicli di espansione e frenata e le disuguaglianze.

Neoliberalismo è un termine vecchio, risalente agli anni Trenta, ma è stato rivitalizzato come un modo per descrivere la nostra politica attuale o, più precisamente, l’ordine delle idee consentite dalla nostra politica. All’indomani della crisi finanziaria del 2008, è stato un modo per attribuire la responsabilità della débacle, non a un partito politico di per sé, ma ad un establishment che aveva ceduto la sua autorità al mercato. Per i Democratici negli Stati Uniti e i Laburisti nel Regno Unito, questa cessione è stata descritta come un grottesco tradimento dei loro principi. Bill Clinton e Tony Blair, è stato detto, hanno abbandonato gli impegni tradizionali della sinistra, in particolare nei confronti dei lavoratori, a favore di un’élite finanziaria globale e di politiche autoritarie che li hanno arricchiti; e, nel fare questo, hanno permesso un terribile aumento delle disuguaglianze.

Negli ultimi anni il dibattito si è inasprito e il termine è diventato un’arma retorica, un modo per la gente di sinistra di gettare le colpe su quelli che stanno anche un centimetro alla loro destra. (Non c’è da stupirsi che i centristi dicano che è un insulto insensato: sono quelli nei cui confronti l’insulto è veramente più sensato). Ma il “neoliberalismo” è qualcosa di più che una battuta legittima e gratificante. Rappresenta anche, a suo modo, un paio di lenti attraverso le quali guardare il mondo.

Osserva la realtà attraverso le lenti del neoliberalismo e vedrai più chiaramente come i pensatori politici più ammirati da Thatcher e da Reagan hanno contribuito a modellare l’ideale della società come una sorta di mercato universale (e non, ad esempio, una polis, una sfera civile o una sorta di famiglia) e gli esseri umani come dei calcolatori di profitti e perdite (e non come beneficiari di previdenze o titolari di diritti e doveri inalienabili). Naturalmente l’obiettivo era quello di indebolire lo stato sociale e l’obiettivo della piena occupazione e, sempre, di ridurre le tasse e deregolamentare. Ma “neoliberalismo” indica qualcosa di più di una lista standard di obiettivi di destra. Era un modo per riordinare la realtà sociale, e ripensare il nostro status come individui isolati.

Ancora sbirciando attraverso l’obiettivo si vede come, non meno dello stato sociale, il libero mercato è un’invenzione umana. Si vede in quale maniera pervasiva siamo invitati a pensare a noi stessi come proprietari dei nostri talenti e iniziative, con quanta disinvoltura ci viene detto di competere e adattarci. Si vede in quale misura un linguaggio che precedentemente era limitato alle semplificazioni didattiche che descrivono i mercati delle materie prime (concorrenza, trasparenza, comportamenti razionali) è stato applicato a tutta la società, fino a invadere la realtà della nostra vita personale, e come l’atteggiamento del venditore si è infiltrato inestricabilmente in tutte le forme dell’espressione di sé.

In breve, il “neoliberalismo” non è semplicemente un nome che sta a indicare le politiche a favore del mercato, o i compromessi con il capitalismo finanziario fatti dai partiti socialdemocratici falliti. È la denominazione di una premessa che, silenziosamente, è arrivata a regolare tutta la nostra pratica e le nostre credenze: che la concorrenza è l’unico legittimo principio di organizzazione dell’attività umana.

Non appena il neoliberalismo è stato certificato come reale, e non appena ha reso evidente l’ipocrisia universale del mercato, allora i populisti e i fautori dell’autoritarismo sono arrivati al potere. Negli Stati Uniti, Hillary Clinton, il super-cattivo dei neoliberal, ha perso – e nei confronti di un uomo che sapeva solo quanto basta per fingere di odiare il libero scambio. Quindi quegli occhiali sono ormai inutili? Possono fare qualcosa per aiutarci a capire cosa si è rotto nella politica britannica e americana? Contro le forze dell’integrazione globale, si è riaffermata l’identità nazionale e nel modo più duro possibile. Cosa potrebbero avere a che fare il militante della parrocchia della Brexit e l’America Trumpista con la logica neoliberale? Qual è la possibile connessione tra il presidente – un folle a ruota libera – e il paradigma esangue dell’efficienza conosciuto come libero mercato?

Non è solo che il libero mercato produce una piccola squadra di vincitori e un enorme esercito di perdenti – e i perdenti, in cerca di vendetta, si sono rivolti alla Brexit e a Trump. C’era, sin dall’inizio, una relazione inevitabile tra l’ideale utopistico del libero mercato e il presente distopico in cui ci troviamo; tra il mercato come dispensatore unico di valore e tutore della libertà, e la nostra attuale caduta nella post-verità e nell’illiberalismo.

Io credo che occorra spostare il dibattito sterile sul neoliberalismo ritornando al principio, e prendendo sul serio la misura del suo effetto cumulativo su tutti noi, indipendentemente dall’appartenenza. E questo richiede il ritorno alle sue origini, che non hanno nulla a che fare con Bill o Hillary Clinton. C’era una volta un gruppo di persone che si definivano neoliberali, e lo facevano con molto orgoglio, e ambivano a una rivoluzione totale nel pensiero. Il più importante fra di loro, Friedrich Hayek, non pensava di conquistare una posizione nello spettro politico, o di giustificare i ricchi, o aggrapparsi ai margini della microeconomia.

Pensava di risolvere il problema della modernità: il problema della conoscenza oggettiva. Per Hayek, il mercato non agevolava semplicemente il commercio di beni e servizi; rivelava la verità. Com’è che la sua ambizione si è rovesciata nel suo opposto – la sconvolgente possibilità che, grazie alla nostra venerazione sconsiderata del libero mercato, la verità potrebbe essere scacciata del tutto dalla vita pubblica?

Quando nel 1936 Friedrich Hayek ebbe l’idea, egli si rese conto, con la convinzione di un'”illuminazione improvvisa”, che si era imbattuto in qualcosa di nuovo. «Come può la combinazione di frammenti di conoscenze esistenti in menti diverse», ha scritto, «portare a risultati che, se dovessero essere perseguiti deliberatamente, richiederebbero una conoscenza da parte del regista che nessuno può possedere?»

Non si trattava di un punto tecnico sui tassi di interesse o sui crolli deflazionari. Non era una polemica reazionaria contro il collettivismo o lo stato sociale. Era un modo di far nascere un mondo nuovo. Con crescente eccitazione, Hayek capì che il mercato potrebbe essere considerato come una sorta di mente.

La “mano invisibile” di Adam Smith ci aveva già consegnato la concezione moderna del mercato: una sfera autonoma dell’attività umana e quindi, potenzialmente, un oggetto valido di conoscenza scientifica. Ma Smith era, e lo è stato fino alla fine della sua vita, un moralista del XVIII secolo. Pensava che il mercato fosse giustificato solo alla luce della virtù individuale, e temeva che una società governata da nient’altro che dall’interesse personale allo scambio non fosse affatto una società. Il neoliberalismo è Adam Smith senza il suo timore.

Che Hayek sia considerato il padre del neoliberalismo – uno stile di pensiero che riduce tutto all’economia – è un po’ assurdo dato che egli era un economista mediocre. Era solo un giovane e oscuro tecnocrate viennese quando era stato reclutato alla London School of Economics per competere con la stella nascente di John Maynard Keynes a Cambridge, o addirittura contrastarla.

Il piano fallì, e l’Hayek contrapposto a Keynes fu una disfatta. La Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta di Keynes, pubblicata nel 1936, fu accolta come un capolavoro. Dominava la discussione pubblica, specialmente tra i giovani economisti inglesi in formazione, per i quali Keynes, brillante, affascinante e ben inserito socialmente, rappresentava un modello ideale. Alla fine della seconda guerra mondiale, molti eminenti sostenitori del libero mercato si erano avvicinati al modo di pensare di Keynes, riconoscendo che il governo aveva un ruolo da svolgere nella gestione di un’economia moderna. L’eccitazione iniziale su Hayek si era dissipata. La sua peculiare idea che non fare niente avrebbe potuto curare una depressione economica era stata screditata in teoria e nella pratica. Successivamente ammise di aver sperato che il suo lavoro di critica a Keynes venisse semplicemente dimenticato.

Hayek fece una figura stupida: un professore alto, eretto e dall’accento pronunciato, in abito di tweed ben tagliato, che insisteva su un formale “Von Hayek”, ma crudelmente soprannominato dietro le spalle “Mr. Fluctooations”. Nel 1936 era un accademico senza pubblicazioni e senza un futuro scontato. Adesso viviamo nel mondo di Hayek, come abbiamo vissuto una volta in quello di Keynes. Lawrence Summers, il consigliere di Clinton ed ex rettore dell’Università di Harvard, ha affermato che la concezione di Hayek del sistema dei prezzi è «un’impresa penetrante e originale alla pari della microeconomia del XX secolo e la cosa più importante da imparare oggi in un corso di economia». E comunque lo sottovaluta. Keynes non ha vissuto o previsto la guerra fredda, ma il suo pensiero è riuscito a penetrare in tutti gli aspetti del mondo della guerra fredda; così anche ogni aspetto del mondo post-1989 è imbevuto del pensiero di Hayek.

Hayek aveva una visione globale: un modo di strutturare tutta la realtà sul modello della concorrenza. Comincia assumendo che quasi tutte le attività umane (se non tutte) sono una forma di calcolo economico e possono così essere assimilate ai concetti fondamentali di ricchezza, valore, scambio, costo – e soprattutto prezzo. I prezzi sono un mezzo per allocare le risorse scarse in modo efficiente, secondo necessità e utilità, in base alla domanda e all’offerta. Perché il sistema dei prezzi funzioni in modo efficiente, i mercati devono essere liberi e concorrenziali. Da quando Smith aveva immaginato l’economia come una sfera autonoma, esisteva la possibilità che il mercato non fosse solo un pezzo della società, ma la società nel suo complesso. All’interno di tale società, gli uomini e le donne hanno bisogno solo di seguire il proprio interesse personale e competere per le risorse scarse. Attraverso la concorrenza “diventa possibile“, come ha scritto il sociologo Will Davies, “discernere chi e che cosa ha valore“.

Tutto ciò che una persona che conosce la storia vede come necessari baluardi contro la tirannia e lo sfruttamento – una classe media prospera e una sfera civile; istituzioni libere; suffragio universale; libertà di coscienza, dimensione collettiva, religione e stampa; il riconoscimento di fondo che l’individuo è portatore di dignità – non ha alcun posto nel pensiero di Hayek. Hayek ha incorporato nel neoliberalismo l’ipotesi che il mercato fornisca tutta la protezione necessaria contro l’unico reale pericolo politico: il totalitarismo. Per evitare questo, lo Stato deve solo mantenere libero il mercato.

Quest’ultimo è ciò che rende il neoliberalismo “neo”. È una modifica fondamentale della credenza precedente in un mercato libero e uno stato minimo, noto come “liberalismo classico”. Nel liberalismo classico, i commercianti semplicemente chiedevano allo Stato di “lasciarli soli” – di “lasciarli fare”. Il neoliberalismo riconosce che lo stato deve essere attivo nell’organizzazione di un’economia di mercato. Le condizioni che consentono il libero mercato devono essere conquistate politicamente, e lo stato deve essere riprogettato per sostenere il libero mercato in modo costante e continuativo.

Questo non è tutto: ogni aspetto della politica democratica, dalle scelte degli elettori alle decisioni dei politici, deve essere sottoposto ad un’analisi puramente economica. Il legislatore è obbligato a lasciare abbastanza le cose come stanno per non distorcere le azioni naturali del mercato e così, idealmente, lo Stato fornisce un quadro giuridico fisso, neutrale e universale in cui le forze di mercato operano spontaneamente. La direzione consapevole del governo non è mai preferibile ai “meccanismi automatici di aggiustamento“, cioè il sistema dei prezzi, che non è solo efficiente, ma massimizza la libertà, o l’opportunità per gli uomini e le donne di fare scelte libere sulla propria vita.

Mentre Keynes volava tra Londra e Washington, creando l’ordine del dopoguerra, Hayek se ne stava imbronciato a Cambridge. Era stato mandato lì durante le evacuazioni di guerra; e si lamentava di essere circondato da “stranieri” e “orientali di tutti i tipi” e “europei di praticamente tutte le nazionalità, ma solo pochissimi dotati di una reale intelligenza“.

Bloccato in Inghilterra, senza alcuna influenza o credibilità, Hayek aveva solo la sua idea a consolarlo; un’idea così grande che un giorno avrebbe fatto mancare il terreno sotto i piedi a Keynes e a qualsiasi altro intellettuale. Lasciato libero di funzionare, il sistema dei prezzi funziona come una sorta di mente. E non come una mente qualsiasi, ma una mente onnisciente: il mercato calcola ciò che gli individui non possono afferrare. Rivolgendosi a lui come a un compagno d’armi intellettuale, il giornalista americano Walter Lippmann scrisse a Hayek dicendo: «Nessuna mente umana ha mai colto l’intero schema di una società … Nella migliore delle ipotesi, una mente può cogliere la propria versione dello schema, qualcosa di molto più limitato, che sta alla realtà come una sagoma sta a un uomo reale».

È una affermazione epistemologica forte – che il mercato è un sistema per conoscere le cose che supera radicalmente la capacità di ogni mente individuale. Un tale mercato non è tanto una convenzione umana, da manipolare come qualsiasi altra cosa, quanto una forza da studiare e da placare. L’economia cessa di essere una tecnica – come credeva Keynes – per raggiungere fini sociali desiderabili, come la crescita o la stabilità del valore della moneta. L’unico fine sociale è il mantenimento del mercato stesso. Nella sua onniscienza, il mercato costituisce l’unica forma legittima di conoscenza, davanti alla quale tutti gli altri modi di riflessione sono parziali, in entrambi i sensi della parola: comprendono solo un frammento di un intero e rispondono a un interesse particolare. A livello individuale, i nostri valori sono solo personali, o semplici opinioni; a livello collettivo, il mercato li converte in prezzi, o fatti oggettivi.

Dopo essersene venuto via dalla LSE, Hayek non ebbe mai un incarico permanente che non fosse pagato da grandi sponsor aziendali. Anche i suoi colleghi conservatori dell’Università di Chicago – l’epicentro globale del dissenso libertario negli anni ’50 – consideravano Hayek come un portavoce reazionario, un “uomo di squadra della destra” con uno “sponsor di squadra della destra“, come si suol dire. Nel 1972, un amico andò a trovare Hayek, ora a Salisburgo, e trovò un uomo anziano prostrato nell’autocommiserazione, convinto che il lavoro della sua vita era stato inutile. Nessuno si interessava a quello che aveva scritto!

C’era, però, qualche segno di speranza: Hayek era il filosofo politico preferito di Barry Goldwater e a quanto si dice anche di Ronald Reagan. Poi c’era Margaret Thatcher. Thatcher esaltava Hayek di fronte a tutti, e prometteva di mettere insieme la sua filosofia del libero mercato con una ripresa dei valori vittoriani: famiglia, comunità, lavoro duro.

Hayek si incontrò privatamente con Thatcher nel 1975, proprio nel momento in cui lei, appena nominata leader dell’opposizione nel Regno Unito, si stava preparando a mettere in pratica la sua Grande Idea per consegnarla alla storia. Si consultarono in privato per 30 minuti a Londra, a Lord North Street presso l’Istituto per gli Affari Economici. Dopo l’incontro, lo staff della Thatcher gli chiese ansiosamente cosa stava pensando. Cosa poteva dire? Per la prima volta in 40 anni, il potere restituiva a Friedrich von Hayek la tanto preziosa immagine che egli aveva di se stesso, l’immagine di un uomo che poteva sconfiggere Keynes e ricostruire il mondo.

Rispose: “Lei è veramente bella”.

La Grande Idea di Hayek non è granché come idea, fino a che non la ingigantisci. Processi organici, spontanei ed eleganti che, come un milione di dita sul tavolo di una seduta spiritica, si coordinano per creare risultati che altrimenti sarebbero accidentali. Applicata ad un mercato reale – il mercato della pancetta di maiale o i futures del granturco – questa rappresentazione dei fatti è poco più che un’ovvietà. Può essere ampliata per descrivere come i vari mercati, delle materie prime e del lavoro e anche lo stesso mercato della moneta, compongano quella parte della società conosciuta come “l’economia“. Questo è meno banale, ma ancora irrilevante; un Keynesiano accetta tranquillamente questa rappresentazione. Ma cosa succede se le facciamo fare un passo avanti? Cosa succede se concepiamo tutta la società come una sorta di mercato?

Più l’idea di Hayek si espande, più diventa reazionaria, più si nasconde dietro la sua pretesa di neutralità scientifica – e più permette alla scienza economica di collegarsi alla tendenza intellettuale più importante dell’occidente sin dal 17° secolo. L’ascesa della scienza moderna ha generato un problema: se il mondo universalmente obbedisce alle leggi naturali, cosa significa essere esseri umani? L’essere umano è semplicemente un oggetto nel mondo, come qualsiasi altra cosa? Sembra che non sia possibile integrare l’esperienza soggettiva e interiore dell’uomo nella natura, nel modo in cui la scienza la concepisce, come un qualcosa di oggettivo, soggetto a regole che scopriamo tramite l’osservazione.

Tutta la cultura politica del dopoguerra gioca a favore di John Maynard Keynes e di un forte ruolo dello Stato nella gestione dell’economia. Ma tutta la cultura accademica postbellica si trova a favore della Grande Idea di Hayek. Prima della guerra, anche l’economista più conservatore pensava al mercato come lo strumento per un obiettivo limitato, l’efficiente allocazione delle risorse scarse. Fin dai tempi di Adam Smith a metà del 1700, e fino ai membri fondatori della scuola di Chicago negli anni del dopoguerra, vi era la credenza comune che gli obiettivi finali della società e della vita, si trovavano nella sfera non-economica.

Secondo questo punto di vista, le questioni di valore sono risolte politicamente e democraticamente, non economicamente – attraverso la riflessione morale e la deliberazione pubblica. La espressione classica moderna di questa convinzione si trova in un saggio del 1922 intitolato Etica e Interpretazione Economica di Frank Knight, che giunse a Chicago due decenni prima di Hayek. «La critica economica razionale dei valori dà risultati ripugnanti per il buon senso», scrisse Knight. «L’uomo economico è egoista e spietato, degno di condanna morale».

Gli economisti avevano dibattutto aspramente per 200 anni sulla questione di come considerare i valori sui quali si organizza una società mercantile, al di là di un semplice calcolo e interesse personale. Knight, insieme ai suoi colleghi Henry Simon e Jacob Viner, si trovava davanti a Franklin D Roosevelt e agli interventi sul mercato del New Deal, e fondarono l’Università di Chicago facendone quel tempio intellettualmente rigoroso dell’economia del libero mercato che rimane ancora oggi. Tuttavia, Simons, Viner e Knight iniziarono tutti la loro carriera prima che l’inarrivabile prestigio dei fisici atomici riuscisse a far fluire enormi somme di denaro nel sistema universitario e lanciasse la moda postbellica per la scienza “dura“. Non adoravano le equazioni o i modelli, e si preoccupavano di questioni non scientifiche. Più esplicitamente, si preoccupavano di questioni di valore, dove il valore era assolutamente distinto dal prezzo.

Non è solo che Simons, Viner e Knight fossero meno dogmatici di Hayek, o più disposti a perdonare lo stato per la tassazione e la spesa pubblica. Non è che Hayek fosse loro intellettualmente superiore. Semplicemente, riconoscevano come principio fondamentale che la società non era la stessa cosa del mercato, e che il prezzo non era la stessa cosa del valore. Questo ha fatto sì che venissero completamente dimenticati dalla storia.

È stato Hayek che ci ha mostrato come arrivare dalla condizione senza speranza della relatività umana alla maestosa oggettività della scienza. La Grande Idea di Hayek funge da anello mancante tra la nostra natura umana soggettiva e la natura stessa. Così facendo, pone qualsiasi valore che non possa essere espresso come un prezzo – il verdetto del mercato – su un piano incerto, come nient’altro che un’opinione, una preferenza, folklore o superstizione.

Ma più di chiunque altro, anche più di Hayek stesso, è stato il grande economista del dopoguerra di Chicago, Milton Friedman, che ha contribuito a convertire i governi e i politici al potere alla Grande Idea di Hayek. Ma prima ha dovuto rompere con i due secoli precedenti e dichiarare che l’economia è “in linea di principio indipendente da qualsiasi posizione etica particolare o da giudizi normativi” e che è «una scienza oggettiva, nello stesso senso di qualsiasi scienza fisica». I valori del vecchio ordine mentale normativo erano viziati, erano «differenze su cui gli uomini alla fine possono solo combattere». Detto con altre parole, da una parte c’è il mercato, e dall’altra il relativismo.

I mercati possono essere facsimili umani di sistemi naturali, e come l’universo stesso, possono essere senza autori e senza valore. Ma l’applicazione della Grande Idea di Hayek ad ogni aspetto della nostra vita nega ciò che di noi è più caratteristico. Nel senso che assegna ciò che è più umano degli esseri umani – la nostra mente e la nostra volontà – agli algoritmi e ai mercati, lasciandoci meccanici, come zombi, rappresentazioni rattrappite di modelli economici. Espandere l’idea di Hayek sino a promuovere radicalmente il sistema dei prezzi a una sorta di onniscienza sociale significa ridimensionare radicalmente l’importanza della nostra capacità individuale di ragionare – la nostra capacità di trovare le giustificazioni delle nostre azioni e credenze e valutarle.

Di conseguenza, la sfera pubblica – lo spazio in cui offriamo ragioni e contestiamo le ragioni degli altri – cessa di essere lo spazio della deliberazione, e diventa un mercato di click, like e retweet. Internet è la preferenza personale enfatizzata dall’algoritmo; uno spazio pseudo pubblico che riecheggia la voce dentro la nostra testa. Piuttosto che uno spazio di dibattito in cui facciamo il nostro cammino, come società, verso il consenso, ora c’è un apparato di affermazione reciproca chiamato banalmente “mercato delle idee”. Quello che appare pubblico e chiaro è solo un’estensione delle nostre preesistenti opinioni, pregiudizi e credenze, mentre l’autorità delle istituzioni e degli esperti è stata spiazzata dalla logica aggregativa dei grandi dati. Quando accediamo al mondo attraverso un motore di ricerca, i suoi risultati vengono classificati, per come la mette il fondatore di Google, “ricorrentemente” – da un’infinità di singoli utenti che funzionano come un mercato, in modo continuo e in tempo reale.

A parte l’utilità straordinaria della tecnologia digitale, una tradizione più antica e umanistica, che ha dominato per secoli, aveva sempre distinto fra i nostri gusti e preferenze – i desideri che trovano espressione sul mercato – e la nostra capacità di riflessione su quelle preferenze, che ci consente di stabilire ed esprimere valori.

«Un sapore è definito come una preferenza su cui non si discute», ha scritto una volta il filosofo ed economista Albert O Hirschman. «Un gusto che si può contestare, con se stessi o con gli altri, cessa ipso facto di essere un gusto – diventa un valore».

Hirschman ha formulato una distinzione tra quella parte di sé che è un consumatore e quella parte di sé che produce ragionamenti. Il mercato riflette ciò che Hirschman ha definito le preferenze, che sono “rivelate dagli agenti quando acquistano beni e servizi”. Ma, come afferma, gli uomini e le donne hanno anche la capacità di rivedere i loro “desideri, volontà e preferenze”, per chiedersi se veramente vogliono questi desideri e preferiscono queste preferenze “. Modelliamo noi stessi e le nostre identità sulla base di questa capacità di riflessione. L’uso del potere di riflessione del singolo individuo è la ragione; l’uso collettivo di questi poteri di riflessione è la ragione pubblica; l’uso della ragione pubblica per approvare le leggi e la linea politica è la democrazia. Quando forniamo ragioni per le nostre azioni e credenze, ci realizziamo: individualmente e collettivamente, decidiamo chi e che cosa siamo.

Secondo la logica della Grande Idea di Hayek, queste espressioni della soggettività umana senza la ratifica del mercato sono senza significato – come ha detto Friedman, non sono altro che relativismo, ogni cosa risultando buona come qualsiasi altra. Quando l’unica verità oggettiva è determinata dal mercato, tutti gli altri valori hanno lo status di mere opinioni; tutto il resto è aria fritta relativistica. Ma il “relativismo” di Friedman è una accusa che può essere rivolta a qualsiasi pretesa basata sulla ragione umana. È un insulto assurdo, visto che tutte le attività umane sono “relative” a differenza delle scienze. Sono relative alla condizione (privata) di avere una mente e alla necessità (pubblica) di ragionare e comprendere, anche quando non possiamo aspettarci delle prove scientifiche. Quando i nostri dibattiti non sono più risolti con deliberazioni basate su ragionamenti, allora l’esito sarà determinato dai capricci del potere.

È qui che il trionfo del neoliberismo si traduce nell’incubo politico che viviamo oggi. Per citare una vecchia battuta, “avevi solo una cosa da fare!”. Il grande progetto di Hayek, come originariamente concepito negli anni ’30 e ’40, era stato espressamente progettato per impedire di ricadere nel caos politico e ne fascismo. Ma la Grande Idea ha sempre coinciso con questo abominio stesso che voleva impedire che accadesse. Era, fin dall’inizio, intrisa della cosa stessa da cui sosteneva di proteggere. La società riconcepita come un gigante mercato porta ad una vita pubblica ridotta ad uno scontro tra mere opinioni; finché il pubblico frustrato non si rivolge, infine, ad un uomo forte come ultima risorsa per risolvere i suoi problemi, altrimenti ingestibili.

Nel 1989, un giornalista americano bussò alla porta di Hayek 90enne. Viveva a Freiburg, nella Germania Ovest, in un appartamento al terzo piano ad Urachstrasse. I due uomini si sedettero in una stanza con le finestre che guardavano sulle montagne e Hayek, che si stava riprendendo dalla polmonite, mentre parlavano si mise una coperta sulle gambe.

Non era più l’uomo di una volta, sprofondato nella sconfitta per mano di Keynes. Thatcher aveva appena scritto a Hayek con un tono di trionfo epocale. Niente di ciò che lei e Reagan avevano compiuto «sarebbe stato possibile senza i valori e le idee che ci hanno portato sulla strada giusta e fornito la giusta direzione». Hayek ora era soddisfatto di se stesso e ottimista sul futuro del capitalismo. Come ha scritto il giornalista, «In particolare, Hayek vede un maggiore apprezzamento per il mercato tra le giovani generazioni. Oggi i giovani disoccupati di Algeri e Rangoon non protestano per uno stato sociale pianificato a livello centrale, ma per le opportunità: la libertà di acquistare e vendere – jeans, automobili, qualunque cosa – a qualsiasi prezzo che il mercato possa sostenere ».

Sono passati trent’anni, e si può giustamente dire che la vittoria di Hayek non ha rivali. Viviamo in un paradiso costruito dalla sua Grande Idea. Più il mondo può essere fatto assomigliare ad un mercato ideale governato solo dalla libera concorrenza, più il comportamento umano diviene complessivamente “ordinato” e “scientifico”. Ogni giorno noi stessi – nessuno deve più dircelo! – ci sforziamo di diventare più perfetti come acquirenti e venditori, isolati, discreti, anonimi; e ogni giorno consideriamo il desiderio residuo di essere qualcosa di più di un consumatore come un’espressione di nostalgia, o di elitismo.

Ciò che è iniziato come una nuova forma di autorità intellettuale, radicata in una visione del mondo onestamente apolitica, si è facilmente trasformata in una politica ultra-reazionaria. Quello che non può essere quantificato non deve essere reale, dice l’economista, e come misurare i principali benefici dell’illuminazione – vale a dire, il ragionamento critico, l’autonomia personale e l’autogoverno democratico? Quando abbiamo abbandonato, per il suo imbarazzante residuo di soggettività, la ragione come una forma di verità e abbiamo reso la scienza l’unico arbitro del reale e del vero, abbiamo creato un vuoto che la pseudo-scienza è stata ben felice di riempire.

L’autorità del professore, del riformatore, del legislatore o del giurista non deriva dal mercato, ma da valori umanistici come la passione civile, la coscienza o il desiderio di giustizia. Molto tempo prima che l’amministrazione di Trump cominciasse a squalificarle, queste figure erano state private di rilevanza da uno schema esplicativo che non può spiegarle. Certamente c’è una connessione tra la loro crescente irrilevanza e l’elezione di Trump, una creatura di puro capriccio, un uomo senza principi o convinzioni che lo possano rendere una persona coerente. Un uomo senza mente, che rappresenta la totale assenza della ragione, sta governando il mondo; o portandolo alla rovina. Come una vera agenzia immobiliare di Manhattan, però, Trump, ehi – sa quel che sa: che i suoi peccati devono ancora essere puniti dal mercato.

il Fatto Quotidiano

Il Bacio feroce ha il sapore del sangue, come quasi tutto in questa storia di cuccioli selvaggi, vittime e carnefici negli stessi corpi, divisi tra i compiti a casa, i messaggi alle fidanzatine e gli omicidi. Undici mesi dopo La paranza dei bambini, Roberto Saviano torna in libreria con il seguito del romanzo criminale ambientato a Forcella.

È la prima volta che scrive due libri a così poca distanza uno dall’altro: quella del romanzo, narrato in terza persona, è la sua dimensione di scrittore?
Ci sono arrivato. Il racconto in terza persona concede molte libertà, la principale è il tentativo di restituire al lettore l’intimità dei personaggi. Di provare a entrare non solo nelle loro teste, ma proprio nelle loro viscere.
I dialoghi sono tutti scritti in napoletano, anche se un napoletano non “canonizzato” ma imbastardito, come scrive in nota: un lavoro sulla lingua ancora più approfondito rispetto alla Paranza. Perché questa scelta?
A Napoli il napoletano non è considerato un dialetto, ma una lingua viva, parlata anche e soprattutto dai giovani. E in quanto viva, è soggetta a evoluzione. Non avrei potuto utilizzare, nei dialoghi, il napoletano del canone, ma dovevo necessariamente avvicinarlo a quello parlato. Mi sono ovviamente chiesto se non fosse il caso di rendere tutto più italiano, ma andando avanti nella scrittura mi rendevo conto di non riuscire ad abbandonare il napoletano perché è esattamente la lingua che parlano le storie che racconto. La lingua, come i luoghi, rappresenta il tentativo, che sempre faccio, di raccontare una ferita che non è solo di Napoli o del Sud, ma che lacera ogni periferia. Il napoletano potrebbe essere qualsiasi dialetto o gergo, in ogni caso, una lingua da iniziati.
Parlando del precedente romanzo ci aveva detto: “Non credo nella possibilità di una giustizia”. E poi: “Questi ragazzi non hanno avuto speranza”. Ma l’urgenza di raccontarli fa pensare che lei nutra qualche illusione. O no?
Ovvio, se non fossi un illuso non sarei uno scrittore. Così come se non nutrissi illusioni di sorta non crederei affatto nella necessità del racconto.
Perché ha deciso di presentare Bacio feroce anche insieme a ragazzini che potrebbero beneficiare dello Ius soli? Che relazione c’è tra la cittadinanza e i temi di cui parla nei suoi libri?
Una relazione strettissima. Racconto, nei miei libri, di ragazzi che passano la vita a tentare – riuscendoci! – di uscire dal diritto; in libreria con me ci saranno invece ragazzi che attraversano questo mondo con un cammino opposto. Mostro questa contraddizione: c’è chi dal diritto vuole uscire e chi nel diritto vuole entrare. Lo Stato ignora entrambi, ipotecando il futuro e il presente di tutti noi. C’è poi un passaggio nel libro che ritengo significativo: è un invito alle madri a educare i propri figli al fallimento. Educarli a essere vincenti sempre e sempre i primi significa anche educarli a eliminare gli altri sottraendo loro diritti.
Tra meno di un mese si vota in Sicilia: che pensa dei tantissimi candidati coinvolti a vario titolo in vicende giudiziarie? Impareranno mai la lezione?
Il tema degli impresentabili è il vero tema della politica italiana, un tema enorme ma, evidentemente, di alcune candidature non si riesce proprio a fare a meno; e non ci si riesce perché si valutano solo i pacchetti di voti di cui questi impresentabili sono esclusivi proprietari. Tutto il dibattito sulla credibilità della politica, di fronte a certe dinamiche, non è che vada semplicemente in secondo piano, scompare del tutto. Il risultato negli elettori, come sappiamo, è un senso di impotenza. E quindi cosa accade? Accade che in una situazione in cui “voto o non voto non cambia nulla”, allora il mio voto lo faccio fruttare… E se negli anni Ottanta si prometteva di favorire un candidato per un posto di lavoro, oggi lo si fa per 50 euro.
Della fiducia sulla legge elettorale lei ha detto: “Sembra un agguato”.
È un agguato alla democrazia. È proprio delle democrazie malate cambiare la legge elettorale a ridosso delle elezioni e ha ragione da vendere chi usa parole forti per condannare questa vergogna. Con questo modus operandi, completamente sovrapponibile a quello del centrodestra del 2005, quando introdusse il Porcellum, cade un ulteriore velo di ipocrisia sul finto riformismo del Pd a guida Renzi. Il Consiglio europeo si è pronunciato raccomandando di non cambiare la legge elettorale a ridosso delle elezioni perché creerebbe un deficit di conoscenza e quindi una oggettiva violazione dei diritti dei cittadini. Con quale autorità morale potrà mai l’Italia criticare Erdogan e Putin se poi diamo per scontato che il sistema democratico regga nonostante tutte queste violazioni?

Si è, provocatoriamente, candidato contro Luigi Di Maio alle consultazioni dei 5 Stelle: perché?

Per toglierlo dall’imbarazzo di una consultazione democratica completamente falsa e per sottolineare quello che è il male oscuro del M5S: la necessità di rappresentarsi come una forza politica che pratica la democrazia al proprio interno quando la realtà dei fatti fotografa un Movimento che ha una struttura padronale. La mancanza di trasparenza sulle dinamiche di voto interno rende del tutto risibili le teorie sulla politica dal basso.
Secondo un sondaggio realizzato per in giugno, la sinistra unita con lei leader avrebbe avuto il 16%. Secondo un recente retroscena del Giornale, Prodi starebbe pensando a lei come guida di un nuovo Ulivo…
Un esempio di fake news. Fare politica non è il mio mestiere: finirei per essere una faccia da esibire. La politica, per come la intendo io, deve partire dalle idee, non dalle persone.

lasinistraquotidiana,

Sono molteplici i fattori che stanno alla base della gravissima crisi che sta attraversando l’unità nazionale spagnola (ovvero dell’indipendenza della Catalogna): elementi di natura storica, politica, istituzionale, economica.

La crisi spagnola (ovvero dell’indipendenza della Catalogna), così come tante altre situazioni sparse principalmente sullo “storico” territorio europeo (ma anche fuori, come nel caso del Kurdistan e di diverse situazioni africane), rappresenta anche (e forse soprattutto) il nuovo punto di espressione di quell’arretramento dell’entità politica denominata “Stato – Nazione” che, in relazione al processo di globalizzazione economica, molti pensavano potesse essere risolto all’intero di nuove dimensioni denominante appunto “sovranazionali”.

In questo momento alcuni pensano che questa crisi esplosa violentemente in uno dei maggiori paesi dell’Unione Europea potrebbe essere vista proprio dal lato dell’indipendenza catalana per costruire, più facilmente, un’Europa di “piccole patrie” non vincolate alla rigidità dei grandi Stati (questa è l’opinione anche del Ministro degli Esteri della Generalitat catalana, Raul Romeva).

Sorprende (ma non troppo) l’utilizzo “a sinistra” della teoria delle due “tigri di carta”, utilizzata per esprimere una pilatesca equidistanza.In realtà l’analisi sulla quale si potrebbe lavorare è quella che ci troviamo di fronte ad una situazione creata per certi versi da un intreccio di contraddizioni del tutto inedite mai affrontate nel tempo recente, almeno dalla fase post – caduta del muro di Berlino.

Si sono connessi, infatti, a questo punto sia l’arretramento del fenomeno che è stato definito come “globalizzazione” e che ha provocato l’arresto o almeno il rallentamento nel processo di disfacimento dello “Stato – Nazione” e, insieme, quella che è stata definita “fine della società liquida”.Quella “società liquida” che Bauman aveva teorizzato a suo tempo (“Modernità liquida”, Laterza 2000).

A sostegno della tesi sulla”fine della società liquida” il filosofo docente alla Normale Roberto Esposito in un suo saggio utilizza molti autori: da Kenichi Omae (Il mondo senza confini, il Sole 24 ore), Carlo Bordoni (Fine del mondo liquido, il Saggiatore) a Daniele Giglioli (Stato di minorità, Laterza).

La tesi che si sostiene nell’intervento di Esposito, è quella che la già definita “geniale metafora” mostra il suo tempo, non solo perché troppo indeterminata, ma perché incapace di dar conto di un ulteriore passaggio che sembra spingerci del tutto fuori dalla modernità così come questa è stata concepita facendola coincidere con il trionfo del “pensiero unico” e la “fine della storia”. Due punti questi ultimi sui quali sarà il caso di ritornare.
Secondo Esposito infatti: «Gli stati sovrani dichiarati anzi tempo finiti rialzano la testa, mentre la geopolitica ridisegna vecchie e nuove zone d’influenza. Nel linguaggio dell’inclusione torna a lavorare la macchina dell’esclusione. I confini che sembravano dissolti riprendono a suddividere quanto si era immaginato di unire. Non solo ma fuori da ogni metafora liquida, si solidificano muri di cemento, in barriere di filo spinato, in blocchi stradali. Un mondo terribilmente solido, striato di frontiere materiali, subentra a quello liscio, promesso dai teorici dell’età globale»..

Riemergerebbe, in sostanza, un forte richiamo identitario che troverebbe la sua espressione non tanto e soltanto in richieste di tipo economico, ma anche e proprio (come accade nel caso ispano/catalano) da una molteplicità di elementi fra i quali reciterebbe un ruolo fondamentale quello della “identità storica” ( riassumibile nel caso in questione della Spagna/Catalogna nelle “fratture” ancora in atto dalle vicende della guerra civile e dalla contrapposizione Monarchia/Repubblica).

Nel caso ispano/catalano si nota, infatti, l’elemento del confronto tra monarchia accentratrice (come si è visto nell’uso della forza nel giorno del referendum) versus repubblica popolare: ed è questo un elemento che sul piano politico ha dimostrato comunque di mantenere un peso molto rilevante.

Il richiamo identitario si sviluppa proprio a livello di grandi masse sul terreno storicamente e culturalmente più prossimo, quella della propria immediata dimensione territoriale: quella della riconoscibilità della “propria patria” in questo caso fieramente repubblicana.Tanto è vero che l’UE (costruita mille miglia lontano da questo tipo di tensioni) e le cancellerie europee si sono palesate quanto mai perplesse nell’assumere posizione al riguardo se non con espressioni di mera circostanza.

Torniamo però al tema più generale: quello della fine della “società liquida” e, insieme, dell’inaspettato ritorno sulla scena dello “Stato – Nazione” (fattore alimentato anche dalla vicenda dei migranti) e della “geopolitica” (con accenti, in questo caso, addirittura da “nuova guerra fredda”).

Nel corso di questi ultimi anni abbiamo verificato l’evolversi di nuove dimensioni dell’agire politico sviluppatesi in particolare in Occidente e poste in relazione a profondi mutamenti avvenuti sul piano dell’innovazione tecnologica nel campo della comunicazione di massa, della struttura della società e della modificazione nel rapporto tra forme di gestione del potere da parte delle classi dominanti e il concetto stesso di rappresentatività politica.

E’ stato analizzato il fenomeno di una globalizzazione economica velocizzata al massimo dall’uso di nuove tecnologie e sono sorti movimenti testi a contrastarne gli effetti più dirompenti al riguardo delle stridenti diseguaglianze sociali che – a livello planetario – il fenomeno definito come “globalizzazione” ha provocato.

Nel frattempo hanno acquistato grande peso quelle contraddizioni definite post –materialiste “in primis” quelle ambientale e di genere; si è sviluppato fortemente il processo di finanziarizzazione nel ciclo di gestione capitalistica; la “politica” è stata sempre più esercitata nel segno del “comando” e dell’interventismo sulle sfere della vita quotidiana ( è questo l’elemento di maggiore difficoltà della cosiddetta “democrazia liberale”, nella dimostrazione di una sempre più crescente incompatibilità tra di essa e il capitalismo iperfinanziarizzato che non lascia margini al pluralismo politico e al welfare ma si intende come totalizzante nell’accentramento della gestione del potere).

Addirittura, sulla spinta della fine dell’esperienza sovietica si parlò, da parte di politologi conservatori come Fukuyama e Huntington di “fine della storia” e addirittura di unico confronto possibile quello dello “scontro di civiltà” tra l’Occidente e l’Islam.Del resto questo esito della “fine della storia” non coincideva altro che con il trionfo dell’ideologia capitalista travestita da non-ideologia era apparso possibile grazie all’egemonia assunta dal concetto neo-liberista insito nella ventata conservatrice propiziata dall’offensiva di Reagan negli USA e di Margaret Tachter in Gran Bretagna: USA e Gran Bretagna.

USA e Gran Bretagna si dimostravano ancora una volta dopo la fine della seconda guerra mondiale i paesi-guida nell’economia e anche nella riflessione politica, campo nel quale il sociologismo di marca USA pareva ormai sopravanzare l’idealismo del modello renano.

Insomma: era il tema del “pensiero unico” sul piano economico, politico e soprattutto filosofico:Una sola strada sembrava tracciata e l’unico scontro possibile era dunque quello “di civiltà” versus i “nuovi barbari” dell’islamismo terrorista (salvo, ovviamente, gli affari con i sauditi, ecc.).

Ora la fine della società liquida sta mandando in una difficoltà forse definitiva il “pensiero” ed il “mercato” unico, con grande fastidio di coloro che detengono il potere in quella “plutocrazia” ancora così definita da Noam Chomsky nel suo fondamentale “Le dieci leggi del potere” recentemente apparso anche in Italia.

Oggi, nel relativamente “piccolo” della crisi spagnola (ovvero dell’indipendenza catalana) è proprio questo punto del pensiero e del mercato unico che va in discussione.

In questo quadro di visione complessiva schematicamente riassunto , sul piano più strettamente politico, emergono alcuni fenomeni molto importanti : quello della già richiamata evidente crisi di quella già classicamente definita come “democrazia liberale” e, di conseguenza, in Occidente della completa dismissione di identità da parte dei partiti socialisti e socialdemocratici (compreso il PDS, poi DS italiano, che proveniva da una storia affatto diversa).

In questo quadro emergono evidenti :Il passaggio degli ex- socialisti e socialdemocratici nel campo liberista attraverso la scorciatoia del blairismo e dell’ulivismo (certo con contraddizioni, ma nella sostanza della schematicità di un intervento di questo tipo il giudizio di fondo non può che essere quello appena pronunciato);la marginalizzazione, non solo elettorale ma soprattutto di radicamento sociale, delle forze rimaste antagoniste, soprattutto di quelle di matrice comunista costrette a nascondersi, in pratica, in Francia, in Spagna, in Italia, in Grecia all’interno di generiche alleanze “di sinistra” e prive della capacità di affrontare, a livello di masse, il nuovo quadro di contraddizioni che si sta presentando.

Due punti di riassunto per concludere:la globalizzazione, così com’era stata intesa negli ultimi 20 anni si è arrestata;così come ha sicuramente rallentato, rispetto alle previsioni, quel processo di cessione di sovranità dello “Stato – Nazione” che pure era stata considerato alla base di ipotesi politiche di grande portata come quella della costruzione dell’Unione Europea. Concetto di “Stato – Nazione” attaccato dunque non in dimensione sovranazionale ma all’opposto dall’emergere di specificità territoriali di tipo economiche e culturale sbrigativamente definite nel linguaggio giornalistico corrente come “regionaliste”.

Si è così dimostrato che, in sintesi, il laissez-faire e la tecnocrazia internazionale non forniscono una valida alternativa allo Stato-nazione eppure i popoli premono per affermare una più diretta vocazione alla piena espressione della loro volontà.

Forse ci sarebbe da riflettere su di una frase dell’economista e premio Nobel Amartya Sen che parla infatti di “identità multiple” (etnica, religiosa, nazionale, locale, professionale e politica), molte delle quali oltrepassano i confini nazionali o stanno dentro a quei confini forzatamente tracciati nell’epoca dei nazionalismi e degli imperialismi, in quel secolo definito “breve” da Eric Hobsbawm.

“Identità multiple” che l’internazionalismo marxista risolveva declinando come l’avversario dell’internazionalismo fosse il nazionalismo borghese e considerando la divisione del mondo in classi il vero ostacolo allo sviluppo della società umana. Ci troviamo di fronte a contraddizioni evidentemente stridenti non affrontate dal punto di vista del pensiero politico.Un pensiero politico quello corrente mai apparso, come in questa fase, legato esclusivamente nelle sue espressioni maggioritarie a esigenze contingenti di sopravvivenza per ceti privilegiati. Forse è proprio quest’ultimo il punto, quello della sopravvivenza dei ceti privilegiati: come sempre il punto riguardante l’egoismo, la conservazione, lo sfruttamento, la disuguaglianza .

Una situazione che reclama urgentemente una proposta di modello alternativo naturalmente rivolta non solo alla Catalogna.

il manifesto

La situazione là fuori è desolante. Come descrivere un mondo capovolto? Capi di stato che twittano minacce di distruzione nucleare, intere regioni sconvolte dai cambiamenti climatici, migliaia di migranti che affogano lungo le coste dell’Europa e partiti apertamente razzisti che guadagnano terreno, nel caso più recente – e allarmante – in Germania.

Faccio solo un esempio, i Caraibi e gli Stati Uniti del Sud sono nel pieno di una stagione degli uragani senza precedenti. Porto Rico è completamente senza energia elettrica, e potrebbe restarlo per mesi, il suo sistema idrico e quello di comunicazione sono gravemente compromessi.

Su quell’isola, tre milioni e mezzo di cittadini americani hanno un disperato bisogno dell’aiuto del loro governo. Ma, come durante l’uragano Katrina, la cavalleria stenta ad arrivare. Donald Trump è troppo impegnato a cercare di far licenziare atleti neri, colpevoli di aver osato attirare l’attenzione sulla violenza razzista.

Per quanto sia incredibile, non è ancora stato annunciato un pacchetto federale di aiuti per Porto Rico. Secondo alcune analisi, sono già stati spesi più soldi per rendere sicuri i viaggi presidenziali a Mar-a-Lago.

E se tutto questo non fosse già abbastanza, hanno anche cominciato a spuntare gli avvoltoi: la stampa economica ribolle di articoli che spiegano come l’unico modo per far tornare la luce a Porto Rico sia vendere il loro sistema energetico nazionale. Magari anche le loro strade e i loro ponti.

Ho soprannominato questo fenomeno la «Dottrina dello Shock»: lo sfruttamento di crisi strazianti per approvare politiche che erodono la sfera pubblica e arricchiscono ulteriormente una ristretta èlite. Abbiamo visto questo lugubre circolo vizioso ripetersi ogni volta: dopo la crisi finanziaria del 2008, e oggi con i Tories che vogliono sfruttare la Brexit per far passare senza dibattito dei disastrosi accordi commerciali che avvantaggeranno le corporation.

Ho messo in evidenza Porto Rico perché lì la situazione è particolarmente urgente, ma anche perché rappresenta il microcosmo di una crisi globale molto più vasta, che contiene molti degli stessi elementi: un caos climatico sempre più rapido, storie colonialiste, una sfera pubblica debole e trascurata, una democrazia completamente disfunzionale.

La nostra è un’epoca in cui è impossibile separare una crisi dall’altra: si sono tutte fuse insieme, rinforzandosi e sprofondandosi a vicenda, come un mostro a più teste sull’orlo del collasso.

Si può pensare al presidente degli Stati uniti nello stesso modo. Avete presente quell’orribile blob di grasso che sta intasando le fogne londinesi, che voi chiamate fatberg? Trump è il suo equivalente politico. Un concentrato di tutto ciò che è nocivo a livello culturale, economico e politico, tutto appiccicato insieme in una massa autoadesiva che abbiamo molte difficoltà a rimuovere.

Che si tratti di cambiamento climatico o di minaccia nucleare, Trump rappresenta una crisi che rischia di echeggiare attraverso molte ere geologiche. Ma i momenti di crisi non devono necessariamente seguire la strada della «Dottrina dello Shock», non sono destinati per forza a creare opportunità per chi è già schifosamente ricco di arricchirsi ancora di più. Possono anche andare nella direzione opposta.

Possono rappresentare dei momenti in cui scopriamo il meglio di noi, e riusciamo a fare appello a riserve di forza e determinazione che non sapevamo di avere.(…) Ma non è solo a livello della società civile che possiamo osservare il risveglio di qualcosa di ammirevole in noi quando si verifica una catastrofe. Esiste una lunga e gloriosa storia di trasformazioni progressiste a livello sociale innescate dalle crisi. Basta pensare alle vittorie della working class per quanto riguarda l’edilizia popolare all’indomani della prima guerra mondiale, o per il sistema sanitario nazionale dopo la seconda.

Questo ci dovrebbe ricordare che i momenti di grande difficoltà e pericolo non devono necessariamente riportarci indietro: possono anche catapultarci in avanti. Queste lotte progressiste però non vengono mai vinte solo resistendo, o opponendosi all’ultimo di una lunga serie di oltraggi.

Per trionfare in un momento di vera crisi dobbiamo anche essere in grado di pronunciare dei coraggiosi e lungimiranti «sì»: un piano per ricostruire e affrontare le cause che soggiacciono alla crisi. E questo piano deve essere convincente, credibile e, più di tutto, accattivante. Dobbiamo aiutare una società stanca e timorosa a immaginarsi in un mondo migliore.
Caos climatico, colonialismo, élite dedite alla rapina, democrazia disfunzionale. È impossibile separare una crisi dall’altra: si sono tutte fuse insieme, come un mostro a più teste

Theresa May ha condotto una campagna elettorale cinica facendo leva sulla paura e sui traumi degli inglesi per accaparrarsi più potere – prima la paura di un cattivo accordo per la Brexit, poi quella per gli orribili attentati terroristici a Manchester e Londra.

Il Labour e il suo leader hanno invece risposto concentrandosi sulle cause: una «guerra al terrore» fallita, le diseguaglianze economiche e una democrazia indebolita. E soprattutto avete presentato agli elettori un programma coraggioso e dettagliato, un piano per migliorare in modo tangibile la vita di milioni di persone: istruzione e sanità gratuite, un’azione aggressiva contro il cambiamento climatico.

Dopo decenni di aspettative al ribasso e di un’immaginazione politica asfittica, finalmente gli elettori hanno avuto qualcosa di promettente ed entusiasmante a cui dire «sì». Le persone vogliono un cambiamento profondo – lo richiedono a gran voce. Il problema è che in fin troppi paesi è solo l’estrema destra a offrirlo, con un mix tossico di finto populismo economico e reale razzismo.

In questi ultimi mesi il partito laburista ha dimostrato che esiste un’altra via. Una via che parla la lingua della decenza e della giustizia, che non teme di chiamare col loro nome le forze responsabili di questa crisi, senza timore del loro potere.

Le passate elezioni hanno anche evidenziato un’altra cosa: che i partiti politici non devono temere la creatività e l’indipendenza dei movimenti civili – e che a loro volta i movimenti civili hanno molto da guadagnare dall’incontro con la politica tradizionale. È un dato molto importante, perché i partiti tendono a voler esercitare il controllo, mentre i movimenti dal basso tengono alla loro indipendenza e sono quasi impossibili da controllare. Ma ciò che testimonia il rapporto tra Labour e Momentum (il movimento che sostiene Corbyn, ndr), o con altre ottime organizzazioni, è la possibilità di combinare il meglio di entrambi questi mondi e dare vita a una forza al contempo più agile e incisiva di qualunque impresa condotta in solitudine da partiti o movimenti.

Ciò che è accaduto in Gran Bretagna è parte di un fenomeno globale. È un’ondata guidata da giovani che sono entrati nell’età adulta nel momento del collasso del sistema finanziario, e mentre la catastrofe climatica ha iniziato a bussare alla porta. Molti vengono da movimenti come Occupy Wall Street, o gli Indignados in Spagna.

Hanno cominciato dicendo no: all’austerità, ai salvataggi delle banche, al fracking e agli oleodotti. Ma col tempo hanno capito che la sfida più grande è il superamento della guerra dichiarata dal neoliberismo al nostro immaginario collettivo, alla nostra capacità di credere in qualcosa al di là dei suoi cupi confini. L’abbiamo visto accadere con la storica campagna alle primarie di Bernie Sanders, alimentata dai millennial consapevoli che una prudente politica centrista non offre loro alcun futuro. Abbiamo visto qualcosa di simile con il giovane partito spagnolo Podemos, erettosi sulla forza dei movimenti di massa sin dal primo giorno.

Campagne elettorali, le loro, che si sono infiammate a velocità incredibile. E sono arrivati vicini alla vittoria – più vicini di qualunque altro movimento politico genuinamente progressista statunitense o europeo di cui sia stata testimone nel corso della mia vita. Ma non abbastanza vicini. Per questo, nel tempo che ci separa delle elezioni, dobbiamo pensare a come assicurarci che, la prossima volta, i nostri movimenti arrivino fino in fondo.

In tutti i nostri paesi, dobbiamo fare in modo di sottolineare il legame tra ingiustizia economica, razziale e di genere. Ci spetta capire, e spiegare, come i sistemi di potere che mettono un gruppo in posizione dominante rispetto agli altri – sulla base del colore della pelle, della religione, dell’orientamento sessuale e di genere – servano sempre gli interessi del potere e del denaro.

È nostro dovere evidenziare il rapporto tra gig economy – che tratta gli esseri umani come materie prime da cui estrarre ricchezza per poi buttarle – e dig economy, quella delle industrie estrattive che trattano la terra con la stessa indifferenza. Dobbiamo indicare la strada per passare a una società fondata sulla cura reciproca e del pianeta, dove il lavoro di chi protegge la nostra terra e la nostra acqua viene stimato e rispettato. Un mondo dove nessuno, da nessuna parte, viene abbandonato – che si tratti di un edificio popolare in fiamme (come Grenfell a Londra, ndr) o di un’isola prostrata da un uragano.

È il momento di innalzare le nostre ambizioni e dimostrare come la battaglia al cambiamento climatico sia una sfida epocale per costruire una società più giusta e democratica. Perché mentre usciamo rapidamente dall’epoca dei combustibili fossili, non potremo replicare la concentrazione del benessere e l’ingiustizia proprie dell’economia del petrolio e del carbone, in cui le centinaia di miliardi di profitti sono stati privatizzati, mentre i tremendi rischi che ne conseguono sono pubblici.
Sanders, Podemos e Corbyn dimostrano che partiti e movimenti devono allearsi. I millennial non sopportano le false promesse

Il nostro motto deve essere: lasciamoci alle spalle il gas e il petrolio, ma non lasciamo indietro nessun lavoratore. Ci spetta immaginare un sistema in cui sia chi inquina a pagare la maggior parte del costo della transizione. E in paesi ricchi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, abbiamo bisogno di politiche sull’immigrazione e di una finanza internazionale che riconoscano il nostro debito nei confronti del sud del mondo – il nostro ruolo storico nella destabilizzazione delle economie e delle ecologie di paesi poveri per lunghissimi anni, e l’immensa ricchezza estratta da queste società sotto forma di esseri umani ridotti in schiavitù.

Più il partito laburista sarà ambizioso, perseverante e globale nel dipingere l’immagine di un mondo trasformato, più credibile diventerà un suo governo.

In tutto il mondo, vincere è un imperativo morale per la sinistra. La posta in gioco è troppo alta, e il tempo che ci resta troppo poco, per accontentarci di niente di meno.

Traduzione in italiano di Giovanna Branca

L’ultimo libro di Naomi Klein si chiama «No is not enough» ed è stato pubblicato da Haymarket books a giugno scorso. L’edizione italiana uscirà per Feltrinelli

Internazionale

E' un martedì pomeriggio di settembre e Carles Puigdemont, presidente della Catalogna, ha appena finito di spiegare i suoi piani per l’indipendenza, quando il suo assistente ci propone di fare una visita alla sede del governo. Puigdemont lavora nel Palau de la Generalitat, nel centro storico di Barcellona. Alcune parti dell’edificio, una delle strutture più belle in una città ricca dal punto di vista architettonico, hanno più di seicento anni.

Il suo assistente ci mostra il cortile nella parte più antica dell’edificio, le colonne decorate e gli scintillanti pavimenti di marmo che, spiega, “sono originali”. Indica le croci di san Giorgio che decorano l’edificio, per secoli un simbolo della capacità dei catalani di difendersi, ma anche della fiducia con cui questa regione rivendica la sua libertà dal governo centrale spagnolo. Passiamo per il giardino degli aranci, dove l’amministrazione organizza i ricevimenti e dove, dice l’assistente, continuerà a organizzarli quando la Catalogna sarà indipendente. Ci fa notare i pilastri della facciata, fatti con il marmo che i romani portarono sulle coste catalane dalla città di Troia.

Antichità, medioevo, cristianità, rinascimento ed età moderna. In questo luogo è riassunta tutta la storia dell’Europa, e l’assistente di Puigdemont non ha dubbi sul fatto che questo edificio, questa città e questa terra meritino più di quanto stiano ricevendo dal governo centrale. È questa la posta in gioco del referendum indetto dai separatisti: il ritorno della Catalogna sulla scena europea. Ma è anche possibile che, invece, ci troviamo di fronte agli ultimi sussulti di quello che un tempo era un grande sogno.

La mattina dopo l’incontro con Puigdemont, il 20 settembre, la polizia ha fatto irruzione in alcuni uffici della Generalitat, nelle sedi di partito e nei magazzini, arrestando quattordici persone, tra cui un vice- ministro del governo locale, e confiscando più di nove milioni di schede elettorali. Le lettere indirizzate agli scrutatori erano già state requisite. Quella sera il capo del governo spagnolo Mariano Rajoy ha tenuto un discorso in tv in cui chiedeva agli indipendentisti di annullare il referendum.

Puigdemont e Rajoy si scontrano a distanza da mesi. Si sono lanciati provocazioni reciproche come fanno i pugili prima di un incontro. La resa dei conti è prevista per il 1 ottobre, il giorno scelto per il referendum. Le perquisizioni del 20 settembre sono state il tentativo di Rajoy di impedire il voto. Puigdemont ha risposto che il referendum si farà. Ma senza organizzatori, schede elettorali e scrutatori è difficile.

I separatisti sperano che il referendum dia vita a un processo politico che conduca, alla fine, all’indipendenza. Ma il governo spagnolo non vuole fare nessuna concessione. Per mesi Madrid si è riifutata anche solo di valutare le richieste del governo catalano, preferendo affidarsi a perquisizioni e azioni legali, come se gli indipendentisti fossero un’organizzazione criminale.

Presidente fiducioso

È evidente che l’indipendenza della Catalogna comporterebbe gravi rischi. Innanzi- tutto, non è chiaro quali sarebbero le conseguenze economiche per i catalani. Per l’Unione europea, invece, potrebbe essere l’inizio di una difficile fase politica, con i separatisti di Corsica, Fiandre e Norditalia pronti a seguire l’esempio dei catalani.

L’atteggiamento intransigente di Madrid sembra destinato a far crescere le proteste. Decine di migliaia di persone sono scese in piazza il 20 settembre. La rabbia cresce e non è escluso che possa arrivare alla violenza, anche se gli indipendentisti hanno ribadito che le proteste resteranno pacifiche. Ma Rajoy non vuole correre rischi e ha sospeso le ferie di tutti gli agenti in servizio in Catalogna. In sostanza Madrid ha realizzato un piccolo colpo di stato contro il governo di un paese che non è ancora nato. Puigdemont, 54 anni, ex giornalista di Girona, una città al confine con la Francia, guida la Generalitat da meno di due anni. Ma ha guidato la campagna per l’indipendenza in maniera così prudente da guadagnare sostenitori anche fuori dalla Catalogna. Ha fama di essere un appassionato d’arte: quando era sindaco di Girona ha comprato per la città una collezione di opere per 3,7 milioni di euro, che include quadri di Picasso e Mirò, addebitando parte dei costi all’ente per i servizi idrici del comune.

Ma oggi sembra essersi spinto troppo oltre, sottovalutando quello che il governo spagnolo è disposto a fare pur di sopprimere le minacce all’integrità territoriale del paese. Il 19 settembre, durante il nostro incontro, Puigdemont sembrava ancora fiducioso mentre spiegava la sua idea di Catalogna. Poco prima il parlamento spagnolo si era rifiutato di dare il via libera a un provvedimento che avrebbe rafforzato l’azione del governo di Rajoy contro i separatisti. Puigdemont era convinto che alla fine il referendum si sarebbe tenuto. Non sarà facile, ha detto, ma alla fine l’Unione europea accetterà la Catalogna come paese indipendente: non avrà altra scelta se non adeguarsi a questa “nuova realtà”. L’economia catalana, ha spiegato, è troppo importante per essere ignorata. “Noi catalani vogliamo essere rispettati per quello che siamo”, ha detto, ricordando che nel 2006 Madrid acconsentì a concedere più autonomia alla Catalogna, ma che poi quell’accordo fu bocciato dalla corte costituzionale. “È stato uno schiaffo al popolo catalano. Il messaggio era: non potete essere chi siete”. Il presidente ha anche insistito sul carattere inclusivo del suo movimento, sostenendo che “catalani sono quelli che vivono qui, lavorano qui e amano il nostro paese”.

In questo senso, il nazionalismo catalano è estremamente peculiare. A differenza dei movimenti di altri paesi, non punta sulla differenziazione. Più del settanta per cento dei catalani ha un genitore nato fuori dalla regione: per i catalani questo non è un problema anzi, è una fonte di arricchimento culturale. Gli indipendentisti considerano la Catalogna una regione lavoratrice, prospera e cosmopolita governata da un governo centrale autoritario, con sede a Madrid.

Il fronte separatista è estremamente variegato. Il movimento di Puigdemont si chiama Junts pel sí (uniti per il sì) ed è un’alleanza tra filo- europeisti, partiti di destra e il movimento di sinistra Esquerra republicana de Catalunya, che nel parlamento europeo fa parte del gruppo dei Verdi. Nell’alleanza c’è anche il gruppo Candidatura d’unitat popular (Cup), una formazione di sinistra che nel suo simbolo ha ancora una stella rossa, e non solo per ragioni sentimentali. Il programma politico del partito include la richiesta di case popolari, gas ed elettricità gratuiti, un reddito minimo garantito e la nazionalizzazione delle banche. L’unico elemento che tiene insieme questa variegata coalizione è il desiderio di una Catalogna indipendente.

Comunista e indipendentista

Una cosa che il nazionalismo catalano condivide con altri movimenti regionalisti europei è il fatto di essere un fenomeno per lo più provinciale, nel senso che la sua spina dorsale è formata dalle zone rurali e dai piccoli centri. Le comunità favorevoli all’indipendenza formano una sorta di mezzaluna intorno a Barcellona.

Il movimento è particolarmente forte in posti come Argentona, una cittadina di dodicimila abitanti a nordest di Barcellona. La bandiera degli indipendentisti, con le sue strisce gialle e rosse e una stella bianca su sfondo blu, sventola da molti balconi e finestre. La scritta “Sí” è visibile sui cartelloni pubblicitari, sulle facciate degli edifici e su adesivi appiccicati ai finestrini delle auto, uno accanto all’altro e spesso persino uno sull’altro. Gli alberi delle zone pedonali sono avvolti in teli di plastica su cui si legge “Democrazia”. E nella piazza centrale della città campeggia un enorme cartello a favore dei profughi, dove c’è scritto “Europa vergognati. Argentona si oppone al maltrattamento dei migranti”. I separatisti catalani sono forse degli estremisti, ma non degli estremisti di destra.

Eudald Calvo, un uomo di 31 anni con la barba da hipster, scarpe da tennis e un braccialetto di plastica colorato, è stato eletto sindaco di Argentona due anni fa, con il Cup. “Sono comunista. E indipendentista”, dice. Calvo sta aspettando che la polizia si presenti nel suo ufficio e gli consegni un mandato di comparizione. Anche solo concedere un’intervista sul referendum è teoricamente illegale, perché ai sindaci è proibito occuparsi del tema durante il loro orario d’ufficio.

La procura di stato ha perfino dichiarato che metterà sotto indagine tutti i settecento sindaci catalani che hanno intenzione di consentire il voto. Il governo di Madrid, sostiene Calvo, ha fatto sapere ai sindaci che potrebbero essere incriminati per disobbedienza civile, abuso d’ufficio e appropriazione indebita di denaro pubblico.

Calvo dice che ancora non sono venuti a cercarlo, ma che è solo questione di tempo. Poi indica fuori dalla finestra del suo ufficio, verso un cartello sui cui è scritto “I referendum sono la democrazia”, e dice di non aver paura di essere arrestato. “Se devo andare in prigione, allora dovranno arrestare altri 750 sindaci, oltre ad alcuni parlamentari e funzionari del governo catalano”, dice. “All’improvviso la Spagna si troverebbe con duemila prigionieri politici. Non riesco a immaginarlo”.

Per questo è convinto che il referendum si farà: “Se ricorrono alla violenza per evitare il referendum, noi non risponderemo con la violenza”, dice. “Ma immaginate la cosa in termini pratici. Con la polizia che si mette di fronte alle urne e migliaia di persone che si presentano. La polizia avrà il coraggio di fermarle?”.

Molti giovani si sono uniti al movimento per l’indipendenza. Rappresentano la generación cero, la generazione zero, quella diventata adulta negli anni della crisi economica, della disoccupazione altissima e della mancanza di opportunità. Molti di loro sognano una società nuova e migliore, un nuovo inizio e perino una rivoluzione.

Il separatismo catalano di oggi non è il prodotto di secoli di aspirazioni che si stanno finalmente manifestando. È nato dalla crisi economica spagnola e dal fatto che il governo di Madrid non ha voluto concedere maggiore autonomia alla Catalogna.

Madrid e Barcellona avevano raggiunto un accordo nel 2006, ma quattro anni dopo la corte costituzionale di Madrid, incoraggiata dal Partito popolare di Mariano Rajoy, lo ha invalidato. Questo succedeva proprio nel momento più duro della crisi economica. La conseguenza è stata che molti catalani hanno perso fiducia nei confronti del governo centrale. I catalani sono convinti di aver fatto troppe concessioni a Madrid. La Catalogna è la regione autonoma con l’economia più forte, sede di molte aziende importanti. Ma una parte rilevante delle tasse che raccoglie finisce a Madrid. Secondo gli esperti questo produce un deficit che corrisponde a una quota tra il cinque e l’otto per cento del pil catalano.

Questi conflitti non spariranno. Più Rajoy usa il pugno duro con i separatisti, più lo scontro è destinato a crescere. Anche perché a molti catalani il suo comportamento ricorda la repressione subita durante la dittatura di Francisco Franco.

Misura estrema

Artur Mas, il predecessore di Puigdemont, ha governato la regione per mezzo decennio ed è considerato il padre intellettuale del movimento indipendentista. Nonostante le perquisizioni, i sequestri e gli arresti, è convinto che il referendum si farà. “I preparativi per il referendum continuano”, dice nel suo ufficio. Mas sostiene che le schede possono essere stampate in venti- quattr’ore. “Abbiamo le urne. Abbiamo i seggi elettorali. E presto la gente saprà dove andare il giorno del voto”.

Secondo Mas il governo spagnolo è già riuscito a mettersi contro metà della popolazione catalana, e potrebbe ritrovarsi a fare i conti con un numero ancora più alto di cittadini che lo contestano. “Il movimento democratico non ha mai avuto tanti sostenitori”, afferma. “Anche i catalani che non vogliono l’indipendenza sono contrari a questo stato di polizia”.

L’ultima arma a disposizione di Rajoy sarebbe una misura estrema: potrebbe chiedere al senato di ricorrere all’articolo 155 della costituzione, che metterebbe la Catalogna sotto il controllo dello stato centrale. Ma così Rajoy, capo di un governo di minoranza, rischierebbe di perdere il potere. È già stato accusato di essere una minaccia per la democrazia, e non solo da chi simpatizza con i catalani.

Il capo del governo, per ora, non arretra di un millimetro.

Tradotto dall'Internazionale, originariamente pubblicato sul Der Spiegel, Germania

Sul banco degli imputati chi sfratta per trasformare le città e i territori in musei e parchi e i loro abitanti in comparse. La Giuria del Tribunale, costituita da attivisti ed esperti provenienti da tutto il mondo, analizzerà i casi e redigerà il verdetto e le raccomandazioni.

La Giuria Popolare, costituita dalle organizzazioni sociali che lottano per la difesa degli abitanti di Venezia, contribuirà al dibattito e alle decisioni.

La Sessione 2017 del Tribunale è un seguito del Foro Sociale Popolare Resistenza ad Habitat III (Quito, 2016), ed è organizzato nel quadro delle Giornate Mondiali Sfratti Zero da IAI assieme le organizzazioni sociali impegnate a Venezia nelle lotte per il diritto alla casa e contro lo spopolamento della città.

Il Tribunale Internazionale degli Sfratti (ITE) è un tribunale popolare e di opinione fondato nel 2011 dalla Alleanza Internazionale degli Abitanti con la collaborazione di organizzazioni della società civile nel quadro delle Giornate Mondiali Sfratti Zero per mettere praticamente ee interattivamente sul banco degli imputati i responsabili degli sfratti forzosi in tutto il mondo. Il Tribunale si avvale dell’esperienza di una Giuria internazionale competente e riconosciuta, oltre che sulla Convenzione Internazionale sui Diritti Economici Sociali e Culturali e altri strumenti della normativa internazionale per giudicare casi reali di sfratti forzosi che costituiscono violazioni dei diritti umani.Qui i casi presentati quest'anno alla Sessione di Venezia, che si tiene dal 28 al 30 settembre.

Il programma include la 6ª Sessione del Tribunale, incontri e scambi nei quartieri popolari, attività culturali, dibattiti.

il manifesto

Una cartolina da Roma, entrata ieri, con il voto quasi unanime dell’Assemblea Capitolina, tra le circa 5mila città e Regioni europee che si sono dichiarate con un atto ufficiale «libere dal Ceta». È così che l’Italia dei movimenti che si oppongono alle liberalizzazioni commerciali selvagge, ha salutato l’entrata in vigore provvisoria del trattato Ue-Canada.

«Una buona notizia, perché abolisce il 99% delle tariffe doganali canadesi con picchi in alcuni dei settori di punta del nostro export», rivendica il ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda. Peccato che la sua voce si perda in un coro di contrarietà, a partire da quella della segretaria della Cgil Susanna Camusso che ha invece chiesto al Senato, chiamato alla ratifica del trattato a partire dal 26 settembre prossimo, di fermarsi «e di promuovere i necessari approfondimenti, attendendo la verifica del suo funzionamento provvisorio, che siamo sicuri suggerirà di respingere questo trattato per contribuire a un commercio effettivamente equo e sostenibile».

Il Ceta, infatti, prima di entrare completamente in vigore deve essere votato dai due rami di tutti i Parlamenti dell’Unione perché i movimenti sono riusciti a dimostrare che è un trattato di natura mista: fatto cioè di misure commerciali, decise dall’Europa, ma anche di standard e regole che riguardano l’ambiente, la salute, il lavoro, la qualità di prodotti e servizi che non possono essere affrontati senza il benestare dei Parlamenti nazionali. Il Ceta, infatti, va a costituire una ventina di comitati euro-canadesi, i cui membri verranno decisi senza alcun coinvolgimento di noi cittadini, che su richiesta di imprese delle due parti potranno intervenire in autonomia introducendo cambiamenti nella produzione, distribuzione e progettazione di merci e servizi in modo da renderli più facili da commerciare. Se per questo saranno, però, meno amici dell’ambiente o dei nostri diritti nulla importa. Lo spiega il report curato da Greenpeace insieme all’ong americana Iatp, che punta l’indice contro gli «standard europei sotto attacco».

Se il Ceta entrasse in vigore a pieno titolo, introducendo il sistema di ricorso arbitrale (il cosiddetto Investment Court System o Ics) che consentirà agli investitori di citare quegli Stati le cui regole, a proprio giudizio, siano ingiustificatamente restrittive del commercio, le grandi corporation dell’industria conserviera delle carni, ad esempio, potranno denunciare l’Ue e gli Stati membri per i tentativi di espandere le norme sull’etichettatura di origine. Discorso analogo per la pasta e la volontà dell’Italia di introdurre relativa etichettatura d’origine. Il Canada esporta in Italia grandi quantità di frumento, che poi viene trasformato in pasta. Il presidente di Cereals Canada, Cam Dahl, ha fatto intendere la possibilità di adire le vie legali ancora prima che l’Italia avviasse l’etichettatura d’origine per la pasta, affermando di sperare «che l’Italia non faccia questo passo, ma non potendo saperlo dobbiamo essere preparati, sia per un’azione in seno alla Wto, che per misure nell’ambito del accordo commerciale Canada-Ue». Con l’entrata in vigore del Ceta, quindi, iniziative come questa potrebbero essere perseguite in modo permanente, sia a livello di Ue che di Stati membri.

Non è un caso, infatti, che Coldiretti, insieme alle associazioni di consumatori Adusbef, Federconsumatori e Movimento Consumatori, sia tra i principali oppositori del Ceta: «È un regalo alle grandi lobby industriali dell’alimentare che colpisce il vero Made in Italy e favorisce la delocalizzazione, con riflessi pesantissimi sul tema della trasparenza e delle ricadute sanitarie e ambientali», hanno affermato i produttori italiani senza mezzi termini. E insieme alla Campagna Stop Ttip Italia e alle altre organizzazioni è impegnato a mettere sotto pressione scrivendo e raggiungendo su twitter e facebook tutti i senatori italiani perché affidino a un confronto più ampio, e non a una legislatura agli sgoccioli, una decisione responsabile su quale tipo di commercio sia più adatto a difendere i nostri diritti, l’ambiente il lavoro e i legittimi interessi di imprese e cittadini.

il manifesto

Centro-sinistra sì, centro-sinistra no, alleanza con il Pd, alternativi al Pd, coalizione con Renzi, mai con l’ex presidente del consiglio, e cosi continuando. La discussione a sinistra, come al solito, è desolatamente appiattita sugli schieramenti.

E naturalmente sulle schermaglie tattiche, sui posizionamenti in vista della campagna elettorale. La vita delle formazioni politiche – chiamiamole così – gira esclusivamente intorno a questo torneo, come squadre di calcio il cui unico compito è di affrontare il campionato. Eppure, basterebbe guardare ai contenuti, alle scelte programmatiche per rendere più chiare e dirimenti le scelte di schieramento.

Consideriamo il programma della manovra economica del governo Gentiloni. A detta dello stesso presidente del consiglio essa è «in linea con quelle che l’hanno preceduta». Ce n’eravamo accorti. Dopo i 18 miliardi e passa di euro generosamente elargiti alle imprese in tre anni dal governo Renzi, ora ci si prepara a replicare un fallimento lungamente sperimentato. Di nuovo agevolazioni fiscali e incentivi a chi assume, di nuovo si pompa l’economia dal lato dell’offerta a suon di denaro sottratto alla fiscalità generale e dunque agli investimenti pubblici.

Sì, certo, nella manovra ci sono le invenzioni clientelari di contorno: l’«assegno di ricollocazione» con cui si cerca di sistemare «attivamente» disoccupati e cassintegrati o il «Reddito di inclusione attiva», con cui si dovrebbe coprire una platea di 1 milione e 800 mila individui con un assegno oscillante tra 190 e 485 euro mensili.

Gocce nel mare della disperazione sociale. Mentre per il Mezzogiorno si pensa addirittura alle «Zone economiche speciali» con facilitazioni fiscali e semplificazioni di procedura per i giovani che avviano imprese e naturalmente per le multinazionali che dovrebbero essere attratte da ulteriori condizioni di favore. Come se non bastassero i bassi salari dei lavoratori italiani e la loro piena disponibilità da parte delle imprese. Evidenti palliativi di sostanza ma che consentono al governo e al Pd una narrazione di impegno sociale elettoralmente utile.

Ora, per cortesia, un po’ di storia. Intanto osserviamo i brillanti risultati, a tutti noti, in termini di occupazione, soprattutto giovanile, tralasciando il processo di precarizzazione che è dilagato nel mondo degli occupati. Questa politica di agevolazione fiscale alle imprese è la vecchia supply-side economics, l’economia del sostegno all’offerta, una invenzione del pensiero neoliberistico. E non esprimiamo una idisioncrasia intellettuale. Parliamo sulla base di prove storiche.

L’amministrazione di G. W. Bush, ad esempio, ha tagliato, in due trance di ben 1025 miliardi di dollari le tasse ai ricchi degli Usa, senza che tanta generosità si traducesse in nessun modo in slancio dell’economia americana. E soprattutto dell’occupazione. I ricchi privati, ha ricordato James Galbraith – che ha ribattezzato la teoria supply-side failure – «hanno risposto punteggiando il paesaggio di case signorili». Hanno cioè investito nella rendita e nel lusso.

Ma questa politica – praticata nel mondo da gran parte dei governi nell’ultimo trentennio – rappresenta uno degli assi strategici, forse il più rilevante e decisivo, che ha condotto alla Grande Crisi del 2008. Essa ha prodotto un gigantesco trasferimento di ricchezza dai ceti popolari alle classi abbienti, ha generato le abissali disuguaglianze che abbiamo sotto gli occhi e che attanagliano nella stagnazione l’economia mondiale. Da noi, per soprammercato, alimenta un enorme debito pubblico.

Continuare su questa linea, come fa oggi il governo Gentiloni, ha delle conseguenze rilevanti. Se i soldi vanno alle imprese scarseggiano per un grande programma di ristrutturazione del territorio, non ci sono per la ricerca e l’Università, per le borse ai giovani bisognosi che rinunciano a proseguire gli studi, non ci sono per i comuni che non riescono a garantire i servizi essenziali, non ci sono per gli investimenti nel nostro Sud.

Il nobel Paul Krugman, nel 1998, sosteneva a proposito della teoria dell’offerta che «Gli errori economici non muoiono mai: nella migliore delle ipotesi, si affievoliscono lentamente». E c’è ovviamente del vero. Ma poiché noi non crediamo, nel nostro caso, nella capacità del nostro ceto politico di elaborare teorie economiche, riteniamo che le opzioni del governo Renzi (Jobs Act, abolizione dell’Imu sulla prima casa, ecc) e quelle attuali di Gentiloni siano una deliberata strategia di classe.

Il Pd ha scelto con piena consapevolezza di insediarsi socialmente, di fondare i propri consensi negli interessi del mondo imprenditoriale e della finanza. Punto.

Tutto il resto è manovra propagandistica per mantenere un po’ di consenso nel vecchio blocco popolare su cui si fondava il Pci. È di questo che si dovrebbe discutere, delle conseguenze di tale strategia per il destino del paese e scegliere da che parte stare.

L'Espresso, « In un mondo in preda a populismi e caos la Merkel si prepara al quarto mandato rassicurando i tedeschi e l'Ue con la "letargocrazia".


Se prestiamo fiducia ai manifesti elettorali attaccati dai silenziosi iscritti dei partiti su ogni superficie libera da Greifswald sino giù a Berchtesgaden, la prossima settimana si dovrebbero tenere nella Repubblica Federale le elezioni per il nuovo Parlamento di Berlino. Una data di cui ci si ricorderà con qualche tecnica mnemonica, dato che nulla lascia presagire che ci attendano elezioni significative o che gettino la politica tedesca, la cancelleria o le prossime coalizioni di governo in acque più agitate. Persino il termine "campagna elettorale" suona come una citazione d'altri tempi. E la parola "decisione" come un ghirigoro su una vecchia carta da parati.

Certo, la televisione, affiancata dagli altri media, fa quel che può per alimentare una certa tensione, e i soliti sospetti si danno il cambio davanti alle telecamere declamando i loro copioni. Ma nel pubblico non c'è nessuno che abbia il sentimento che alle elezioni del 24 settembre vi siano in gioco differenze essenziali. Tutti i segnali danno invece via libera alla continuità. A parte alcuni radicalismi verbali della sinistra estrema o dei Verdi, i portavoce dei partiti fanno a gara per strapparsi di bocca gli argomenti più razionali. E mentre in Francia la politica si ringiovanisce in modo drammatico, negli Stati Uniti ci si concede una stagione nel Caos, in Italia - come al solito - ci si dà all'improvvisazione, in Polonia e Ungheria ci si avventura più a fondo nel tunnel dell'isolamento nazionale, la Germania resta quel che è stata nei decenni scorsi: una Potenza tranquilla.

In questo autunno 2017 la Germania fa tornare in mente la formuletta con cui un tempo alla scuola guida si spiegava una regola decisiva del traffico stradale: "La precedenza spetta a chi si trova sulla rotatoria". Da 12 anni, su tutto il traffico tedesco, domina una Kanzlerin decisa, a quanto pare, a restare nella sua corsia sino al compimento del 16° anno. Nessun osservatore della scena berlinese dubita che il prossimo 24 settembre lei non reclami la precedenza assoluta. L'unica questione aperta è se toccherà ai liberali della Fdp, guidati da Christian Lindner, il loro quasi carismatico capo, formare una nuova coalizione, o se la Kanzlerin dovrà arrangiarsi ancora con i socialdemocratici, seguendo il modello del primo (2005-2009) e del terzo (2013-2017) governo Merkel.

È evidente che una variante "nero-gialla", un governo cioè della Cdu e Fdp, sia politicamente più "interessante" della ripetizione della coalizione "nero-rossa". Ma è proprio la questione di ciò che sia ancora "interessante" nella politica tedesca che si rivela come la croce che non può essere compresa senza il Fattore-Merkel. Rientra nei connotati psico-sociali dell'era Merkel il fatto che la cancelliera abbia estirpato all'elettorato il senso di ciò che è politicamente "interessante" (o di ciò che un tempo si sarebbe forse definito "progressivo"). Già nell'era Adenauer l'Unione cristiano-democratica mieteva successi con lo slogan alquanto filisteo : "Keine Experimente", Nessun esperimento. Una tesi che venne poi ricopiata dal Vaticano e posta a fondamento dei suoi pronunciamenti di etica sessuale. Resta sorprendente che all'inizio del terzo millennio, in un mondo estremamente dinamico, alla Signora Merkel sia riuscito di risvegliare una tendenza avversa agli esperimenti.

Per comprenderne il fenomeno occorre tener presente che la Merkel ha introdotto nel gioco politico alcuni fattori senza i quali non è possibile spiegarne il successo. La Kanzlerin è la prima persona a capo di uno Stato ad essersi servita della forza politica della Noia: una noia che Merkel combina con le sue oscillazioni producendo una miscela alquanto strana di affidabilità e imprevedibilità. A quanto pare è proprio questo curioso legame a convincere la maggioranza dell'elettorato tedesco. Se in Germania si potesse eleggere direttamente il cancelliere infatti, una maggioranza-Merkel sarebbe garantita sino al 2030. Sono i momenti di volatilità nel comportamento della Merkel a dar l'impressione che a Berlino si governi in modo molto deciso. I momenti di noia d'altro lato suscitano l'impressione che non ci si debba preoccupare più del necessario; mentre la naturale resistenza della popolazione alle profonde trasformazioni si rispecchia nell'apparente inerzia del governo di Berlino.

Questo stile di governo della Merkel è già stato definito "Letargocrazia", termine che caratterizza sia la lentezza dei suoi riflessi politici che la mancanza di profilo. "Letargocratico" è l'uso insistente che la Merkel ha fatto dell'arma della Noia, con cui ha indotto una parte consistente dei tedeschi a non interessarsi più di tanto delle questioni politiche. Allo stesso scopo punta anche la calcolata ingenuità della sua lingua che ha bandito ogni accenno di creatività, e ogni prontezza di spirito, dagli affari della politica. Il modo di presentarsi in pubblico della Merkel - i suoi gesti, i vestiti, il taglio dei capelli... - sono tutti elementi di una retorica della modestia. Lei sorride anche a chi è così ingenuo da sottovalutarla. Né è plausibile crederla vanitosa. Persino il suo rivale è pronto a credere che lei non sprechi un istante a chiedersi come apparirà sulla passerella del potere. Anche lo spietato candore con cui sinora ha respinto sullo sfondo tutti i suoi possibili rivali, eguale se uomini o donne, rientra nelle linee della sua letargocrazia.

Ma il suo capolavoro Merkel lo ha realizzato penetrando negli anni nel cuore del territorio del suo avversario per diffondervi la suggestione che siano in realtà i suoi cristiano-democratici i migliori socialdemocratici. Per meglio rendere questo effetto è stata disposta anche ad estraniarsi l'ala destra del partito. Una parte di questi conservatori è poi migrata in un nuovo movimento che, ironicamente, si chiama "Alternativa per la Germania", ma che de facto non offre un'alternativa se non alle frange di destra più frustrate dell'Unione di Cdu e Csu, e a un variegato popolo di falliti, semifalliti e amanti di frasi, gesti e assurdità varie col tricolore "nero-rosso-oro". Di sicuro non è l'emigrazione di questa gente a rubare il sonno alla Merkel: lei sa che con la sua strategia guadagna più voti al centro di quanti ne perda a destra. Con la Merkel, insomma, tramontano per sempre i tempi in cui i Cristiano-democratici fungevano da rifugio d'emergenza a vecchi nazisti o a neo-nazionalisti. E di sicuro la maggior parte dei tedeschi del 2017 non indovina più ciò a cui pensava Franz Joseph Strauß quando (presumibilmente negli anni '70) coniò lo slogan: «Più a destra di noi c'è solo il muro», cioè nessuno.

Per questo negli ultimi tempi il Fenomeno Merkel viene seriamente studiato dalle scienze politiche. Sulla scorta della sua persona una parte di questi teorici indaga la questione della cosiddetta "Egemonia involontaria". In effetti è difficile negare che la Germania, senza davvero averla ambita, si è ritrovata in una posizione egemonica all'interno d'Europa. Da Konrad Adenauer a Willy Brandt, e da Helmut Schmidt sino a Helmut Kohl la costante della politica tedesca stava nel togliere ai vicini europei il timore di una rinnovata Potenza Germania. Da questo punto di vista Angela Merkel è da considerarsi senza dubbio come una fortuna: nella sua personalità non si può trovare assolutamente nulla che rimandi a una nevrosi di stampo nazionalistico. Lei rappresenta anzi l'incarnazione della costante ricerca, libera da ogni megalomania, del compromesso tra gli interessi tedeschi e quelli dei nostri vicini. In questo senso lei è l'anti-Berlusconi, l'anti-Putin, l'anti-Erdogan, l'anti-Kaczynski, l'anti-Orbán e l'anti-Trump in una persona sola. Non occorre essere un fine troubadour per percepire tutto il benefico effetto di questa sua contrapposizione al patologico machismo della politica attuale.

Politologi e strateghi ne presentano d'altra parte un bilancio più critico: per alcuni di loro Angela Merkel riveste un ruolo di primo piano nella storia della depoliticizzazione della politica. Ad alcuni analisti – come Heiner Mühlmann ha evidenziato di recente in un saggio sulle pagine della "Neue Zürcher Zeitung" – il suo Quasi-Matriarcato appare come una mossa fatale di quell'altro metodo che gli analisti chiamano "demobilitazione asimmetrica".

Che essenzialmente consiste nello spruzzare sulla scena politica tanto di quel cloroformio sino a quando la maggior parte della popolazione non sia crollata in uno stato di dormiveglia. La norma ovviamente è di anestetizzare più a lungo possibile specie il campo dell'avversario; e, almeno sotto elezioni, di consentire ai propri seguaci di risvegliarsi più in fretta dei rivali.
Se tutto va secondo i piani, gli ammiratori di Angela Merkel si risveglieranno il 24 settembre abbastanza decloroformizzati per rivotare lei e il suo partito. Gli avversari invece si riprenderanno probabilmente troppo tardi dalla loro anestesia. Tutto fa pensare quindi che presto ne sapremo di più di un quarto governo della Merkel.

Traduzione di Stefano Vastano

il Fatto Quotidiano

“Questo sarebbe il tempo giusto per un nuovo Marx, ma il pensiero non si coltiva in serra e la storia non coincide con la nostra biografia. Avremmo bisogno di uomini che stiano un gradino più in alto del resto della società e invece ci ritroviamo a essere governati con gente che è risucchiata nel gorgo della stupidità. Come si può pensare alla rivoluzione – qualunque tipo o modello di riforma strutturale dell’esistente – se il nostro sguardo sul mondo è destinato per tutto il giorno unicamente alle variazioni sul display del nostro telefonino?”.
Era il 1867 quando fu pubblicato il Libro I del Capitale di Karl Marx. Centocinquanta anni fa il filosofo di Treviri mandò alle stampe il volume che avrebbe promosso, sostenuto e accompagnato passioni e reazioni, condotto in piazza milioni di persone, trasformando il senso del giusto e dell’ingiusto. E Aldo Masullo, classe 1923, massimo studioso delle differenze tra idealismo e materialismo, ha attraversato il secolo scorso leggendo e rileggendo Marx per i suoi studenti.
“Un’opera immensa. Ha annunciato il nuovo mondo. Ha spiegato e anticipato i caratteri del mondo borghese, del principio del tutti almeno formalmente uguali, della statuizione che ciascuno, indifferentemente dalla condizione sociale, è pari all’altro. Si usciva dal feudalesimo, dalla vita legata dallo status: feudatario, vassallo, plebeo. Grazie a lui si apre il mondo moderno, si afferma il principio della uguaglianza astratta. Sia che tu sia dritto o gobbo, intelligente o stupido, avrai da pagare le stesse mie tasse”.
Marx sembra Dio.
“L’enormità del suo pensiero non è sempre valutabile positivamente. Perché tutto ciò che è enorme straripa di fronte alle necessità dell’uomo. La storia che noi viviamo è sempre più grande della nostra condizione”.
Era troppo avanti?
“Sì, potremmo dire con un linguaggio attuale che ha esondato un po’”.
Non c’è dubbio però che grazie a lui il lavoro non è divenuto solo merce da vendere ma anche un valore da difendere.
“Quanto è stata grande e rivoluzionaria questa consapevolezza? Quanto ha fatto Marx perché fosse contrastato il principio secondo il quale lavoratore vende forza lavoro e il capitalista lo compra. Il teorema per cui tutto si può comprare e tutto si può vendere. E infatti oggi si vende anche la dignità. Tutto ha un prezzo: nelle democrazie fragili sudamericane o in quelle africane non c’è giudice che non si possa comprare, non c’è sentenza che non si possa addolcire”.
Lei parla dell’oggi, come se i progressi del secolo scorso non fossero serviti a niente. Tutto regredisce, si torna indietro.
“No. Ricordi che la storia è dinamica, è movimento e non coincide con il tempo che viviamo. La grandezza di Marx è stata quella di aver aiutato l’umanità almeno a ricercare forme nuove di vita, a conquistare spazi in cui la dignità e la libertà acquisissero un senso diverso e nuovo”.
Il comunismo relegò in gattabuia le libertà e costrinse milioni di persone a una vita di stenti.
“Parlo dei diritti conquistati durante le grandi lotte sociali nell’Occidente libero e democratico. Grazie a quella spinta teorica siamo giunti allo sciopero, che è un diritto diverso dalla rivoluzione o dalla sovversione. Si stabilisce attraverso delle regole la possibilità del massimo conflitto col massimo rispetto della legge. È una cosa enorme”.
Perché oggi sembra tutto così lontano, così perduto? Non ha più senso parlare di lotta di classe, fa sorridere solo immaginarla possibile. E i diritti regrediscono, il lavoro torna a essere merce, quindi ad avere un prezzo senza nessun valore.
“Quando si hanno trasformazioni degli assetti sociali così cruente, quando la classe dirigente si connette fino a divenire satellite del potere finanziario, il capitale, o meglio i capitalisti, non trovano più conveniente investire nella capacità produttiva, ma investono nel circuito finanziario globale. La moneta produce moneta e tutto si concentra nello sviluppo di tecnologie che riducano la necessità dell’apporto della forza lavoro. Piano piano il lavoro manuale viene dismesso, poi anche quello intellettuale non creativo”.
L’operaio come una escrescenza sociale.
“Bauman parla di scarto. Divengono elementi di scarto. Certo, non succederà che finiremo di morire di fame ma si ridurrà il prezzo e il valore del lavoro. Si entra nel campo della misericordia, della pietas”.
Il declino inarrestabile.
“Lei si fa condizionare dall’angoscia dell’attualità che non trova risposte. Ma i tempi della storia non corrispondono a quelli della cronaca. E se, come abbiamo detto e ripetuto, la storia è movimento, le crisi recessive sono parti di quel movimento”.
Quindi cosa resta del grande Marx, solo cenere?
“Il suo pensiero ha costruito il mondo nuovo, il mondo moderno che abbiamo conosciuto. La regressione civile ed economica che stiamo vivendo non può in ogni caso sospendere i caratteri fondativi della natura umana, l’elementarietà dell’uomo con i suoi bisogni indefettibili e irrinunciabili. È certo che l’uomo continuerà a mangiare, a sperare, a fare l’amore”.
Non ci sono più i pensatori di una volta.
“È la constatazione di una povertà generale e trasversale. Non è solo la classe dirigente del nostro Paese, è l’autorità che ha perso ogni distintivo di capacità di guardare oltre. Alzi lo sguardo e cosa vedi? Cordate di leader collegati a cordate di multinazionali, in una cointeressenza tra funzione di governo e speculazione finanziaria che erode spazi di libertà, di avanzamento professionale e culturale. C’è poi una parte del mondo soggiogata dal circuito malefico dell’industria delle armi che la priva – è il caso dell’Africa e dell’Oriente – di ogni dignità e la costringe a una migrazione senza diritti”.
Ma abbiamo detto che l’uomo spera.
“Questo è il tempo della stupidità al potere. La storia ci dirà quanto avrà resistito”.

«È lo stesso mercato a prevedere il mancato pagamento fra i rischi assunti dai creditori, i cui tassi di interesse calcolano il rischio del non rimborso».

il manifesto, 2 settembre 2017 (c.m.c.)

Parlare di annullamento del debito oggi significa affrontare un vero e proprio tabù. Secondo la narrazione dominante, infatti, un mancato pagamento è qualcosa di eccezionale che bisogna evitare a ogni costo. Peccato che la storia si incarichi di dimostrare l’esatto contrario. La prima proclamazione di annullamento del debito di cui si ha riscontro risale all’anno 2400 a.C. nella città di Lagash (Sumer), mentre il regno di Hammurabi, re di Babilonia (1792-1750) fu contrassegnato da quattro annullamenti generali dei debiti dei cittadini con i poteri pubblici. In totale, gli storici hanno identificato con precisione una trentina di annullamenti generali del debito in Mesopotamia tra il 2400 e il 1400 a. C..

Venendo a tempi più recenti, nel periodo 1800-1945 si contano 127 cessazioni del pagamento, mentre negli ultimi sessanta anni (1946-2008) si sono avuti non meno di 169 sospensioni del pagamento di debiti sovrani, della durata media di tre anni. Per fare solo alcuni esempi, dalla propria indipendenza fino al 2006 l’Argentina ha dichiarato 7 cessazioni del pagamento, il Brasile nove e il Messico otto; in Europa, la Spagna ha dichiarato una cessazione del pagamento 13 volte, mentre la Germania e la Francia 8 volte ciascuno.

Ma che significa annullare un debito? Significa dare il via a un processo di indagine (audit) indipendente sul debito pubblico per verificare nel dettaglio come, da chi e con chi è stato contratto, per quali obiettivi e interessi e con quali conseguenze per le condizioni di vita degli abitanti.

Significa, in altri termini, dire al Ministro dell’Economia Padoan che la nuova stagione delle privatizzazioni che intende aprire per abbattere il debito – una superholding in cui far confluire tutte le partecipazioni dello Stato sotto il cappello di Cassa Depositi e Prestiti, per poi privatizzare il 50% di quest’ultima – è una trappola a cui non vogliamo più sottostare, perché ciò che va rimessa in discussione è la legittimità stessa del debito.

La sola idea di un percorso di questo tipo fa inorridire le grandi lobby dei poteri finanziari, le quali – nel più classico stile degli usurai – sono meno interessate all’effettivo saldo di quanto «dovuto», che non al mantenimento della catena che lo stesso pone alle rivendicazioni di reddito, beni e servizi delle popolazioni.
Ma è un passaggio obbligato se si vuole uscire definitivamente dal cappio delle politiche liberiste.

D’altronde, è di nuovo la storia a dimostrare come, quando è stato ritenuto necessario per superiori interessi geopolitici, il debito sia stato cancellato con un semplice tratto di penna dagli stessi creditori: è stato così per la Germania nel 1953, quando la necessità di una Germania Ovest economicamente forte di fronte all’Urss e ai suoi alleati ha permesso la quasi totale cancellazione degli ingenti debiti post seconda guerra mondiale; ed è stato così per l’Iraq nel 2004, quando le nuove autorità, designate dalle forze di occupazione, beneficiarono di una riduzione del debito bilaterale (dovuto ad altri Stati) nell’ordine dell’80%.

Ma è d’altronde lo stesso mercato a prevedere il mancato pagamento fra i rischi assunti dai creditori, i cui tassi di interesse calcolano il rischio del non rimborso, altrimenti non si capirebbe l’esistenza dello spread fra un paese e l’altro. Perché delle due l’una: o si dichiara impossibile il mancato pagamento e allora il denaro dovrebbe essere prestato a tutti allo stesso tasso d’interesse o si presta il denaro a tassi differenti perché si prevede la possibilità del non pagamento, che dunque può avvenire, come affermato nel 1999 dal Consiglio dei diritti dell’uomo, ogniqualvolta. «l’esercizio dei diritti fondamentali della popolazione dei paesi debitori all’alimentazione, all’abitazione, al lavoro, all’educazione, ai servizi sanitari e a un ambiente salubre non possono essere subordinati all’applicazione di politiche di aggiustamento strutturale e di riforme economiche legate al debito».

Si tratta in buona sostanza di dire a chiare lettere che le nostre vite vengono prima del debito, i nostri diritti prima dei profitti e il «comune» prima della proprietà.

È quello che si appresta a mettere in campo Cadtm Italia nei prossimi mesi.

«Si tratta di un embrione il cui sviluppo andrà sorvegliato con attenzione perché i limiti evidenti che lo caratterizzano non diventino strutturali».

la Repubblica, 30 agosto 2017 (c.m.c)

Con il completamento dell’ultimo passaggio, anche l’Italia avrà finalmente un embrione di reddito minimo per i poveri a livello nazionale. Per chi si batte da decenni — fin dalla prima Commissione povertà presieduta da Gorrieri nel 1986 — perché questo avvenisse, è sicuramente una buona notizia. L’esistenza di una rete di protezione di ultima istanza è un pezzo importante del sistema di welfare, che ne qualifica il carattere solidaristico e non solo di assicurazione contro i rischi. È anche importante che accanto al sostegno al reddito siano previste attività diversificate di integrazione sociale, che vedano coinvolti più attori locali: dalla formazione all’accompagnamento al lavoro, ai servizi di riabilitazione, al sostegno alla partecipazione sociale.

Anzi, sarà opportuno che non ci si limiti a coinvolgere solo le associazioni di volontariato e di terzo settore, come si tende a fare quando si tratta di poveri, ma anche le agenzie del lavoro e le associazioni datoriali. Si tratta tuttavia di un embrione il cui sviluppo andrà sorvegliato con attenzione perché i limiti evidenti che lo caratterizzano non diventino strutturali. Il primo limite, da cui derivano in larga misura gli altri, è il sotto-finanziamento.

Anche se raggiungesse i due miliardi per il prossimo anno, come sembrerebbe da alcune fonti (ma altre danno una cifra inferiore), non servirebbe a coprire tutti i quattro milioni e 598 mila poveri assoluti stimati in Italia, e neppure tutto il milione e 131 mila minori al loro interno, nonostante le famiglie con minori siano nel gruppo identificato come il target prioritario della misura. Proprio per questo, almeno per ora, la soglia Isee che dà accesso al Reddito di inclusione è stata fissata a un livello più basso (6000 euro) di quello che individua la povertà assoluta e l’importo massimo erogabile per famiglie molto numerose non supera quello della pensione sociale, nonostante questo sia stato pensato per rispondere ai bisogni di un anziano solo, non di una famiglia numerosa. È per lo meno curioso che venga fissato questo criterio proprio mentre, su altri tavoli, ancora una volta ci si preoccupa di integrare le pensioni sociali ed anche quelle minime.
La combinazione di soglie di Isee e importi del sussidio molto bassi rende altamente probabile che vengano selezionati i casi non solo di povertà più estrema, ma che hanno più difficoltà ad uscire dalla povertà tramite l’accesso a occupazioni adeguatamente remunerate. Questo rischio è rafforzato dai criteri aggiuntivi introdotti per accedere prioritariamente al sostegno, ovvero le caratteristiche della famiglia: presenza di minori, di donne incinte, di ultracinquantacinquenni disoccupati di lungo periodo e non beneficiari di Naspi, disabile. Chi è giovane o comunque ha meno di cinquantacinque anni, non ha figli minori, non è incinta, non è disabile e non vive con nessuna di queste categorie di persone, difficilmente avrà accesso al sostegno a parità di condizioni economiche, o anche se sta peggio. Escluse sono anche, a parità di Isee, le famiglie in cui anche un solo componente fruisca del Naspi o abbia una occupazione, in contraddizione con l’obiettivo di incentivare i beneficiari a trovare una occupazione.
Alla luce di questa individuazione restrittiva dei beneficiari, che rende il Rei poco universalistico e tendenzialmente categoriale, tanto più assurda appare la norma che fissa in 18 mesi il periodo massimo di godimento del sussidio. Innanzitutto perché logica vorrebbe che, così come avviene nella maggior parte dei paesi, il sostegno si dà finché il bisogno persiste. Si possono, anzi devono, fare controlli periodici sulla partecipazione dei beneficiari alle attività proposte e sulla loro effettiva disponibilità ad impegnarsi. Ma se, nonostante tutto l’impegno e la disponibilità, non si è trovata una via di uscita, perdere il sostegno significa ritornare al punto di partenza.

Difficile che nei sei mesi di attesa obbligatoria prima di poter fare di nuovo domanda di sostegno la situazione migliori. Anzi il rischio è che si interrompano percorsi potenzialmente virtuosi. In secondo luogo, è ampiamente noto che sono le persone con meno difficoltà personali e famigliari ad uscire più velocemente dall’assistenza. Chi ha più difficoltà richiede più tempo.

Perché questo embrione di sostegno ai poveri diventi davvero un pilastro del welfare, dove si combinano protezione e abilitazione, riconoscimento di diritti e di responsabilità, occorrerà correggere al più presto questi ed altri limiti che ne vincolano pesantemente la portata. Lo strumento per farlo è il piano nazionale contro la povertà, che prevede uno strumento di pianificazione triennale. Secondo gli estensori del provvedimento, questo dovrà gradualmente ampliare la platea dei beneficiari, l’importo del Reddito di inclusione, il massimale del beneficio e il limite mensile di prelievo in contanti, oggi limitato solo al 50 per cento dell’importo, mentre il resto è vincolato all’acquisto di determinati beni. Sarà importante che questa pianificazione avvenga ascoltando chi lavora sul territorio e chi conosce le esperienze consolidate di altri paesi. Ed anche che si coordini con gli altri tavoli in cui si discute di distribuzione di risorse scarse.

In Italia e in tutto Europa è la perdita di socialità (insieme a quella di umanità) a essere il vero problema. Perciò l'Europa «va rifondata alle radici: con un nuovo "manifesto di Ventotene" che metta al centro accoglienza e solidarietà, ma soprattutto socialità.

il manifesto, 15 agosto 2017


Codice Minniti. Bisognerebbe chiedersi perché il Governo della Libia o quello che viene spacciato per tale è così pronto a riprendersi, anche con azioni di forza, quei profughi che tutti i Governi degli altri Stati, sia in Europa che in Africa, cercano di allontanare in ogni modo dai propri confini.

La verità è che a volerli riprendere non è quel Governo, ma sono le due o tre Guardie costiere libiche che fanno finta di obbedirgli, ma che in realtà lo controllano; e a cui l’Italia sta dando appoggio con dovizia di mezzi militari. Ormai si sa che quelle Guardie costiere sono in mano a clan e tribù coinvolte nella tratta dei profughi e nel business degli scafisti. E che una volta a terra profughe e profughi riportati in Libia saranno imprigionati e violate di nuovo e torturati per estorcere un riscatto alle loro famiglie; oppure venduti ad altri scafisti che faranno loro le stesse cose; fino a che non li imbarcheranno di nuovo, non prima di aver fatto pagar loro, per la seconda volta, il passaggio. Per farlo meglio hanno riattivato una zona Sar fantasma, proibendo alle Ong di entrarvi. Quello che Minniti cercava e non era riuscito a fare con il suo codice di condotta. Un business così, legittimato da un Governo straniero, dall’Unione europea e dall’Onu, nessun criminale al mondo se l’era finora sognato...

Dunque non è Minniti, e non le Ong, ad aver fatto accordi con i veri scafisti, invece di cercare di impegnare il Governo italiano, con tutte le sue carte residue, in un vero confronto con il resto dell’Unione europea per mettere al centro un programma condiviso di accoglienza (di cui, a questo punto, solo un movimento di massa di respiro europeo potrà farsi carico). E’ una grande presa in giro degli italiani ed è un crudele abbandono di migliaia e migliaia di persone in balia di veri e propri carnefici di cui la magistratura non sembra volersi accorgere in vista, perché di questo si tratta, delle prossime elezioni. Ma il prezzo è molto alto per tutti: della presenza di Minniti in questo governo, ma anche del suo passaggio su questa Terra, resterà per decenni non la sua effimera e cinica popolarità attuale, ma il suo sostanzioso contributo alla disumanizzazione della società. Ma che cosa rende possibile una politica simile?

Non si è riflettuto abbastanza sul rapporto tra umanità e socialità e tra perdita dell’una e perdita dell’altra. Ma quel rapporto è sotto i nostri occhi. Mentre imperversano denigrazione e criminalizzazione delle Ong impegnate a salvare decine di migliaia di profughi altrimenti condannati a una morte orrenda, martedì 8 a Bologna sono stati sgomberati con violenza due centri sociali con alle spalle straordinarie pratiche di supporto alla vita sociale dei rispettivi quartieri: attività culturali autogestite, nido per i bambini, scuole di italiano, feste di quartiere, orto urbano, mercatino, accoglienza dei profughi in forme civili e solidali che li hanno fatti accettare e apprezzare da tutto il vicinato, mensa popolare, impegno politico, responsabilità amministrative, ecc.

Quegli sgomberi non sono i più recenti episodi, ma non saranno gli ultimi, di una campagna di desertificazione culturale e sociale perseguita con pervicacia da partiti, magistratura, polizia, amministrazioni locali e speculazione edilizia, con cui in tante città si stanno chiudendo decine e decine di punti di ritrovo cinema, teatri, palestre, ricoveri, mense, centri artistici, laboratori e altro animati da giovani e meno giovani impegnati a dare corpo alle basi della convivenza: che è incontro, confronto, solidarietà, impegno, sicurezza, autonomia personale conquistata attraverso attività condivise: una scintilla di vita nell’oceano dell’omologazione imposta da consumismo, carrierismo, competizione, pubblicità e media di regime; ma anche, e soprattutto, da precarietà, sfruttamento, insicurezza, disperazione e solitudine. Quegli sgomberi vengono tutti effettuati in nome della «legalità»: cioè della proprietà privata; anche quando, come nel caso del Labas di Bologna, ma non è il solo, la proprietà è sì privata, ma il proprietario è pubblico; e vuole far cassa con la speculazione su edifici occupati da chi ne ha fatto uno strumento di lotta contro il degrado di città e quartieri.

Quella desertificazione sociale e culturale è portata avanti da quasi tutte le forze politiche; i 5 Stelle non hanno esitato nemmeno a cacciare dalla sua sede storica il Forum dell’acqua che tanto aveva concorso al loro immeritato successo. Allo stesso modo vengono avvolti nel silenzio, e poi denigrati, tanti movimenti che si formano spontaneamente. Il messaggio è chiaro: riunirsi ed esprimersi in autonomia è un crimine: si fa di tutto per impedirlo. Ma una città senza socialità trasforma gli uomini in cose e i suoi abitanti perdono capacità e voglia di mettersi nei panni degli altri, che è la base della solidarietà.

E’ in questo brodo di coltura che matura quel trionfo dell’inumano di cui solo ora, di fronte alla persecuzione delle Ong che salvano i naufraghi, qualcuno persino Repubblica e una parte dei 5stelle comincia ad accorgersi. È tre anni e più che tutti i teleschermi e le prime pagine dei giornali sono occupate giorno e notte in modo spudorato dalle infamie razziste di un Salvini e dei suoi sodali a 5 stelle. Per una ragione precisa: far passare Matteo Renzi come l’unico baluardo contro il dilagare delle destre. E ora se ne vedono i risultati, con Renzi completamente risucchiato da Salvini e da quel «aiutiamoli a casa loro» che vuol solo dire «facciamoli morire lontano da qui». Una strada peraltro percorsa da quasi tutte le maggioranze di governo europee (e anche da molte delle loro opposizioni) che sta facendoci precipitare in una notte nera che l’Europa ha già conosciuto e che l’Europa unita avrebbe dovuto evitare che si ripetesse. Per questo va rifondata alle radici: con un nuovo «manifesto di Ventotene» che metta al centro accoglienza e solidarietà, ma soprattutto socialità.

«e». Internazionale online, 29

Come si misura la malvagità umana? A volte è fin troppo facile. Quest’estate le città britanniche devono fare i conti con le conseguenze di diversi attentati terroristici ed episodi di razzismo. L’attentato di Manchester. Gli omicidi sul ponte di Westminster. L’orrore del London Bridge. L’attentato contro le persone che si trovavano fuori dalla moschea di Finsbury Park nella parte nord di Londra e in altre moschee. O gli uomini non identificati che sono ancora a piede libero nella capitale dopo aver spruzzato acido sui visi dei passanti, sfigurandoli.

Nel Regno Unito la resilienza che mostriamo di fronte a questi episodi è encomiabile. Tornando a Londra dopo aver passato un po’ di tempo fuori, mi sono sentita rinfrancata da un numero del magazine del London Evening Standard che celebrava le persone comuni che si erano fatte avanti per dare il loro aiuto dopo queste atrocità. I paramedici che hanno lavorato per tutta la notte. Il cuoco romeno che ha nascosto le persone nella sua panetteria. Il tifoso di calcio che si è scagliato sui terroristi del London Bridge urlando: “Fottetevi, forza Milwall!”. Lo studente che ha ospitato il coordinatore che organizzava l’assistenza alle vittime dell’inferno scatenatosi alla Grenfell Tower e alle loro famiglie.

Fermi tutti. Aspettate un secondo. Uno di questi episodi non è uguali agli altri. Il disastro della Grenfell Tower, nel quale sono morte almeno ottanta persone, non è stato un attacco terroristico o un atto doloso. È semmai il risultato di anni di decisioni sciagurate prese dagli amministratori di condominio e di investimenti inesistenti per le case popolari.

Il 14 giugno intere famiglie sono bruciate vive nelle loro case, in parte perché, a quanto pare, il Royal Borough of Kensington and Chelsea non ha voluto pagare le cinquemila sterline necessarie per i rivestimenti antincendio. Né è stato in grado di trovare i soldi, nonostante il bilancio positivo, per installare un efficace sistema di valvole antincendio all’interno di un edificio che stava andando in malora.

Kensington and Chelsea è un municipio governato dai conservatori che, per quanto riguarda il denaro investito, s’interessa poco o nulla ai cittadini più poveri che difficilmente voteranno per loro. Nel 2014, mentre ai residenti della Grenfell Tower erano negate semplici operazioni di manutenzione, gli amministratori hanno concesso delle riduzioni di cento sterline ai contribuenti più ricchi, sbandierando i risultati ottenuti nel “garantire costantemente una maggiore efficienza migliorando i servizi”. Questa efficienza aveva dei nomi, dei genitori e dei figli.

Si tratta di una stortura morale assoluta. Una stortura che nega le proprie responsabilità, fino a quando questa negazione finisce per prendere fuoco. Prendendo a prestito un’espressione di Friedrich Engels, John McDonnell ha descritto il disastro della Grenfell Tower come un “omicidio sociale”. Il cancelliere ombra ed ex voce critica della sinistra parlamentare non è mai stato famoso per la cautela delle sue dichiarazioni.

Naturalmente la stampa conservatrice ha fatto a gara per condannare McDonell, non perché avesse torto ma per la sua mancanza di discrezione. “In questo paese c’è una lunga tradizione di omicidi sociali”, ha detto, “nei quali le decisioni vengono prese senza curarsi delle conseguenze… E per questo motivo molte persone hanno sofferto”.

“È difficile negare la realtà di queste sofferenze quando non è ancora stato concluso il conto dei morti in questo cimitero a forma di torre che appare oggi come una ferita nello skyline londinese”. Come ha scritto la filosofa Hannah Arendt, “la triste verità è che le azioni peggiori sono commesse da persone che non si decidono mai a essere buone o cattive”.

L’austerità di mercato non è meno brutale per il fatto che non produce vittime. Si tratta di un’ideologia calcolatrice, che misura il valore umano in denaro ed effettua tagli che colpiscono, anche se indirettamente, la vita delle persone. Redistribuire grandi somme di denaro dai poveri ai ricchi non è solo un’infrazione morale astratta: è qualcosa che uccide. Accorcia vite umane e ne peggiora milioni di altre.

Solitamente lo fa in una maniera mostruosamente flemmatica: il pensionato che muore prima per una malattia curabile, gli adolescenti che smettono di studiare, i disabili che vengono abbandonati mentre soffrono per le loro malattie fisiche e mentali senza avere qualcuno che si occupi di loro, le migliaia di persone morte mentre erano nelle liste d’attesa di sussidi che avevano pieno diritto di ricevere, i genitori il cui orgoglio va in frantumi nel vedere i loro bambini andare a scuola affamati.

Noi cittadini non siamo spinti a misurare il costo umano dell’austerità in questo modo, anche se esistono molte persone in oscuri uffici che fanno esattamente questo genere di calcoli. Quest’anno, quando i ricercatori del Journal of the Royal Society of Medicine hanno affermato che i costanti tagli al servizio sanitario potrebbero essere all’origine di quasi trentamila “morti supplementari” in Inghilterra e in Galles nel 2015, il governo ha denunciato un “trionfo dei pregiudizi personali sulla ricerca”. Comunque la si voglia vedere, si tratta di una risposta odiosa e arrogante di fronte a trentamila nuove morti.

La malvagità del mercato

Esiste un tipo di malvagità per cui un individuo permette agli angoli più oscuri della sua mente di fargli conficcare una lama nel ventre di un passante o di mettere una bomba in mezzo a una folla di ragazze adolescenti. Questa forma di mostruosità è tanto facilmente individuabile quanto fortunatamente rara, anche se meno rara di quanto fosse in periodi meno febbrili di quello attuale.

Ma esiste un’altra forma di malvagità di cui raramente parla la stampa. È quella che emerge quando qualcuno si siede con una calcolatrice in mano e calcola quanto costerebbe proteggere e nutrire la vita umana, deduce questa cifra dal costo di una riduzione fiscale per dei proprietari immobiliari o di una bella serata all’opera, e poi stabilisce una cifra. È una forma di malvagità ordinaria, diventata ormai di routine e automatizzata negli anni dell’austerità. È una forma di malvagità che, secondo le parole dello scrittore Terry Pratchett, “comincia quando cominci a trattare le persone come cose”.

Il disastro della Grenfell Tower è l’infernale prova delle conseguenza di questa spietatezza fiscale, che nessuno può ignorare. Chi dice che la cosa non era prevedibile è stato smentito dalle vittime.

L’associazione dei residenti aveva scritto sul proprio sito web, dopo aver implorato per anni i direttori di condominio di migliorare le loro condizioni di vita: “È un pensiero davvero terrificante ma il Grenfell Action Group crede fermamente che solo un evento catastrofico sia in grado di mostrare pubblicamente l’inettitudine e l’incompetenza dei nostri padroni di casa”.

Questo catastrofico evento è arrivato. La consueta risposta dei britannici alla tragedia, una dignità coraggiosa e composta, è stavolta inappropriata. Quando cominceranno le indagini sulla Grenfell Tower, ad agosto, è importante che ogni cittadino esiga delle risposte e che chiami questa farsa con il suo nome: omicidio organizzato.

(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è apparso sulla rivista britannica New Statesman.

«L' Unione ancora più indebolita, sciolta in una sorta di Europa “liquida” in cui ognuno pensa al vantaggio individuale. Preoccupati solo di curare il proprio giardino nell’incapacità di amministrare l’intero parco».

la Repubblica, 28 luglio 2017 (c.m.c.)

Ci sono due parole che descrivono bene la crisi che sta vivendo l’Unione europea: interesse nazionale. Lo scontro tra Francia e Italia sull’acquisizione di Stx da parte di Fincantieri ha rispolverato un concetto che negli ultimi quindici anni era stato emarginato. O almeno la classe dirigente del Vecchio continente aveva iniziato a utilizzare con pudore, se non con un vero e proprio senso di vergogna.

Ecco, quel muro, anche solo psicologico, è stato abbattuto. E le macerie si riverseranno su un futuro che rischia di essere ben più appannato del presente che stiamo vivendo. Con un’Unione ancora più indebolita, sciolta in una sorta di Europa “liquida” in cui ognuno pensa al vantaggio individuale. Preoccupati solo di curare il proprio giardino nell’incapacità di amministrare l’intero parco.

Il presidente francese Macron ha vinto le elezioni presentandosi anche come il “campione” di un nuovo europeismo. Ha marcato la campagna elettorale affrontando a viso aperto il populismo di Le Pen. Ha persino organizzato la sua cerimonia di insediamento facendo suonare l’Inno alla Gioia di Beethoven, ossia l’inno ufficiale della Ue.

Eppure molti degli atti concreti realizzati in questi mesi costituiscono una vera e propria inversione di tendenza. Del resto si tratta di una retromarcia che non è stata innestata solo da Parigi. È ormai chiaro che l’interesse nazionale sta prevalendo in quasi tutta Europa. Se l’Eliseo annuncia la nazionalizzazione dei cantieri Stx con il ministro dell’Economia Le Maire che dichiara pubblicamente « difendiamo i nostri interessi», in Spagna le procedure di acquisto di Abertis da parte di Atlantia sono costellate da una serie di ostacoli e condizioni che fanno perno proprio su una sorta di neoprotezionismo. Tutto a dispetto dei principi comunitari che consentono di vietare le acquisizioni straniere solo in caso di minaccia per «la sicurezza pubblica o l’ordine pubblico». E certo non sembrano i casi trattati in questi giorni.

Il punto, ormai, è che si sta mettendo sullo stesso piano la difesa della specificità europea e quella dei singoli partner dell’Ue. All’inizio dell’anno i ministri dell’Economia di Italia, Francia e Germania avevano chiesto alla Commissione di Bruxelles di rivedere le regole per gli investimenti stranieri nell’Unione. Un tentativo di difendersi soprattutto dall’aggressività imprenditoriale asiatica. Un modo per tutelare il nostro know how. E per porre il tema della reciprocità a paesi che concepiscono il capitalismo solo senza regole. Ma quella preoccupazione adesso si sta trasformando in una malattia endogena capace di infettare le radici dell’Unione europea. Soprattutto di minare alla base gli ideali sui quali è stata edificata l’Ue. Non è infatti un caso che la sfida intrapresa da questo egoismo nazionalista 2.0 non si concentri solo sulle partite industriali e finanziarie. Ormai si sta trasferendo anche sui grandi temi che assillano tutti i paesi. Basti pensare all’enorme questione dei migranti.

La soluzione adottata nell’ultimo anno è stata sostanzialmente solo quella di sigillare i confini a nord di Italia a Grecia. Senza alcuna effettiva cooperazione. Come se una volta chiuse le frontiere, il problema potesse essere risolto solo da uno o da un paio di Paesi direttamente toccati dall’ondata migratoria. Chiudendo così gli occhi e facendo finta di non vedere. Riservandosi magari la possibilità di intervenire unilateralmente nel caso in cui si offrisse l’occasione di mettere la mano su qualche interesse economico come può essere il petrolio libico.

È lo stesso spirito e lo stesso sentimento che ha portato la Gran Bretagna a votare a favore della Brexit. Sono due facce della stessa medaglia. Che, però, può rapidamente rivelarsi una patacca. Il prezzo di queste scelte, infatti, le paga solo la costruzione dell’Ue. L’Unione ha già segnato il passo sul completamento del suo percorso. Non esiste una politica di difesa comune, non esiste un fisco comune, non si condividono i rischi né le opportunità. Resta solo la moneta unica. Ma è ormai evidente che un’Europa solo monetaria non è più sufficiente.

La rincorsa verso gli slogan del populismo demagogico che ancora vengono urlati nel Vecchio Continente può sortire un solo effetto: assestare un ulteriore colpo a un’Europa già malata. Macron probabilmente volge lo sguardo al passato quando pensa alla “grandeur” francese. Picasso diceva: « Dipingo ciò che penso, non ciò che vedo». Era però un artista. Chi ha responsabilità istituzionali deve essere consapevole della realtà. E anche Parigi è troppo piccola per affrontare in solitudine le sfide globali. Il leader francese non può nemmeno pensare, come diceva De Gaulle, che « l’intendenza seguirà ». In questa Europa nessuno da solo ha la forza di farsi seguire. Tutti, semmai, hanno la possibilità di far pericolosamente tornare indietro le lancette dell’orologio.

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