eddyburg i testi apparsi sulla stampa alla data stessa della pubblicazione. A volte la bellezza o l'interesse del testo, se sono sfuggiti nell'immediato alla nostra attenzione li presentiamo lo stesso. Così facciamo perla commemorazione di Pietro Ingrao pronunciata da Alfredo Reichlin. Il manifesto, 1° ottobre 2015
Vorrei esprimere il più grande rammarico per la scomparsa di Pietro Ingrao. Per l’uomo che egli è stato, il grumo di pensieri e di affetti anche familiari che ha rappresentato, ma soprattutto per il segno così profondo e tuttora aperto e vivo che egli ha lasciato nella vita italiana.
«È morto il capo della sinistra comunista», così, con questo flash, la Tv dava domenica pomeriggio la notizia. In questa estrema semplificazione e nei commenti di questi giorni io ho visto qualcosa che fa riflettere.
Vuol dire che dopotutto questo paese ha una storia. Non è solo una confusa sommatoria di individui che si distinguono tra loro solo per i modi di vivere e di consumare. Ha una grande storia di idee, di lotte e di passioni, di comunità, e di persone, anche se questa storia noi non l’abbiamo saputa custodire.
Perché volevamo la luna? Oppure perché non l’abbiamo voluta abbastanza?
Non lo so. So però che adesso siamo giunti a un passaggio molto difficile e incerto della nostra storia. E che la gente è confusa e torna a porsi grandi domande e ad esprimere un bisogno insopprimibile di nuovi bisogni e significati della vita.
Si affaccia sulla scena una nuova umanità. E io credo sia questa la ragione per cui la morte di Pietro Ingrao (un uomo che taceva da quasi 20 anni) ha così colpito l’opinione pubblica.
Perché era di sinistra? Di questa antica parola si sono persi molti significati. E tuttora non quello fondamentale: la lotta per l’emancipazione del lavoro, il cammino di liberazione dell’uomo dalle paure e dai dogmi; la libertà dal bisogno e al tempo stesso la assunzione di responsabilità verso gli altri.
Forse mi sbaglio ma sento rinascere il bisogno di uomini che pensano e guardano lontano, che dicono la verità, che non sono dei rompiscatole, che certamente si rendono conto che il vecchio non può più ma vedono anche lucidamente che il nuovo non c’è ancora. E che perciò si interrogano su come riempire questo vuoto molto pericoloso, il lacerarsi del tessuto che tiene insieme popoli e Stati.
Pietro Ingrao non ci ha dato ovviamente la risposta a questi quesiti ma ci ha detto una cosa fondamentale: che la politica non si può ridurre a mercato o a lotte di potere tra le persone. Che ad essa bisogna dare una nuova dimensione, anche etica e culturale.
Questa è la lezione di Pietro Ingrao. Una lezione che resta, e anzi appare più che mai necessaria. E’ la riscoperta della politica non come mito e orizzonte irraggiungibile ma come consapevolezza della propria vita.
La più grande passione laica: la costruzione di una nuova soggettività, e quindi di uno sguardo più profondo attraverso il quale leggere le cose, la realtà. E quindi agire. Per assumere il compito che la vicenda storica reale pone davanti a noi.
Tutti parlano di Ingrao come l’uomo del dubbio. Lo farò anch’io. Ma prima di tutto Pietro, per me, è stato questo: la fusione tra politica e vita, la politica come storia in atto. Noi volevamo la luna? In effetti di parole troppo grosse come rivoluzione non si parlava mai. Si parlava molto però, e con enorme passione, della lotta per cambiare il tessuto profondo, anche culturale e morale, del paese. L’idea di un avvento delle classi lavoratrici al potere per una propria strada.
L’essenziale era partire dagli ultimi, come renderli protagonisti e come dar vita a nuove strutture sindacali, politiche, culturali, cooperative. Come non lasciare gli uomini soli di fronte alla potenza del denaro.
Questa fu la nostra grande passione. Immergersi nell’Italia vera, aderire a «tutte le pieghe della società». E questa passione io non l’ho vista in nessuno così assillante come Pietro Ingrao. Fu Pietro Ingrao, una mente libera, cocciuta e assetata di conoscenza. È tutto qui il famoso uomo del dubbio. Non era uno scettico: voleva capire. Non era un ingenuo, sapeva lottare e colpire (dirigeva dopotutto un grande giornale popolare che era un’arma formidabile) ma sapeva che per vincere bisogna prima di tutto capire quel tanto di verità che c’è sempre, in fondo, e in qualche misura, nel tuo avversario. Insomma, l’egemonia.
Ingrao l’uomo giusto.
Credo che questo spieghi il paradosso per cui colui che le dicerie consideravano il delfino di Togliatti è lo stesso che comincia a sentire l’insufficienza della grande lettura togliattiana dell’Italia come paese arretrato in cui il compito storico dei comunisti era risolvere le grandi «questioni» storiche: il Mezzogiorno, la questione agraria, il rapporto col Vaticano.
Questa lettura, nell’insieme, non riusciva più a dare conto delle trasformazioni che cominciavano a cambiare radicalmente il volto dell’Italia: il passaggio da paese agricolo a paese industriale, una biblica emigrazione che svuotava le campagne del Sud, l’avvento dei consumi di massa, la rivoluzione dei costumi.
Poi ci furono molte altre vicende e anche rotture. Le nostre strade si divaricarono. Fummo tutti travolti dalla contraddizione lacerante tra la potenza crescente dell’economia che si mondializzava e con i mercati senza regole che governano le ricchezze del mondo e il potere della politica che non riesce a darsi nuovi strumenti sovranazionali.
Ma questa è materia ormai degli storici. È la mondializzazione, il terreno nuovo su cui se fosse ancora tra noi Pietro Ingrao ci inviterebbe a scendere.
Una cosa è certa. Abbiamo bisogno di nuovi dubbi e di nuove analisi. Abbiamo bisogno di nuovi giovani come Ingrao. Sono le cronache delle tragedie disperate dei migranti le quali ci dicono che si sta formando una nuova umanità.
Abbraccio i figli, la sorella, i nipoti e i pronipoti del mio vecchio amico, che da stasera riposerà in pace nella sua Lenola.
Il manifesto, 29 settembre 2015
Il senso di inadeguatezza che provo nello scrivere queste righe deriva innanzitutto dal fatto che quando Pietro Ingrao decise che ormai il gorgo era altrove rispetto alle varie mutazioni dell’ormai ex Pci, nel 1993, io non avevo ancora compiuto un anno. Mentre mi affacciavo al mondo la sua vita politica prendeva l’ultima, importante, svolta. Per me, per la mia generazione, Pietro Ingrao è stato innanzitutto un uomo del Novecento - un secolo che, osservato dalla sua prospettiva, sembra essere affatto breve - e delle sue incommensurabili contraddizioni. Sarebbe un esercizio inutile ripercorrere, senza scadere in banalità o ridondanze, le sue scelte di vita e in particolare di vita politica: altri ne hanno ben più titolo. È forse più interessante trarre lezioni dall’enfasi del suo raccontare, dalla sua straordinaria capacità critica e autocritica.
Proprio calcando la mano sulle vicende più discusse del suo impegno nel Pci e in particolare sul suo voto favorevole all’espulsione del gruppo del Manifesto nel 1969, in molti ritengono di poter confinare il racconto della figura di Ingrao nella dimensione collocabile tra l’eclettismo analitico e l’etica del Partito, una dimensione ormai sepolta dalla caduta del Muro e dalla fine della Prima Repubblica. In questa ricostruzione le contraddizioni che egli stesso amava indagare e mettere in tensione, sottoponendole alla prova dell’intelletto umano e della sua capacità di illuminare gli angoli più oscuri della realtà, risultano irrimediabilmente spianate. Quella di Ingrao, dunque, sarebbe una figura dalla quale oggi è possibile trarre al limite qualche elemento di rilevanza storica, vagamente mitologica e agiografica, ma nessun insegnamento concreto, nessuno strumento da mettere nella cassetta degli attrezzi per smontare le brutture di questo mondo.
Mi sento di poter dissentire. Dal pensiero e dall’azione di Pietro Ingrao sto ancora imparando molte cose, e tante credo di poterne imparare. Innanzitutto su cos’è il dubbio, cosa significa provare a farne strumento potente in una società in cui esso è molto evocato e assai poco praticato. Era più difficile mettere in dubbio, interrogarsi e interrogare, dissentire, fare tutto ciò in forma produttiva, con una continua tensione verso la trasformazione della realtà, nell’epoca dello scontro tra ideologie contrapposte? Oppure oggi, nell’epoca del dominio incontrastato dell’ideologia unica del libero mercato? Per questo credo che questo primo insegnamento non sia affatto scontato.
Ancora, credo sia grazie a Ingrao che è diventato per me un po’ più chiaro cosa sia la luna. La luna, per alcuni, sarebbe la cifra della sconfitta di Ingrao: per me è piuttosto il segno di una battaglia che è ancora aperta. Lungi dall’essere un luogo situato in una posizione indefinita tra l’astrazione dalla realtà e l’eterna sconfitta, come qualche detrattore mascherato vuole far passare in alcuni coccodrilli, essa è piuttosto quella direzione verso la quale far avanzare ancora l’orizzonte delle aspettative. La luna è possibile? Sì, lottando dentro il continuo sviluppo della società, dentro le vecchie forme di dominio e le nuove possibilità di liberazione, sapendo che «in fondo, a ben vedere, certi guardiani, per forti e feroci che siano, sono tuttavia alla fine abbastanza stupidi», come disse Ingrao al XIX Congresso del PCI, nel 1990.
Ciò che ancora non credo di aver colto in tutta la sua complessità è il significato primo dell’indicazione di «rimanere nel gorgo». Quando mi imbattei per la prima volta nella formula retorica utilizzata da Ingrao all’XI Congresso in risposta a Longo sulla questione del centralismo democratico, la trovai di un tatto incomprensibile per la dialettica politica di oggi: quel volteggio di piuma, accolto da applausi scroscianti, era stato tuttavia capace di ferire come una lama d’acciaio. Difficile dunque astrarre da un periodo storico completamente diverso da quello di oggi: credo tuttavia che «rimanere nel gorgo» fosse un’indicazione di ricerca e di azione — e del rapporto indissolubile tra questi due aspetti — rivolta alla realtà, all’intricato rapporto tra masse e potere, impossibile da ridurre alla semplice collocazione dentro o fuori dal Partito (che pure era parte fondamentale di quell’indicazione).
Infine, l’insegnamento più prezioso, che più sento dentro, è quello di lasciarsi interrogare dalle rivolte. Non ho mai avuto la fortuna di incontrare Pietro Ingrao, ma ho incontrato spesso la misura concreta di queste sue parole nella costruzione delle organizzazioni studentesche, negli sguardi delle migliaia di studentesse e studenti in strada e in piazza, nell’impegno politico e nella necessità di cambiare il mondo. Il nostro cammino è ancora nel tempo delle rivolte che non è sopito.
Grazie di tutto Pietro Ingrao.
Il manifesto, 29 settembre 2015
Ingrao ha impersonato i nostri ideali. Tutti. Li ha analizzati, approfonditi, discussi. Ne ha misurato la concretezza, l’attualità, l’assunzione da parte delle masse, la resistenza alle offese che l’ideologia del capitale andava muovendo per distorcerne il senso e per sradicarli dalle coscienze. Non si è mai arreso ai dubbi che muoveva a se stesso ed aprendosi agli altri e mai attenuando o precludendo il suo pensare ed il suo fare di militante,di dirigente, di comunista.
Ha voluto sempre sentire, capire, scrutare, criticamente anche quanto a presupposti, tradizioni, metodi, prima di indicare, insegnare, condurre singoli e masse. E capire era per lui penetrare nella realtà dei rapporti umani, cominciando da quelli di produzione e cogliendone ogni prosecuzione, ogni effetto immediato e protratto a qualunque altezza e in quale dimensione si collocasse, qualsiasi suo profilo potesse rilevare sulla condizione umana nell’età del capitalismo
Del più alto valore è stata la concezione della democrazia che Ingrao ha definito e per cui ha combattuto. Sostenendo che «il voto non basta». E «non basta» infatti nei regimi che ne isolano la rilevanza e ne limitano il potere reale di incidere direttamente o indirettamente sui rapporti di potere economico, oltre che di quello sociale e di quello politico.
Tanto meno nei regimi che ne distorcono gli effetti deviandoli da quelli autenticamente rappresentativi. Né basta se non collegato ad altri istituti di partecipazione diretta alla dinamica politica. Sostenendo poi la coordinazione di tutte le assemblee elettive come condizione e strumento di una democrazia che pervada l’intera complessità istituzionale della aggregazione umana a forma stato. Sostenendo, infine, con grande lucidità ed eguale fermezza la necessità di opporsi alla decadenza di civiltà politica, culturale e morale che andava maturando in Italia con la criminosa prospettiva di un uomo solo al comando.
Il manifesto, 29 settembre 2015
La sinistra italiana che fu comunista e qualche volta lo resta si ritrova ormai soprattutto e qualche volta solo ai funerali. E nulla più dell’ultimo saluto a Pietro Ingrao, grande eretico e un uomo profondamente di partito, intellettuale e dirigente popolarissimo, il tutto per cento anni di lunga vita, può rimettere insieme per qualche ora le tante storie di chi nel Pci c’è stato, o l’ha votato o magari l’ha contestato da sinistra. E se la commozione per la morte di un leader che ha lasciato un buon ricordo anche in tutti i suoi avversari è tanta, lo è anche per la diffusa sensazione che questo saluto sia davvero l’ultimo. La morte del vecchissimo Ingrao cala il sipario su una storia già chiusa.
Al primo piano della camera dei deputati, la camera ardente è allestita nella sala che da qualche anno è intitolata ad Aldo Moro (e nel ’78 toccò ad Ingrao presidente dell’assemblea di Montecitorio avvertire l’aula del rapimento del segretario Dc, con un discorso che fu criticato perché troppo breve e senza dibattito, ma in quell’ora tragica il comunista avvertiva l’urgenza di far nascere un governo, quello Andreotti, che pure non gli piaceva). Il primo picchetto attorno alla bara scoperta è quello della Fiom, con Maurizio Landini. La grande famiglia Ingrao è sistemata in una fila di sedie sul lato sinistro, la sorella Giulia, le figlie Celeste, Bruna, Chiara e Renata, il figlio Guido, tanti nipoti. Alle pareti le corone di fiori della alte cariche istituzionali e una sola di partito, il Pd. Un ritratto di Ingrao staccato dalla «Corea» - la Galleria dei presidenti - è sistemato al centro tra una bandiera del Pci e una della pace.
La tentazione di accordare il pensiero di un grande leader con il proprio è comprensibile — si faceva anche nel Pci con le posizioni di Togliatti, «lo chiamavamo “tirare la coperta”, ha ricordato Ingrao nel suo Le cose impossibili -, alla camera ardente arriva Achille Occhetto preceduto da un fondo sull’Unità renziana in cui sostanzialmente racconta che Ingrao avrebbe aderito alla svolta della Bolognina se solo gliel’avesse spiegata lui. Renzi è a New York per l’assemblea Onu, il governo è presente con la ministra delle riforme Boschi, il viceministro Morando e il sottosegretario De Vincenti, che fa anche un turno di picchetto. Assenti in massa alla celebrazione ufficiale della camera del centesimo compleanno di Ingrao, i renziani stavolta fanno capolino: il capogruppo del Pd alla camera Rosato, il capogruppo al senato Zanda, il deputato Carbone, la presidente della prima commissione del senato Finocchiaro. Pochi gli esponenti dei partiti di centro e destra che vengono a rendere omaggio, il vice presidente forzista della camera Baldelli, l’ex Dc D’Onofrio, Rutelli, Mariotto Segni, Nando Adornato che ha trascorsi comunisti. In serata fa il suo ingresso il presidente del senato Piero Grasso. Ma è soprattutto un incontrarsi a sinistra, tra i tanti che sono stati ingraiani almeno un po’, o «minoranza di sinistra» come preferiva Ingrao. Come Occhetto, del resto, che va incontro e si fa riconoscere dall’ottantenne Luigi Schettini, che è stato una colonna dell’ingraismo meridionale. Un po’ alla volta arrivano Gavino Angius, Luigi Berlinguer, Gianni Cuperlo, Walter Tocci, Cesare Damiano, Vincenzo Vita, Cesare Salvi, Giorgio Ruffolo, Ugo Sposetti, Walter Veltroni. Invece entra unita la delegazione dell’Ars: Aldo Tortorella, Alfiero Grandi e Piero De Siena.
La cerimonia nel palazzo si presta poco alla partecipazione popolare, ma sono comunque centinaia i cittadini romani che sfilano davanti al cadavere di Ingrao. A tratti davanti all’ingresso principale della camera si forma una piccola fila. Molti portano un fiore, qualcuno alza veloce un pugno chiuso. Domani i funerali saranno in piazza Montecitorio, all’aperto. Come quelli di Pajetta, 25 anni fa.
Ma — ecco entrare in scena Bobbio — nell’intento di accordare la democrazia ai contesti storici, esistono limiti concettuali che devono essere tenuti fermi, a pena di confusione, fraintendimenti e, anche, d’inganni. Una definizione è necessaria, ma una definizione troppo pretenziosa non aprirebbe, bensì chiuderebbe il confronto. Ecco l’attaccamento di Bobbio alle “definizioni minime”. Sono minime le sue definizioni di socialismo, liberalismo, destra e sinistra, ad esempio. Ed è minima la definizione di democrazia; potremmo anzi dire minimissima: a) tutti devono poter partecipare, direttamente o indirettamente, alle decisioni collettive; b) le decisioni collettive devono essere prese a maggioranza. Oltre che minima, questa definizione è anche solo formale: si riferisce al “chi” e al “come”, ma non al “che cosa”. Riguarda soltanto — come si usa dire per analogia — le “regole del gioco”, ma non il risultato del gioco. In un testo del 1987 (ora in Teoria generale della politica , Einaudi), le due regole diventano sei, così: 1. tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età senza distinzione di razza, di religione, di condizione economica, di sesso, debbono godere dei diritti politici, cioè ciascuno deve godere del diritto di esprimere la propria opinione o di scegliere chi la esprime per lui; 2. il voto di tutti i cittadini deve avere peso uguale; 3. tutti coloro che godono dei diritti politici debbono essere liberi di poter votare secondo la propria opinione formatasi quanto più è possibile liberamente, cioè in una libera gara tra gruppi politici organizzati in concorrenza fra loro; 4. debbono essere liberi anche nel senso che debbono essere posti in condizione di scegliere tra soluzioni diverse, cioè tra partiti che abbiano programmi diversi e alternativi; 5. sia per le elezioni, sia per le decisioni collettive, deve valere la regola della maggioranza numerica, nel senso che si consideri eletto il candidato, o si consideri valida la decisione, che ha ottenuto il maggior numero di voti; 6. nessuna decisione presa a maggioranza deve limitare i diritti della minoranza, particolarmente il diritto di diventare maggioranza a parità di condizioni. Ripercorrendo questi sei punti, ci accorgiamo che la definizione minima e formale resta ferma, ma si introducono precisazioni, per così dire, di ambiente.
In sintesi, può dirsi che, mentre la posizione di Bobbio si giustifica sul piano della teoria; la posizione di Ingrao si radica nella realtà politica e sociale del suo tempo. Le riflessioni istituzionali di Ingrao prendono origine, sempre, da analisi realistiche. A differenza di quel che sarebbe successo in tempi a noi più vicini, le “regole del gioco” non sono da lui considerate in astratto, ma sempre in relazione ai contenuti della politica, la politica di emancipazione delle classi subalterne. L’aspetto sostanziale è sempre presente. Si tratta di promuovere realizzazioni e contrastare tendenze, avendo come obiettivo i principi di libertà, di giustizia e di emancipazione sociale scritti nella Costituzione, in particolare nell’art. 3, secondo comma, richiamato in ogni possibile occasione. Nessuna riforma delle regole è indifferente rispetto alla sostanza — per rimanere nell’immagine — del gioco che viene giocato.
Al di là delle questioni di parole, ciò che si può dire conclusivamente dal carteggio da cui ho preso spunto, è, forse, che il contrasto tra Bobbio e Ingrao è più apparente che reale. Questa conclusione non è dettata dall’amore per il compromesso a ogni costo. Ciò di cui parla Bobbio ha bisogno di ciò di cui parla Ingrao. Il loro discorso si svolge su piani diversi che non si scontrano, ma si completano. Bobbio parla della democrazia rispetto alle sue leggi di cornice entro la quale la lotta politica deve contenersi, Ingrao della democrazia come lotta politica; l’uno della democrazia come forma che presuppone una sostanza, l’altro della sostanza che implica una forma. Bobbio parla delle condizioni della democrazia, ma le possibilità non bastano se non ci sono forze che sappiano che farsi della democrazia, che traggano la democrazia dal regno delle possibilità al regno della realtà.
Se queste forze mancano, le forme, da sole, non sono capaci di suscitarle e la democrazia è destinata a essere solo il titolo d’un capitolo nei libri di diritto costituzionale. Del resto, che la forma non sia sufficiente; che essa sia destinata a diventare un guscio vuoto e a risultare una formula mendace, occultatrice di realtà non o anti- democratiche, alla fine ripudiata dai cittadini, è Bobbio stesso a riconoscerlo: «Io non posso separare la democrazia formale dalla democrazia sostanziale. Ho il presentimento che dove c’è soltanto la prima, un regime democratico non è destinato a durare » (Lettera a Guido Fassò del 14 febbraio 1972, citata in L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia ,
Laterza. Una conclusione perfettamente conforme alle preoccupazioni di Ingrao che credo giusto rammentare nel momento in cui di lui festeggiamo riconoscenti il contributo alla vita della Repubblica, ricordando cose dette più di trent’anni fa, ma valide non solo per quei tempi.
(Questo testo è un estratto del discorso pronunciato da Gustavo Zagrebelsky il 31 marzo 2015 in occasione dei 100 anni di Pietro Ingrao su invito della Camera dei deputati)
Il manifesto, 29 settembre 2015
Quando chi viene a mancare ha più di cent’anni all’evento si è preparati, e dunque il dolore dovrebbe essere minore. E invece non è così, perché proprio la loro lunga vita ci ha finito per abituare all’idea irreale che si tratti di esseri umani dotati di eternità. Pietro Ingrao, per di più, è stato così larga parte della vita di tantissimi di noi che è difficile persino pensare alla sua morte senza pensare alla propria. (E sono certa non solo per quelli di noi già quasi altrettanto vecchi).
Così, quando domenica mi ha raggiunto la telefonata di Chiara e io ero a sedere al sole in un caffè delle Ramblas a Barcellona dove, essendo di passaggio per la Spagna, mi ero fermata per aspettare i risultati elettorali della Catalogna, il suo tristissimo annuncio è stato quasi una fucilata. Perché prima di ogni altra cosa è stato come mi venisse asportato un pezzo del mio stesso corpo.
Così, io credo, è stato per tutta la larghissima tribù chiamata «gli ingraiani», qualcosa che non è stata mai una corrente nel senso stretto della parola perché la nostra introiettata ortodossia non ci avrebbe neppure consentito di immaginare tale la nostra rete.
E però siamo stati forse di più: un modo di intendere la politica, e dunque la vita, al di là della specificità delle analisi e dei programmi che sostenevamo. Sicché sin dall’inizio degli anni ’60 e fino ad oggi, gli ingraiani sono in qualche modo distinguibili, sebbene le loro scelte individuali siano andate col tempo divergendo, dentro e fuori del Manifesto; e poi dentro e fuori le successive labili reincarnazioni del Pci. Oggi poi - dentro una sinistra che fatica a riconoscere i propri stessi connotati e nessuno si sente a casa propria dove sta perché vorrebbe la sua stessa casa diversa da come è – questo tratto storico dell’ingraismo direi che pesa in ciascuno anche di più.
Vorrei che non si perdesse, perché al di là delle scelte diverse cui ha condotto ciascuno di noi, è un patrimonio prezioso e utile anche oggi.
Di quale sia stato il nucleo forte del pensiero di Pietro Ingrao, ho già parlato, io e altri, tante volte, e ancora nell’inserto che il manifesto ha dedicato ai suoi cent’anni, riproposto on line proprio ieri. Vorrei che quelle sue analisi e linee programmatiche che purtroppo il Pci non fece proprie, non venisse annegato, come è accaduto per Enrico Berlinguer, nella retorica riduttiva e stravolgente dell’ “era tanto buono, bravo onesto, ci dà coraggio e passione”.
Oggi, comunque, di Pietro vorrei affidare alla memoria soprattutto due cose, che poi sono in realtà una sola: l’ascolto degli altri e l’idea della politica come, innanzitutto, partecipazione e perciò soggettività delle masse.
Quando incontrava qualcuno, o anche nelle riunioni e persino nel dialogo con un compagno ai margini di un comizio, era sempre lui che per primo chiedeva: “ma tu cosa pensi?” ;“come giudichi quel fatto?”; “cosa proporresti?”. Non era un vezzo, voleva proprio saperlo e poi stava a sentire. Perché il suo modo di essere dirigente stava nel cercare di interpretare il sentire dei compagni. Anche di portare le loro idee a un più alto livello di analisi e proposta, certamente, ma sempre a partire da loro, per arrivare, assieme a loro, e non da solo, a una conclusione, a una scelta.
Per questo quel che per lui contava, quello che a suo parere qualificava la democrazia e la qualità di un partito, era la partecipazione, la capacità di stimolare il protagonismo, la soggettività delle masse. Senza di cui non poteva esserci né teoria né prassi significativa.
Non voglio esplicitare paragoni con l’oggi, sarebbe impietoso.
Rossana, rispondendo ad un’intervista di La Repubblica, ieri ha detto di Pietro, anche della sua reticenza nell’assumere posizioni più nette, come fu al momento in cui noi, pur “ingraiani doc”, operammo la rottura della pubblicazione della rivista Il manifesto. E poi ricorda anche Arco di Trento, quando quel 30 per cento del Pci che rifiutava lo scioglimento del partito proposto dalla maggioranza occhettiana, pur riconoscendosi nella relazione che a nome di tutti aveva fatto Lucio Magri, si divise sulle scelte da compiere: fra chi decise di uscire e dette vita a Rifondazione, e chi - come Pietro - decise invece che sarebbe comunque restato nell’organizzazione, il Pds, che, già malaticcio, veniva alla luce. “Per stare nel gorgo”, come disse con una frase che è rimasta scolpita nella testa di tutti noi. Certo, è vero: se Pietro si fosse unito alla costruzione di un nuovo soggetto politico sarebbe stato diverso, molto diverso. La rifondazione comunista più ricca e davvero rifondativa, per via del suo personale apporto ma anche di quella larga area di quadri ingraiani che costituiva ancora un pezzo vivo del Pci e sarebbero stati preziosi alla nuova impresa; e invece restarono invischiati e di malavoglia nel lento deperire degli organismi che seguirono: il Pds, poi i Ds, infine, ma ormai solo alcuni, nel Pd.
Pietro però capì subito che stare in quel contesto non era più “stare nel gorgo”, perché il gorgo, sebbene assai indebolito, scorreva ormai altrove. E infatti ruppe poco dopo e si impegnò nei movimenti che generazioni più giovani avevano avviato. E da questi fu ascoltato.
La storia come sappiamo non si fa con i se. Ma riflettere su quel passaggio storico, per ragionare sugli errori compiuti, da chi e perché e quali, sarebbe forse utile a chi, come tutti noi, sta cercando di costruire un nuovo soggetto politico.
Per farlo nascere bene mi sembra comunque essenziale portarsi dietro l’insegnamento fondamentale di Pietro, che non è inficiato dal non avere, qualche volta, tentato abbastanza : che non c’è partito che valga la pena di fare se non si attrezza, da subito, a diventare una forza in grado di sollecitare la soggettività popolare, perché questa è più preziosa di ogni ortodossia.
Ma vorrei che di Pietro ci portassimo dietro anche l’ottimismo della volontà.
Era lui che amava citare la famosa parabola di Brecht sul sarto di Ulm (da cui Lucio Magri trasse poi il titolo del suo libro sul comunismo italiano). Come ricorderete, il sarto insisteva che l’uomo avrebbe potuto volare, finché, stufo, il vescovo principe di Ulm gli disse “prova” e questi si gettò dal campanile con le fragili ali che si era costruito. E naturalmente si sfracellò. Brecht però si chiede: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Perché alla fine l’uomo ha volato. E’ la parabola del comunismo: fino ad ora chi ha provato a realizzarlo su terra si è sfracellato, ma alla fine, come è accaduto con l’aviazione, ci riusciremo.
E’ questo l’impegno che nel momento della scomparsa del nostro prezioso compagno Pietro Ingrao vorrei prendessimo: di provarci.
La Repubblica, 28 settembre 2015
È STATO un alto testimone del Novecento, Pietro Ingrao, e al tempo stesso della storia del comunismo italiano nelle speranze e nei drammi di un secolo. Un alto testimone, anche, di contraddizioni brucianti. In Volevo la luna ha raccontato benissimo una parte del suo percorso.
Dagli anni giovanili, dall’adesione all’antifascismo e al Pci sino ai mesi terribili del rapimento di Moro, che visse come primo presidente comunista della Camera. Un percorso scandito dalla Resistenza, dalle speranze dell’immediato dopoguerra e poi dalla sconfitta elettorale delle sinistre nel 1948. Sino alla presa d’atto di una sconfitta ancor più grande, ed era il 1956: con le illusioni alimentate dal XX Congresso del partito comunista sovietico, prima, e poi con il trauma dell’invasione dell’Ungheria. L’ «indimenticabile 1956», fu lui a coniare quella definizione: una citazione di un vecchio film sovietico, ha ricordato (quasi una “richiesta d’aiuto” alla sua passione per il cinema nel momento più terribile). Iniziò da lì il vero dramma del comunismo italiano, iniziò nel momento in cui quella “rivelazione” non fu compresa per quel che era. Per le menzogne che lacerava, per le tragedie su cui gettava fasci di luce cruda. Ingrao l’ha vissuto per intero, quel dramma. In qualche modo ne è stato prigioniero, forse, ma ha vissuto la contraddizione con quel rigore intellettuale, quella coerenza morale, quell’ansia intellettuale che sono il suo segno distintivo più forte.
Iniziava a trasformarsi profondamente l’Italia, in quel declinare degli anni Cinquanta, e Ingrao fu fra i primi a dire all’interno del Pci che «l’arretratezza italiana» su cui il partito ancora insisteva stava diventando un ricordo del passato. Ed era quindi necessario misurarsi con la nuova «modernità» del Paese (con il neocapitalismo, per usare i termini di allora), con i nuovi squilibri che induceva ma anche con le sue potenzialità. Scompariva davvero la vecchia Italia, allora. Iniziava la fuga dalle campagne di quei braccianti e di quei mezzadri che avevano largamente aderito al “partito nuovo” togliattiano, la stessa classe operaia si trasformava profondamente ed erano messi in discussione gli orizzonti culturali su cui si era formata larga parte della classe dirigente della Repubblica.
La grande eresia di Pietro Ingrao fu quella di dire che non si poteva comprendere e trasformare quel mondo con il centralismo (anti)democratico vigente nel partito. Fu il tema che portò sino alla tribuna dell’XI congresso del Pci, nel 1966, nonostante i durissimi attacchi che aveva ricevuto all’interno del gruppo dirigente e sapendo bene che avrebbe pagato di persona. Fu sconfitto, e quella sconfitta lo segnò in profondità. Se non si comprende cos’ha significato essere “comunisti italiani” non si comprende neppure perché accettò poco più tardi l’espulsione del gruppo, cresciuto alla sua scuola, che aveva fondato il manifesto (Natoli, Rossanda, Pintor, Magri, Castellina e altri ancora). Un grande errore, ha riconosciuto poi, ma del tutto inscritto in una più lunga storia.
Ha risposto a quei nodi con una riflessione mai abbandonata sul rapporto fra socialismo e democrazia: sul rapporto fra “masse e potere”, per citare il titolo di un suo libro, sulle forme di democrazia partecipata e su altro ancora. Restando fedele al suo essere “comunista italiano” anche quando il comunismo internazionale e il Pci scomparvero insieme. Figlio del secolo, di nuovo: di quel secolo. Con quel rigore intellettuale e con quelle passioni intellettuali, dal cinema alla poesia, che lo hanno accompagnato fino all’ultimo.
Ricordo ancora nitidamente la prima volta che celebrai un compleanno di Pietro Ingrao: era il 1965, lui compiva cinquant’anni (un’età che mi parve avanzatissima) ed era mezzo secolo fa. Con Sandro Curzi, ambedue non da molto usciti dalla irrequieta Federazione Giovanile, gli regalammo il suo primo paio di mocassini, con una dedica che lo sollecitava ad essere meno prudente: «Cammina coi tempi, cammina con noi».
Lo ricordo bene perché eravamo in piena battaglia «ingraiana», proprio alla vigilia del fatidico XI congresso del Pci, quando i compagni che si riconoscevano nelle sue idee (non una corrente, per carità), uscirono un po’ più allo scoperto per sostenerle; e lui stesso operò quella che fu definita una inedita rottura. Disse con chiarezza nel suo intervento congressuale: «Sarei insincero se tacessi che il compagno Longo non mi ha persuaso rifiutando di introdurre nella vita del nostro partito il nuovo costume di una pubblicità del dibattito, cosicché siano chiari a tutti i compagni non solo gli orientamenti e le decisioni che prevalgono e tutti impegnano ma anche il processo dialettico di cui sono il risultato».
Fu, come è noto, applauditissimo, ma tuttavia successivamente emarginato dal vertice del partito e «relegato» (allora Botteghe Oscure contava più di Montecitorio) alla presidenza del gruppo parlamentare e poi della Camera dei Deputati. E noi dispersi in ruoli minori, fuori dal palazzo.
Lo ricordo bene perché in fondo fu allora che cominciò la storia de «il manifesto», che pure vide la luce solo quattro anni più tardi. Senza Pietro, che come sempre nella sua vita ha fatto prevalere sulle sue scelte politiche la preoccupazione di non abbandonare il «gorgo», quello entro cui si addensava il popolo comunista. Non per paura, sia chiaro, ma per via di quello che era il modo di sentire profondo di tutto il partito, il timore di sacrificare l’opinione collettiva alla propria individuale.
Noi del manifesto alla fine lo facemmo, ma anche perché le nostre responsabilità nel Pci erano infinitamente minori e dunque il nostro gesto non avrebbe potuto certo avere le stesse conseguenze di quello di Ingrao. Ma non crediate che sia stato facile neppure per noi, fu anzi una scelta molto molto sofferta e talvolta è capitato anche decenni dopo di interrogarsi se non avremmo dovuto restare a combattere dentro anziché metterci nelle condizioni di essere messi fuori.
(Per favore non reagite, voi giovani, dicendo: ma che tempi, non si poteva neppure dichiarare un dissenso! È vero, non era bello. E però le opinioni nonostante tutto pesavano più di adesso, la nostra radiazione fu un trauma per tutto il partito. Ora si può dire di tutto, ma perché non conta più niente).
Oggi Pietro Ingrao di anni ne compie 100, e noi de il manifesto, se contiamo anche l’incubazione, 50.
Col tempo si è forse smarrito il senso di cosa sia stato l’ingraismo, e anzi mi chiedo se tra i giovani della redazione del giornale c’è ancora qualcuno che sa di cosa si sia trattato. Non fu, badate, solo una battaglia per la democratizzazione del partito, il famoso diritto al dissenso. C’era molto di più: si è trattato del tentativo più serio del pensiero comunista di fare i conti con il capitalismo nei suoi punti più alti, di individuare le nuove, moderne contraddizioni e su queste — più che su quelle antiche dell’Italietta rurale — far leva, non per «inseguire mille rivoli rivendicativi» (per usare l’espressione di allora), ma per costruire un vero modello di sviluppo alternativo.
Si trattava della rottura con l’idea di uno sviluppo lineare, col mito della «modernità acritica», che fu alla base della cultura neocapitalista (e craxiana) di quegli anni. E, ancora, il tentativo di capire che la crisi italiana non rappresentava una anomalia (un vizio tutt’ora diffuso), ma poteva essere capita solo nel nesso con il capitalismo avanzato quale si stava sviluppando nel mondo.
Dal giudizio sulla fase discendevano due diverse linee strategiche e per questo il confronto non fu solo teorico, ma strettamente intrecciato con il che fare politico: se bisognava agire per rendere l’Italia «normale», e cioè allinearla alla modernità europea, o invece incidere su quel nesso anche per risolvere i vecchi problemi e preparare un’alternativa anche alla «normalità» capitalistica.
La destra del Pci ovviamente si oppose a questa prospettiva. Quando il Pci, dopo la Bolognina, fu avviato allo scioglimento, proprio su questa necessaria innovazione costruimmo — questa volta ufficialmente assieme a Pietro Ingrao — il senso della famosa «Mozione 2» che alla liquidazione del partito si opponeva. Non in nome della conservazione ma, al contrario, del cambiamento, che non faceva però venir meno le ragioni dell’alternativa al sistema ma anzi le rafforzava. Le vecchie categorie non bastavano più e Ingrao è sempre stato attento a non ripetere litanie ma a individuare ogni volta le potenzialità nuove offerte dallo sviluppo storico, i soggetti antagonisti, a capire come si formano e si aggregano per diventare classe dirigente in grado di prospettare una società alternativa. Oggi e qui.
Come sapete, perdemmo.
Su quel nostro dibattito degli anni 60 — che trovò poi una sistemazione nel 1970 proprio nelle «Tesi per il comunismo» del Manifesto (che non dissero che il comunismo era maturo nel senso di imminente, come qualcuno equivocò — e ironizzò -, ma che non sarebbe stato più possibile dare soluzione ai problemi posti dalla crisi nel quadro del sistema capitalistico sia pure ammodernato).
Questo fu l’XI congresso del Pci, quello spartiacque delle cui emozioni, passioni, sofferenze Pietro Ingrao ha dato eco nel suo libro «Volevo la luna».
Nell’anniversario del suo centesimo anno di vita avrei forse dovuto parlare di Pietro Ingrao ricordandone di più i suoi aspetti umani, la sua personalità, il modo come ha dipanato la sua esistenza, e non invece andar subito dritta al nocciolo politico della sua vita di comunista.
L’ho fatto per due ragioni: perché troppo spesso ormai nel celebrare gli anniversari si tende a ridurre tutto ai tratti del carattere di chi si ricorda, alle sue qualità morali, e sempre meno a riflettere sulle loro scelte politiche. E poi perché Pietro in particolare, invecchiando, — e forse anche per via di come sono andate le cose nella sinistra italiana — ha finito per ricordarsi sottotono, persino con qualche vezzo civettuolo, più come poeta che come dirigente politico. Che è invece stato e di primo piano.
Poeta non ha in realtà mai smesso di essere, basti pensare al suo modo di esprimersi, mai politichese, sempre attento a illuminare l’immaginazione e non a ripetere catechismi. Vi ricordate la sua sorprendente uscita nell’intervento al primo dei due congressi di scioglimento del Pci, il XIX nel 1990, quando se ne uscì col suo clamoroso «viventi non umani», per chiedere attenzione alla natura e alle sue speci? Non era forse una poesia, che come tale suonò, del resto, in quel grigio e mesto dibattito di fine partita?
Pietro non usava il politichese perché ascoltava. Sembra banale, ma quasi nessuno ascolta. E siccome ascoltava è stato anche ascoltato da generazioni assai più giovani, quelle che dei nostri dibattiti all’XI congresso del Pci, e del Pci stesso, non sapevano niente. Penso al Forum sociale europeo di Firenze nel 2002, per esempio, dove il suo discorso sulla pace conquistò ragazzi che non sapevano neppure chi fosse.
Ascoltava perché della democrazia ha sempre sottolineato un elemento ormai in disuso, soprattutto il protagonismo delle masse, la partecipazione.
Può sembrare curioso, ma molto del pensiero politico di Ingrao è stato segnato dalla sua adolescenziale formazione cinematografica. Nei molti anni in cui per via del mio incarico nella promozione del cinema italiano ho avuto con i big di Hollywood molti incontri e spesso la discussione scivolava sull’Italia e sul come era stato possibile che ci fossero tanti comunisti. Un po’ scherzando e un po’ sul serio ho sempre finito per ricorrere ad un paradosso: «Badate — dicevo — il comunismo italiano è così speciale perché oltreché a Mosca ha le sue radici qui a Hollywood, che dunque ne porta le responsabilità». E poi raccontavo loro la storia, tante volte sentita da Pietro, della formazione di un pezzo non secondario di quello che poi diventò il gruppo dirigente del Pci nel dopoguerra: Mario Alicata, lui stesso, e anche altri che pur fuori dai vertici sul partito avevano avuto una fortissima influenza, Visconti, Lizzani, De Santis. Tutti allievi del Centro sperimentale di cinematografia.
Raccontavo loro, dunque, di Ingrao che mi aveva detto di come la sua generazione, già a metà degli anni ’30, avesse avuto il suo ceppo proprio nel cinema. E, segnatamente, nel grande cinema — e nella letteratura — americani del New Deal, tortuosamente conosciuti proprio al Centro grazie a una fortuita circostanza: l’arrivo, come insegnante, di un singolare personaggio, Ahrnheim, ebreo tedesco sfuggito al nazismo e chissà come approdato proprio lì, prima che le leggi razziali fossero introdotte anche in Italia.
«Proprio quelle pellicole — mi disse Pietro in occasione di un’intervista (per il settimanale Pace e guerra che allora dirigevo) su una importante mostra allestita a Milano sugli anni ’30 — mostravano cariche di socialità, in cui c’era la classe operaia, la solidarietà sociale, la lotta. Proprio grazie a quei film, che erano mezzi di comunicazione fra i movimenti sociali e l’americano qualunque, così diversi dalla cultura antifascista italiana degli anni ’20 — elitaria, ermetica — che avevamo amato, ma non ci aveva aiutato; proprio quei film che ci aprivano una finestra sull’intellettuale impegnato, noi ci siamo politicizzati. Sono stati il primo passo verso la politica».
Questo nesso fra cultura e politica è stato un tratto che ha distinto il comunismo italiano. E Pietro Ingrao ne è stato uno dei più significativi interpreti.
Grazie e tanti auguri, Pietro.
L’appello è presto fatto: ci sono tutti ma proprio tutti a festeggiare i cent’anni di Pietro Ingrao. Come una riunione di famiglia, certo. Ma la famiglia è grande, allargata, cent’anni di storia d’Italia. «Lui non ha potuto portare il carico dei suoi anni qui con noi», spiega Mario Tronti.
Nei banchi, Sua Maestà il Caso scompone e ricompone la storia del Pci-Pds-Ds-Pd in nuove curiose sequenze: Occhetto l’uomo della Svolta accanto a Luciana Castellina fondatrice del manifesto, Aldo Tortorella il comunista democratico padre dell’associazione per il Rinnovamento della sinistra accanto all’ex premier Massimo D’Alema che due settimane fa ha proposto una nuova omonima associazione. L’ex presidente del senato Mancino accanto ai colleghi ex della camera Violante e Bertinotti, a seguire Gennaro Migliore, l’ultimo (per ora) a guidare un frammento di sinistra in una simil scissione, onore alle vecchie abitudini; l’ex governatore Bassolino con la pasionaria antirenziana Pollastrini, a sua volta accanto al pacato capogruppo Pd Speranza; il migliore dei miglioristi Macaluso con l’ingraiano Tocci, l’asorrosiano Asor Rosa e il civatiano Corradino Mineo. La ditta Bersani&Epifani con la prodiana Zampa. Il leader della Fiom Landini, inseguito dalle telecamere, accanto a Mussi, alla giovane eurorinfondarola Eleonora Forenza e al dc Gerardo Bianco. Sparsi per la sala il sindaco di Roma Marino, Anna Finocchiaro, Ugo Sposetti, parlamentari di Sel, Valentino Parlato, tanti giornalisti anche di giornali chiusi (come l’Unità che Ingrao diresse dal ’47 al ’57, riaprirà il 25 aprile). Menzione speciale per tutte le minoranze Pd, Fassina, Cuperlo, D’Attorre, Damiano, Civati, reduci dal ring della direzione, la sera prima: iniziata con un commosso applauso a Ingrao, l’uomo del dissenso, finita con porte sbattute e un voto bulgaro.
E la lezione del ’professorone’ Gustavo Zagrebelsky sul carteggio Ingrao-Bobbio, divisi su tutto ma uniti sul timore di una democrazia che non partecipa e si trasforma «in un elenco di elettori». Fino allo scritto di Rossana Rossanda letto da Maria Luisa Boccia (femminista, ingraiana e curatrice con Alberto Olivetti del nuovo Coniugare al presente), che torna sulla scena dell’intervento dell’XIesimo congresso, «accolto con un’ovazione finché però la platea non si accorse dell’accoglienza glaciale da parte della presidenza».
. Inseriamo la nota editoriale e il contributo di Luciana Castellina,
Un secolo in una vita. Il cinema, la letteratura, le istituzioni, la democrazia. Quando una nuova generazione di giovani comunisti porta nel Pci l’assillo di un confronto con le trasformazioni del capitalismo italiano
Ricordo ancora nitidamente la prima volta che celebrai un compleanno di Pietro Ingrao: era il 1965, lui compiva cinquant’anni (un’età che mi parve avanzatissima) ed era mezzo secolo fa. Con Sandro Curzi, ambedue non da molto usciti dalla irrequieta Federazione Giovanile, gli regalammo il suo primo paio di mocassini, con una dedica che lo sollecitava ad essere meno prudente: «Cammina coi tempi, cammina con noi».
Lo ricordo bene perché eravamo in piena battaglia «ingraiana», proprio alla vigilia del fatidico XI congresso del Pci, quando i compagni che si riconoscevano nelle sue idee (non una corrente, per carità), uscirono un po’ più allo scoperto per sostenerle; e lui stesso operò quella che fu definita una inedita rottura. Disse con chiarezza nel suo intervento congressuale: «Sarei insincero se tacessi che il compagno Longo non mi ha persuaso rifiutando di introdurre nella vita del nostro partito il nuovo costume di una pubblicità del dibattito, cosicché siano chiari a tutti i compagni non solo gli orientamenti e le decisioni che prevalgono e tutti impegnano ma anche il processo dialettico di cui sono il risultato».
Fu, come è noto, applauditissimo, ma tuttavia successivamente emarginato dal vertice del partito e «relegato» (allora Botteghe Oscure contava più di Montecitorio) alla presidenza del gruppo parlamentare e poi della Camera dei Deputati. E noi dispersi in ruoli minori, fuori dal palazzo.
Lo ricordo bene perché in fondo fu allora che cominciò la storia de «il manifesto», che pure vide la luce solo quattro anni più tardi. Senza Pietro, che come sempre nella sua vita ha fatto prevalere sulle sue scelte politiche la preoccupazione di non abbandonare il «gorgo», quello entro cui si addensava il popolo comunista. Non per paura, sia chiaro, ma per via di quello che era il modo di sentire profondo di tutto il partito, il timore di sacrificare l’opinione collettiva alla propria individuale.
Noi del manifesto alla fine lo facemmo, ma anche perché le nostre responsabilità nel Pci erano infinitamente minori e dunque il nostro gesto non avrebbe potuto certo avere le stesse conseguenze di quello di Ingrao. Ma non crediate che sia stato facile neppure per noi, fu anzi una scelta molto molto sofferta e talvolta è capitato anche decenni dopo di interrogarsi se non avremmo dovuto restare a combattere dentro anziché metterci nelle condizioni di essere messi fuori.
(Per favore non reagite, voi giovani, dicendo: ma che tempi, non si poteva neppure dichiarare un dissenso! È vero, non era bello. E però le opinioni nonostante tutto pesavano più di adesso, la nostra radiazione fu un trauma per tutto il partito. Ora si può dire di tutto, ma perché non conta più niente).
Oggi Pietro Ingrao di anni ne compie 100, e noi de il manifesto, se contiamo anche l’incubazione, 50.
Col tempo si è forse smarrito il senso di cosa sia stato l’ingraismo, e anzi mi chiedo se tra i giovani della redazione del giornale c’è ancora qualcuno che sa di cosa si sia trattato. Non fu, badate, solo una battaglia per la democratizzazione del partito, il famoso diritto al dissenso. C’era molto di più: si è trattato del tentativo più serio del pensiero comunista di fare i conti con il capitalismo nei suoi punti più alti, di individuare le nuove, moderne contraddizioni e su queste — più che su quelle antiche dell’Italietta rurale — far leva, non per «inseguire mille rivoli rivendicativi» (per usare l’espressione di allora), ma per costruire un vero modello di sviluppo alternativo.
Si trattava della rottura con l’idea di uno sviluppo lineare, col mito della «modernità acritica», che fu alla base della cultura neocapitalista (e craxiana) di quegli anni. E, ancora, il tentativo di capire che la crisi italiana non rappresentava una anomalia (un vizio tutt’ora diffuso), ma poteva essere capita solo nel nesso con il capitalismo avanzato quale si stava sviluppando nel mondo.
Dal giudizio sulla fase discendevano due diverse linee strategiche e per questo il confronto non fu solo teorico, ma strettamente intrecciato con il che fare politico: se bisognava agire per rendere l’Italia «normale», e cioè allinearla alla modernità europea, o invece incidere su quel nesso anche per risolvere i vecchi problemi e preparare un’alternativa anche alla «normalità» capitalistica.
La destra del Pci ovviamente si oppose a questa prospettiva. Quando il Pci, dopo la Bolognina, fu avviato allo scioglimento, proprio su questa necessaria innovazione costruimmo — questa volta ufficialmente assieme a Pietro Ingrao — il senso della famosa «Mozione 2» che alla liquidazione del partito si opponeva. Non in nome della conservazione ma, al contrario, del cambiamento, che non faceva però venir meno le ragioni dell’alternativa al sistema ma anzi le rafforzava. Le vecchie categorie non bastavano più e Ingrao è sempre stato attento a non ripetere litanie ma a individuare ogni volta le potenzialità nuove offerte dallo sviluppo storico, i soggetti antagonisti, a capire come si formano e si aggregano per diventare classe dirigente in grado di prospettare una società alternativa. Oggi e qui.
Come sapete, perdemmo.
Su quel nostro dibattito degli anni 60 — che trovò poi una sistemazione nel 1970 proprio nelle «Tesi per il comunismo» del Manifesto (che non dissero che il comunismo era maturo nel senso di imminente, come qualcuno equivocò — e ironizzò -, ma che non sarebbe stato più possibile dare soluzione ai problemi posti dalla crisi nel quadro del sistema capitalistico sia pure ammodernato).
Questo fu l’XI congresso del Pci, quello spartiacque delle cui emozioni, passioni, sofferenze Pietro Ingrao ha dato eco nel suo libro «Volevo la luna».
Nell’anniversario del suo centesimo anno di vita avrei forse dovuto parlare di Pietro Ingrao ricordandone di più i suoi aspetti umani, la sua personalità, il modo come ha dipanato la sua esistenza, e non invece andar subito dritta al nocciolo politico della sua vita di comunista.
L’ho fatto per due ragioni: perché troppo spesso ormai nel celebrare gli anniversari si tende a ridurre tutto ai tratti del carattere di chi si ricorda, alle sue qualità morali, e sempre meno a riflettere sulle loro scelte politiche. E poi perché Pietro in particolare, invecchiando, — e forse anche per via di come sono andate le cose nella sinistra italiana — ha finito per ricordarsi sottotono, persino con qualche vezzo civettuolo, più come poeta che come dirigente politico. Che è invece stato e di primo piano.
Poeta non ha in realtà mai smesso di essere, basti pensare al suo modo di esprimersi, mai politichese, sempre attento a illuminare l’immaginazione e non a ripetere catechismi. Vi ricordate la sua sorprendente uscita nell’intervento al primo dei due congressi di scioglimento del Pci, il XIX nel 1990, quando se ne uscì col suo clamoroso «viventi non umani», per chiedere attenzione alla natura e alle sue speci? Non era forse una poesia, che come tale suonò, del resto, in quel grigio e mesto dibattito di fine partita?
Pietro non usava il politichese perché ascoltava. Sembra banale, ma quasi nessuno ascolta. E siccome ascoltava è stato anche ascoltato da generazioni assai più giovani, quelle che dei nostri dibattiti all’XI congresso del Pci, e del Pci stesso, non sapevano niente. Penso al Forum sociale europeo di Firenze nel 2002, per esempio, dove il suo discorso sulla pace conquistò ragazzi che non sapevano neppure chi fosse.
Ascoltava perché della democrazia ha sempre sottolineato un elemento ormai in disuso, soprattutto il protagonismo delle masse, la partecipazione.
Può sembrare curioso, ma molto del pensiero politico di Ingrao è stato segnato dalla sua adolescenziale formazione cinematografica. Nei molti anni in cui per via del mio incarico nella promozione del cinema italiano ho avuto con i big di Hollywood molti incontri e spesso la discussione scivolava sull’Italia e sul come era stato possibile che ci fossero tanti comunisti. Un po’ scherzando e un po’ sul serio ho sempre finito per ricorrere ad un paradosso: «Badate — dicevo — il comunismo italiano è così speciale perché oltreché a Mosca ha le sue radici qui a Hollywood, che dunque ne porta le responsabilità». E poi raccontavo loro la storia, tante volte sentita da Pietro, della formazione di un pezzo non secondario di quello che poi diventò il gruppo dirigente del Pci nel dopoguerra: Mario Alicata, lui stesso, e anche altri che pur fuori dai vertici sul partito avevano avuto una fortissima influenza, Visconti, Lizzani, De Santis. Tutti allievi del Centro sperimentale di cinematografia.
Raccontavo loro, dunque, di Ingrao che mi aveva detto di come la sua generazione, già a metà degli anni ’30, avesse avuto il suo ceppo proprio nel cinema. E, segnatamente, nel grande cinema — e nella letteratura — americani del New Deal, tortuosamente conosciuti proprio al Centro grazie a una fortuita circostanza: l’arrivo, come insegnante, di un singolare personaggio, Ahrnheim, ebreo tedesco sfuggito al nazismo e chissà come approdato proprio lì, prima che le leggi razziali fossero introdotte anche in Italia.
«Proprio quelle pellicole — mi disse Pietro in occasione di un’intervista (per il settimanale Pace e guerra che allora dirigevo) su una importante mostra allestita a Milano sugli anni ’30 — mostravano cariche di socialità, in cui c’era la classe operaia, la solidarietà sociale, la lotta. Proprio grazie a quei film, che erano mezzi di comunicazione fra i movimenti sociali e l’americano qualunque, così diversi dalla cultura antifascista italiana degli anni ’20 — elitaria, ermetica — che avevamo amato, ma non ci aveva aiutato; proprio quei film che ci aprivano una finestra sull’intellettuale impegnato, noi ci siamo politicizzati. Sono stati il primo passo verso la politica».
Questo nesso fra cultura e politica è stato un tratto che ha distinto il comunismo italiano. E Pietro Ingrao ne è stato uno dei più significativi interpreti.
Grazie e tanti auguri, Pietro
Carissimo Pietro, è lontano, lontanissimo, quel giorno del 1936, quando, davanti al pericolo reale della dittatura franchista, decidesti il corso della tua vita con quel «no, non ci sto». Il centro sperimentale e la tua passione per il cinema vennero messi da parte e ci fu la scoperta della tua esistenza, la volontà di partecipare - sentirti esprimere con queste parole è una boccata d'ossigeno - alla lotta di classe. Sei tornato a raccontare in modo intenso queste vicende nella bellissima conversazione apparsa, qualche giorno fa, sul Corriere della sera. E' stata una fortuna per il paese Italia, per la causa dei lavoratori, come si chiamava una volta, e per tutti noi, quella scelta. Hai dato tanto, e con tanta forza e passione, che puoi essere soddisfatto, di te e della tua opera. Non è un caso che riesci a raccontare il tuo passato con una memoria serena, anche se inquieta.
Tu ritorni spesso, quasi con dolore e comunque con rammarico, sui tuoi errori. Ma vedi, Pietro, io trovo qui, un di più, non dovuto, di autocritica. Abbiamo sbagliato tutti, molte volte. Ma non sottolinerei, oggi, più di tanto, questo punto. Già siamo oppressi dal senso comune corrente, intellettuale e quasi ormai popolare, di essere stati noi, del movimento operaio di impronta comunista, gli autori di una storia sbagliata. Mentre i nostri avversari, e qualcuno dei nostri concorrenti, avevano visto giusto e capito tutto fin dall'inizio. Io credo che se dobbiamo rimproverarci qualcosa, questo sta nel campo di ciò che non abbiamo fatto, più che nel campo di ciò che abbiamo fatto male. E' quando ci siamo autolimitati nelle nostre ambizioni di trasformare le cose in grande, proprio nel momento in cui avevamo la forza per realizzarle, quelle cose. E' quando abbiamo abbassato la guardia, assunto una funzione subalterna, acconciandoci al piccolo cabotaggio del compromesso, inseguendo le contingenze e rimanendone alla fine prigionieri, non guardando più né indietro né in avanti. E' quando abbiamo subito l'ossessione, che vedo ancora maledettamente presente in quello che resta di una sinistra maggioritaria, di farci legittimare da quelli che esattamente dovevamo combattere. Ecco, questi sono gli errori che tu non hai commesso. Puoi andarne fiero: e vivere con tranquillità, direi, se possibile, con una olimpicità goethiana, quella che abbiamo chiamato la tua età dei patriarchi.
In realtà, hai cominciato a volere la luna, quando - come dici appunto nell'intervista - la lotta di classe è diventata il punto centrale della tua vita. La domanda è questa: si può consigliare questo preciso, ben determinato e, vorrei dire, realistico volere la luna a un ventenne o a una ventenne di oggi, l'età che tu avevi allora? Recita la litania: è cambiato tutto. Tutto è cambiato, tranne una cosa: quelli che comandavano ai tempi del tuo nonno Francesco, siciliano di Girgenti e garibaldino, o appena più vicino, ai tempi del mio nonno Domenico, crepato in un ospizio per poveri vecchi in quel di Tivoli, quelli, quelli stessi, comandano ancora. Allora avevano in proprietà un pezzo di terra, adesso sono proprietari del mondo, materiale e virtuale. Io penso che il problema nostro, che dobbiamo trasmettere alle nuove generazioni, è di capire e di sapere qual è la forma della lotta di classe con cui abbiamo a che fare oggi, per orientarci a pensare e per disporsi ad agire. Non è la vecchia forma, è la forma nuova, indotta da immani trasformazioni, che hanno sradicato e stravolto e alla fine mascherato le figure sia dei padroni che dei lavoratori, ma non le hanno soppresse, queste figure antagoniste, tanto meno le hanno sostituite, come si dice, con un interesse ormai comune. Quello che è in modo impressionante difficile oggi è il processo di riconoscimento delle contraddizioni reali e fondamentali. Perché tutte quelle che appaiono sono contraddizioni reali ma non fondamentali. Ci vuole una lama acuminata di pensiero forte e la scelta di una postazione di vita, di vita quotidiana, propria, che ti permetta la coltivazione di un punto di vista inassimilabile, inassorbibile, indisponibile.
Oggi non mancano, come vediamo ad occhio nudo, le rivolte, il tumulto, le emergenze, i barconi inzeppati di dannati della terra è uno spettacolo su cui vorresti chiudere gli occhi, non manca, purtroppo, la guerra. Ma io mi chiedo: perché abbiamo bisogno di queste cose per accorgerci, solo allora, che così questo mondo non va e che bisognerebbe di nuovo, anche qui in forme nuove, sovvertirlo? Mi pare di aver capito una cosa, che ritengo preziosa, e che ogni giorno pazientemente metto in pratica, guardandomi intorno: è che proprio nel tran tran del giorno per giorno, è quando non succede niente, quando tutto è apparentemente tranquillo, e l'ordine sembra perfetto - se ci pensiamo bene è poi il più gran tempo, il tempo normale - è lì che si esprime la vera subdola violenza del dominio. E' quando non te ne accorgi, e ti illudi di essere libero, è allora che sei veramente sottomesso. Tra i pensieri folli che spesso mi vengono, oggi molto attuali, uno è questo: beati quei popoli che hanno da buttar giù dal trono un tiranno. L'invisibile tirannide che ci opprime, giorno per giorno, ora per ora, in questi nostri meravigliosi giardini democratici d'Occidente, come la buttiamo giù?
E allora, di nuovo, se abbiamo qualcosa da rimproverarci, è questa qui: che lasciamo ai nostri figli, ai nostri nipoti, una condizione di vita, individuale e sociale, e uno stato interiore, che con una parola a me, ma so anche a te, cara, possiamo definire spirituale, peggiore di tutto quanto noi abbiamo vissuto. Difficile perdonarci questa colpa. I potenti, i ricchi, i sovrapposti, i possessori delle nostre vite, non si sono mai sentiti così bene al sicuro come in questo tempo. Lo dimostrano il peso della loro arroganza, la volgarità della loro egemonia, le certezze della loro indiscutibile ragione. E' qui che va posta la domanda: dove abbiamo sbagliato? Una domanda per tutti, uomini e donne, credenti e non credenti, rivoluzionari e riformisti. Non ci si può sottrarre. Non per disperarsi, tanto meno per rassegnarsi. Al contrario, per riacciuffare il filo della lotta decisiva, come tu volevi "acciuffare" la luna dietro i monti di Lenola.
Va bene, Pietro, mi avevano chiesto di scrivere una lettera per il tuo novantaseiesimo, a nome di quella piccola comunità che è il tuo Crs, a nome di tutti, a nome del suo direttore, Walter Tocci, a nome mio. L'ho fatto, nell'unico modo in cui si può fare rivolgendosi a te, non con i convenevoli, piuttosto conversando, ricordando, riflettendo, pensiero poetante....
«E pensare che giocavo bene a tennis», dice il novantunenne Pietro Ingrao, mentre avanza con passo lento nella sua frugale casa, dritto come un fuso e una memoria che sfiora il prodigio. «Il battito asciutto della pallina sul campo aveva per me un effetto terapeutico. Bastavano pochi colpi per cancellare comitati centrali, riunioni di direzione, interminabili segreterie...».
Di match point è costellata anche la sua vita. È stato uno dei grandi capi del comunismo italiano, ha attraversato la storia del Novecento quasi sempre in prima linea - la cospirazione antifascista, la guerra, l’Unità clandestina, poi le istituzioni repubblicane nel loro sorgere tempestoso - , ha incontrato personaggi come Stalin, Mao e Che Guevara, ma la sua esistenza appare segnata da una vena d’inquietudine mai appagata. Volevo la luna è l’efficace titolo dell’autobiografia che racconta con passione e severità il romanzo d’una vita intensa e forse mai pienamente risolta (Einaudi, pagg 384, euro 18,50, in uscita il 12 settembre). Un feuilleton ottocentesco, nei primi capitoli, con la storia degli avi garibaldini che cospirarono contro i Borboni e quel romantico incesto tra nonno Francesco e la splendida cugina Marianna da cui trae origine la progenie Ingrao. Se c’è una trama segreta, in Volevo la luna, va cercata nell’intima ribellione che anima costantemente il protagonista. Sin da bambino, quando figlio dei signori di Lenola, l’agiato ceto agrario del basso Lazio, partecipa ai rituali borghesi però dolendosi della distanza del mondo contadino. O da ragazzo, nei primi anni Trenta, lettore di Joyce e Kafka contro le semplificazioni sommarie della cultura ufficiale, e ancora studente dei Littoriali, ma con i primi germi del dissenso antifascista. Più tardi la scelta di vita comunista, anche questa segnata da dubbi, perplessità, insofferenza verso le formule teologiche del credo sovietico. Fino al dissenso esplicito negli anni Sessanta, con quell’epilogo da eretico verso gli stessi eretici: è rimasto storico il voto con cui Ingrao radiò gli ingraiani dal suo partito («La cosa più sbagliata ma anche la più assurda. Fu più forte il richiamo della chiesa comunista»).
Da cosa nasce questa inquietudine?
«Fin da piccolo, ebbi l’abitudine di interrogarmi sulle cose. Vivevo tra i contadini, ma ne avvertivo la distanza. Non erano nostri pari. In certo modo lì ebbe origine la mia riflessione sull’oppressione di classe e sul mondo diviso fra sfruttatori e sfruttati».
La sua critica verso Togliatti è molto nitida. Sono descritte le sue durezze, i protratti silenzi, la lunga e insopportabile soggezione a Mosca. Insomma, una resa dei conti senza reticenze.
«Sì, il suo percorso fu più complesso e contraddittorio di quanto sia stato scritto, come di errori e contraddizioni è disseminato il mio. Ma tra noi c’era anche un rapporto umano molto forte, coltivato nei lunghi anni della mia direzione dell’ Unità. Da gran rompiscatole, non mancava di farmi avere continuamente i suoi bigliettini, più o meno di questo tenore: "ma che cavolo volevi dire?". Quando parlava alla Camera c’era un rito: dopo l’intervento, veniva in redazione per rivedersi il testo, parola per parola. Sudatissimo, c’era qualcuno che l’asciugava. E intanto lui correggeva parole e virgole, secondo fissazioni bizzarre. Era persuaso che si dicesse "arme", non "arma". Così scriveva Missiroli, che a lui piaceva molto. Io storcevo il naso».
Qualche volta però lei scelse di non interpellare il segretario.
«Fu all’indomani del XX Congresso, al principio del 1956, dopo le rivelazioni di Krusciov sui crimini di Stalin. Togliatti aveva il testo del rapporto segreto, ma al rientro da Mosca non ne fece parola: né con noi né con i giornalisti che l’attendevano all’aeroporto. E sulle denunce dello stalinismo tacque anche al Comitato Centrale di marzo, dove ebbe solo accenti apologetici per l’Urss. E noi dell’Unità costretti a stare zitti, mentre nel mondo si scatenava la bufera. Quando sulla stampa americana comparve il misterioso rapporto, mi feci coraggio e, senza interpellarlo, pubblicai un resoconto».
E Togliatti?
«Laconico, come sempre. "Hai visto?", gli domandai trepido. "Ho visto", fu la risposta».
Finì lì?
«No, l’evento più pesante fu a Livorno, nell’aprile successivo, durante l’assemblea generale in vista delle elezioni comunali. Nella relazione Togliatti non fece nessun accenno al tema dello stalinismo. La nostra protesta assunse forme diverse. Al momento dell’applauso, Pajetta e Amendola stesero le mani sul panchetto per sottolineare che non applaudivano. Nel discorso conclusivo, Togliatti fu ancora muto sul "rapporto segreto". Aggiunse solo alcune brevi amarissime parole sulle tempeste che aveva attraversato».
Avevate un rapporto confidenziale. Si è mai lasciato andare sulle nefandezze di Mosca?
«No, mai. Aveva avuto una vita tragica, se ne avvertiva l’eco anche nei silenzi. Solo una volta lo vidi esplodere corrucciato. Fu durante un incontro con D’Onofrio, che si doleva col segretario per un trasferimento non desiderato. Lo gelò: "E allora cosa avrei dovuto fare io quando diceste sì a Stalin che non voleva farmi tornare in Italia?"».
Anche Nilde Iotti era reticente?
«No, con Nilde si parlava più serenamente. Mi confessò una volta il sospiro di sollievo che lei e Palmiro avevano tratto sul treno che li allontanava dalla frontiera sovietica. Stalin era ancora vivo».
Nel 1961 la leadership di Togliatti sembra sbandare. Lei racconta di un’aspra riunione del Comitato Centrale, che però lasciò una traccia scritta mitigata.
«I suoi ripetuti silenzi sullo stalinismo lasciarono molti di noi amareggiati. L’attacco partì da Amendola, seguito da Natoli, Chiaromonte, Alicata, Salinari, io stesso. Togliatti replicò con toni ancor più brucianti. S’accomiatò con una minaccia: se volete farmi la lotta, sono pronto».
Era stato Franco Fortini, incontrato casualmente nel 1940, a parlarle per primo delle purghe staliniane?
«No. Sapevamo già da tempo. Ma ci fu un colpevole silenzio. Il mito di Stalin scavalcava tutto. L’evento che sconvolse il nostro gracile gruppo romano fu nel 1939 lo sciagurato patto Ribbentrop-Molotov. Antonio Amendola, Lucio Lombardo Radice e io stesso fummo duramente critici. Aldo Natoli esitò: e fu strano perché Aldo era tra i più rigorosi e i più maturi fra di noi».
Della cospirazione antifascista, lei dà un ritratto assai poco eroico, restituendone anche fragilità e cedimenti.
«Eravamo esseri umani che imparavano - passo a passo - la lotta sociale in un momento molto difficile. Nel nostro piccolo vivevamo anche vicende amarissime. Antonio Amendola fu colpito da un grave disturbo psichico. Fummo costretti - per ragioni di sicurezza - ad interrompere i rapporti con lui. Fu una storia dolorosa: io da Antonio avevo appreso quasi tutto».
Con Amendola aveva partecipato anche ai Littoriali.
«E per questo Antonio s’era beccato una condanna furente dal fratello Giorgio, confinato a Ponza, che solo dopo avrebbe compreso l’importanza di quei nostri incontri: furono per noi occasione di maturazioni preziose, laboratori di coscienza antifascista. Senza i Littoriali sarei rimasto un pischelletto di provincia. Eppure nell’immediato dopoguerra subii un processo dalla stampa di destra: ma come, hai scritto un inno fascista a Littoria e ora fai il comunista? Fu Togliatti a dirmi di fregarmene di quegli "scocciatori reazionari"».
Sessant’anni dopo, più o meno si parla delle stesse cose. Ma ripensando a quella stagione, cosa la mosse a partecipare ai Littoriali?
«Il desiderio di stare nel clamore. Ho amato troppo l’applauso».
Quanto ancora ha contato l’amore dell’applauso nella sua vita successiva?
«Ahimé, sempre. Eh, la vanità... Però con una riserva costante: l’interesse e il rispetto per il dubbio. In fondo questa mia autobiografia è un libro sulla possibilità di dubitare, negata per troppo tempo nel Pci. Credo che la grande tragedia del comunismo e la ragione della sua sconfitta abbia origine anche in questo: nel monolitismo, nell’unanimismo forzato, in un’idea imbalsamata di classe, nell’adesione acritica al catechismo di Lenin e Stalin».
Lei ricorda con disagio il discorso pronunziato da Mao a Mosca nell’autunno del 1957.
«Sì, è come se lo rivedessi ora: un omone imponente, che ci accolse con grandi pacche sulle spalle. Profetizzò un radioso avvenire a prezzo di milioni di vite uccise. Nessuno ebbe il coraggio di obiettare. A peggiorare le cose, provvide il compagno francese Duclos, con una pesante filippica contro di noi. Chiesi a Togliatti se era il caso di replicare. Rispose con un "no" rabbioso. Poi in macchina proruppe in invettive da trivio, come mai l’avevo sentito».
Nel libro ci si imbatte in parole proibite come "frazionismo".
«Sì, il frazionismo allora era un termine maledetto, ma invece sarebbe stato necessario e vivificante. L’avessi sostenuto all’epoca, sarei finito nel rogo».
Però negli anni Sessanta lei dà avvio a una sorta di frazione. Per poi decidere insieme al Partito a favore dell’espulsione dei suoi stessi fratelli.
«Non so dire altro che uscii di senno. Io pure avevo assorbito un fondo chiesastico che mi indusse all’errore fratricida. Uno sbaglio grave, non solo per il tradimento verso quei compagni, ma anche perché annullava il principio del dissenso: un nodo che per me divenne vitale per la costruzione di un soggetto rivoluzionario articolato e molteplice».
La sua autobiografia è anche una toccante dichiarazione d’amore per sua moglie Laura Lombardo Radice, un misto di rigore e dolcezza.
«Sì, siamo stati molto uniti nella vita. E io ho avuto un dono enorme da lei. Anche quando con grazia ironica usava tirarmi le orecchie, per aprirmi gli occhi. Ricordo quando le feci leggere la Dichiarazione programmatica che Togliatti mi aveva sollecitato per il congresso del partito, nel dicembre del 1956. "Mi sembra il rosario della Madonna di Pompei". Avvampai di rabbia, ma aveva ragione lei».
Sfilano nel racconto tanti volti femminili. Perfino Alida Valli, la più amata della vostra generazione.
«La incontrai al Centro sperimentale di cinematografia, che frequentai alla metà degli anni Trenta. Era bellissima, ma fredda e un po’ altera».
A un certo punto lei confessa che era "quasi innamorato" di Marcella Ferrara, allora segretaria di Rinascita.
«Non rimasi insensibile al fascino di Marcella, donna di gran temperamento. In quegli anni - ma non vorrà scrivere anche questo? - le richieste sentimentali non mi mancavano. Il nostro non era un partito né di freddi né di casti».
Se c’è un’immagine che si staglia nel libro, è la grande scalinata che conduce allo studio di Togliatti. Cos’è che non le piaceva di quella scala?
«La vastità, lo sterminato numero di gradini. Era una delle cose assurde di Botteghe Oscure. Quando, circa alla metà degli anni Cinquanta, fui chiamato in Segreteria - posto nevralgico di potere - mi perdevo nel saliscendi dell’immenso palazzo, tra ampi corridoi e riunioni interminabili. Non ero tagliato per quella vita. Tra lo stupore di molti, decisi di lasciare».
Una citazione di due autori che so per certo non graditi a Pietro Ingrao.
Ma so anche di certo che per lui non sarà un problema, conoscendo non tanto la sua tolleranza, quanto il suo gusto per il diverso e per il contrario. Jünger scrisse un biglietto di auguri a Schmitt per il suo novantesimo compleanno. E Schmitt rispose con un altro biglietto: "la vecchiaia è finita; adesso comincia l’età dei patriarchi".
E’ bello poter dire in vita: la vecchiaia è finita. Si può veramente, finalmente, coltivare quella che Goethe anziano chiamava “la cara dolce abitudine di vivere”. Anche se Ingrao resiste al compito di vestire i panni biblici del patriarca. Potrebbe prestarsi ad essere agevolmente il patriarca della sinistra. Ma sappiamo quanto questo sia contrario alla sua indole. Alcune sue scelte recenti – una soprattutto – hanno voluto sottolineare la sua appartenenza di campo e, per utilizzare una formula ormai per il troppo uso diventata banale, un’appartenenza di campo senza se e senza ma.
Mi colpì una frase della sua amatissima moglie Laura, pronunciata qualche tempo prima della scomparsa: dovevamo diventare vecchi per ritrovarci ad essere dei senza partito. Non c’è pensiero che meglio definisca la "Stimmung", diciamo così, il senso e il tono, di questo estremo lembo dell’impegno pubblico di Ingrao.
Non voglio ripercorrere qui le fasi del suo percorso politico. Né voglio farne una biografia per consegnarlo al passato. Stiamo trasformando il Crs, questa sua creatura, inaugurato nel 1972 da un altro Presidente, Umberto Terracini, in Fondazione, raccogliendo qui l’Archivio Ingrao. Abbiamo in programma una giornata di studio, per approfondire, con il contributo di storici, di politologi, di critici, i passaggi della sua presenza nella vita politica, istituzionale, culturale del paese.
Sì, anche culturale, perché un punto determinante da tenere a mente per ricostruire la personalità di Ingrao è questo: che in lui la vocazione intellettuale precede quella politica. Solo questo spiega la sua attenzione agli strumenti del linguaggio, non in quanto comunicazione, secondo la deriva a cui è oggi sottoposta e subordinata la parola umana, ma in quanto espressione: dire di sé e del mondo l’essenziale, il significato e il valore di ciò che veramente è.
Di qui la curiosità per gli strumenti nuovi del linguaggio: il cinema, questa passione giovanile, rimasta nel tempo,il cinema come forma espressiva del Novecento, l’immagine del mondo per il secolo. E poi…, quella voce della maturità che è la poesia. Ingrao poeta non è un particolare della sua persona; non è un accessorio da aggiungere al resto. La poesia è costruzione di sé, momento e processo di autoconsapevolezza, memoria del passato e etica del presente.
Ieri sera, nella serata popolare in suo onore,ci ha parlato del dissidio che sente in sé, tra il limite della politica e lo “smisurato” dell’umano.Qualcosa che nemmeno si può dire per intero.“L’indicibile dei vinti, il dubbio dei vincitori”e quel grido: “Leva in alto la sconfitta”,
furono, a metà degli anni ottanta il presagio di ciò che stava per accadere.Del resto, ci sono dei titoli dei suoi libri: "Masse e potere", in mezzo agli anni settanta,"Tradizione e progetto", all’inizio degli anni ottanta, "Le cose impossibili", all’inizio degli anni Novanta, che perfettamente aderiscono al tempo storico che li suggeriva.
Ingrao ha riconosciuto il suo secolo, lo ha vissuto, con “l’alta febbre del fare”, e quindi, in questi ultimi anni lo ha giudicato. Un giudizio severo, a mio parere, anche troppo severo, soprattutto quando ha coinvolto la sua stessa persona, le sue scelte e prese di posizione su eventi, che è più facile riguardare oggi di quanto non fosse allora, quando si stava nel “gorgo”, per usare una parola cara a Pietro.
Questo suo andare oggi elencando puntigliosamente gli errori di allora è umanamente molto bello, ma, vorrei dirgli con affetto,sembra a molti di noi anche eccessivamente autocritico.
Ci allontaniamo dal “nostro” secolo e forse sta maturando il momento di uno sguardo più equanime. Il Novecento è stato, sì, tragedia e violenza, ma è stato anche emancipazione, liberazione, conquiste. Il negativo delle guerre è vissuto accanto al positivo delle lotte. Intreccio, appunto, tragico tra disumani esperimenti riusciti e grandiosi tentativi falliti. Male assoluto e male necessario: questa dialettica è ancora da sciogliere ed è tremendamente complicato scioglierla. Profetiche rimangono le parole di Max Weber, pronunciate appena dopo la fine della prima grande guerra: "Non è vero che soltanto il bene possa derivare dal bene e il male dal male, bensì molto spesso il contrario. Chi non lo capisce, in politica non è che un fanciullo".
A malo bonum: questo segno agostiniano è alla base della giusta volontà politica; dal peccato la grazia, dalla caduta la libertà del cristiano. Non è nella contrapposizione tra male e bene, ma nell’intreccio tra l’uno e l’altro che deve districarsi e motivarsi la buona politica.
Non è esattamente questo l’orizzonte dell’agire pubblico ingraiano,
piuttosto quell’altro, più che alternativo, direi, complementare
rispetto a questo: i popoli in movimento, le masse protagoniste, la storia vista e agita dal basso, il potere partecipato, quelle cose che hanno fatto di Ingrao, prima durante e dopo la sua Presidenza della Camera, il campione di quella che una volta si chiamava la “centralità del Parlamento”,
e cioè il primato della rappresentanza sulla decisione,
appunto della partecipazione democratica sulla concentrazione del potere;
Ricordo che una volta lo trascinammo, per un convegno dell’Istituto Gramsci veneto, a un confronto con Gianfranco Miglio:uno scontro di civiltà!, sia pure nell’agreement tra gentiluomini.
Il modello Westminster non è stato mai nelle grazie di Ingrao.
C’è una figura che mi piace accostare ad Ingrao, è quella di Dag Hammarskjöld, segretario generale dell’Onu tra il 1953 e il 1961. Un Quaderno della rivista "Servitium", quella di Padre Turoldo, lo ha recentemente inserito in una galleria dedicata ai Mistici d’oggi, accanto a Giovanni Vannucci, Edith Stein, Benedetto Calati, Teilhard de Chardin, Cristina Campo. Hammarskjöld aveva fatto predisporre all’ingresso del palazzo dell’Onu una “stanza di raccoglimento” – la chiamava così - dove, tra un incontro e l’altro, si ritirava a meditare e a contemplare. E invitava gli altri a fare la stessa cosa prima degli incontri. E’ lui che ha detto quella frase splendida: "merita il potere solo chi ogni giorno lo rende giusto".
C’è un piccolo video, amatoriale, di appena qualche anno fa, che ritrae Pietro Ingrao, con gli occhi lucidi, mano nella mano, con il vecchio monaco camaldolese, impedito nella parola e alla vigilia della morte, Benedetto Calati, per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, persona di grande carisma spirituale.A vederli, veniva da pensare: ecco, due fratelli e compagni.
Confesso che non mi ha mai scandalizzato la pur rozza definizione del comunismo come una chiesa.
In parte lo era. Perché era un orizzonte di fede per milioni e milioni di uomini e di donne “semplici”, come si chiamavano allora - e di speranza per chi non aveva da perdere altro che le proprie catene, e in un certo senso anche di carità, che si esprimeva nella pratica della solidarietà.
C’era quell’idea-forza, passata non a caso nelle canzoni proletarie, che nominava il “riscatto del lavoro”. Il comunismo, non quello dello Stato ma quello del popolo, è stato una forma di attesa, della venuta di qualcosa se non di qualcuno, qualcosa che non era di questo mondo, ma di un altro, da venire. L’”avvenire” , l’Avvento, “cieli nuovi e terre nuove”, è parola comune al cristianesimo e al comunismo.
La secolarizzazione è cosa bella e buona, ma va presa con saggia misura.Essa contiene dentro di sé, come pericolo, la volgarizzazione dell’esistenza. Tutto ciò che laicamente passa per le compatibilità di sistema, va poi ad alimentare quel vizio pubblico, oggi deflagrante, che è la “servitù volontaria”.
Quello scrittore pessimista e al fondo nichilista che è Cioran ci ha ammonito: attenzione!, la morte del sacro ha come conseguenza non che non si crede più a niente, ma che si crede a tutto.
Le fedi non vanno soppresse, vanno civilizzate, umanizzate, tolte all’uso che ne possono fare i potenti,e riconsegnate ai bisogni degli umili.
Un’altra figura con cui Ingrao è entrato in sintonia negli ultimi anni è quella di Giuseppe Dossetti, questo monaco politico, - penso che si possa dire così, anche così, per definirlo, almeno nell’ultima parte della sua vita. Li ha accomunati la difesa di quel bene pubblico primario che è la lettera e lo spirito della Costituzione. Anche se il loro “patriottismo costituzionale” – al contrario di quanto si pensa - mai si è presentato come conservazione, sempre anche come innovazione. Li ha accomunati poi anche la passione per la pace,il ripudio costituzionale della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali quell’art. 11, che è diventato un po’ l’assillo del vecchio Ingrao.
Ma c’è qualcosa di più profondo che accosta le due personalità. Il loro essere, nei diversi campi di appartenenza, non eretici, piuttosto, direi, eterodossi.E’ importante questa differenza. Eretico è chi rompe con il proprio mondo e vi si contrappone. Non ortodosso, o altro da ortodosso, è chi sceglie di restare dentro in posizione critica. In questo caso, si paga un prezzo, appunto, alla propria chiesa,
ma si rimane in contatto con le forze che essa organizza, lievito per una trasformazione interna di essa.
Ingrao è stato interprete e rappresentante di una forma inedita di “critica” dentro la pur pesante ortodossia marxista. Nella storia teorica del movimento operaio il revisionismo ha avuto sempre un’etichetta di destra. Quello di Ingrao è stato, ha voluto essere, un revisionismo di sinistra. Al di là dei contenuti e degli approdi, questa è fondamentalmente la forma di eredità che ci lascia. Bisogna dire che non sempre questo punto è stato tenuto fermo,in quella folla di figure che si sono dette, senza il consenso di Ingrao,"ingraiani".
Due sono le parole-chiave che – per sua espressa confessione - definiscono la persona di Ingrao:
il dubbio e l’organizzazione. Il dubbio come atteggiamento critico nei confronti della realtà e di se stessi. Pensiero antidogmatico e conseguentemente comportamenti autonomi. Libertà di essere, di conoscere, di dialogare e di fare.
E organizzazione come politica collettiva strutturata, preparata e guidata.Politica come fare insieme
E non come la propria faccia su un manifesto. Bisogno umano di partito. Dovremmo interrogarci tutti su che cosa abbiamo fatto per aver reso questa parola, a livello di senso comune, oggi, così dispregiativa. Il disprezzo per la parola “partito” trascina con sé il disprezzo per la parola “politica”.
Ecco. Uomini come Pietro Ingrao sono la confutazione in vita di un così diffuso pregiudizio negativo. La politica come “scelta di vita” – un’espressione che fu di Giorgio Amendola – il partito, come comunità, non di destino,ma di volontà e di decisione, volontà e decisione collettive, quel noi che è più che io,oggi così fuori di moda: questa è la misura umana che per l’occasione qui festeggiamo.
Ingrao appartiene a quella straordinaria generazione di uomini e di donne “gettata”, uso consapevolmente questo concetto della filosofia dell’esistenza – gettata nella politica dalla grande storia. La crisi del fascismo, la lotta contro il fascismo, la seconda grande guerra, la Resistenza, ancora la Costituzione: questo c’era, intorno, negli anni di formazione.
E poi, l’esperienza di costruzione di quella “giraffa” togliattiana,questo animale strano, che era il “partito nuovo”,non più di quadri ma di massa, popolare alla base e centrale al vertice,che ha dato molte soddisfazioni e anche qualche sofferenza a Pietro Ingrao, e non solo a lui.
Signor Presidente, perdoni il piccolo atto d’orgoglio contenuto nel passaggio che adesso farò, a conclusione di questo discorso. Ho riflettuto se non fosse di cattivo gusto evocare qui questo motivo, con il rischio di urtare qualche altra sensibilità. So bene che fu un’intera classe politica, trasversale, ad assolvere questo ruolo fondatore. Ne ho concluso che, stante la tonalità delle cose dette fin qui, il passaggio non poteva mancare.
Insomma. Montanelli ha detto una volta che,nella deprecata prima Repubblica, e io andrei più in là, allungherei il tiro, forse nella non esaltante storia italiana unitaria, non c’era stato ceto politico migliore di quello comunista. Ingrao è prima di tutto esponente di questo ceto.
Sulle radici di questo tronco, di questo ceppo,la pianta Ingrao allarga poi i suoi rami.
Ha avuto la fortuna che a noi è mancata,di qui tutte le nostre insufficienze:quella di prender parte da protagonisti all’età dei costruttori, costruttori insieme del Partito e della Repubblica.
Uomini di parte, con il senso dello Stato:una combinazione difficile, una sorta di stato d’eccezione permanente, che ti costringe a coltivare un quotidiano equilibrio. Per reggerla, ci voleva "Beruf",weberianamente,professione e vocazione della e per la politica,etica della convinzione più etica della responsabilità,e, gramscianamente,buona cultura, molta buona cultura.
Radicare il partito nel Paese, contribuire a costruire la forma repubblicana dello Stato,
con la politica “fare società”, attraverso la politica produrre legame sociale, preparare, educare, organizzare, i lavoratori, operai, contadini, ceti medi vecchi e nuovi,ad essere, a diventare, forza politica democratica di governo.
Un’impresa interrotta.Ci guardiamo intorno, curiosi, a volte smarriti,a cercare di capire chi può riprendere,chi può riafferrare con le proprie mani,innovandola, ammodernandola, aggiornandola a tempi radicalmente mutati,questa impresa storica. Con chi altri, come e quando.
I novant’anni di Ingrao sono da vedere proiettati verso questa ricerca. Auguriamo a lui, e a noi, che possa dire presto: ecco, ho trovato da dove ripartire.
Il sito del Cantro per la riforma dello Stato
Mio Presidente,
non riesco a essere a Roma mentre coloro che ti vogliono bene, festeggiano i tuoi novant’anni.
Eppure desidero esserci per l’affetto e la stima che mi legano a te da tanti anni.
Questo vincolo che mi onora e mi conforta, nacque al tempo della mia vicepresidenza alla Camera quando tu la presiedevi.
Mi ha colpito molto e mi è rimasto di esempio, il tuo scrupolo vero di mantenerti libero e al di sopra. Non posso dimenticare le lunghe sedute dei quattro vicepresidenti con te, affinché la delicata gestione della procedura che portò all’incriminazione di colleghi, non avesse oscillazioni sostanziali, sbavature, contrapposizioni incomprensibili e dannose.
E fu ammirevole il tuo impegno per dare ai Parlamentari ogni aiuto per una conoscenza sempre più profonda
Per una continua formazione che tenesse alta la statura di tutta la Camera e aiutasse ciascuno di noi a rispondere al meglio alle attese della gente che chiede sempre maggiore competenza e dignità nei propri eletti.
Ho tanto ammirato la tua cultura animata da una ricerca costante, inesauribile nel voler affrontare i temi essenziali della vita, i grandi interrogativi che nel corso dei secoli, hanno tormentato le intelligenze più forti e più assetate di verità e di giustizia.
Sì la giustizia, tema vivo nella parola dei politici, ma che pochi sentono come dovere di risposte tanto attese e che, mancando, solo a pochi, turbano la pace e la coscienza.
Quanto insegnamento!
Aggiungo un grazie particolare per quella emozione che ho provato più volte nell’ascoltarti come ricercatore dell’eterno, come chi con gli occhi dell’intelligenza e del cuore scruta l’infinito...
Un abbraccio, tuo Oscar Luigi Scalfaro
L'umano, ecco il punto ancora di nuovo e sempre. L'umano differente, incommensurabile, irriducibile; «lo smisurato che non si lascia misurare», così lo chiama Ingrao, che c'è in ciascuno e in ciascuna, e in ciascuno e ciascuna eccede l'essere sociale dell'operaio che fa l'operaio, del politico che fa il politico, dell'uomo di legge che giudica altri uomini con la legge. «L'indicibile di noi stessi e della relazione con l'altro che non possiamo mai afferrare fino in fondo». La domanda sull'essere che si è aperta all'inizio del 900 con Freud e Joyce, questo è il messaggio a cui il novantenne Pietro tiene di più, non deve lasciarsi chiudere con la fine del 900: «Ecco la mia paura, che mi venga tolto non tanto il pane, e nemmeno la Costituzione, ma questa idea dell'umano che ho imparato in questo secolo. Vi prego, non permettete che questa domanda venga cancellata». L'inciso su Berlusconi - «per questo, vi parrà strano, sono spaventato quando lo vedo» - non va preso alla lettera, ma non è nemmeno accidentale. Allude a un mutamento dell'epoca che non è solo politico, ma della politica tocca la base antropologica, il il presupposto e il limite: l'umano appunto. Che ne sarà della politica, se dell'umano tutto diventa misurabile, contabile, spendibile, visibile, mediatizzato? Che ne sarà degli stati e dei governi, dei partiti e dei movimenti, se lasciamo che si chiuda quella domanda sulla soggettività che ha fatto grande il secolo della grande politica? Ci tiene il novantenne Pietro, breve ed ellittico come poche altre volte di fronte ai tremila amici che lo festeggiano, a ribadire la sua propria differenza incommensurabile e irriducibile: «vedete, sono stato immerso nella politica a tempo pieno e tutto intero, eppure non sono stato e non sono solo quello». Perché la domanda più vera sulla politica «è quella sul limite della politica»: l'umano che la eccede, il linguaggio poetico che dice quello che la razionalità politica non sa, il montaggio cinematografico delle immagini che mostra l'associazione diretta fra le cose e il movimento senza guidatore della vita. Quello che dalla politica resta fuori, ma senza cui la politica non è nulla, diventa piccola e vuota, sorda e muta. Per la semplice ragione che quando quell'eccedenza non c'è o è tacitata, non c'è nemmeno decisione politica, o passione se preferite, o obbligazione. Qualcosa a un certo punto cambiò negli anni Trenta, racconta Ingrao, e non fu propriamente una scelta; fu un passo, una spinta, un'azione, di fronte a quello che stava per accadere. Non era e non è questione di scelte morali ben ponderate. «Non sono mai stato in sintonia con l'eticismo - scrive Ingrao a Goffredo Bettini nel '78, quando lascia il Parlamento e decide di tornare a fare ricerca con il Crs -. Credo nella corporeità e nella passioni vitali. Dire `non ci sto' di fronte al nazismo e al fascismo non fu la risposta a un dover essere; fu la spinta fisica e emotiva di qualcosa dentro che resisteva». La stessa spinta, lo stesso scatto, che oggi Ingrao vorrebbe vedere di fronte alla Costituzione stracciata, e non vede, perché forse «il paese non capisce la soglia a cui siamo».
Anni Trenta, anni Quaranta e poi oggi. Il Novecento, «secolo grande e tragico» come Ingrao ama definirlo, passa nelle parole sue e in quelle per lui di Walter Veltroni e Luciana Castellina, nelle citazioni di Montale e Ungheretti di Gianni D'Elia e in quelle dei neorealisti di Ettore Scola; ma passa accorciato, davvero un secolo breve. Castellina sfiora il `68, Ingrao gli errori che nel `78 era già chiaro che avrebbero portato alla sconfitta, ma degli ultimi decenni resta poco; lo snodo decisivo sta prima. Perché nell'età anziana il passato si accorcia e prende altre proporzioni? O perché è lo snodo di oggi a riportare allo snodo di allora? Non c'è il nazismo e non c'è il fascismo, no. Ma il rischio di un destino triste delle democrazie sì. Una soglia, appunto. Dove di nuovo, come negli anni Trenta, non c'è scelta e c'è lotta: «la politica è obbligata».
«Assaporando un po' di tempo non vissuto», come dice Veltroni per descrivere il piacere di dialogare con i nostri novantenni più amati, ci troviamo messi di fronte a questa contrazione del tempo. C'è da imparare? Certo che sì. Da un padre e da un compagno, da «un padre compagno», come lo chiama Gad Lerner. Eppure, che strano, «noi non abbiamo avuto maestri», racconta Ingrao ancora con la memoria agli anni Trenta: «i maestri erano in esilio, in carcere, lontani, cacciati. Avevamo venti o trent'anni, ci misurammo con quello che stava per accadere». Senza maestri ma con passione, messaggio duro da recepire nell'epoca del disincanto piena di maestri e svuotata di passioni. Lui intanto, il maestro, ripete ancora una volta l'incanto dell'oratore che ha appena finito di descrivere nella bella intervista sul cinema filmata da Mario Sesti: «Tu sali su un palco, hai di fronte la piazza piena di gente, comincia il rito del comizio, applausi, saluti, bandiere, un po' una sceneggiata, calcoli i tempi e le pause e ti chiedi se riuscirai davvero a comunicare qualcosa a quelle centinaia e migliaia di persone che non conosci; ma se a un certo punto puoi fermarti, bere un bicchiere d'acqua o soffiarti il naso e la piazza sta ferma, allora hai la certezza che un filo si è creato fra te e loro». Un filo si è creato, un'altra volta, fra PietroIngrao e i suoi tremila amici venuti a festeggiarlo. «Altre domande? siamo qui», sprona lui incontentabile alla fine del film-intervista di Sesti. Sì, abbiamo ancora altre domande.
Carissimo Ingrao, innanzitutto, da parte di tutti noi, i complimenti per i tuoi straordinari novant'anni e i più forti auguri per quelli a venire. Il tuo vissuto è stato per tanti di noi e per me grandemente utile, e sottolineo l'aggettivo utile nel senso forte usato da Brecht nelle storie di Me-Ti. Utile e originale: nella nostra formazione -consentimi - il fattore I è stato sempre importante e, ripeto, utile anche nelle battaglie perdute. Lo ammetto, il valore forte del fattore I non lo ho (non lo abbiamo) capito subito; c'è stato un tempo di incomprensioni e risentimenti e mi dispiace che questo ti abbia indotto anche ad autocritiche, generose, ma forse non utili. Ci è voluto del tempo - almeno per me - per capirlo, ma ci hai insegnato due cose. La prima è che non si entra in politica, non si ha la superbia di occuparsi degli altri e anche di orientarli, con l'obiettivo - pure legittimo - di accrescere il proprio personale potere. Si entra in politica, ci si consente la superbia di orientare, di indicare la giusta via solo per la passione di esplorare, di cercare, di tentare di individuare il percorso giusto nel labirinto della realtà presente. La seconda è - direi - l'etica della responsabilità: quando si arriva a un punto di rottura con qualcosa che è più grande e che coinvolge il destino di molti si può, forse si deve, fare un passo indietro. Non rinnegare ma tacere e anche subire.
Credo che nella lettura del fattore I, amici e avversari abbiano commesso l'errore di trascurare il peso della poesia, considerata più un tuo vezzo o una debolezza piuttosto che - come credo sia - che una componente decisiva. La poesia - lo insegnano i poeti maggiori - non è una divagazione letteraria. La poesia è espressione massimamente sintetica di ricerca, di tensione culturale e morale, che contrasta lo stato di cose esistente. Pensiamo solo al nostro Leopardi e anche alla lezione di Luporini. Nella lettura del fattore I abbiamo sempre, erroneamente, sottovalutato o messo al margine il potere della poesia e della poesia del tuo tempo; una poesia peraltro poco accetta al tuo partito. Ricordo un articolo di Togliatti su Rinascita, nel quale esprimeva pena e, direi, commiserazione per quei giovani contemporanei che si dovevano contentare di Montale e di Morandi. Ma come si fa a tentare una lettura di Ingrao prescindendo da Ungaretti e Montale? Dal «codesto solo oggi possiamo dirti...» al desiderio spasmodico della formula che dischiuda la conoscenza del mondo. Questa continua presenza della poesia nell'agire politico la si ritrova in molti titoli degli scritti di Ingrao: «le cose impossibili, l'alta febbre del fare», «il dubbio dei vincitori», «variazioni serali», «masse e potere».
La spinta della poesia alla ricerca, alla decifrazione del presente, all'individuazione del futuro, è stato l'assillo permanente di Ingrao insieme all'alta febbre del fare, che spiega e giustifica molte sue scelte, anche recenti e non sempre condivise. Anche il famoso XI congresso del Pci va letto nella chiave della ricerca, nell'ansioso tentativo di individuare il futuro. C'era stato il miracolo italiano, si potevano scorgere gli annunci del `68 e Ingrao si avventurò nella generosa illusione del nuovo modello di sviluppo di fronte alla trasformazione e al rinnovamento del capitalismo italiano. Il presente gli dà torto, ma allora bisognava guardare avanti anche a costo di sbagliare. E sempre in questo non dimenticato XI congresso la rivendicazione del diritto al dissenso non era la richiesta di una garanzia democratica o democraticistica ma la riaffermazione del dovere comunista alla ricerca. Ed è la prevalenza di quest'ansia di ricerca sulle finalità (legittime) di potere personale, che spiega la specificità del gruppo dei suoi sostenitori e la natura degli «ingraiani» che gli rassomigliavano e gli rassomigliano.
Nei diari di Dimitrov si può leggere il testo di un sintomatico brindisi di Stalin. Un brindisi ai «quadri intermedi», nel quale Stalin afferma che Trotsky e Bukarin erano molto più brillanti e importanti di lui ma che furono sconfitti perché, a differenza di Stalin, non si basarono sui quadri intermedi. Ingrao ha avuro il consenso e l'ammirazione di molti quadri intermedi ma non ne ha mai fatto la sua forza. E quelli che gli sono stati e gli sono più vicini sono tutto il contrario dei quadri intermedi di cui parlava Stalin: del tutto inadatti a trasformarsi in un disciplinato gruppo di sostegno, cosa che peraltro fuoriusciva dall'ottica di Ingrao.
Dall'osservazione attenta e dalla partecipazione di buona parte dei tuoi novant'anni un po' di cose le abbiamo imparate e abbiamo anche imparato ad apprezzare i dissensi pur se aspri e dolorosi. E adesso? Adesso, quando per l'età avanzata tutti siamo indotti ad avere più fretta e si alza la febbre del fare? Adesso ci ritroviamo nell'antico e umanissimo mito di Sisifo: uno scrittore ha detto che in Sisifo c'era dell'ironia. Cerchiamo di avere anche noi questa fiduciosa ironia, pur con il dubbio, non sterile, che qualcosa è cambiata o va cambiando nel masso che dobbiamo spingere a monte. In ogni modo, forza, complimenti per gli anni passati e auguri per quelli che arrivano.
E´ vero che lei ha dovuto rinunciare alla sua passione per il cinema a causa della lotta contro il fascismo? E´ vero che da studente del Centro Sperimentale di Cinematografia è stato tirato dentro la battaglia politica "a forza"?
«C´era stato l´attacco alla repubblica spagnola e da quel momento ho iniziato a vivere l´esperienza dell´iniziazione alla politica antifascista. Quello è stato per me un crinale decisivo. Mi ricordo quel luglio terribile del ´36, quando è scoppiata l´insurrezione di Franco, e abbiamo visto l´avanzata del fascismo che oramai si dispiegava ovunque. Sono cominciati degli anni terribili e a quel punto, per usare una frase di rito, sono cambiati i libri sul mio tavolo. Io che avevo fatto il primo anno di studio di cinema al Centro Sperimentale, e volevo fare il regista, ho ceduto - ma ceduto non è davvero il verbo giusto - alle pressioni dei miei compagni che già erano più avanti nella cospirazione. Uno fra tutti, Antonio Amendola. Sono apparsi altri libri, è cominciato il mio impegno nella politica e allora il cinema è rimasto un amore».
Quando è che ha un po´ lasciato da parte il cinema e non l´ha più seguito con la stessa assiduità? Per quale ragione?
«La vecchiaia. Io sono molto, molto anziano. Ma ho scritto più volte di cinema e presumo di capire più di cinema che di politica».
Se dovesse citare i film che più amato, i pezzi di cinema che più le sono rimasti impressi e che più hanno contato nella sua vita, quali film o autori le verrebbero in mente?
«Uno, prima di tutti. Chaplin. E un film soprattutto: Luci della città. Non è forse il più bel film di Chaplin, forse Tempi moderni è più bello, però Luci della città ha un finale straordinario: quando la ragazza cieca ritornata guarita dall´America, rincontra il vagabondo che passa per la strada, ridotto proprio male. Lui resta colpito da questa apparizione improvvisa e lei lo riconosce, ma non con gli occhi, perché non l´ha visto mai. E come? Spolverando, toccando leggermente la giacca del vagabondo. Non c´è nulla di parlato ma l´intera, breve sequenza, mi sembra di una estrema, grande allusività. In pochi, muti attimi, passano tante domande sulla vita e una capacità del cinema di essere cinema assoluto, puro, senza una parola. Poi, per il cinema italiano, mi viene in mente Paisà. L´episodio finale, quello della lotta partigiana nelle paludi. Anche lì, non c´è quasi parola, i personaggi non si parlano, avviene tutto per cenni, in uno sterminato silenzio. Non solo mi sembrava il più bello di tutto il film, ma una delle cose migliori di Rossellini: un pezzo di cinema straordinario che mi riportava a questa idea del cinema come immagine, e poi insomma, come a dire, parlava della guerra senza parlarne. E´ uno dei momenti del cinema neorealista che ancora stavano parecchio dentro l´estetica del cinema che avevo in testa io, prima dell´avvento del sonoro.
«E poi il finale di Ladri di biciclette, quando il personaggio, dopo il furto della bicicletta, viene assediato dalla folla e lo vogliono ammanettare. C´è quella scena molto bella in cui il padrone della bicicletta lo guarda in faccia come a dire "ma questo è un poveraccio come me". Allora lo lasciano andare. E c´è una sequenza brevissima, in cui il padre e il fanciullo si danno la mano e rimangono soli con tutto il mondo intorno. Un pezzo di efficacia straordinaria: che un po´ anche mi sorprese, all´epoca, perché, sapevo che De Sica aveva tante qualità ma non sospettavo possedesse quella vena struggente. Quello, diciamo così, in un museo delle cose più belle del cinema, io lo ritaglierei e poi lo metterei in un quadro come icona, insieme a Luci della città e a Paisà».
Qual è l´ultimo film che ha visto in sala dal quale è rimasto colpito?
«Quel film di quel regista americano sulla guerra in Giappone, come si chiama. La sottile linea rossa, di quel regista americano».
Terrence Malick
«Sì. C´era una bellezza singolare che non era tanto nella storia, anzi, la rappresentazione dei soldati mi sembrava piuttosto usuale. Non era quello che determinava la qualità del film. Però nella rappresentazione del paesaggio, c´erano dei pezzi che mi sembravano straordinari. C´è tutta una parte del film cui si vedono solo le vampe delle cannonate e poi il modo in cui fa vedere quelle colline presso cui si svolge tutta la battaglia.
«Ecco, lì c´è un´idea, una rappresentazione della guerra che mi sembra di grande forza. E anche, direi, più semplicemente, di grande malinconia poetica. Anche se, quando poi fa parlare i personaggi, il film diventa più convenzionale. Però l´uso di quel sonoro e quelle immagini mi sembrarono davvero notevoli».
Pensa ci sia un rapporto tra il cinema e la poesia (che è un´altra sua grande passione)?
«Sono due linguaggi diversi anche se sono tutti e due riconducibili a quell´idea che chiamiamo arte. Poi cosa sia l´arte, ci sono biblioteche intere che se lo chiedono. Però i due linguaggi sono molto diversi, mi sembra. La poesia, diciamo così, è una musica più segreta, più sottile. Tornando a quell´episodio di Luci della città, insomma, è più importante lo sguardo di Chaplin o il modo con cui la mano di lei tocca la giacca del vagabondo, la capacità del cinema di possedere un´allusività molto forte. Che spesso non è riconosciuta, perché il cinema viene letto come copia del reale. Sembra che la sua qualità stia nella quantità di realtà che può riprodurre. Invece è una bugia, perché non è così. Per me, almeno. Però la poesia ha qualcosa di diverso, qualcosa in più, che è la musica. Mentre nel cinema, tutto sommato, anche nelle scene più intense, più raccolte, più intime, beh, noi quello che vuol dire lo vediamo. Più che ad un verso, corrisponde ad un parlare scandito. Qualcosa che si vede, qualcosa che quasi lo tocchi con la mano».
Senta, le posso chiedere se c´è un film che più di altri ha raccontato il mondo della politica in maniera più autentica? Lei, spesso, quando ha parlato della politica, ha parlato della sua fatica, la fatica di dover comunicare, di dover parlare, di dover incontrare persone, eccetera. Per esempio, lei ha scritto di avere una grande ammirazione per le persone che sanno parlare a tantissime altre e nella sua vita le è capitato spesso di incontrarne e di essere lei stesso una di queste persone. Questo piacere o questa fatica della politica, le sembra siano state raccontate in un film?
«Mi pare proprio di no. Ho parlato da qualche parte di qualcosa che sembra un dato molto esteriore della politica: il comizio. Tu sali su un palco, hai dinanzi, come ce le ho avute io molte volte, la piazza piena di gente, a volte strapiena di gente. E un po´ una sceneggiata, un atto teatrale. I saluti, la presentazione, gli evviva, le bandiere. Tutto questo, però, è come l´involucro. Poi comincia invece una cosa molto più difficile e più profonda: tu che stai là sopra, riuscirai a comunicare veramente, cioè a interessare quelle persone, che a volte sono migliaia, a volte sono molte migliaia, molto diverse, grandi, piccoli, bambini? Lo scopri solo se c´è un momento, del comizio, del tuo discorso, in cui senti che ti puoi fermare, senza nemmeno finire la frase. Ti fermi e t´accorgi che la piazza non si muove perché aspetta il seguito della tua frase. Se in quel momento t´accorgi che ti puoi fermare, bere un bicchier d´acqua, soffiarti il naso o non fare nulla e la piazza sta ferma a sentire, allora vuol dire che s´è creato un filo, una comunicazione, un legame tanto forte quanto impalpabile tra te e la massa di persone che ti stanno ad ascoltare».
Un po´ come al cinema
«Eh, forse».
E' l'estate del 1984, è mattina, nell'atrio in ombra d'una vecchia casa di Lenola, appoggiata sui dossi del basso Lazio che nascondono il mare di Sperlonga. Due uomini sono intenti al loro lavoro, senza parlare. Il più anziano è seduto su una poltrona, corregge delle bozze, ogni tanto alza un braccio dietro la testa, pensieroso, un gesto abituale. Davanti a lui su un cavalletto, che come la poltrona non cambia posto per tre mesi, un uomo più giovane lo ritrae su grandi fogli di carta spessa, due metri per tre. Nell'atrio pochi passano, fuori la calura sale. A mezzogiorno i due deporranno fogli e colori e scenderanno al mare, che non è proprio a tre passi. Steso sulla sedia a sdraio o sulla sabbia l'uno, l'altro lo segue e annota su un taccuino i gesti del riposo, a ciascuno peculiari, smemorati, fuori dal tempo. Ma per la posa, se tale si può chiamare una lunga osservazione sul modo di trasformare in immagini la persona che legge davanti a sé, sono le ore tranquille del mattino. Dieci (o undici?) di questi grandi cartoni del 1984 sono esposti qui per la prima volta, a venti anni da quelle mattinate. L'uomo ritratto è Pietro Ingrao, allora era alla soglia dei settanta anni, ancora giovane e teso, conchiuso in se stesso. Sembra colto in un passaggio. Alle sue spalle oltre quaranta anni al vertice del Partito comunista italiano e prima nella Resistenza, poi all' Unità, poi in segreteria, poi alla presidenza della Camera (dove anche vive per essere più vicino al lavoro ma in pochi spazi e imbarazzato di farsi servire, soltanto la domenica uno sciame di nipotini corre strepitando nelle brutte sale dorate). Battuta tutta Italia fra riunioni e comizi, si porta più facilmente in una fabbrica che non si fermi con la stampa di Montecitorio. L'estate torna a Lenola (...). Il fascino che esercita su migliaia e migliaia di militanti viene dall'essere il dirigente che più ascolta, quello che più si interroga, più problematizza e assieme il più assolutamente sicuro. Bello è ascoltarlo in una sala e in una piazza o in un congresso, perché dirà qualcosa che nessun altro ha detto, andrà più a fondo, indicherà una frontiera, avanzerà nella critica - simile a una marea che ritirandosi lascerà le sabbie più feconde, ma il litorale intatto. Una sola volta, all'XI Congresso, l'onda Ingrao s'è alzata troppo e fin la base più adorante si è spaventata e ha lasciato che si rovesciasse contro di lui. Ma sono passati quasi venti anni. Se ne ha patito, non lo dirà. Ingrao è l'alterità e la fedeltà, ben strette assieme, è tutto del suo partito, pretesa ingenua e crudele. Ingrao è un comunista e non muterà, questo è sicuro ma da quella estate in poi si concederà di scrivere anche per sé e in suo solo nome (...).
Enrico Berlinguer è mancato un mese prima, stroncato da un male su un podio di Padova, mentre parlava di un referendum che si sarebbe perduto, ma non ha avuto il tempo di percepirlo. Il futuro del Pci è più incerto. Quell'estate Ingrao non può immaginare quanto. Il decennio che ha davanti e dovrebbe essere lo sfondo di una acquietata maturità, cova veleni. Dal 1984 al 1994 al 2004 precipitano le perdite, anche dei privati affetti, e quelle pubbliche rinviano a domande raggelanti: crolla il Muro di Berlino, e poi l'Unione Sovietica, e poi i partiti comunisti, poi quello italiano cambia nome e non solo, e tutto questo nel rivelarsi d'una putrescenza nazionale nella quale sprofonda la prima repubblica. Ingrao tenterà di sbarrare la svolta del Partito in un congresso che perderà, esiterà a lungo davanti alla prospettiva di separarsene prima che accada il peggio. Ma il peggio arriva con la guerra, la guerra che torna, era impensabile. Ingrao getta se stesso fra la guerra del Golfo e la tentazione del partito di aderirvi. E infatti frena. Ma è l'ultima volta che lo fa. Da un partito cambiato in radice uscirà poco dopo, e solo (...).
In questi ritratti Alberto Olivetti traduce un Pietro Ingrao in concentrazione, sospensione, dubbio. Stati della mente e del cuore, curioso «vero». Concentrata è l'immobilità della testa, il suo solido stare sulle spalle. Non distratta dai lineamenti del volto (salvo in un caso, più giovane e come imbronciato), nascosto e rivelato da un tessuto di colori congiunti e cangianti, stesi a pennellate fini che sembrano un andare e tornare su di sé. Concentrazione è l'imporsi di quel cranio, assolutamente il marchio Ingrao, come un nodo cui è appeso il tutto il resto. Perché sospeso è quel riposo del corpo quanto il cranio è immobile e concentrato, il pittore lo fa fluire con assoluta libertà e lo configura in molti modi - ora è una benevola divinità fluviale e muschiosa di verde con la mano che si perde lontano, ora è il nervoso raccogliersi su se stesso d'un corpo giovane come un anemone di mare violetto, ora si proietta fuori da sé in un gesto subitaneo e fissato, ora si stende e contorce in una sagoma nera e frastagliata. Il colore è sempre puro, pulito. Concentrazione e sospensione sono la forma di una umana medusa che si estende e ritrae «in presenza» del pittore e della sua mano. Mentre il dubbio folgora nell'apparire d'un occhio, anzi di un'orbita fosforescente che ti inchioda. Perché il dubbio di Ingrao non è una fuga agevole dal mondo, come perlopiù praticato oggi, è una domanda lancinante sul come starci. Dubbio è anche solitudine, e sola è la figura che campeggia in tutti i ritratti, senza sfondi, senza parlare che con sé e in un vuoto. Sono raramente quiete, queste immagini di momenti di quiete. Questa inquietudine, quella di un agire sempre interrogandosi e di un interrogarsi sempre per agire, è il segno che in molti di noi Pietro Ingrao ha lasciato una volta per sempre. Lo «spazio della pittura» di Alberto Olivetti è, stavolta, questo.