Il protagonista di uno dei pochi tentativi positivi, ahimè fallito, di rovesciare il tavolo delle poliquepoliticienne
italiana spiega ai molti cacciatori di farfalle che non basta dire che Verde o Giallo è meglio di Matteo Renzi per sostenere che va bene. Vi sono almeno tre ragioni di merito per opporsi. Ricorda poi, giustamente. Ricorda poi molto opportunamente che La Lega non è nè Verde nè Gialla, ma è profondamente Nera e quindi allearsi con Salvini è un grave errore politico per chi dichiara di voler difendere la Costituzione (e.s.)
Huffington Post, 24 maggio 2018Il Movimento 5 Stelle e la critica del poteredi Tomaso Montanari
In un passo memorabile dell'Amleto, il principe chiede al suo Polonio di alloggiare i commedianti appena arrivati a corte. "Signore, li tratterò secondo il loro merito", risponde quello. E Amleto, bonariamente rimproverandolo: "Meglio, amico, meglio. Se trattate ognuno secondo il proprio merito, chi si sottrarrà alle busse? Trattateli secondo il vostro onore e la vostra dignità."
Ecco, mi piacerebbe che un Amleto fosse capace di dire oggi la stessa cosa ai vertici e agli attivisti del Movimento 5 stelle. È infatti un grave errore respingere con sdegno aggressivo ogni critica (anche quelle amichevoli o comunque fondate) invocando sempre un solo argomento: che il Pd ha fatto peggio. Come se il metro del giudizio e delle scelte fosse appunto da cercarsi nel merito degli "altri" e non nella propria dignità.
Facciamo tre esempi, assai diversi per peso e importanza, ma egualmente eloquenti.
Il primo è la scelta di governare con la Lega. Non ripeterò
quanto ho detto altrove: ritengo del tutto improprio parlare di alleanza giallo-verde. Perché il colore della Lega di Salvini è il nero di
un partito lepenista, razzista, con elementi concreti di neofascismo, cresciuto attraverso una retorica violenta e squadrista. Personalmente credo che la visione dell'Italia della Lega sia radicalmente incompatibile con quella del Movimento. Ma so benissimo che solo alcuni milioni di elettori del Movimento condividono questa opinione: certamente non la maggioranza. E questo è un conto che quegli elettori risolveranno nelle prossime urne. Il punto qui è un altro, e riguarda una pietra angolare dell'identità storica dei Cinque stelle: la trasparenza, e la relativa coerenza. Ebbene, l'aver assicurato in ogni modo, in pubblico e in privato, che mai ci sarebbe stata un'alleanza con la Lega e poi l'aver ribaltato questa posizione all'indomani del voto non è una mossa che si possa archiviare nella cartella del realismo, vedi cinismo, politico.
Sì, è vero: Renzi ha governato con Berlusconi. Ed è vero: Minniti ha fatto politiche razziste e xenofobe. Ma se i Cinque stelle vogliono essere diversi, se vogliono essere davvero "onesti": il parametro non può essere il merito (scarsissimo) degli altri, ma la loro propria dignità. (E noto, fra parentesi, che le ragioni, comprensibili, per cui il Movimento dice di voler imporre, sbagliando gravissimamente, il vincolo di mandato dei parlamentari, cozzano con la nascita di questo governo: se la Lega fosse stata vincolata agli impegni presi con gli elettori, cioè stare nella coalizione del centrodestra, nulla sarebbe nato. Perché questo è un governo nato sullo "svincolo di mandato").
Il secondo è l'accettazione della flat tax. Si discute molto della sua sostenibilità: quasi per nulla della sua equità. Ebbene, è una misura così grave da scardinare l'intero progetto della Costituzione, e non solo da ribaltare il suo
articolo 53. I 5 Stelle hanno detto più volte che il loro programma coincideva con la Costituzione, che hanno valorosamente difeso nel 2016. Cedere alla Lega sulla flat tax significa tradire se stessi in una misura non sanabile: equivale a ciò che Renzi ha fatto con il Jobs act, per dire. E anche qui, è vero: il
Pd ha enormi responsabilità nella cancellazione della progressività fiscale: ma, di nuovo, il parametro non può essere il merito (scarsissimo) degli altri, deve essere invece la propria dignità.
Il terzo caso, assai meno rilevante ma molto rivelatore, è il curriculum del professor Giuseppe Conte. Il quale non ha tecnicamente scritto il falso. Ma ha fatto comunque qualcosa di assai disdicevole, per l'etica della professione cui appartiene (che è anche la mia). Se io, professore ordinario, scrivo che ho perfezionato i miei studi presso la New York University (o in tutte le altre istituzioni accademiche estere menzionate in quel ridondante curriculum) si può intendere solo che l'ho fatto essendo accolto in veste ufficiale (e dunque con rilevanza pubblica e documentabile) da quella istituzione. Se sono andato a studiare nelle biblioteche di quelle università, a trovare la fidanzata che ci lavorava o a imparare una lingua, ebbene allora non lo scriverò nel curriculum: perché scrivere che un professore va in biblioteca o studia è come scrivere che uno respira.
Il sapore che se ne trae è molto amaro: perché è quello di una furbizia spicciola. E a nulla serve dire che nessuna affermazione può essere smentita: non può esserlo perché sono affermazioni scritte in modo furbesco, avvocatesco, volutamente vago e suggestivo, per far credere ciò che non è e poter poi, però, far marcia indietro. Non se ne ricava un'immagine seria e affidabile.
E, per la terza volta, il Pd ha fatto peggio? Ma certo: il caso Fedeli e soprattutto il caso Madia sono stratosfericamente più gravi, avrebbero dovuto condurre a immediate dimissioni: ed è stato vergognoso il silenzio di molti media. Ma chi grida "onestà, onestà" non può assumere come metro il demerito degli avversari, deve misurarsi con la propria dignità. Affidare un governo dirompentemente politico a una figura tecnica così esile è il vero problema, naturalmente: ma quando poi si legge quel curriculum l'effetto è drammatico. Perché non se ne può che dedurre che siamo nell'eterno paese dei furbi, dove l'antropologia del potere e del suo sottobosco non cambia mai. Non basta non dire il falso: le parole scelte da Shakespeare sono, guarda caso, le stesse che la Costituzione impone a chi ricopre cariche pubbliche: dignità e onore. Che invano si cercano in quel curriculum.
So che dire queste cose mi attirerà un profluvio di insulti, e magari l'accusa di tradimento da parte di chi (a ragione) mi considerava aperto e anche amico del Movimento.
Quando Luigi Di Maio mi ha chiesto di stare, prima del voto, nella lista dei ministri ho declinato, spiegando lealmente il mio dissenso incomponibile sul punto del vincolo di mandato. E gli dissi che se mai si fosse arrivati a una riforma costituzionale in quel senso, avrei promosso il No allo sperabile referendum. Questo non ha turbato i miei rapporti personali con Di Maio: Cosa vuol dire essere amico? Compiacere o dire la verità?
Gli esponenti del Pd che in questi anni ho duramente criticato, rispondevano strumentalmente che le mie critiche erano di parte, e di parte "grillina". Sbagliavano, era esattamente il contrario: la mia apertura al Movimento era determinata dal tradimento radicale e dalla degenerazione del Pd. E non è certo che ora io lo rivaluti, se critico il Movimento.
Il punto è un altro: chi fa il mio mestiere ha il dovere di "Non lasciare il monopolio della verità a chi ha il monopolio della forza" (Norberto Bobbio). Nel momento il cui il Movimento va al potere, la critica deve essere senza sconti, e deve essere fatta secondo il metro e i principi del Movimento, non secondo i demeriti del Pd.
Ed è particolarmente importante che questa critica venga da voci libere, e non schierate con una qualche opposizione: tanto più importante quanto più il potere ottunderà la critica (esemplare, di nuovo, il caso del curriculum: scioltosi come neve al sole appena arrivato l'incarico, e cioè con la promozione ad 'intoccabile'). Il più grave problema dei 5 Stelle è l'assenza di democrazia interna e l'incapacità di accettare il dissenso. Nella stagione che si apre ora, il Movimento dovrà dimostrare di saper accettare, metabolizzare e magari mettere a frutto le critiche: cioè di fare tutto quello che l'isterico Pd renziano non ha saputo fare.
Renzi imprecava contro gufi e rosiconi. Spero che il Movimento sappia essere davvero diverso: a partire dal modo di porsi nei confronti della critica. Un punto, in democrazia, davvero vitale.
Notizie agghiaccianti sulle previsioni del nuovo governo (qui il link al Contratto in corso di ratifica). Dominanti dell'accordo e dei suoi contenuti sono i perniciosi vizi del razzismo, della xenofobia, del dominio di classe, del suprematismo nazionale, della rozzezza culturale, e la totale scomparsa delle virtù dell'accoglienza e della multicultoralità.
Le cause sono nella a miscela infernale delle ideologie espresse e confermate dai leader vincitori, Di Maio e Salvini, e dall'inevitabile scomparsa, per reiterato suicidio, di ciò che restava del Pci, a sua volta aggravato dal caparbio egocentrismo del fondatore e rottamatore del PD. A seguire riportiamo dagli odierni quotidiani un articolo di Amedeo La Mattina e Ilario Lombardo da La Stampa e una riflessione di Michele Prospero da il manifesto (e.s.)
la Stampa
Il premier andrà al Movimento 5 Stelle. Rosa di 5 nomi, ma si punta su Di Maio
di Amedeo La Mattina e Ilario Lombardo
«Salvini all’Interno, Giorgetti in pole per i Servizi. Due esterni per Economia ed Esteri, Massolo verso la Farnesina. Il premier andrà al Movimento 5 Stelle. Rosa di 5 nomi, ma si punta su Di Maio»
Una cosa sembra ormai certa: il premier andrà al M5S. È il compromesso ottenuto dopo venti giorni di trattative tra 5 Stelle e Lega: in cambio il Carroccio strappa il ministero dell’Interno e con molta probabilità il sottosegretariato a Palazzo Chigi con delega ai servizi. Di fatto, il cuore della sicurezza dell’intero Paese.
Tutti gli indizi lasciano pensare che, per esclusione, alla fine, il nome di chi guiderà il governo giallo-verde sia quello di partenza: Luigi Di Maio. Dai vertici del M5S tengono le bocche cucite per la paura di anticipare troppo l’ufficialità e di bruciarlo. Ma qualcuno si lascia sfuggire che quanto sta accadendo ripropone quello che era successo con la candidatura di Roberto Fico a Montecitorio. Dopo la fuga di notizie che sarebbe stato il deputato napoletano a vincere la presidenza della Camera, i 5 Stelle si operarono per depistare la stampa, facendo filtrare le ipotesi alternative di Emilio Carelli e Riccardo Fraccaro. Alla fine la spuntò comunque Fico.
Ecco cosa sta avvenendo ora per la premiership: il M5S ha fatto circolare una rosa di quattro nomi proposti ai leghisti: i deputati Alfonso Bonafede, Fraccaro (già eletto questore alla Camera) e i senatori Vito Crimi e Danilo Toninelli (capogruppo). Sono tutti parlamentari di provata fedeltà a Di Maio ma figure troppo deboli per Salvini. La Lega ha controproposto, come alternativa ma sempre grillina, Emilio Carelli, ex direttore di Sky Tg24 e responsabile delle relazioni istituzionali del ramo italiano del network di Rupert Murdoch. Acquisto recente della famiglia grillina, Carelli che si è formato a Mediaset e ha ottimi rapporti con Gianni Letta, sarebbe l’opzione meno sgradita a Silvio Berlusconi.
In realtà, a sentire i vertici del M5S è quasi impossibile vedere Carelli a Palazzo Chigi. Per lo stesso motivo per il quale sarebbe improbabile che la scelta ricadesse su Vincenzo Spadafora: il gruppo storico del Movimento si spaccherebbe. Lo dimostra l’agitazione che si percepiva ieri e quello che sussurrano diversi deputati: «Sono entrati nel M5S l’altro ieri, dai...».
Tra i grillini si punta segretamente su Di Maio, con la speranza che alla fine la Lega ceda davvero, anche se qualche resistenza c’è ancora. Ieri l’ultimo summit segreto tra i due leader è durato oltre tre ore. Hanno parlato di premier e di ministri. Matteo Salvini esulta perché sente che il suo nome non è più un problema per il ministero dell’Interno. Conferma che «un leghista al Viminale sarebbe una garanzia per rimpatri ed espulsioni». Sta attento, però, a non esporre se stesso, prudente fino all’ultimo. Anche perché in gioco ci sono altre poltrone importanti per la Lega: Agricoltura, Trasporti e Sviluppo economico. Vorrebbero anche l’Economia, ma il Quirinale ha chiesto di condividere la scelta del Tesoro, della Difesa e degli Esteri.
Sembra perciò in bilico la candidatura naturale del leghista Giancarlo Giorgetti al ministero di Via XX Settembre. Potrà comunque consolarsi con la carica di sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi, una posizione di primissimo piano. Per l’Economia, il Colle vorrebbe un nome esterno ai due partiti, una figura tecnica e competente, come da tradizione negli ultimi anni, anche per rassicurare i partner europei e i mercati. Stesso discorso per la Farnesina, dove torna in pista Giampiero Massolo, l’ex ambasciatore sondato nei giorni scorsi anche per Palazzo Chigi.
La scelta dei ministri sarà condizionata da alcuni vincoli fissati nero su bianco sul contratto: non potrà esserlo chi ha rapporti con la massoneria, chi è stato condannato o indagato per reati gravi. Oggi Salvini e Di Maio metteranno la loro firma sulla versione finale del programma. Nel fine settimane verrà sottoposto al giudizio dei gazebo di M5S e Lega. I grillini, infine, daranno l’ultima parola agli iscritti della piattaforma Rousseau.
L’impressione che si respirava ieri a Montecitorio era di avercela quasi fatta. Bastava osservare la faccia distesa di Di Maio. Anche se i protagonisti di questa storia si compattano in un’ossessiva sensazione di assedio. Il crollo della Borsa, i moniti dell’Ue, lo spread che schizza scatenano Salvini e il redivivo Alessandro Di Battista, che ancora non ha preso il volo per San Francisco: «A quanto pare i fantomatici mercati sono tornati a farsi sentire. Mi rivolgo ai parlamentari del M5S e della Lega. Siate patrioti! Non emissari del capitalismo finanziario».
il manifesto,
Ibarbari contro le sentinelle del sistema
di Michele Prospero
Nelle trattative per definire il contratto di governo, con la volontà di costituzionalizzare la figura dei “capi partito”, la sensazione di un grado zero della politica si fa più forte. A cominciare dalla metamorfosi di non-partiti che dall’intransigenza assoluta (niente compromessi, e negoziati) virano verso la ricerca di accordi con chiunque dia una mano a entrare nel Palazzo.
E viene istituito un parallelo “comitato per la conciliazione”, svelando così la consistenza culturale reale degli attori della nuova politica.
Ma se delle nullità politiche oggi giocano il ruolo di attori dominanti nel dramma italiano, questo è accaduto perché quelli che avrebbero dovuto fornire delle più credibili alternative sono crollati, rivelandosi personaggi mediocri di una commedia senza lieto fine. La povertà della politica ufficiale è ancor più disarmante delle pacchiane esibizioni istituzionali dei capi della coalizione verde-giallo nella stesura del contratto per dichiarare guerra agli “eurocrati” per la remissione dei debiti.
Un esponente del Pd, che ha dato il nome alla vigente legge elettorale, svela come proprio la follia dei politici normali sia la principale ragione del successo dei politici irregolari. «Alleanza M5s-Lega? Noi del Pd abbiamo una grandissima opportunità: prendere i voti che sono stati dati ai 5 Stelle. Dobbiamo provare a convincere gli elettori M5s che siamo molto più coerenti dei 5 Stelle che avevano come unico obiettivo quello di sedersi a Palazzo Chigi».
Proprio mentre le cancellerie tremano dinanzi alla velleità di abbandonare l’euro e gli organi della finanza internazionale sono in allarme per i moderni barbari, lo stato maggiore del Pd gongola perché il governo peggiore rappresenta “una grandissima opportunità”. Dove è il pericolo allora, negli ideologi della ruspa e del rosario che con le loro alchimie sfasceranno lo Stato o nelle sentinelle del sistema che giocano tutte le carte nell’aspettare il fallimento dei barbari?
Molti osservatori si interrogano sulla decadenza di una grande democrazia d’occidente che affida il governo all’inesperienza. Ma c’è in questo timore dell’annichilimento una omissione. Sono stati i “normali” ad aver varato “governi dei senza retroterra” con personalità alle prime armi collocate nei dicasteri chiave. Se per fare il presidente del consiglio “normale” basta avere come ideologia la rottamazione e alle spalle qualche seduta del consiglio comunale a Palazzo Vecchio, come si può arginare l’ascesa al comando degli oscuri ministri e “premier esecutori” reclutati nelle reti occulte dei non-partiti?
Da Veltroni che nominò sul campo Madia e Picierno, in nome proprio della loro rivendicata e assolta inesperienza, a Renzi che ha portato al governo Lotti, Boschi e la ristretta compagnia gigliata, tutto è stato allestito per la mistica del marketing politico che richiede comparse, non dirigenti. Oggi che la dissoluzione del senso della politica come cosa complessa è da ritenersi completa perché “uno vale uno”, andrebbe meditato un pensiero di Hans Kelsen.
Il giurista di Praga scriveva che «la supposizione demagogica che tutti i cittadini siano ugualmente atti ad esercitare qualsiasi funzione politica finisce col ridursi alla semplice possibilità per i cittadini di essere resi atti ad esercitare ogni funzione politica. L’educazione alla democrazia diviene una delle principali esigenze della democrazia stessa». La demagogia, che è già in Aristotele la forma di degenerazione della democrazia, recita che non c’è bisogno di politici ma di portavoce, che non servono statisti ma “cittadini punto e basta”.
Questa ideologia, che i cinque stelle hanno solo raccolto e portato a compimento, ha distrutto, con i partiti quali luoghi di formazione della classe dirigente mossa da idealità, la democrazia italiana, la capacità di governare la grande crisi.
Ad uccidere la politica, è stata anzitutto la grande borghesia che, nella sua stampa, ha inventato ed esportato nel mondo la parola “casta”, raccolta da tutti i movimenti populistici che raffigurano la politica come autocrazia, chiusura in una sfera repressiva di privilegio.
Il trionfo della borghesia antipartito, che ora mostra segni di nervosismo per il disastro da essa stessa procurato, non ci sarebbe però stato se, da Occhetto ai suoi successori, non fosse stato decostruito alla radice il grande partito di massa e quindi abbandonata la cultura politica che, soprattutto nei momenti critici, trattiene, orienta, dirige.
Il
sociologo De Masi, come l’economista Sapelli vengono dal Pci e sono la trasparente prova di quante schegge siano schizzate fuori dalla distruzione della cultura politica comunista.
Huffington Post,
C'è l'oggi anche in ciò che è successo ieri: «Il Movimento cinque stelle è figlio legittimo di Giorgio Napolitano, il quale, imponendo il governo Monti, e costringendo il Partito democratico di Bersani ad allearsi con Forza Italia, ha creato le premesse per un moto protestatario". Luciano Canfora aveva sedici anni quando suo padre, insegnante di storia e filosofia, gli mise in mano il libro di Albert Mathiez, La rivoluzione francese: "Venticinque anni di storia in cui sono contenuti, in nuce, i due secoli successivi, inclusi gli anni nei quali ci troviamo".
Storico del mondo antico e filologo, Canfora è uno degli autori italiani più letti e tradotti nel mondo. Scorrendo l'elenco delle sue opere si trovano saggi sui filosofi antichi e libri su pensatori di qualche decennio fa. C'è Platone e c'è Gramsci, Tucidide e Giovanni Gentile, Tacito e Karl Marx. E poi il capo di un'impero come Giulio Cesare e il segretario di un partito comunista occidentale come Palmiro Togliatti: «Sono un cultore delle analogie storiche. Credo sia utile mettere in relazione il presente e il passato. Però, bisogna saperlo fare. E considerare, accanto a ciò che è simile, anche ciò che è diverso, comprendendo la differenza».
Lo stallo politico di oggi cosa le fa venire in mente?
«La quarta repubblica francese, che ebbe una vita parlamentare molto tormentata. Ma pure in Italia ci sono state occasioni in cui in parlamento non c'era una maggioranza precostituita e la discussione parlamentare ne ha prodotta una».
Sono i famosi corsi e ricorsi storici?
«No, perché l'idea di Giambattista Vico rientra in una concezione ciclica della storia, secondo cui tutto torna sempre al punto di partenza».
Come si muove, invece, la storia?
«La figura geometrica che meglio rappresenta il suo moto è la spirale».
Ovvero?
«Nell'antichità, c'era l'idea che la storia si muovesse lungo un cerchio, seguendo sempre lo stesso ciclo e tornando continuamente al punto di partenza».
Poi, cos'è successo?
«Con la modernità, il moto della storia è stato raffigurato come una linea retta, come se tutto andasse verso una progressione continua".
Invece?
"Le cose tornano, ma tornano sempre in maniera diversa: per questo, nell'ambito delle figure geometriche, quella che mi sembra più adeguata è la spirale".
Può fare un esempio per aiutarmi a capire?
«Prenda la schiavitù: si crede sia finita da molti secoli. E, in effetti, se si pensa alla schiavitù del mondo antico, non si può dire che ci sia qualcuno, oggi, che pensa - come Aristotele - che gli schiavi siano macchine che parlano. Eppure, nonostante già Seneca criticasse l'istituto della schiavitù, negli Stati Uniti d'America a metà dell'ottocento si è combattuta una guerra civile per la sua abolizione. E, in Russia, la servitù della gleba è stata rimossa nel 1861. Eppure, non è finita per sempre. Nel nostro secolo, iniziato da nemmeno venti anni, la schiavitù è tornata in altre forme e fa parte del sistema con cui il capitalismo produce profitto".
A cosa si riferisce?
«Alle delocalizzazioni nell'Oriente meno sviluppato, oppure ai sistemi con cui si produce in alcune zone meno sviluppate del nostro paese: sono le forme della nuova schiavitù. Eppure - ecco perché parlo di spirale - noi oggi siamo più pronti ad affrontare e criticare questi meccanismi dello sfruttamento".
Si sente ancora comunista?
«Insieme a molti altri, considero questa parola una parola nobilissima. Peraltro, più antica della Lega di Marx ed Engels".
Cos'ha di nobile?
«L'idea che - come è stato scritto nella dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 - gli uomini nascono e rimangono uguali. E sottolineo: "Rimangono." Un verbo impegnativo, piuttosto difficile da attuare».
Qualcuno, in Italia, lo sta facendo?
«Il Movimento cinque stelle è nato pronunciando una frase vecchia almeno quanto il movimento fascista: 'Non siamo né di destra né di sinistra'. L'ha potuto fare perché c'è stato davvero un abbraccio tra la destra e la sinistra, prima in sostegno del governo Monti, e poi, in parte, anche dopo, con il patto del Nazareno. Matteo Renzi ha fatto di tutto per dimostrare che il Pd era una partito come tutti gli altri. Si è creato così lo spazio per un movimento di protesta poco colto, se non del tutto incolto, la cui nascita è però da imputare a chi ha creato le condizioni perché ciò accadesse».
Che cosa ha pensato quando ha sentito Di Maio rivolgersi sia a destra sia a sinistra per formare un governo?
«Che non siamo di fronte al classico fenomeno di trasformismo del nostro paese, in cui - da De Petris in poi - si passa serenamente da destra a sinistra, poiché il trasformismo implica l'esistenza di una destra e di una sinistra. Invece, quella del Partito democratico è una ex sinistra. E questo agevola la possibilità del Movimento cinque stelle di dire che gli uni o gli altri sono equivalenti».
La sinistra rischia di scomparire?
"La disgregazione mentale del Pd ha creato un grande vuoto. Per fortuna, ci sono dei ceti sociali, dei conflitti e delle organizzazioni - penso ai sindacati - che difendono gli interessi concreti di chi lavora. E questo assicura che la sinistra non si estingua».
Se i Cinque stelle si alleassero con Salvini cosa succederebbe?
«Il Movimento perderebbe pezzi del suo elettorato, pezzi cospicui. Né li aiuterebbe la cultura politica: ne hanno poca, e questa sarà la causa del loro probabile declino».
Se però trovassero un accordo?
"Sarebbe un'alleanza mostruosa, da tutti i punti di vista».
Mostruosa?
«Sì, è una parola della lingua italiana che viene dal latino monstrum e indica qualcosa che stupisce e fa spavento».
Perché dovremmo avere paura?
"In campagna elettorale, Salvini ha promesso una riduzione delle tasse indiscriminata. Il Movimento Cinque stelle, invece, ha sventolato la bandiera del reddito di cittadinanza. Le due cose non possono essere messe insieme. Per questo, sarà un governo disastroso. Sempre che riescano a formarlo».
Vede un'altra soluzione?
"Se l'avessi, avrei già telefonato al capo dello stato. Che, ne sono sicuro, non desidera altro che ascoltare il mio parere».
Si è occupato anche di utopie: sogna una società ideale?
«Sognare è un'attività sterile, preferisco lottare per una società più giusta, con le armi del ragionamento, della cultura, della lettura, della discussione».
Per cosa combatte?
«Per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, come dice l'articolo 3 della nostra Costituzione».
Non è un intento po' retorico?
«Questo lo pensavano coloro che non volevano scrivere quell'articolo nella Costituzione».
Scriverlo cosa ha significato?
«Delineare la possibilità di cambiare radicalmente la società».
Perché, settant'anni dopo che è stato scritto, si sente ancora la stessa necessità?
«Perché indica la via da seguire per avvicinarsi il più possibile al risultato».
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile
Il Fatto Quotidiano
Nella rissa tra i semi-vincitori delle elezioni del 4 marzo è veramente difficile schierarsi per l’uno o per l’altro. Rappresentano tutti differenti sfaccettature di un’Italia che non ci piace affatto. Così come, del resto, non ci piace il clamoroso sconfitto, il renzista Matteo Renzi, ex leader d’un partito che si è fatto suicidare. Vogliamo comunque sottolineare un elemento che, nel pattume generale, ci sembra positivo: c’è ancora qualche resistenza contro operazioni che sono certamente nefaste per il territorio e i suoi abitanti. Ne riferisce l’articolo di Carlo Di Foggia, che riprendiamo da il Fatto quotidiano del 15 maggio 2015 (e.s.)
Governo M5s-Lega, il vero scontro è su
vincoli Ue, grandi opere e futuro di Ilva
di Carlo Di Foggia
«Programma - Il M5S vorrebbe rinviare al futuro le discussioni sul deficit. Ma la Lega: senza addio al Fiscal compact quel contratto è “un libro dei sogni” E tra poco l’Ue vuole 5 miliardi»
L’unica certezza è che nel week end il “contatto di governo” verrà sottoposto a referendum nei gazebo allestiti dalla Lega e forse prima al voto degli iscritti sulla piattaforma Russeau del Movimento 5 Stelle. Per il resto le distanze restano tante e “la quadra” non c’è. Non c’è sulla infrastrutture, non c’è sui migranti e nemmeno sulla giustizia ma, soprattutto, non c’è sui vincoli di bilancio europei. Gli sherpa (guidati da Laura Castelli per M5S e Claudio Borghi Aquilini per la Lega) affideranno la lista dei punti su cui non c’è accordo a Matteo Salvini e Luigi Di Maio: toccherà a loro sciogliere i nodi. O non si parte.
Da ieri è noto che il contratto a cui mancavano “solo le virgole” difetta invece “su qualche punto importante” (Salvini dixit). Ma c’è un punto più importante degli altri, da cui tutto discende: che posizione avere con l’Europa. “Io devo sbloccare la possibilità di spendere soldi bloccati da vincoli e regole esterne. O riesco a dar vita a un governo che ridiscute i vincoli Ue oppure è un libro dei sogni”, ha spiegato ieri Salvini.
Finora Lega e 5Stelle hanno discusso sull’impegno formale a ridiscutere i trattati europei (serve l’unanimità dei governi) e i vincoli fiscali. Per farlo occorre tempo, e sul punto ci sarebbe l’accordo dell’intero arco parlamentare che nella scorsa legislatura ha votato per superare il Fiscal compact con mozioni presentate da tutti i partiti. La realtà è che servono subito margini di manovra di bilancio per mantenere le promesse fissate nel contratto, dalla “flat tax” al reddito di cittadinanza.
Come noto, il governo Gentiloni ha messo nel Documento di economia e finanza (Def) una correzione da 30 miliardi in due anni, portando il deficit pubblico al pareggio di bilancio nel 2020. La stretta fiscale sconta gli aumenti automatici dell’Iva per 15 miliardi quest’anno e 19 quello dopo, per portare il deficit dal 2,3% all’1,6% del Pil quest’anno e azzerarlo fra due anni. Il contratto prevede il superamento della legge Fornero, la partenza del reddito di cittadinanza e di una riforma fiscale che riduca le aliquote (impropriamente chiamata flat tax).
La Lega vuole che il contratto fissi subito il punto che il deficit non scenderà e punta a discutere in autunno, nella legge di Bilancio, una manovra da 40 miliardi, portando il deficit al 2,8%, poco sotto il tetto di Maastricht. I 5Stelle sono molto più cauti, non vogliono neanche menzionare il superamento del pareggio di bilancio del Fiscal compact (inserito pure nella Carta). La strategia è questa: impegno formale a rispettare il deficit fissato dal Def di Gentiloni per poi ridiscutere i margini in autunno. “Io non prendo in giro gli italiani”, è sbottato ieri Salvini. Anche perché il primo banco di prova potrebbe arrivare con la manovra correttiva da 5 miliardi che Bruxelles è pronta a chiedere all’Italia a maggio.
Su infrastrutture e grandi opere la distanza è più esplicita. I 5Stelle vogliono chiudere quelle che considerano inutili come il Tav Torino-Lione e il Tap, il gasdotto che dall’Azerbaigian dovrebbe portare il gas sulle coste pugliesi. La Lega no. Va peggio sull’Ilva, dove lo scontro dura da giorni. I 5Stelle restano sulla posizione della chiusura del siderurgico, ma l’intesa si può trovare sull’impegno formale a una “riconversione ecologica”. Tradotto: niente spegnimento.
Le distanze restano anche sui migranti. “Nel rispetto dei diritti umani, vogliamo mano libera per smantellare il business sulla pelle di queste persone”, ha spiegato Salvini. Il Carroccio vorrebbe una linea ancora più dura di quella scelta da Marco Minniti, con salvataggi dei migranti in mare ma riaccompagnamento immediato dalle coste di provenienza, mentre il M5S è favorevole al rimpatrio degli irregolari, ma solo dopo l’approdo nel più vicino porto sicuro.
Resta poi il nodo della Giustizia. Il tema, manco a dirlo, è la prescrizione: il Movimento vuole che si fermi all’inizio del processo, ma su questo punto Salvini brucerebbe il rapporto “benevolo” promessogli da Silvio Berlusconi.
La discussione andrà avanti. Molti sono ancora i temi da definire. Tra i punti concordati ci sarà una legge sul conflitto d’interessi, una stretta sull’evasione fiscale con “il carcere per chi evade” e una nuova sanatoria sulle cartelle di Equitalia. I 5 Stelle puntano poi a inserire una legge per l’uso dell’“agente provocatore” per combattere la corruzione nella Pubblica amministrazione e una per tutelare la gestione pubblica dell’acqua in linea con quanto sancito dal referendum del 2011. Restano fuori la revisione della riforma delle carceri e la riforma dei tetti pubblicitari alle tv (avrebbe fatto infuriare Silvio…).
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile
Nigrizia,
Qui al rione Sanità uno dei problemi più gravi che la gente deve affrontare è quello della mancanza di lavoro. Vedo tanta gente che non sa come sbarcare il lunario. Capita che bussino alla porta, si siedano e chiedano semplicemente un lavoro. E non si tratta di ragazzi. Spesso sono persone oltre i 40, che hanno perso il lavoro e che magari non hanno una grande istruzione né formazione professionale. Ma non pretendono nulla, cercano un lavoro qualsiasi. Talvolta mi fermano per strada delle madri e dei padri e l’argomento è quasi sempre quello: la possibilità per il figlio o la figlia di trovare da lavorare.
E le cose vanno peggiorando, come sottolinea una indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane. Dice che in Italia in generale, ma il particolare al sud, sta crescendo il numero degli individui e delle famiglie a rischio povertà. Ancora più preoccupante il rapporto dell’Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno: afferma che dal 2001 al 2016 se ne sono andati dal sud in cerca di lavoro circa 500mila persone di cui 200mila laureati, il che si traduce in un ulteriore impoverimento del sud.
La cosa grave è che la politica non dà nessuna risposta. E la rabbia si è riversata nel voto del 4 marzo. Peggio di così non poteva andare per i partiti che hanno dominato la scena negli ultimi anni. Al sud in molti hanno deciso di votare per il Movimento 5 Stelle. Non credo che siano stati semplicemente attratti dal reddito di cittadinanza, ma che abbiamo manifestato la voglia di cambiamento. Sono stanchi di parole e di una politica che non c’è (sia il governo centrale sia gli amministratori locali) e vogliono qualcuno che risponda concretamente ai bisogni della gente.
La politica, se è politica, deve partire dagli ultimi, da chi non ce la fa più, da chi è senza lavoro.
Qui a Napoli ci sarebbe la possibilità di creare anche del lavoro socialmente utile. Penso all’enorme questione dei rifiuti, che non è gestita a dovere non solo nel capoluogo ma in tutta la Campania. Le infiltrazioni della camorra sono sotto gli occhi di tutti…
Che cosa ci vuole a creare piccole cooperative per la raccolta differenziata porta a porta? Non c’è altra maniera nei vicoli di Napoli, se davvero si vogliono raccogliere accuratamente i rifiuti. Invece di spendere tanti soldi, come avviene ora, l’amministrazione ci guadagnerebbe dalla gestione oculata di questo servizio.
Un esempio. Come realtà di base, un paio d’anni fa avevamo avviato una cooperativa per raccolta del cartone. Sostenuta dalla cooperativa Arcobaleno di Torino, l’iniziativa ha creato 5 posti di lavoro e raccoglieva 2,5 tonnellate di cartone al giorno e facendo molto meglio della altre imprese scelte dal comune. Dopo un anno, la cooperativa è dovuta andare a gara d’appalto e l’ha persa. Mi sono arrabbiato e ho scritto a Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, il quale ha verificato che qualcosa non andava. Oggi c’è una sanzione interdittiva a carico della ditta che ha vinto l’appalto, ma intanto la cooperativa è ferma.
Ricordiamo le parole di papa Francesco: «La mancanza di lavoro è molto di più del venir meno di una sorgente di reddito, è assenza di dignità».
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile
Sbilanciamoci,
Un “bilancio di un’Europa che protegge, dà forza e difende”, scegliendo come priorità strategiche, coerentemente con quanto già anticipato nel Libro bianco sul futuro dell’Europa presentato nel marzo 2017, ricerca, migrazione, controllo delle frontiere e difesa: è la proposta di QFP (Quadro finanziario pluriennale) dell’Unione Europea per il periodo 2021-2027, presentata ieri dal presidente della Commissione europea Junker all’Europarlamento. Dovrà essere approvata dal Parlamento e dal Consiglio nei prossimi mesi.
1.135 miliardi di euro in impegni (espressi in prezzi del 2018) per il periodo 2021-2027, pari all’1,11 % del reddito nazionale lordo dell’UE-27 che si traducono in 1.105 miliardi di euro (l’1,08% del reddito nazionale lordo) in termini di pagamenti (a prezzi 2018): queste le dimensioni di una proposta condizionata dalla Brexit e dal mantenimento di un approccio che opta ancora una volta per “fare di più con meno” , mantenendo la barra dritta sulle politiche di austerità. Tutto il contrario di quanto chiedono da tempo molte organizzazioni della società civile, suggerendo, ad esempio, di portare le dimensioni del bilancio europeo almeno al 4% del Pil europeo.
In termini assoluti, la proposta licenziata dalla Commissione mantiene dimensioni analoghe a quelle del bilancio pluriennale 2014-2020, nonostante la Brexit, grazie ad alcuni tagli proposti per i finanziamenti della politica agricola comune e delle politiche di coesione, alla diversificazione delle fonti di entrata (che dovrebbe prevedere l’introduzione di nuove risorse proprie), alla riduzione e riorganizzazione dei programmi di finanziamento (gli attuali 58 dovrebbero ridursi a 37) e all’inclusione nel Quadro finanziario pluriennale del Fondo europeo di sviluppo.
Questo Fondo, che finanzia la cooperazione allo sviluppo con i paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, è finora stato solo un accordo intergovernativo: nel nuovo budget Ue, varrebbe circa 9,2 miliardi, un po’ meno dei 13 che mancheranno a seguito della Brexit.
Tra le novità positive: il raddoppiamento delle risorse destinate al programma Erasmus+ (30 miliardi di euro) e l’aumento dei fondi per ricerca, agenda digitale e investimenti strategici (187,4 miliardi).
La Commissione propone anche di aumentare le risorse destinate alle migrazioni e al controllo delle frontiere esterne portandole a 34,9 milioni di euro e stanziamenti per la difesa pari a 27,5 miliardi di euro. Occorrerà attendere il dettaglio dei diversi programmi di spesa per capire quanto l’attenzione dedicata alle politiche migratorie e sull’asilo si tradurrà in politiche di accoglienza e inclusione o, invece, in un ulteriore barricamento della Fortezza Europa, come sembra trapelare da alcune notizie di stampa.
Ad esempio, il budget destinato all’agenzia Frontex, cui spetta il controllo dei mari e delle frontiere esterne, dovrebbe aumentare ulteriormente e consentire di portare l’organico dell’agenzia fino a 10mila agenti. D’altra parte, il passato recente insegna che molti progetti europei finanziati con i fondi destinati alla ricerca hanno avuto l’obiettivo di sviluppare nuovi sistemi tecnologici di sorveglianza proprio al fine di intercettare (e fermare) i flussi migratori.
Per ora i dati pubblicati dalla Commissione evidenziano, oltre alle risorse sopra indicate, la costituzione di una “Riserva dell’Unione” di 4,7 miliardi di euro per affrontare meglio gli imprevisti e le situazioni di emergenza connessi alle migrazioni e alla sicurezza. Sembrerebbe ad oggi esclusa l’opzione di penalizzare gli Stati membri (come quelli del gruppo di Visegrad) che non sono disponibili ad accogliere i migranti, mentre sarebbe al vaglio l’ipotesi di premiare quelli maggiormente esposti ai fenomeni migratori (come l’Italia e la Grecia).
Intanto, il prossimo Consiglio europeo degli Affari interni, che si occuperà di migrazioni e gestione delle frontiere, è convocato per il 12 giugno e avrà il compito di specificare le priorità politiche dell’Unione sulle migrazioni e sull’asilo dei prossimi anni.
Certo è che quel “vincolo di solidarietà” evocato ieri dal presidente della Commissione, come principio cardine dell’Unione del futuro, stenta a divenire realtà in questo ambito: il piano di ricollocazioni concordato nel 2015 è ancora ampiamente disatteso e il progetto di riforma del Regolamento Dublino III rischia di essere bloccato a causa delle resistenze dei paesi del gruppo di Visegrad, ostili alla previsione di quote obbligatorie e automatiche di redistribuzione dei migranti tra i Paesi membri.
la Repubblica, il PD non c'è più. Se rivotiamo con quella legge siamo fottuti.
No, non ci serve un governo. Ci serve uno psichiatra. E anche bravo, uno strizzacervelli per chi non ha cervello. Difatti la crisi di governo, quel ramo al quale siamo ormai impiccati da due mesi, deriva da un’allucinazione, da una falsa percezione delle cose. Anzi: le allucinazioni sono quattro, come le malattie mentali di cui soffrono i politici italiani.
Primo: la sindrome del vincitore. Malattia contagiosa, dato che in questo caso i vincitori sono almeno due. Salvini, a capo della coalizione più votata; Di Maio, a capo del partito più votato. Insomma, il campionato delle ultime elezioni ha assegnato due scudetti. Dopo di che, se vinci lo scudetto, pretendi il trofeo di palazzo Chigi. Pretesa ovvia, come no.
Ma per soddisfarla ci vorrebbe un consolato, sulla falsariga dell’antica Roma. Nella Roma moderna (vabbè, le buche sulle strade consolari hanno un che d’antico) invece non si può. Però stavolta la colpa non ricade su Virginia Raggi, bensì su Ettore Rosato, meglio noto come Rosatellum. Perché ha scritto una legge elettorale con il torcicollum: proporzionale (prima Repubblica), coalizioni (seconda Repubblica). Senza l’impianto proporzionale della legge, Salvini avrebbe già indossato una casacca da presidente del Consiglio. Senza vincolo di coalizione (eredità del maggioritario), quel trofeo sarebbe stato conquistato da Di Maio, magari in alleanza con Salvini, libero da ogni vincolo verso Berlusconi. Invece ci troviamo con due mezzi vincitori e un Paese dimezzato.
Secondo: la sindrome del perdente. Che non è +Europa (e meno Italia, a giudicare dai risultati elettorali), né Liberi e uguali (liberi forse sì, uguali agli altri partiti è un azzardo matematico). No, il perdente per antonomasia si chiama Pd. Che ha fatto della sconfitta una bandiera, dal momento che i suoi leader (plurale maiestatis) intonano un solo ritornello: «Abbiamo perso, dunque non ci resta che l’opposizione». Sillogismo illogico, e per almeno due ragioni. Uno: si sta all’opposizione rispetto a un governo, ma se il governo non c’è ancora, a chi s’oppone l’opponente? Due: dichiarare la sconfitta (o la vittoria) ha senso con un maggioritario, non con un proporzionale, qual è in sostanza il Rosatellum. In un sistema così non vince nessuno, perché la maggioranza assoluta diventa una chimera; non la raggiunse mai neppure la Dc, il cui miglior risultato fu il 48,5% dei consensi alle politiche del 1948. Insomma, con il proporzionale vai meglio o peggio rispetto all’elezione precedente, ma poi il governo è un’altra cosa. Nel 1972 il Movimento sociale raddoppiò i propri voti, restando fuori da palazzo Chigi; il Partito liberale, al contrario, ne perse la metà, tuttavia entrò nel nuovo esecutivo, dopo un’assenza durata 15 anni.
Terzo: la sindrome dell’appestato. «Vengo anch’io. No, tu no», cantava Enzo Jannacci nel 1968. Mezzo secolo più tardi, questa canzonetta è tornata di moda. Tu no, dicono i 5 Stelle a Berlusconi. Tu no, dice Salvini al Pd. Tu no, dice il Pd a se stesso. Un torneo a eliminazione, quando la democrazia parlamentare presupporrebbe l’inclusione. Però c’è forse un’esigenza sotto questa intransigenza. Magari c’è il bisogno di ritagliarsi un’identità per sottrazione, per opposizione. Perché i nostri partiti hanno fisionomie deboli, sfocate. E perché dopotutto la politica — diceva Carl Schmitt — si nutre della distinzione fra amico e nemico. Se la ragione è questa, urge cambiare qualche denominazione. Il nuovo nome della Lega, che s’oppone al Pd? “Partito antidemocratico”. E i 5 Stelle, contro Forza Italia? “Abbasso Italia”.
Quarto: la sindrome del ragioniere. Che alle nostre latitudini sragiona sempre sul medesimo argomento: la legge elettorale. Una nevrosi antica quanto lo Stato italiano, come mostra l’altalena dei congegni brevettati e cestinati. Esordimmo, durante la metà dell’Ottocento, con un maggioritario a doppio turno. Sostituito nel 1882 da un proporzionale, poi nel 1891 di nuovo dal maggioritario, poi nel 1919 di nuovo dal proporzionale. Fino alla legge fascistissima del 1923 (supermaggioritaria) e a quella democraticissima del 1946 (superproporzionale). Dopo di che abbiamo via via sperimentato altre sei leggi elettorali (nel 1948, 1953, 1993, 2005, 2016, 2017) e altrettanti referendum sulla materia (nel 1991, 1993, 1995, 1999, 2000, 2009). Insomma, una tira l’altra, come le ciliegie. Ogni legge sbagliata rende necessario lo sbaglio successivo. E infatti adesso c’è bisogno di un’altra ciliegina, per rimediare ai guai del Rosatellum. Evviva.
Nigrizia, 26 aprile 2018.
«Il 2018 si è aperto all’insegna di un rinnovato impulso nei rapporti tra Cina e Africa. Energia e infrastrutture in testa, con la Nuova Via della Seta, ma anche settori emergenti che puntano a una maggiore diversificazione economica. Il tutto sotto l’occhio critico e impotente di Washington. Non mancano però i timori legati al crescente debito africano e alla concentrazione di poteri nelle mani di Xi Jinping».«Cina e Africa sono più vicine che mai, e il 2018 segnerà un’ulteriore passo in questa direzione». Con queste parole Huo Jiangtao, fondatore della Settimana economica e culturale sino-africana, ha inaugurato la prima edizione dell’evento, che si è tenuto a Guangzhou dal 20 al 26 aprile. L’iniziativa ha visto la partecipazione di ambasciatori provenienti da 10 paesi africani – tra cui Nigeria, Angola ed Etiopia – oltre a molti esponenti del mondo imprenditoriale e artistico cinese.
Scopo dell’evento, secondo gli organizzatori, è quello di approfondire il clima di mutuo interesse economico e culturale tra le due regioni in vista della settima edizione del Forum per la Cooperazione Cina-Africa (Focac), che si terrà a Pechino il prossimo settembre.
E se il 2018 si è aperto all’insegna di nuovi sviluppi nei rapporti sino-africani, con i leader di Camerun, Namibia e Zimbabwe recatisi in visita ufficiale a Pechino nell’ultimo mese, non sono però mancate voci critiche in merito a tali relazioni.
Crescente insofferenza Usa
In un discorso tenuto lo scorso mese alla George Mason University, in Virginia, l’allora Segretario di stato Usa, Rex Tillerson, aveva duramente criticato il modello cinese di sviluppo economico in Africa, definendolo un esempio lampante di espansione neocoloniale per espropriare il continente delle sue risorse.
La Cina, secondo Tillerson, destabilizzerebbe i governi africani tramite la concessione di «prestiti predatori», trascinandoli in una crescente spirale di debito estero e dipendenza da esportazione di materie prime. Una critica tagliente, quella dell’ex Segretario di stato, ribadita in occasione della sua visita ufficiale in Etiopia nei giorni successivi.
Dal canto suo, Pechino non è rimasta in silenzio. Lin Songtian, ambasciatore cinese in Sudafrica, ha definito il discorso di Tillerson «un deplorevole tentativo di voler insegnare ai governi africani come comportarsi, nonostante essi siano abbastanza maturi da poter scegliere da sé i propri partner commerciali».
A sostegno delle dichiarazioni di Songtian, il presidente della Namibia, Hage Geingob, ha di recente affermato che «non c’è alcuna istanza neocoloniale nei rapporti tra Africa e Cina. Nessun altro paese al mondo è stato in grado di dare un tale valore aggiunto ai nostri prodotti come la Cina. Pechino ha fatto molto in quanto a trasferimento tecnologico e creazione di nuovi posti di lavoro». Posizione, la sua, comune ad altri leader africani, tra cui quelli del Camerun e del Kenya.
Investimenti a tutto campo
L’Africa, con le sue abbondanti risorse naturali e una disperata necessità di sviluppo infrastrutturale, è da alcuni decenni un partner attraente per la Cina.
Tra il 2000 e il 2014, il commercio sino-africano è passato da 10 miliardi a 220 miliardi di dollari. Nello stesso periodo, Pechino ha concesso oltre 86 miliardi di dollari in prestiti commerciali a paesi africani, circa 6 miliardi annui. Nel 2015, alla 6ª edizione del Focac, il presidente cinese Xi Jinping ha promesso di rafforzare ulteriormente il ruolo della Cina come più grande creditore della regione: il paese, secondo il rapporto Foresight Africa 2018, detiene oggi il 14% del debito di tutta l’Africa subsahariana.
Non c’è dubbio che la 7ª edizione del Focac porterà a un ulteriore incremento dei rapporti economici tra le due regioni, con la concessione di nuovi prestiti per progetti di sviluppo delle infrastrutture. Fra questi spicca la Nuova Via della Seta, il ciclopico investimento infrastrutturale intrapreso da Pechino per rilanciare il suo ruolo nei traffici globali dopo il rallentamento dell’economia cinese registrato negli ultimi due anni.
Il progetto coinvolgerà alcuni paesi dell’Africa orientale come il Kenya e Gibuti, dove la Cina ha già stanziato oltre 300 milioni di dollari in nuovi progetti tra cui ferrovie, porti e gasdotti. Ed è proprio a Gibuti che il gigante asiatico ha inaugurato la sua prima base militare sul continente africano, tra le proteste degli Stati Uniti che vedono intaccata la propria egemonia nel Corno d’Africa.
Uno studio condotto nel 2017 dalla società di consulenza finanziaria Kinsley rivela come, nel complesso, gli investimenti cinesi nel continente africano stiano avendo un impatto positivo di crescente rilevanza, contribuendo alla creazione di nuovi posti di lavoro e al trasferimento di expertise e tecnologie alle imprese locali nell’industria energetica, infrastrutturale e della manifattura. A questi si è aggiunta recentemente un’espansione verso nuovi settori, dall’agricoltura all’assicurazione bancaria e alle telecomunicazioni, che rafforza i tentativi di diversificazione economica intrapresi negli ultimi anni da molti governi africani per ridurre la dipendenza dall’esportazione di materie prime.
A fianco di quella economica, avanza al contempo anche la cooperazione culturale. Nel 2016, Pechino ha aumentato da 200 a mille le borse di studio per studenti africani, ora più presenti in Cina che negli Stati Uniti e nel Regno Unito insieme. Il Mandarino sta penetrando rapidamente nel sistema scolastico di molti paesi subsahariani, come ha sottolineato Franklin Asira, presidente dell’Associazione di scambio sino-africana lanciata quest’anno a Nairobi: «Imparare il cinese è un’opportunità enorme per un giovane africano che voglia aprirsi molte porte in futuro».
Lo spettro del debito e l’ombra di Xi Jinping
Nonostante le indubbie importanti prospettive di sviluppo economico e sociale, non mancano tuttavia alcuni timori legati alla penetrazione sempre più estensiva della Cina nel continente. Sul piano economico, questi riguardano in particolare il crescente debito estero accumulato da molti stati africani nell’accettare prestiti da Pechino per progetti infrastrutturali.
Mentre alcuni analisti ipotizzano l’adozione di misure per la cancellazione del debito, altri suggeriscono, invece, strategie volte a ridurre l’egemonia cinese nei rapporti bilaterali. In particolare, la Cina dovrebbe aprire le gare d’appalto alla competizione internazionale, anziché vincolare i prestiti commerciali a uso esclusivo di società cinesi con condizioni contrattuali spesso poco trasparenti. Ipotesi però confinate per il momento sul piano teorico, a fronte invece di un problema concreto sempre più allarmante.
Un altro timore prettamente politico è espresso in un rapporto pubblicato da Cobus van Staden del South African Institute of International Affairs. Esso riguarda le ripercussioni nei rapporti sino-africani che potrebbe avere la decisione, presa lo scorso mese dal parlamento cinese, di abrogare i limiti di mandato presidenziali, spianando la strada a una presidenza a vita per Xi Jinping.
L’uomo forte di Pechino, secondo van Staden, detiene oggi l’immenso potere di poter plasmare a suo piacimento le relazioni con il continente nero, almeno per il prossimo decennio. Ciò non giunge certo come un segnale positivo in un contesto politico, quello subsahariano, ancora fortemente segnato da personalismi e carenze sul piano democratico e partecipativo.
A questo si aggiungono le preoccupazioni in merito alla futura espansione militare cinese sul continente, a fronte di un incremento dell’8,1% del budget militare della Cina per il 2018 e di una sua sempre maggiore presenza nelle missioni di peacekeeping sul suolo africano. In rapida crescita, inoltre, è l’export di armamenti “made in China” che vede oggi due terzi dei paesi africani avere in dotazione armi cinesi, inclusi paesi non democratici come il Burundi e la Guinea Equatoriale.
Limitare gli effetti negativi di tali dinamiche è la grande sfida che attende il continente nei prossimi decenni. Ma una cosa sicuramente è certa: quello tra Cina e Africa è un matrimonio tutt’altro che in crisi con il quale il mondo, l’Occidente in primis, deve e dovrà continuare a fare i conti.
Internazionale, 2
Piove parecchio, è un invernomonotono e lunghissimo, quando un paio di mesi fa arrivo a Milano senzaombrello, invitato dal collettivo studentesco del liceo Parini per parteciparea un incontro sul tema neofascismo e antifascismo. Siamo ancora dentro lacamera dell’eco della campagna elettorale, all’indomani dei fatti di Macerata,cioè dell’omicidio di Pamela Mastropietro edella tentata strage di Luca Traini.
Nell’aulamagna si sono assiepate due-trecento persone, molte con il quaderno in mano,pronte a farmi delle domande. Le guardo, poggio su una sedia la giaccafradicia, provo ad anticiparle: qual è secondo voi la differenza tra populismoe fascismo? Quanti di voi conoscono bene la storia di Giacomo Matteotti? Chi miparla di Gianfranco Fini e della svolta di Fiuggi? Poi leggo ad alta voce escrivo alla lavagna la definizione che dà Emilio Gentile nel suo libro Fascismo. Storia e interpretazione:
«Ilfascismo è un fenomeno politico moderno, nazionalista e rivoluzionario,antiliberale e antimarxista, organizzato in un ‘partito milizia’, con unaconcezione totalitaria della politica e dello stato, con una ideologia afondamento mitico, virilistica e antiedonistica, sacralizzata come religionelaica, che afferma il primato assoluto della nazione, intesa come comunitàorganica etnicamente omogenea, gerarchicamente organizzata in uno statocorporativo, con una vocazione bellicosa alla politica di grandezza, di potenzae di conquista, mirante alla creazione di un nuovo ordine e di una nuovaciviltà».
Che ne pensate? L’assemblea si accende, ragioniamo sullesfumature, il rapporto tra violenza e politica, il maschilismo implicito delfascismo, la questione della memoria storica. Alla fine delle due ore, leragazze del collettivo che l’hanno organizzato vengono da me: “Questo dibattitoè un’eccezione. Qui quasi nessuno è interessato alla politica, ci siamo noi,qualche fascista, per fortuna pochi, la lista che ha vinto le elezionid’istituto aveva come programma di cambiare il distributore automatico, e dicomprare un biliardino”.
Il Parini è un liceo storico del centro di Milano. Nel 1966 sulgiornale scolastico, La zanzara, uscì un’inchiesta intitolata “Laposizione della donna nella società italiana”. L’episodio viene ricordato daglistorici come una delle micce da cui si è innescata la rivoluzione culturale delsessantotto. Il pezzo fu ripreso dai mezzi di comunicazione nazionali einternazionali: tra gli studenti stava nascendo un’onda che di lì a pocoavrebbe raggiunto ogni spazio pubblico.
Chiavi di lettura facili
Lavulgata secondo cui le ragazze e i ragazzi di oggi sono disimpegnati, non sonoattirati dalla politica, sembra la chiave di lettura più facile per descrivereuna generazione. È la conclusione che hanno introiettato anche loro stessi –viene fuori quando ci parlo, prima e dopo leelezioni del 4 marzo. Nei fatti però, altrettanto spesso, propriocoloro che si autorappresentano così, mi fanno conoscere un altro tipo distorie che mettono in discussione platealmente questo ritratto.
Il fatto che Grassi avesse quegli adesivi a casa è diventata unaprova per chi l’ha accusata di resistenza a pubblico ufficiale. Da più di unmese è costretta all’obbligo di firma tre volte alla settimana al commissariatodi zona. Me lo ricorda lei stessa con un’alzata di spalle. Ha un tono sicuro eironico, e idee molto chiare su un sacco di cose, a partire dal modo in cui igiornalisti, i politici e perfino i giudici provano a definire l’antifascismo inItalia oggi: «C’era bisogno di elezioni come queste, in cui la polarizzazionetra fascismo e antifascismo è stata molto strumentalizzata, per compiereoperazioni di polizia del genere. La repressione è stata perfetta. Tieni contoche nelle premesse del giudice nell’ordinanza di arresto, c’è un passaggio incui si dice che le organizzazioni neofasciste sono l’espressione fisiologica diuna democrazia matura: ecco, questo è lo stato dell’arte».
La cerco quest’ordinanza, ed effettivamente resto a bocca aperta,quando a un certo punto leggo:
«L’obiettivo di impedire in ogni modo la libera manifestazione del pensiero avverso costituisce, invece, una forma di violenza politica che si pone alla stessa stregua del ‘fascismo storico’ da cui i manifestanti si professano, pure, così distanti».
L’antifascismo militante è da considerare un’imitazione delfascismo storico? Il giudice che ha arrestato Valeria Grassi e i suoi compagniavvalora una tesi che ormai circola da un po’, e cioè che esista un “fascismodegli antifascisti», strumentalizzando la citazione di volta in volta attribuita a Pier Paolo Pasolini o a Ennio Flaiano.
Grassiha invece le idee molto chiare su quello che è l’antifascismo oggi: «C’è chiusa l’antifascismo come pretesto, e chi pensa che significhi tornare a essereprotagonisti in politica. Da un punto di vista generazionale, è molto evidentenei nuovi movimenti femministi, nell’antirazzismo, nel ritrovarsi con il propriocorpo in piazza, magari per la prima volta. Quella diventa la tua educazionepolitica, quello è antifascismo».
L’antifascismo necessario
Anna lavedo spesso prima di conoscerla. Quattro, cinque volte nell’ultimo anno,durante alcune manifestazioni. La noto perché è sempre in prima fila neicortei: quello per il diritto alla casa, quello di Non una di meno, quellocontro l’alternanza scuola-lavoro. La chiamo per un’intervista poco dopo leelezioni: «È stata la prima volta che ho votato, e non c’era nessuna lista chemi convincesse fino in fondo, alla fine ho votato Potere al popolo».
Sta preparando la commemorazione per le Fosse Ardeatine: «Pertoccare con mano la storia della resistenza, nonostante le istituzioni sianospesso assenti». Ha 18 anni, è di Roma, fa parte di un collettivo studentesco edel coordinamento dei collettivi di Roma, e racchiude il senso di una militanzamolto ampia proprio nell’antifascismo: “Per me l’antifascismo è sempre qualcosadi necessario, il che vuol dire stare in piazza o lì dove c’è bisogno, edeliminare ogni atteggiamento paternalistico, spazzando via ogni dibattito sucome rifondare la sinistra, su come rivedere il rapporto con la storia. Ladomanda che mi faccio non è tanto cos’è essere antifascisti, ma cosa fal’antifascismo. E cerco di metterlo in pratica ogni giorno. Per me non si puòprescindere da modelli di società utopiche, ispirate dalle comunità zapatiste odal federalismo democratico di Öcalan”.
Sembra remotissima, ma l’esperienza dell’Unità di protezione delpopolo (Ypg) – soprattutto delle loro combattenti in Kurdistan – è un orizzontecomune. Come una specie di patria d’elezione tiene insieme i militanti di Roma,quelli di Milano, quelli di Torino.
L’ideadi partire e andare a rischiare la vita in Siria contro il gruppo Statoislamico o contro le truppe di Recep Tayyip Erdoğan ricorda i volontari europeinella guerra civile spagnola, soprattutto gli anarchici del Partito operaio di unificazione marxista (Poum),stretti a un certo punto nella battaglia tra fascisti e stalinisti.
Esperienza generazionale
Hoprovato a mettermi in contatto con Maria Edgarda Marcucci ossia Eddi – 26 anni,torinese, partita nel settembre 2017 per la Siria – nei giorni della battaglia di Afrin, ma eraovviamente impossibile, e lei stessa, ho scoperto attraverso la madre, mi hadetto che non vuole parlare di quello che succede lì finché non tornerà. Ma anche solo guardando
il suo video, in cui spiega le ragioni dellasua scelta, viene da pensare alle prime pagine di
Omaggioalla Catalogna (1938) di George Orwell.
La sua esperienza, nonostante sia così estrema e unica, èindiscutibilmente generazionale, e questo elemento è rivendicato da molti. Checi faccio qui, in quest’Italia dove è difficile immaginare un futuro politico osociale?, sembrano chiedersi alcune ragazze e ragazzi. Per alcuni di loroandare a combattere in Kurdistan non è così paradossale. Qualche giorno primaavevo letto il romanzo-reportage di Davide Grasso, Hevalen (2017).Anche lui è andato in Siria, e ha affiancato l’Ypg per otto mesi. Poi èritornato in Italia. Un brano all’inizio del libro racconta la sua vocazione.Il momento in cui ha deciso di arruolarsi ha coinciso con i momenti successiviall’attentato del Bataclan a Parigi, contraddistinti dallo sconforto per lerisposte delle istituzioni e il rifiuto di quelle della politica:
«Con Valeria Solesin, e con le altre vittime, avevo stabilito in segreto un canale personale. I giovani europei avevano pagato. Noi, la generazione Erasmus, precaria e in viaggio, emigrante e fuori sede. Eravamo stati scelti come bersaglio dai guerrieri di Allah perché espressione di un modo di vivere inaccettabile. Dopo pochi giorni il Bataclan avrebbe riaperto, nel primo anniversario della strage. Non ci sarei stato. Stavo tornando in Italia, per abbracciare la mia famiglia incredula. Il fasto dell’imminente cerimonia di Stato, in ogni caso, non mi interessava. La violenza era necessaria; ma ero partito per non delegarla a quegli squali in giacca e cravatta, ai loro intrighi e ai loro segreti, che infiniti Bataclan avevano distrutto nel resto del mondo».
La violenza necessaria. Quando leggo queste parole penso alrapporto tra violenza e antifascismo, una questione complicata. Su questo temalo storico Claudio Pavone ha scritto pagine importanti. Il suo libro Una guerra civile (1991)è una bussola per chi vuole capire la differenza fondamentale tra la violenzautile – necessaria contro il regime – e violenza fascista – nutrita dimachismo, di fatalismo, di autoritarismo, di sadismo.
Una brutta aria nellastoriografia
“Sulladifferenza tra le due violenze, quello che scrive Pavone è ancora un puntofermo”, ribadisce lo storico Carlo Greppi. Lo incontro a Roma a metà marzo, ciripariamo dalla pioggia sotto i portici dell’Auditorium di Renzo Piano, dove haappena presentato il suo nuovo libro. 25 aprile 1945 raccontala storia di tre padri della repubblica, Raffaele Cadorna, Ferruccio Parri eLuigi Longo – uno monarchico, uno azionista, uno comunista.
Greppi spiega che per uno studioso oggi occuparsi di quello che èsuccesso in Italia tra il 1943 e il 1945 vuol dire essere dentro il dibattitopolitico – l’intervista con Giampaolo Pansa di Aldo Cazzullo incui Pansa sostiene che “la storia della resistenza come la conosciamo è quasidel tutto falsa, e va riscritta da cima a fondo” è uscita solo pochi giorniprima. Lo storico dice che “tira una brutta aria nella storiografia. Lastessa categoria dell’antifascismo, quanto più ce ne sarebbe bisogno, tanto più viene messa in discussione”. E aggiunge: “Siamo nella fase dell’anti-antifascismo, una posizione ormai condivisa. Pensa a tutti gli storici che dicono che qualsiasi cosa sia successa dopo il 1945, non si può parlare di fascismo perché il fascismo è finito con la guerra».
Per Greppi, questa interpretazione non tiene conto del fatto che «il fascismo – neofascismo, postfascismo – è tornato. Non è che sia stato sottovalutato un problema, è stato proprio negato».
Quello che è successo, dice Greppi, viene visto da molti come una specie di partita di calcio. “Ma non è vero che la lotta di liberazione è stata una guerra tra ‘neri’ e ‘rossi’: nella resistenza coesisteva un numero impressionante di anime. E soprattutto, per quanto riguarda i valori, parliamo di due universi che non possono coesistere, e si combattono. Un conto è ammettere la complessità e le contraddizioni nell’esperienza dei partigiani; un conto è ridurre tutto a un minestrone in cui tutto si somiglia e in cui una posizione vale l’altra: così si fa il gioco dei fascisti. È triste da dire, ma in Italia scagliarsi contro una presunta egemonia culturale, dare voce ai complottisti e ai fascisti, rende. Fare ‘controstoria’ è diventato un business”.
Da Macerata a Roma
Il 10 febbraio sono a Macerata per la manifestazione antifascista organizzata dopo l’attentato di Traini, insieme ad altre trentamila persone. Pioviggina, e fa talmente freddo che il corteo invece di sfilare sembra correre, circumnavigando le mura della città vecchia e le antiche porte che sono state chiuse con le camionette della polizia. Negozi, bar, saracinesche: tutto è chiuso.
Camminiamo in una città fantasma a cui il sindaco, in modo insensato, ha imposto un giorno di coprifuoco. Nonostante l’Associazione ricreativa culturale italiana (Arci), l’Associazione nazionale partigiani italiani (Anpi) e Libera non abbiano aderito, sono tante le loro sezioni che hanno scelto di partecipare; ed è pieno soprattutto di ragazzi di vent’anni o meno, e in tanti scendono in piazza per la prima volta.
La manifestazione è stata convocata dal centro sociale Sisma di Macerata e da altre associazioni. Il collettivo Antifa Macerata, che ha aderito alla manifestazione, qualche giorno dopo prova a ragionare su quello che è successo in un documento intitolato Si riparte da Macerata! Ma per andare dove?.
Le accuse sono molto pesanti. Alcune criticano Minniti, “a parole antifascista, non solo ha lasciato spazio alle organizzazioni neo-fasciste (…) ma le ha protette dai cortei antifascisti con manganelli, cannoni d’acqua e lacrimogeni”. Altre i sindacati, che hanno “attivamente partecipato allo smantellamento dei diritti del lavoro, alla precarizzazione delle nostre vite, all’allungamento dell’età pensionabile e alla limitazione sistematica del diritto di sciopero”. Altre ancora l’associazionismo e il suo “approccio assistenzialista portato avanti dalle proprie organizzazioni, fatto di appalti milionari e programmi che infantilizzano i migranti, alimentano il conflitto tra poveri e generano profitti attraverso la creazione di forme di dipendenza impedendo ogni possibilità di emancipazione e autodeterminazione”.
Anpi, Arci, Cgil e altre venti associazioni e partiti convocano una manifestazione antifascista due settimane dopo quella di Macerata, il 24 febbraio. Il tentativo è stato quello di provare a riavvicinare le due anime, ma il rischio è stato di averne evidenziato le differenze, anche generazionali. Di fronte all’attore Giulio Scarpati che introduce sul palco i vecchi partigiani, i manifestanti non riempiono metà di piazza del Popolo, a Roma. L’età media è sessant’anni. E se la lettura delle lettere dei condannati a morte della resistenza tocca sempre il cuore, il resto appare come una sfilata dovuta, in cui perfino gli appelli di Scarpati – “Guai a far naufragare la resistenza nel rituale” – sembrano un’excusatio non petita.
Poco dopo, il sociologo Federico Bonadonna mi dice: «Nessuno ha parlato di politiche reali di accoglienza, reddito, casa, lavoro, scuola. Il fascismo è il nemico ideale: consente di non mettere in discussione le drammatiche politiche antisociali che hanno portato il 12 per cento degli italiani in condizioni di povertà estrema e i giovani disoccupati al 20 per cento».
Da Palermo a Milano: l’impegno quotidiano
Il giorno stesso a Palermo la manifestazione è piena di studenti. Sfilano esibendo in modo situazionista dei rotoli di scotch – qualche giorno prima il dirigente provinciale di Forza nuova Massimo Ursino è stato aggredito e legato con del nastro adesivo. Giorgio Martinico, del centro sociale Anomalia, mi spiega che il gesto situazionista è una risposta alle provocazioni dei neofascisti: «Palermo fino a quindici anni fa era una città dove la presenza fascista era forte. Ci abbiamo messo tanto a combatterla. Abbiamo organizzato presidi e abbiamo negato ‘agibilità politica’ ai fascisti. Oggi a Palermo non c’è nessuna recrudescenza fascista. In campagna elettorale, gli esponenti di Forza nuova come Massimo Ursino hanno provato a cercare consenso, facendo le ronde nei quartieri popolari. Lo scotch è un modo per esprimere una posizione: basta piangersi addosso e denunciare, serve un antifascismo militante».
Gaia Benzi, 27 anni, ricercatrice di italianistica e attivista della palestra popolare Scup a Roma, ha provato a capire come si può andare oltre le reazioni estemporanee per riempire di senso questo antifascismo militante. In Costruire l’antifascismo oltre l’emergenza scrive:
«Le iniziative antifasciste all’apparenza più lodevoli e, diciamo così, ‘d’impatto’, se prive di un radicamento territoriale rischiano di essere percepite come ‘guerra tra bande’. E la contrapposizione sul piano chiamiamolo militare – di forza bruta, fatta di azioni che si concentrano principalmente sui partitini dichiaratamente fascisti, che vanno braccati e ostacolati e sfidati pubblicamente – risulta spesso incomprensibile nelle pratiche a una maggioranza silenziosa non fascista che pure potrebbe e dovrebbe essere inclusa nel discorso. Un antifascismo dal retrogusto machista, che rischia di essere indistinguibile a un occhio esterno. (…) Mi sembra che oggi ci sia bisogno soprattutto di potenziare quei ragionamenti e quelle pratiche che si concentrano nell’attaccare il retroterra che gonfia le vele delle destre: ragionare, cioè, su come levare ai fascisti il terreno sotto i piedi».
Essere antifascisti in un paese in cui il disimpegno e l’antipolitica sono sempre più diffusi e creano un terreno fertile per il neofascismo, non è semplice. «Siamo i figli di una generazione di cinquantenni che passa il proprio tempo a insultarsi su Facebook”, mi aveva detto uno studente di sedici anni alla manifestazione di Non una di meno a Roma l’8 marzo. «Il fascismo è l’espressione di un vuoto culturale», dice Carlo Scarponi, giovane militante di Antifa Macerata, citando Cultura di destra di Furio Jesi. Quando gli chiedo quali sono i suoi libri di riferimento, mi risponde elencando testi spesso citati anche dalle ragazze e dai ragazzi che ho incontrato in questi mesi: dall’intersezionalità delle lotte di Angela Davis alla resistenza climatica di Naomi Klein. Femminismo, postcolonialismo e molto marxismo: dopo anni di antiintellettualismo – anche a sinistra – tante e tanti guardano ad autrici e autori radicali per costruirsi una biblioteca politica.
A Milano l’antifascismo è un impegno quotidiano. Il gesto del sindaco Beppe Sala – che il 18 marzo ha portato dei fiori sulla targa che ricorda Fausto e Iaio, uccisi quarant’anni fa da militanti neofascisti dei Nuclei armati rivoluzionari – sarebbe difficilmente replicabile in altre città.
In via Monte Rosa incontro uno degli attivisti storici dello spazio sociale Cantiere, Leon Blanchaert. Blanchaert riassume in poche parole il cuore delle battaglie di ragazze e ragazzi di oggi: «Gli studenti sono riusciti a ritrovarsi intorno a due mobilitazioni, gli Studenti meticci e Non una di meno, quindi intorno all’antirazzismo e all’antisessimo. Ce l’hanno fatta meno su temi loro, come l’alternanza scuola».
È quello che mi conferma L.M., 26 anni, attivista del Cantiere da quando era un ragazzino: «La riconquista di spazi di libertà e diritti per tutti – per neri gialli verdi blu, etero lesbiche gay trans – è il modo in cui le giovani generazioni vengono a contatto con l’antifascismo». Ma aggiunge anche un’altra considerazione: «Certo se tutti i giorni sei bombardato dalla televisione che parla di invasione o dalla balla dei 35 euro al giorno per gli immigrati, non è difficile capire come si forma una cultura razzista. Per fortuna Milano è una metropoli, in cui se escludi le cinque-sei scuole del centro, hai studenti di tutto il mondo: cinesi, arabi, indiani, e lì è difficile che attecchisca un’idea per cui c’è chi vale di più e chi di meno».
Sono passate due settimane dalle elezioni, e Salvini sembra riuscito a riportare l’estremismo di destra al centro della scena – a Milano, per esempio, strizzando l’occhio a movimenti neofascisti come Lealtà e azione. La sua vittoria, mi dice Blanchaert, va inquadrata in un quadro più complesso: “Esiste una questione che riguarda il suffragio universale e che politicamente nessuno affronta – anche se in parte è stato fatto con le manifestazioni per lo ius soli”.
Per spiegarla, Blanchaert invita a tenere presente alcune cifre: “Quasi il 12 per cento delle persone che vivono in Lombardia è straniero. Molti sono residenti qui da tanto tempo, ma non hanno diritto di voto”. E analizza le conseguenze di questo diritto negato: “Bisogna anche considerare che l’esclusione dei cittadini stranieri dal voto genera numerosi effetti sul dibattito pubblico. Per esempio i partiti non si devono preoccupare di urtare le sensibilità di chi non vota. A Milano, dove vivono 1,3 milioni di persone, hanno votato Lega e Fratelli d’Italia circa 130mila elettrici ed elettori su un milione: quindi, poco più del 10 per cento”.
Nuovi modelli di impegno
A Napoli la situazione dell’antifascismo si concretizza in altre storie ancora. La retorica nazionalista è presente nelle scuole, anche se in classe ci sono ragazze e ragazzi di tutto il mondo. Errico F., 17 anni, studente del liceo scientifico Vincenzo Cuoco e militante del Coordinamento Kaos, mi racconta le conferenze sull’antirazzismo che sono state organizzate nell’ultimo anno parallelamente alle partite dell’Afro Napoli – la squadra di calcio composta quasi per intero da ragazzi senegalesi, nigerini, tunisini, capoverdiani che abitano tra il rione Sanità e piazza Garibaldi – che oggi gioca nel campionato di Promozione.
L’esempio che cita Errico lo ritrovo in decine di altre esperienze che mi vengono raccontate nelle manifestazioni, nei cortei, nei centri sociali, nelle reti antifasciste durante questo ultimo anno: “Devi assolutamente sentire x, ti do il numero di y, c’è il compagno z a Genova che, devi conoscere quello che fanno a Padova, a Catania, a Bologna…”. Tutti mi raccontano di squadre di calcio formate da ragazzi italiani e stranieri, di palestre popolari, di occupazioni abitative. La militanza nasce e si sviluppa in questi contesti in modo imprevisto.
È questo il modello che si è imposto dopo la crisi dei centri sociali, sgomberati o diventati – negli anni duemila – luoghi nostalgici, in cui spesso non c’è stato un ricambio generazionale tra i militanti. Alcuni, poi, sono stati trasformati in trattorie, pub, discoteche…
Giulio Bartolini, responsabile della palestra popolare Valerio Verbano a Roma e uno dei fondatori del Coordinamento nazionale sport popolare (Conasp) me lo spiega bene. Chiacchieriamo davanti ai grandi murales che raffigurano Valerio Verbano, giovane attivista di sinistra ucciso nel 1980, e Carlo Giorgini, militante e maestro di karate morto qualche anno fa di malattia: «La palestra non può essere né una nicchia né un contenitore di indottrinamento, ma un luogo a cui le persone possono accedere senza distinzioni, soprattutto economiche. Fare sport oggi è un lusso: le palestre normali ti chiedono cento euro al mese. Noi accogliamo. O meglio, spesso andiamo a prendere quei ragazzini che stanno sul muretto a pippare cocaina alle quattro del pomeriggio e li portiamo dentro. Vengono da famiglie complicate, spesso i genitori sono analfabeti. Che faccio? Mi metto a spiegargli Karl Marx? Il passaggio dalla pratica sportiva all’educazione ai valori o all’attivismo viene da sé, frequentando gli altri iscritti. C’era un ragazzino che faceva boxe che pensava che Valerio Verbano ero io, che m’ero intestato la palestra a nome mio. Gli ho spiegato tutta la storia di Valerio, e quest’anno la sorella in terza media c’ha scritto la tesina. Ci si sono ritrovati, è la loro storia”.
La suggestione del radicalismo di destra cresce quanto più diminuisce l’idea di fratellanza, prossimità, giustizia, ossia l’idea democratica
Un altro ragazzo, Giulio B., 28 anni, ha messo per la prima volta piede nella palestra a 18 anni e non se n’è più andato. Oggi fa l’educatore e mi racconta che “il passaggio di consegne tra generazioni è difficile”. Spiega che “è difficile trasmettere la memoria delle lotte della città e del quartiere, dalla resistenza alle lotte recenti, come quella per la casa” e aggiunge che “la scuola non ci aiuta”.
Del difficile rapporto tra generazioni – una questione cruciale – mi aveva parlato anche Carlo Greppi, che dall’inizio degli anni duemila organizza i viaggi della memoria: «All’inizio eravamo poco più grandi dei ragazzi che accompagnavamo, adesso potremmo essere i loro genitori. Un’esperienza importante, duemila ragazzi all’anno che con la nostra associazione Deina accompagniamo in vari lager nazisti in Europa. È questo, credo, essere antifascisti: mostrare le terrificanti conseguenze di un’ideologia che nel novecento ha messo a ferro e fuoco il mondo. Li portiamo su quelli che David Bidussa ha definito come ‘i luoghi del futuro che non vogliamo avere’».
Il ruolo della scuola
Dunque, la scuola. La scuola che «non ci aiuta», nelle parole di Giulio B., e quella che organizza i viaggi della memoria citati da Greppi. È di un anno fa il rinnovo del protocollo d’intesa siglato dall’Anpi e dal ministero dell’istruzione per “divulgare i valori espressi dalla costituzione repubblicana e gli ideali di democrazia, libertà, solidarietà e pluralismo culturale”. Perché è chiaro, come dice Gianfranco Pagliarulo, vicepresidente dell’Anpi, che «la suggestione del radicalismo di destra cresce quanto più diminuisce l’idea di fratellanza, prossimità, giustizia, ossia l’idea democratica».
Tuttavia, durante l’incontro che l’associazione dei partigiani ha organizzato un paio di mesi fa – attraverso la rivista Patria indipendente – tra storici dai cinquant’anni in su e ragazze e ragazzi di vent’anni di varie organizzazioni, è venuto fuori un confronto che in parte critica l’approccio dell’Anpi.
Martina Carpani, 21 anni, coordinatrice nazionale di Rete della conoscenza, replica alla visione di Pagliarulo, che le sembra paternalista, insistendo sulla questione generazionale e dicendo che non si può non tenere conto di una disoccupazione giovanile al 33 per cento: “L’idea della politica come progetto, come trasformazione radicale, è andata sempre di più scomparendo, fino a morire, e questa scomparsa secondo me è stata alla base della frattura tra le istituzioni, i partiti, e le generazione più giovani. Non c’è la volontà di gestire i processi di trasformazione. I famosi braccialetti di Amazon sono reali, la precarietà è reale, ma mentre per noi è al centro di ogni discussione, non lo è nei discorsi delle generazioni più vecchie. Io ho l’impressione che la politica difenda se stessa e voglia ritornare a orizzonti precedenti alla crisi. Come se si potesse tornare indietro”.
Jacopo Buffolo della Rete degli studenti medi aggiunge:«A scuola non si studia cos’è successo dopo la seconda guerra mondiale, non sai cosa sono gli anni di piombo, né cos’è il neofascismo. E non è solo un problema di programmi, ma anche di come vengono messi in pratica. Esci dalle scuole superiori, finalmente puoi votare, ma non hai un’idea precisa. Il fascismo è l’ultimo modello di stato che ti viene comunicato a scuola. Non si arriva quasi mai ad affrontare la repubblica, e i processi politici da cui è nata e che la governano. Questo è un tema fondamentale, sul quale bisogna andare ad agire».
Come mi aveva fatto notare Davide Grasso, il ragazzo che è partito per andare a combattere con l’Ypg, sono cambiate molte cose nel passaggio tra il novecento e gli anni duemila: «Oggi chi lotta contro il fascismo è completamente diverso rispetto a chi lo faceva quindici anni fa, perché allora la cultura antifascista non veniva messa in discussione. Oggi per molti il fascismo è solo un’ideologia tra le tante, e non vedono l’antifascismo come qualcosa di giusto».
Mentre ci avviciniamo al 25 aprile, la questione ritorna in tutta la sua complessità: che ne facciamo dell’antifascismo? La sua crisi conclamata, analizzata nel 2004 da Sergio Luzzatto nel saggio intitolato proprio La crisi dell’antifascismo, cos’ha prodotto? Lacerazioni interne? Una nuova richiesta di radicalismo?
Ne parlo con lo storico David Bidussa. Avevo letto anni fa il suo Dopo l’ultimo testimone (2009), dove rifletteva su come tramandare la memoria dell’olocausto o della resistenza dopo la morte dei testimoni diretti. Mi aveva fatto cambiare prospettiva allora e oggi ci riesce di nuovo: «L’antifascismo è diventato qualcosa di archeologico. Ma oggi, per capire cosa sia, bisognerebbe vederlo come un’analisi critica delle ideologie autoritarie. Se lo consideri come l’espressione di una determinata epoca storica, allora implicitamente decidi che ha vinto Croce che pensava che il fascismo fosse una parentesi. L’antifascismo è un insieme di valori, idee, domande che riguardano i rapporti tra le persone, tra cittadini e potere, tra forze politiche. Domande, idee, valori che dovrebbero essere sul piatto della politica anche oggi. Per esempio, in questi anni si parla molto del fatto che le nuove generazioni hanno paura di non avere un futuro. Come reagiamo a questo? Chi si dichiara fascista giudica fallimentari le ricette usate finora e si rifà a un passato nostalgico, idealizzato, qualcosa che assomiglia a un sogno infranto. Mentre chi si dichiara antifascista prende quello che c’è di buono nelle esperienze passate e lo usa per affrontare le sfide del presente. Le risposte a queste sfide non sono la chiusura, la nostalgia, il nazionalismo, ma l’inclusione, la non discriminazione, la capacità di pensare al domani con una visione di crescita condivisa e governata».
«Il pacifismo era già moribondo, soffocato dalla propriaimpotenza a causa di una serie di sconfitte storiche che hanno provocatofrustrazione e disincanto», così sostiene Gigi Riva su la Repubblica del 16aprile, ed enumera gli eventi che sosterrebbero la sua tesi. Analogo parereaveva esposto qualche giorno prima Gianni Toniolo in un editoriale de il Sole24ore, argomentando che in ogni azione pacifista, prima di muoversi, si sarebbedovuto valutare freddamente se era possibile vincere.
C’è del vero in queste posizioni, ma sarebbe un pericoloso errorearrendersi senza domandarsi che cosa è cambiato, e se davvero è necessariorinunciare a battersi per la pace.
Noi non diremmo che il pacifismo sia scomparso, ma che si è disgregato.Il nostro mondo è pieno di conflitti nei quali si scontrano forze (deboli opotenti, pattuglie o eserciti) che si battono per l’opzione pace / guerra:dall’Ucraina al Congo, dalle Filippine alla Colombia, dal Venezuela allaPalestina, dallo Yemen alla Siria, dal Pashmir alla Somalia - per non ricordareche alcuni dei mille conflitti aperti.
Ma tra le parti in conflitto c’è una grande differenza: lefazioni che operano per la guerra hanno alle spalle un sistema potentissimo chele alimenta: quello del “complesso degli armamenti”, più forte di tutte le altreholding che animano il finanz-capitalismo. Le forze della pace sono invecedisgregate. Ciascuna delle sue porzioni vede solo l’avversario immediato,combatte da solo, come Davide contro Golia.
Questa situazione perdura dagli anni Ottanta del secoloscorso. In un momento come questo, in cui la conflittualità e l’interventismomilitare internazionale si intensificano in tutto il pianeta, secondo lamutevole geografia degli interessi Usa, la credibilità dell’ONU diminuisce e ildibattito sulla democrazia internazionale è a minimi storici, ci sembra deltutto evidente che occorre recuperare unadimensione globale della pace. Non possono esistere tanti separatipacifismi, uno per ciascun conflitto se si vuole essere incisivi.
E’ indispensabile (ri)prendere il dibattito sul pacifismo esulla democrazia internazionale, mettendo al centro non la politica interna, maquella estera. Limitare il principio democratico ai singoli stati significaschiacciarlo su considerazioni di politica interna, che lascia il campo anchealla razionalità e convenienza della guerra per difendere gli interessinazionali. Infatti, la politica moderna ammette la guerra come legittima nelrapporto con gli altri stati. Diceva Frederick Engels nel 1848 «Come voleteagire democraticamente verso l'esterno, finché la democrazia è imbavagliataall'interno?»
Occorre rendersi conto che la pace è una condizione indivisibile dell’umanità. E che ognilotta per la pace è sterile, e sarà sconfitta, finché non diventerà un’unicaazione contro la guerra in sé – e quindi, necessariamente, contro il complessoindustriale e finanziario che la alimenta, e il sistema economico-sociale dicui è parte integrante.
Bisogna scendere in piazza, uniti si per la pace, ma anchechiedendo a gran forza il disarmo, la dismissione delle basi nucleari, laconversione delle industrie belliche in Italia, e battersi nelle prossime elezioni europee peril disarmo unilaterale dell’Unione Europea.
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la Stampa, 4 aprile 2018.
Abbasso l’ordine internazionale liberale. E quindi abbasso la Germania, viva l’America di Trump e bene anche Putin. È meglio che l’Italia si schieri con i Grandi lontani che con i Grandi vicini europei: avrà meno vincoli e maggiore libertà d’azione. In estrema sintesi, la Lega e in parte i 5 Stelle – in parte: le posizioni dei due, anche in politica estera, non coincidono certo – propongono una visione internazionale del genere. Ciò significa che una percentuale consistente del nuovo Parlamento e un ipotetico governo futuro concepiranno la difesa degli interessi nazionali dell’Italia in modo diverso dalla tradizionale combinazione fra europeismo classico e atlantismo (o ciò che ne rimane).
Non si tratta di un peccato mortale: a differenza di quanto si tende a pensare, la valutazione degli interessi nazionali non è mai oggettiva, è politica e soggettiva. E quindi può evolvere nel tempo – anzi deve evolvere di fronte a un contesto esterno che si sta frammentando. Il problema vero è un altro: è di capire fino a che punto la visione di politica estera sovranista/populista sia credibile e possa garantire risultati efficaci per l’Italia.
L’Italia ha lo spazio e le capacità per giocare una carta «anti-establishment» in chiave internazionale? Prendere le distanze dal «cuore» europeo rientra davvero nei nostri interessi nazionali?
La risposta è no, per ragioni pragmatiche prima ancora che per scelte ideali. Anzitutto, non è nel nostro interesse nazionale scivolare politicamente fuori dall’area euro pur restando (almeno nel breve e medio termine) dentro le strutture dell’euro-zona. Sarebbe la ricetta per l’irrilevanza, proprio quando un’Europa fortemente divisa discute scelte importanti per gli anni futuri: dalla struttura del bilancio al completamento dell’Unione bancaria. I famosi vincoli europei resterebbero intatti, così come la nostra fragilità di Paese ad altissimo debito pubblico; e al tempo stesso perderemmo qualunque influenza politica. In particolare verso Francia e Germania, dove a tratti riappare la tentazione di immaginare un «nucleo duro» carolingio, che potrebbe escludere l’Italia (ma probabilmente non la Spagna). Lega e 5 Stelle sembrano avere ormai chiaro che l’uscita dall’euro avrebbe costi insostenibili per il nostro Paese; ne devono però derivare scelte politiche e alleanze coerenti. Flirtare con il gruppo di Visegrad non risolve nessuno, ma proprio nessuno (includendo l’immigrazione), dei nostri problemi. Per evitare uno scenario «Grecia-Plus», responsabilità economica nazionale e tavolo di Bruxelles restano essenziali: alternative realistiche non esistono, specie in una fase in cui la politica di sostegno della Banca centrale europea è destinata gradualmente ad esaurirsi. Se la tenuta dell’Italia costituisce una delle incognite principali per l’insieme dell’eurozona, questo non significa che i nostri conti verranno pagati dall’esterno; significa – con tanti saluti al sovranismo – che finiremmo sotto tutela. O sotto la frusta dei mercati.
Seconda ragione: puntare sull’America di Trump contro la Germania dalla Grosse Koalition è una scommessa, piuttosto che una scelta. Soprattutto perché la politica americana è oggi dominata dall’incertezza (come atout strategica), senza particolari garanzie per gli alleati. La Casa Bianca dell’America-first sembra quasi attratta da una logica del «tanto peggio tanto meglio»: tanto più si spaccano i vecchi assetti multilaterali, tanto meglio sarà per gli Stati Uniti in quanto attori comparativamente più forti. L’Italia, che è al massimo una media potenza, ha poco da guadagnare e qualcosa da perdere: ad esempio, la stretta sul commercio internazionale lede gli interessi di un Paese fortemente esportatore come il nostro, con un notevole surplus nei confronti degli Stati Uniti e una forte interdipendenza con la Germania. Su un piano diverso, la reticenza dei 5 Stelle a contemplare aumenti della spesa militare non renderà più semplici i rapporti con Washington e con la Nato. E Lega e 5 Stelle tenderanno a dividersi, su questo e su altri dossier rilevanti per la relazione con gli Stati Uniti.
Terza ragione: poco credibile è anche la capacità di tenere insieme - in una politica estera giocata appunto sui Grandi lontani invece che sui Grandi vicini – l’alleanza con Trump e l’ammirazione per Putin, come uomo forte (Lega) o come oppositore del vecchio ordine liberale internazionale (5 Stelle). Il clima fra Washington e Mosca non volge verso il bel tempo: per ragioni domestiche (Russiagate) e internazionali (il caso Skripal, gli allineamenti opposti sull’Iran), è difficile che la linea dialogante di Trump (il presidente americano ha proposto a Putin un incontro alla Casa Bianca) possa sortire dei risultati. Un’Italia platealmente filo-russa, in una fase tesa come quella attuale, entrerebbe in collisione sia con l’Ue che con Washington. E con la Gran Bretagna, ispiratrice di una Brexit vista con favore dalla Lega.
Come si vede, i rapporti con le due grandi potenze extra-europee non potrebbero compensare la debolezza a Bruxelles, dove si gioca, per l’Italia, la partita economica decisiva; anzitutto nella relazione con Germania e Francia. È indubbio che l’europeismo tradizionale abbia bisogno di aggiornamenti: poiché l’Europa è un contesto fortemente competitivo, non solo cooperativo, l’Italia deve aumentare in modo sostanziale la capacità di difendere, attraverso la politica europea, anche i propri interessi nazionali. Lo sgretolamento del vecchio «ordine» post-Guerra Fredda apre, assieme a moltissimi rischi, nuovi spazi di azione; e impone anche al nostro Paese una politica estera più dinamica, nel Mediterraneo anzitutto. Per muoversi in questo senso, tuttavia, l’Italia dovrà comunque fare leva su una posizione solida in Europa: questa resta la condizione necessaria, indispensabile, per essere un attore credibile. Illudersi che sponde extra-europee bilancino la nostra fragilità nel Vecchio Continente, non aiuterà.
Huffington post, 3 aprile 2018. Una proposta convincente, come obiettivi e come metodo. Molto vicina a quella di Viola Carofalo e "Potere al popolo" .Con riferimenti
Il mio articolo "Le macerie della sinistra", del 22 marzo scorso sull'HuffPost e su www.sbilanciamoci.info ha provocato critiche, richieste di chiarimenti e domande su come andare avanti. Le proposte su come continuare sono già nelle conclusioni di quell'articolo: rinnovare la cultura politica, lavorare nella società, praticare la politica dal basso, continuare nella "lunga marcia nelle istituzioni". Sì, ma in pratica che potremmo fare?
«Leu politicamente finita, a meno di innovazioni radicali». Viene chiesto: ma quali sono, quali dovrebbero essere? Bisogna cambiare campo di gioco, obiettivi della partita e pratiche sul terreno. Il gioco dev'essere radicalmente diverso dalle dinamiche politiciste, autoreferenziali e conservatrici di questi mesi.
Gli obiettivi devono essere quelli di ricostruire un insediamento sociale, identità collettive –alternative a quelle illusorie offerte da M5s e Lega agli elettori in fuga dalla sinistra – e una rappresentanza politica dei "perdenti'" quel 90% di italiani che stanno peggio di vent'anni fa.
L'obiettivo è ricostruire un blocco sociale post-liberista e post-populista che riprenda la via della democrazia e di una politica del cambiamento. Le pratiche devono ridare voce e protagonismo alle persone, devono aprire una nuova grande partecipazione diretta – non quella fasulla sulle piattaforme digitali -, organizzare conflitti che esprimano i valori, gli interessi sociali e i bisogni concreti di chi sta peggio.
Un tuffo nella società, nella vita concreta delle persone, nella ricostruzione di una politica dal basso. È una svolta urgente: presto gli effetti dell'instabilità politica, i colpi di una nuova stretta economica, la delusione per le promesse mancate di Cinque stelle e Lega potrebbero aggravare il disagio materiale, la disgregazione sociale e la deriva autoritaria della politica.
È un lavoro di lungo periodo, e ci serve una discussione collettiva di ampio respiro su come realizzarlo. Ma già oggi le scelte sul terreno della politica e delle iniziative delle forze in campo devono essere funzionali a quell'orizzonte di impegno. Vediamo cinque cose che quello che resta di Leu e altre forze della sinistra –in parlamento e fuori – potrebbero fare subito per avviare questo cambiamento:
Primo, "La politica": Serve una carta d'identità della sinistra, una proposta di cambiamento vero dopo trent'anni di neoliberismo, un "programma minimo" -come quelli dei socialisti di un secolo fa- di cinque proposte radicali e di mobilitazione politica: rovesciare le disuguaglianze, creare lavoro stabile, rilanciare il welfare, prevenire il cambiamento climatico, assicurare pace e disarmo. Bisogna archiviare il programma elettorale ambiguo e contraddittorio con cui Leu si è presentata alle elezioni all'insegna del: "ci vorrebbe un po' piùdi lavoro, di giustizia, di diritti" e "ci vorrebbe un po' meno precarietà". Si devono dimenticare le mediazioni del passato in un centro-sinistra che è morto non nel 2018, ma nel 2013. Non si possono inseguire spazi in un "governo del presidente" che potrebbe emergere dall'instabilità politica attuale.
Secondo, "L'Europa": Tra un anno ci sono le elezioni europee e saranno una nuova messinscena dello scontro illusorio tra tecnocrazia europea e populismo nazionalista. Quello che manca è una discussione politica sull'Europa, e lo si vede anche nel fatto che tutte le 'famiglie' politiche europee sono a pezzi. I Cinque stelle potrebbero trovarsi insieme ai renziani nel gruppo di Macron. I Socialisti europei sono decimati dalle sconfitte in Francia, Germania, Grecia, Spagna, Italia e non riescono a liberarsi di figure come il socialista olandese e questurino dell'austerità Jeroen Dijsselbloem. A sinistra il Gue è paralizzato dallo scontro interno tra chi vuole cambiare l'Europa e l'euro e chi vuole uscirne. L'unica novità è la proposta di una lista transnazionale avanzata da Yanis Varoufakis e dal suo gruppo Diem25 per cambiare l'Europa antidemocratica e neoliberista, ma c'è molto lavoro da fare per trasformare un'operazione mediatica di vertice in una vera forza politica europea. Forse ci potremmo provare.
Terzo, "Il partito": Si vuole costruire un partito di sinistra? Si cambi registro. Le forze politiche (o quello che ne è rimasto) invece di continuare a bearsi della propria autosufficienza sempre più inesistente siano il lievito di qualcosa di radicalmente nuovo: facciano un passo di lato e si mettano a disposizione per favorire una costituente dal basso, estesa, inclusiva, con un gruppo dirigente e regole del tutto nuove, il 50% dei componenti siano persone senza partito, esponenti dei movimenti, delle realtà locali, delle associazioni; sia assicurata la parità di genere; siano aperte le porte agli immigrati e alle seconde generazioni. Lo stesso avvenga nella scrittura del programma e poi nelle candidature alle prossime elezioni. Bisogna rivoluzionare le sedi, le procedure, le forme dell'organizzazione e della decisione politica. I gruppi sclerotizzati si sciolgano in un lavoro comune. Un partito davvero 'nuovo' deve cambiare radicalmente il modo di selezionare i gruppi dirigenti, di prendere decisioni, di spendere i soldi, di comunicare, di coinvolgere e ascoltare sostenitori e elettori. È necessario prevedere l'incompatibilità tra cariche di partito, parlamentari e istituzionali, sperimentare –perché no- il sorteggio per alcune cariche, scardinare i meccanismi consociativi e spartitori della scelta "dall'alto", prevedere obbligatoriamente referendum tra gli iscrittti per le scelte "cruciali" su elezioni, programmi e alleanze.
Quarto, "La società civile, i movimenti": La questione dovrebbe essere semplice: si fa politica in tanti modi, nei partiti, nel sindacato, nei movimenti, nella società civile. Ma negli ultimi anni si è allargata la distanza tra mobilitazioni sociali più deboli e una politica più distante. È importante riaprire spazi di conflitto, organizzare mobilitazioni e scendere sul terreno della politica. Non solo con pressioni 'dall'esterno' ma con una partecipazione 'dall'interno'. Reti sociali, strutture sindacali, esperienze dal basso devono avere spazio a pieno titolo nell'azione politica –e nel 'partito' se lo si vuole costruire davvero- con un riconoscimento della politicità del loro ruolo. E, a loro volta, queste realtà sociali devono contribuire a costruire identità politica e consenso elettorale: senza questo doppio impegno non si ferma la deriva che abbiamo subito il 4 marzo. Il problema non è cooptare qualche persona delle associazioni nelle liste elettorali, ma riconoscere la pari dignità delle diverse forme della politica. Si tratta di praticare l'articolo 49 della Costituzione: si concorre a determinare la volontà generale non solo con i partiti, ma anche con gli altri soggetti della politica.
Quinto, "La leadership": Pietro Grasso è stato un magistrato straordinario, un riferimento essenziale nella lotta alla mafia e un buon presidente del Senato. Ma non si può essere bravi in tutto. Oggi abbiamo bisogno di uno scarto, di voltare pagina. Vediamo se ci saranno nuove disponibilità, se emergeranno nuove figure capaci di guidare il processo. Ma intanto si chiuda questa fase, si prenda atto dall'inadeguatezza delle leadership di questi mesi e la si smetta con i "caminetti" (non ci sono solo nel Pd). Un piccolo gruppo di persone nuove potrebbe amministrare –da qui alle elezioni europee- questa fase costituente con collegialità e trasparenza.
Su queste cinque cose, aspettiamo risposte.
il manifesto, 29 marzo 2018. C
«Franco Piperno, ex leader di Potere Operaio, docente di Fisica ed esperto di astronomia, osserva le vicende italiane col telescopio dell’analisi politica, orientato anche da quel pizzico di ironia che da sempre lo accompagna».
Professore, il successo dei 5stelle e della Lega ha radici profonde? Siamo di fronte ad un fenomeno che viene da lontano?
«Credo proprio di sì. Del resto questo accade pure in altri Paesi europei e negli Usa. C’è una forte crisi della rappresentanza. È un fatto che nel corso della storia si è riproposto diverse volte. Basti pensare a quel che si verificò al tempo della Repubblica di Weimar. Questa volta è un po’ più grave, perché non si tratta di un problema che possa essere risolto modificando la legge elettorale. Siamo in presenza di una sfiducia diffusa. Non è rivolta solo contro i rappresentanti, bensì contro la rappresentanza. Ho l’impressione che la diffidenza nei confronti dei rappresentanti, in quanto tali, riguardi il trasformismo, un fenomeno che l’Italia conosce bene sin dai tempi dell’unità».
È una sfiducia che travolge la sinistra in Europa a tutti i livelli?
«Sì. Pensiamo alla parabola di Syriza. Tsipras è una brava persona e quelli intorno a lui non sono certo corrotti, ma alla fine volendo prendere il potere, è il potere che li ha presi. Ed è inevitabile. Sono stato un po’ di tempo in Spagna con i compagni di Podemos e ho visto che gran parte della giornata passava ad individuare candidati, elezioni in un comune o in un altro. Questa è un’ulteriore prova della crisi della rappresentanza. Un conto è avere un’organizzazione di base, qualsiasi essa sia, e porsi poi il problema di rappresentarla. Completamente diverso è rovesciare il problema, cioè avere la rappresentanza e poi creare il movimento.
«Il caso di Liberi e Uguali è forse il più melanconico. Un intero ceto politico con anni di esperienza alle spalle si è candidato a dirigere. Non è che abbiano fatto ricorso ai legami che magari venivano dalla tradizione tanto del Pci come della Dc. No, si sono offerti direttamente come ceto politico. E anche i compagni di Rifondazione e Potere al Popolo o il Partito comunista di Rizzo rischiano di essere assorbiti da codesto meccanismo. È come se ci fosse un mercato in cui compaiono questi rappresentanti. Nulla di più».
Come spiega il successo di Lega e 5stelle nel sud?
«Entrambi hanno alla loro origine elementi interessanti. Penso alla Lega di Gianfranco Miglio e alla sua idea di federalismo spinto. Il limite era che si trattava di un federalismo concepito per regioni, e niente è più disastroso degli Stati regionali. Però c’era allo stesso tempo un’esigenza contro Roma, intesa come lotta alla centralizzazione. Invece, per quanto riguarda i 5Stelle, il reddito di cittadinanza e il tema della democrazia diretta erano interessanti, ma la mia impressione è che entrambi, Lega e 5Stelle, abbiano già fatto una brutta fine. Matteo Salvini si propone come primo ministro dell’Italia, quindi scordando tutto quello che andava fatto per costruire un’Italia federale che si sarebbe potuta costruire solo attorno alle città. Infatti, mentre le regioni sono un’invenzione, le città costituiscono la vera storia del nostro Paese.
Dal canto loro, i 5 Stelle hanno completamente abbandonato la tematica della democrazia diretta?
«Sì, e in un certo senso hanno pure fatto bene, perché ci sono dei casi di democrazia diretta paradossali. Alcuni di loro, per esempio, hanno ottenuto l’elezione dopo essere stati scelti da un centinaio di persone, quando andava bene. Lo stesso Di Maio mi dà un po’ l’impressione che sia stato estratto a sorte. Non dico che non abbia delle capacità, non lo so, non posso giudicarlo. Però appare evidente che è un esempio di democrazia affidata al caso. Questa storia della rete come democrazia diretta non solo è del tutto inconsistente, ma è quanto di più qualunquistico possa esistere.
In appena due anni i grillini in Calabria sono passati dal 4% al 40% senza aver nessun consigliere comunale, regionale, in pratica senza esistere e senza nessun candidato noto. Com’è possibile?
«La loro forza proviene dalla dissoluzione dei riferimenti precisi. Fossero di classe o culturali, non c’è più niente. Per ottenere la vittoria nel sud, è come se i 5 Stelle si fossero alleati con alcuni degli aspetti più riprovevoli del meridione. Per esempio, pensare che i problemi del sud debbano essere risolti dallo Stato centrale. Certamente nel risultato che hanno ottenuto c’è una componente di protesta che va considerata, ma accanto ad essa c’è anche dell’astuzia».
la Repubblica,
Nicola Sartor, accento sulla o come si addice «al figlio di un vicentino concepito a Trieste e partorito a Bolzano», è rettore dell’Università di Verona. 65 anni, economista. Nella città delle due destre, la Lega di Tosi e l’altra destra, l’Ateneo è indicato come una roccaforte - culturale della sinistra. «È il segno dei tempi», sorride, e spiega: «Sono un uomo di cultura liberale. Cattolico. Ho prestato servizio da indipendente come sottosegretario nel secondo governo Prodi. Ero in Banca d’Italia, mi chiamò Padoa Schioppa. Il mio compito era banale. Portare l’Italia fuori dalle procedure di deficit. Dovevo solo difendere il rigore finanziario. Le scelte politiche non competono a chi deve far tornare i conti. Non ero eletto, cosa che dà il grande vantaggio di non avere un collegio elettorale con interessi da difendere». Accetta di analizzare la condizione della sinistra ma lo fa, dice, da osservatore: «Da semplice cittadino elettore, la politica non è la mia competenza. Posso dirle però qualcosa delle politiche economiche».
Volentieri. Un parere generale sull’azione politica di Renzi, per cominciare.
«Renzi ha cavalcato il tema generazionale in modo riduttivo. In Università osservo giovani vecchi e vecchi giovani. Il dato anagrafico è di un semplicismo enorme. Strumentale al consenso. Mi pare follia far tacere i vecchi a prescindere. La mancata elezione di Prodi al Quirinale è stata una forte manifestazione di questa tendenza, declinata mi pare per un tornaconto personale. È stato, quello, un punto di svolta della politica di questi anni. Accantonare persone come Prodi e Rodotà in nome della giovinezza non lo trovo un criterio».
A cosa attribuisce la sconfitta del Pd?
«Azzardo un’interpretazione.Non si è mai amalgamata la componente ex Dc e ex Pci. Era una miscela di acqua e olio».
Qual è, secondo lei, la funzione della sinistra?
«Quella di garantire diritti e servizi sulla base del criterio di cittadinanza e non di reddito.
Dare opportunità a tutti a prescindere dalla condizione di appartenenza. Esattamente all’opposto rispetto all’idea di selezione naturale. Pensi cosa sarebbe questo Paese se non ci fosse stata l’istruzione pubblica».
La sinistra intera, nel suo complesso, è uscita sconfitta dal voto. Come mai?
«A sinistra è mancato il dibattito non solo interno, ma coi cittadini elettori. Soprattutto coi soggetti deboli. Diversi da quelli che tradizionalmente erano soggetti deboli da ricondurre agli schemi della classe operaia. I soggetti deboli oggi non sono più identificabili per classi: sono ovunque, in ogni aggregato sociale. Sono i figli della borghesia che non trovano lavoro, sono le donne sottopagate. Con forme radicalmente diverse questa è stata la forza della Lega: contatto tradizionale, presenza fisica. I Cinque stelle hanno usato nuovi mezzi. A me spaventa l’utilizzo dei social media, lo dico al di là dell’abuso delle informazioni per finalità illecite. Anche quando sono usati correttamente tendono a favorire una risposta immediata, di pancia. Non c’è spazio per elaborare il pensiero».
Si parla di democrazia diretta del web.
«Sarò d’antan, ma mi preoccupa molto. Un conto è pretendere competenza, un altro rinunciarvi. La scomparsa dei corpi intermedi, mediatori dotati di conoscenze, è rischiosissima.Ci sono temi che richiedono un insieme di saperi approfondito.Pensi ai vaccini. Cosa trova col fai-da-te? Al meglio un’informazione superficiale, al peggio fake news. Non posso che dissentire. Se uno vuol farsi un’opinione di massima, per carità. È lo scopo delle Enciclopedie. Ma lo spirito critico si forma sulla conoscenza. Non so dire se denigrare le competenze, le culture, sia stato un disegno razionale di qualche manovratore o un fenomeno casuale. Le conseguenze tuttavia le abbiamo di fronte. Il fenomeno dell’incompetenza diffusa è il vero nemico della democrazia rappresentativa».
Cosa intende?
«Le faccio un esempio. Un parlamentare non esperto di particolari settori potrebbe trovarsi in balia di funzionari e dirigenti, nominati».
Sa indicare l’origine del processo di impoverimento di spirito critico?
«Temo di essere scontato, ma direi il disegno della tv commerciale. Derubricare la cultura a evasione e fare dell’evasione un settore di affari. Ha portato conseguenze enormi. Per carità: anche ai miei tempi c’era “Il Musichiere”. L’evasione è necessaria, non sono un bacchettone. Ma poi, in nome della pubblicità e dei suoi proventi, è diventata un obbligo. Lo scopo unico e supremo. E questo ci porta alle pensioni».
Ci porta alle pensioni?
«Nel secondo dopoguerra i sistemi pensionistici nascono per evitare povertà durante la vecchiaia. Una prestazione minima di sopravvivenza. Certo, è aumentata l’aspettativa di vita.
Ma prima ancora le pensioni si sono trasformate da strumento di tutela della povertà a sistema di tutela del mantenimento dei consumi. Il concetto è stato completamente snaturato, asservito alla società dei consumi».
Cosa pensa della riforma Fornero?
«Credo sia portatrice di una sostanziale iniquità: il trattamento riservato alle donne. Da un lato potrebbe anche essere ritenuto affascinante il concetto di parità, ma avendo in mente la realtà concreta del lavoro di cura inteso anche come ammortizzatore sociale abbiamo privato le famiglie di un sostegno fondamentale. Le donne che per assenza di servizi pubblici accudiscono genitori e nipoti non sono più in grado di farlo.Non c’è stata attenzione ai bisogni, ma solo emergenza finanziaria».
Mi costringe a dire che esistono anche i nonni.
«Non entro nella questione dei ruoli: osservo che vanno tutti in pensione a 67 anni».
I servizi sono finanziati dalle tasse. Parliamo di tasse.
«Ormai non è possibile evocare la parola tasse se non associata al verbo ridurre. Non esiste riforma del prelievo: è un tabù ideologico, sposato da tutti. Padoa Schioppa diceva le tasse sono belle. Certo: sono belle se funzionano i servizi. Però bisogna avere contezza della realtà. Negli ultimi mesi sono andato nelle osterie di Verona per un ciclo che abbiamo chiamato “Go to science”. Gotu in dialetto è il gotto di vino. Ho parlato di debito pubblico: la gente ascolta fa domande. Prendiamo la Francia. La nostra pressione fiscale è ridicolmente inferiore a quella francese. Se guardiamo la spesa pubblica, quella francese è più alta di quella italiana. Ci si riduce agli slogan. Il vero nostro problema sono i livelli di inefficienza e corruzione. L’ammontare delle tasse è superiore ai servizi perché si deve pagare il debito pubblico, che in larga misura è figlio dell’evasione. Della furbizia, di un atteggiamento individuale non solidale. Se guarda la cartina post elettorale lo vede: fatta l’Italia non si sono fatti gli italiani».
Da dove ripartirebbe?
«Direi dal contatto capillare e articolato con le persone. Temo che non sia stata una buona idea quella di chiudere i luoghi fisici di incontro. Non è immaginabile una Chiesa che chiude le parrocchie e comunica via Twitter, ci sarà un motivo».
E sul piano delle proposte?
«Per far ripartire il Paese servono istruzione e cultura. Penso al fenomeno epocale, inevitabile, dell’immigrazione. Un soggetto che risponde alla pancia delle persone è vincente rispetto a chi cerca di capire, gestire il fenomeno. Per farlo servono strumenti di conoscenza».
E in economia?
«Dalle pensioni. Tornerei ad abbassare l’età delle donne o troverei meccanismi di flessibilità. Dal contrasto all’evasione, alla corruzione. Ma un reale contrasto. Migliorerebbe il prelievo, i servizi. Meno spesa corrente, più investimento. Fare scelte politiche senza pensare al proprio tornaconto elettorale.
Che poi è sempre un orizzonte limitatissimo. Che cosa si può fare per sé, in un anno, per giunta con governo di coalizione?
Davvero poco. Conviene pensare al Paese. Sul serio: è giusto, e addirittura conviene».
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile
Il Fatto Quotidian
Spieghiamo qui le ragioni per cui promuoviamo la creazione di un Governo Costituzionale di Salute Pubblica che dia al Paese agibilità democratica, dopo oltre sei anni di sospensione della democrazia. È un governo fondato sulle condizioni materiali che hanno determinato l’esito del voto e che inverte la prospettiva: le priorità politiche emerse dal voto definiscono la coalizione, e non viceversa.
Naturalmente, spetta al presidente della Repubblica indicarne la guida alla forza politica organizzata che rappresenta un terzo dell’elettorato del Paese, e conferirle l’incarico attuativo della volontà popolare. Infatti il Governo Costituzionale di Salute Pubblica non è uno strappo costituzionale, ma anzi ricompone il patto costitutivo della Repubblica, lacerato dalla reazione antidemocratica di Napolitano al referendum sui beni comuni del 2011, che indebolì Berlusconi, per cui fu rimosso e sostituito con tecnocrati, da Monti a Gentiloni.
Questa applicazione italiana del neoliberismo viene sconfitta ora una terza volta, dopo la sua seconda débâcle nel referendum costituzionale del 4 dicembre. Il nemico è chiaro e altrettanto lo sono le emergenze di salute pubblica che il Governo Costituzionale affronterà. La forza politica che per tre volte ha sconfitto il neoliberismo è quella del popolo contro l’élite.
I parlamentari che si schiereranno col popolo sovrano nel suo scontro mortale con il neoliberismo (si muore sul lavoro, per diseguaglianza, per indigenza) potranno contribuire a indicare le personalità più coerenti con l’implementazione del programma di Salute Pubblica. L’apparato di riferimento è nell’ Art. 1 (lavoro, democrazia e sovranità popolare) e nell’ Art. 3 della Costituzione: “È compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione... politica economica e sociale...”. Il Governo Costituzionale, e perciò antifascista, serve a chiudere la parentesi neoliberale e togliere le tracce dell’opera rifiutata a larga maggioranza dal popolo nei due referendum del 2011 e 2016 e infine in questo voto, con un’azione di legislatura nei seguenti ambiti
1. Lotta al lavoro precario
2. Abolizione della legge Fornero
3. Rinegoziazione radicale delle obbligazioni internazionali in primis quelle con Eurogruppo e per spese militari
4. Ripristino di spazi di democrazia effettiva contro decisionismi verticali, cosa che va oltre la sola legge elettorale
5. Grande piano di cura del territorio per generare la lavoro, beni comuni e ambiente
Le risorse per questo programma vengono dalla piena attuazione del principio di progressività fiscale, dalla lotta contro rendita, sprechi, privilegio e corruzione, dalla tassazione giusta ed efficace di colossi internazionali come Google, Facebook e Amazon, che oggi dominano vita politica ed economica e sostanzialmente non pagano tasse. Sarà prioritario denunciare, in un’Italia che è in avanzo primario dal 92, un debito pubblico che continua a crescere, e riconoscere e denunciare le sue componenti più odiose.
M5S è nato come critica radicale del neoliberismo, critica mutuata dai movimenti sociali e strutturata ai fini della rappresentanza politica: ambientalismo, decrescita, beni comuni, problemi della trasformazione tecnologica e della partecipazione diretta, lotta al privilegio.
Fin dal 2011 questo è ciò che la maggioranza del popolo vuole. La prima forza politica del paese deve intraprendere il cammino di salute pubblica. La maggioranza del popolo italiano rifiuta il neoliberismo e sosterrà i parlamentari che si impegneranno per superarlo, indipendentemente dal colore politico. Noi, intellettuali critici, vogliamo e dobbiamo contribuire alla mobilitazione popolare per emanciparsi dal neoliberismo.
La "mossa del cavallo di cui si parla La mossa del cavallo proposta da Paolo Flores d’Arcais a Luigi Di Maio potrebbe riuscire non solo a risolvere nel modo più avanzato lo stallo post-elettorale, ma darebbe anche corpo ai più profondi desideri del popolo della sinistra, oggi ridotto a «volgo disperso che nome non ha»: un governo composto e guidato da personalità esterne ai partiti, capace di attuare un programma di svolta nella direzione di una piena attuazione del progetto della Costituzione.
Un simile governo, argomenta Flores, non potrebbe che essere sostenuto da Movimento 5 Stelle, Partito Democratico e Liberi e Uguali. Ora, è perfettamente legittimo che il Pd decida di rigettare questa proposta, ma è davvero impossibile condividere le considerazioni di ordine politico, e addirittura morale, che vengono in queste ore avanzate per giustificare un simile diniego.
Per bocca di molti suoi autorevoli dirigenti, il Pd ha affermato che sostenere un governo insieme ai 5 Stelle significherebbe tradire il mandato degli elettori, i quali – si dice – avrebbero voluto collocare il Pd all’opposizione. Per rispettare questo mandato, dunque, il Pd sarebbe disposto ad accettare l’eventualità di un governo del centrodestra a guida Salvini, o quella di una lunga assenza di un governo. «Siamo incompatibili con i 5 stelle», ha detto Andrea Orlando. «Non c’è bisogno di dire che siamo all’opposizione. C’è bisogno di dire che ci siamo presentati con una proposta alternativa ai Cinque Stelle e che, pertanto, non possiamo farci un governo», ha aggiunto Carlo Calenda.
Alla base di queste dichiarazioni non c’è solo l’intollerabile ipocrisia di chi – in regime maggioritario – ha governato con i voti di Verdini e formato governi con i vari Lupi e Alfano. C’è, più profondamente, una sostanziale incomprensione della legge elettorale voluta dallo stesso Partito Democratico, oltre che una radicale ignoranza dei meccanismi elementari del funzionamento di una repubblica parlamentare.
Il Rosatellum è una legge elettorale irrazionalmente complicata e, con ogni probabilità, incostituzionale. Ma questo non perché impedisca la creazione di una stabile maggioranza parlamentare, bensì, soprattutto, per i meccanismi di manipolazione dei voti espressi dagli elettori (liste incapienti, liste deficitarie/eccedentarie, divieto di voto disgiunto, pluricandidature) che fanno dubitare dell’uguaglianza, della libertà e persino della personalità del voto in spregio all’articolo 48 della Costituzione.
Invece, in queste ore si sta facendo strada nei commenti giornalistici e nell’opinione pubblica la convinzione che le urne abbiano restituito un Parlamento ingovernabile proprio a causa del Rosatellum. Una legge – è stato detto – fatta apposta affinché nessuno potesse vincere.
Dal voto emerge che nessun partito si avvicina, nemmeno lontanamente, alla soglia della maggioranza assoluta. Al meglio posizionato – il M5S – mancano 18 punti percentuali e anche ricomponendo il quadro politico per coalizioni la distanza dalla metà più uno dei consensi rimane abissale (la compagine di centrodestra, la più votata, avrebbe comunque bisogno di un ulteriore 13% dei consensi). La realtà è quella di un sistema politico che, fallito il tentativo di Liberi e Uguali, permane articolato su tre poli, sia pure di consistenza differente: il centrodestra (che pesa intorno al 37% dell’elettorato), il centrosinistra (pari a poco meno del 20% degli aventi diritto) e il M5S (che raccoglie il 32% dei voti). Tale realtà sostanzialmente si rispecchia nella distribuzione dei seggi parlamentari. Alla Camera: il centrodestra può contare su 260 deputati (pari al 41,2% del totale), il M5S su 221 (il 35,1%), il Pd su 112 (il 17,7%). Al Senato: 135 senatori vanno al centrodestra (il 42,8% del complesso), 112 al M5S (il 35,5%), 57 al Pd (18,1%).
In effetti, il Rosatellum ha funzionato come una legge essenzialmente proporzionale, producendo un Parlamento che rispecchia da vicino l’articolazione e la consistenza delle posizioni politiche presenti nel corpo elettorale.
Dati questi numeri, che cosa allora realmente significa accusare la legge vigente di essere stata congegnata per non far vincere nessuno? Evidentemente, auspicare una legge elettorale che permetta di determinare comunque un vincitore, nonostante l’articolazione tripolare del quadro politico. Vale a dire, non una legge “semplicemente” maggioritaria, ma una legge in ogni caso majority assuring. Una legge, cioè, strutturata in modo analogo a come lo era … l’Italicum!
Come si può leggere qui (e pur con tutte le cautele del caso), l’Istituto Cattaneo ha ipotizzato che con i risultati delle ultime elezioni nessuna forza politica avrebbe comunque conseguito la maggioranza assoluta né se si fosse votato con il Porcellum, né se si fosse votato con Consultellum. YouTrend ha esteso la simulazione al Mattarellum e alle leggi elettorali inglese, francese, tedesca, spagnola e greca: in tutti i casi, nessuna forza politica o coalizione sarebbe uscita dalle elezioni con una pattuglia di parlamentari idonea a sostenere il governo autonomamente. Da sottolineare il caso della legge francese, anch’essa improduttiva di una maggioranza assoluta posto che, accedendo al ballottaggio i partiti forti almeno del 12,5% al primo turno, in moltissimi collegi la sfida sarebbe comunque stata a tre e non a due. Niente governo «la sera stessa delle elezioni», dunque, né col proporzionale, né col premio di maggioranza, né col maggioritario a turno unico, né col maggioritario a doppio turno.
Torna, allora, la domanda poco sopra formulata: cosa significa addossare al Rosatellum la responsabilità dell’attuale situazione di ingovernabilità? Significa – nessun’altra risposta è possibile – invocare l’Italicum, la sola legge elettorale che, in virtù di un turno di ballottaggio nazionale, anziché di collegio, e ristretto ai due soli partiti più votati, avrebbe certamente assegnato più della metà del Parlamento al partito prescelto dall’elettorato nella seconda votazione.
Non è qui necessario tornare sulle ragioni di incostituzionalità di tale legge (basti ricordare che sono state dalla Consulta tra l’altro motivate proprio con riferimento alle modalità del ballottaggio, eccessivamente distorsive della volontà popolare). A rilevare, in questa sede, è il profilo politico della questione, il riflesso condizionato che oramai induce anche molti di coloro che si sono opposti alle riforme renziane a vedere nella «governabilità» il valore assoluto al quale affidarsi nei momenti di difficoltà.
La mentalità maggioritaria si è radicata in profondità nel tessuto sociale, penetrando anche nello strato della popolazione che dovrebbe avere maggiore consapevolezza dei meccanismi istituzionali. Possibile sia tanto difficile cogliere che, a fronte di una società politicamente (e non solo) divisa come la nostra, l’urgenza è quella di ricomporre la frammentazione e non di attribuire, pro tempore, a uno dei frammenti il potere di spadroneggiare sugli altri? Nelle situazioni come quella in cui ci troviamo, il compromesso politico trasparente e argomentato non è soltanto una necessità, è un valore, perché veicola l’idea che gli «altri» non siano necessariamente nemici da combattere, ma (almeno alcuni) possano essere avversari da sfidare alla ricerca di punti di convergenza. L’accordo politico, in quest’ottica, è una dimostrazione di forza, non di debolezza. Solo chi è certo della propria identità, delle proprie idee, della propria visione del mondo può avere la sicurezza di sé necessaria a mettersi in discussione e di eventualmente accettare la realizzazione per il momento solo parziale dei propri ideali (altro è l’«inciucio», vale a dire l’accordo esclusivamente rivolto alla spartizione del potere).
Viene da sorridere a leggere che Pd e M5S non potrebbero allearsi perché i rispettivi elettorati «si stanno antipatici»… Ma è del Parlamento o di un asilo nido che stiamo parlando? Al momento del bisogno, il Pci di Berlinguer si astenne per far nascere un governo guidato da Andreotti, che, secondo la Corte di Cassazione, era (non antipatico, ma) un soggetto in rapporti organici con la mafia! Non è certo un caso che la massima capacità di incidere sull’assetto socio-economico dell’Italia si sia avuta quando massima fu la forza parlamentare dei partiti. Altro che governabilità! Dalla riforma della scuola media (1962) all’introduzione del Sistema sanitario nazionale (1978), passando per la nazionalizzazione dell’energia elettrica (1962), la previdenza sociale (1969), l’abolizione delle gabbie salariali (1969), i diritti dei lavoratori (1970), il divorzio (1970), la legislazione sul referendum (1970), le Regioni (1970), la progressività fiscale (1974), il diritto di famiglia (1975), la legge urbanistica (1977), l’aborto (1978), la chiusura dei manicomi (1978): tutte queste riforme furono realizzate quando massima fu la capacità di realmente rappresentare in Parlamento le molteplici articolazioni dell’elettorato.
Oggi l’Italia è divisa come, e forse più (date le crescenti diseguaglianze), di allora. A fronte di una sistema politico separato in tre orientamenti principali oscillanti tra il 20 e il 35% delle preferenze, qualsiasi meccanismo elettorale che trasformi artificialmente una minoranza in maggioranza finisce solo col costruire giganti con i piedi d’argilla – forti in Parlamento, deboli nella società –, privi della capacità di costruire consenso popolare intorno alle decisioni imposte dentro il Palazzo. Quel che occorre, al contrario, è riscoprire la valenza profonda della funzione parlamentare, che è quella di far dialogare i diversi, non di metterne uno in condizione di prevalere a qualsiasi costo sugli altri.
E qui si tocca un punto cruciale per la tenuta stessa della nostra democrazia. L’articolo 67 della Costituzione stabilisce che «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». I vertici del Movimento 5 Stelle, sbagliando, vorrebbero sopprimere o limitare decisivamente questo articolo, sperando di fermare così la piaga del trasformismo parlamentare e di tagliare le unghie al dissenso interno. Ma per disincentivare decisivamente il trasformismo si possono usare altri mezzi assai efficaci (per esempio la riforma dei regolamenti parlamentari, come peraltro si è appena fatto al Senato), senza toccare questa fondamentale difesa del dissenso come forza vitale della democrazia. Ma il fascino del vincolo di mandato è oggi fortissimo: e proprio a causa della suggestione del modello maggioritario, che semplifica per via irriducibilmente oppositiva la dinamica parlamentare. In una sostanziale negazione della democrazia indiretta mediata dalla rappresentanza si pretende che l’elettore vincoli non solo il singolo parlamentare, ma tutto il gruppo e il partito, rendendo di fatto inutile l’esistenza stessa del parlamento (basterebbe far votare i capigruppo) e rendendo impossibile (in un sistema proporzionale) la creazione di un governo.
Ora, non sarà sfuggito che ad agire, di fatto, come se nessun vincolo ci fosse, e dunque a interpretare nel modo più maturo e virtuoso le dinamiche della democrazia indiretta e del libero gioco del Parlamento è oggi proprio il Movimento 5 Stelle con Luigi Di Maio. Mentre sono Matteo Renzi, la dirigenza Pd e una larga parte dei commentatori politici (per esempio su “Repubblica”) a pensare e ad esprimersi come se il vincolo di mandato ci fosse eccome, e dunque come se fossimo in una democrazia (più) diretta, negando ogni margine, e dunque ogni senso, alla dinamica del Parlamento.
Questo ribaltamento di ruoli è assai eloquente. Certo a causa della sua posizione di vantaggio, ma oggi è un fatto che il Movimento 5 Stelle sta dimostrando di saper giocare con senso di responsabilità istituzionale sulla scacchiera di un sistema parlamentare e proporzionale.
Si tratta ora di andare fino in fondo: fino ad accettare di compiere la mossa del cavallo proposta da Paolo Flores. A quel punto sarebbe il Pd a dover dimostrare che l’uscita di scena del plebiscitarismo renziano può segnare il ritorno alla pratica delle virtù politiche e alla piena accettazione del funzionamento di una democrazia parlamentare senza vincolo di mandato.
La mossa del cavallo sarà fatta? E la contromossa sarà adeguata?
Con il fascioleghismo che incombe e con il Paese devastato da povertà e diseguaglianze la posta di questo gioco è altissima: è il futuro della nostra stessa democrazia.
La “mossadel cavallo" (nel gioco degli scacchi il cavallo fa un passo avanti e uni di fianco) consisterebbe nel fatto che «il Movimento 5 stelle proponga al capodello Stato un governo con gli elementi portanti del proprio programma, la cuiguida sia affidata a una personalità fuori dei partiti, che scelga ministritutti della società civile. Sarebbe difficile, per i parlamentari Pd, anche serenziani, dire di no a una proposta che il presidente Mattarella presentasse (eche sarebbe) come la soluzione migliore per l'interesse generale».
«Durand e Spinelli - I due eurodeputati di sinistra ai Dem: “Compiacersi all’opposizione non è all’altezza della sfida”»
“Quando il 13 marzo Matteo Renzi ha annunciato le sue dimissioni dalla guida del Partito democratico dichiarando che il posizionamento naturale delPd sarà ora all’opposizione, ha incitato i sostenitori del negoziato con il Movimento Cinque Stelle a esprimersi apertamente.
E dunque noi osiamo dirlo apertamente. Pensiamo che il Partito democratico debba tentare un negoziato con M5S e Liberi e Uguali.
Noi, figli di militanti antifascisti, di chi ha resistito all’oppressione e all’odio, noi che ricordiamo ciò che i nostri genitori ci hanno raccontato: che il fascismo si alimenta sempre della codardia e della rassegnazione degli altri, oltre che dell’ostinazione a preservare, sia pure momentaneamente, l’illusoria purezza della loro immagine.
Noi, parlamentari europei, noi che a ogni scadenza elettorale vediamo l’estrema destra avanzare, i ripiegamenti identitari rafforzarsi, gli autoritarismi crescere, noi che vediamo la democrazia ovunque in pericolo.
Noi, responsabili politici espressi da movimenti e partiti diversi, che lavoriamo quotidianamente con gli eletti del Movimento Cinque Stelle e che sappiamo come le nostre voci si uniscano sempre nel Parlamento europeoquando si tratta di promuovere la solidarietà e la democrazia.
Noi, con l’umiltà e la gravità che ci conferisce il nostro mandato europeo, al servizio di 500 milioni di cittadine e cittadini europei, vi chiediamo di mettere per un istante da parte le posture e petizioni di principio, i calcoli elettorali o le valutazioni d’immagine e di tentare tutto ciò che è in vostro potere per permettere all’Italia di dotarsi di un governo nel quale l’estrema destra non avrà posto.
Le elezioni del 4 marzo hanno prodotto una sconfitta elettorale per il Partito democratico, non lo neghiamo. Ma gli sconfitti non escono dalle battaglie godendo di speciali esenzioni dalle proprie responsabilità Compiacersi in una confortevole opposizione, rinunciare a sporcarsi le mani col pretesto che i vostri alleati potenziali non sono di vostra convenienza, non è un comportamento all’altezza della sfida di oggi, cioè difendere in Europa i diritti e le libertà fondamentali, i principi comuni sui quali si è costruita l’unione del nostro continente.
Diceva Charles Péguy che la filosofia politica di Kant ha le mani pure ma è purtroppo sprovvista di mani. La stessa cosa si può dire di tutti i responsabili che scelgono di guardare altrove quando il fascismo è alle porte, con la scusa che per fare argine dovrebbero unire le proprie forze ad alleati troppo imperfetti.
Voi non siete obbligati a voltarvi dall’altra parte. Avete la capacità concreta di costruire nelle prossime settimane l’alternativa a un governo che aprirebbe le porte al nazionalismo, al razzismo, alla xenofobia. Forse non avrete successo. Ma avete la facoltà di tentare. E le radici filosofiche e politiche del Partito Democratico rendono questa facoltà un dovere. Cari amici del Partito democratico, ci sono scenari ben peggiori di quello, indicato da Renzi, di divenire “la stampella di un governo anti-sistema”. Potreste diventare il predellino di un governo neo-fascista.
Pascal Durand èeurodeputato francese dei Verdi. Barbara Spinelli è eurodeputata del Gruppo confederale della Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica (Gue/Ngl)
LINKIESTA
«La docente della Columbia University spiega: “Dove la sinistra tradizionale ha retrocesso, lì si sono manifestati due grossi movimenti di sostituzione. Ma perché un ragazzo che vive vicino a Potenza, che non sa come sbarcare il lunario, dovrebbe votare il Pd?”»
I partiti si sono indeboliti. La sinistra è in crisi profonda. Il populismo avanza. Mentre le elezioni italiane hanno celebrato la vittoria del Movimento cinque stelle e della Lega Nord, Nadia Urbinati, professoressa di Teoria politica alla Columbia University di New York, ha pubblicato l’ebook La sfida populista, curato insieme a Paul Blokker e Manuel Anselmi e presentato in occasione di “Democrazia Minima”, il primo forum sul futuro della politica e della cittadinanza attiva organizzato da Fondazione Feltrinelli.
«Dietro l’esito delle elezioni c’è certamente il declino della sinistra», spiega Urbinati. «Dove la sinistra tradizionale ha retrocesso, lì si sono manifestati due grossi movimenti di sostituzione. Ma perché un ragazzo che vive vicino a Potenza, che non sa come sbarcare il lunario, dovrebbe votare il Pd?».
Professoressa, cosa è successo alla sinistra italiana?
«Dal Pd ai cosiddetti secessionisti, oggi la sinistra non è più un punto di riferimento per larghi strati della popolazione. È diventata (e considerata) a tutti gli effetti il partito delle classi medie e medio-alte ben integrate, non in tensione verso l’emancipazione (a parte i diritti civili), ma attenta a conservare il proprio status. Un Pd che vince ai Parioli e perde nei quartieri popolari fa pensare».
Ma è un problema solo italiano?
«No, in Germania come ci ha detto Wolfgang Merkel è accaduta la stessa cosa. Il problema è che la sinistra è diventata l’élite intellettuale liberal-cosmopolita con valori non radicati nel Paese ma nel mondo vario. E invece il popolo più bisognoso, o comunque con meno strumenti culturali ed economici, è attaccato a delle comunità. Che sia la nazione - da qui arriva la rinascita del nazionalismo - o la rabbia collettiva delle plebi contro chi sta dentro il Palazzo - anche questo è il populismo dei Cinque stelle».
Ma Cinque stelle e Lega sono in grado di andare a colmare questo spazio vuoto lasciato dalla sinistra?
«Un po’ ci stanno provando e anche bene, con una divisione del lavoro che è ben evidente in Italia. A Nord e Sud avevamo due sinistre (poiché ci sono sempre state differenza tra sinistra del Sud e del Nord, di stile e contenuti) e ora abbiamo due anti-sinistre. Dove la sinistra storica ha retrocesso, lì si sono manifestati due grossi movimenti di sostituzione, anche questi diversi geograficamente».
Partiamo dal Nord, dove ha prevalso la Lega.
«Al Nord avevamo una sinistra molto organizzata e radicata, con associazioni, solidarietà strutturata a livello istituzionale (municipale e regionale), con un sistema di servizi e di reti di supporto, dalle cooperative ai sindacati alle associazioni, che hanno fatto il benessere e l’emancipazione di tre generazioni, dalla Seconda guerra mondiale agli anni Settanta. Nel mondo che deve difendere se stesso da un lato contro il liberismo imperante, e dall’altro contro le frontiere che si aprono non solo per merci e denaro, ma anche per gli esseri umani, si registra un rischio di abbassamento del livello della vita e del lavoro. Le esigenze di protezione si traducono in attaccamento al corrispettivo contemporaneo del vecchio partito identitario, il Partito comunista, che è la Lega. La Lega è il Partito comunista rovesciato perché ha simili caratteristiche organizzative e territoriali, radicate e identitarie, ma non ha una identità di classe. I leghisti non sono universalisti, ma sono identitari-localisti, difendono l’identità nazionale con il famoso “prima gli italiani degli altri”. Danno così un’ancora a questi beneficiari dello stato sociale che vogliono mantenere la loro condizione contro i rischi nuovi che vengono da fuori. Questa è la sinistra del centro Nord che si è tramutata in un’altra forma di identità».
E al Sud?
Al Meridione c’è stata tradizionalmente un’altra sinistra, più movimentista e populista, più adatta ad aderire alle pieghe di una società meno organizzata e con forme di degrado non tipiche di una società industriale. Pensiamo a com’era il Partito comunista napoletano che ha vinto con Bassolino, molto diverso da quello del Nord. O a quello che si è manifestato in tante forme di ribellione e rivolta, da Portella della Ginestra fino alle rivolte dei disoccupati o contro il degrado ambientale. Il Sud è stato sempre una fucina di lotta e contestazione, più che di radicamento organizzativo come al Nord. Lì ha vinto con facilità il Movimento Cinque stelle. È chiaro che questa spiegazione è un idealtipo che non spiega ogni aspetto della realtà, ma come modello interpretativo può essere utile.
Però c’è anche molta destra in questi movimenti.
«Certo, c’è tanta destra. Come diceva Marx, se la classe non viene assunta all’interno di un discorso universalista di emancipazione e di rivoluzione, guarda al passato, quindi diventa identitaria, nazionalista, corporativa. Davanti alla povertà, alla necessità di soddisfare i bisogni fondamentali, ti rivolgi a coloro che ti sembrano più in sintonia al tuo sentire. Se non hai un’organizzazione politica che incanala i tuoi bisogni in un discorso di giustizia e di emancipazione, tu ti avvicini alla più limitrofa forma di sostegno. A quella più vicina alla tua condizione e al tuo linguaggio: al Nord, la nazione e la razza; al Sud l’appello generico a “noi cittadini”.
E il Pd sui territori non c’è?
«Non c’è davvero mai stato il Pd nei territori. Anzitutto ha abolito le sezioni, costruendo i circoli. I circoli sono entità neutre e con funzioni di incontro per chi è dentro o vicino al partito. Contrariamente alla sezione, i cui iscritti e soprattutto dirigenti conoscevano il loro territorio, le condizioni di vita e i problemi, i circoli si aprono e si chiudono in base alle necessità di discussione del partito.
«Non sono luoghi che raccolgono bisogni e problemi. Sono luoghi che servono a coloro che già fanno politica per incontrarsi, per fare le loro strategie. Però non sono legati ai territori, sono legati ai politici che già sono dentro la politica, a coloro che già sono iscritti, che fanno parte del gruppo. Ma non servono per avvicinare gli altri e nemmeno per fare un lavoro di conoscenza del territorio. Il passaggio da sezione a circolo è stata l’indicazione di un nuovo partito che non vuole tanto essere vicino ma lontano, per avvicinare l’elettore mediano. Il circolo non fa proselitismo e nemmeno fa discutere gli iscritti sulla linea nazionale (ci furono riunioni per discutere la proposta di riforma costituzionale?). Fa emergere potenziali candidati, è in funzione elettorale. C’è stato un divorzio tra dimensione nazionale e territoriale, causa di progressiva ignoranza dei bisogni di vita reale. Eppure, dice Gramsci, l’una senza l’altra non vive».
E qui si inseriscono Cinque stelle e Lega.
«Il Movimento Cinque stelle e la Lega non sono la causa, ma il segnale della transizione da un partito che aveva un progetto di emancipazione per tutti a un partito che è diventato un progetto di conservazione di chi sta bene. Un partito di centro – è la classe sociale di riferimento a dirlo. Se non hai un’organizzazione politica che incanala i tuoi bisogni in un discorso di giustizia e di emancipazione, tu ti avvicini alla più limitrofa forma di sostegno. A quella più vicina alla tua condizione e al tuo linguaggio: al Nord, la nazione e la razza; al Sud l’appello generico a “noi cittadini”»
Contrariamente a quel che si diceva inizialmente, però, l’analisi del voto dice che i Cinque stelle sono stati votati da molti laureati, giovani e giovanissimi, e non solo dai ceti meno abbienti e meno istruiti.
«Certo, ma bisogna fare delle differenze. Al Nord è prevalso il discorso che, se si voleva cambiare il Pd, non si poteva votare Leu perché era troppo limitrofo. Occorreva votare l'anti per eccellenza. Molti voti anti-Pd da ex-Pd sono andati a Cinque stelle: un voto di rivolta contro il Pd per far cambiare il Pd. Ma nell’altra parte del Paese, dove ci sono le situazioni di disagio, questo non importava. Non dimentichiamo che mezza Italia, dalle Marche al Molise, ha subito il terremoto. Noi ce lo siamo dimenticati, ma loro sono lì da due anni in attesa. Hanno vissuto e vivono in situazioni disumane, in alloggi provvisori. Poi c’è il Sud più profondo: Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna. L’unica cosa che hanno ricevuto dal governo è stato aver chiuso gli occhi su una evasione fiscale mastodontica. Questa idea malsana di accettare una condizione di illegalità per il quieto vivere non funziona più perché la gente comunque non ha lavoro. Ma perché un ragazzo che vive vicino a Potenza, che non sa come sbarcare il lunario, dovrebbe votare il Pd? Vivere limitrofi dell’illecito è come un bonus ma non dà futuro.
Ma c’è differenza tra le due forze populiste, Cinque stelle e Lega?
«Ciò che tiene insieme questi movimenti è l’anti-establishment. Cioè la distinzione tra coloro che sono dentro e coloro che sono fuori. Riviviamo nelle forme moderne la polarizzazione che era dell’antica Roma con la distinzione tra la plebe e i patrizi. Un dualismo non tanto di classe ma tra inclusi e non inclusi, i molti e i pochi. La Lega però non è semplicemente populista, anche se usa stili retorici populisti, ma resta un partito tradizionale di destra con un’ideologia non ecumenica ma escludente. I Cinque stelle invece sono il nucleo di una forma democratica populista. Di Maio nella lettera a Repubblica ha parlato di “Repubblica di cittadini”, che è la stessa cosa che ha sottolineato Trump, quando è stato incoronato presidente, dicendo “non sono io è il popolo americano che è qui”. È come se senza questi leader non ci fosse la voce del popolo. I Cinque stelle sono il gentismo in assoluto: noi siamo tutti unificati perché contrapposti a loro. È la contrapposizione all’establishment, non l’appello alla nazione, che unifica i molti.
E come si esce ora dall’impasse in cui siamo?
«I Cinque stelle sono cresciuti e crescono nella critica e nell’attacco, per questo dovrebbero essere messi alla prova. Il problema di questo momento è che non c’è fiducia tra le parti. Nessuno si fida dell’altro, persino dentro le stesse coalizioni. Vogliono vincere tutti da soli, non vogliono allearsi con nessuno. È un fenomeno che ritorna in Italia periodicamente e che ricorda le fazioni delle antiche Repubbliche del Rinascimento: nessun gruppo si fidava dell’altro e l’unico obiettivo era quello di ostacolare gli avversari bloccando se necessario il governo e anche rinunciando alla libertà. Più che fare, bloccare il fare. E questo mi sembra sia ancora il modus operandi più praticato».
http://www.linkiesta.it/it/article/2018/03/10/nadia-urbinati-lega-e-cinquestelle-hanno-sostituito-la-sinistra-ce-lav/37387/
il Fatto quotidiano,
Il 16 marzo 1978, il giorno in cui il Parlamento doveva votare la fiducia al nuovo governo guidato da Giulio Andreotti che, per la prima volta dal 1947, avrebbe avuto il sostegno esterno del Pci, le Brigate rosse rapirono in via Fani Aldo Moro, allora presidente del Consiglio nazionale della Dc, e trucidarono i cinque uomini della sua scorta (Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi).
Quel giorno entrarono in azione almeno una decina di brigatisti che sarebbero stati arrestati tutti – l’ultima, Rita Algranati, nel 2004 – tranne Alessio Casimirri, tuttora latitante in Nicaragua. Alcune testimonianze oculari attestarono la partecipazione all’agguato anche di due individui su una moto Honda mai identificati, una presenza però sempre negata dai brigatisti. In quella tiepida mattina romana che già anticipava una primavera rosso sangue, mentre, il presidente del consiglio incaricato Andreotti, raggiunto dalla notizia del rapimento di Moro, era aggredito da conati di vomito, iniziavano i 55 giorni più bui della storia della Repubblica.
Se i brigatisti avessero voluto uccidere Moro e basta, lo avrebbero fatto già il 16 marzo, insieme con la scorta. In realtà l’obiettivo della loro “propaganda armata” era più raffinato: eliminare l’ostaggio dopo avere destabilizzato il quadro politico e istituzionale mediante il suo rapimento, funzionale a distruggerne l’immagine sul piano civile e morale affinché il suo progetto di allargamento della base democratica dello Stato non avesse eredi. Il governo, con il sostegno del Pci, respinse con fermezza qualsiasi trattativa pubblica sin dalla giornata del 16 marzo secondo un doppio principio: il rifiuto di accettare un eventuale scambio di prigionieri, cedendo così al ricatto imposto dai brigatisti dopo avere ucciso cinque servitori dello Stato; la rinuncia a compiere qualsiasi atto che potesse implicare un riconoscimento giuridico delle Br in qualità di forza combattente poiché ciò avrebbe significato legittimare la violenza armata come metodo ordinario di lotta politica e propiziare nuovi sequestri. Come i brigatisti avevano preventivato, le lettere che il prigioniero cominciò a spedire ai suoi famigliari, al papa Paolo VI e ai principali uomini politici italiani e autorità dello Stato aprirono un lacerante dibattito tra le ragioni della fermezza e quelle della trattativa, che fece da corollario alla non meno insidiosa discussione se quelle missive fossero autentiche o estorte con la violenza.
A intorbidire le acque concorse la presenza in entrambi i fronti di quanti disprezzavano Moro e la sua politica di accordo con i comunisti al punto da guardare con cinica indifferenza alla sua scomparsa. Moro, infatti, era destinato quasi sicuramente a diventare capo dello Stato nell’autunno 1978, a coronamento dell’accordo raggiunto tra la Dc e il Pci, un’intesa foriera di ulteriori sviluppi che lo avrebbero visto nel ruolo di supremo garante istituzionale. Senonché, anche tra i seguaci della trattativa pubblica, in particolare tra gli esponenti del movimento extra-parlamentare, si celavano quanti, soffiando sul fuoco della necessità di un negoziato palese che portasse allo scambio dei prigionieri e a un riconoscimento delle Br, offrivano una comoda sponda all’iniziativa brigatista, alimentando un prevedibile irrigidimento tra le parti che avrebbe portato alla soppressione dell’ostaggio.
L’esecutivo e l’antiterrorismo, supportato da un esperto statunitense, Steve Pieczenick, inviato sullo scenario di crisi dal Dipartimento di Stato, adottarono una strategia a tre livelli: sul piano politico, quello pubblico e propagandistico, sostennero la linea della fermezza; riservatamente attivarono un canale di comunicazione con il mondo brigatista (così come consigliato da Pieczenick) che si servì dell’intermediazione dell’ex leader di Potere operaio Franco Piperno e dei suoi rapporti con ambienti giornalistici de L’Espresso e con alti dirigenti socialisti. Costoro provarono a imbastire un negoziato intorno a un atto unilaterale di clemenza dello Stato nei riguardi di un detenuto malato e costruirono una catena di contatti che raggiunse certamente la prigione giacché Moro ne accennò in una delle sue lettere. Sul piano segreto, dopo avere consultato il 3 aprile i segretari dei partiti di maggioranza e quindi anche Berlinguer che diede il suo assenso, il presidente del Consiglio Andreotti si disse disponibile a pagare un riscatto per ottenere la liberazione di Moro. Oggi sappiamo con certezza che la raccolta di questa somma coinvolse la famiglia pontificia e Paolo VI in persona, legato a Moro sin dai tempi della Fuci. Proprio durante il sequestro, Casimirri, presente con sua moglie in via Fani e appartenente a un’influente famiglia di cittadini del Vaticano, venne fermato dalle forze dell’ordine, ma rilasciato.
Col passare dei giorni l’operazione Moro rivelò una duplice dimensione simile a un gomitolo che invece di sciogliersi si ingarbugliava sempre di più: procedette come un normale sequestro di persona, tuttavia, in ragione della qualità dell’ostaggio, ebbe anche un rilievo spionistico-informativo, funzionale a raccogliere notizie segrete o riservate riguardanti la sicurezza nazionale e atlantica dello Stato. Ciò avvenne attraverso l’espediente mediatico del “processo al regime democristiano”. Gli originali di questo interrogatorio (il “memoriale”) sono a tutt’oggi scomparsi, mentre si sono recuperate, ufficialmente soltanto nel 1990 dentro l’intercapedine di un covo brigatista a Milano già perquisito nell’ottobre 1978 dalle forze dell’ordine e da allora rimasto sotto sequestro giudiziario, delle fotocopie dei manoscritti, incomplete, ma di sicuro autografe di Moro.
Il tardivo ritrovamento di queste carte, avvenne soltanto dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, ma l’interrogatorio risultò tagliato delle parti riguardanti, fra le altre cose, la fuga di Herbert Kappler, il golpe Borghese e il conflitto arabo-israeliano, incluso l’accordo di intelligence dell’ottobre 1973, cui l’ostaggio aveva accennato più volte in modo criptico in alcune lettere inviate a selezionati e informati destinatari. Si trattava di una serie di vicende intorno alle quali nel 1978 erano in corso delicate inchieste giudiziarie che coinvolgevano i vertici militari e dei servizi segreti italiani e stranieri (ad esempio il processo Borghese e quello relativo ad “Argo 16”). Di conseguenza le parti espunte riguardavano dei fatti ancora aperti sul piano giudiziario (di cui la conoscenza delle rivelazioni di Moro nel 1978 avrebbe potuto condizionare l’esito) oppure episodi relativi ai rapporti internazionali dell’Italia con Paesi amici, ad esempio con la Germania ovest, Israele, la dirigenza palestinese, tutelati da un vincolo di segretezza che si svolgeva lungo il tagliente filo della ragione di Stato.
Quella ragione di Stato cui Moro aveva fatto esplicito riferimento nella sua prima lettera a Francesco Cossiga il 29 marzo, laddove aveva spiegato che “nelle circostanze sopra descritte entra in gioco, al di là di ogni considerazione umanitaria che pure non si può ignorare, la ragione di Stato. Soprattutto questa ragione di Stato nel mio caso significa […] che io mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato, sottoposto a un processo popolare che può essere opportunamente graduato […] con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa”.
Una giornata decisiva del sequestro Moro fu il 18 aprile 1978, quando, a pochi minuti l’uno dall’altro, avvennero due episodi altamente destabilizzanti. Una fuga d’acqua, volutamente provocata da una mano ancora ignota, fece scoprire il covo di via Gradoli, abitato da Mario Moretti, ossia da colui che stava interrogando l’ostaggio. Il nome di Gradoli, un paese in provincia di Viterbo, era emerso già il 2 aprile in una seduta spiritica organizzata da un gruppo di professori bolognesi, fra cui Romano Prodi, Alberto Clò e Mario Baldassarri. Le indagini avrebbero dimostrato che la polizia già il 18 marzo aveva interrogato gli occupanti dell’abitazione adiacente il covo di via Gradoli. L’appartamento in quei giorni era abitato da un’informatrice della polizia e dal suo sedicente fidanzato che, solo negli anni Novanta, dopo lo scandalo dei fondi neri del Sisde, si sarebbe scoperto essere stato nel 1978 domiciliato in uno studio commercialista collegato a società immobiliari di copertura dei servizi situate nello stesso stabile e in via Gradoli.
L’espediente investigativo della seduta spiritica, a volte utilizzato dagli psicodetective angloamericani per nascondere le origini delle informazioni, sarebbe servito a coprire una fonte che, a rischio della sua stessa vita, stava segretamente collaborando con le autorità e che voleva, per ragioni politiche più che umanitarie, determinare il fallimento dell’operazione Moro, ma non l’arresto di Moretti e degli altri brigatisti, i quali restavano dei “compagni che sbagliano”.
Sempre il 18 aprile un comunicato apocrifo, realizzato da un abile falsario legato alla banda della Magliana e in rapporti con i servizi segreti italiani, di nome Antonio Chichiarelli, annunciava che il cadavere di Moro giaceva nei fondali del lago della Duchessa, in Abruzzo. Oggi, sulla scorta delle dichiarazioni rilasciate dal magistrato Claudio Vitalone, vicino ad Andreotti, nel processo per l’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli che vide entrambi imputati e poi assolti, sappiamo che le forze dell’antiterrorismo confezionarono il falso comunicato per ottenere una prova dell’esistenza in vita di Moro, necessaria al proseguimento della trattativa. Le Brigate rosse, per smentire il comunicato, vennero costrette a divulgare il 20 aprile una foto dell’ostaggio con una copia de La Repubblica del 19 aprile e indicarono in “Andreotti e i suoi complici” i veri autori del depistaggio, cogliendo dunque nel segno.
Il falso comunicato servì assai probabilmente anche ad accreditare presso il Vaticano la figura di Chichiarelli, l’autore, come intermediario segreto, affinché il riscatto raccolto dal papa non finisse nelle mani dei brigatisti a finanziare la lotta armata, bensì in quelle di un personaggio controllato dagli apparati dello Stato anche se legato alla criminalità comune. Il piano del governo e dell’antiterrorismo fallì perché il Vaticano dovette subodorare l’inganno e non consegnò il denaro. L’accaduto, però, indusse Paolo VI a rivolgere il 22 aprile un accorato appello “agli uomini delle Brigate rosse” affinché rilasciassero Moro “senza condizioni”. Evidentemente perché quelle fino ad allora pattuite si erano rivelate mendaci e fosse possibile così riallacciare i fili di una trattativa non con degli impostori, ma con quanti effettivamente detenevano il prigioniero.
Ogni sforzo del papa, capo di uno Stato estero impegnato in un duro quanto nascosto scontro con il governo italiano che mal tollerava quell’ingerenza umanitaria i cui effetti destabilizzanti avrebbero avuto sanguinose ricadute sulle forze dell’ordine e sui cittadini italiani, fu inutile, come rivelano le ultime struggenti lettere di Moro alla moglie Noretta: “Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo […]”; “Ora improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibilmente l’ordine di esecuzione”.
Incomprensibilmente. E già. Gli ultimi giorni di Moro rimangono oscuri non soltanto per le incongruità nelle versioni fornite dai sequestratori, ma anche perché l’ostaggio in diverse lettere e in una lunga parte del memoriale si mostrò certo di essere a un passo dalla liberazione tanto da spingersi a ringraziare i brigatisti per il loro atto di magnanimità (“io desidero dare atto che alla generosità delle Brigate Rosse devo, per grazia, la salvezza della vita e la restituzione della libertà”).
Rispetto alla versione ufficiale accertata in numerose inchieste giudiziarie (l’ultima è tuttora in corso mentre una nuova Commissione di inchiesta parlamentare ha indagato in questa legislatura) e in seguito ribadita in alcuni libri di memorie scritti dai brigatisti, la trepidazione dimostrata in quelle ore dagli ambienti della famiglia pontificia, da autorevoli ed esperti esponenti politici e dallo stesso prigioniero apparirebbe sul piano logico del tutto ingiustificata, ma evidentemente rinvia a un’altra dimensione della storia rimasta occulta.
Il fallimento del negoziato segreto ha contribuito ad alimentare un’area di opacità e di reciproco ricatto che ha condizionato i soggetti coinvolti nella vicenda: le linee della fermezza e della trattativa e quella della reticenza si sono paradossalmente rafforzate per sempre grazie alla scomparsa di Moro. Resta il fatto che il prigioniero è morto e che gli originali dei suoi scritti sono spariti: un epilogo sghembo e forse beffardo di una storia tragica nella sua asciutta ferocia, che ben presto, grazie alla penna di Leonardo Sciascia, si sarebbe trasformata nel cosiddetto Affaire Moro.
Il 9 maggio 1978 i sequestratori abbandonarono il cadavere di Moro nel cuore del centro storico di Roma, ai bordi del ghetto ebraico, a poche centinaia di metri dalla sede nazionale del Pci. Vale a dire in una delle zone più controllate al mondo dai servizi segreti al tempo della guerra fredda. L’operazione Moro vide la convergenza di interessi, a livello internazionale, tra il blocco orientale e quello occidentale e, a livello nazionale, tra un fronte reazionario (legato all’oltranzismo atlantico, alla destra anticomunista e ad ambienti massonici prossimi alla P2) e i gruppi rivoluzionari del “partito armato” intorno a una comune matrice sovversiva. Il principale obiettivo era continuare a destabilizzare l’Italia per stabilizzarla in senso centrista e moderato nell’ambito degli equilibri consolidati della guerra fredda stabiliti a Jalta che non potevano tollerare mutazioni di sorta. A causa della convergenza di queste forze, che pure agirono in modo autonomo l’una dall’altra, l’operazione Moro può essere considerata il punto più drammatico raggiunto dalla strategia della tensione in Italia.
Una settimana dopo la fine di Moro si votò per le elezioni amministrative in alcune città: la Dc aumentò i suoi voti, mentre il Pci, per la prima volta dal 1953 arretrò. Soltanto allora l’operazione Moro poté dirsi conclusa: l’Italia sarebbe sopravvissuta, senza però essere più la stessa. All’indomani della scomparsa dell’uomo politico, i suoi congiunti rilasciarono uno scarno comunicato: “La famiglia desidera che sia pienamente rispettata dalle autorità dello Stato e di partito la precisa volontà di Aldo Moro. Ciò vuol dire: nessuna manifestazione pubblica, o cerimonia o discorso, nessun lutto nazionale, né funerale di Stato o medaglia alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia”. Uno schiaffo a forma di epitaffio a suggello di una tragedia italiana che, quarant’anni dopo, non ha smesso di interrogare la coscienza politica e civile del nostro Paese.
postilla
Dopo anni di inchieste e ricerche ormai è chiaro che il rapimento e assassinio di Aldo Moro è stato ordito dalle forze, soprattutto negli Usa )ma anche in Francia, Germania e soprattutto Gran Bretagna), che volevano interrompere il dialogo intessuto da tempo tra il mondo cattolico e il mondo comunista. A raggiungere l' accordotra queste due realtà era finalizzata la proposta strategica di Enrico Berlinguer del "compromesso storico", avanzata dal leader comunista quando l'assassinio di Salvator Allende,leader del Cile, fece comprendere che strade democratiche per superare il capitalismo a guida yankee erano impraticabili. Nella stessa linea di Berlinguer si collocava il tentativo tattico di Aldo Moro, tessitore di un accordo tra Dc e Pci. Perciò venne condannato e ucciso [agg.16 marzo 2018] (e.s.)
Articolo tratto da " Fatto Quotidiano" qui raggiungibile: Moro, il sequestro della Repubblica
la Stampa
Il fascismo è morto e sepolto. Non è un pericolo il fascismo: sono tutti morti. Il fascismo, nato come movimento socialista, ha avuto bisogno che arrivasse Mussolini o Hitler. Se non c’è in giro un Mussolini o un Hitler non succede niente. Pericoloso è semmai il movimento dell’antifascismo con i centri sociali, come si è visto a Piacenza con l’aggressione al carabiniere. Così Berlusconi l’altro giorno ospite di Fabio Fazio su Rai 1.
Dirsi sconcertati è ormai impossibile, tali e tante sono le sciocchezze che ci vengono ammannite in questa campagna elettorale. Ma non può passare senza un commento l’incredibile ricostruzione secondo la quale il fascismo sarebbe stato Socialismo+Mussolini, morto il quale non potrebbe più esserci fascismo. E poco merita di esser detto dell’offensiva assimilazione dell’antifascismo, radice della Costituzione, all’azione di pochi criminali violenti che abusivamente si nascondono dietro una bandiera con cui nulla hanno a che fare.
Né bisogna scrollare le spalle, pensando che si tratta di parole in libertà, che durano lo spazio di un passaggio in televisione. Gli elettori della destra nostalgica si sentiranno legittimati nell’arena politica. E si può immaginare l’effetto nell’Europa alle prese con ciò che accade in Ungheria e Polonia, quando nelle varie capitali verranno lette le note informative inviate dai loro ambasciatori a Roma.
In realtà quanto detto dal sorridente e rassicurante Berlusconi va preso molto sul serio, perché quelle parole cadono su un terreno di altre parole che da qualche tempo tanti non esitano più a pronunciare. Una di queste è fascismo. Del fascismo viene taciuto l’uso e l’esaltazione del manganello contro gli avversari, l’abolizione del Parlamento (e l’uccisione del socialista Giacomo Matteotti), il partito unico, il carcere e il confino per gli antifascisti, le leggi razziali, le guerre coloniali e quella accanto ai nazisti. Ma, si dice, il fascismo ha anche fatto cose buone. Il giornale «Libero» ha pubblicato un elenco di 100 cose buone del fascismo. Salvini poi, capo della Lega, ha contraddetto il presidente Mattarella, ricordando il sistema pensionistico e la bonifica delle Paludi Pontine. Mattarella, il giorno della memoria della Shoah, aveva detto: «Non dimentichiamo, né nascondiamo quanto di terribile e di inumano è stato commesso nel nostro Paese con la complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, cittadini, asserviti a una ideologia nemica dell’uomo». Aveva aggiunto: «Sorprende sentir dire, ancora oggi da qualche parte, che il fascismo ebbe alcuni meriti, ma fece due gravi errori: le leggi razziali e l’entrata in guerra. Si tratta di un’affermazione gravemente sbagliata e inaccettabile, da respingere con determinazione». Il fascismo, ha detto il Presidente, «non ebbe meriti». Affermazione, quest’ultima in sé facilmente criticabile, se si pensa che qualunque regime fa pur qualcosa di buono. Nel regime di Hitler ad esempio fu costruita la prima rete autostradale in Germania. Ma chi direbbe ora, nel dibattito politico, che Hitler fece anche cose buone. Se lo dicesse, se ne facesse argomento, così come avviene oggi in Italia attorno al fascismo, farebbe un’operazione politica ben precisa. Si dice infatti che certo vi sono state le leggi razziali (ma la colpa fu di Hitler) e la guerra. Ma c’è stato anche del buono. E dunque non bisogna esagerare. Si può discutere e insomma si può storicizzare e archiviare un sistema morto insieme ai suoi protagonisti. Divenuto discutibile il fascismo, diventa discutibile l’antifascismo. In fondo anche l’antifascismo di oggi fa cose cattive, come le violenze dei centri sociali. Ed ecco che si torna al Berlusconi dell’altro ieri.
Relativizzando il giudizio sul fascismo e rifiutando ogni attualità di una prospettiva fascista si esclude il tema dal campo delle questioni serie di cui discutere. Una simile posizione si inserisce in un contesto segnato da gruppi politici che rivendicano la loro radice fascista, simboli fascisti vengono usati e sono centinaia le pagine web dedicate al fascismo e ai suoi meriti. Ma anche se quei siti e quelle rivendicazioni da parte di gruppi e gruppuscoli richiamano l’adesione di numeri necessariamente limitati, il problema non può essere facilmente liquidato.
Tracce di fascismo emergono in vasta parte del mondo politico e dell’opinione pubblica, anche se non si pensa più a manganello e camicia nera. L’ideologia e la pratica dell’odio per il diverso, l’attacco al Parlamento come luogo di discussione e mediazione politica, l’esaltazione di un’impossibile democrazia diretta, facilmente plebiscitaria, il nazionalismo autarchico rivendicato per attaccare l’Europa. Ed anche il linguaggio che nel dibattito politico ha perso ogni freno e rispetto per gli avversari. Non questo o quell’episodio, non questa o quella dichiarazione, ma il complesso del clima presente è motivo di allarme e non consente disattenzione.
la Repubblica, blog Articolo 9, 14 febbraio 2018. Se la politica fosse quella che il ministro renziano Dario Franceschini ritiene che sia - e di fatto pratica - bisognerebbe vergognarsi di farla. Ma cè un'altra Politica, bella e utile a tutti
Per la seconda volta in poco tempo (la prima qualche giorno fa a Otto e mezzo, la seconda oggi a L’Aria che tira), il ministro uscente per i Beni Culturali Dario Franceschini risponde alle mie obiezioni in materia di governo del patrimonio culturale dicendo che non parlo da storico dell’arte, ma da politico. Ebbene, vorrei rispondergli una volta per tutte: e vorrei farlo perché quella sua affermazione (che è, di fatto, una piccola furbizia mediatica) è capace di rivelare molto circa la concezione della politica che è propria non solo di Franceschini, ma di una larga parte del nostro ceto politico.
C’è innanzitutto un ammiccamento all’antipolitica, un inchino al populismo. Franceschini dice ai cittadini: "badate che Montanari non parla come tecnico autorevole, o come cittadino indignato, ma come politico. E dunque non dice la verità, ma fa propaganda". L’opposizione popolo-politica è il cardine stesso di ogni populismo. Così come la presunzione che il politico sia mendace per natura, e, più in generale, il disprezzo per la politica.
A me non verrebbe mai in mente di dire: "guardate che Franceschini è un politico". Perché ho un’enorme considerazione per la vera politica, e semmai penso proprio il contrario: e cioè che il nostro ministro abbia un’idea assai modesta della politica. Troppo modesta.
Se Franceschini invece ricorre a questo "argomento" è proprio – questo è il paradosso –a causa della sua consumata abilità di professionista della politica come la intende lui. Di politico abilissimo a galleggiare in ogni stagione: un vero e proprio"autoreggente"della politica, come lo definisce Alessandro Gilioli in questo immortale ritratto pubblicato sull’Espresso. Una carriera inaffondabile: Franceschini è in politica dal 1980, quando era già consigliere comunale. Grazie a questa carriera Franceschini ha imparato ad annusare l’aria: e ora sa bene che lui (purissimo politicante da una vita) deve cavalcare l’antipolitica e mescolare le carte. Fino ad arrivare a suggerire che la politica è una cosa sporca, intessuta di menzogne: e che dunque chi parla da ‘politico’ non merita una risposta nel merito.
Ma perché Franceschini mi definisce politico?
Forse perché, con molti altri colleghi storici dell’arte, archeologi, archivisti, bibliotecari abbiamo organizzato un cartello di associazioni che si chiama Emergenza Cultura, e che cerca di difendere le ragioni dell’articolo della Costituzione che dà il nome a questo blog.
O forse ancora perché sono il presidente di Libertà e Giustizia, una associazione di cultura politica, che non dà indicazioni di voto e che è guidata da un consiglio di presidenza composto da persone che nessuno definirebbe "politici" (Sandra Bonsanti, Salvatore Settis, Gustavo Zagrebelsky, Lorenza Carlassare, Nadia Urbinati, Roberta de Monticelli, Paul Ginsborg, Valentin Pazè, Elisabetta Rubini).
O infine perché ho cercato (senza peraltro riuscirci) di costruire una sinistra nuova e radicale, nel cosiddetto percorso del Brancaccio. Un percorso in cui ho annunciato fin dall’inizio che non mi sarei candidato ad alcunché e che concepivo quell’impegno come una forma di cittadinanza attiva. Quello stesso modo di fare politica senza essere un politico per cui oggi ho presentato la proposta di reddito minimo di dignità della Rete dei Numeri Pari di Libera: e non so se Franceschini chiamerebbe "politico" anche don Ciotti, che sedeva al mio stesso tavolo.
Insomma, se un cittadino prova a dedicare una parte della sua vita a invertire la rotta di questa sciagurata società; se prova a intendere la politica non come una cosa che serve a cambiare la sua stessa vita, ma quella di tutti; se prova a correggere i danni fatti dai professionisti della politica, come Franceschini: ecco che questi ultimi si difendono nel più incredibile dei modi: "sei un politico, e dunque non ti rispondiamo".
E così siamo oggi davanti al paradosso di un Franceschini che (vivendo di politica da quando io avevo nove anni, ed essendo oggi candidato al Parlamento) dice che io (che faccio un altro lavoro, e non sono candidato al Parlamento) lo attacco "da politico".
No, signor ministro: io la attacco da cittadino, da storico dell’arte, da intellettuale.E visto che da anni le pago, con le mie tasse, il suo lauto stipendio mi aspetto che risponda ai miei argomenti con altri argomenti. E non con quelli che vorrebbero essere insulti.
Ytali
Il sistema democratico di tipo statunitense, che si era affermato nell’Europa uscita dalla Seconda guerra mondiale, è pervaso almeno dalla fine del mondo bipolare da una crisi strisciante che si manifesta in maniera diversificata nelle attuali nazioni europee. Che questa crisi appaia ora evidente anche nella Repubblica federale tedesca – nelle elezioni del 24 settembre scorso – può sorprendere solo chi finora ha visto nella Germania riunificata una roccaforte inespugnabile, un emblema di stabilità istituzionale e politica.
Eppure all’interno della Germania gli scricchiolii del sistema si sentono da molti anni, e fu proprio la politica della “grande coalizione” tra democristiani e socialdemocratici ad averli attutiti in nome della “governabilità”, ritenuta garanzia sufficiente per la “stabilità”. Eppure – osserva Marco Bascetta (il manifesto, 23/1/2018 ) – dopo il recente risicato consenso della base del SPD per concordare con il CDU/CSU un nuovo programma di governo, vi sono politiche di stabilità che a lungo andare favoriscono la peggiore delle destabilizzazioni, quella che conduce alle soluzioni autoritarie, se non al centro, almeno alla periferia.
Compito facile e difficile insieme: facile in quanto la futura politica deve comunque continuare a garantire alla Germania le condizioni produttive per mantenere il suo ruolo dominante in Europa e il rispettivo surplus economico – questo è il tacito consenso tra tutte le forze politiche. Difficile, perché all’interno di questo consenso ci si differenzia per questioni di ridistribuzione del consistente surplus della bilancia commerciale tra le varie frange della società.
Di fronte a una realtà economica in cui le quarantacinque famiglie più ricche posseggono quanto la metà dei tedeschi meno abbienti, si discute di fatto sulle percentuali dei contributi al sistema sanitario, sull’alleggerimento di questa o quella tassa, sulla misura del “tetto” da imporre al numero dei migranti da accogliere ecc. Ma non si ridiscutono le premesse di sistema nel loro complesso, che hanno prodotto e continuano a produrre anche quasi un milione di senzatetto e circa otto milioni di working poor, di lavoratori precari che non arrivano alla fine del mese senza gli aiuti del welfare pubblico. E non c’è dibattito sulla politica estera, né sull’intervento di truppe tedesche nel resto del mondo e ancor meno su una revisione del ruolo della Germania in Europa, perché si nega e si occulta la vera natura economica della conflittualità anche intereuropea.
Il neoliberalismo, diventato teoria e prassi dominante dopo la fine del mondo bipolare, ha negato la pluralità degli interessi, l’esistenza di conflitti di classe e non riconosce più una controparte sociale. Il che ha prodotto quella rigidità autoritaria che collega – pure in decenni e contesti politici diversi – Angela Merkel a Margaret Thatcher: “Non c'è alternativa”.
Negando l`esistenza di contraddizioni economiche antagoniste la politica degenera in una lotta all’interno del blocco di potere dominante. E mentre nel contesto europeo dopo Maastricht le attuali democrazie nazionali stanno perdendo parte delle funzioni che avevano in passato, la Germania è tornata a essere “Stato-nazione” proprio in quel momento storico che doveva ridimensionare il peso delle nazioni. Il contrasto tra Merkel e Trump si spiega anche così: Germany first vs America first.
La propaganda mainstream insiste in queste settimane sulla necessità di costituire al più presto un governo tedesco “capace di agire”, lo chiederebbero non solo i cittadini tedeschi, ma anche i partner europei, per non dire il mondo intero, che guarderebbe con ansia a Berlino! E si favorisce apertamente la riedizione di una Grande Coalizione, per poter continuare più o meno come prima (nonostante il fatto che gli elettori abbiano sottratto milioni di voti, circa il quattordici percento del consenso a questa opzione).
Ma l’ipotesi di un governo di minoranza è fuori dall’orizzonte dell’establishment politico, il cui atteggiamento richiama in mente la logica della propaganda elettorale democristiana degli anni Sessanta: Keine Experimente. Infatti “calma e ordine” costituiscono la consolidata massima della politica tedesca, almeno dal 1806 (Ruhe ist die erste Bürgerpflicht! – Mantenere la calma è il primo dovere dei cittadini! – fu l’ordine impartito ai sudditi berlinesi dopo la disfatta prussiana presso Jena a opera di Napoleone).
Anche la Repubblica Federale postbellica si votò alla restaurazione – ora dell’ordine capitalistico col modello consumistico statunitense, concepito come non conflittuale e armonico e reagì quindi male alle prime scosse a quell’idillio.
Dopo aver messo a tacere le estese proteste popolari contro il riarmo nei primi anni Cinquanta – solo pochi anni dopo l`ultima sconfitta – e messo fuori legge il partito comunista (KPD) nel 1956 (misura solo recentemente riconosciuta ufficialmente come incostituzionale) furono gli scioperi nella zona della Ruhr nei primi anni Sessanta e le svariate proteste sociali, accentuate dalla prima grande recessione postbellica del 1966 a turbare il sonno del’establishment e della maggioranza dei tedeschi.
Il tutto culminò poi nel cosiddetto Sessantotto che non solo attaccò le premesse dell’ordine costituito, almeno a parole, ma tentò per la prima volta dopo la guerra di sviluppare delle alternative politiche, sociali ed economiche al di fuori del sistema normativo tradizionale. Questa deviazione dal consenso maggioritario incontrò durissime reazioni da parte del’establishment politico e mediatico (cfr. il varo della legislazione d’emergenza, Notstandsgesetze, in barba allo stesso Grundgesetz), reazioni sproporzionate rispetto al “pericolo” costituito dagli studenti ribelli, subito stigmatizzati come estremisti, radicali e potenziali terroristi, ben prima della deriva degli attacchi della Rote Armee Fraktion negli anni Settanta, culminati nell’“autunno tedesco” (1977).
Toccò al primo governo social-liberale (SPD/FDP), in carica dal 1969, quando Willy Brandt aveva proposto ai tedeschi di “osare più democrazia” (Mehr Demokratie wagen), a promulgare nel 1972 quel Radikalenerlaß, diventato noto in tutte le lingue europee come Berufsverbot, con il quale si escludevano per anni e per motivi insindacabili i cosiddetti “elementi anticostituzionali” dai pubblici uffici (ovvero gli ex-sessantottini, allora ritenuti “nemici della costituzione” – Verfassungsfeinde). Centinaia di migliaia di giovani tedeschi vennero sottoposti a procedure inquisitorie, che ebbero a lungo anche un indubbio effetto intimidatorio sul resto della società.
I nemici della libertà e della democrazia sono dunque di nuovo pesantemente all`attacco, nella Rft [constatò Lucio Lombardo Radice nelle sue corrispondenze di viaggio dalla Germania del 1977 ( Germania che amiamo, Editori Riuniti, 1978) e non da] sostenitori di Hitler, e perciò (tali nemici) sono più pericolosi dei neonazisti antistorici. Si richiamano a una tradizione di conservatorismo e di “repressione legale” che è vecchia quanto lo Stato tedesco unificato dalla Prussia militarista un secolo fa, e più: è la tradizione di Bismarck e ancora di più di Hindenburg.
La SPD era ormai divenuta “immanente al sistema” con la decisiva svolta programmatica di Bad Godesberg (1959), abdicando definitivamente alla lotta di classe e al marxismo. Max Horkheimer aveva definito quel riformismo della SPD come pura “strategia per arrivare al potere”. Eppure, occorre constatare, che l’opposizione non arriva mai “al potere”, ma solo al “governo”, per periodi relativamente brevi e sostanzialmente a più riprese per togliere le castagne dal fuoco.
Accreditata dunque come possibile Juniorpartner alla direzione degli affari della vecchia Bundesrepublik, la SPD di Willy Brandt, dal 1969 al governo in coalizione con la FDP, poté finalmente avviare quella Ostpolitik che mise fine alla miopia politica della negazione dell’esistenza della Repubblica democratica tedesca e avviò una politica di distensione verso l’Europa sovietica. Ebbe inizio quel Wandel durch Annäherung (svolta attraverso l`avvicinamento), di cui la CDU era stata incapace, ma che contribuì infine alla dissoluzione del blocco sovietico – e del cui successo si vantò la SPD poi dopo il 1989.
Ma presto, nel 1974, Brandt fu fatto cadere e dovette cedere la cancelleria all’uomo forte della SPD, Helmut Schmidt, promulgatore di uno Stato forte, che preparò indirettamente quella geistige Wende (svolta dei valori) reclamata ormai da Helmut Kohl, già alla guida della CDU, con cui nel 1982 ebbero inizio altri sedici anni di governo democristiano.
La lunga “era Kohl” (1982-1998) lasciò la SPD nuovamente in seconda fila anche nel processo della riunificazione nazionale. Essa poté tornare al governo solo alla svolta del secolo, dopo che Kohl aveva privatizzato l’intera industria della Rdt, creando non pochi problemi sociali. Toccò quindi a una finora inedita coalizione tra SPD e Verdi a guida di Gerhard Schröder cancelliere, reimpostare l’economia tedesca, ora unificata, con le pesanti riforme base dell’Agenda 2010, finalizzate alla razionalizzazione del welfare (riforme Hartz) e al dumping salariale che poi fece esplodere la produzione e l’export tedesco non solo in Europa, ma nel mondo intero.
Nel 2002 i Verdi facevano posto alla FDP ed è da allora che la SPD viene punita dal suo elettorato tradizionale. Entra nella prima Grande Coalizione con Angela Merkel, CDU, nel 2005, ma perde sempre più credibilità e il quattordici per cento del suo elettorato durante gli ultimi dodici anni (dal 34 per cento nel 2005 al venti per cento dei voti nel 2017). E non pochi valutano la sua recente svolta verso una nuova GroKo per “responsabilità nazionale” – ennesima resa di fronte alla chiamata della patria – come un suicidio politico.
Eppure questa deriva non è nuova nella storia tedesca, anzi, si ha sempre più spesso l`impressione del déjà-vu. Già cento anni fa, durante la prima esperienza repubblicana dopo la prima guerra mondiale, allorché la SPD aveva votato i crediti di guerra per sfuggire allo stigma dei vaterlandslose Gesellen (gente senza patria) , inflittole dall’establishment del Reich guglielmino a causa dell’internazionalismo proletario degli inizi, la SPD perse consenso politico presso le masse a causa della sua politica troppo accondiscendente nei confronti dei poteri forti che sopravvissero anche a Weimar.
Di fronte alla crisi della SPD diventata irreversibile verso la fine della Repubblica di Weimar, Kurt Tucholsky aveva formulato nel 1927 il seguente “compito di matematica”:Il partito socialdemocratico ha in otto anni zero successi. Quando si accorge che la sua tattica è sbagliata?
E si potrebbe aggiungere oggi: perché nei novant’anni successivi non ha mai messo in dubbio la propria strategia politica, pur essendosi questa rivelata quasi sempre perdente nei grandi appuntamenti storici?
Nelle condizioni attuali e con i politici attualmente in campo è prevedibile che una prossima GroKo, se si realizzerà, sarà politicamente più debole, ma continuerà a perseguire gli interessi di Germany first, anche per “frenare la destra nel parlamento e nelle piazze”, come ripetono i media, una destra (AfD) che viene alimentata proprio da quella politica. Un circolo vizioso.
La strategia di fondo rimarrà quella della costruzione di un “Kerneuropa”, concetto di origini lontane, ripreso da Wolfgang Schäuble e non messo in questione dalla SPD, persino Jürgen Habermas si è schierato in questo senso. Quella “Europa a due velocità” rafforzerà il legame con la Francia, nel comune interesse di creare forze militari europee. Le nazioni “periferiche” rispetto al nucleo forte, a sud e a est, manterranno il loro status di supporto semicoloniale. Restano indispensabili, anche per ragioni geopolitiche, l’Italia come porta-aerei della NATO e gli stati del gruppo Visegrad, come supporto-base per gli interessi USA/NATO, al fine di limitare sia l’autonomia della Russia sia quella europea.
Comune-info.net. gennaio 2018.
LA SCONFITTA: CONDANNATI A VINCERE?
Sentieri interrotti e strade nuove
nelle esperienze sociali, spirituali ed esistenziali
di Paolo Cacciari
Dopocapodannoa Sezano
3-4-5 gennaio 2018
PRIMA PARTE
DANILO DOLCI E NUTO REVELLI
Il compito che mi è stato assegnato è di guardare al tema dei “vinti” in chiave sociale. In questa ottica i “vinti” sono i dominati, i deprivati, gli inferiorizzati, gli emarginati, gli esclusi, gli “scarti” (per usare un’espressione di papa Bergoglio), le vittime, insomma, dei sistemi economici-sociali- istituzionali che penalizzano, umiliano fino a mortificare le persone infliggendo loro varie sofferenze.
Penso che in Italia nessuno meglio di Danilo Dolci e Nuto Revelli sia riuscito a dare la parola agli “sconfitti” della società. Il mio, quindi, vuole essere solo un invito a riprendere in mano i loro lavori, troppo presto dimenticati. Di Dolci ricordo Racconti siciliani (che è una selezione di interviste/racconti raccolti tra il 1952 e il 1960) e di Revelli, i due volumi de Il mondo dei vinti (testimonianze contadine raccolte nel Cuneese nel dopoguerra).
La prima cosa che ci insegnano i nostri due maestri dell’indagine sociale è che per capire e raccontare la condizione di chi patisce esclusione e impoverimento è necessario entrare con loro in un rapporto di fiducia capace di superare reticenze, vergogne, paure. Creare un “campo di empatia” (Eugenio Borgna, psichiatra) capace di aprire il cuore delle persone non è facile. Comporta una fatica enorme.
Scriverà Dolci a proposito delle sue conversazioni con gli abitanti di Trappeto o con i detenuti dell’Ucciardone: “Tutto questo non era semplice, costava ansie e sudori: ogni volta erano dei parti” (Giuseppe Barone, Gli “industriali” e i banditi di Danilo Dolci, in: D.Dolci, Racconti siciliani, Sellerio, 2008, p. 409). Per riuscire ad accendere una comunicazione sincera tra le persone bisogna immedesimarsi nella condizione dell’interlocutore con attenzione, delicatezza, rispetto. Saranno questi i fondamenti della maieutica pedagogia di Dolci.
Ha scritto Dolci: “Il primo strumento che ciascuna persona ha a disposizione da valorizzare, è sé stessa” (Esperienze e Riflessioni, p.107). Oggi diremo empowerment, capacitazione, restituzione di autostima. Dare davvero la parola agli ultimi, agli emarginati, agli oppressi non significa farsi interpreti e raccontare “noi” le “loro” storie, ma è un modo per intraprendere “un percorso di liberazione” assieme (Carlo Levi nell’introduzione alla edizione dei Racconti siciliani editi da Sellerio).
L’indagine sociologica, quindi, non è neutra, asettica, ma è “co-ricerca”, “inchiestazione”. Un modo per compiere la scelta di stare dalla parte delle vittime, dei “vinti” fino a giungere a condividerne la sorte. Per intraprendere un percorso di liberazione, quindi, non basta portare solidarietà, essere caritatevoli, assistenziali. É necessario risalire nella consapevolezza alle cause generali che creano le particolari condizioni di sofferenza.
In altre parole, il percorso di liberazione passa attraverso un processo di presa di coscienza e di protagonismo sociale e politico, individuale e collettivo. Mi viene in mente il discorso che papa Bergoglio ha pronunciato il 4 febbraio del 2017 in occasione di una udienza in Vaticano con i rappresentanti dell’Economia di comunione, quando disse: “Imitare il buon Sammaritano non è sufficiente”. Occorre: “combattere le strutture del peccato che producono briganti e vittime”. “Bisogna allora puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale”. E’ necessario: “cambiare le strutture per prevenire la creazione delle vittime e degli scarti” (quotidiano
l’Avvenire di domenica 5 febbraio 2017).
Sono le strutture e le logiche di potere/dominio/coercizione che creano subordinazione, sfruttamento fino alla perdita di autonomia e alla disumanizzazione dei “perdenti”.
Danilo Dolci
Le scelte di vita di Dolci sono esemplari. Nato a Sesana, vicino a Trieste, renitente al servizio militare nel ’43, riesce a fuggire all’arresto da parte delle SS e a riparare negli Abruzzi. Finita la guerra, studia a Milano architettura e lavora come insegnate a Sesto San Giovanni. Le sue grandi passioni sono la musica e la poesia. Pubblica presto e diventerà un affermato poeta vincendo anche un premio Viareggio. Incontra padre Turoldo e la sua filosofia: “Godi del nulla che hai, del poco che basta giorno per giorno: e pure quel poco se necessario dividilo”. Nel 1950 lavora con don Zeno Santini alla Comunità Nomadelfa per orfani della guerra a Fossoli (Carpi) riutilizzando una parte dell’ex campo di concentramento. Ma ben presto anche questa struttura gli appare troppo protetta e va nella profonda Sicilia occidentale, a Trappeto, frazione di Partinico sul Golfo di Castellamare, che conosceva già perché suo padre vi era stato come capo stazione.
Cosa trova Dolci a Trappeto? Ce ne dà un’idea Carlo Levi ne Le parole sono pietre : “Scendemmo con lui nel Vallone, per le strade miserabili e putride, rivedemmo, ancora una volta, come in tanti altri villaggi e paesi del Sud, la grigia faccia della miseria; uomini senza lavoro, ‘disfiziati’, senza volontà e desideri, le madri senza latte, i bambini denutriti e ridotti a scheletri (...) Un uomo ancora giovane, dal viso smunto, infreddolito dalla tubercolosi, cercava, avvolto in uno scialle di lana, di scaldarsi al sole (...) Entrammo in un’altra casa dove vedemmo un uomo chiuso in una gabbia. La piccola stanza dove viveva tutta la famiglia era stata divisa con delle sbarre di ferro come quelle degli animali feroci, e nella gabbia camminava avanti e indietro un giovane dal viso bestiale, dai neri occhi terribili”. Era un infermo di mente.
Per molti mesi vive in una tenda ospite da amici del padre e poi costruisce un edificio con l’aiuto di amici e fonderà il Borgo di Dio. Inizia la sua attività di sociologo irregolare, di educatore informale, di animatore culturale, di attivista sociale. Animato da una profonda forza spirituale e da un metodo analitico rigoroso svolge un’infinità di azioni che nel suo Diario per gli amici descrive così:
“a) Assistenza alla popolazione più bisognosa (compresa l’assistenza sanitaria: medicine, ecc.).
b) Continuazione delle pratiche per la prima irrigazione, che darà lavoro a mille uomini. Finché non arriva l’acqua nelle campagne, qui c’è fame.
c) Opera di documentazione ed informazione perché si sappia che specie di vita c’è in questa zona, ed in particolare si sappia come nasce qui il banditismo e come ci si vuole porre rimedio.
d) Università popolare e concerti (...) Inizia da oggi la biblioteca popolare.
e) Motopescherecci fuorilegge: non possiamo non essere con tutti i pescatori di qui (...)
f) Quanto ai bambini. A nessun poliziotto, a nessun Prefetto ubbidiremo quando i suoi ordini saranno contro la legge di Dio. Rosetta, di otto anni [morta di stenti NdR] era stata costretta a dormire nel letto del padre tisico (...) In questi casi estremi (...) nessuno ci potrà vietare di accogliere e di amare i figli di tisici, o di carcerati, o di gente alla rovina, quando altri non provvedono ad essi.” (B
anditi a Partinico, Laterza, 1955, p. 221).
Nel 1953 sposa Vincenzina, vedova di un sindacalista con cinque figli. Con Dolci ne avranno alti cinque.
Grazie alle inchieste e agli articoli di denuncia, Trappeto diventa un punto di riferimento per i maggiori intellettuali progressisti italiani e stranieri: Aldo Capitini, Norberto Bobbio, Vittorini, Calvino, Rodari. E poi: Erich Fromm, Bertrand Russell, Aldous Huxley, Lewis Munford, Paulo Freire, Johan Galtung... intrattengono rapporti con Dolci. Nasce il Centro studi ed iniziative per la piena occupazione, sulla ispirazione di Centri di Orientamento Sociale che Capitini aveva tentato di lanciare in Italia. Con i braccianti e i pescatori si organizzano digiuni, marce, scioperi alla rovescia.
Le parole d’ordine sono semplici: Pace e sviluppo, Acqua, Lavoro. Dolci e i suoi collaboratori arrivati da varie parti d’Italia e dall’estero subiranno vari processi ed anche incarcerazioni. Nel 1956, a seguito di uno sciopero alla rovescia con cui un gruppo di disoccupati intende ripristinare la strada comunale Trazzera Vecchia viene arrestato e carcerato per due mesi all’Ucciardone a Palermo come “individuo con spiccata capacità a delinquere”. Al processo sarà difeso da Pietro Calamandrei che svolgerà una celebre arringa, poi pubblicata in un libro Processo all’articolo 4.
Dolci sarà definito “il Gandhi siciliano”, uno “pseudo-apostolo”, ma riceverà critiche anche “da sinistra” per il suo eccessivo individualismo e il rifiuto a stare nelle logiche partitiche. Scriverà nel suo Diario per gli amici: “Alcuni (...) giudicano opportuna la nostra attività di informazione, ma deleteria la cura intima per il nostro prossimo più ferito in quanto ritarda con palliativi il rinnovamento della struttura. Rivoluzione: d’accordo. Non si può rimandare a domani il disoccupato che cerca lavoro perché ha i figli alla fame. Rivoluzione subito. Ma il modo della rivoluzione è essenziale. Se seminiamo piselli non nascono pesci. Se seminiamo morte ed inesattezze non nasce vita “ (p.219). E qui sono evidenti le sue radicate convinzioni nonviolente, gandhiane e tolstojane.
Le cronache delle sue iniziative e le sue conferenze lo fanno conoscere in tutto il mondo. Nel 1957 gli sarà conferito il Premio Lenin per il rafforzamento della pace tra i popoli (il Nobel dell’Unione sovietica). Accetterà quale riconoscimento della “validità delle vie rivoluzionarie nonviolente, accanto alle altre forme di azione e di lotta nell’affrontare la complessa realtà; la continua necessità di un’azione scientifica ed aperta, maieutica direi, dal basso”.
Ma cresceranno anche le ostilità. Il celebre cardinale di Palermo Ernesto Ruffini dirà di Dolci: “In questi ultimi tempi si direbbe che è stata organizzata una congiura per disonorare la Sicilia e tre sono i fattori che maggiormente vi hanno contribuito: la mafia, il Gattopardo, Danilo Dolci. Una propaganda spietata, mediante la stampa, la radio, la televisione ha finito per far credere in Italia e all’estero che di mafia è infettata largamente l’isola” (Tratto dalla
Biografia di Danilo Dolci a Cura del Centro per lo sviluppo creativo Danilo Dolci. Sito Ufficiale di Danilo Dolci www.danilodolci.it).
Negli anni ’60 Dolci riesce a raccogliere testimonianze e a formulare circostanziate accuse sul “sistema clientelare mafioso” che avvolge le istituzioni politiche della Sicilia e ottiene audizione presso la Commissione parlamentare antimafia dove depositerà dossier con i nomi “eccellenti” dell’allora ministro al commercio internazionale Bernardo Mattarella e del sottosegretario Calogero Volpe. Denunciato per diffamazione, Dolci verrà condannato – una delle sue tante sconfitte - ma la pena sarà condonata.
Sono centinaia le storie che Dolci riesce a farsi raccontare e costituiscono pezzi di letteratura. Ma ciò che interessa più a noi in questo contesto é scoprire che anche nelle persone più segnate dalla sofferenza, sventurate, sciagurate, “bandite” dalla società... emerge una umanità indomita. Sconfitte sì, ma mai vinte, potremmo dire. Perdenti nella impari lotta per la sopravvivenza in condizioni di estrema povertà, ma mai del tutto disumanizzate.
Solo per avere una piccola idea della bellezza di queste storie, riporto alcuni brevi stralci.
Rosario è un “verdurario”, un raccoglitore di ogni cosa: lumache, rane, anguille, granchi, carbonella, carbone lungo i binari, piombo nei poligoni di tiro.
“Ci sono cinque o sei tipi di verdura: verdura selvaggia, coltivata da nessuno, nasce per conto suo. Tu vai camminando e quel che trovi prendi, giustamente; la mattina ti alzi, circa le quattro, le tre, le cinque: dipende dalla stagione e da dove devi andare. Ti alzi e vai in campagna, fai dieci o dodici chilometri e incominci in mezzo in mezzo a cercare la verdura. (...) Si può fare quattro o cinque chilometri, o di più, in mezzo in mezzo, per riempire un sacco (...) quando il sacco è pieno zeppo ce ne andiamo al paese. A casa la moglie fa trovare una bagnera d’acqua, che ci vuole acqua assai per pulirla bene, altrimenti il rivenditore non la prende (...) Se piove prima di partire, noialtri non ci andiamo, andiamo a lumache (...) Ci sono tre specie di lumache: attuppatedde, babbaluce e crastuna. (...) Per esempio io cammino, e le lumache non ce n’è, ma io vedo la bava che luccica a per terra, io seguisco o la vo a trovare sottoterra, o la trovo aggrappata, ma la devo trovare. (...) Le rane, per venderle, ci tagliamo con la forbice la testa e i quattro piedi, e le scocciamo dalla pelle. Ci leviamo il budello e il fiele. Dopo ci spezziamo le gambe, per gonfiargli le gambe: così la rana sta più pulita, con le cosce grosse. Quando tu vedi le rane con le cosce grosse allora dici: - Me ne dà un chilo -. E anche con le gambe rotte, pelate, senza testa, senza piedi, senza fiele, ancora si muovono. E dopo due ore nell’acqua andiamo a venderle duecento lire al chilo (...) Se tu tagli la testa alla rana e la metti sul tavolo e ci guardi gli occhi, sembrano sempre vivi: come quando guardi un quadro, sembra che guardino sempre te. Quando tu ci hai tagliato tutte le teste, sembra un macello: se tu mettessi tutte le teste schierate una per una... Le prime volte mi facevano un’impressione terribile, poi...L’altranno ne ho ammazzate centocinquanta chili. (...) Questa è l’arte mia, per guadagnare il pane; che io a tutti i mestieri mi butto. Da otto anni fino alla seconda elementare, ho vissuto arrangiandomi così alla meglio. Ringraziando Dio fin oggi non ho avuto niente da spartire con la polizia. E il pane che porto alla mia famiglia è un pane sudato e pulito”. (
Racconti siciliani, pp 32-44).
Nonna Nedda racconta della violenza familiare.
“Quando ci danno legnate, ci mettiamo in un angolo e quelle che cadono cadono. C’è un Dio solo, e il marito è uno solo pure: - Uno è Dio, e uno è il marito,- si dice. Le carezze sono nostre, e le legnate sono nostre pure. Non si può uscire senza ordine suo: ci si deve passare la preferenza, l’ordine. Lui è padrone. (...) Giusto è che il marito picchia la moglie. Quando ha ragione, magari. Non è giusto? Magari linguaire, risponderci? Il marito non pretende, e picchia. (...) Quando una non ci ha che fare, si mette con una vicina e parla, accoppiata magari a quattro o cinque (...) Ci piace a parlare, per svariare il cervello. Quando affaccia il sole, ci affacciamo al sole. – Bih, - dicono, - il sole è affacciato, ha voglia a sparlare -. E io ci rispondo: -E allora il sole non ha affacciare mai? – Il sole è bello, quando si affaccia il sole, col sole si respira meglio. Una che si siede al sole piglia i pensieri di tutti i cristiani. Affacciare il sole vuol dire che la gente si siede in strada in conversazione.” (Racconti siciliani pp 91-93)
Leonardo è un pastorello di pecore e capre.
Da piccolo giocavo strad-strada, che facevo? Mi affitti a tredici anni: mio padre era pastore, e prima avevo fatto il pastore con lui. Le bestie quando uno ce l’ha sottocchio tutto l’anno poi le conosce. (...) Non sono tutte uguali a mungere: c’è quella più selvaggia, quella più mansa; c’è quella che ha le minne giuste, c’è quella che ce le ha più spostate: quella più dura e quella più molle a mungere. Da me si facevano afferrare, dagli altri non si facevano avvicinare.
Non le so contare, ma lo so da lontano se ce ne manca una. Guardo e guardo, fino che me ne accorgo. Le conosco una per una, quella è figlia di quella, quella e figlia di quella. Quante sono, le conosco tutte. Ci sono stato con cento pecore, con duecento. Le contava il padrone quando era ora. (...) Nomi non ne hanno. Quando ci getto una gridata, loro si voltano”. (Racconti siciliani pp 106- 107)
Xx è un truffatore incallito, baro, chiromante professionista, fabbricante di talismani, militare in Africa, frequentatore di bordelli, sifilitico... e fermiamoci qui.
Dolci lo incontra in carcere ormai avanti negli anni e si fa raccontare lungamente la sua vita sicuramente ripugnante. Alla fine Xx ha parole di sorprendente profondità.
“Io penso che se tutti gli esseri umani avrebbero la minima sensazione e comprensione di profondirsi che noi sulla terra fossimo provvisoriamente, i giorni i mesi e gli anni li dovremmo adorare, perché vedendoli trascorrere si trascorre la nostra vita, ragione per cui ci dovessimo tutti adorare, aiutarci uno con l’altro, come fisicamente, e come di tranquillizzarci l’animo gli uni con gli altri (...) il mondo è più in mano di queste persone egoiste, vendicative, che non si curano del bisogno del suo simile (...) L’uomo è così ignorante che trova più poesia nelle cose private, proibite, che nelle aperte. Come quando si è in galera, che se il carceriere lascia la porta aperta, non c’è la voglia di uscire nel corridoio; ma essendo chiusa, si patisce. E’ sempre per tutti così”. (Racconti siciliani pp 104-109).
Una amico di Palcido Rizzotto, sindacalista assassinato dalla mafia.
“Placido si era accorto che tutto, in questo stagno, andava in putrefazione. Qui è come acqua ferma: quando nasce la palude, le cose marciscono, germogliano gli in setti e nasce l’epidemia. Lui diceva: - Non credo che dovremo restare sempre bestie, qua; arriverà il tempo in cui la gente apre gli occhi -. (...) Non posso dare un giudizio: lui è morto e se è morto ha sbagliato, mi viene da dire, da un lato affettivo. Se giudico però da un altro lato, l’ideale di Placido era ammirevole, perché lui operava con tutto il cuore nell’interesse di tutta l’umanità” (Racconti siciliani p.264)
Angela, ha conosciuto suo marito a 15 anni
“Uscivo solo una volta la settimana per la messa, e dopo mi ritiravo subito. Non avevo frequenza con amiche ma avevo simpatia per i bambini e per le mamme. Le ragazze che conoscevo io erano quasi tutte come me.(...) Ci siamo sposati e per un po’ ha lavorato ancora al cantiere [navale]. Una sera di queste mi ha detto: “Sai, devo imbarcarmi”. Gli ho detto: “Perché?”, ero in stato interessante, piangevo, non volevo che mio marito si distaccava, non volevo rimanere sola. Al cantiere prendeva poco, mio marito pensava che venendo i figli ci voleva una casa, bisognava pensare avanti (...) Ognuno non dovrebbe perdersi facilmente: vorrei che gli uomini siano affrattellati, che abbiano salute, lavoro, ma anche che ciascuno abbia il suo silenzio, sentirsi vivere, il corpo che lo desidera, e che tutti siano affratellati, associati sì, ma che mio marito possa stare più in casa”.
Nuto Revelli
La vita, l’impegno e i luoghi di Nuto Revelli sono molto diversi. Nato nel 1919 è della “generazione del Littorio”. Diplomato geometra, ufficiale degli alpini e volontario allo scoppio della seconda guerra. Partecipa alla campagna di Russia – che chiamerà: “lunga marcia della follia”. Sopravvive alla disperata ritirata dal Don. Dopo l’8 Settembre del ’43 si unisce ai partigiani e diventa comandante della brigata Carlo Rosselli di Giustizia e Libertà operante nel cuneese, nelle Langhe. Il suo interesse per la vita delle persone delle classi subalterne e la sua passione per il “dialogo con la gente” incominciano già in caserma tra i commilitoni. Finita la guerra e spentasi “la fiammata della Resistenza”, incomincia a raccogliere una quantità enorme di testimonianze e interviste tra le famiglie dei contadini. Nasceranno i due volumi: Il mondo dei vinti (Einaudi, 1977) e L’anello forte (Einaudi 1985).
In questi lavori l’obiettivo di Revelli é salvare la memoria della civiltà contadina in rapido disfacimento. Revelli pensa che la perdita della memoria storica di una comunità sia grave, perché priva le persone di una parte importante della loro identità e dissolve i legami di solidarietà. Senza alcuna concessione alla nostalgia di un mondo passato fatto di miseria, migrazioni e due guerre mondiali, ma nemmeno senza avallare la tesi dell’ineluttabilità di una “corsa del progresso” sulle ali di una ricostruzione industriale forzata, distruttrice di territorio, che ha comportato lo spopolamento delle aree interne delle montagne e delle colline, che ha lasciato i coltivatori diretti della pianura “padroni della propria miseria”, proprietari di piccoli “fazzoletti di terra”, anche se arati da “trattori enormi”, grazie agli incentivi alla Fiat e alle cambiali garantite dalla Coldiretti. Mentre i poveri di Partinico descritti da Dolci erano i dimenticati dalla Storia, quelli delle Langhe sono “gli emarginati dalla società del benessere”, i contadini “sopravvissuti al grande genocidio”, residui di una “società che muore” (Prefazione a:
Il mondo dei vinti).
Quella di Marietta Ponzo è una delle testimonianze raccolte da Revelli in un borgo di montagna: “Siamo più in pochi su al Colletto, uno qui e uno là, dove un tempo vivevano cento persone (...) Oggi siamo padroni di un pezzo di terra che non vale niente. Il nostro domani? Scendere in pianura, scendere in città a morire in quelle scatole che sembrano prigioni, oppure finire la nostra vita in ricovero” (Il mondo dei vinti, primo volume, p. LXXIV).
Pietro Balsamo è uno dei tanti che racconta le storie dell’emigrazione. “In Francia ne andavano tantissimi, a piedi. Non era un problema andare in Francia, era come andare in campagna qui nei dintorni di Margarita. Passavano il confine di notte, senza documenti, andavano a Nizza o a Mentone a fare i lavori di campagna. Poi, con la guerra del ’15, l’emigrazione è finita”.
Un altro, Balsamo Giovanni, così commenta la fine della Grande Guerra: “Eh, l’abbiamo vinta quella guerra, ma l’abbiamo perduta. La statistica dice che sono più i tubercolotici tornati dalla guerra del ’15-18 che i morti di quella guerra”. Come dirà Nuto Revelli: “La guerra dei poveri non finisce mai”.
Ferdinando Manera, classe 1892, racconta: “C’era chi si stufava della guerra e disertava. Tutti eravamo stufi, come rimbambiti. Gli ufficiali avevano le balle piene anche loro. Conosco un capitano che si è sparato, che si è ferito ad una mano per farla finita... C’era il soldato che si sparava una schioppettata in una gamba pur di andare lontano dal fronte (...) Qui nella Langa saranno stati cinquanta i disertori, e avevano ancora tutti dei soldi. Aiutavano la gente nei lavori di campagna, aiutavano le donne che avevano i mariti al fronte, le tenevano allegre... La gente dava da mangiare ai disertori, anche perché aveva paura”.
Molte sono le storie intrise di violenza. Revelli scrive che “il culto della violenza” imperversa anche tra le classi povere e i deboli sembrano un peso.
Letizia, classe 1901, racconta: “ Allora mia madre mi ha venduta tre anni, mi ha venduta per poche pagnotte di pane a gente che lavorava in Liguria: mia madre ha detto a quella gente che mi tenessero, che lei non aveva da mantenermi. Sun sta cunvinta e vanta che steisa cunvinta che l’avìa vendüme. I nuovi padroni avevano l’osteria, il commestibile, il mulino, i trasporti con i carri. Io accompagnavo un vecchio servitore e che era padre di sette bambini, camminavo giorno e notte, i tre cavalli erano alti come questo soffitto, io non arrivavo all’altezza della pancia dei cavalli, il servitore andava al tiro e io in mezzo alla cavezza. Andavamo fino a Garresio e anche più lontano, una vita grama e da mangiare poco o niente. Poi una brutta notte il servitore è rimasto ucciso da un’automobile, e Tuina [la padrona] a dare la colpa a me, mi ha picchiata come sempre”. (Il mondo dei vinti, secondo volume, p. 195).
Pino Luchese, classe 1885, racconta la sua storia: “A dieci dodici anni si andava già via da vaché [servitori di campagna], le famiglie erano tutte numerose (...) La mia famiglia aveva un po’ di bosco, di castagneto, e un po’ di prato, più o meno avevano tutti così, qui era tutta piccola proprietà (...) Si faceva come si poteva, patate, meliga, castagne, ci adattavamo alla miseria (...) La vita oggi è cambiata da così a così. Sì, è cambiata in meglio. Ma non per tutti. Per parte mia no, non c’è più il dovuto rispetto per il vecchio. Oggi c’è il benessere, troppa abbondanza, alla radio parlano di milioni e miliardi come niente. Che vada sempre bene come oggi, io auguro ogni bene ai giovani perché ho anche della famiglia, i nipoti. Ma il benessere bisogna anche saperlo curare, non sprecarlo”.
SECONDA PARTE
IL LINGUAGGIO E LA LOGICA DELLA POLITICA
Il linguaggio della politica è infarcito di metafore guerresche: “scendere in campo”, stare in “prima linea”, appartenere ad un “fronte”, “posizionarsi”, “militare” in uno o nell’altro “schieramento”, “conquistare” voti, seggi, parlamenti, consigli di amministrazione, banche ... e tanti altri bottini di guerra! Von Clausewitz diceva che la guerra è il prolungamento della politica, ma forse è più giusto pensare che sia la politica la prosecuzione della guerra.
La politica è tanto più forte, nella attuale comune concezione, quanto è più capace di prevalere e di imporre le proprie visioni e le conseguenti scelte sull’intero corpo sociale. Insomma, l’ideale politico è quello del dominio, attraverso la conquista degli apparati amministrativi e tecnici. Prevale un’idea del governo come comando, più che come garante e guida. Chi vince si adopera per “prendere tutto”, per superare le stesse divisioni e le autonomie dei diversi poteri costituzionali. Quando sentiamo ripetere in continuazione: “Il giorno dopo le elezioni dobbiamo sapere chi ha vinto e chi ha perso”, in realtà si vuole dire: “Chi vince non farà prigionieri”.
Non c’è più un luogo in cui le diverse parti politiche possano “parlamentare”, dialogare, mediare nel tentativo di trovare le soluzioni migliori per tutti. I tempi del confronto sono percepiti come una perdita di tempo. Le assemblee elettive sono ridotte a palazzetti dello sport popolate da variopinte tifoserie. In nome della tempestività e dell’efficienza sta avvenendo un processo di accentramento dei poteri in mano agli “esecutivi”. Peggio, al “capo”. Ciò è evidentissimo nei Comuni, dove il sindaco è diventato una figura monocratica: i consiglieri comunali non contano più nulla e gli assessori sono consulenti privati del principe.
Insomma, la politica appare sempre più aggressiva nel linguaggio e autoritaria nei comportamenti. É evidente che si tratta di un colossale, paradossale abbaglio: all’indebolimento dei sistemi democratici nazionali – dovuto a enormi mutazioni macroeconomiche, tecnologiche, geopolitiche – il ceto politico si illude di rispondere menomandone il funzionamento, riducendo la loro rappresentatività e quindi la loro autorevolezza. Siamo entrati un una spirale pericolosissima, il cui punto di caduta è già evidente nel riemergere di tendenze neonazionaliste feroci, razziste, xenofobe: “American First”, “Prima gli italiani”, “Primi i veneti” e via balcanizzando e aizzando le popolazioni le une contro le altre.
Il problema della deriva dispotica della politica, della riduzione del tasso di democrazia della politica (per richiamare un libro fondamentale di Marco Revelli, La politica perduta, Einaudi 2002) è più grave di quel che si pensa, perché molto probabilmente non dipende dalle scelte occasionali dei leader, dei loro partiti e degli elettori, ma più al fondo deriva da antiche concezioni filosofiche e da consolidati postulati antropologici. La bipolarizzazione della politica tra vinti e vincitori, maggioranza e opposizione, governanti e governati, dirigenti e diretti, elite e masse non sarebbe
altro che un riflesso del modo di pensare dualistico della cultura occidentale che scompone e riduce la complessità della realtà umana su due assi cartesiani: bene/ male, giusto/sbagliato, vero/falso, pubblico/privato, individuo/comunità, struttura/sovrastruttura, oggettivo/soggettivo, fatti/valori, razionale/emotivo, teoria/prassi, tattica/strategia, forza/debolezza, uomo/donna... e, in generale, amico/nemico.
Un modo di pensare dicotomico e antinomico che conduce alla disastrosa separazione e opposizione tra “noi” e “loro”, impedendo agli individui di riconoscersi in comunità concorrenti (nel senso di complementari, interconnesse, interdipendenti) e non ostili, non esclusive, ma plurime, non mono-identitarie. L’“uomo planetario” di cui parlava Ernesto Balducci ha una coscienza di sé come appartenente a tutte le specie viventi e alla famiglia umana, prima ancora che al proprio clan e alla propria famiglia.
Ci portiamo addosso un’idea antropologica individualista dell’essere umano come se fosse un “atomo di egoismo” che per legge di natura è portato a ricercare il proprio tornaconto personale. Siamo ancora dentro l’ideal-tipo umano del sistema delle relazioni sociali capitalistiche, liberistiche. Siamo ancora completamente immersi nella visione di Thomas Hobbes dell’ homo homini lupus, del bellum omnium contra omnes.
Insomma, la politica continua ad essere una pratica che mutua le sue regole dalla guerra e ne richiama la logica di violenza. In guerra, come nella politica, vince il più forte e chi vince ha la ragione dalla sua parte. Carl Schmitt ci ricorda cinicamente la differenza tra l’autorità e la verità: auctoritas, non veritas facit legem. Così come, ben prima di lui, Machiavelli ci ha spiegato l’esistenza di un doppia etica: quella del Principe, per cui vale solo il risultato delle sue azioni, e quella dell’individuo singolo che è invece sempre vincolato a rispettare i precetti di vita cristiani; compresa l’ubbidienza al Principe, suo Cesare – ovviamente!
Oggi, la riproposizione in politica di un linguaggio e di comportamenti sempre più aggressivi e dispotici potrebbero sembrare persino ridicoli a fronte della manifesta incapacità dei governi nell’affrontare i sempre più gravi problemi che l’umanità ha di fronte (pensiamo ai cambiamenti climatici, alle migrazioni bibliche, alla corsa agli armamenti, all’inurbamento nelle megalopoli del terzo mondo, alle disparità sociali, agli sprechi di risorse, all’uso manipolatorio delle tecnologie, alla finanza fuori controllo...). Piccoli aspiranti dittatori giocano con un mappamondo a forma di palloncino prossimo a scoppiare.
Mi si obietterà che è generalmente accettato che il metodo migliore per stabilire chi abbia il diritto di governare sia quello elettorale. Ma anche le consultazioni elettorali, svestite dalla retorica, sembrano una pantomima di una battaglia campale. Si comincia con un lungo lavorio di preparazione (alleanze, coalizioni ecc.) per rifornire le salmerie (finanziamenti e sottoscrizioni, acquisizioni di mezzi di comunicazione ecc.), per stabilire le regole dello scontro (leggi elettorali), per selezionare i guerrieri più prestanti ed infine, all’ora x, viene dato fuoco alle polveri.
Destinatari di questi giochi pirotecnici sono i cittadini-elettori che devono assistere allo spettacolo e sono invitati ad esprimere le loro simpatie tramite un voto. Si compie così la “trasformazione della popolazione in elettorato” – per usare una espressione di Pierre Rimbert (
Dietro le quinte del mercato elettorale su "Le Monde Diplomnatique" del maggio 2017). Il “principio di maggioranza” stabilisce chi è il più forte, legittima i vincitori e condanna le minoranze all’angolo. Chi vince è legittimato ad interpretare e applicare giustizia, ordine ed economia. Così è stabilito dalle regole della democrazia. Il Demos (popolo) esercita la sua sovranità attraverso una rappresentanza che è quindi legittimata ad esercitare il Kratòs (potere). Ma da tempo si capisce che qualche cosa non funziona. Vi è una crisi di credibilità nel sistema democratico che allontana gli elettori e che rende il “gioco parlamentare” alquanto inefficace. Le regole del gioco sono truccate, i partiti sono catturati dai loro finanziatori, i margini reali di scelta delle politiche sociali ed economiche sono stabiliti da poteri esterni alle assemblee elettive, le diversità tra le formazioni politiche che si contendono la conquista degli apparati di governo sono in realtà più di facciata che di sostanza. E potremmo continuare a lungo elencando gli elementi della crisi della politica.
Ma è giusto segnalare l’esistenza di un altro modo di intendere la politica come una azione permanente per abbassare il baricentro delle decisioni, disseminare il potere, creare orizzontalità nelle reti civiche solidali. Guido Viale ci invita a distinguere tra com-petizione e con-correnza. Concorrere vuol dire correre insieme, alla pari e tra uguali, dove gli uni e gli altri contribuiscono al raggiungimento di uno scopo comune, di un bene da condividere. “Correre ha nella sua radice il verbo greco reo, scorro. Panta rei, tutto scorre, diceva Eraclito (...) Concorrere significa portare il proprio contributo a un processo comune”. Mentre: “Competizione viene dal verbo latino peto: chiedere per avere, cercare di ottenere” (G.Viale, Slessico familiare. Parole usurate, prospettive aperte, edizioni interno 4, 2017). Un vecchio sindacalista,
Vittorio Foa, diceva: “La politica non è solo comando, è anche resistenza al comando (...) la politica non è, come in genere si pensa, solo governo della gente, politica è aiutare la gente a governarsi da sé” (V. Foa, Prefazione a
La Gerusalemme rimandata, Rosenberg & Sellier, 1985). La vicinanza con il pensiero di Danilo Dolci è evidente: si tratta di concepire l’idea stessa di potere un altro modo. Dolci scriveva che bisognava “Correggersi dalla losca confusione fra potere e dominio, occorre distinguere. Il potere nonviolento può strutturarsi senza diventare dominio”, se riesce ad agire mutualmente. Mentre la mentalità del dominatore fa parte fa parte di una “perversione di origine psicopatologica”. (D.Dolci, C
omunicare, legge della vita, La Nuova Italia, 1997).
Sezano, gennaio 2018
Paolo Cacciari, La sconfitta. Condannati a vincere? è scaricabile qui