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L'articolo di Asor Rosa sul manifesto del 17 novembre merita non solo di essere ripreso, ma dovrebbe dare avvio a una discussione generale che ponga al centro i caratteri del nuovo ambientalismo e i problemi generali del territorio italiano. Quello che Asor Rosa definisce nuovo ambientalismo è l'arcipelago frastagliato dei comitati e movimenti che in tutti questi anni sono nati a livello locale per contrastare iniziative, centralistiche per lo più ( ma non solo) mirate, ad esempio, alla privatizzazione dell'acqua, o destinate a sconvolgere gli assetti ambientali di vaste aree, o a minacciare la salute degli abitanti. Di queste centinaia di esperienze – che qui non si possono enumerare – credo che il nuovo evocato da Asor Rosa consista essenzialmente in due fenomeni tra loro intrecciati. Il primo attiene alla modalità delle lotte e alla loro organizzazione. In quasi tutti i comitati di cui parliamo – da quello contro la centrale a carbone di Civitavecchia alla “comunità” No-Tav della Val di Susa, per intenderci – il movimento, nato dal basso, da gruppi di cittadini e associazioni, si è organizzato in forme di democrazia deliberativa che hanno inaugurato un modo originale di fare politica.Presidi territoriali in cui i cittadini sono diventati attori autonomi di una prolungata resistenza. Su questo punto, io credo, qualcuno dei protagonisti dovrebbe intervenire e dar conto di successi e problemi. La seconda novità consiste nel ruolo che competenze scientifiche, spesso di alto livello, hanno svolto nell'individuare le minacce ambientali ed anche , spesso, nell'indicare soluzioni alternative possibili. Queste competenze, che si sono messe al servizio dei cittadini organizzati, rappresentano una forma nuova di rapporto tra sapere e politica, tra professioni e democrazia, che meriterebbero una focalizzazione meno occasionale di quanto non si sia fatto. Ma il nuovo ambientalismo, dovrebbe anche caratterizzarsi per qualcos'altro. A mio avviso, dovrebbe oggi fornire una dimensione nazionale alle esperienze e modalità locali e al tempo stesso farsi promotore di un progetto generale di un nuovo modo di utilizzare e vivere nel territorio italiano.

Partiamo dalla configurazione fisica della nostra Penisola. Se noi escludiamo le Alpi, possiamo osservare che la gran parte del territorio abitato è costituito da aree altamente instabili. La Pianura padana è l'enorme catino in cui confluisce la moltitudine dei fiumi alpini, formando il più complesso e intricato sistema idrografico d'Europa. L'ordine di questa pianura è il risultato di opere secolari di bonifiche e regimazioni delle acque da parte delle popolazioni. «Un immenso deposito di fatiche», la definiva Cattaneo, ora densamente abitata e gremita di costruzioni. Quest'area, dove è insediata tanta parte della nostra economia, non è assolutamente al sicuro dai fenomeni atmosferici estremi che ci attendono nei prossimi anni. Com' è noto, stagioni di grande caldo e siccità ed altre fredde o intensamente piovose sono destinate a scandire l'ordine metereologico del nostro incerto avvenire. In Pianura padana ci sono vaste aree sotto il livello del mare, che vengono tenute artificialmente asciutte grazie all'opera di gigantesche macchine idrovore. Il Po, nonostante il saccheggio delle sue acque, ha mostrato negli ultimi anni le esondazioni di cui è capace sotto l'azione di piogge intense. E abbiamo appena visto di che cosa sono capaci anche fiumi minori, come il Bacchiglione.

Ma se noi osserviamo l'intero stivale cogliamo un' altra caratteristica saliente del nostro paesaggio fisico. Una ininterrotta dorsale montuosa, l'Appennino, attraversa l'Italia e continua anche in Sicilia. Come ben sapevano già ingegneri idraulici dell'800, l'Appennino è la chiave di volta dell'equilibrio dell'Italia peninsulare. Le acque e i potenti fenomeni che modellano continuamente i due versanti, tendono a trascinare materiali a valle e ad interrare le aree sottostanti. In una parola, l'Appennino e le alture pedemontane tendono a franare per necessità naturale. Non a caso almeno il 45% dei comuni italiani risulta interessato da fenomeni franosi di varia gravità. Orbene, tale discesa verso valle è stata per secoli controllata e filtrata dall'opera delle popolazioni contadine. Queste oggi sono scomparse. Ma nel frattempo ben oltre il 66% della popolazione italiana si è insediata lungo la fascia costiera dello stivale. E qui si concentrano non solo gli abitati, ma le attività produttive, le infrastrutture, i servizi.

Ebbene, è evidente che all'interno di un territorio di così singolare e complessa fragilità, negli ultimi decenni gli italiani hanno operato - con le loro scelte localizzative, con le loro costruzioni, con gli abbandoni delle aree interne – per creare una condizione futura di altissimo rischio e di certissimo danno. Tutto è stato fatto in modo che in condizione di prolungata piovosità, nel catino della Valle padana o ai margini collinari e pianeggianti dell'Appennino, l'acqua possa produrre alluvioni e frane di eccezionale gravità. Si è operato cioé perché la ricchezza accumulata in decenni di fatica e di investimenti possa essere distrutta in pochi giorni per effetto di eventi eccezionali che si prevedono sempre più frequenti. Così, anche nell'impronta antropica sul nostro territorio, è possibile vedere gli esiti che la libertà sbandierata da un ceto politico famelico e privo di qualunque cultura hanno predisposto per il presente e per l'avvenire dei nostri figli.

Ora, solo avendo bene in mente questo quadro, si può comprendere come, in Italia, la cementificazione di un solo metro quadrato costituisca oggi la sottrazione di un bene comune raro e rappresenti la predisposizione di un danno certo. Il territorio verde, capace di assorbire l'acqua meteorica, dovrebbe costituire agli occhi di tutti gli italiani una risorsa preziosa, da difendere con ogni mezzo, per conservare la ricchezza nazionale storicamente insediata nel territorio. Ma sappiamo che tali perorazioni, sempre necessarie, sortiscono, tuttavia, flebili effetti.

Ciò che oggi il nuovo ambientalismo dovrebbe mostrare è che i territori interni oggi abbandonati, costituiscono aree per la diffusione di nuove economie. Non sono una diseconomia nell'età trionfante dello sviluppo. Nelle colline interne possono risorgere le agricolture tradizionali, le policolture di un tempo, che vantavano una biodiversità agricola (soprattutto di frutta) senza pari in Europa e forse nel mondo. Oggi potrebbero dar vita a produzioni di altissima qualità. Qui è possibile riprendere o sviluppare la selvicultura, producendo legname di pregio, utilizzare in modi ecologicamente compatibili, quantità immense di biomassa. Chi si ricorda, poi, che queste aree sono ricche di acqua, che possono dar luogo a svariate forme d'uso? E quanti allevamenti, ad esempio avicoli, si possono realizzare, bandendo le forme intensive convenzionali? Non dimentichiamo che il paesaggio ereditato dal passato, e che vogliamo difendere, è stato creato esattamente da forme consimili di attività produttive e uso del territorio.I bassi valori fondiari di queste aree consentono inoltre la possibilità di rimettere in sesto grandi dimore padronali, spesso in abbandono, e farne sedi di ricerca scientifica, ostelli per la nostra gioventù. Ed ovviamente un diverso e meno consumistico turismo potrebbe fare scoprire i mille «tesori sconosciuti» del nostro Appennino.

Io credo che occorrerebbe lavorare con i sindaci, le comunità montane, il sindacato, i nostri giovani, le associazioni di extracomunitari per ricreare queste nuove economie. Gli extracomunitari che oggi vengono cacciati e perseguitati potrebbero fornire un contributo prezioso alla rinascita di queste terre. E il movimento dei comitati potrebbe più operosamente cooperare con altre forze oggi in campo, da Slow Food alla Coldiretti. A tale scopo, ovviamente, è necessario intervenire tanto a livello locale quanto nazionale ed europeo. E' ora di finirla, e per sempre, con la teoria neoliberista, finita nell'ignominia di una crisi senza sbocchi, secondo cui lo stato deve limitarsi ad arbitrare le regole del gioco. Lo stato, parte del gioco, deve piegare le regole a vantaggio del bene comune. Il libero mercato porta a rendere convenientissimo trasformare i terreni agricoli in abitazioni o centri commerciali. Ma per la generalità dei cittadini italiani tale convenienza costituisce una perdita netta e drammatica, opera per il danno certo della presente e delle prossime generazioni. Qui si vede come il mercato è vantaggio immediato e provvisorio per pochi e danno futuro e durevole per tutti. Se lo lasciamo alla sua «libertà» nel giro di un ventennio non avremo più suoli agricoli. E qui si dovrà combattere una battaglia di valore universale, di cui l'Italia, il Bel Paese, può costituire l'avanguardia. Occorrono nuove leggi, imposte dai cittadini, all'Italia e all'Europa, che rappresentino finalmente di nuovo l'interesse generale, che seppelliscano per sempre l'infausta stagione di un diritto pensato per la libertà delle merci e per gli appetiti disordinati e devastatori dei poteri dominanti.

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L'articolo di Piero Bevilacqua uscirà anche sul manifesto

Ci sono almeno due buone ragioni per sostenere la proposta avanzata da Carlo Petrini su Repubblica del 18 gennaio ( in consonanza con quanto scriveva Paolo Berdini sul manifesto) nella quale il presidente di Slow Food invoca una moratoria generale nel consumo di suolo in Italia. La prima di questa riguarda la natura del fenomeno. La distruzione del territorio, la cementificazione del suolo agricolo è un fenomeno pressoché irreversibile. Una volta ricoperto di alsfalto o di manufatti quel territorio sarà perduto all'agricoltura e all'ambiente chissà per quante generazioni. Non è la stessa cosa per altri fenomeni. I colpi inferti all'Università pubblica in questo ultimo decennio, ad esempio, e lo stesso ddl della Gelmini, possono essere sanati, anche in tempi relativamente brevi, se uno schieramento politico democratico cancellerà, con una iniziativa legislativa, questa pagina infausta della nostra storia recente. La partita che si gioca sul territorio ha un'ampiezza temporale che trascende la nostra vita. Petrini spiega bene le ragioni profonde di questa difesa. Il manifesto del 28.11.2010 ha dedicato ampio spazio al tema, sotto la sigla del “nuovo ambientalismo” introdotto da Asor Rosa e Viale. Ma occorre ritornare sull'argomento.

E' noto che gli economisti di tutte le fedi e tendenze, vedono nell'industria delle costruzioni il cosiddetto “ volano” “per fa ripartire la crescita”, come se la presente crisi fosse una “congiuntura” qualsiasi. Quindi, oggi incombe sul nostro territorio una minaccia supplementare. Ebbene, io credo che occorre battere questa argomentazione sul suo stesso terreno. Essa è infatti figlia dell'attuale capitalismo del breve termine, che guarda all'immediato, a quello che potrà incassare domani o dopodomani, senza nessuna considerazione non dico dell'avvenire, ma di quello che accadrà fra 5-10 anni. Anche se i suoi menestrelli non fanno che inneggiare al grande futuro della modernità che ci attende. Agli economisti e ai costruttori si può ricordare che il restauro delle nostre città, il rifacimento di tante nostre desolate periferie, potrebbero costituire opportunità di investimento senza consumare altro suolo. Non minori occasioni potrebbero offrire oggi le piccole opere, destinate a bonificare e riparare gli innumerevoli habitat devastati della Penisola.

Ebbene, ciò che occorre dire con chiarezza, sul piano strettamente economico, è che una tendenza inarrestabile dall'industria manifatturiera è quella di produrre merci con sempre meno valore. L'aumento crescente della produttività, l'entrata in scena sul mercato mondiale dell'industria cinese e asiatiche, del Brasile, fra poco dell' India, stanno già producendo un effetto ben noto: la riduzione del fenomeno della scarsità che dà valore alle merci. I capi di abbigliamento che ormai si possono comprare sulle bancarelle anche a pochi euro testimoniano di questa realtà già in atto. Certo, l'industria innoverà continuamente i suoi prodotti, per creare una scarsità artificiale, ma un oceano di merci invendute dilagherà intorno a noi a prezzi popolari. E' questo il destino della produzione manifatturiera nei prossimi anni: inseguire una novità, una unicità di prodotto nel mare delle merci standardizzate con sempre meno valore.

Esattamente per questa ragione, in Italia, dovremmo guardare al nostro territorio come a un patrimonio destinato a vedere crescere esponenzialmente il suo valore: valore che nella nostra epoca tenderà sempre più a rifugiarsi nei servizi e nei beni industrialmente non riproducibili. Il pregio del territorio da noi è già elevato per ragioni demografiche e per le devastazioni accumulate, in certi casi è unico per ragioni naturali, storiche ed estetiche, ma diventerà ben presto inestimabile per via della domanda mondiale che ne farà richiesta. Milioni di nuovi ricchi, russi, cinesi, brasiliani, ecc vorranno ben presto possedere una villa sulle Langhe, in Val d'Orcia, nelle Cinque terre, sul Lago di Como, vicino ai templi di Paestum o di Agrigento, per passarvi una settimana l'anno o per godersi una dorata vecchiaia. Ma verranno in Italia anche per poter godere dei nostri formaggi, del sapore della nostra frutta, per l'eccellenza dei nostri vini, per la straordinaria varietà delle nostre cucine locali. Vale a dire, ci chiederanno tutto ciò che è frutto del nostro suolo agricolo, quello che noi continuiamo a distruggere per alimentare lo sviluppo.

E' evidente, dunque, che abbiamo di fronte una grave minaccia, ma anche una grande opportunità. Il nostro suolo diventa sempre più prezioso e occorre pensare a forme collettive di accoglienza per chi ne fa domanda. Ma dobbiamo trovare forme concertate di decisione democratica del suo uso – non solo a livello locale - per rispondere a una così vasta ed elevata pressione. Altrimenti, nel giro di qualche decennio, tutto sarà compromesso e forse perduto.

La seconda ragione per sostenere la proposta di Petrini riguarda la modalità del fare oggi politica. Su questo punto occorrerà ritornare con altra lena. Ma intanto chiediamoci: che cosa possono fare in positivo le tante organizzazioni attive oggi nei territori del nostro Paese, spesso protagoniste di esperienze di vera democrazia partecipata a livello comunale? Come superare la drammatica separatezza che domina la scena italiana: tra la straordinaria, benché frantumata e dispersa, conflittualità sociale e la sua rappresentazione e voce nel cuore dello Stato? Oggi non possiamo contare su un partito d'opposizione, che non solo non riesce a svolgere la sua funzione istituzionale, ma non possiede nè la cultura, né l'orizzonte progettuale per questo genere di problemi. Occorre allora pensare a strumenti sempre più mirati di pratica politica, in cui dalla società si entra direttamente nelle istituzioni, mirando a trasformare i bisogni popolari e le ragioni delle lotte in leggi generali cogenti per tutti. Quel che oggi infatti occorre aggiungere alla vasta e dispersa sinistra sociale disseminata nei territori, o divisa in varie istituzioni, è la capacità di percorrere il tratto finale del conflitto politico: vale a dire la capacità di imporre scelte di governo. La mobilitazione per l'acqua pubblica, ad esempio, va esattamente in tale direzione. Certo, non sempre si presentano situazioni e possibilità così limpide per far valere lo strumento referendario. Ma occorre rammentare che la nostra Costituzione prevede la legge di iniziativa popolare: uno strumento che gli esperti dovrebbero aiutarci a utilizzare anche per la salvezza del nostro territorio: bene comune per eccellenza. E' vero che a valle si troverà poi la strozzatura di un Parlamento indifferente o apertamente ostile. Ma non bisogna dimenticare che le lotte così finalizzate hanno il merito di unificare le forze, di radunare conflitti e speranze sotto un orizzonte comune. E al tempo stesso schiudono tra le masse popolari e il ceto politico di governo divaricazioni sempre più nette e alla lunga insostenibili.

WWW.AMIGI.IT. Questo articolo è stato inviato contemporaneamete al manifesto

Per comprendere meglio ciò che accade a Mirafiori e a Pomigliano è necessario affondare lo sguardo nelle tendenze storiche che muovono il capitalismo del nostro tempo. E bisogna scomodare Marx. Egli aveva colto come “legge fondamentale dell'accumulazione capitalistica” una tendenza già evidente ai suoi tempi e oggi conclamata : «Dato che la massa di lavoro vivo impiegato diminuisce costantemente in rapporto alla massa di lavoro oggettivato da essa messo in movimento (cioé ai mezzi di produzione...) anche la parte di questo lavoro vivo che non è pagato e si oggettiva nel plusvalore, dovrà essere in proporzione costantemente decrescente rispetto al valore del capitale complessivo impiegato”. Nel corso del suo sviluppo, dunque, il capitalismo riduce costantemente la quota di lavoro per unità di prodotto, cercando di sfuggire alla caduta tendenziale del saggio di profitto e di sostenere la competizione. Quella competizione che oggi esso stesso si fa delocalizzando parte delle sue imprese nei paesi a bassi salari.

Ma il capitale che espelle lavoro cerca di sfruttare più intensivamente quello che impiega, perché più ridotta diventa nel frattempo la quota da cui può estrarre plusvalore. André Gorz ha riassunto lapidariamente questa attuale contraddizione del capitale in cui i lavoratori vengono stritolati: «più la quantità di lavoro per una produzione data diminuisce, più il valore prodotto per lavoratore – la sua produttività – deve aumentare affinché la massa del profitto realizzabile non diminuisca. Si ha dunque questo apparente paradosso per cui più la produttività aumenta, più è necessario che aumenti ancora per evitare che il volume del profitto diminuisca. La corsa alla produttività tende così ad accelerarsi, gli impiegati effettivi a essere ridotti, la pressione sul personale a inasprirsi, il livello e la massa dei salariati a diminuire». E in questa morsa oggi, letteralmente, si soffoca. Chi ha la pazienza di leggersi la grande inchiesta della Fiom del 2008, condotta su un questionario cui hanno risposto 100 mila lavoratrici e lavoratori, può farsene un'idea.

Siamo dunque giunti a una fase storica nella quale o noi costringiamo il capitalismo a cambiare il suo modello di accumulazione, o esso trascinerà l'intera società industriale nella barbarie. Non è un'espressione di maniera. Non è uno slogan. Chi oggi, anche in buona fede, difende il nuovo contratto imposto da Marchionne, crede che tale cedimento sia accettabile come un compromesso temporaneo, dovuto alla drammatica crisi in atto e ai vincoli della competizione mondiale. E' un gravissimo errore. Questa idea fa parte di una campagna pubblicitaria che punta a far arretrare ulteriormente i rapporti di classe con un argomento puramente propagandistico: oggi occorre tirare la cinghia per poter ritornare allo splendore di prima. Ma prima il cielo era davvero così splendido? Che questa sia una menzogna è possibile illustrarlo , non per congettura, ma con una semplice analisi storica, quindi con fatti scientificamente verificabili.

Prima della crisi, vale a dire nel 2000, nei Paesi dell'OCSE si contavano 35 milioni di lavoratori disoccupati. Come ha ripetutamente illustrato Luciano Gallino i nuovi posti di lavoro che si sono creati in Europa sono stati in gran parte a tempo determinato e precari. Negli USA, non solo i nuovi posti di lavoro – per lo più nei servizi e con ampio utilizzo part- time di donne – sono stati ufficialmente gonfiati dal sistema di rilevazione statistica: anche una settimana di lavoro poteva fare un impiego annuale nelle stime generali sull'occupazione. Ma in quegli anni sparivano dalle statistiche oltre 2 milioni di persone “occupate” nelle carceri di Stato ( e in quelle private). E qualche hanno fa abbiamo scoperto che tra il 1973 e il 2005 il reddito dei lavoratori «è lievemente diminuito». Ma sul Paese più ricco del mondo, epicentro della crisi mondiale, voglio aggiungere due dati che persuaderanno il lettore di ciò che voglio dire. Nel 1995 il numero dei bambini che risultavano al di sotto della linea ufficiale di povertà assommavano al 26, 3% , quasi alla pari con la Russia di Yeltsin (26,6%), allora in vendita ai predoni di tutto il mondo e in mano alle mafie locali. In tale statistica – elaborata da un'inchiesta comparativa su 25 paesi - figuravano al 3° e 4° posto il Regno Unito (21,3%) e l'Italia (21,2), vale a dire i paesi che con maggior zelo hanno applicato il verbo e i dettami del pensiero neoliberistico.E sempre per restare negli USA , ricordo che già nel 1990 , la National Association of State Board of Education aveva dichiarato senza mezzi termini: «Mai prima una generazione di teenagers americani è stata meno sana, meno curata, meno preparata per la vita di quanto lo fossero i loro genitori alla stessa età».

Potremmo continuare con altri dati e analisi. Ma ciò che qui è sufficiente ricordare è che gia prima della crisi il capitale aveva saccheggiato il lavoro salariato e i redditi dei ceti medi senza risolvere il drammatico problema della disoccupazione e diffondendo la precarietà. In Italia, dopo decenni di asservimento del ceto politico, di centro-sinistra e di centro-destra alle ragioni dell'impresa, è andata anche peggio. Nell' utilizzare il termine asservimento, non mi riferisco solo alle vendite del patrimonio pubblico, alla liberalizzazione di tanti servizi municipali. In questo caso penso , specificamente, alla deliberata volontà di scaricare sul lavoro i rischi dell'impresa, rendendo il lavoratore flessibilmente subordinato alle sue necessità. Dalla Legge Treu del 1997, alla Legge 30 del 2003 , il capitalismo italiano ha potuto godere di condizioni di generosa disponibilità nell'uso della forza lavoro. Con quale esito? Mi è sufficiente sintetizzare i risultati di tale geniale strategia con un bilancio recente (2008) del Governatore della Banca d'Italia: «Negli ultimi vent'anni la nostra è stata una storia di produttività stagnante, bassi investimenti, bassi salari, bassi consumi, tasse alte». Ma aggiungo: alte tasse relativamente più gravose per gli operai che – secondo un'indagine IRES – tra il 2002 e il 2008 hanno lasciato al fisco, mediamente, 1.182 euro delle loro misere paghe. E per finire, sempre dati Banca d'Italia 2008, la metà più povera della popolazione possedeva il 10% della ricchezza nazionale, mentre il 10 di quella più ricca deteneva il 44%.

E allora torniamo alla Fiat, agli operai, ai partiti politici. Quanto abbiamo ricordato significa innanzi tutto una cosa: la politica moderata del centro-sinistra, che ha attuato – non diversamente dal centro-destra - le ricette neoliberiste, non è minimamente servita a difendere i ceti operai, anzi li ulteriormente impoveriti. Non ha ottenuto maggiori investimenti da parte delle imprese, ha contribuito a fare arretrare il paese nel suo complesso. Ma significa anche che continuare su questa linea fallimentare, con l'idea di “uscire dalla crisi” secondo la ricetta moderata, costituirà una sciagura di portata incalcolabile per le masse popolari e per tutta la società industriale italiana. Il tracollo economico in cui siamo immersi non è la solita crisi ciclica. Altrimenti non avremmo avuto così tanta disoccupazione e povertà prima che essa esplodesse. Nelle fasi alte del ciclo - come sappiamo dalla lunga storia storia dei tracolli capitalistici - crescono ricchezza e occupazione. Noi abbiamo avuto soltanto la bolla finanziaria, cresciuta sul debito. La “crisi” di questi anni è il risultato di un gigantesco saccheggio di reddito che il capitale ha compiuto in una fase storica di debolezza del suo avversario di classe e del movimento operaio organizzato. Perciò dal presente imballo sistemico non si esce se non attraverso una altrettanto gigantesca opera di redistribuzione della ricchezza.

Un compito di ampia portata ne siamo consapevoli. Ma bisognerebbe innanzitutto incominciare a dichiararlo. Poi predisporre le forze. Perché oggi, per essere all'altezza delle sfide, bisogna mettere in piedi un fronte di conflitto sociale di non comune ampiezza. Il comportamento “moderato” di tanti dirigenti del PD, sostanzialmente favorevoli ad accettare la strategia di Marchionne è a mio avviso un fatto drammatico, che impone una presa d'atto di tutte le persone che militano oggi nella sinistra.

Il Pd : «un amalgama malriuscito» è stato definito da chi si intende della materia, avendo ridotto la politica all'arte di “amalgamare” capi partito. Credo che sia stato qualcosa di ben più grave. La scelta veltroniana del bipartitismo perfetto rivela una lettura di retroguardia delle tendenze politiche mondiali. Laddove esso è stato storicamente dominante ( USA e UK) oggi appare come una barriera all'esercizio della democrazia. Gli scienziati della politica hanno coniato in proposito il termine di cartel party, cartello di partiti, per indicare questo assetto di duopolio, che emargina le voci e le culture politiche dissenzienti e realizza invariabilmente le medesime politiche alternandosi alla guida degli esecutivi.

Ma è la scelta di equidistanza tra le classi, il moderatismo sociale che oggi fa del PD – sia detto con tutta la responsabilità che l'argomento e il momento richiede – un partito inservibile. Esso ha privato la società italiana di una opposizione che portasse i bisogni del paese dentro il Parlamento. Qualcuno dei lettori ha mai sentito D'Alema, Veltroni, Bersani parlare, poniamo, di legge urbanistica e di problemi della città, di assetto del territorio, di riscaldamento climatico, di agricoltura biologica, di ritmi di lavoro e di sfruttamento in fabbrica, di beni comuni ? Non aggiungo nell'elenco precarietà e disoccupazione, perché sono presenti nel loro vocabolario, ma come slogan privi di qualunque contenuto. Mi permetto di continuare con le domande. Quanto la sfida che Marchionne ha lanciato alla Fiom e alla classe operaia di Pomigliano e di Torino si fonda sul calcolo di un'opposizione benevola di tanta parte del PD? E infine una questione generale, relativa alla vita politica italiana recente: quanto il dilagare della Lega nelle zone operaie del Nord, quanto la permanenza del potere berlusconiano, anche in queste ultime settimane, dipende direttamente dall'assoluta incapacità del PD - culturale ancor prima che politica - di rappresentare gli interessi delle masse popolari, di offrire agli italiani un progetto e almeno un'immagine diversa di società?

Il moderatismo politico non è oggi una scelta di prudenza, di politica dei piccoli passi. Non è la moderazione, piuttosto è un galleggiamento sull'esistente. Ma l'esistente, dominato oggi da forze predatorie, non rimane fermo, tanto meno procede verso il meglio, come del resto mostra tutto lo scenario che abbiamo intorno a noi. Si indietreggia lentamente sul terreno sociale, dei diritti, della democrazia. In una fase storica in cui solo la ripresa del conflitto può ridare equilibrio alla macchina economica e alla società, significato e forza alla politica, i partiti moderati sono inservibili. Sono oligarchie parassitarie. Danno ospitalità permanente a professionisti che vivono di politica. E dobbiamo amaramente concludere: a che serve un PD che crede di uscire dalla situazione in cui siamo precipitati replicando la politica che ci ha condotti sino a questo punto?

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Questo articolo è stato inviato contemporaneamete al manifesto

Le lotte studentesche esplose in Europa negli ultimi mesi, legate ad occasioni contingenti – come le proteste contro l'aumento delle rette nel Regno Unito o quelle contro il ddl Gelmini in Italia – meritano una riflessione di portata più generale. Un rapido sguardo storico ci mette innanzi tutto sull'avviso di un fenomeno di ampia portata: la crescita costante della popolazione studentesca universitaria nell'ultimo mezzo secolo. In Italia gli studenti universitari erano 402 mila nel 1965-66, raggiungono la cifra di 1 milione e 685 mila nel 1995- 96, si attestano a poco meno di 1 milione e 800 mila nel 2009-10. Spettacolare è anche la crescita degli scritti nel Regno Unito che tra il 1980 e il 2002 passano da poco più di 800 mila a oltre 2 milioni. Crescita proseguita fino a oggi. Nello stesso ventennio, nell'Europa a 15, essi più che raddoppiano , passando da 6 milioni e mezzo a 13 milioni e mezzo.

A che cosa si deve una tendenza sociale e culturale così evidente e negli ultimi decenni così accelerata? Senza dubbio essa è figlia dello sviluppo “generale delle forze produttive”, direbbe Marx. Le società industriali e postindustriali reclamano in maniera crescente forza-lavoro dotata di formazione superiore, in grado di soddisfare i bisogni produttivi e di creazione di servizi che il capitalismo richiede in questa fase di tarda maturità. Ma questa è solo una una faccia del processo.

Il crescente numero di ragazzi che prosegue gli studi iscrivendosi all'Università è figlio di un altro fenomeno: la sempre più accentuata disoccupazione giovanile e il tentativo di sfuggirla e di sottrarsi a un lavoro subalterno e precario grazie a una più elevata formazione. L'ideologia della competizione, nuova religione della nostra vita quotidiana, fa il resto. Com' è noto a livello generale, e come ha mostrato per l'Italia Livi Bacci ( Avanti giovani, alla riscossa, 2008), l'ingresso dei ragazzi nel mondo del lavoro si è spostato, significativamente, sempre più in avanti. Parlo di un fenomeno ormai storico, che dura cioé da due-tre decenni.

A tal proposito va ricordato quanto sia infondato il tentativo di molti commentatori di spiegare tutte le difficoltà del capitalismo attuale con la crisi in corso.Il loro sforzo apologetico di convincerci a tirare momentaneamente la cinghia, in attesa del luminoso avvenire che sta dietro l'angolo, ha lo scopo di farci accettare il vecchio modello di accumulazione oggi a pezzi.Ma quel modello, dal punto di vista della capacità di creare lavoro, era in rotta da tempo. Nel 2000, quindi 8 anni prima della Grande Crisi del nuovo millennio, nei 30 paesi dell'OCSE si contavano ben 35 milioni di disoccupati ufficiali. Creare pochi posti di lavoro e crearli precari è una tendenza ormai sistemica del capitalismo del tempo presente.

Ora, a partire dalla Processo di Bologna (1999) i gruppi dirigenti dell'UE hanno avviato un progetto di razionalizzazione degli studi universitari, tendente a uniformare a livello continentale procedure e forme di valutazione, ma con un intento strategico che apparirà evidente in seguito: staccare l'istituzione universitaria dall'ambito del welfare per trascinarla nell'agone del mercato. Da allora e in maniera sempre più evidente negli ultimi anni, gli sforzi dei riformatori si è indirizzato a fare dell'Università del Vecchio Continente una New Public Company, vale a dire una azienda pubblica, gestita secondo stretti criteri di economicità e di profitto. Una impresa come le altre in un mondo di imprese. Gli studenti, trasformati in clienti, dovevano pagare in maniera economicamente soddisfacente per sostenere l' offerta formativa di cui facevano domanda. Domanda e offerta si dovevano incontrare. E anche la formazione, dentro le aule delle Facoltà, doveva assumere la forma di prestazioni standardizzate sottoposte a valutazioni misurabili con crediti, secondo il nuovo e glorioso linguaggio bancario. E naturalmente gli studenti sono stati invitati a competere tra di loro. Così come le Facoltà e le Università, spinte a conquistarsi gli studenti-clienti con adeguate campagne pubblicitarie.

Quanto è avvenuto nelle Università inglesi illumina di chiarezza solare fino a che punto si è spinto il processo di aziendalizzazione degli studi, ma anche di mercificazione della vita. L'aumento delle rette fino a 9000 sterline l'anno – a parte i costi per vivere - che verranno anticipate agli studenti dallo stato sotto forma di crediti (secondo il modello USA) determinano un mutamento drammatico nella condizione di tantissimi giovani. Essi sono costretti a indebitarsi seriamente fino al conseguimento della laurea, senza nessuna certezza della riuscita finale. A parte l'ipoteca del debito che graverà per anni sulle loro spalle, da sostenere per lo più con lavori incerti e precari, non può certo sfuggire la novità che fa davvero epoca: gli studenti sono costretti ad assumersi precocemente dei rischi d'impresa. Da giovani in formazione si trasformano in imprenditori che investono nel proprio curriculum, ipotecando il proprio immediato futuro. Il neoliberismo mostra gli ultimi cascami del suo delirio economicista, mentre estende ulteriormente gli spazi sociali dell'indebitamento. Ma per questa strada infila un cuneo di disuguaglianza nella massa dei giovani e completa un processo ormai evidente degli ultimi anni: l'emarginazione sempre più conclamata dei ceti medi. Fenomeno di paradossale inversione nella storia del capitalismo contemporaneo.

Ora, io credo che l'attuale pressione sia economica che di ordinamenti indirizzata contro l'Università pubblica in Europa ( ma anche in USA, come mostra un'ampia letteratura) risponda a molteplici logiche. Avere una massa crescente di giovani laureati costituisce un vantaggio evidente per gli attuali gruppi dominanti. Da questa si possono selezionare più agevolmente i quadri eccellenti che sono in grado di far fare un salto di qualità al processo di valorizzazione del capitale: grandi manager, scienziati, creatori di brevetti, inventori di nuovi prodotti e servizi. La retorica dell'eccellenza che domina nelle ciarle pubbliche quotidiane ubbidisce a tale specifico fine. Ma la dimensione di massa di questa nuova manovalanza intellettuale costa troppo e perciò si tende da tempo ridurla e a selezionarla. Una strada intrapresa da tempo è quella di diminuire gli spazi dei saperi umanistici. Tutto ciò che rimanda a formazione, mondo umano, sapere critico e disinteressato, in una parola cultura, va vigorosamente ridotto. E' materia non edibile, come sostiene un ministro della Repubblica italiana, dichiarando l'evidente intento del capitalismo attuale e dei sui rappresentanti di muovere ormai apertamente contro gli assetti della nostra civiltà. L'altra strada, che nell'Italia degli ultimi due anni ha conosciuto fasti inauditi, è quella di tagliare i costi generali, trasferendoli alle famiglie.

Quest'ultima necessità sembra ubbidire a realistici vincoli di bilancio e quindi difficilmente aggirabile. In realtà, si tratta di una contabilità fasulla che trasforma l'interesse capitalistico in senso comune. Addirittura in realistico buon senso, specie di questi tempi, in cui la Crisi è stata trasformata in una sorta di minaccia divina, cui chinarsi rassegnati e pazienti. Che cosa appare , invece, a uno sguardo analitico che osservi i fenomeni a un livello minimo di profondità? Come già aveva osservato Marx, la formazione scolastica e culturale di un individuo soddisfa due diverse sfere di esigenze: per un verso arricchisce spiritualmente la persona, lo emancipa dalla sua condizione naturale, lo dota di sapere per sé. Ma al tempo stesso lo predispone a servire in forme più elevate la valorizzazione del capitale. Nessuno, nella società capitalistica contemporanea, sfugge a questo compito generale. Oggi, come già nell' '800 di Marx « tutte le scienze sono catturate al servizio del capitale.”.

Ma allora non può sfuggire la ben diversa contabilità che oggi va messa in luce. Tanto le famiglie che lo stato, nell'investire in formazione, non elevano solo culturalmente le nuove generazioni. Contribuiscono potentemente alla valorizzazione del capitale, creando forza lavoro altamente qualificata per le imprese. In alcuni casi, come nelle Facoltà di Economia, con i soldi pubblici si preparano soldatini pronti alla “guerra economica” senza neppure dotarli di quella cultura che potrebbe renderli non solo tecnici della crescita, ma anche esseri pensanti. I risparmi delle famiglie e il danaro di tutti, rastrellato attraverso la fiscalità generale, va a valorizzare l'impresa economica dei privati. E solo una ristretta élite di giovani parteciperà, più tardi, al banchetto dei profitti capitalistici. Chi restituirà alle famiglie il valore in più che con i loro risparmi hanno generato per il capitale? In che misura il fisco gravante sulle imprese restituirà allo stato gli investimenti sostenuti per valorizzare la forza lavoro altamente qualificata che esse impiegano?

E' evidente dunque che il bene comune del sapere necessità oggi di una nuova contabilità. Gli oneri per la sua produzione vanno ripartiti secondo un nuovo calcolo dell'utilità generale. Gli studenti europei mostrano di aver compreso l'aspro fronte di classe in cui si inscrive oggi la loro lotta. Quando la capiranno le formazioni politiche che si richiamano alla sinistra?

www.amigi.org



L'articolo di Piero Bevilacqua uscirà anche sul manifesto

Tra il 23 e il 26 ottobre, a Teano, si svolgerà una delle più insolite manifestazioni politiche e culturali degli ultimi anni. L'occasione è la ricorrenza dei 150 anni dal famoso incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II. Un incontro assunto a simbolo dell'annessione dell'ex Regno di Napoli allo Stato sabaudo, e dunque della data di nascita dello Stato unitario italiano. Sarà perciò la prima delle celebrazioni che si susseguiranno lungo il 2011, e che con molta probabilità è destinata a restare come la meno convenzionale e politicamente più eterodossa dell'intera stagione.

A Teano prenderanno la parola gli storici, alcuni dei più prestigiosi studiosi italiani e stranieri dell'Italia contemporanea, che esporranno gli esiti dello loro più aggiornate ricerche e che tenteranno anche di fornire uno sguardo storico sulle trasformazioni recenti del nostro Paese. Serietà e severità scientifica, utili non solo come antidoto alle vulgate “revisionistiche” degli ultimi anni, ma finalizzate anche a una comprensione più profonda dei caratteri dell'Italia contemporanea. Tuttavia non si parlerà solo di storia. A Teano confluiranno le rappresentanze delle più vitali e generose associazioni che la società civile italiana é riuscita ad esprimere negli ultimi anni, da Libera all' Altra economia per intenderci, e che daranno vita a workshop tematici su problemi rilevanti del nostro tempo. All'interno di questi, per 4 giorni, una foltissima rappresentanza di studiosi di varia formazione, militanti, amministratori, sindacalisti, provenienti da ogni regione d'Italia, discuterà di acqua pubblica, beni comuni, città e territorio, energie alternative, legalità, disoccupazione e lavoro, formazione e ricerca, ecc.

Teano è dunque l'occasione per una riflessione storica non celebrativa che fa da sfondo e premessa alla rappresentazione in grande stile della nuova cultura politica che fermenta nel cuore del Paese e che non trova più rispondenza, e neppure un' eco, non solo nelle aule del Parlamento nazionale, ma neppure nelle stanze ormai vuote dei partiti. Certamente, nel comune campano si incontreranno culture, storie, persone fra loro diverse. Linguaggi e punti di vista che si confronteranno e in qualche caso, probabilmente, si scontreranno con schiettezza. Ma questo straordinario pluralismo culturale e politico si presenta con solide basi comuni: esso porta a Teano, pur nella varietà delle posizioni, la difesa delle autonomie locali e dei territori che non mette in discussione l' unità nazionale, i valori dell'accoglienza e dell'inclusione, la condanna senza se senza ma del lavoro precario, della guerra che viola la nostra Costituzione e porta morte ad altre popolazioni, rivendica la difesa e l'estensione dei beni comuni come forma di gestione che si sottrae al mercato, la tutela della legalità, la cura dell'ambiente e del paesaggio, la pratica di economie e di relazioni solidali, riafferma la centralità della scuola e dell'Università pubblica.

Potremmo dire che le giornate di discussione a Teano si presentano un po' come una metafora della sfida che una formazione politica all'altezza delle necessità presenti dovrebbe oggi in Italia assumere come proprio obiettivo storico: raccogliere la diversità di culture, economie, bisogni, storie e provenienze che sommuovono e talora lacerano il nostro Paese, ma che alimentano spesso la sua creatività, per farne la leva di un nuovo progetto di società solidale. Trasformare le sue interne diversità e differenze, l'arcipelago delle sue vitali difformità, in un superiore disegno cooperativo che ridia nuovo senso e nuove speranze allo stare insieme nella casa comune della nazione. E' forse oggi la sfida più grande che gli italiani hanno di fronte. Contro «l'egoismo territoriale» della Lega, fomite di divisione, ispiratore di un'idea rancorosa e perdente di organizzazione sociale, si può contrapporre una diversità che dialoga, che si tende la mano, che collabora nella comune sfida all'interno dell'economia-mondo del nostro tempo.

Ma Teano rappresenterà anche altro. In quei giorni nella piccola cittadina ci sarà quella che definirei l' Esposizione universale della sinistra reale del nostro Paese. Sia pure per ristrette rappresentanze, saranno all'opera le multiformi culture politiche che in tutti questi anni la sinistra non parlamentare è venuta elaborando al di fuori dei partiti, nel vivo delle vertenze, delle lotte locali, delle iniziative settoriali, sui siti della rete, sulla stampa, nei territori, nei mille comitati e associazioni in cui si è venuta esprimendo la politica dal basso in Italia. A Teano si potrà avere una idea campionaria di una sinistra del Paese, oggi priva di rappresentanza, e che il sistema maggioritario, applicato come una camicia di forza, tiene ai margini della vita politica nazionale. Ma questa Esposizione può costituire una grande occasione sperimentale. Qui si potrebbe cominciare a provare come la diversità, la varietà dei punti di vista, degli approcci, delle prospettive possa alla fine approdare a una pratica cooperativa, dare vita a un progetto comune: articolato, ma condiviso.

La stessa sfida che oggi ha di fronte l'Italia ce l'ha la sinistra. Ambedue, in passato, hanno saputo tenere insieme le diversità interne e hanno attraversato, da protagoniste, la storia contemporanea.

La sinistra non è ancora riuscita a portare la propria pratica politica all'altezza di una sfida che si è trovata di fronte negli ultimi decenni: la ricchezza critica e culturale raggiunta dagli individui nel nostro tempo. Essa è rimasta al di qua di questa soglia, che non le ha ancora consentito di approdare a una nuova epoca dell'organizzazione del conflitto. Le fedi del passato si sono dissolte e la politica, che certamente vive di passione, si pratica tramite le analisi circostanziate degli individui. E qui va accennata una verità scomoda: in passato gran parte dell'unità, del disciplinamento militante degli uomini della sinistra, era frutto anche di un atteggiamento semireligioso, di un'obbedienza passiva a dettami ideologici ridotti a catechismo. Il pluralismo delle visioni individuali oggi non consente più quella formidabile coesione ideale. Un livello sempre più avanzato di informazioni e di conoscenza critica rende arduo trovare tra gli individui la sintesi che costituisce la base della decisione, la premessa dell'azione comune. Ma qui sta il punto drammatico su cui occorre concentrare l'intelligenza di questo vasto arcipelago che è oggi la sinistra italiana. E' necessario elaborare, al più presto, una cultura dell'accordo, dell'accettazione delle decisioni prese a maggioranza, sapendo che una scelta collettiva valle mille volte la propria solitaria verità individuale. Coltivare non l'arte dell' unità – che non sarà più possibile – ma della cooperazione solidale deve diventare l'obiettivo strategico di una sinistra che esce dalla propria minorità.

Facile a dirsi, difficile a farsi. E tuttavia le innumerevoli sconfitte degli ultimi anni sono troppo ricche di insegnamenti per far finta di nulla. Alla fine sono le necessità che danno alle possibilità l'occasioni e i fondamenti per realizzarsi. O la sinistra consegue questo più avanzato livello cooperativo o s'inabisserà nell'irrilevanza.

A Teano si possono, dunque, fare prove importanti di questo territorio sperimentale. Perché la discussione avverrà su problemi concreti, lontani dalle diatribe degli schieramenti e delle tattiche elettorali in cui le oligarchie oggi in frantumi continuano a scindersi e a dissipare il loro tempo. Acqua pubblica, disoccupazione della gioventù, energie alternative, agricoltura biologica, acquisto solidale, rifiuti differenziati , vivibilità urbana, ecc. Tutti temi su cui non solo è facile trovare il legame cooperativo, ma che non si presentano come i tasselli sconnessi di rivendicazioni settoriali. Un comune, vasto orizzonte culturale e strategico li tiene insieme. Costituiscono le articolazioni di un progetto ormai sempre più evidente di società, che attende di trovare le proprie specifiche forme organizzative, per partire dai dispersi territori del Paese ed entrare come forza riformatrice nello luoghi decisionali dello Stato.

Qui il programma e gli altri materiali dell'incontro di Teano

E’ singolare. Da almeno 10 anni una vasta platea di economisti che ha voce e influenza pubblica non ha cessato un momento di ricordarci che i «consumi americani tirano la crescita». Sono gli americani, ci ricordavano, che alimentano lo sviluppo con il loro formidabile ritmo di consumo. Nessuno di costoro lasciava cadere, sul proprio entusiastico compiacimento, qualche ombra di perplessità. Eppure, oggi, tra tali commentatori non si trova un solo economista che voglia ricordarsi del nesso tra perseguimento della «crescita infinita» e iperconsumo americano. E tra questi e la crisi oggi in atto. Il tracollo del sistema bancario e le distruzioni in corso nell’economia reale vengono spiegate con poche categorie disciplinari ( basso tasso di sconto del dollaro, debito estero, ecc) e con la violazione delle regole, con l’imbroglio finanziario. Per il resto nulla da obiettare. E il consumo che tirava la crescita ? Non ha niente a che fare con il disastro attuale?

Cominciamo col rammentare – informazione di cui in genere gran parte degli economisti non sa che farsi – che gli Americani, il 5% della popolazione mondiale, con quel consumo che tirava divoravano e divorano circa il 30% delle risorse mondiali. E’ una vecchia storia imperiale che si ripete in altro modo. Al culmine della sua espansione territoriale, negli anni ’30 del ‘900, la Gran Bretagna controllava, a vario titolo, un numero così grande di colonie da coprire 1/4 delle terre emerse del globo, 125 volte la propria superficie. Un territorio di riserva indispensabile a sostegno della macchina produttiva e degli elevati standard di consumo dei cittadini britannici. Quasi sempre la prosperità dell’Occidente si è fondata su risorse che altri popoli non hanno potuto utilizzare. Anche oggi lo «stile di vita americano» si regge su un immenso territorio di riserva, sullo sfruttamento di risorse altrui, utilizzati grazie alla vasta influenza economica, politica e militare degli USA, e pagati con il dollaro, moneta di riserva e mezzo universale di pagamento.

Quel territorio oggi consiste anche nei salari da fame degli operai cinesi e del resto dei Paesi del Sud del mondo, nei bassi costi delle loro materie prime, che hanno consentito ai consumatori degli USA di divorare interi continenti di merci senza generare inflazione, rendendo possibile alle imprese americane di tenere bassi i propri salari, di realizzare profitti crescenti che si riversavano nel ribollente calderone della speculazione finanzaria. E’ così che i cittadini americani, operai e classe media, sono stati spinti al consumo malgrado la loro emarginazione sindacale e la stagnazione del loro reddito: tramite l’indebitamento. Che trovata! La corsa allo sviluppo illimitato ha spinto infatti a un mutamento storico del ruolo delle banche: nate per finanziare le imprese, esse si sono messe a prestar soldi direttamente ai cittadini, perché continuassero a consumare all’ infinito. L’indebitamento crescente delle famiglie è stato lo strumento « per continuare a crescere», come recita il mantra del conformismo economicistico universale. Già nel 2003 il debito insoluto dei cittadini americani era di 1 miliardo e 800 milioni di dollari. Gran risultato. Ma questa è la faccia nascosta del recente successo americano, quello glorificato da schiere infinite di economisti, pifferai che hanno cantato la gloria di questo capitalismo ad ogni angolo di strada. Una montagna di debiti delle famiglie. La costruzione del « maledetto imbroglio» finanziario con i mutui subprime, non è che l’estensione e il perfezionamento di un modello già in atto, esteso al settore immobiliare, che serviva peraltro ad alimentare la grande macchina dell’edilizia.

Quel consumo, dunque, si è retto, per almeno un quarto di secolo, sul progressivo indebitamento dei privati e sull’idrovora finanziaria a scala mondiale messa in piedi dall ‘impero americano. « Dati del Fondo monetario internazionale – ha ricordato di recente Silvano Andriani – mostrano come tutte le aree del pianeta, compresi i paesi emergenti, stiano finanziando con esportazioni di capitali gli Stati Uniti».

Rammento tutto ciò non tanto per sottolineare la scadente qualità predittiva delle scienze economiche oggi dominanti. Su questo terreno siamo tutti fallaci, anche se non tutti con pari responsabilità. Ma per richiamare aspetti che all’angustia disciplinare di questi saperi sfugge, per così dire, in radice. Il consumo, a quanto si sa, si realizza attraverso la dissipazione di risorse naturali. Ora, chiedo, non ci sono nessi tra l’iperconsumo americano e occidentale e i colpi subiti dalla natura negli ultimi decenni? Non è una lamentazione estetica, ci mancherebbe. Sotto l’assedio di una cultura economica da Paese povero, che guarda al mondo fisico con tale voracità predatoria, non pretendiamo tanto. Ma per natura qui si intende la perdita di immense superfici di terra per erosione e desertificazione, l’impoverimento biologico dei mari, l’abbattimento di foreste, l’inquinamento di fiumi e laghi, la dissipazione di risorse non rigenerabili, l’alterazione del clima, i danni inflitti a uomini, animali e cose. Per natura qui si intende economia, ricchezza, parte della quale addirittura misurabile in termini di PIL. Continueremo come prima? E ancora: non c’è nessun nesso tra l’iperconsumo occidentale, che vuol giungere sino alle lontane galassie, e la crescita degli indigenti nel mondo? Nessun legame tra il miliardo di affamati – gloria imperitura del capitalismo contemporaneo – recentemente censito dalla FAO e la politica di protezione agricola di USA e UE, il debito dei Paesi poveri, il dominio delle imprese occidentali nelle economie del Sud.? Continueremo come prima?

Ma oggi le risorse – su cui si fonda il consumo – appaiono sempre più limitate. Nuove frontiere, che l’Occidente aveva cancellato, si alzano a delimitarle e a difenderle. Anche i Paesi così detti in via di sviluppo ben presto pretenderanno che il loro stile di vita, come quello americano, « non sia negoziabile».E’ un mutamento di vasta portata. Ma il carattere finito del nostro Pianeta non muta, né cambia la sua natura di ecosistema complesso e vulnerabile. Perciò niente potrà più continuare come prima . E allora? Ci limitiamo a chiedere nuove regole, a invocare finalmente correttezza e un nuovo senso etico al capitalismo?

Il più grande errore politico che oggi si possa commettere è di credere che le soluzioni alla crisi presente- che non sia una semplice normalizzazione temporanea – possa venire da una cultura che la crisi ha generato e sostenuto con i suoi stessi unilaterali e fallaci fondamenti.

L'articolo è stato inviato anche a il manifesto

Il dibattito seguito alla sconfitta elettorale del 13 e 14 aprile ha avuto, tra gli altri effetti, quello di rendere di più largo dominio, e per così dire popolare, un’acquisizione che apparteneva, in verità, a pochi: la sinistra, in Italia ( come, in diversa misura, altrove) vive da decenni nel fondo di una catastrofe culturale.E’ da almeno un quarto di secolo che essa è venuta perdendo la capacità di leggere le trasformazioni del mondo attuale e di produrre saperi, valori, senso comune, in grado di orientare la propria azione, di dare prospettiva alle grandi masse popolari, ai lavoratori, ai cittadini del nostro tempo. Viviamo oggi nella parte bassa di un ciclo storico da cui si potrà riemergere in tempi non brevi e in virtù di un lavoro paziente e di lunga lena. Certo, apprezziamo gli sforzi e il lavoro di chi tenta un’opera di ricomposizione delle sparse membra della rappresentanza politica oggi in rotta.La politica vive anche di quotidiano, sotto la pressione di agende che non sempre è possibile scegliere a piacimento. Ma credo ugualmente necessario che le forze intellettuali volenterose si dispongano a una più ambiziosa progettualità, consapevoli che occorre ricostruire vecchie e nuove fondamenta a un edificio in buona parte in rovina.

Sono personalmente convinto che nella situazione presente sia di grande utilità – e che faccia anche bene al morale - distogliere lo sguardo dalle vicende del ceto politico per orientarlo verso altri ambiti di osservazione. E’ opportuno guardare alla società, con una inclinazione e una intenzionalità diversa da quanto le vicende politiche recenti ci spingerebbero a fare. A dispetto dello spettacolo inquietante fornito di recente da vari luoghi e settori della società italiana, io non credo che la « società civile globale» - di cui si discuteva sino a qualche mese fa – sia di colpo scomparsa perché l’Italia manifesta nel suo seno violente pulsioni di odio razziale et similia. E’ una novità che sgomenta, non c’è dubbio. Ma l’arretramento civile e culturale, prima ancora che politico, dell’Italia di oggi non deve farci perdere di vista il più vasto mondo in cui siamo immersi, né quella parte più o meno sommersa di realtà nazionale che non appare, non ha voce, eppure è animata dalla volontà di perseguire il bene comune, sente come propri e necessari gli ideali di solidarietà collettiva. Soprattutto non dobbiamo perdere di vista le grandi novità di fatto e potenziali che lo stesso sviluppo capitalistico ha creato e ci mette oggi a disposizione. Spesso ci accorgiamo in ritardo di quanto la «vecchia talpa» abbia scavato, creando aperture e varchi impensabili fino a poco tempo fa. Non c’è dubbio, ad esempio, che la rete costituisca oggi un inedito territorio universale di informazione, collegamento e comunicazione tra le persone e i popoli. Come ha scritto Stefano Rodotà essa costituisce “il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto”. E’ un mezzo che solo pochi decenni fa non possedevamo. E dentro di essa dobbiamo imparare a costruire presidi durevoli di conoscenza, cultura democratica, informazione non asservita ai poteri dominanti.

Ora, sono personalmente convinto non solo che l’ Italia costituisca una tessera della società civile globale in espansione, ma che essa sia contrassegnata anche da altre potenzialità nascoste. A dispetto delle apparenze, l’Italia – come del resto gran parte dei Paesi post-industriali – ospita all’interno una intellettualità di massa sconosciuta per dimensione a tutte le società del passato. Non penso solo genericamente ai “ceti riflessivi“ di cui parla Paul Ginsborg, con una definizione necessariamente ad effetto, ma che è sintomatica di una realtà effettiva per quanto difficilmente misurabile. Penso anche a quel vasto e crescente arcipelago di giovani che ha una laurea in tasca, spesso frequenta o ha concluso dottorati, Ph.d, master, ecc., ha viaggiato in Europa e nel vasto mondo, conosce una o più lingue straniere, ascolta la musica internazionale, naviga quotidianamente in Internet. Si tratta di un “popolo” particolare, che la mancanza di opportunità di lavoro spinge in una dimensione di specializzazione a oltranza, ma scaraventa al tempo stesso in un limbo di precarietà sociale, incertezza, assenza di prospettive, isolamento. Dovrebbe esser questa la futura élite intellettuale del Paese, frantumata, dispersa e delusa, che forse non troverà la collocazione professionale e dirigente a cui si era preparata. Ma sono questi, potenzialmente, i nuovi ceti colti da cui potranno nascere rappresentanze politiche rinnovate, cittadini cosmopoliti portatori di una idea più avanzata e solidale di cittadinanza. Senza dire che da qui potranno nascere nuove culture politiche, rinnovate letture del mondo attuale, inediti orizzonti teorici.

Ebbene, io credo che oggi non abbiamo altra possibilità di entrare in contatto con tale vasto e composito arcipelago, tentare di orientarlo, se non creando luoghi di comunicazione attraverso Internet. Si tratta, com’è noto, di una realtà già in atto. La diffusione dei vari siti e blog, negli ultimi anni, ha spesso corrisposto anche a tale fine. Queste nuove comunità di dialogo svolgono non solo il compito di offrire interpretazioni non conformistiche della realtà, informazione libera e disinteressata, senso di appartenenza a individui spesso isolati , ma trovano anche negli stessi lettori dei collaboratori attivi: attenti e partecipi fruitori, ma spesso e in maniera crescente, protagonisti del dibattito che tiene in vita il sito. Ora non mi sfuggono i limiti e le insidie di questa agorà mediatica. Sono noti a molti e non mi ci soffermerò. Ma se le sezioni dei partiti sono chiuse e i quartieri delle nostre città sono privi di presidi sociali e luoghi di dibattito, è certo preferibile il dialogo virtuale al silenzio.

La proposta che voglio avanzare è ispirata a una esperienza di successo: il sito eddyburg. Come ormai molti sanno, si tratta di un sito specializzato sui temi del territorio, della città e dell’ambiente. Esso svolge a mio avviso un compito importante in un Paese come il nostro, il cui habitat è così fragile e vulnerabile, un Paese così ricco di patrimoni artistici esposti, di centri storici incomparabili, e le cui classi dirigenti in fatto di ambiente, territorio, mondo naturale, sono fra le più incolte e rozze del mondo occidentale. Un sito siffatto è destinato ad accrescere la sua penetrazione e diffusione nella società italiana, perché esso mette al centro un nodo ineludibile del tempo attuale: gli equilibri ambientali, la vita urbana, gli spazi, gli assetti del territorio.

Ora, eddyburg è il frutto casuale di una iniziativa fortunata. Un urbanista, un intellettuale della cultura e passione civile di Edoardo Salzano si è votato a tale compito e ha dato vita a questo importante presidio culturale. Chi voglia, in Italia, informarsi sui problemi delle nostre città e del nostro territorio, avere una visione anche storica dei caratteri ambientali della Penisola, ha a disposizione su Internet questo patrimonio di informazione e conoscenza. Ebbene, io credo che il modello eddyburg dovrebbe esse riprodotto per altri ambiti con analogo profilo progettuale. Occorre puntare a creare dei siti “specialistici” in grado di acquistare sul campo – per la serietà e la competenze delle analisi ospitate - autorevolezza e prestigio, così da catturare un vasto e crescente pubblico. Contribuendo così anche a ridurre la dispersione e frammentazione culturale che pure la rete tende ad alimentare. Siti siffatti non debbono solo informare, ma anche formare, grazie alla ricchezza delle conoscenze offerte. E al tempo stesso porsi come istituzioni culturali e politiche autorevoli, in grado di influenzare scelte, di fare opinione. Presidi di conoscenza e informazione indipendente e dunque casematte di democrazia.

Non sono pochi, ovviamente, gli ambiti che meriterebbero di costituire l’oggetto primario di siti specialistici. In questa sede mi sento di perorare la necessità di due grandi aree tematiche da porre al centro dell’analisi e della discussione. La prima riguarda la memoria e la storia, la seconda il mondo del lavoro. Non è certo necessaria una lunga dissertazione per illustrare il rilievo politico, civile e culturale che le due questioni rivestono oggi nel nostro Paese. Per quanto riguarda la storia, proprio in Italia, negli ultimi due decenni abbiamo potuto assistere, in forma esemplare, all’uso politico più apertamente strumentale del nostro passato. Quest’uso è in parte il risultato di scorrerie dell’industria culturale, ma fa anche parte di una intenzionalità politica molto precisa: mutare la memoria antifascista dell’Italia repubblicana, togliere rilievo e significato al protagonismo popolare che sta alle origini dello Stato democratico, predisporre la coscienza del Paese a plasmazioni culturali di natura moderata. Nella fase storica in cui i partiti democratici e soprattutto quelli della sinistra storica hanno abbandonato ogni forma di pedagogia e di cura della memoria nazionale, questa rimane oggetto delle scorribande più diverse, soprattutto dei settori politici oggi dominanti, tanto più aggressivi ed onnivori quanto più le forze di sinistra appaiono moderate, remissive, dimentiche del proprio passato, quando non impegnate con zelo in un’opera di damnatio memoriae.

Ora, è giusto ricordare che l’Italia ha ancora saldi presidi che consentono lo studio, l’insegnamento, la trasmissione di una memoria storica scientificamente fondata. La scuola pubblica, l’ Università, le riviste storiche specializzate, un numero considerevole di storici di prim’ordine alimentano ricerca, dibattito e insegnamento degni di un Paese civile. E godiamo anche delle pubblicazioni di tante case editrici di cultura che tengono viva la tradizione democratica. E tuttavia oggi questo non basta. La potenza manipolativa assunta dai media in quest’ambito reclama nuovi strumenti di contrasto e soprattutto di diffusione popolare dei risultati storiografici. Non trascuro, certo, il fatto che i (pochi) giornali democratici abbiano fatto e facciano la loro parte. Ma i giornali non arrivano dovunque, e di norma sono dei fortilizi cui è negato ogni accesso al lettore, se non nella forma dimessa della letteraal direttore: qualcosa di simile alle “suppliche al re” di antico regime. E d’altra parte la storia costituisce un avamposto di egemonia sempre più importante in un mondo che non ha cessato di utilizzare l’immagine del passato come strumento di lotta politica. Aggiungo una considerazione che io ritengo capitale. La sinistra e il movimento operaio hanno oggi un compito culturale e storiografico di grandissimo impegno: quello di sottrarre il proprio glorioso e meritorio passato dall’ombra del fallimento di una esperienza storica. La riduzione di tutto il passato del movimento dei lavoratori, e della lotta politica per la loro emancipazione, alla storia dell’URSS pesa ancora come un macigno sull’immagine e la possibilitàegemoniche della sinistra attuale. Occorre dunque ricostruire l’immaginario culturale nostro passato.

Un sito che si occupa di memoria e storia, per la verità esiste già nella rete. E un buon sito, ma di modesto profilo. Io penso a qualcosa di più ambizioso. Esso dovrebbe essere pensato e diretto da storici di professione, per un largo pubblico, con articoli e saggi brevi, orientati da uno sforzo serio di alta divulgazione, ma che ospiti anche discussioni, lettere, opinioni. Potrebbe anche far posto a un archivio con saggi più lunghi e sistematici per chi voglia approfondire alcune tematiche importanti. Ma io credo che l’anima di un sito siffatto dovrebbe consistere nella sintesi di rigore e militanza: la serietà storiografica messa al servizio di un disvelamento sistematico dell’uso politico della storia che si fa quotidianamente nel nostro Paese. Mostrare come si manipola la storia e al tempo stesso cercare di ricostruire il passato dalla parte dei ceti che la storia l’hanno fatta, ma non lasciano tracce scritte, non hanno voce.

Non minore rilevanza culturale e politica riveste l’altro sito che vado proponendo. Quest’ultimo per la verità, meriterebbe ben più approfondite riflessioni di quanto si possa fare in un breve articolo. Non c’è dubbio, infatti, che le attuali gerarchie di dominio che governano il mondo e lo vanno trascinando verso squilibri sociali sempre più insostenibili si reggono su una gigantesca rimozione culturale e politica: la centralità insostituibile del lavoro umano. Viviamo in un epoca nella quale le merci sono diventate le protagoniste della storia mondiale, mentre il lavoro che le produce viene ricacciato in una sorta di purgatorio dell’irrilevanza. Su che cosa si regge l’asfissiante retorica sulle virtù salvifiche del mercato, della libera circolazione di merci e servizi, se non sul fatto che il lavoro è scomparso di scena? Non è il lavoro umano a produrre la ricchezza, ma la sua libera circolazione in forma di beni. E’ questa l’immagine del mondo che ci viene quotidianamente offerta. Non a caso, quando la libera circolazione dei lavoratori vuole imitare quella concessa alle merci, gli Stati nazionali riscoprono la realtà e l’orgoglio delle frontiere. Ma il dominio attuale del capitale sul lavoro può contare su un colossale occultamento e su una disconoscenza culturale di inusuale ampiezza. E qui credo che bisogna dirla tutta: sulla condizione attuale della classe operaia, in Italia come nel resto dei Paesi post-industriali, circola una colossale menzogna. Una fandonia diffusa in ogni cortile della vita pubblica. Oggi, infatti appare dominante, è anzi diventata senso comune, la convinzione che l’informatica, il lavoro intellettuale, le varie forme di subappalto, di esternalizzazione di settori industriali e servizi, l’apparire di nuove professioni, ecc. abbia fatto sparire dalla nostra società il lavoro manifatturiero. Come se d’improvviso fosse scomparso il lavoro di fabbrica, come se non ci fossero più uomini e donne addetti al lavoro siderurgico, meccanico, tessile, chimico, cantieristico, edilizio, agricolo. Come se fosse scomparsa la giornata lavorativa con le sue rigidità orarie, i ritmi di produttività, i tempi programmati, l’uso delle macchine,la ripetitività dei gesti e delle mansioni, il controllo dei capi, la fatica, lo stress, l’usura. Ed è davvero singolare osservare anche intellettuali di sinistra, di quelli che fanno opinione, che hanno voce sulla grande stampa, impegnati a divulgare spesso inconsapevolmente l’idea che il lavoro manifatturiero sia una realtà residuale delle società attuali. Essi scambiano l’emarginazione politica e sindacale di vasti strati operai con la loro marginalità sociale, con il loro peso effettivo nel processo di produzione della ricchezza. In realtà il rilievo assunto nel processo produttivo da nuove figure di ideatori, programmatori, manager, ecc. se ha marginalizzato il ruolo immediatamente produttivo degli operai meno qualificati non l’ha affatto sostituito. Le fabbriche continuano a produrre merci, beni che escono dalle mani di lavoratori e lavoratrici in carne ed ossa. Ed è non poco paradossale che debba essere qualche isolato giornalista a rammentarlo, come ha fatto Mario Pirani su la Repubblica del 7 e 29 luglio, su dati Edison, WTO e ONU, mostrando i colossali profitti e i successi di mercato delle imprese italiane nel mondo. Imprese manifatturiere, che si reggono sulla fatica quotidiana degli operai.

Ebbene, il compito culturale e informativo di un sito dedicato al lavoro appare evidente in tutta la sua vasta portata. Si tratta, in primo luogo, di bonificare la vasta palude ideologica in cui è stata fatta sprofondare la condizione reale di chi è inserito nel processi produttivi. Più precisamente: occorre rimettere sui piedi un mondo interamente poggiato sulla testa. E a tal fine, dunque, è necessario che il sito qui proposto, con i modi e il linguaggio della rete, faccia conoscere la composizione attuale della classe operaia, le sue culture, geografie regionali, storie ecc.. Naturalmente tutto il mondo del lavoro andrebbe rappresentato nelle sue multiformi facce e articolazioni. Avere contributi dalle varie regioni italiane, denuncie, analisi, resoconti, cronache, arricchirebbe non solo la nostra visione, anche locale del lavoro italiano, ma contribuirebbe, simultaneamente a costituire una rete di rapporti.

Esistono oggi figure, gruppi, settori del sindacato italiano che non si sono rassegnati alla burocratizzazione delle loro organizzazioni e al moderatismo subalterno che le ispira. D’altra parte l’Italia vanta sociologi del lavoro – da Gallino a Revelli – di primissimo ordine, che hanno creato tanti allievi. E sono senz’altro numerosi i giovani studiosi sparsi nella società italiana che sono esperti di tali temi e vogliosi di occuparsene. Quindi, le forze in campo esistono. Sono solo disperse

Il sito, naturalmente, dovrebbe avere ambizioni informative più alte. Potrebbe, ad esempio, assumersi il compito di informare, con servizi che si possono ricavare da altre fonti giornalistiche – come fa ottimamente eddyburg – delle lotte dei lavoratori in corso nei vari angoli del mondo. C’è un dato importante, infatti, che occorre far conoscere se vogliamo rimettere in piedi il mondo capovolto della società attuale. Non solo, oggi come ieri, sono gli operai a produrre la ricchezza di cui gode l’intera società. E quindi ad essi va riconosciuto il rilievo politico che hanno perduto. Ma bisogna rammentare che mai la classe operaia era stata tanto numerosa nel mondo quanto lo è nel nostro tempo. E quando ci accorgeremo che la globalizzazione può significare anche lotte operaie su scala mondiale, allora avremo scoperto l’altra faccia della luna. Non solo le merci sono cosmopolite, anche il lavoro può tornare a valicare le frontiere, ridiventare universale. Un nuovo ciclo storico della lotta politica può cominciare.

Ecco, noi crediamo che una delle grandi battaglie culturali da condurre sia ridare autonomia alla politica, liberarla dai ceppi e dalle grettezze dell’ economicismo, fornirle indipendenza e capacità di visione strategica. Compito certamente arduo e forse utopico. Ma noi confidiamo nella forza delle utopie. E soprattutto confidiamo nel fatto che l’economicismo è una ideologia da poveri, da ossessionati dalla necessità di arricchirsi. Quanto a lungo esso può costituire l’autorappresentazione dei Paesi ricchi? Una società che ha messo insieme tanta opulenza materiale potrebbe permettersi il lusso di una visione meno feroce della vita, potrebbe guardare alla realtà con maggiore disinteresse e generosità. E invece, come Caronte, risospinge le anime nell’inferno dei bisogni senza fine, nella fossa della miseria che di continuo si rigenera.

Certo, l’economicismo si combatte non solo con la critica, ma anche promuovendo culture antiutilitaristiche, facendo soprattutto spazio ai saperi umanistici, oggi sempre più negletti. La letteratura, la poesia, la storia, la filosofia non creano brevetti, lo sappiamo, non producono nuovi gadget da immettere sul mercato, non fanno andare avanti l’economia e dunque vengono banditi come Cenerentole inservibili. Ma possiamo rassegnarci a questo? Possono le società ricche del nostro tempo gettare in un angolo la bellezza, il pensiero, la riflessione sulla nostra vita e il nostro stare al mondo? Ma c’è anche un compito critico da svolgere. Occorrerebbe, ad esempio, che l’economia, la scienza dominante del XX secolo, venisse ricondotta al rango degli altri saperi. Non sussiste più alcuna ragione perché essa conservi il dominio che ha conseguito su tutti gli ambiti della nostra vita sino a oggi. Rischiando l’ovvio, riconosciamo tutti i grandi meriti che l’umanità le deve. Eppure, quei meriti non ci appaiono oggi sono senza ombre. Come scienza, col suo riduzionismo, con la rimozione della natura, l’economia ha incoraggiato lo sfruttamento illimitato del pianeta, ha separato la produzione della ricchezza dal mondo vivente, ha fallito nella capacità previsionale dei danni globali e incalcolabili che essa ha favorito. Costituirebbe perciò un segnale di rilevanza storica se la reale Accademia delle Scienze di Stoccolma abolisse dalla sua agenda annuale il premio Nobel per l’economia., istituito del resto, tardivamente, nel 1968, su iniziativa della Banca centrale di Svezia. Tale premio non ha oggi più ragione di esistere. Non certo perché non ci siano e non ci saranno economisti meritevoli, impegnati a difendere l’interesse dell’umanità e non quello dell’economia. Negli ultimi anni sono stati premiati studiosi come Joseph Stiglitz e Amartya Sen, che certo non sono esponenti della scuola di Chicago. Del resto alle ricerche di tanti economisti liberi dobbiamo molte delle analisi che ci aiutano nella critica del tempo presente. Ma l ‘impatto simbolico dell’abolizione sarebbe di sicuro notevole. E l’umanità ha bisogno di segnali di svolta. L’istituzione, in alternativa, di un premio per la protezione dell’ambiente e della biodiversità sarebbe certamente più appropriato alla tradizione umanitaria del Nobel, più rispondente ai bisogni universali e drammatici del nostro tempo. Sappiamo davvero tanto su come produrre e consumare ricchezza. Sappiamo ancora troppo poco su come proteggere e conservare le ricchezze della Terra, che l’economia ha contribuito a trasformare in territorio di saccheggio.

Comunità del cibo, cuochi, università: questi i tre temi che ho trattato in una relazione scritta per l’edizione 2006 di Terra Madre, che sarà pubblicata sul n. 1 di Scienze Gastronomiche, la rivista dell’omonima Università. . Li affronto in questa “opinione” che vuole essere anche un mio omaggio ai partecipanti alla Scuola di Eddyburg, che inizia il 26 settembre prossimo.

Non senza ragione qualcuno si può domandare: che cosa tiene insieme, e pone in relazione, le comunità del cibo ai cuochi – tanto i grandi creatori di piatti quanto i semplici ristoratori - e queste ultime realtà, a loro volta, alle Università? Quale può essere il fine di un incontro e di un dialogo tra mondi apparentemente così lontani e diversi? A dispetto di qualche possibile iniziale incomprensione l’incontro di Torino nasce, a mio avviso, da un’idea fertile e di grande respiro e corrisponde perfettamente all’orizzonte progettuale di Slow Food oggi: alle sue attuali strategie di ricerca e di movimento oltre che al complesso delle sue istituzioni, prima fra tutte l’ Università di Scienze Gastronomiche.

Partiamo dalle comunità del cibo, dai contadini, allevatori, pescatori che, venuti da ogni angolo del mondo, sono stati protagonisti del raduno senza precedenti di Terra Madre 2004 e ora ripetono, in forme nuove, l’esperienza. Spesso a tale multiforme realtà dei produttori primari – che costituisce una parte preponderante dell’attuale popolazione mondiale – si assegna un confuso e unilaterale profilo: quello della sua marginalità sociale rispetto al mondo e ai redditi dell’industria.Se si usa il termine contadini, poi, molti pensano addirittura a una realtà arcaica e remota. L’accusa “infamante” di terzomondismo è pronta a scattare per svalutare anche la più generosa e lungimirante delle idee. Non è qui il caso di mostrare analiticamente quanto sia miope e superficiale una tale valutazione. Ma vale la pena rilevare il dato fondamentale che essa dimentica. Poche persone, anche fra i ceti colti dell’Occidente, sono infatti informate e consapevoli di quale inestimabile e insostituibile ricchezza sono portatori i ceti produttivi delle campagne.Una ricchezza che oggi è così ripetutamente gloriata ed enfatizzata nelle società postindustriali: il sapere. E tuttavia, in questo caso, non si tratta di un sapere meramente tecnico, che si può apprendere sui libri, ma di un sapere storico, risultato di una trasmissione millenaria tra le generazioni. Nessuna industria o istituzione può riprodurlo.Esso fa tutt’uno con le culture e le realtà sociali che lo hanno elaborato nel tempo. In realtà le comunità del cibo sono presidi di saperi che ancora sopravvivano e resistono alla marea dell’omologazione culturale che assedia ogni angolo del pianeta. Sono la riserva di sapienza da cui è emersa la nostra storia.

Diciamolo con la chiarezza e l’energia che la cosa merita. La cultura storica contemporanea è vissuta e vive tuttora sulla cancellazione di una incontrovertibile verità: l’agricoltura industriale è nata e si è sviluppata in Europa e negli USA quando, nelle campagne del mondo, tutto era stato già scoperto.Nel XIX secolo, allorché parte quell’avventura, i contadini delle varie regioni del pianeta avevano già da qualche millennio selezionato pressoché tutte le piante e gli alimenti che comporranno la cucina in età contemporanea. Essi avevano infatti già “creato” il grano e gli altri cereali minori nel Vicino e Medio Oriente e in Africa, il riso nel Sudest asiatico, il mais in America Latina.Non meno creatori essi erano stati nel campo degli ortaggi, dalla patata americana alla melanzana asiatica, dai carciofi agli asparagi, dai pomodori alle zucche. E così anche – ma è il caso di ricordarlo? – per l’infinita varietà della frutta selezionata nel bacino del Mediterraneo, nel Medio Oriente, nelle regioni situate lungo la fascia dei tropici.[1] Dunque, l’agricoltura industriale ha ereditato questo immenso patrimonio di conoscenze, - che nessuno aveva mai brevettato e patentato, frutto di millenni di anonime sperimentazioni - e l’ ha diffuso su larga scala accrescendone enormemente la capacità produttiva, selezionando e migliorando alcune nuove varietà, ma riducendo progressivamente, nel corso del ‘900, la biodiversità di quel grande lascito.Non ho la competenza e la sicurezza per essere cosi perentorio come Claude Bourguignon: « Da 2000 anni non è più stata addomesticata una sola pianta agricola».[2] Ma è certo che, se qualche cosa ci sfugge nella lunga vicenda agricola dell’era volgare, essa non ha alcun carattere decisivo. I contadini avevano, in effetti, già selezionato pressoché tutto.

Ebbene, una delle “scoperte” su cui la ricerca storica ci permette oggi di riflettere è che la selezione millenaria delle piante è avvenuta a stretto contatto con il loro uso culinario. A spingere verso la sperimentazione di nuovi semi o di nuovi metodi, all’interno delle comunità, erano le figure che si occupavano della preparazione del cibo. Erano queste che saggiavano la riuscita alimentare delle diverse piante, dei modi di coltivarli, dei diversi terreni utilizzati.. Studi recenti, ad esempio, hanno mostrato il ruolo avuto dalle donne delle Ande nella creazione di migliaia di varietà di patate. Esse conoscevano tuberi in grado di resistere ai geli di oltre 3000 metri di altezza, ma questi erano di gusto amaro, ben diverso da quello dolce delle valli e delle pianure. E così hanno lungamente operato, insieme ai loro uomini, per trovare le varietà in grado di resistere alla molteplici avversità e garantire al tempo stesso uno gusto sempre più gradito ai palati.[3]Del resto tanto gli studi antropologici che le testimonianze contemporanee[4] ci dicono che ancora oggi in genere sono le donne ad avere il compito di selezionare i semi nelle agricolture dei Paesi a basso reddito, e sono sempre loro a occuparsi della preparazione dei pasti.

Allora, da questi rapidi cenni si dovrebbe almeno intuire l’importanza di fare incontrare i cuochi con i saperi originari di cui sono custodi le comunità del cibo.Per i maestri dell’arte culinaria si tratta della possibilità di un contatto diretto con la ricchezza e varietà delle piante, dei sapori, degli aromi, delle combinazioni molteplici elaborati lungo un arco millenario.Può essere qualche cosa di simile alla scoperta che l’avanguardia pittorica europea ha fatto dell’arte africana agli inizi del ‘900.Un incontro rigeneratore, dunque, fra l’arte del cucinare, anche la più raffinata, e lo scrigno primigenio della tradizione, la grande arca di Terra Madre.Ancora più agevolmente si comprende l’interesse di contadini, pescatori, allevatori, per il mondo della grande elaborazione gastronomica, che apre nuovi orizzonti e suggestioni alla sperimentazione agricola.Da qui, davvero, può ripartire, in forme nuove, una storia antica.

Si prospetta dunque un incontro che può arricchire reciprocamente le parti, piccoli e grandi,oscuri lavoratori e stelle del firmamento culinario, e può fornire un contributo al tempo stesso universale alla gloria del cibo: questo bene primordiale e gioia irrinunciabile alla base della nostra vita, realizzabile solo attraverso una cooperazione di comunità, veicolo possibile di equità sociale e di pace, secondo il progetto ventennale di Slow Food. Ma c’è un altro interesse, più largamente politico, alla base di tale possibile dialogo.I cuochi, soprattutto quelli circondati da più universale prestigio,dovrebbero oggi scoprire – e taluni hanno già scoperto -un nuovo impegno nel difendere la biodiversità agricola di cui le comunità del cibo sono gli ultimi custodi. La base stessa della loro arte è in pericolo.La crescente uniformità industriale dei prodotti agricoli minaccia, infatti, anche il loro avvenire.

E l’ Università? Che cosa ha a che fare il mondo accademico con tutto questo, a parte il fatto noto che anche i professori mangiano?Qui risiede, a mio avviso, il nesso apparentemente meno visibile dei tre mondi che saranno protagonisti a Terra Madre 2006. Il meno visibile, ma anche il più necessario e certo frutto del pensiero più ardito di tutto il progetto.Peraltro, esso sta alla basedelle ragioni che hanno portato alla istituzione dell’Università di Scienze Gastronomiche. Le Università, com’è noto, sono centri di ricerca, di elaborazione e trasmissione dei saperi alti delle società del nostro tempo.Ma esse sono state – e in parte, per fortuna, continuano a esserlo – il luogo della libertà del pensiero critico, le cittadelle indipendenti al di sopra dei conformismi e degli interessi sociali dominanti. Ebbene, tale realtà è da tempo soggetta, soprattutto nei Paesi industriali e postindustriali, a un processo di accelerata erosione, che qui non si pretende certo di prendere in esame, ma a cui occorre far cenno.

Intanto, è all’interno degli stessi saperi che si verificano mutamenti di cui non si valuta quasi mai la portata sociale generale. E’ vero, la conoscenza scientifica non fa che accrescersi in termini di singole scoperte, di esattezza dei risultati, di potenza delle sue singole e specifiche applicazioni.Ma è una conoscenza sempre più specialistica, chiusa nei confini della propria disciplina, che non dialoga con le altre e che soprattutto si muove entro il limitato - e ormai distruttivo - paradigma novecentesco di promuovere la crescita economica qualunque essa sia. Per giunta – per un fenomeno interno all’evoluzione della scienza e già segnalato da alcuni pensatori sin dai primi del ‘900 - i saperi scientifici tendono progressivamente a perdere il loro sguardo universale e tradursi sempre più velocemente in applicazioni tecnologiche operative. Da saperi degradano a strumenti.Il contenuto di pensiero generale che un tempo animava le diverse discipline tende a essiccarsi, a esaurirsi nel suo fine utile.Un processo accelerato, peraltro, dalla pressione che il mondo dell’industria esercita sulla cittadella della scienza per avere dispositivi immediatamente inseribili nel ciclo economico.

Questa fenomenologia del sapere non è senza conseguenze sul mondo delle Università. Almeno in alcuni ambiti essa produce professioni forse più agguerrite sul piano strettamente disciplinare – un dato che andrebbe, tuttavia, valutato caso per caso – ma sempre più prive di un collante progettuale generale. Il nesso tra i saperi professionali – spesso sostenuti dall’impegno delle Università pubbliche – e le loro ricadute civili tende ad affondare in una indistinta foschia.Qual’è oggi l’interesse generale che le istituzioni accademiche sono chiamate a favorire e promuovere?Una domanda radicale che, significativamente, non ci poniamo più. Dalle Università, infatti, escono quadri tecnici e figure delle future classi dirigenti che non sembrano possedere altro orizzonte operativo che riprodurre le condizioni di una accresciuta potenza della macchina economica.Oggi possiamo osservare giovani laureati in economia che posseggono le conoscenze più sofisticate in marketing o in gestione aziendale, ma che non hanno neppure una conoscenza superficiale, ad esempio, di come il mercato agricolo mondiale, dominato da USA ed Europa, condanni alla stagnazione o alla rovina le agricolture dei Paesi poveri.Ed essere informati su tale aspetto non è semplicemente un imperativo di carattere morale. Bisogna infatti chiedersi: può un giovane economista europeo ignorare il fatto che la crescente e disordinata immigrazione di disperati provenienti dai vari angoli del mondo – uno dei grandi problemi sociali dell’Europa d’oggi e di domani – è il risultato dell’ iniqua ragione che domina da decenni gli scambi mondiali ? A che serve la sua laurea se non sa questo?Certo potrà svolgere bene il suo lavoro in azienda, ma come cittadino europeo la sua ignoranza è uno scacco collettivo.In questo caso l’arricchimento strettamente professionale coincide con un immiserimento civile. Allo stesso modo possiamo osservare tanti giovani agronomi che sanno tutto sulle patologie della patata o sulla fertilizzazione minerale dei terreni, ma ignorano completamente l’isterilimento e talora l’avvelenamento subito dai suoli agricoli negli ultimi 50 anni di concimazione chimica intensiva .E’oggi in atto un grandioso processo di erosione – risultato anche delle pratiche agricole industriali – che ci fa perdere ogni anno milioni di ettari di suolo fertile in tutto il mondo. Ebbene, le Università devono ancora produrre tecnici che continuano a teorizzare metodi e filosofie produttive destinati a perpetuarlo? L’ossessione economicistica che agita oggi i gruppi dirigenti di gran parte dei Paesi del mondo tende a subordinare ogni sapere e ricerca alle loro immediata utilità economica. Cosi, mentre spesso, in passato, è stato motore storico dell’innovazione e della trasformazione sociale, promotore di arricchimento e di liberazione umana, il sapere accademico rischia oggi di trasformarsi in fonte di alimentazione del più gigantesco processo di conformismo culturale dei tempi moderni. E qui sta, come ognun vede, un nodo rilevante del nostro tempo.Si tarda, infatti, a prendere atto del drammatico mutamento globale che abbiamo di fronte a noi: i dirigenti, i tecnici, gli esperti, che escono dalle Università non possono più limitarsi a rendere più produttive le aziende. Essi devono cercare di rendere le loro economie compatibili con risorse generali sempre più scarse, con equilibri globali sempre più fragili e complessi, essere consapevoli delle ricadute sociali collettive della ricchezza prodotta. Serve un altro sapere, non per produrre di più, ma per produrre meglio, e per distribuire meglio la ricchezza, con una nuova consapevolezza della natura che manipoliamo, e per conservare e valorizzare i patrimoni che abbiamo ereditato.

Ecco, le idee e le conoscenze con cui le Università e i singoli docenti dovrebbero dialogare con le comunità del cibo e i cuochi a Terra Madre è quello che definirei una sapienza delle connessioni. Certo, l’Università mette a disposizione un ventaglio molto ampio di discipline, ma io credo che lo sforzo comune di queste dovrebbe essere indirizzato a mostrare i legami storici, economici, sociali, biologici, ambientali che connettono i produttori agricoli con i creatori di cibo e questi con l’insieme delle comunità umane. Mentre a loro volta i docenti possono apprendere i legami insospettati tra i vari fenomeni della vita che gli altri mondi, quello della produzione e della manipolazione, conoscono per pratica quotidiana. E’ questo, del resto, l’orizzonte davvero nuovo e incoraggiante verso cui sta muovendosi una folta avanguardia del sapere scientifico dei nostri anni. Personalmente considero come la più grande intuizione dell’ecologia in età contemporanea la sua idea base: la scoperta della complessa inscindibilità del vivente. La vita, la Terra, tutta la realtà che abbiamo intorno è un complesso di connessioni e di infinite e mutue relazioni.La rottura di un punto si ripercuote su tutto l’insieme. Per questo gli studi che indagano sui terremoti, sui mutamenti climatici, sulla biodiversità, sulle trasformazioni ambientali, sono oggi ricerche fondate sulle cooperazione delle discipline, sulla alleanza dei saperi.Essi mostrano come la ricerca dell’interesse generale, il perseguimento del bene comune, possa spingere la scienza a uscire dal proprio unilaterale riduzionismo, dalla propria separatezza disciplinare, dal proprio asservimento ad interessi particolari e limitati, e trasformarsi in dialogo e cooperazione. Del resto, anche l’Università di Scienze Gastronomiche istituita da Slow Food nel 2004 è dentro questo orizzonte. Essa non è una nuova Università privata qualsiasi che si aggiunge – com’è avvenuto negli ultimi anni - a tante altre in Italia e nel mondo. La sua ambizione, del tutto inedita, è di creare una figura di gastronomo, che non limita le sue competenze alla preparazione del cibo, ma è anche consapevole che la sua materia prima viene dalle varie campagne del pianeta, frutto dell’oscuro lavoro degli agricoltori, spesso mal pagati, privi di mezzi, svolto in un ambiente sempre più minacciato da inquinamento e distruzione.Il nuovo gastronomo è gravato da una nuova responsabilità – quella che deve accompagnare oggi l’opera di ogni portatore di saperi - che è insieme etica e di conoscenza, al fine di produrre un cibo buono, pulito e giusto, come suona saggiamente il titolo del libro manifesto di Carlo Petrini.[5] Egli non può, infatti, dimenticare che la materia su cui opera è condizionata dalla salubrità ambientale dell’agricoltura, e dai rapporti sociali, dalle condizioni di necessaria equità di cui il lavoro agricolo dovrà godere per continuare a esercitarsi. Non può dimenticarlo anche per la semplice ragione che le basi stesse della sua opera e ragion d’essere potrebbero venire distrutte nel prossimo avvenire.

Nota: LeComunità del cibo

Le comunità del cibo di Terra Madre rappresentano un concetto nuovo. La comunità del cibo è formata da tutti quei soggetti che operano nel settore agro-alimentare, dalla produzione delle materie prime alla promozione dei prodotti finiti, e che si caratterizzano per la qualità e la sostenibilità delle loro produzioni. La comunità del cibo è strettamente legata – dal punto di vista storico, sociale, economico e culturale – al proprio territorio.

Le comunità del cibo sono di due tipi:

di territorio: la comunità produce più prodotti, anche diversi tra loro, ma tutti legati a un’area geografica delimitata o a una etnìa indigena

di prodotto: la comunità è composta da tutti quegli agricoltori/allevatori, trasformatori e distributori che concorrono, a diverso titolo, alla produzione di uno stesso prodotto su un preciso territorio. In questo caso la comunità del cibo coincide con la filiera produttiva.

I prodotti delle comunità sono realizzati in quantità limitata, da aziende agricole o di trasformazione di piccole dimensioni. Il prodotto o i prodotti delle comunità si distinguono inoltre per la loro qualità:

organolettica: il prodotto è buono;

ambientale: il prodotto è pulito, naturale, sostenibile;

sociale: i produttori ricevono un giusto compenso; inoltre, all’interno delle comunità non sono praticate discriminazioni di alcun genere, né si ricorre al lavoro minorile.

Le comunità del cibo sono i protagonisti principali della rete di Terra Madre, ma è solo attraverso il reciproco scambio di esperienze e competenze con le università e i cuochi che i valori di Terra Madre riusciranno ad avere un’eco significativa presso il grande pubblico.

Dal sito di Terra Madre 2006

[1] Una mappa sintetica di questa geografia delle produzioni agricole originarie in C.Boudan,Le cucine del mondo.Geopolitica del gusto, Donzelli Roma, 2005, p. 95 e ss.

[2] C. e L.Bourguignon, Il suolo.Un patrimonio da salvare,Prefazione di M. Smith, Slow Food Editore, Bra 2004, p.98

[3] Cfr. M.Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, Einaudi Torino 2005, p. 249

[4] Si veda per l’India la testimonianza di V.Shiva, L’industria biotecnologia si basa su fondamenta di menzogne e illegalità, in L.Silici( a cura di ) Ogm. Le verità sconosciute di una strategia di conquista, introduzione di F.Pratesi, Editori Riuniti, Roma 2004, p. 52.

[5] Buono, pulito e giusto. Principi di nuova gastronomia, Einaudi Torino 2005.

Non era certo inevitabile che accadesse da noi. Poteva benissimo succedere, ad esempio, nella vicina Francia, che sul cibo – per lo meno in età contemporanea - ha elaborato culture più sofisticate delle nostre. Ma è certo in profonda coerenza con la storia del nostro Paese, se in Italia è fiorito un fenomeno culturale che oggi fornisce all’ambientalismo internazionale un contributo di evidente peculiarità e un ricco spettro di motivi e di suggestioni. La parabola storica di Slow Food, nato ufficialmente nel 1987 a Bra, piccolo e grazioso centro nei pressi di Cuneo, costituisce infatti forse il contributo più originale che l’Italia abbia dato a quel vasto e multiforme movimento di idee che da oltre 30 anni sottopone a critiche radicali lo sviluppo industriale e il mondo sconvolto che esso ci consegna. Anche se – non c’è bisogno di dirlo – la storia di questa associazione, che oggi ha soci sparsi in tutto il mondo, non si esaurisce certo in tale singolare e recente apporto.

Slow Food non è partito dall’ambiente, dalla denuncia dei danni dell’inquinamento,dalla recriminazione per la distruzione di risorse spesso non rinnovabili, dalle minacce che incombono sul nostro futuro. Alla sua nascita hanno presieduto altre ragioni. Molto semplicemente e modestamente questa associazione è partita dal cibo, dal bene elementare, ma universale, che sta a fondamento della vita. Il mangiare. Un atto primigenio che ci spoglia di ogni arroganza tecnologica e ci riporta alla nostra ineliminabile animalità, ma ad un tempo alla nostra più profonda storia: quella che ci lega alla terra, al millennario e sapiente uso dei suoi frutti. Per la verità – in opposizione evidente al modello di alimentazione industriale dilagante negli USA – insieme al cibo genuino Slow Food rivendicava anche la lentezza del suo consumo. In quello slow, quale rovesciamento polemico di fast, c’era anche la riscoperta di un altro bene minacciato e travolto dalla frenesia industriale: la convivialità, il mangiare secondo ritmi non imposti, con le lentezze di un tempo non misurato, non scandito, non programmato. Sottolineo quest’ultimo aspetto non solo per rammentare che, in origine, Slow Food aveva individuato un motivo di critica radicale dell’intera civiltà industriale. Ma anche per fare osservare che quest’ultimo motivo non ha avuto negli ultimi anni la diffusione e la popolarità che merita. E’ vero, ci sono qua e là piccoli e sparsi segnali. Negli USA e in Canada, negli ultimi anni, sono apparsi gruppi intellettuali all’insegna della rivendicazione del take back your time, in Germania sono circolate pubblicazioni sporadiche sull’ Ökologie der Zeit. E anche in Italia il tema si fa strada timidamente (1).Ma siamo ancora lontanissimi dall’analizzare in maniera diffusa e sistematica come la società attuale stia soggiogando la stoffa stessa del nostro vivere, tenda a impossessarsi anche degli angoli più remoti del nostro tempo personale,modifichi i ritmi della nostra più intima biologia. Per il tempo della vita umana, per il consumo e l’uso del nostro tempo, occorre pensare una nuova critica radicale, rammentando che anch’esso – come i combustibili fossili – non è riproducibile, non è rigenerabile, si consuma una volta per sempre

Ma torniamo a Slow Food. Rivendicando la genuinità del cibo, questo gruppo guidato da Carlo Petrini, ha inevitabilmente dovuto scoprire la centralità dell’agricoltura: la grande madre delle risorse da cui il cibo prende vita. E naturalmente scoprire l’agricoltura di oggi partendo dal suo esito finale, il bene alimentare, non può non condurre a una critica profonda e radicale di un modello industriale per molti versi inaccettabile. L’agricoltura dei nostri anni, che certo ci dà cibo abbondante e a buon mercato, ha tuttavia trasformato le campagne nei luoghi più insalubri e inquinati della Terra. Il suo avanzare riduce la biodiversità – quello sterminato patrimonio di piante e animali donatoci dalla natura e selezionato da innumerevoli generazioni di contadini – inquina la terra, l’aria e l’acqua, uccide la vita animale che ha intorno, con un processo di artificializzazione tecnica sempre più spinta. Come si può conciliare tale forma di produzione con il cibo destinato agli uomini, cioè a degli esseri viventi che, per quanto immersi in contesti ipertecnologici, non cessano, per questo, di essere natura? Ecco, è, credo, dal cuore di questa insanabile contraddizione – e insieme per un ambizione più alta cui accenneremo – che nasce il nuovo libro di C.Petrini, Buono, pulito e giusto. Principi di nuova gastronomia, Einaudi Torino 2005, pp. 259. Si tratta di un ampio saggio che è anche un resoconto di viaggio nelle cucine, nelle agricolture, nelle comunità di varie regioni del mondo, con un partecipazione appassionata agli umili eroi che producono il cibo assai rara da trovare in altri testi “ gastronomici” Il libro si presenta, infatti, come un originale montaggio letterario in cui si alternano, distribuiti in vari capitali, il bilancio di oltre un cinquantennio di agroindustria, con dei diari – così li chiama l’autore – che sono il resoconto di incontri con agricoltori o con comunità del cibo: come vengono definite con felice espressione quei contadini o piccoli imprenditori che producono beni agricoli e alimenti integrati in un contesto popolare più ampio di cui sono espressione. Così, esperienze agricole e culinarie singolari, fatte nel cuore della Francia rurale o in California, presso i Sami (meglio noti come Lapponi) o nel Messico delle tortillas di granturco, sono raccontate da Petrini come percorsi originali e alternativi alla massificazione industriale, e testimonianza al tempo stesso delle potenzialità esistenti nel mondo di praticare un ‘agricoltura che non violenti la natura. Allo stesso modo, l’esperienza diretta o la riflessione sui guasti provocati dalla rivoluzione verde, a partire dagli anni ’60,nelle campagne del Terzo Mondo, si accompagna al racconto delle nuove consapevolezze che si stanno diffondendo nel realtà contadine di quelle terre.

A noi, tuttavia, interessa qui sottolineare il rapporto fra cibo e ambiente che Slow Food è venuto valorizzando negli ultimi anni. E nel testo di cui parliamo Petrini porta un contributo di prim’ordine a questo grande tema.Egli è molto setto su tale punto,sul nesso indisgiungibile tra cucina e qualità dell’habitat dove si producono i beni agricoli: “ Il gastronomo deve sapere di agricoltura, perché vuole sapere del suo cibo e perché vuole favorire i metodi agricoli che salvaguardano la biodiversità, i sapori e i saperi a essa connessi. Va da sé che, visto lo stato in cui abbiamo ridotto la Terra, è anche automatico che il gastronomo debba avere una coscienza ambientale, intendersi di ecologia. Ci tengo a ripetere che un gastronomo che non abbia coscienza ambientale è uno stupido, perché così si fa ingannare in ogni modo possibile e lascia che la terra, dalla quale trae l’essenza del suo lavoro, muoia” (pp.63-64). Non poteva essere detto più chiaramente. Ma vale anche l’inverso, che suona come una sfida innovatrice allo stesso ambientalismo:” Alla stessa maniera, si potrebbe inferire che un ecologista che non sia anche un po’ gastronomo è un personaggio triste, che oltre a non saper godere della natura, a perdersi il piacere alimentare, è disposto indirettamente a perpetrare danni all’ecosistema con il solo atto di nutrirsi in maniera sbagliata.”(p.64)

Ecco, in poche battute, venire alla luce un groviglio di connessioni sotterranee, spesso poco pensate: e al tempo stesso anche il nucleo originario della filosofia di Slow Food (che a mio avviso è alla base del suo successo mondiale).La gioia del mangiare genuino non è la mania, un po’ snob, dell’edonista solitario. Questa umanissima ricerca di felicità attraverso il cibo, appartiene a tutte le classi sociali e a tutte le genti che popolano la Terra. Pungola il misero proletario delle periferie del mondo, ma non abbandona gli agiati cittadini delle metropoli. E tutti hanno interesse – al di là della mistificazione pubblicitaria - a un cibo genuino, fatto di elementi non inquinati dalla chimica, uscito da un ambiente salubre, dove la manipolazione dell’agricoltore esalta e non mortifica la creatività della natura. Vivere bene, mangiare sano, essere più felici, non è la colpevole ricerca di un vantaggio privato e solitario, ma richiede, per realizzarsi, uno straordinario vantaggio collettivo: la salubrità ambientale delle campagne, la decontaminazione di una vasta parte del nostro mondo, la difesa della salute degli agricoltori e di tutti noi. Ecco così venir fuori il nucleo di un’intuizione geniale: un principio insopprimibile della vita, la molla primigenia dell’agire individuale(la ricerca della gioia) diventa la base per un progetto ambientalista di portata generale. A caricarsi sulle spalle il generoso programma di cambiare il mondo non sono solo i pur meritevoli e mai sufficientemente lodati “ guerrieri del no”, ma anche i più silenziosi “ signori del si”:gli innumerevoli esseri umani che vogliono continuare a fare del mangiare – come accade da millenni – una gioia inestricabile dalla vita.

Ma l’accenno che Petrini fa ai nessi e alle responsabilità del consumatore merita almeno una breve considerazione.Siamo infatti entrati in un epoca in cui il consumo di ogni individuo riveste sempre più apertamente una responsabilità generale, tanto sociale che ambientale.In un mondo che appare ormai in tutta la sua finitezza queste relazioni si vanno facendo sempre più nitide. Se io, cittadino italiano, consumo banane irrorate ancora con il DDT, non danneggio solo la mia salute, ma di certo, molto più gravemente, anche quelle dei contadini che nelle campagne del Terzo Mondo usano quel pesticida. Allo stesso modo, se consumo caffè di corporation che affamano i contadini produttori acquistando la materia prima a prezzi irrisori, dò una mano alle tante e clamorose ingiustizie che lacerano il mondo. In questo modo Petrini incontra la cultura dei movimenti che negli ultimi anni si son fatti promotori del commercio equo e solidale (2). Ma – arricchito anche dell’esperienza di Terra Madre, il grande raduno contadino a Torino, nel 2004 - lo fa con una visione più coinvolgente del ruolo mondiale dei consumatori. Come il buon gastronomo, anche il consumatore, infatti, è “un coproduttore” (p.164). Egli influenza e partecipa con le sue scelte personali, con il suo consumo, con la ricerca della sua gioia, alle scelte del contadino, al suo comportamento e al suo impegno di produttore. Ecco, dunque, una via possibile di nuova solidarietà, attraverso il cibo, con tutti i contadini della terra. Perché, a dispetto di tutti i dispositivi tecnici messi oggi in campo dall’agricoltura industriale, è pur sempre dai contadini che dipende la produzione degli alimenti.E il cittadino consumatore, che pretende salubrità e qualità dai suoi cibi, se é veramente consapevole, non può non pretendere che esso sia anche “giusto”: cioè che esso premi col giusto reddito anche gli agricoltori che l’hanno prodotto. Ovviamente, la giustizia e l’equità per i produttori è un esito meno automatico, rispetto a quello della salubrità e della qualità. Per ottenerla il consumatore deve fare un maggior sforzo di discernimento e di scelta. E occorre anche metterlo nella condizione di poterlo esercitare. Su questa strada, com’è noto, c’è ancora molto cammino da fare. Il libro di Carlo Petrini, insieme a tante informazioni e racconti, ci aiuta oggi a percorrerla con passione e lungimiranza. Abbiamo oggi una “guida” che ci mancava.

Questo articolo è in corso di pubblicazione nella rivista I Frutti di Demetra, bollettino di storia e ambiente

(1) Cf. J.de Graaf( a cura di) Take back your time. Fighting overwork and time poverty in America, Berret-Koehler, San Francisco 2003.Per questo movimento americano-canadese molto utili i siti www.newdream.org e www.simpleliving.net. In Germania è dagli inizi degli anni Novanta che il tempo comincia a essere studiato da una prospettiva ambientalista. Cfr M.Held, K.A.Geiβler(a cura di ) Ökologie der Zeit. Vom Finden der rechten Zeitmaβe, Wissenschaftiche Verlagsgesellschaft, Stoccarda 1993, e, sempre a cura degli stessi autori, Von Rhytmen und Eigenzeiten, Wissenschftliche Verlagsgesellschaft, Stoccarda 1995. Si veda anche il n. unico di “Politiche Ökologie”, del 1995, ripubblicato nel 2000, dedicato al tempo in agricoltura e soprattutto negli allevamenti: Zeit-Fraβ zurÖkologie der Zeit in Landwirtschaft und Ernärung. In Italia, in traduzione,. L.Baier, Non c’è tempo! Diciotto tesi sull’accelerazione, Bollati Boringhieri Torino, 2004. Chi scrive ha inaugurato la Third Conference of European Society for Environmental History and Sustainability (Firenze 16-19 febbraio 2005 ) con una relazione dal titolo Ecology of time( cfr. P. Bevilacqua, Ecologia del tempo. Note di storia ambientale, in “Contemporanea”, 2005, n.3.) Si veda da ultimo F. Crespi ( a cura di ) Tempo vola. L’esperienza del tempo nella società contemporanea, il Mulino Bologna, 2005

(2) Su tali aspetti cfr. F.Gesualdi, Manuale per un consumo responsabile. Dal boicottaggio al commercio equo e solidale, Feltrinelli, Milano 2002; e, più specificamente per il mercato alimentare( e per il ruolo positivo che possono svolgere le pubbliche amministrazioni) B.Halweil e D. Nierenberg, Attenzione a quel che si mangia, in Worldwatch Institute, “State of the World 2004, Consumi”, edizione italiana a cura di G.Bologna, Edizioni Ambiente Milano, 2004, p113 e ss.

Ho partecipato di recente a un convegno di economisti, e non ho potuto tacere il mio stupore. Ho ascoltato e apprezzato con partecipazione gli sforzi di tanti studiosi di valore di immaginare un nuovo corso economico, non asservito alle vulgate dominanti, pensato per realizzare interessi collettivi e non per celebrare le magnifiche sorti della crescita. E tuttavia - ecco il mio stupore - in tante dotte ed anche appassionate elaborazioni nessuno si è ricordato dell’esistenza dell’ambiente. La rimozione del nome e della nozione della natura è stata totale.

Ora, voglio precisare che qui non rivendico la menzione ad honorem di un problema. Ormai all ’evocazione del tema ambiente, in qualunque circostanza pubblica, non rinuncia più nessuno. Non c’è, si può dire, discorso politico, da quello del capo dello Stato fino al sindaco del più minuto e sperduto paese, che non aggiunga il richiamo all’ambiente come componente corrente del proprio armamentario retorico.

Non è dunque questa la recriminazione. Nè rivendico la necessità di inserire il tema come un ingrediente necessario a completare un quadro di razionalità a suo modo completo. Non è il basilico necessario a rendere profumata l’insalata di pomodori. Solo l’enorme distanza che ancora separa alcuni saperi del nostro tempo - tra questi l’economia, oltre, naturalmente, la cultura media corrente - dai problemi e dalle conoscenze racchiusi nel temine ambiente, può indurre a percepirne la rivendicazione come il segno di una subalterna petulanza.

In realtà col termine natura e ambiente si evoca una diversa interpretazione dell’economia: più precisamente un suo più o meno completo capovolgimento. Quando si lamenta l’assenza di un qualunque orizzonte che includa le risorse naturali all’interno del calcolo economico si allude a un fatto oggi sempre meno occultabile: il processo di produzione della ricchezza non avviene soltanto grazie alla combinazione di lavoro e capitale. C’è un tertium, a lungo negletto, rimosso, che si chiama natura, risorse. Il linguaggio economico ha cancellato il ruolo e l’esistenza stesso di questo terzo soggetto, chiamandolo materie prime.

La realtà di quest’ultime viene esaurita in un costo, rappresentata e subito affondata nell’insignificanza di un prezzo. Ma oggi le materie prime disvelano la loro reale natura economica: esse sono in realtà risorse finite.Parti di un patrimonio che è esauribile. E tale realtà ha due esiti teorici di straordinaria portata. Essa, semplicemente, viene a imporre una verità, che dovrebbe già appartenere al senso comune: la crescita non può essere un processo infinito. Mentre al tempo stesso la finitezza delle risorse disvela il loro carattere di patrimonio comune dell’umanità. Il rame, il ferro, l’acqua, le foreste sempre meno appariranno proprietà e dominio dei privati e dei singoli Paesi detentori, e sempre più appariranno beni comuni universali, perché ad essi è affidata la sopravvivenza collettiva del genere umano. Risorse esauribili e proprietà privata diventano in prospettiva inconciliabili.

Di fatto, la grande maggioranza degli economisti continua ad ignorare questo terzo attore che è la natura, in parte perché l’esauribilità delle risorse è assunta come una questione dell’avvenire, e in parte per la fede implicita nella potenza dell’innovazione tecnologica che, prima o poi, troverà una soluzione alla finitezza delle materie prime. Per la verità tale fede ha trovato anche una formulazione teorica autorevole. Facendo la felicità degli economisti ambientali il premio Nobel Robert Solow ha valicato la misura del buon senso affermando: « non c’è in linea di principio alcun problema: il mondo può, in effetti, andare avanti senza risorse naturali». In realtà egli ha onestamente detto ciò che pensa la maggioranza degli economisti, quando pensa. E ha comunque dato formulazione ai comportamenti economici reali dominanti. Non ha avuto grandi difficoltà Mauro Buonaiuti a coprire di gentile scherno uno simile pretesa. "Se, come affermano i neoclassici, la funzione di produzione altro non è che una ricetta" egli ha scritto - allora Solow implicitamente afferma "che sarà possibile, riducendo la quantità di farina, cuocersi un pizza più grande semplicemente utilizzando un forno tecnologicamente più avanzato, oppure due cuochi al posto di uno" (M. Buonaiuti (a cura di ) Obiettivo decrescita, EMI, Bologna 2004, p. 26)

Tuttavia, pur avendo l’ambito teorico un’ovvia rilevanza, la riflessione deve essere trascinata sul terreno delle questioni concrete.Uno dei limiti di comunicazione dell’ambientalismo è sempre stato un eccesso di proiezioni dei problemi nel futuro, mentre la politica e l’economia vivono solo di presente. E’ facile che chi ammonisce sul deserto che rischiamo di lasciare alle nuove generazioni venga osservato come una petulante Cassandra. Ora è invece già oggi che il consumo di natura ai fini dello sviluppo mostra il suo lato irrazionale e distruttivo.E’ già oggi che la crescita economica è sempre meno produttrice di benessere sociale e sempre più dissipatrice di risorse scarse, generatrice di danni collettivi, di malessere reale.

Il caso più evidente che può esemplificare una tale situazione è quello che riguarda l’automobile. Nell’età dello sviluppo questo mezzo ha rappresentato simbolicamente e di fatto uno strumento di emancipazione, di movimento agevole nello spazio, di libertà individuale. Oggi una tale situazione appare esattamente rovesciata. Ogni nuova auto che entra nel mercato toglie un’ulteriore frazione di spazio a quello già ridotto oggi disponibile, rende più lento il traffico di una qualche unità di tempo, accresce l’inquinamento e il danno alla salute dei cittadini, dà il suo contributo alle piogge acide, accresce il danno agli alberi, agli edifici, e ai beni monumentali.E’ vero che una parte delle auto nuove svolge una funzione di sostituzione, con una sua utilità, perché attenua l’inquinamento. Ma essa non ferma l’aumento inarrestabile del parco macchine complessivo. Dunque, mentre è sempre più insignificante il soddisfacimento soggettivo e funzionale prodotto dal bene nel consumatore, appaiono sempre più crescenti le difficoltà e i danni sociali che esso scarica sulla collettività. L’automobile, d’altro canto, sempre più tradisce il suo fine originario, quello di accrescere la mobilità individuale sul territorio, anche in un altro modo.I suoi costi di acquisto e soprattutto di gestione sono infatti crescenti. Per una mobilità sempre più lenta, l’utente deve spendere sempre più in tassa di circolazione, assicurazione, parcheggio - chi ha girato in auto per le città americane o del nord Europa è bene informato - carburante, olio, riparazioni, sostituzioni di pezzi, multe sporadiche, ecc. Dunque egli è costretto a spendere una misura crescente di tempo di lavoro per poter godere di un mezzo sempre meno risparmiatore di tempo. Paradossalmente è costretto a rimanere fermo più a lungo al lavoro per poter pagare i costi crescenti della crescente immobilità del suo mezzo di trasporto.

Ma questa è solo una parte della riflessione. L’ industria automobilistica è la più vorace consumatrice di materie prime esistente al mondo.Secondo un calcolo della fine del secolo scorso tale settore assorbiva il 20% della produzione mondiale dell’acciaio, il 10% dell’alluminio, il 35% dello zinco, il 50% del piombo, il 60% della gomma naturale. E da questo calcolo sono naturalmente esclusi i cosiddetti flussi nascosti, una dimensione dei costi calcolata di recente dagli economisti ambientali. Noi siamo soliti infatti valutare la quantità delle materie prime nel loro stato finale di merce. Ma prima che esse divengano tali, in realtà, si realizza un processo nascosto e spesso grandioso di distruzione di natura vivente. Quando si consuma 1 litro di benzina occorre mettere nel conto 18 litri d’acqua necessaria per la sua depurazione. Per estrarre un q. di rame, o di un qualunque altro minerale, in realtà, si distruggono estesi territori, si alterano gli habitat circostanti, si consumano ingenti quantità di acqua, talora si inquinano fiumi, ecc. Finora, queste «esternalità» come le chiamano pudicamente gli economisti, non venivano considerate, perché i territori, la natura senza padrone, veniva considerata res nullius.

Naturalmente, questo genere di considerazioni vale per qualunque altra merce.Poichè i teorici dello sviluppo vedono nella crescita dei consumi un fattore della crescita generale della ricchezza, oggi occorre saper vedere quanta produzione di ricchezza fittizia e quanta distruzione di ricchezza reale si realizza, di fatto, attraverso l’atto del consumo. Valga per tutti l’esempio dei capi d’abbigliamento. C’è un consumo che appaia più innocuo ed economicamente positivo dei capi d’abbigliamento in cotone ? Eppure pochi sanno che l’uso di una maglietta ha alle spalle una lunga storia di inquinamento. Si comincia dai campi, dove il cotone, in quasi tutti i Paesi, riceve trattamenti intensivi di pesticidi - il 10% del totale consumato nel mondo - che inquinano le falde idriche, danneggiando fiumi e laghi, colpiscono la biodiversità delle campagne circostanti, consumano spesso ingenti quantità di acque, danneggiano gravemente la salute dei coltivatori. Ma anche quando è diventata materia prima, pronta per l’uso industriale, il cotone continua, in realtà, una seconda storia di degradazione di risorse, attraverso il consumo di acqua e la lavorazione chimica connessa ai processi di colorazione.

Dunque si comprende bene che il processo di produzione di merci non può più contare, com’è avvenuto sino a oggi, sulla rimozione dei costi fatti gravare sulla natura e sulla collettività.Un consumo sempre più forzato, artificiale e indotto, che distrugge masse crescenti di risorse naturali scarse, è una dissennatezza non più occultabile..E le dissennatezze - se mai il mondo sarà orientato da qualche senno - non andranno molto lontano.

Il tribunale della UE, su richiesta della Commissione, ha di recente dato torto alle regioni che hanno dichiarato il proprio territorio Ogm free. Crediamo che si tratti di una sentenza grave, che non solo viola le autonomie regionali, ma contraddice il principio di precauzione che l’UE ha finora adottato in questa materia.

Vediamo in breve le ragioni molteplici e gravi per cui bisogna chiamare i cittadini alla vigilanza e alla protesta.

1. Gli Ogm sono piante che incorporano materiale genetico del mondo animale per combattere alcuni parassiti. Si tratta di un azzardo grave. Nel momento in cui l’opinione pubblica mondiale è in allarme per la possibilità che il virus dell’ «influenza dei polli» si possa trasmettere all’uomo, gli Ogm saltano le barriere naturali tra le specie e impongono all’alimentazione umana e animale un prodotto che non esiste in natura.

2. Non è mai stata condotta alcuna indagine epidemiologica che rassicuri sugli effetti degli Ogm sulla salute umana e animale.La Food and Drug Administration degli USA si è solo limitata a riconoscere l’equivalenza dei prodotti tradizionali con quelli geneticamente modificati. Mentre alcune indagini sperimentali hanno osservato danni agli organismi delle cavie. Nulla può rassicurarci sugli effetti di lungo periodo della loro assunzione.

3. Come viene ammesso anche da alcuni sostenitori degli Ogm, in campo aperto le nuove piante contamineranno le varietà tradizionali, creando situazioni di alterazioni ambientali che nessuno è in grado di prevedere.

4. L’ingresso degli Ogm nelle campagne europee sarebbe un colpo mortale alle nostre economie agricole, ai nostri prodotti tipici, alla nostra cucina, al nostro turismo.Nel giro di un paio di decenni, infatti, scomparirebbero le nostre varietà tradizionali (le viti del Chianti, le mele trentine, gli albicocchi vesuviani) sostituite da piante «patentate», manipolate nel loro corredo genetico e rese indistinguibili dalle stesse piante coltivate in qualunque punto del pianeta.Sarà sempre possibile aggiungere a piante e animali qualche nuova caratteristica biologica per sostituire gli esemplari tradizionali. Bisogna saper prevedere che la tendenza oggi in atto da parte di alcune grandi Corporations è di sottoporre l’intero mondo vivente ai processi di trasformazione e omologazione industriale. I profitti attesi sono enormi. Se non ci opporremo, tanto i nostri prosciutti che i formaggi francesi,i riesling tedeschi o le birre belghe saranno private del loro legame col territorio e le sue materie prime e consegnate al mondo indistinto degli alimenti manipolati in laboratorio. Non è allarmismo. Una volta che gli Ogm saranno penetrati nelle nostre economie, il processo di omologazione genetica diventerà inarrestabile.

5. Non è vero che gli Ogm risolverebbero il problema della fame . Come ricorda la FAO, nel mondo c’ è cibo a sufficienza per tutti : la presenza di milioni di affamati è dovuta all’iniquità della sua distribuzione. Al contrario di ciò che superficialmente si afferma, gli Ogm sono una grave minaccia per le società dei Paesi poveri. Perché la loro coltivazione risulti conveniente, infatti, essi richiedono una agricoltura capital intensive, cioè altamente meccanizzata, insediata in vaste superfici aziendali, sostenute da intense concimazioni chimiche e diserbanti. E’ esattamente l’agricoltura ipertecnologica che caccerebbe dalle loro terre milioni di contadini spingendoli ai margini di nuove e ingovernabili megalopoli.

7. Non abbiamo alcun bisogno dei prodotti Ogm. Tanto l’agricoltura europea che quella americana sono eccedentarie, cioè producono oltre il bisogno delle rispettive popolazioni e la collettività deve sostenere dei costi per limitare l’eccesso di derrate. Fare entrare gli Ogm in Europa, esponendo gratuitamente al rischio la salute dei cittadini, preparando l’erosione della biodiversità agricola delle nostre campagne, è una scelta suicida che nessuna superficiale ideologia del libero commercio può giustificare.

Roma, 12 ottobre 2005-

Il grande mutamento dell’agricoltura contemporanea si verifica quando i concimi chimici si diffondono nelle campagne. Da allora si avviano una serie di processi a catena che trasformeranno profondamente il rapporto fra l’uomo e la terra, l’ambiente agricolo, la salute delle piante e la qualità dei loro prodotti.

Una prima importante conseguenza consiste nel fatto che i concimi chimici non fertilizzano la terra, ma nutrono direttamente le piante. Questa apparentemente insignificante osservazione coglie in realtà una novità di vasta portata. Infatti, poiché si possono far crescere i raccolti gettando nella terra una determinata quantità di concimi minerali, i coltivatori hanno progressivamente abbandonato i terreni a se stessi, senza più curarsi di rinnovarne la fertilità. Oggi i suoli coltivati con concimazione chimica sono gravemente mineralizzati, privi di humus, duri, facilmente erodibili, e sono in grado di produrre solo a condizione di elevate dosi di concime. Proprio la mancanza di cura nei confronti del suolo in quanto organismo vivente ha portato gli agricoltori, nel corso del XX secolo, a trascurare le rotazioni agricole che si praticavano da millenni. In questo modo le erbe infestanti sono diventate un problema crescente: un problema che è stato affrontato con il diserbo chimico, cioè attraverso sostanze erbicide che inquinano l’aria, l’acqua e la terra. Inoltre, la possibilità di vedere comunque dei risultati produttivi, ha condotto gli agricoltori ad accettare la crescente divisione - e poi la separazione definitiva - tra allevamento e agricoltura. Senza letame animale la terra si è sempre più impoverita di humus. L’agricoltura industriale ha così creato da una parte terreni sempre più poveri e inquinati e allevamenti sempre più giganteschi in cui gli animali vivono in condizioni spesso di atroce sofferenza, e grazie all’uso costante degli antibiotici e di medicinali.

D’altro canto, il fatto che i concimi minerali fertilizzano direttamente la pianta non è, a sua volta, senza conseguenze. Poiché le piante «non si nutrono» in maniera equilibrata attraverso l’humus esse sono forzate innaturalmente ad assorbire i sali dei concimi minerali. Tale forzatura altera la loro fisiologia ponendole spesso in condizione patologica. E ‘ questa una delle ragioni prevalenti per cui le piante, ammalandosi, vengono infestate dai parassiti. Un evenienza che, com’è noto, viene affrontata con i pesticidi, cioè attraverso altri veleni chimici. Il circolo vizioso della chimica che chiama altra chimica continua all’infinito.

Così dopo almeno un secolo di agricoltura industriale - un’agricoltura che certamente ha conseguito importanti successi sul piano dei livelli produttivi e della produttività del lavoro - noi possiamo osservare tutti i risvolti negativi che stanno dietro i record dell’abbondanza: le campagne sono più inquinate delle fabbriche, i prodotti agricoli presentano rischi per la salute, le caratteristiche organolettiche di frutta e ortaggi sono gravemente scadute, la biodiversità agricola si è ridotta, limitando così l’antica ricchezza delle cucine tradizionali.

Oggi, tuttavia, l’agricoltura biologica e l’agricoltura biodinamica rappresentano tanto in Europa che in USA una prospettiva di grande interesse, perché esse puntano a rigenerare la fertilità della terra, a combattere i parassiti senza mezzi chimici, a produrre prodotti in cui la salubrità e la qualità sono messi al primo posto. Da queste nuove agricolture nascono i prodotti con cui è possibile continuare ed esaltare la nostra secolare tradizione gastronomica.

Io ho sperimentato una particolare forma di perdita e di ritrovamento della mia lingua materna. Si tratta naturalmente di una vicenda intellettualmente minore, non solo perché si tratta di un caso personale. Benchè oggi il problema delle diversità linguistiche, della sopravvivenza dei dialetti e delle lingue «minori» può fornirle qualche interesse. Faccio tale affermazione di convinta modestia perché io non posso presentare e offrire qui l’esperienza di una scrittura costruita sullo sdradicamento dai luoghi originari della mia lingua. La mia vicenda di personale spaesamento non ha dato luogo - come è accaduto, ben più drammaticamente, agli scrittori, a coloro che si sono impegnati in linguaggi creativi - a una reinvenzione di linguaggio, resa necessaria dalla perdita dell’alfabeto materno dell’infanzia. Insomma non posso dire con Emile Cioran che abbandonare la propria lingua costituisca « il più grave infortunio che possa capitare a uno scrittore, il più drammatico». Cioran ha fatto ricorso a una bella immagine a tal proposito. Ha scritto: «Se si potesse insegnare la geografia al piccione viaggiatore, il suo volo incosciente, che va diritto alla mèta, diventerebbe impossibile … lo scrittore che cambia lingua si trova nella situazione di questo piccione sapiente e disorientato». Ma io, per mia fortuna, non ho dovuto abbandonare il rumeno per scrivere in francese.

L’approdo finale della mia esperienza, sotto questo stretto profilo, si potrebbe dire che è, molto più modestamente, il silenzio. Lo spegnimento della lingua della vita per potere accedere alla lingua della comunicazione ufficiale, al cosiddetto linguaggio della scienza. L’esperienza che posso qui rapidamente raccontare è dunque quella di una mutilazione, che solo in negativo può portare un qualche rapsodico contributo alla esplorazione del tema che ci è richiesta dal convegno. .

Io sono nato in Calabria, a Catanzaro, sul finire della seconda guerra mondiale, e vi son vissuto per tutta l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza, profondamente immerso nel dialetto locale. La mia origine sociale e le mie frequentazioni quotidiane, già dagli anni dell’ infanzia, mi hanno tenuto alquanto lontano dall’italiano ufficiale, salvo, naturalmente, l’apprendimento scolastico e le mie letture. Ma tutte le altre lingue scoperte a scuola dall’italiano al francese, dal latino al greco, sono servite a mostrarmi altri e più complessi mondi espressivi, non certo ad alterare e intaccare il «vincolo di sangue» che mi legava al dialetto. Quest’ultimo restava sempre, del resto, la lingua vera della classe, del gruppo, della piccola comunità dei compagni. Linguaggio della complicità, dello scherzo, dell’ironia, della trasgressione, dell’amore, del sesso.

Vivere immersi nella propria lingua, nello stesso luogo in cui si è nati, dà un senso di identità e di pienezza che rafforza oltre ogni misura il vincolo esistenziale con le parole. Il linguaggio diventa una seconda natura, un elemento di vita necessario e al tempo stesso inconscio e involontario, come respirare l’aria: se volete, il senso di orientamento del piccione viaggiatore di Cioran. Allontanarsene ha un prezzo, anche nel caso in cui non si è costretti a una scrittura letteraria in una lingua straniera.. Io, ad esempio - non so se questa testimonianza è troppo personale - ho sempre identificato l’abbondano obbligato del dialetto con la perdita, o il forte affievolimento, di quel tanto di attitudine umoristica che faceva parte del mio temperamento.La battuta di spirito, nella mia mente, sin dalle origini, si è formata con le parole primigenie del mio dialetto. L’ironia, lo scherzo, lo sberleffo, talora lo scherno esplodevano sempre all’interno della piccola cerchia della vita comunitaria, dentro quella che potrei chiamare una « comunità linguistica». Ed essi avevano le proprie parole e i propri codici. E’ probabile che ci sia sempre un sostrato storico, una speciale stoffa semantica sedimentatasi nel tempo, alla base dell’umorismo. Il dialetto possedeva inoltre delle parole uniche, dei termini che racchiudevano tipologie umane intraducibili in altre lingue. Penso - tanto per suggerire un’idea - a un termine come strolacu - probabile corruzione di astrologo - con cui venivano designate le persone bislacche e inconcludenti che allora - ma solo allora - non mancavano nel campionario antropologico corrente. Ma ancora più speciale era il termine culistru: una espressione sottilmente onomatopeica di cui non ho mai riscontrato l’eguale in altre lingue. Lo si usava per schernire la persona narcisista, vanesia, piena di sé. Quella parola la bollava alludendo al movimento e alla torsione delle terga di chi quasi femminilmente si pavoneggia. Ma il dialetto aveva espressioni impareggiabili per fare umorismo anche sulle situazioni più penose. Benché, fortunatamente, non più corrente ai miei tempi, quando in casa non c’era nulla da mangiare, si era soliti dire che a gatta passìa subba ‘a furnacia: la gatta passeggia sulla fornace, la cucina desolatamente spenta.

Debbo tuttavia dire che la perdita in certi casi è anche un ritrovamento. Un legame identitario troppo forte talora impedisce, per mancanza di comparazione con altre lingue, di cogliere le strutture profonde della propria. Solo quando dalla mia città mi sono trasferito a Roma, quando ho dovuto rinunciare in maniera costante e quotidiana all’uso del dialetto, ho scoperto dei piccoli tesori semantici che prima mi erano sfuggiti. Mi sono accorto, ad esempio, dell’assenza, nella lingua italiana di un verbo capace di esprimere la disposizione corporale e psicologica della persona che vuol dormire o sta già dormendo.Il dialetto calabrese la possiede, ed è una tenerissima metafora poetica, tratta dal mondo animale: ‘ngattarsi, cioè raggomitolarsi come fa il gatto che vuol dormire.Ngattati e dorma erano le parole premurose con cui alla sera la mamma metteva a letto il suo bambino o la sua bambina . Nessun termine della pur ricchissima e meravigliosa nostra lingua può rendere il termine papariare, così diffuso un tempo nel «lessico familiare» della mia città, e così carico di figurazioni e risonanze intraducibili. E’ il verbo che esprime l’andare a zonzo, come fa la papera, ma con un tocco speciale di dissipazione del tempo, di dondolamento nell’incedere, e di nessuna cura della méta da seguire. E sempre restando nel mondo animale senza sinonimi mi appare ancora oggi il termine runduniare: il particolare moto senza posa di certe persone irrequiete che come il rondone vanno di qua e di là cercando qualcosa di indefinito, che sfugge agli osservatori esterni. Questi termini mi hanno fatto comprendere, più di qualsiasi ricerca storica, quanto profondo, e per così dire fondativo, sia stato il legame di quel piccolo mondo urbano con i fenomeni della natura, le piante, gli animali, e insomma il dominante contesto rurale da cui esso era ancora circondato

Ora, c ‘è un piccolo paradosso nella mia personale storia intellettuale e professionale Un paradosso che può forse fornire qualche valore alla mia testimonianza. A un certo punto della mia vita io sono diventato uno storico e questo mi ha posto di fronte alla ovvia necessità non solo di accettare, ma di ratificare l’insignificanza della mia lingua originaria anche nella lingua scritta. Comunicare voleva dire usare una lingua irrigidita in codici e regole. Un mezzo “neutro”, privato degli spazi reconditi, delle ombre, dei suoni, dei segreti, delle complicità che ogni dialetto possiede, frutto linguistico di un legame profondo delle comunità con la terra, gli animali, la vita e la morte.Per scrivere di storia io dovevo sopprimere quella personale stoffa storica personale che era il mio dialetto.Le necessità del linguaggio scientifico mi disancoravano ancor più radicalmente dalla patria geografica e culturale che avevo fisicamente abbandonato per intraprendere la vita universitaria e poi l’avventura della ricerca. Ma il paradosso sta nel fatto che l’approdo allo studio della storia ha coinciso, per me, con una più profonda conoscenza della realtà e del passato della mia regione di origine. Tramite la ricerca storica, almeno che ho condotto agli esordi e per una certa fase, io ho scoperto il mondo delle campagne calabresi, il popolo multiforme dei contadini, la loro vita, le loro culture. Grazie alla cancellazione della lingua materna, e accettando i canoni del sapere accademico, io ho incontrato il mio passato, la mia storia, il fondo antropologico su cui quella stessa lingua era sorta. Ma alla geografia dei luoghi, delle economie, dei fatti e dei processi di trasformazione sociale che sono andato esplorando non corrispondeva una geografia dei linguaggi, dei dialetti, delle forme di comunicazione e di rappresentazione di quell’ inesauribile tesoro verbale elaborato in secoli di vita dal mondo popolare. In quella ricostruzione gli uomini e le donne parlavano indubbiamente con i fatti e i processi materiali di cui erano protagonisti o vittime, ma non con le proprie parole. I contadini, incapaci di lasciare tracce scritte della loro esperienza, del loro passaggio sulla terra, restavano muti. Sono rimasti muti anche per me. Solo di tanto in tanto sono riuscito a dar loro voce, utilizzando quei particolari fossili verbali che sono i proverbi e i modi di dire. Reperti inutilizzabili per una storia événementielle, ma imprescindibili per chi voglia ricostruire codici culturali e le strutture profonde della mentalità. «Pari venutu i Cutroni», sembri tornato da Crotone, si diceva nella provincia di Reggio delle persone malandate nel fisico, come se avessero duramente lavorato nelle campagne dove imperversava la malaria. «Faticamu da li stidri da matina a li stidri de la sira»: fatichiamo dalle stelle del mattino alle stelle della sera. Così, con involontaria poesia, si esprimevano le contadine della provincia di Catanzaro nel dopoguerra, mentre lottavano per più dignitose condizioni di vita.

(Testo, lievemente modificato, di un intervento letto al Convegno “I confini della scrittura. Dispatri reali e metaforici nei testi letterari.” Università di Roma La Sapienza, 10-12 marzo 2005.)

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