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Perché un giovane che in Italia voglia iscriversi all'Università deve incontrare così tanti sbarramenti in un numero oggi crescente di Facoltà? Non è sufficiente che egli paghi le tasse e poi affronti la severa selezione degli esami, vera “prova attitudinale” affrontata davanti a una commissione di docenti? Sostengono i propugnatori del numero chiuso che lo sbarramento agli ingressi alle nostre Università serve a garantire decenti standard di servizi agli studenti che superano i test. A onor del vero, da quando esiste il numero chiuso, che ormai da anni sta dilagando come una malattia , non mi pare che on Italia i servizi abbiano conosciuto un qualche visibile miglioramento. A tutti è noto che è accaduto esattamente il contrario e ciò a causa dei tagli lineari degli ultimi anni. Viene dunque facile e spontanea la replica : ma perché, se esiste una cosi vasta domanda della nostra gioventù, che preme sulle vecchie strutture universitarie, non si investe per ampliarle e ammodernarle ? Perché non si incrementano i servizi? Non lamentiamo un basso numero di laureati rispetto agli stati d'Europa? Non deve la classe dirigente di un grande Paese tentare di rispondere a una richiesta civilmente, economicamente e culturalmente importante di così tanti giovani? E' il caso di rammentare che essi aspirano a un lavoro di qualità più elevata, che vogliono accedere alle professioni, che amano le scienze e le lettere e che per questa via rendono più prospero e civile il Paese ?

A tale obiezione si risponde con un'altra più impegnativa argomentazione: per molti profili professionali (medici, veterinari, architetti, ecc) non esiste capacità di assorbimento da parte del mercato del lavoro e quindi non sarebbe giusto assecondare la tendenza spontanea dei giovani a intasarlo ulteriormente. E' questa la risposta di apparente buon senso, che fa la stoffa del senso comune rassegnato oggi dominante. Essa appare ragionevole perché tessuta col filo del conformismo economicistico in cui si distilla la miseria culturale della nostra epoca.

Ma perché impedire a un giovane che voglia studiare medicina di accedere liberamente ai corsi, di misurarsi con le discipline, di affrontare gli esami con la propria preparazione, sbarrandogli ex ante la strada con dei quiz che a volte penalizzano persone dotate, rendendo talora impossibile il loro progetto di vita? Dopotutto, un giovane può aspirare a diventare medico perché vuole andare a praticare tale meritoria professione in Bangladesh o in Uganda, perché è nel suo progetto di vita svolgere un'attività lavorativa che abbia anche un'utilità sociale e non sia soltanto finalizzata al reddito. Non viviamo in un mondo globale? Non dobbiamo sentirci cittadini del mondo? Non gridano tutti ai quattro venti che i confini delle nazioni sono saltati? E allora perché questa nostra sedicente società liberale assicura la cittadinanza alle merci e non anche alle persone?

Ma c'è un'altra obiezione. Il giovane può voler studiare medicina perché sogna di fare il ricercatore in quel campo disciplinare, perché sente di possedere il talento e la vocazione. Perché sbarrargli la strada con un quiz cervellotico, che può definitivamente compromettere le sue legittime aspirazioni? Non è importante favorire la ricerca scientifica, l'ingresso di giovani intelligenze in questo ambito fondamentale della conoscenza ? Non troviamo scritto dappertutto, fra poco anche sui muri delle osterie di paese, che la ricerca aiuta la crescita?

Ma esiste un'altra e più dirompente obiezione, che, a mio avviso, mostra alla radice l'incostituzionalità del numero chiuso e la vocazione autoritaria delle società neoliberiste. Percorrere, con lo studio, i curricula universitari per diventare medico, veterinario, architetto, (ma anche chimico o ingegnere) ecc. non significa semplicemente impossessarsi di un insieme di tecniche per poi svolgere un mestiere. Questo è quel poco che riescono ad afferrare gli economisti neoliberisti. Studiare le discipline scientifiche, che portano alla fine alla professione, costituisce un processo formativo rilevante, non dissimile da quello che compiono i giovani nelle facoltà umanistiche. Per diventare medico o architetto occorre studiare matematica, chimica, urbanistica, ecc, ma questo significa acquisire conoscenza, farsi una visione del mondo. Nell'accedere a una professione, che non si esaurisce nell'apparato delle sue tecniche specialistiche, si conquista dunque una rilevante fisionomia e ruolo intellettuale, un potenziamento della personalità , una dotazione culturale che arricchisce l'intera società.

Come si può impedire agli individui di perseguire un simile percorso di umana emancipazione, base fondamentale della nostra civiltà? Non è evidente che una società la quale subordina la formazione e il destino sociale degli individui alle condizioni del mercato del lavoro è una società apertamente illiberale, che inchioda i singoli nelle caselle delle strutture economiche esistenti? Non appare chiaro come la luce del sole che essa non pone gli individui nelle condizioni di superare i limiti dell'esistente, ma li subordina a questi? Quale sforzo mentale è necessario per comprendere che questi sbarramenti sono dunque le avvisaglie di una programmazione autoritaria dei destini sociali e culturali delle persone?

E' il caso di osservare che tale posizione è l'esatto rovesciamento del messaggio di libertà individuale che i neoliberisti vanno propagandando da decenni in ogni canto di strada. Come si spiega un tale paradosso? La risposta indiretta ce l' ha data da tempo Milton Friedman, uno dei padri fondatori del neoliberismo, che ha dedicato particolare attenzione al nesso fra scuola e mercato del lavoro. In un testo del 1980, Liberi di scegliere, scritto insieme alla moglie Rose, egli lamentava esplicitamente: «in un paese come l'India, una classe di laureati che non trovano il lavoro che ritengono adatto al loro livello di istruzione, è stata fonte di agitazioni sociali e di instabilità politica. Dunque la disoccupazione intellettuale è politicamente pericolosa, genera movimenti sociali, danneggia l'economia. Occorre perciò scoraggiarla. O quanto meno bisogna neutralizzarla. In Italia l'attuale ministro dell' Istruzione e dell' Università - e con lui l'intero sistema dei media- svolge tale compito attraverso l'ideologia del merito: uno stratagemma ideologico per far sentire le centinaia di migliaia di giovani pur bravi e preparati, che non passano i test, che non superano i concorsi, che non trovano un dignitoso posto di lavoro, immeritevoli di raggiungere quell'obiettivo. Le vittime devono sentirsi, malgrado il merito già conseguito, responsabili del loro fallimento, messi nella condizione di non poterlo addebitare ad altri che a se stessi. In realtà, è ormai evidente che il capitalismo oggi non è in grado - con la presente organizzazione del lavoro – di offrire occupazione al numero crescente di lavoratori intellettuali che esso stesso produce. Perciò cerca di filtrare una élite ristretta, la più “produttiva” possibile, in grado di incrementare la valorizzazione del capitale.

Il resto deve rimanere fuori, a pascolare nei campi angusti e affollati della precarietà e della marginalità. La nostra società tende a organizzarsi per l'inclusione dei pochi – quelli strettamente necessari – e l'esclusione dei più. Ma ha bisogno, per ovvie ragioni politiche, di camuffare in qualche modo questo spreco gigantesco. Ed ecco a tal fine correre in soccorso politici, rettori, economisti, giornalisti, docenti universitari, che alzano le fitte cortine fumogene dell' ideologia del merito. Ma se si diradano le nebbie, in Italia appare ormai evidente che una oligarchia di anziani, asserragliata nei propri bastioni , sta sparando a pallettoni contro i propri figli e nipoti.

finanziarie, gravata da un considerevole debito pubblico. Anzi, si può dire che il nostro Stato-nazione sorge, nel 1861, su una montagna di debiti contratti per sostenere le nostre guerre d'indipendenza. L'Italia, dunque, nasce indebitata, ma per ragioni ben diverse da quelle dei nostri anni. E tuttavia, allora come oggi, i gruppi dirigenti pensarono di trovare una soluzione mettendo in vendita il nostro patrimonio: in quel caso il vasto complesso dei demani ereditati dai vari Stati regionali. Si trattava di un immenso complesso di terreni ed annessi che si pensò di vendere ai privati per risanare le esauste casse del pubblico erario.

Come ha ricordato una giovane storica, Roberta Biasillo, sulle pagine di questo giornale (3 aprile 2012 ) contro questa scelta si levò la voce di un giuristadell'Italia liberale, Antonio Del Bon, che in un “manifesto “ del 1867, elencava con grande saggezza e competenza le ragioni che sconsigliavano la vendita del nostro patrimonio immobiliare. Egli consigliava, al contrario, di offrire ai privati le terre demaniali con un contratto di fitto venticinquennale, così da non prosciugare i capitali di chi investiva, stimolando al contrario l'utilizzo produttivo dei terreni e lasciare tuttavia i demani in proprietà dello Stato, quale «Tesoro della Nazione... un tesoro produttivo indefinitamente .” da conservare anche per le future generazioni.

Ora, a consigliare di non vendere i nostri beni pubblici, ma di utilizzarli in altro modo per abbassare il livello del nostro debito, concorrono più ragioni che è bene non dimenticare. Innanzi tutto - e questo è noto anche agli uomini del governo - nell'attuale situazione di mercato l'operazione si configurerebbe come una vera e propria svendita. E ciò a prescindere dalla riuscita tecnica dell'operazione. L'obiezione secondo cui tramite un fitto di lungo periodo la somma che lo Stato incasserebbe sarebbe insufficiente, ha scarso valore, perché questo accadrà comunque. Vendere beni pubblici è difficile. E il rischio che lo Stato corre è di privarsi di un immenso patrimonio, con manufatti anche di grande valore, ricavando alla fine somme irrisorie. Questo è accaduto anche negli anni '60 dell' 800. Come ha ricordato la Biasillo, nel 1872 l'allora ministro delle Finanze Quintino Sella dichiarò alla Camera che dalla privatizzazione di beni il cui valore era 700.798.613 di lire, lo Stato aveva incassato solo 277 milioni. Non diverso esito si è avuto dalle vendite recenti. Dalle ultime due operazioni di cartolarizzazione del Governo Tremonti, a fronte di una privatizzazione di beni per 16 miliardi di euro, alle casse dello Stato ne sono arrivati solo 2. Ma occorre richiamare alla memoria una lezione storica che vale perfettamente anche per il presente. Tutte le esperienze di vendita di beni, sia statali che ecclesiastici, lungo l'intera la storia nazionale, mostrano un effetto che costituisce una costante per così dire perversa di simili operazioni. Esse producono un generale rafforzamento dell'attitudine redditiera dei privati e deprimono, di converso, l'ardimento imprenditoriale e l'attitudine al rischio. E' un fenomeno elementare, facile da comprendere anche per gli economisti neoliberali. Chi esborsa un significativo capitale per l'acquisto, è poi in genere restìo a impegnarsi in ulteriori investimenti di valorizzazione produttiva. E' facile immaginare che la vendita creerebbe una nuova manomorta in mano privata e sottrarrebbe capitali all'iniziativa imprenditoriale.

La convenienza a non vendere e a utilizzare i beni pubblici, come sosteneva Del Bon, quale “prospettiva di credito stabile e duraturo” trova oggi una singolare conferma nella recente esperienza della Finlandia , alle prese con gravi problemi di finanza pubblica. Come ha ricordato il primo ministro conservatore di quel Paese, Jyrki Katainen, in una intervista a Der Spiegel del 13 agosto – ne ha riferito Repubblica lo stesso giorno – anziché vendere i loro beni, i finlandesi li hanno utilizzato come pegno per l' emissione di nuovi titoli pubblici. Tale operazione ha ottenuto una notevole riduzione degli interessi sul debito, con un risparmio pari al 10% del PIL in un breve periodo di tempo.« Non dimenticheremo mai questa istruttiva esperienza.”(We will never forget this formative experience) conclude Katainen. Operazione dunque di grande interesse per noi, considerando che, in fatto di patrimonio immobiliare, la Finlandia non è certo l'Italia.

E qui veniamo ad un altro punto di riflessione. E' vero che nel novero di “beni pubblici” sono comprese tipologie molto varie di strutture e manufatti, anche di scarso valore storico-artistico e malamente utilizzati. Le amministrazioni locali spesso non conoscono gli immobili di cui sono proprietari, o che appartengono allo Stato, e pagano talora lauti affitti ai privati – come ha ricordato Paolo Berdini sul Manifesto del 10 agosto - per ospitare scuole od uffici. Ma, fatte le debite distinzioni, occorre ricordare a tutti- ai nostri governanti, al nostro ceto politico, agli economisti e ai giornalisti che scrivono di temi economici - che i beni pubblici dell'Italia non sono i demani postunitari, né gli immobili della Finlandia. I nostri sono i beni ricadenti nei confini di un Paese che, secondo l'Unesco, racchiude il 60% del patrimonio artistico dell'umanità. Dobbiamo perciò chiederci: case del rinascimento, chiese sconsacrate, castelli, monasteri, ville, palazzi signorili, devono finire in mani private? Ma quelle opere non solo hanno un valore artistico in sé, come singoli manufatti. Essi sono spesso legati a una più larga trama urbana e territoriale e compongono, nel loro complesso e nel contesto del nostro paesaggio, la bellezza dell'Italia, la sua fisionomia e la sua identità nel mondo. Quindi la sua ricchezza inalienabile presente e futura. Quella ricchezza che nessuna mirabilia tecnologica può riprodurre, che non può essere minacciata dalla concorrenza delle manifatture cinesi o indiane, ma che oggi, paradossalmente, può essere distrutta dall'interno, dal ceto politico di governo. Molti di quei beni racchiudono il nostro passato, la nostra memoria , la trama della nostra storia e del genio nazionale. E allora ? Devono perdere la loro natura e fisionomia di bene comune, di patrimonio collettivo, essere smembrate e accaparrate da mani privati, magari da coloro che nell'ultimo ventennio hanno fatto le loro fortune nelle scorribande piratesche della finanza deregolata? C'è infine una ulteriore ragione di opposizione all'alienazione del nostro patrimonio. Una ragione sociale rilevante, che occorre mettere in campo contro la liquidazione della nostra identità e della nostra storia. Come ha ricordato Ugo Mattei, molti di questi beni, nel corso di numerosi decenni, sono stati restaurati, hanno ricevuto tutela e manutenzione grazie all'intervento pubblico e quindi con il supporto della fiscalità generale. Dunque essi sono giunti sino all'attuale stato grazie al concorso materiale di tutti gli italiani. E' evidente che essi appartengono a tutti noi, non solo come lascito della nostra storia, ma come frutto del nostro lavoro e dei nostri risparmi. Chi dà legittimità morale e politica di vendere il nostro passato a un pugno di uomini che nessuno ha eletto, che dureranno qualche mese alla guida del Paese? E per ripianare quale debito? Gli uomini della Destra storica, che misero in vendita il demanio, dovevano ripianare le spese sostenute per liberare con le armi l'Italia e realizzare l'unità del Paese. Ma oggi? Il nostro debito è pubblico perché grava su tutti noi, ma le sue origini sono prevalentemente private. Oggi dovremmo svendere il nostro patrimonio per rimediare a oltre 40 anni di privilegi del ceto politico regionale e nazionale, agli affarismi clientelari dei gruppi di potere, a costose “grandi opere”, alle facilitazioni alle grandi imprese ( in primis e per decenni, alla Fiat) al complice lassismo fiscale dei vari governi, perfino alle spese di guerra ( dai Balcani all'Afganistan) in violazione della nostra Costituzione?

Eppure, tale strada segna un grave errore politico dell'economicismo neoliberista . Questo ambito della manovra del governo attuale – ma anche di quelli che nel prossimo futuro dovessero muoversi sulla stessa linea – costituisce una grande occasione culturale e politica per la sinistra italiana. Perché laddove verrà minacciata la vendita ai privati di manufatti importanti di un determinato territorio, sarà possibile attivare la reazione popolare in difesa di beni e monumenti che costituiscono, in tanti casi, il pregio e l'identità di un luogo. Non solo sarà possibile vedere all'opera Italia Nostra, il Fai ecc. che metteranno in evidenza il valore del singolo manufatto, ma sarà l'occasione per rendere le popolazioni più vivamente consapevoli dei patrimoni singolari che fanno la fisionomia del loro comune, del loro borgo, del loro quartiere urbano. E le lotte in difesa di questi speciali beni comuni, contro la loro privatizzazione, costituiranno l'occasione per mostrare ad aree sempre più vaste di opinione pubblica il fondo miserabile della cultura capitalistica del nostro tempo. Alla furia privatizzatrice del ceto politico neoliberista sarà possibile contrapporre l'idea di una società che difende i beni pubblici della bellezza, dell'identità dei luoghi, della memoria storica, della condivisione comune degli spazi del vivere sociale. Perché, infine, anche quest'altra drammatica differenza va segnalata, tra i padri della patria che nell' '800 vendevano i demani e gli attuali governanti. Quegli uomini avevano un'idea dell' Italia che volevano costruire. I nostri governanti, tecnici di lungo corso del capitale, annaspano nel caos che essi stessi hanno contribuito ad alimentare. Il termine futuro, che ritorna ossessivo nei loro discorsi, è come la parola luce in bocca ai ciechi, che invocano ciò che non vedono, testimonia lo smarrimento di ogni idea del nostro possibile avvenire. Nessun altra prospettiva emerge dalle loro parole se non rendere tutto il vivente perfettamente vendibile. La futura società che essi riescono a prefigurare non è che un pulviscolo di individui e di presidi privati tenuti insieme dagli scambi monetari. Per questo, difendere i nostri beni artistici, il patrimonio collettivo della nazione, consentirà di mostrare ancor più nitidamente il nulla verso cui marciano questi fautori della crescita, il cui unico orizzonte è quello di sciogliere la società nell'acido del mercato.

(questo articolo è inviato contemporaneamente a il manifesto)

Credo anch'io, con Alberto Asor Rosa, che il dilemma lavoro/ambiente fatto emergere drammaticamente dalla vicenda dell' Ilva di Taranto, costituisca « la problematica fondamentale con la quale avremo a che fare nel corso dei prossimi decenni ». ( Il Manifesto, 5/8/ 2012 in controreplica a Rossana Rossanda, che aveva scritto sul Manifesto del 31/7). Aggiungerei che essa riporta in primo piano e in forma paradigmatica , il nodo teorico e culturale che la sinistra non è stata in grado di affrontare nella seconda metà del '900. E non soltanto in Italia. Certo, non sfugge a nessuno il dramma sociale che vivono in questo momento le migliaia di famiglie minacciate dalla perdita del lavoro e del reddito. E dunque sappiamo bene quale difficile compito sindacati e forze istituzionali hanno di fronte dopo la lodevole, coraggiosa, obbligata iniziativa della magistratura. Ma tale stato di necessità, questa gigantesca questione sociale in uno momento per giunta acutissimo della Grande Crisi, non può impedirci di pensare ai significati più generali della vicenda e ai rischi che essa presenta. Asor Rosa paventa, osservando la riduzione della classe operaia italiana a “classe particolare”, che essa finisca col porsi contro le ragioni dell'ambiente e quindi contro l'interesse generale. La sua legittima difesa del lavoro, infatti, la spinge a collocarsi a difesa della continuità produttiva e dunque dell'interesse padronale. Contro gli interessi degli altri cittadini che operai non sono, contro la salute del territorio tarantino, che riguarderà anche la vita delle prossime generazioni. Ma questo rappresenta esattamente il capovolgimento delle finalità strategiche e della storia della classe operaia. Quanto meno della classe operaia politicamente orientata dalla sinistra. E paradossalmente in una fase nella quale la difesa dell'ambiente rappresenta il nuovo orizzonte di rappresentanza generale, la nuova universalità di una politica progressista.

Io credo che tale condizione di subalternità della classe operaia e della sinistra non rispecchi soltanto la condizione politica di debolezza propria di questa fase storica, ma anche, e forse soprattutto, l'esaurimento di una tradizione teorica. Ci sono stati momenti in cui il movimento operaio è stato in grado, in Italia, di organizzare conflitti in difesa della salute in fabbrica, determinando talora mutamenti positivi nell'organizzazione del lavoro. Negli '70 il movimento "Medicina democratica", grazie a Giulio A. Maccacaro, segnò in questo senso una grande novità nel nostro Paese. Ma l'analisi si limitava all'ambiente di lavoro e a problemi della salute, non andava oltre. L'ambiente naturale restava oltre i recinti pressocchè dell'intera cultura nazionale. Credo, a tal proposito, che nessuno abbia mai sollevato, visto che parliamo di Taranto – neppure chi scrive - il sacrificio storico che il Mezzogiorno ha subito delle sue bellezze naturali, dei suoi paesaggi e delle sue risorse per rispondere alla fame di occupazione delle sue popolazioni. Una storia che è iniziata con Bagnoli, agli inizi del secolo scorso, e che è proseguita appunto con Taranto, con Brindisi, Manfredonia, Priolo, Siracusa, Gela, Porto Torres. Luoghi, talora di straordinaria bellezza, di notevole potenzialità turistica, costretti a ospitare industrie chimiche e siderurgiche altamente inquinanti, divoratrici di acqua e di suolo. Ricordo qui che è stata sufficiente la promessa di un centro siderurgico, a Gioia Tauro, per far sparire una delle agricolture più ridenti e prospere che sorgevano allora in fondo alla Penisola. Potrei azzardare che il bisogno di lavoro nel Sud ha favorito, nel secondo Novecento, una nuova geografia neocoloniale dell' industrializzazione italiana. Una specifica “questione ambientale” si è incistata anche nel cuore della questione meridionale.

Ma il ritardo culturale della sinistra sui temi dell'ambiente ha una portata teorica ben più vasta su cui cui occorre insistere. Soprattutto in momenti come questi, nei quali lo stato di necessità, spinge a ripercorrere il vecchio sentiero. Lo stesso modo con cui si pone il problema dell'Ilva di Taranto è rivelatore di questo limite radicale e originario. L'ambiente naturale viene infatti percepito solo in quanto danno alla salute delle popolazioni locali. E questo perché alla natura non viene assegnata nessuna realtà autonoma, nessun valore generale. Essa esiste se gli uomini che ci vivono subiscono danno, se produce perdite economiche, se si presenta come “esternalità negativa”. Un antropocentrismo ingenuo, infatti, è sempre alla base del pensiero economico contemporaneo. Non mi riferisco tanto al pensiero economico neoclassico, che la natura non sa che cosa sia, quanto soprattutto al pensiero economico marxista. La teoria del valore lavoro su cui si fonda l'interpretazione marxista del capitale( che non esaurisce, ovviamente, il pensiero di Marx) ha tolto ogni ruolo alla natura nel processo di produzione della ricchezza. Non diversamente che nella teoria capitalistica la natura viene ridotta a merce, degradata a “materia prima.” E' sufficiente darle un prezzo e il cerchio della razionalità economica appare perfettamente chiuso. Ma la natura non è una cosa, una quantità di materiale disponibile all'uso. Il rame del Cile, utilizzato nell'industria automobilistica ed elettronica, non è solo dato dalle tonnellate di materiale pronto alla valorizzazione e pagato dai capitalisti americani o giapponesi. Esso non è solo frutto del lavoro operaio, come continua giustamente, ma oggi limitatamente, a ricordarci la tradizione marxista. Dietro di esso c'è la distruzione di ecosistemi naturali che appartengono al popolo cileno e a tutti noi. Gli scavi minerari per produrre la materia prima necessaria all'industria, ancor prima che questa incominci a generare i suoi specifici danni, comportano la sbancamento di vasti territori, l'uso e l'inquinamento di fiumi e falde acquifere, l'ammassamento di montagne di scarti, la dispersione di veleni nell'aria, il consumo gigantesco di energia che contribuisce alla produzione di C02 e quindi al riscaldamento climatico globale. La preistoria della materia prima è da subito una vicenda di distruzione generale. L'economia capitalistica, dunque, non è una partita che si gioca solo tra operai e capitale. Essa coinvolge un Tertium, la natura, senza diritti e senza rappresentanze, ma che oggi acquista una universalità inoccultabile. Ovviamente son sempre gli uomini, è l'umano interesse alla salute e alla sopravvivenza a rappresentare i diritti di questo Tertium. Ma ora in una forma radicale e universale. E questo rinnovato antropocentrismo mette in luce, per la prima volta, un limite fondativo di egemonia del capitale: la produzione illimitata di ricchezza, con cui esso ha creato le basi del suo consenso, coincide sempre più perfettamente con la distruzione di ecosistemi limitati, con le fonti stesse della nostra prosperità e del nostro benessere. L'interesse privato del capitale non solo sottrae plusvalore al lavoro operaio, ma viene distruggendo i beni comuni della terra. Negli ultimi decenni la sinistra aveva davanti a sé una formidabile risposta teorica e culturale da dare alla retorica dell'individualismo neoliberistico. Non l'ha trovato, soprattutto perché inchiodata alla propria tradizione industrialista e sviluppista, chiusa nei limiti della proprie basi teoriche originarie. Ma non è riuscita a trovarla anche perché schiacciata dagli “stati di necessità” che ha dovuto di volta in volta affrontare. Le considerazioni realistiche di Rossana Rossanda, prima ricordate, ne costituiscono ancora oggi una testimonianza esemplare. Senza dire che, oltre una certa misura, il realismo rischia di coincidere con la difesa dello status quo. Io credo che la questione dell'Ilva possa costituire occasione per riprendere uno sguardo progettuale. Anche in questo momento difficile. Abbiamo ancora di fronte una prospettiva che rimane aperta e che fornisce a noi una nuova, straordinaria possibilità di allargare le alleanze della classe operaia a forze sociali varie e diverse. E al tempo stesso al mondo della ricerca e della scienza. Sempre che a questo mondo siamo in grado di chiedere non certo altra crescita, ma nuove forme di economia, nuovi paradigmi tecnici in cui collocare l' umana operosità.

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E' possibile fare un breve e disincantato bilancio del governo Monti? La prima, avvilente constatazione, è che in quasi 9 mesi di “riforme” e di “vertici decisivi” la montagna del debito pubblico italiano non è stata neppure scalfita. Anzi si è fatta ancora più alta e imponente. Il debito ammontava a 1.897 miliardi di euro nel dicembre 2011, oggi è arrivato a. 1.966. Dunque, la ragione fondamentale della nostra condizione di rischio , la causa causarum delle nostre difficoltà presenti e future si è ulteriormente aggravata. Lo spread si mantiene elevato e il 16 luglio ha sfiorato i 500 punti. Il Pil – questo vecchio totem delle società capitalistiche – è nel frattempo diminuito e diminuirà ancora. Scenderà di oltre il 2% nel 2012. Dicono gli esperti che si riprenderà nel 213. Ma per quale felice congiunzione degli astri non è dato sapere. Qui, infatti, la scienza economica si muta in astrologia, dà gli oroscopi. L'elenco dei disastri non è finito. La disoccupazione, com'è noto, è aumentata, quella giovanile in particolare. Per quella intellettuale in formazione il governo propone ora di aumentare le tasse universitarie, così potrà essere efficacemente ridotta... Una nuova tassa sulle famiglie italiane di cui occorrerebbe informare l'on. Casini, che ne è uno zelante difensore.

Nel frattempo le più importanti riforme realizzate dal governo incominciano a mostrare effetti indesiderati che pesano e peseranno sull'avvenire del Paese. Prendiamo la riforma delle pensioni, sbandierata dai tecnici al governo come lo scalpo di un mostro finalmente abbattuto. Pur senza considerare qui il grande pasticcio dei cosiddetti esodati, che pure costituisce un dramma inedito per migliaia di famiglie, la riforma appare come un'autentica sciagura economica e sociale. L' allungamento dell'età pensionabile ha già bloccato l'assunzione di migliaia di giovani nelle imprese. Vale a dire che essa impedirà l'ingresso nelle attività produttive e nei servizi di figure capaci di portare innovazione e creatività. Mentre riduce ulteriormente prospettive e speranze di lavoro alle nuove generazioni. Quale slancio può venire da una società se si chiede agli anziani di continuare a lavorare sino alla vecchiaia e ai giovani di aspettare, cioé di invecchiare senza lavoro? Ma le imprese dovranno tenersi lavoratori logorati e demotivati sino a 65 anni e oltre. Chiediamo: è' questo un 'incentivo alla crescita della produttività, fine supremo di tutte le scuole economiche? Quale danno, in realtà, sarà portato alle imprese e a tutti noi? E' facile infatti immaginare – salvo ambiti limitati in cui l'anzianità significa maggiore esperienza tecnico-organizzativa – che questi lavoratori saranno più facilmente vittime di infortuni, che contrarranno più malattie , si assenteranno per stress, ecc. Dunque peseranno sul bilancio dello stato, probabilmente in maniera più costosa che se fossero in pensione.

Non meno fallimentare appare la riforma del lavoro della ministro Fornero. A parte la razionalizzazione di alcuni aspetti di una normativa ingarbugliata, essa ha peggiorato la condizione dei lavoratori occupati. Come hanno mostrato tante analisi pubblicate sul Manifesto, questi sono oggi più ricattabili da un padrone che può licenziarli con maggiore facilità tramite un indennizzo monetario. Nel frattempo la giungla legislativa del lavoro precario non è stata cancellata. I giovani, pochi, che entrano nel mondo del lavoro fanno ingresso nel regno dell'insicurezza, non diversamente da quanto accadeva in precedenza. Ma quanta nuova occupazione creerà questa rivoluzione copernicana della supponente Ministra ? Perchè le imprese straniere dovrebbero precipitarsi a investire nel nostro Paese, dove prevale una forza-lavoro anziana, le Università e i centri di ricerca sono privi di risorse, dove la pubblica amministrazione è in gran parte inadeguata, dove illegalità e criminalità sono fenomeni sistemici, dove spadroneggia un ceto politico fra i più inetti e affaristici dell'Occidente? Questi ultimi due aspetti, ovviamente, non sono addebitabili al governo Monti, ma fanno parte ineliminabile del quadro nazionale di cui occorrerebbe tener conto.

Ebbene, dove ci porterà questo governo nei prossimi mesi? Economisti e media continuano il loro estenuato ritornello: faremo “riforme strutturali”, la formula magica che dovrebbe dischiudere la spelonca di Alì Babà, deposito di immensi tesori. Quali riforme strutturali? Forse la nazionalizzazione delle banche, una tassazione stabile sulle transazioni finanziarie, il 3% del PIL destinato alla formazione e alla ricerca, la creazione di un sistema fiscale progressivo, una tassa stabile sui patrimoni, una grande legge urbanistica che protegga il nostro territorio e faccia vivere civilmente le nostre città? No, niente di tutto questo. Le riforme strutturali sono state già fatte e sono quelle che abbiamo esaminato e ora la spending review, che avrebbe bisogno di tempi lunghi e di circostanziata conoscenza della macchina statale per non diventare un' altra operazione di tagli lineari. Quale di fatto è. Essa, infatti, deprimerà ulteriormente la domanda aggregata, con quali effetti sul PIL ce lo comunicheranno nei mesi seguenti, invocando qualche altro vertice decisivo. Ma il repertorio pubblicitario è in realtà esaurito. Proveranno con la svendita dei beni pubblici, ma non avranno né il tempo né l'agio.

Chi dice dunque, a questo punto, che il re è nudo, che il governo Monti ha fallito? Il fallimento è certo globale. Sono ormai 5 anni che le società industriali navigano nella tempesta e gli uomini di governo, che hanno salvato le banche dalla rovina, protetto i potentati finanziari da tracolli su vasta scala, sono ancora col cappello in mano a chiedere comprensione ai grandi speculatori, definiti mercati. Cinque anni nei quali si potevano separare le banche di credito dalle banche d'affari, bandire i prodotti finanziari ad alto rischio, riformare le agenzie di rating, regolamentare i movimenti di capitale, chiudere i paradisi fiscali, applicare la Tobin tax, ecc. Eppure niente è stato fatto. La finanza spadroneggia e il ceto politico ubbidisce, demolendo pezzo a pezzo, su suo ordine, le conquiste sociali del XX secolo. E chiama riforme strutturali questo cammino all'indietro verso il XIX secolo.

In Italia non si è fatta eccezione. Ma oggi occorre aggiornare il quadro. Non si tratta più, per gli italiani, come alla fine dello scorso anno, di scegliere fra uno dei peggiori governi dell'Italia repubblicana e la strada di una cura severa e dolorosa, ma che alla fine ci porterà fuori dalla catastrofe. Oggi non si da più questa alternativa. Il governo Monti ha solo ritardato la discesa del Paese nell'abisso per un comprensibile effetto psicologico. Oggi appare nella sua piena luce di “governo ideologico”, come lo chiama Asor Rosa: esso è la malattia che vuol curare i sintomi, acuendo le cause che ne sono all'origine. E' l'ideologia che domina a Bruxelles. Lo abbiamo visto con la Grecia, lo stiamo osservando con la Spagna. Un medico che dovrebbe dare ossigeno al malato e continua a tagliare col bisturi. Prima il “risanamento” e poi la crescita è un vecchio ritornello, che oggi appare tragicamente fallimentare. La presente crisi, com'è noto ormai a molti, origina dalla sproporzione fra l'immensa ricchezza prodotta a livello mondiale e la ridotta capacità della domanda di attingerla. Troppe merci a fronte di redditi popolari stagnanti e in ritirata, sostenuti con il surrogato dell'indebitamento familiare. La politica di austerità, dunque, rende più grave la crisi perché ne ripropone e alimenta le cause. Premi Nobel come Stiglitz e Krugman lo vanno ripetendo da mesi, anche sulla stampa italiana.

Forse qualcuno dovrebbe rammentare ai dirigenti del Partito Democratico che in autunno le condizioni economiche generali del Paese saranno peggiorate. E che agli occhi degli italiani il perdurante sostegno a Monti finirà col rendere tale partito interamente corresponsabile di un fallimento di vasta portata. La sua prudenza e il suo tatticismo si trasformeranno in grave irresponsabilità. Perché la forza politica che dovrebbe costituire e aggregare l'alternativa, non solo di facce, ma anche di politiche economiche, apparirà irrimediabilmente compromessa. Parte indistinguibile del mucchio castale che ha fatto arretrare le condizioni generali del Paese. Un vuoto drammatico che, temiamo, la sinistra radicale non riuscirà a colmare e che indebolirà il tentativo di una nuova “rotta d'Europa”: vale a dire l'alleanza con le sinistre europee per cambiare strategia, a cui gruppi e singoli intellettuali vanno lavorando da tempo. Appare a tal proposito molto significativo che un giornalista come Eugenio Scalfari, uno dei più convinti sostenitori del governo Monti nell'area liberal progressista, abbia preso le distanze con tanta eleganza, ma con tanta fermezza, nel suo editoriale su Repubblica del 15 luglio. Che abbia più fortuna di Stiglitz e di Krugman ?

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Ricordo che l'idea ispiratrice da cui nasce il Partito Democratico, arriva storicamente tardi, quando il bipartitismo di tipo angloamericano, a cui esso si rifà, era in conclamato declino e ormai andava svuotando, in quasi tutti i paesi in cui si era affermato, la sostanza della vita democratica: l'effettività della rappresentanza dei cittadini e la partecipazione popolare. Una Grande Trasformazione si è consumata infatti nell'ultimo trentennio negli assetti tradizionali delle democrazie rappresentative: la scomparsa di fatto della figura del partito di opposizione. L'eclisse della “competizione di classe” tra i grandi partiti politici - surrogata da una semplice “competizione elettorale” - ha spinto sempre più verso una una gestione monopolistica del potere. Il sociologo americano Richard Sennet ha paragonato la sostanziale identità di posizioni fra partiti di governo e di opposizione alla funzione che ha il telaio nell'industria automobilistica. Le grandi fabbriche producono un medesimo telaio per tutte le automobili, ma poi vi aggiungono vari optionals – dorature, dice Sennet - per rendere diversificati i prodotti destinati al pubblico, ma che sono sostanzialmente simili, come i programmi elettorali dei partiti.

Tale trasformazione, che ha lasciato i lavoratori senza rappresentanza e favorito la diffusione della disuguaglianza sociale, costituisce una componente politica fondamentale all'origine della Grande Crisi. Sotto l'apparenza della varietà delle sigle governa un' élite di ceto politico che opera come una moderna oligarchia. La grosse Koalition in Germania, nel 2005-2009, e oggi il governo Monti sono delle emersioni che rendono visibile una tendenza, operante da tempo, verso il “partito unico”. Un partito unico a due teste, ma sempre più simile, in forme aggiornate, a quello dei totalitarismi del XX secolo.

E questo è un folgorante paradosso: mentre tutte le voci del coro incitano alla competizione, infallibile regolatrice perfino dei rapporti fra persone, i gestori del potere supremo, quello che si fa stato, vale a dire i partiti, tendono a configurarsi come monopoli. Detentori unici delle decisioni in cui la competizione è finta.

Dunque, il PD che voleva rendere più dinamica ed efficiente la nostra democrazia, porta in realtà un tardivo contributo alla riduzione dei suoi spazi. Ricordo che esso si è imposto violentemente al ricco arcipelago di culture politiche che contrassegna l'Italia, con un disegno semplificatore che forzava caratteri storici insopprimibili. E senza un'idea della loro possibile valorizzazione.

Ora, a parte la litigiosità irresponsabile della sinistra minoritaria, è anche giusto ricordare che il PD ereditava un partito il quale, dopo lo scioglimento del PCI, aveva progressivamente abbandonato la rappresentanza diretta degli interessi operai e popolari e annacquato progressivamente la propria funzione di partito di opposizione. Si potrebbe fare un lungo elenco di scelte molto significative di tale percorso. Ogni potere, allorché vede eclissarsi le ragioni ideali che l' hanno fatto sorgere, rivolge tutte le proprie residue energie al compito unico della propria sopravvivenza. Ma oggi questo processo di avvizzimento storico si svolge entro una nuova geografia dei poteri mondiali. I centri transazionali dell'economia finanziaria non solo scorazzano per il mondo e condizionano apertamente la vita degli stati. Essi oggi formano personale per il ceto politico o trasformano gli esponenti del ceto politico in loro personale. E' la nota pratica del revolving door, la porta girevole, che fa passare le persone dalle banche ai partiti e dai partiti alle banche. Ne “ Il volto dei signori del debito” – su Le Monde Diplomatique. Il manifesto di giugno 2012 - G.Geuens ha fornito un quadro impressionante di questa disinvolta incestuosità civile che ormai tocca tutti i partiti del mondo e anche gli esponenti della socialdemocrazia europea, non esclusa quella scandinava.

Nessuno, tuttavia, creda che siamo di fronte a una semplice “questione morale”. La questione è eminentemente politica: quanto più i partiti politici perdono consenso tra i ceti popolari, a causa delle restrizione delle politiche di welfare, tanto più chiedono risorse al potere economico- finanziario per mantenere la base clientelare del loro consenso.

Occorre tuttavia tenere presente anche la specifica storia italiana. Il discredito profondo e senza precedenti che oggi circonda i partiti è continuazione di una vicenda pluridecennale. Non siamo mai usciti da un lungo ciclo di svalutazione della funzione dei partiti politici. Qualcuno si ricorda della virulenta stagione di critica alla partitocrazia negli anni '80? Una invadenza delle forze politiche che tendevano a occupare ogni spazio visibile di potere. Tangentopoli sembrò interrompere e spezzare quella trama sotterranea che soffocava l'Italia. Ma, com'è noto, fu solo una pausa. Anche Berlusconi, che in quanto imprenditore doveva incarnare l'alternativa ai burocrati di partito, ha inaugurato una nuova e più larga e ramificata invadenza delle élites politiche nella vita del Paese. E' storia nota.

Ma, mentre il PCI dei primi anni '90 apparve ai margini del sistema affaristico, oggi il PD appare parte interna al quadro, anche se non sempre in forme che assumono rilievo penale. Chi ha un minimo di esperienza delle politiche di amministrazione locale sa bene quali intrecci legano gli amministratori del PD agli affari, soprattutto al mondo delle costruzioni. Non mancano, ovviamente, gli amministratori bravi e onesti, anche giovani, che rinnovano una tradizione a suo modo esemplare. Ma non costituiscono, come un tempo, l'indirizzo dominante delle politiche locali di questo partito. Nel Mezzogiorno capita spesso che gli amministratori del PD siano al di sotto, per qualità culturale e civile, degli standard medi del ceto politico nazionale.

Oggi, il progressivo venir meno della funzione di forza d'opposizione da parte del PD si può constatare in un esito davvero paradossale della storia recente del nostro Paese. L'Italia ha uno dei debiti pubblici più elevati del mondo e un welfare che era in costante ritirata già prima della crisi presente. Al tempo stesso vanta una distribuzione sperequatissima fra i redditi delle famiglie, i salari agli ultimi posti dei Paesi Ocse, disoccupazione e precarietà fra le più elevate degli stati industrializzati. Chi ha vigilato sulle spese dello stato? Chi ha tenuto d'occhio le tendenze distributive della ricchezza prodotta? Chi si è fatto carico di quanto stava accadendo a un paio di generazioni di giovani privati di ogni prospettiva?

Ebbene, dovrebbe apparire evidente che questo partito, così com'è oggi, rappresenta una delle più rilevanti concause del declino storico del nostro Paese. Innanzitutto per la drammatica inadeguatezza culturale del suo gruppo dirigente. Qualcuno ha mai sentito i suoi maggiori esponenti discutere di assetto delle città e di questioni urbanistiche, del sistema nazionale della formazione e di 'Università, dei problemi drammatici del territorio italiano, della difesa del nostro paesaggio agrario e dei beni artistici, della potenzialità della nostra agricoltura? Non pretendiamo, ovviamente che si occupino di riscaldamento climatico e della distruzione degli ecosistemi. Ci mancherebbe! Ma oggi nessuno sa che progetto di società vuol proporci il gruppo dirigente di questo partito, a quale nuovo assetto dovrebbe aspirare l'intero apparato produttivo del Paese, in un momento così grave. Che cosa ha da dire sul destino che attende i ceti medi? E che analisi ci offre del Mezzogiorno. Che cosa propone a milioni di giovani laureati senza lavoro? Non è il caso di infierire sul tema dei diritti civili.

Non è tutto. Oggi questo partito comincia a rappresentare una agente attivo di arretramento della democrazia italiana. Culturalmente subalterno alle ideologie neoliberiste, esso tende ad accettare gli “stati di necessità”imposti dall'avversario e dunque manipolazioni gravi della nostra Costituzione. La modifica dell'art. 81 e l'inserimento dell'obbligo di pareggio di bilancio nella nostra Carta, che priva i cittadini del diritto di referendum confermativo, è una ferita grave. Mentre sono in discussione altri assetti della nostra Costituzione e dei nostri ordinamenti, come l'art. 41 della Carta e l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori(di fatto svuotato), insieme ad altri tentativi di manipolazione della forma di Stato di cui il Manifesto ha dato conto in questi giorni. La paura di assumere responsabilità di governo, di affrontare una competizione elettorale che nella primavera scorsa dava questo partito come vittorioso, conferma tale dato preoccupante della situazione italiana. Da anni la vita vegetativa del Partito Democratico corrisponde alla paralisi di ogni iniziativa politica dell' opposizione nel nostro Paese. Uno stallo che neutralizza tante energie riformatrici, che pure esistono al suo interno, e che genera frustrazione nel vasto popolo dei suoi elettori: una variegata platea di cittadini che non ha cessato di manifestare una fedeltà meritevole di ben altro ascolto.

Il come uscirne è uno dei più ardui rompicapo di questa fase. Forse si può delineare il problema, esprimere aspettative . La questione, credo, è la seguente: alla prossima scadenza elettorale occorrerebbe ridimensionare il peso del PD, inducendo un shock chiarificatore al suo interno, senza portare il centro-sinistra alla sconfitta elettorale. Tale evento potrebbe favorire un centro sinistra di tipo nuovo, in cui l'ipoteca moderata che Ds e Pd hanno esercitato nei precedenti governi non possa più esercitarsi. Ricordo che un governo di sinistra-centro, come sarebbe auspicabile, è uno strumento imprescindibile per rimettere in equilibrio la macchina economica nazionale. Tale operazione è infatti resa possibile solo da una rilevante redistribuzione della ricchezza fra le classi e le famiglie. Il Pd non possiede né la cultura né l'intenzione politica di un tale compito e ci trascinerebbe in una replica ancora più fallimentare di quelle conosciute in passato.

Difficile, ovviamente, il compito della sinistra radicale, difficilissimo quello di Vendola. L'incognita Grillo complica ulteriormente il quadro, sebbene sia difficile pensare che i rappresentanti del movimento Cinque Stelle possano fare peggio dei parlamentari del PDL e della Lega: avanguardie del più abietto Parlamento dell'Italia repubblicana. Nel nuovo Parlamento i vecchi giochi saranno più difficili. Ilvo Diamanti su Repubblica del 25 giugno ha prospettato un quadro numerico di difficile ricomposizione.

Occorrerebbe perciò una più forte avanzata della sinistra, in questa fase in cui l'egemonia moderata, anche quella del PD, è in rovina. La crisi è il collasso di un paradigma economico e di un assetto di potere di cui i partiti sono parte integrante. Ma a contrastare tale avanzata, a mio avviso, sono almeno due cause. La prima è l'incapacità, finora dimostrata, di offrire all'opinione pubblica un progetto credibile di nuova occupazione e ripresa economica. Abbiamo milioni di giovani disoccupati, provenienti da tutte le classi sociali, quindi la possibilità di guadagnare il consenso trasversale delle famiglie italiane e tuttavia nessuno accenna a un possibile progetto. Bisogna rammentarselo : il consenso a Monti, oggi in declino – e in parte la tenuta del PD - si fondano in buona parte sulla paura della maggioranza delle famiglie che temono, col tracollo dell'euro, di perdere i risparmi conquistati col lavoro di una vita. E a queste paure occorre saper parlare, mostrando alternative, sia pur minime. Temo che lo si farà solo in campagna elettorale, quando ogni voce contende verità all'altra, diventa confuso schiamazzo pubblicitario.

L'altro ostacolo, che si potrebbe più agevolmente superare, è l'assenza di accenni di autoriforma del ceto politico. Occorre che i dirigenti delle formazioni che non stanno in Parlamento non si facciano illusioni. Essi sono percepiti come vecchi partiti politici. Tale percezione ha inchiodato il Prc alle sue esigue percentuali, che non crescono nella Fds. Questo – in una misura che temo crescente – impedisce a SEL, tra altre cause, di espandere la sua influenza. Tali formazioni debbono togliersi di dosso l'odore di partito che si portano appresso. Non perché devono sciogliersi nei movimenti, ma perché devono cambiare le loro modalità di organizzazione. Con il passare dei mesi, in Italia, a tale odore si darà la caccia, e credo anche all'odore dei tecnici, quando disoccupazione, alti prezzi dei servizi, tassazione crescente mostreranno il fallimento di un ceto politico che ha allungato “nello spazio di una notte” le pensioni dei lavoratori e recalcitra a ogni forma di limitazione dei suoi privilegi. Sempre che lo scenario non sia più catastrofico. Il PD potrebbe pagare un prezzo rilevante per tutto questo, di cui finirà col portare piena responsabilità. Io credo che le formazioni minori debbano presentarsi agli elettori dichiarando in programma – Alba potrebbe svolgere un compito importante in tale direzione- la durata dei mandati parlamentari, la volontà di sottoporsi al monitoraggio dei propri redditi durante il mandato, di presentare una legge che fissi la quota massima di spesa per ciascun candidato nella campagna elettorale, le incompatibilità fra le varie cariche, e insomma la volontà di essere portatori di una politica come bene comune.

So bene che un governo di sinistra-centro non è la presa del Palazzo d'inverno. Ma a sinistra scambiamo agevolmente la forza delle nostre ragioni con la forza politica con cui dovremmo farle valere, che invece non possediamo. Una delle più limpide vittorie conseguite dai movimenti negli ultimi decenni, quella del referendum contro la privatizzazione dell'acqua, rischia di essere vanificata perché il potere, nelle istituzioni, ce l'hanno gli altri.

Un esito fortunato di tale strategia potrebbe favorire una svolta in Europa, in grado di emarginare la Germania e soprattutto di unificare le sinistre. Nell'attuale partita internazionale, mentre la finanza minaccia gli Stati, la concertazione fra tanti paesi europei avrebbe una forza straordinaria: perché c'è questo di singolare e poco esplorato nel rapporto tra debitori e creditori. Il creditore ha un bisogno vitale che il debitore goda di ottima salute, altrimenti può dire addio ai suoi soldi.

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Da tempo i media legati ai poteri dominanti fanno ricorso a un binomio retorico per screditare tutto ciò che cerca di resistere alle innovazioni distruttive imposte dal capitalismo che avanza. Il mondo viene spaccato in due: antico e moderno, arretrato e avanzato, conservatore e innovatore, vecchio e giovane. Com'è noto, Marchionne ha rinfrescato il binomio con una divaricazione immaginifica: prima e dopo Cristo. Dove, “per dopo Cristo”, lui intende una modernità che si mette alle spalle anche la misericordia cristiana, ormai invecchiata come tutte le cose che non stanno coi tempi rapidi dei mutamenti in atto. La sua lucente modernità, è a tutti noto, riporta in fabbrica i ritmi di lavoro al livello di intensità dei primi del XX secolo, quando in USA trionfava lo Scientific Management di Robert Taylor. Quello, per intenderci, messo alla berlina da Chaplin in Tempi moderni. Ma non è tutto. Il suo compenso è arrivato a superare anche di mille volte il salario di un suo dipendente. Ora, per trovare una tale disparità di reddito bisogna risalire molto indietro nel tempo, assai prima che la società industriale si articolasse nella attuale stratificazione sociale. Una tale divaricazione di ricchezza è tipica dell' Antico regime ( secoli XII-XVIII) quando la società era divisa tra grandi feudatari, che avevano in mano tutto, e popolazioni contadine, che possedevano solo le proprie braccia. E' moderno, avanzato, giovane, Marchionne?

Di recente, un nuovo modernizzatore è apparso sulla scena pubblica italiana, è il ministro dell' Istruzione dell' Università e della Ricerca, Francesco Profumo. Il ministro ha appena incassato una disfatta personale sul terreno di una innovazione che gli sta particolarmente a cuore: l'abolizione del valore legale del titolo di studio. Il referendum on line che egli ha organizzato, tramite il suo ministero, ha sonoramente sconfitto le sue velleità con oltre il 70% dei no. Una risposta degli «italiani “conservatori”» titolava mestamente un articolo di commento del Corriere della sera del 22 aprile. Se non l'avesse già fatto Monti, il ministro avrebbe potuto recriminare sul fatto che « gli italiani non sono ancora pronti. Capita a tutti i grandi novatori di giungere fra noi con troppo anticipo sull'avvenire. E' infatti caparbia aspirazione del prof. Profumo togliere alle Università, vale a dire alle istituzioni storiche in cui da secoli si viene organizzando e trasmettendo il sapere degli italiani, la possibilità di certificare la qualità delle lauree che esse rilasciano. Le ragioni di tanto zelo riformatore, sono state variamente dibattute, e non è ora il caso di ritornare su una questione da considerare, ormai, «un cane morto» : come si diceva un tempo di un eminente filosofo fuori moda.

Val la pena, tuttavia, aggiungere qualche elemento di chiarificazione sulla modernità degli intenti perseguiti dal ministro. L'abolizione del valore legale della laurea, tra le altre novità, comporterebbe una liberazione straordinaria degli individui dalle pesanti bardature statali. Non sarebbe infatti più lo stato a certificare la qualità della formazione del cittadino, ma finalmente il mercato. Non più la validazione di una entità pubblica, dietro cui stanno decenni di tradizioni di ricerca, di scuole scientifiche, di procedure di verifiche consolidate, in una parola il sapere di una comunità culturale che è parte costitutiva della storia di una nazione. Al contrario, varrebbe il parere di un qualunque commisario di concorso pubblico, ma sopratutto il giudizio di opportunità del privato, dell'imprenditore, che non deve essere condizionato nelle sue scelte di assunzione del personale.

Si dissolve così uno dei collanti della società, intesa come comunità di valori universalmente riconosciuti, e si risolve il problema della valutazione all'ingresso nel mondo del lavoro in un rapporto meramente contrattuale, tra due individui privati: l'assuntore, cioé l'imprenditore e il dipendente-lavoratore. Tutto ciò che è comune si dissolve, restano solo gli individui. «Ognuno è solo sul cuore della terra», recitava Quasimodo. Scava, scava e salta fuori la solita rogna neoliberista. Vale a dire l'ideologia che negli ultimi 30 anni ha scavato abissi di iniquità nella società del nostro tempo, dissolto le relazioni umane, trascinato nell'insicurezza milioni di individui, generato la crisi mondiale che continua ad alimentare con le sue ricette fallimentari. Quanto è moderno, avanzato, giovane, Profumo?

Questo ministro, che ha davanti a sé circa un anno di possibili iniziative, potrebbe intraprendere almeno un paio di decisioni, certamente modeste, dati i tempi ristretti, ma sicuramente utili , sia in prospettiva che nell'immediato. La prima di queste, che non comporterebbe spese particolari, potrebbe essere l'avvio di un processo di delegificazione della vita universitaria. Gli atenei ( ma anche le scuole) soffocano sotto montagne di carte. I neoliberisti tuonano contro la burocrazia che soffoca le imprese, ma non risparmiano leggi e regolamenti quando si tratta di assoggettare l'autonomia del sapere alla volontà delle burocrazie ministeriali. Naturalmente, il ministro non muoverà un dito su questo fronte, essendo egli l'esecutore testamentario della legge Gelmini. L'altra iniziativa possibile, diciamo così congiunturale, potrebbe essere quella di sventagliare un po' di milioni di euro in borse di studio per studenti meritevoli, per dottorandi, per post-dottorati che a migliaia, in Italia trarrebbero un sospiro di sollievo. E lo farebbero trarre anche alle loro famiglie. Un piccolo aiuto, mentre il numero dei nostri laureati continua a precipitare rispetto alla media europea, mentre la nostra migliore gioventù intellettuale continua a fuggire fuori d'Italia. E' troppo? Il ministro non lo fa, verosimilmente perché il suo peso specifico all'interno del Governo deve essere nullo. Tuttavia, poiché il prof. Profumo sa di marketing, cerca di dar segni di vita e rilievo al suo ruolo e si inventa trovate fantasiose. Com'è noto egli ha aperto un nuovo fronte di modernizzazione: quello dell'uso esclusivo della lingua inglese nel Politecnico di Milano, con l'intenzione di estendere la pratica al resto degli atenei. Un po' di lustrini per stupire l'analfabetismo linguistico della borghesia italiana.

Ora, a differenza del ministro Profumo, noi sappiamo che l'inglese è la lingua imperiale del XX secolo, lo strumento dell'egemonia del capitalismo angloamericano, fonte di bussines e vantaggi innumerevoli per i paesi di lingua madre. Pure non ci sogniamo di svalutare i vantaggi di una buona conoscenza dell'inglese da parte dei nostri giovani, strumento di comunicazione internazionale, mezzo utile anche per accedere alla saggistica di paesi e lingue di difficile accesso. Ma perché darle tanto spazio e peso nell'Università? Un buon possesso della lingua inglese dovrebbe essere una conquista della scuola media. All' Università lo studio delle lingue - non di una sola lingua – dovrebbe costituire oggi, in Europa (come in parte già accade ) un momento di alta formazione culturale. Si studia il francese, il tedesco, lo spagnolo per penetrare in profondità la cultura di quei paesi, per afferrare attraverso queste straordinarie lingue di cultura le articolazioni nazionali di una civilizzazione che è fra le più alte e plurali della storia umana. O dobbiamo realizzare l'unità d' 'Europa parlando tutti inglese'? Si dovrebbe studiare questa lingua per poter leggere in originale Shakespeare o Defoe, non solo per comunicare informazioni. E perché l'apprendimento dell' italiano – come ha osservato Raffaele Simone su Repubblica del 17 aprile - non dovrebbe costituire un elemento di attrazione per gli studenti dei vari paesi del mondo? L'italiano non è solo indispensabile per leggere direttamente Dante o Italo Calvino, ma per comprendere l'arte italiana nei suoi svolgimenti e nelle sue stagioni , il melodramma, il paesaggio, le cucine regionali. Dopotutto, quando nel XIV secolo, in Italia fioriva la prima lingua letteraria d'Europa, un fondamento della civiltà del Continente, l' England era ancora un povero paese abitato da pastori. Perché i giovani europei che escono dalle nostre università non dovrebbero possedere almeno la conoscenza della nostra o delle altre lingue nazionali? Non possiamo permetterci questo avanzamento, questo ulteriore salto di civiltà?

Il ministro Profumo è fissato con l'inglese. Ma sarebbe sbagliato pensare che si tratti solo di provincialismo. No, la ragione è che l'inglese è un mezzo, uno strumento per qualcos'altro. Come un martello per fissare un chiodo. Serve per comunicare, per organizzare, per mettere su aziende, per scambiare informazioni e possibilmente beni e danaro. Serve alla crescita. La cultura, per questo ministro, non è mai un fine, che ha le proprie ragioni fondative nell'elevazione culturale, civile, spirituale delle persone, prima che nelle tecniche destinate ad attività professionali. Gratta, gratta, ed esce fuori il fondo miserabile dell'economicismo, la più grave infezione spirituale della nostra epoca.

E' moderno, avanzato, è giovane il ministro Profumo?

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Proviamo ad anticipare lo scenario in cui il nostro paese verrà a trovarsi da qui a 7-8 mesi. Nessuno può dubitare del fatto che le condizioni economiche generali peggioreranno ulteriormente rispetto alla già gravissima situazione presente. Non è la voce inascoltata di Cassandra a dirlo, ma le previsioni dello stesso governo in carica e degli organismi internazionali. Dunque, nei prossimi mesi noi avremo centinaia di migliaia di nuovi disoccupati, l'ulteriore impoverimento dei cassintegrati di lungo corso, il trascinamento nella povertà o quanto meno nel disagio sociale di strati estesi di ceto medio a causa dell'innalzamento della pressione fiscale (IMU, IVA, imposte locali). Una spaccatura verticale fenderà in due il paese come non accadeva da decenni e come forse mai era accaduto, con tanta divaricazione, nella storia dell' Italia contemporanea.

Non è difficile immaginare che cosa accadrà al solido zoccolo di consenso, già in fase di erosione, di cui ha finora goduto il governo Monti. Così come è facile prevedere che cosa ne sarà del residuo grado di fiducia riposto dagli italiani nei partiti politici. La sfiducia presente, lo ricordiamo, non è solo alimentata dallo spettacolo moralmente riprovevole dei privilegi a cui il ceto politico, indistintamente, si mostra così tenacemente legato. Né solo dagli gli episodi di corruzione che danno un quadro desolante della vita interna dei partiti. Ma forse ancora di più dalla ormai conclamata loro incapacità di cambiare, se non in peggio, la condizioni delle grandi masse popolari. Protagonisti, per tutti i decenni del dopoguerra, della costruzione del welfare nazionale, essi hanno camuffato tramite la pubblicità ingannevole delle “riforme” il suo graduale smantellamento. Un tempo redistributori di ricchezza, essi hanno di fatto lavorato – tramite la flessibilità del lavoro, le privatizzazioni, le politiche fiscali - per concentrarla in poche mani. I dati sul divario dei redditi delle famiglie italiane forniti dalla Banca d'Italia già prima della crisi son l'esito di questa politica.

Anche in questo caso la fenditura non farà che approfondire una “faglia” storica, spalancando prospettive imprevedibili di degenerazioni populistiche. La democrazia italiana, già gravemente manomessa, rischia ulteriori, gravi arretramenti. Ma da qui a 8 mesi le “grandi riforme”, le liberalizzazioni, l'ulteriore ristrutturazione del mercato del lavoro, mostreranno la loro prevedibile, totale inefficacia a lenire una disoccupazione imponente e a fare uscire l'Italia dalla recessione. Il debito resterà li, probabilmente accresciuto dal calo, ufficialmente previsto, del PIL. A quel punto il re sarà completamente nudo. Quali altre riforme propaganderanno governo e partiti che lo sostengono? Come spiegheranno il disastro a cui hanno condotto il paese?

Di fronte a un tale scenario, il Manifesto per un nuovo soggetto politico appare un scelta coraggiosa e di grande responsabilità. Un gruppo di intellettuali, di fronte alle prospettive facilmente prevedibili dell'immediato futuro, constatando la subalternità se non l'impotenza del maggiore partito d'opposizione, elabora un canovaccio progettuale per tentare di sperimentare strade nuove di democrazia, destinata a offrire alternative alla sinistra nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Quel Manifesto, ovviamente, non è lo statuto solenne di una setta. Nessuno dei firmatari ha prestato giuramento sui suoi vari articoli. Dunque, pluralità di posizioni intorno a un progetto e ad aspirazioni convergenti. Ognuno è libero di portare il proprio contributo di riflessione, sia di metodo che di contenuto. Qui, dunque, essendo un dei primi firmatari, tenterò di chiarire la mia posizione e di abbozzare alcune riflessioni.

Come hanno chiarito sul manifesto tanto Marco Revelli che Tonino Perna, non è alle viste la nascita di nuovo partito. Lo scenario è già abbastanza affollato. E soprattutto il popolo della sinistra – questa è una mia convinzione – lo vivrebbe come un elemento di complicazione dello scenario politico oltre che di divisione del fronte di lotta. Se c'è una aspirazione davvero vasta e profonda, in questo popolo, questa è l'unità delle forze che lo rappresentano. Questione, com'è noto, che costituisce il problema dei problemi e non solo in Italia. Ma come si può muovere tale nuovo soggetto in un così stretto sentiero? Io credo che una rete di comuni in grado di costituire, come dice Alberto Lucarelli, una « una intelaiatura », democratica di tipo nuovo, costituisca un tentativo importante di potenziamento della partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica. Non possiamo continuare a pensare che la politica altro contenitore non abbia che i partiti. Così come credo che l'elaborazione teorica sui beni comuni, apra un' ampia e inesplorata strada, in grado di dilatare il territorio dei diritti, rinchiusi per secoli, in Occidente, dentro la rigida gabbia binaria di pubblico/privato. Tuttavia io non ritengo – come del resto gli estensori e i firmatari del manifesto - che si debba abbandonare il terreno della democrazia rappresentativa, e darla come perduta e inutilizzabile. In Parlamento si votano leggi che condizionano la vita di tutti noi, per la durata di anni e decenni. L'umana durata della lotta politica. Il potere legislativo è un pezzo rilevante dello stato, che oggi appare insufficiente a contrastare i potentati economici e finanziari mondiali. Dobbiamo rinunciare anche a tale soglia minima di potere?

C'è un aspetto, nella contrapposizione tra democrazia rappresentativa e partecipata, che andrebbe chiarito con realismo ed onestà. La partecipazione di massa alle decisioni che si sprigiona nei momenti delle lotte, non dura. Essa si rende possibile solo in luoghi delimitati, ed è frutto dell'iniziativa di ristrette avanguardie. La lotta è la febbre di crescita della società civile, che accelera la trasformazione culturale e politica generale, ma non è la sua normale fisiologia. Solo durante i sommovimenti delle rivoluzioni, la lotta può diventare anche per qualche anno dimensione quotidiana delle masse. Non è oggi il nostro caso. Pensiamo al movimento di Occupy Wall Street. I protagonisti, che parlavano a nome del 90% degli americani, erano numericamente meno dell'1% contro cui lottavano. E tuttavia il loro consenso nella società americana era ed è assai più vasto. Ma questo consente di vedere la grande differenza che esiste tra partecipazione e consenso. In questo passaggio si coglie la differenza fra avanguardie e masse. E si comprende la necessità di trasformare quel consenso in egemonia organizzata, in “casematte” – per dirla con Gramsci – in cui il potere popolare si solidifica in organizzazione per durare nel tempo. Quanti degli italiani, che nel referendum hanno votato per l'acqua pubblica, sono poi disposti a impegnarsi per il controllo della sua gestione democratica? Di certo una minoranza. Per questo la democrazia rappresentativa dell'amministrazione comunale finisce con l'avere il sopravvento e durare.

Ora, io credo che il nuovo soggetto potrebbe battersi per modificare le ragioni che fanno degenerare la democrazia rappresentativa. Chiedamoci: perché quella forma di potere delegato, col tempo, si separa e si nasconde allo sguardo degli elettori? Perché la democrazia organizzata nei partiti si restringe a oligarchia? Ma perché gli elettori, dopo aver deposto la scheda nell'urna, ritornano nei loro ruoli sociali tradizionali, e non hanno più tempo e passione per seguire le sorti del loro mandato. Nessuno, del resto, può pretendere, che la politica duri nel tempo come l'unica passione dominante della vita di milioni di persone. Questo accade a pochi individui. E la separatezza e opacità dei corpi eletti, inevitabilmente, finisce col prendere il sopravvento, la politica diventa pascolo recintato di professionisti. Ebbene, oggi la rete consente ciò che era impossibile solo venti anni fa. Io credo che la creazione di un Osservatorio politico nazionale, gestito in rete, e finalizzato a seguire e monitorare, durante il mandato, il comportamento degli eletti, potrebbe accorciare in maniera efficace la distanza tra governanti e governati. Ma esso potrebbe costituire una forma a dimensione nazionale di democrazia partecipata. Tramite la rete ogni cittadino può comunicare all'Osservatorio le proprie osservazioni locali, le proprie critiche e suggerimenti agli eletti, può prendere parte a un Agorà che non richiede una militanza fisica quotidiana, ma che offre l'opportunità di comunicare con efficacia la propria opinione a un organismo con il compito istituzionale di accoglierla e vagliarla.

Ovviamente tale istituzione andrebbe accompagnata con vari altri interventi di riorganizzazione della vita dei partiti. Uno di questi, imprescindibile, è la fissazione di un tetto massimo di spesa per ogni candidato nel corso della campagna elettorale, nel momento cioè in cui si riproduce il ceto politico della democrazia rappresentativa. Il dispositivo introdurrebbe un importante egalitarismo di partenza, risolverebbe molti conflitti d'interesse, limiterebbe la corruzione, avrebbe la forza potenziale di spezzare il legame tra i partiti e i poteri economico-finanziari che oggi limitano la sovranità degli stati.

Com'è possibile realizzare un tale ambizioso obiettivo? Oggi dall'Europa giunge una insperata opportunità. Grazie al Trattato di Lisbona sarà possibile già dai prossimi mesi mettere in atto l'ICE, l'Iniziativa dei Cittadini Europei, i quali potranno proporre importanti riforme raccogliendo un milione di firme in almeno 7 stati dell'UE. Una iniziativa che partirà quest'anno riguarda il reddito di cittadinanza. E qui siamo già ai contenuti promessi nel titolo. Tale battaglia può innescare, già alla fine di quest'anno, una mobilitazione europea di vasta portata, in grado di coinvolgere milioni di giovani disoccupati. Si rassegnino gli sviluppisti : anche quando saremo usciti dalla turbolenza questo capitalismo non creerà più piena occupazione. La sinistra deve perseguire, come suo asse strategico, la separazione del reddito per una vita degna dal lavoro, che sarà sempre meno. Anche così si spezza il rapporto di forza che dà oggi al capitale la capacità di condizionare a suo vantaggio la dinamica di classe e spaccare la società con disuguaglianze insostenibili. Anche così si può fare uscire la nostra gioventù dalla attuale disperazione, senza attendere il Godot della crescita.

Da dove prendere i soldi? Qui si apre una questione che riporta ai rapporti tra il “nuovo soggetto” e la sinistra nel suo complesso. Una sinistra, ricordo, che si compone anche di forze importanti che oggi non stanno in Parlamento. Oggi è evidente perfino a Warren Buffet , uno degli uomini più ricchi del mondo, che la crisi attuale è l'esito di un “grande saccheggio” del capitale che dura da trent'anni. Si supera trasferendo ricchezza dai ceti ricchi alle classi popolari. E' dunque necessario riportare la fiscalità generale ai meccanismi progressivi che sono stati manomessi dalle politiche neoliberistiche. Mario Pianta, sul manifesto (4.4.2012) ne ha parlato diffusamente.

Si deve allestire dunque uno scontro di classe, di inusuale ampiezza ed asprezza, che imporrà al PD scelte non facili. Il gruppo dirigente di quel partito non potrà più raccontare la favola ormai consunta delle liberalizzazioni. E dovrà fare i conti con una questione spinosissima, che è rimasta silente negli ultimi tempi. E’ dal 18 novembre 2001, con l'invio della flotta “Comando gruppo navale italiano”, che l'Italia partecipa in forme sempre più impegnative alla guerra in Afganistan. Oggi si spendono circa 68 milioni di euro al mese per il nostro contingente. Che cosa dirà, quel gruppo dirigente, a milioni di italiani disperati, su una guerra che viola la Costituzione, appare ormai perduta e accresce un debito pubblico che si fa pagare ai cittadini incolpevoli con lacrime e sangue? La partita si aprirà presto. Intanto, si potrebbe già pensare, per le prossime elezioni politiche, a organizzare, dove possibile, delle primarie territoriali: forme di selezione dei candidati che a livello locale sfuggano ai comandi delle segreterie e premino i soggetti che si sono distinti nei movimenti, mostrino capacità e culture politiche all'altezza delle sfide. Anche questo potrebbe essere un mezzo per incominciare a pensare a una ristrutturazione plurale dell'intera sinistra, che certo, dopo Monti, non può più essere quella di prima.

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Le gaffe di Monti e delle sue maldestre ministre sul lavoro e le “oziose attitudini” della nostra gioventù - sinistra forma di scherno su una tragedia sociale di proporzioni mai viste - hanno avuto da più parti la risposta che meritavano. Splendido, fra gli altri, M. Gotor su Repubblica del 7 febbraio. Val la pena, tuttavia, ricordare che i nostri uomini e donne di governo non compiono solo l'errore di scambiare la condizione privilegiata della propria famiglia con quella generale degli italiani. Non solo confondono la complessa realtà del nostro tempo con i manuali di economia studiati nella loro lontana giovinezza. Ma soprattutto non hanno nessuna idea delle forme inedite e socialmente distruttive che ha assunto il capitale nel nostro tempo. Ne è prova la caparbia insistenza con cui ripropongono come rimedio alla disoccupazione la ricetta che in parte ne è la causa: la flessibilità. Quasi 20 anni di flessibilità del lavoro, che ha prodotto, come mostrano i fatti, precarietà e crescente disoccupazione, soprattutto giovanile, stagnazione economica, decadimento delle infrastrutture civili e dei servizi dell'intero paese. Ma per loro non basta e l'articolo 18 resta il totem arcaico da abbattere.

Dunque, siamo di fronte a un caso conclamato di quella che Einstein chiamava “insanity”, follia: «fare la stessa cosa e continuamente ripeterla e aspettarsi risultati diversi». Fa parte di tale insania – comprensibile in un epoca in cui la mente di tanti uomini è diventata un dispositivo tecnico per pensare un unico pensiero - l'idea che l'uscita dalla Grande Crisi in cui annaspiamo, ridarà al paese la piena occupazione perduta, sia pure in forme “cangianti” e flessibili. Basta riprendere la crescita - è questa la vulgata pubblicitaria in Italia e nel mondo - e tutto ritornerà più bello e più splendente che pria.

Tocca allora ricordare che questo, con assoluta certezza, non avverrà, perdurando l'attuale modello di accumulazione capitalistica. La certezza evidente nasce da una rapida ricognizione storica. Prima della Crisi, e a dispetto della crescita economica, la piena occupazione era sparita da un pezzo dalle società industriali. Il secolo scorso si era chiuso con 35 milioni di disoccupati nei paesi OCSE (8% delle forze di lavoro, 11% nell'Unione Europea). La crescita dell'occupazione che spesso, negli anni successivi, è stata vantata da governi e stampa benevola, è stato il lavoro frammentato e precario con cui si è cercato di mettere i lavoratori al servizio intermittente delle imprese. Utile per incoraggiare le statistiche, assai meno per dare redditi dignitosi e continuativi ai lavoratori. Se la situazione era questa prima della crisi, solo un atto di fede, non certo una previsione razionale, può fare immaginare l'approdo a una condizione di piena occupazione per effetto della crescita nei prossimi anni.

Occorre qui almeno accennare a una riflessione generale. La sempre più ridotta capacità del capitalismo di creare posti di lavoro, nasce da un insieme di cause congiunturali e storico-strutturali che l'opinione economica dominante non vuole in nessun modo vedere. Cercherò di elencarli brevemente.

La prima e più ovvia causa è che le società capitalistiche mature hanno un ritmo di crescita ridotto rispetto al passato. Un andamento che negli ultimi anni ha risentito anche del fatto che una parte degli investimenti si sono indirizzati verso i paesi a bassi salari e a bassa protezione ambientale. Tra il 2000 e il 2005 gli USA, ad esempio, hanno perso 3 milioni di posti di lavoro nelle manifatture, tra ristrutturazioni e delocalizzazioni. Ma al fondo c'è un mutamento strutturale che segna una cesura rispetto ai decenni precedenti. La maturità del capitale oggi significa soprattutto il declino dell'industria automobilistica, la più grande fabbrica labor intensive del '900. Questa industria, insieme a quella degli elettrodomestici, è stata in grado, in Italia come negli altri paesi avanzati, di svuotare quell'immenso serbatoio di forza lavoro che erano le campagne dell'Occidente. Milioni di contadini sono diventati classe operaia nel giro di pochi anni. Com'è noto, quell'industria non solo alimentava a monte l'attività mineraria e siderurgica per i suoi materiali, ma aveva intorno le piccole e medie imprese dell'indotto, a valle l'industria delle costruzioni stradali e autostradali. Questa immensa idrovora di forza lavoro ha ormai ridotto i suoi ranghi e in Occidente non risorgerà nulla di simile. Lo dice eloquentemente un dato che è anche un tratto distintivo del capitale oggi: 30 milioni di auto ogni anno rimangono invendute. Il ministro dell'Istruzione e dell'Università, Profumo, in una intervista a Repubblica (6.2.2012) ha paragonato la capacità di Internet di attivare economie, all'industria automobilistica del dopoguerra. Pensare che essa possa creare tanti posti di lavoro quanti ne ha generato il settore dell'auto è una illusione che gli USA hanno già scontato. E questo, almeno per una ragione fondamentale: se è vero che l'informatica apre continuamente nuove possibilità operative e di servizi, la sua indomabile forza, la sua centralità, è sostituire lavoro con processi automatizzati. Consiglierei a questo proposito la lettura (e possibilmente la traduzione) del testo di un ingegnere della Silicon Valley, Martin Ford, The Lights in the tunnel, che mostra la gigantesca sostituzione di lavoro con processi informatici in arrivo nei prossimi anni.

Ma la nostra epoca, e le nostre società opulente, sono contrassegnate da un fenomeno ignoto alle società del passato: la rapida obsolescenza delle innovazioni di prodotto, che riducono i margini di profitto delle imprese a una velocità prima sconosciuta. Esse si muovono in un mercato che si satura rapidamente. Quanto è durata l'automobile, quanto il computer prima di diventare un prodotto maturo? Quanto dura sul mercato un nuovo cellulare che è costato elevati investimenti in ricerca, realizzazione, commercializzazione? Quanti sono oggi gli attori imprenditoriali che si contendono il mercato di prodotti affini? E occorre, a questo proposito, ricordare che - al di la della spasmodica ricerca di profitti- l'asprezza della competizione mondiale fa la sua parte nello scoraggiare il capitale ad entrare nel circolo Denaro-Merce-Denaro. Esso trova sempre più lucroso attivare il circolo D-D-D, cioè operare nelle attività meramente finanziarie senza passare per l' impegno gravoso della produzione. Infine, com'è noto, ubbidendo ai dogmi neoliberisti, i governi hanno quasi dismesso ogni impegno imprenditoriale pubblico, riducono progressivamente il welfare, che è stato ed è ancora fonte di posti di lavoro. Una tendenza che si avvita su se stessa, generando concentrazione di ricchezza privata e impoverimento di risorse pubbliche.

Se questo quadro sommario è esatto, l'esortazione alla crescita proveniente dal Governo e gli indirizzi che la ispirano non risolveranno il grave problema della disoccupazione nel nostro paese. Purtroppo, non è neppure necessario scomodare le tendenze di fondo del capitale per pronosticare che essa è destinata ad aggravarsi almeno nei prossimi due anni, vista la recessione in atto. E allora? Quali sono i progetti per alleviare la sofferenza di milioni di disoccupati? Come si intende aiutare oltre il 30% della nostra gioventù che non ha più alcuna prospettiva di lavoro davanti a se?

Questa è una domanda, tuttavia, che non deve guardare al problema come a un fatto transitorio e congiunturale. Essa si inscrive in un più ampio interrogativo di prospettiva che André Gorz formulò in un suo scritto nel 2005: «quando la società produce sempre più ricchezza con sempre meno lavoro, come può far dipendere il reddito di ognuno dalla quantità di lavoro che fornisce?»

Com' è noto, una risposta certamente parziale, ma importante e per tanti aspetti tendenzialmente rivoluzionaria, esiste. Una risposta che tante forze, gruppi, ambienti intellettuali sollecitano e che costituisce una realtà già operante in tanti paesi d'Europa, come ricorda Giuseppe Bronzini nel suo Il reddito di cittadinanza. Si chiama reddito minimo o di cittadinanza, o universale e conosce varie declinazioni. La sua diffusione decreta ormai la separazione sempre più spinta tra lavoro e reddito. Quest'ultimo non può più dipendere in assoluto da una occupazione che diventa sempre più rara. E' arrivato il momento, per le società opulente, di destinare risorse cospicue ai cittadini cui non sa più fornire lavoro. Altrimenti il capitalismo tracolla per sovraproduzione e la democrazia prende una china dagli esiti imprevedibili.

Oggi un reddito minimo fornito ai nostri giovani tra i 18 e 35 anni costituirebbe una leva importante non solo per fare uscire milioni di ragazzi dalla disperazione, ma per fornire aiuto alle famiglie, ridare fiducia e un qualche slancio al nostro paese. Quanti ragazzi potrebbero così proseguire i loro studi e ricerche, intraprendere da soli o in cooperativa, qualche attività stabile senza perdersi in lavoretti per sopravvivere, attivarsi nel volontariato, cooperare con i comuni, svolgere compiti utili nei territori? Pochi immaginano quale sollievo sarebbe oggi anche un minimo sostegno in famiglie dove i genitori sono in cassa integrazione, o senza lavoro, dove misere pensioni tengono a galla più persone.

Un reddito minimo non è l'avvilente assistenza che si teme. Esso è ormai una condizione di libertà, fornisce una base minima ai cittadini per non chinarsi alla mortificazione di chi impone condizioni non tollerabili di prestazione, per progettare e creare nuovi servizi, per svolgere attività di valorizzazione dei beni collettivi. Su di esso ormai poggia, quale condizione imprescindibile, quel bene comune che si chiama vita dignitosa. Si vuole davvero fare retorica sulla fine del posto fisso? Bene, facciamo scegliere con un po' più di libertà dal bisogno quali lavori i nostri giovani vogliono scegliere e cambiare.

Un tale obiettivo ha un pregio politico, che non si fa fatica a scorgere. Esso potrebbe unificare l'intera sinistra, fornirle un versante rivendicativo e contrattuale forte e unitario, toglierebbe dall'isolamento il sindacato. Anche lo smarrito PD potrebbe guadagnare una immagine meno servizievole nei confronti del governo e assumere un profilo rappresentativo più spiccato dei bisogni del paese. E sì che questo partito ne avrebbe bisogno, di fronte all'onda di discredito che si è abbattuta sul ceto politico e che è destinata a ingigantirsi nel prossimi mesi di crescente disperazione sociale.

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Il presidente del consiglio e il suo governo hanno dunque deciso di rinviare la decisione di abolire il valore legale della laurea universitaria. Non trattandosi di una materia che rivesta particolare urgenza c'è tutto il tempo per decidere con ponderazione e anche per aprire una consultazione nel Paese. Mi sembra un scelta saggia, espressione, forse, di quella saggezza che Asor Rosa ha ricostruito analiticamente sul manifesto come pilastro di questo esecutivo e dell'operazione politica generale su cui si reggono oggi le sorti dell'Italia.

Potrei anche aggiungere che la scelta inaugura un apprezzabile stile di coinvolgimento democratico degli italiani, che oggi vorremmo esteso ad altre questioni: per esempio ai problemi della Val di Susa, al conflitto sul Tav, a cui sinora si è risposto con la militarizzazione del territorio e con la criminalizzazione di una intera popolazione. Ma non sono sicuro di poter essere così magnanimo, per le ragioni che dirò alla fine. Debbo, peraltro, aggiungere che se si fosse proceduto immediatamente all'abolizione del valore legale, il governo avrebbe compiuto un atto di imperdonabile arroganza. E avrebbe ricevuto un contraccolpo di non trascurabile ampiezza.

Come avrebbe potuto, dopo tutto quello che è successo, con il precedente esecutivo? Rammento che il governo Berlusconi, non ha soltanto, per quasi quattro anni , coperto di vergogna e di disonore il nostro paese, ma ha inferto colpi micidiali, i più gravi in tutta la storia della Repubblica, all'intero sistema dell'istruzione. Ha gettato letteralmente sul lastrico la scuola pubblica, dalle elementari alle superiori, ha ridotto nelle condizioni forse più precarie della sua storia recente l'Università. Oggi gli studenti italiani hanno sempre meno borse di studio per poter frequentare i corsi, pagano le tasse più elevate d'Europa dopo quelle del Regno Unito e dell'Olanda, ricevendo servizi sempre più scadenti per assenza cronica di personale amministrativo, spazi collettivi, orari delle biblioteche, rarefazione dei docenti. Al tempo stesso migliaia di giovani con in tasca la laurea con lode, dottorato, master vari, conseguiti talora anche all'estero, non sanno dove sbattere la testa, sono gettati nella più grave angoscia che una persona possa subire: la consapevolezza di avere alle spalle anni e anni di studi, di possedere saperi, idee, energie volontà di essere utile al proprio paese e non sapere che cosa fare un giorno dopo l'altro. E a questa condizione, a tale drammatica situazione, nella sua prima uscita sui problemi dell'Università, il governo avrebbe davvero potuto rispondere con la grave decisione di abolire valore legale alla laurea?

Ma entriamo nel merito della questione. Le argomentazioni più serie a favore dell'abolizione non reggono alla prova. Sostengono i fautori di tale scelta, che nei concorsi pubblici il voto di laurea altera la corretta valutazione dei candidati, premiando spesso gli immeritevoli che hanno strappato a buon mercato, in qualche Università di serie b, un alto voto.

L'abolizione del valore legale metterebbe tutti in condizioni di parità. A questa apparentemente giudiziosa obiezione si possono tranquillamente fornire più risposte. Intanto, quello sollevato, è un problema che riguarda le norme sull'accesso alle professioni, le modalità con cui vengono valutati curricula, titoli, nei diversi concorsi. È lì che caso mai bisogna intervenire se si vuole essere più certi di premiare il merito, ma il valore legale della laurea non c'entra affatto. D'altronde, una cosa è la formazione universitaria, un'altra cosa sono le professioni. Per esempio, per l'accesso dei laureati all'insegnamento scolastico i legislatori italiani hanno di volta in volta varato dispositivi di "abilitazione" alla professione, che si aggiungevano alla semplice laurea e fornivano un vantaggio concorsuale a chi la conseguiva. D'altra parte, nei concorsi pubblici si valuta la prova a cui i candidati sono sottoposti, non è certo il voto di laurea, da solo, a decidere della selezione. E le norme variano comunque da professione a professione.

Gli abolizionisti ritengono invece che senza il condizionamento della laurea la valutazione sarebbe più libera, meno condizionata e premierebbe di più il merito. Ma è davvero così? Faccio notare che un giovane uscito dall'Università italiana ha svolto - a seconda della Facoltà - almeno tra 30 e 50 esami per conseguire la laurea. È stato cioè sottoposto alla valutazione di decine e decine di professori di diversi insegnamenti e ha subito il filtro legale di almeno due commissioni di lauree, se ha conseguito triennale e specialistica. Dunque ha superato innumerevoli "piccoli concorsi". Non c'è merito alla fine di una tale carriera? Perché queste numerose verifiche di formazione e preparazione non dovrebbero avere più per noi una validità legale, utile per valutare il merito di un candidato? Noi ci affidiamo alle cure di un medico perché ha vinto il tale concorso o perché sappiamo che è passato per lunghi studi e ha superato prove e verifiche accademiche lunghe e ripetute? Gli abolizionisti ribattono: ma perché una laurea conseguita in una Università marginale deve avere lo stesso valore di una guadagnata in un ateneo di antico e riconosciuto prestigio? La risposta è, innanzi tutto, che le Università realmente marginali sono davvero poche nel nostro paese. Oggi, che si emarginano quelle telematiche, lo sono ancor meno. Dobbiamo allora colpire e svalutare l'intero sistema universitario italiano? È come se a una persona che zoppica da un piede si prescrivesse il taglio di tutte e due le gambe.

Quello che gli abolizionisti e in generale i "riformatori neoliberisti", ispiratori spesso di queste amenità, non considerano è che le Università italiane non sono state create semplicemente per consentire ai cittadini di accedere ai concorsi, ma incarnano un percorso di formazione. Sono un patrimonio pubblico, che si è consolidato nel tempo, che è fatto della storia delle varie discipline scientifiche, delle diverse scuole accademiche, dei saperi, delle norme e dottrine destinate a formare le classi dirigenti del paese. Le università, da noi più che altrove, sono la sede storica delle diverse comunità scientifiche. In questo grande collettivo di studi si sono formati e si vanno formando non solo dei professionisti, ma il corpo intellettuale della nazione, con la sua identità e i suoi valori condivisi. Qui risiede la legalità, nel senso più alto, dei saperi che il nostro paese produce con la sua straordinaria e creativa operosità. Che senso ha, dunque, smembrare questo patrimonio in cui una parte estesa degli italiani riconosce le sue conquiste più alte? Che senso ha svalutare un lascito straordinario del nostro passato, ingiustamente vilipeso negli ultimi tempi per episodi certamente gravi di corruzione, ma che solo il moralismo indiscriminato e il neoliberismo interessato hanno potuto trasformare in una generale svilimento del nostro sistema formativo?

Ma ostinatamente si perora la necessità di creare una «pluralità di agenzie di accreditamento e di certificazioni a livello nazionale dei percorsi formativi», come si continua a dire. Si vogliono giurie esterne a quelle già esistenti. Queste garantirebbero il riconoscimento del merito. Molti dirigenti di Confindustria spingono in tale direzione, e così alcuni economisti, mai paghi dei fallimenti sotto cui sono state seppellite le loro misere dottrine. Davvero, in Italia, questa sarebbe una soluzione desiderabile? In Italia, paese di antica e lacerante frammentazione? Paese storicamente alle prese con i più gravi problemi di legalità civile di tutto l'Occidente? Si abolisce valore a un titolo garantito da un lungo processo pubblico e lo si mette in mano agli interessi dei privati? Qual è la ratio, se non la superstizione neoliberista, che non vuol vedere l'infinita serie di fallimenti di cui ha costellato la recente storia del mondo? In realtà si vuole continuare a colpire tutto ciò che è pubblico, deregolamentare tutto ciò che è fissato in norme di valore collettivo, come si fa in altri campi: dai contratti nazionali del lavoro agli articoli della Costituzione. Credo che all'intelligenza dei lettori del manifesto posso risparmiare ogni mio commento. Aggiungo solo che è con passi come questi, demolendo un presidio pubblico come la laurea, che si tende a piegare tutte le relazioni a logiche contrattualistiche private, a rapporti dare/avere, e si avanza verso il dissolvimento del tessuto culturale del paese come comunità nazionale.

Devo, tuttavia, concludere con un chiarimento. Tutte le considerazioni sin qui svolte si sono rese necessarie perché ho dovuto stare al gioco e prendere sul serio anche alcune fandonie neoliberali che non meriterebbero alcun commento. Ma quel che occorre dire, e avrei dovuto dirlo subito, è che la questione del valore legale della laurea è solo e semplicemente una astutissima manovra diversiva del governo. Nulla di più. Altro che saggezza, caro Asor, qui si tratta di astuzia raffinata. Con l'aggiunta di tanta professionalità. Il professor Monti e alcuni suoi ministri hanno studiato marketing o comunque ne sono esperti. Oggi l'Università ha un disperato bisogno di soldi, di personale tecnico e amministrativo, di nuovi docenti e ricercatori, di dottorati, di borse di studio. E che cosa orchestra il governo? Tira fuori un coniglio bianco dal cappello per incantare la folla, per dare in pasto ai furori contrapposti questo bel tema e distrarli per un po' dai problemi in cui annaspa l'intero sistema formativo nazionale. Non ci caschiamo. Il ministro Profumo non si faccia illusioni. Metteremo le questioni reali dell'Università al centro dell'attenzione e non sarà facile farci distrarre con qualche trovata pubblicitaria.

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Scriveva Marx, ai suoi tempi, che nella società capitalistica i paesi industrialmente più avanzati indicano agli altri il proprio avvenire. Chi è più avanti nello sviluppo anticipa trasformazioni e fenomeni che anche gli altri, più indietro nel processo di modernizzazione capitalistica, conosceranno qualche decennio più tardi.

Questa analisi-profezia, che ha resistito gagliardamente alla prova del tempo, sembrava essersi appannata nella seconda metà del XX secolo, quando un capitalismo incarnato e imbrigliato nelle culture e nelle istituzioni nazionali, sembrava dare a ciascun paese un proprio Sonderveg, come dicono i tedeschi, un proprio originale sentiero. I paesi europei, ad esempio, col loro solido welfare, si distinguevano dagli USA e sembravano capaci di contenere e filtrare i fenomeni più dirompenti che in quel paese facevano da avanguardia. Ma questo scarto è durato poco e, sotto la furia del pensiero unico - che nell'ultimo trentennio ha visto capitolare molti antichi presidi nazionali di costume e di cultura - lo sguardo anticipatore di Marx ha acquistato un nuovo e lucente smalto. Oggi abbiamo la possibilità di osservare sul nascere, e per così dire in vitro, come si afferma e diventa generale tale tendenza, chi sono i soggetti che la promuovono, quali motivazioni la sostengono.

La proposta del governo italiano in carica di prolungare l'orario di lavoro dei negozi è, a dispetto delle apparenze, un sontuoso cavallo di Troia che nasconde nella pancia alcuni fenomeni già all'opera nelle “società più avanzate”. Sembra una semplice iniziativa volta a facilitare gli acquisti dei cittadini-consumatori e naturalmente cova la speranza di innalzare il ritmo dei consumi. Ma essa contiene molto altro, costituisce il tassello di un processo, in atto da tempo, di distruzione di un modello di civiltà. Si fa presto a scoprirlo. E' sufficiente andare a vedere che cosa è accaduto là dove gli orari dei negozi sono stati deregolamentati per tempo.

Negli USA, che sono oggi “ il punto più avanzato dello sviluppo”, è possibile scoprire la trappola in cui sono caduti i cittadini americani, trascinati da decenni in una “bolla consumistica” che alla fine è esplosa con immenso fragore. I fondatori del gruppo Take Back Your Time, riprenditi il tuo tempo, hanno compreso, e denunciano da anni, che la spinta all'iperconsumo cui sono stati spinti i cittadini americani è stato un surrogato della riduzione dell'orario di lavoro. I guadagni di produttività oraria realizzati nell'industria e nei servizi USA non sono stati utilizzati , come era accaduto sino ad allora, per accrescere il tempo libero. Qui si è interrotto un antico percorso delle società industriali contemporanee. Gli incrementi produttivi sono stati monetizzati, tradotti in salario, grazie all'esca lucente di consumi sempre più abbondanti. Dove non bastava il salario, naturalmente, il credito bancario veniva amorevolmente in aiuto dei bisognosi di acquisto. Il risultato, dopo oltre un trentennio di questa gioiosa modernità, è che i lavoratori americani si sono trovati a lavorare in media 50 ore alla settimana e 350 ore annue in più dei loro equivalenti europei. Non c'è di che stupirsi. Come si fa a rinunciare ai sontuosi beni offerti da una smisurata macchina produttiva, a prezzi sempre più economici, resi sempre più indispensabili da una pubblicità senza quartiere? Come si fa rinunciare, se bastano un paio d'ore di straordinario al giorno per avere i dollari necessari a comprare l'ultima consolle, la macchina nuova, una pelliccia da sogno?

Negli USA la deregolamentazione degli orari dei negozi ha accompagnato in parallelo l'aumento della giornata lavorativa e la cosa non stupisce. Questo è il modello che il capitale va imponendo: una giornata completamente occupata dal lavoro, che impone l'utilizzo di tempo supplementare, oltre l'orario diurno, per svolgere il proprio compito di consumatore. I supermercati e i negozi aperti anche di notte, di domenica, nei giorni festivi devono offrire la possibilità di consumare anche a chi non possiede più tempo per se stesso. Certo, il tempo speso nelle compere serali o festive è sottratto alle relazioni sociali, alla famiglia, al dialogo fra persone, alla partecipazione alla vita civile. Ma un pover'uomo o una povera donna, che lavora dalla mattina alla sera, ha bisogno di un risarcimento, ha una necessità vitale di dare sfogo al proprio desidero di acquisto, di soddisfare il proprio ethos infantil e - come lo chiama Benjamin Barber nel suo Consumati - vagando tra le meraviglie merceologiche di un centro commerciale e portarsi a casa qualcosa. Ecco il grande successo conseguito dal capitalismo, quello a cui aspira di trascinarci la grande maggioranza degli economisti, sempre dietro qualche riforma da proporci. In questo modo si è completato il circuito di assoggettamento totalitario dell'individuo al processo di valorizzazione del capitale, che chiede sempre più tempo per la produzione e per i servizi, e ora sempre più tempo per i consumi.

L'uomo a una dimensione è bello e fatto. Nel punto più alto dello sviluppo, al culmine della modernità, gli uomini sono ridotti alla loro funzione primordiale: produrre e consumare, consumare e produrre. In tale ottica, la notte, naturalmente, costituisce una fase parassitaria nella vita delle società avanzate, durante la quale il PIL scende rovinosamente. Ce ne rendiamo conto. Per fortuna i turni lavorativi riescono a mantenere attiva la produzione in tanti settori e il commercio notturno può educare ad avere una idea meno pigra di questa fase della giornata in cui il sole conserva la cattiva abitudine di illuminare l'altra faccia della Terra.

Questa cultura della deregolamentazione, che ha scatenato le furie dei poteri finanziari, frantumato il potere sindacale e precarizzato il lavoro, demonizzato tutto ciò che era pubblico e fatto trionfare anche l'abiezione, purché fosse privata, freme tuttora come un animale ferito per azzannare qualcosa che ancora resiste indenne. Ora tocca al commercio, anche in Italia. E mi chiedo e chiedo che cosa pensa al riguardo la Chiesa, che cosa ne pensano i cattolici, anche quei tanti che stanno nell'attuale governo. Negozi aperti anche di domenica, il giorno del Signore? Perché la proposta recente rientra in quella tendenza del capitale che già abbiamo visto all'opera, e che non vuole fermarsi. In Italia si manifesta, ad es. , nella sorda pressione, più volte espressa da Confindustria, di ridurre le feste comandate, che frenano l'ascesa altrimenti trionfante del nostro PIL. Se fosse per tanti imprenditori, ma anche per tanti economisti che scrivono sui giornali, l'intero calendario gregoriano dovrebbe essere reso più “flessibile”, occorrerebbe togliere ogni residua solennità ai santi ancora festeggiati, rendere laicamente lavorativi tutti i giorni dell'anno, perché siano trascinati nella macchina insonne della crescita.

Per nostra fortuna i sindacati, anche quelli di categoria, hanno alzato gli scudi contro la proposta e meritoriamente molti cittadini hanno manifestato la loro contrarietà. Esempio di civismo, maturità, spirito di una civiltà che ancora resiste e dovrebbe fare arrossire tanti zelanti riformatori che ci assordano quotidianamente. E' tutta da verificare, infatti, l'economicità anche per i grandi supemercati e per i centri commerciali, a tenere le luci accese sino a mezzanotte o oltre. Ma, ricordiamo, se tale vantaggio dovesse verificarsi, non è evidente che una simile novità metterebbe in grave difficoltà i piccoli negozi di zona, accentuerebbe la crisi in cui versano, ne costringerebbe molti a chiudere favorendo il processo di desertificazione dei quartieri? E nessuno pensa a quanta economia è nascosta, quanto benessere collettivo, in un quartiere vitale, ben servito da piccoli esercenti, che limita gli spostamenti dei cittadini su lunga distanza, favorisce le mutue relazioni quotidiane, accresce la sicurezza senza bisogno di costose vigilanze e repressioni sicuritarie?

Questa è una dinamica sociale ormai ben nota, ma tanti economisti, e soprattutto gli uomini che si trovano di volta in volta a governare, se ne dimenticano facilmente, pur di lanciare i prodotti del loro marketing politico. Degli esiti sociali di lungo periodo delle cosiddette riforme nessuno si cura, pur di vendere al pubblico un qualche kit, un dispositivo economico che promette di imprimere dinamismo al sistema. E' l'analfabetismo politico della nostra epoca, lo conosciamo da tempo, e non possiamo far altro che additarlo nel suo quotidiano squallore.

Ma la proposta di regolamentare gli orari degli esercizi commerciali ha un valore paradigmatico molto più ampio e generale di quanto fin qui detto. Perché essa, sotto l'aria di voler rilanciare i consumi in una fase di crisi in cui effettivamente la ripresa della domanda svolgerebbe un ruolo equilibratore, instilla nell'immaginario pubblico il veleno del consumismo illimitato, ci mostra l'avvenire di una crescita continua e senza confine dell'acquisto di merci e servizi. Mentre la popolazione mondiale continua a crescere, centinaia di milioni di nuovi ricchi approdano ogni anno ai nostri stessi standard di consumo, i cicli di rigenerazione delle risorse della Terra si vanno arrestando per eccesso di sfruttamento, nella piccola Italia, facciamo la nostra parte simbolica. Mostriamo che si può comprare senza limiti di tempo, giorno e notte. Chiedersi quel che succede alle limitate risorse del nostro pianeta è naturalmente una preoccupazione stonata e fuori posto. I problemi son ben altri e del resto, in questo momento, siamo in emergenza. Come è noto da decenni.

www.amigi.org. Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto

«I diritti sono diventati un lusso? L' “età dei diritti” è al tramonto ?» Si poneva queste inquiete domande Stefano Rodotà, su Repubblica del 20 dicembre, a proposito della messa in discussione dell'articolo 18 da parte del ministro Fornero, di Confindustria e vari altri esponenti del mondo politico italiano. Non sono domande né retoriche, né allarmistiche, come si tende di norma a far credere, minimizzando l'oltranza che intanto si fa strada. L'idea di far crescere l'occupazione rendendo più agevole il licenziamento dei lavoratori, ancorché empiricamente infondata, è una testata d'ariete contro uno dei pochi diritti del lavoro che rimangono ancora in piedi nel nostro paese.

Per comprendere sia l'inefficacia pratica e controproducente della misura invocata, che il carattere sostanzialmente devastatore di diritti fondamentali della persona, è sufficiente un breve sguardo storico. Basta osservare quanto è accaduto al mondo del lavoro nei paesi di antica industrializzazione negli ultimi 30 anni per capire che le misure a cui esortano i “modernizzatori” sono un altro passo verso una costituzione materiale che riduce la democrazia a una casa vuota. L'attuale situazione del mercato del lavoro, in cui si invocano nuove facilitazioni al capitale perché esso investa, e crei nuova occupazione, è infatti figlia di una storia che si tende a dimenticare. Pochi, infatti, ricordano, che essa stessa è il risultato storico della inedita, straordinaria facilità con cui le imprese hanno potuto disporre della forza lavoro negli ultimi decenni. Se al termine globalizzazione si toglie la crosta di retorica che lo nobilita, si vede facilmente che essa è consistita in questa gigantesca operazione: i circa 960 milioni di lavoratori attivi nei paesi sviluppati e in alcune enclave del Brasile e di pochi altri stati, nei giro di due tre decenni sono stati messi in diretta concorrenza con oltre due miliardi di portatori di forza lavoro disponibili in Cina e India e negli altri paesi in via di sviluppo. Le delocalizzazioni di USA, Europa, Giappone non sono solo servite alle imprese per fare lauti profitti utilizzando i salari da fame di vaste popolazioni rurali, spesso devastando il loro ambiente senza tutele. Questo è ben noto. Il loro fine è stato e continua ad essere anche quello di immettere la classe operaia sindacalizzata in questo nuovo e immenso serbatoio mondiale di forza lavoro, bloccando le sue rivendicazioni, costringendola in forme di subordinazione sempre più stringenti e socialmente frantumate. E' questa l'anima più travolgente della globalizzazione: la formazione di un mercato del lavoro di oltre tre miliardi di persone, il più vasto della storia, nel quale gli operai appena arrivati costituiscono, per il capitale occidentale, lo standard vantaggioso in cui trascinare tutti gli altri. Oggi, queste analisi sono proposte, significativamente, da studiosi e commentatori liberal americani, che possono ormai osservare con qualche distacco le cause profonde della presente crisi. Studiosi come Walman e Colamosca, con con largo anticipo, e poi Paul Mason e Luo Dobbs, il quale ultimo ha intitolato un suo recente libro, senza mezzi termini, War On The Middle Class, (guerra ai ceti medi e popolari) insieme a tanti altri mostrano nitidamente in quale sontuosa cucina è stato preparato il pranzo che sta squassando il mondo. L'impoverimento degli strati popolari in USA è infatti all'origine di tutto. Se questo grande paese doveva continuare ad essere la locomotiva dei consumi, e trascinare così la crescita mondiale, come si poteva quadrare il cerchio se le manifatture emigravano in Cina, i salari operai ristagnavano ? Chi continuava a riempire di stuff, di mercanzie inutili il carrello del supermercato? Gli stessi lavoratori e il ceto impiegatizio, naturalmente. Un miracolo tecnologico? Niente affatto! Una trovata del capitale finanziario, un passo in avanti verso la modernità direbbero tanti nostri commentatori, vale a dire l'indebitamento di massa delle famiglie americane. Le quali hanno continuato a comprare, non solo stuff, naturalmente, ma anche case a buon mercato, con mutui ben congegnati, per la gloria universale dello sviluppo.

Quel che è accaduto dopo, con l'esplosione della bolla finanziaria, è storia nota. Meno nota, o comunque meno connessa agli svolgimenti appena accennati, è la politica degli stati industrializzati, compreso ovviamente il nostro, di fronte alle spinte che venivano dal nuovo mercato mondiale del lavoro. Quali sono state le politiche che i governi, tanto di destra che di sinistra, hanno adottato per fronteggiare una situazione così inedita, che travolgeva in tempi rapidi assetti lungamente consolidati? Essi, più o meno all'unisono, si sono adoperati per rendere più agevoli le condizioni competitive dei rispettivi capitalismi nazionali nel nuovo spazio mondiale. E lo hanno fatto con vecchie e nuove politiche: tramite la riduzione del peso fiscale alle imprese, riducendo gli spazi del welfare, ricorrendo alle “riforme del mercato del lavoro”, che la cosiddetta Europa continua a invocare a gran voce.

La flessibilità, eccola l'altra lucente parola della modernità. Questa è stata individuata come la carta vincente per sostenere la competizione con Cina e India. Vale a dire la riduzione dei lavoratori a uno dei tanti fattori inerti della produzione, simile alle materie prime e ai macchinari, che vengono utilizzati a seconda della necessità. Quando non servono stanno in magazzino. Che grande passo in avanti per promuovere la crescita! Quale salto di civiltà ci fa compiere il capitalismo dei nostri anni, che mai aveva avuto così tanti volenterosi apologeti in tutta la sua storia! Ma chi si è ricordato del fatto che gli imprenditori bisognosi di essere aiutati nella competizione erano e sono spesso gli stessi che avevano delocalizzato in Cina o in Romania? Chi comprende questo passaggio storico decisivo, che si è consumato sotto i nostri occhi ? Sono le imprese, americane o europee, quelle stesse che si sono create, a loro esclusivo vantaggio, le condizioni della competizione mondiale, a chiedere al ceto politico di poterla fronteggiare con l' ormai definitivo servaggio della forza lavoro. Vale a dire accrescendo le condizioni delle loro convenienze di partenza e acuendo le disuguaglianze che stanno trascinando il mondo in una crisi senza sbocco. Questo è l'andamento del corso storico degli ultimi 30 anni, che oggi si vuol far passare come una realtà naturale, uno stato di necessità a cui non si può resistere, da assecondare, naturalmente con le riforme. Riforme, ecco le consunte parole con cui una intera generazione del ceto politico mondiale maschera la propria ormai inoccultabile impotenza.

Rendere più agevole al capitale l'uso della forza lavoro non solo non è la soluzione, ma la causa prima del presente disordine mondiale, poggiante su un sovrastante dominio di classe. Se ne persuada il ministro Fornero, e tutti gli zelanti salvatori dell'Italia, i nuovi posti non nasceranno rendendo più facili i licenziamenti dei lavoratori. A frenare gli investimenti non sono certo le condizioni del mercato del lavoro, come mostrano del resto recenti ricognizioni presso le imprese. L'abolizione dell'articolo 18, inutile allo scopo, costituirebbe un altro piccolo passo verso la barbarie: condizione a cui si perviene, ovviamente, con la giusta gradualità, perché gli uomini hanno bisogno di un po’ di tempo, ma poi si adattano a qualunque abiezione. Se anche nell'animo dei cristiani i dogmi neoliberali sono diventati articoli di fede, occorrerà rifondare qualche nuova religione, o l'umanità è perduta.

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«I diritti sono diventati un lusso? L'età dei diritti è al tramonto?» Si poneva queste inquiete domande Stefano Rodotà, Repubblica del 20 dicembre, a proposito della messa in discussione dell'articolo 18 da parte del ministro Fornero, di Confindustria e vari altri esponenti del mondo politico italiano. Non sono domande né retoriche, né allarmistiche, come si tende di norma a far credere, minimizzando l'oltranza che intanto si fa strada. L'idea di far crescere l'occupazione rendendo più agevole il licenziamento dei lavoratori, ancorché empiricamente infondata, è una testata d'ariete contro uno dei pochi diritti del lavoro che rimangono ancora in piedi nel nostro paese.

Per comprendere sia l'inefficacia pratica e controproducente della misura invocata, che il carattere sostanzialmente devastatore di diritti fondamentali della persona, è sufficiente un breve sguardo storico. Basta osservare quanto è accaduto al mondo del lavoro nei paesi di antica industrializzazione negli ultimi 30 anni per capire che le misure a cui esortano i "modernizzatori" sono un altro passo verso una costituzione materiale che riduce la democrazia a una casa vuota.

L'attuale situazione del mercato del lavoro, in cui si invocano nuove facilitazioni al capitale perché esso investa, e crei nuova occupazione, è infatti figlia di una storia che si tende a dimenticare. Pochi, infatti, ricordano, che essa stessa è il risultato storico della inedita, straordinaria facilità con cui le imprese hanno potuto disporre della forza lavoro negli ultimi decenni. Se al termine globalizzazione si toglie la crosta di retorica che lo nobilita, si vede facilmente che essa è consistita in questa gigantesca operazione: i circa 960 milioni di lavoratori attivi nei paesi sviluppati e in alcune enclave del Brasile e di pochi altri stati, nei giro di due tre decenni sono stati messi in diretta concorrenza con oltre due miliardi di portatori di forza lavoro disponibili in Cina e India e negli altri paesi in via di sviluppo. Le delocalizzazioni di Usa, Europa, Giappone non sono solo servite alle imprese per fare lauti profitti utilizzando i salari da fame di vaste popolazioni rurali, spesso devastando il loro ambiente senza tutele.

Questo è ben noto. Il loro fine è stato e continua ad essere anche quello di immettere la classe operaia sindacalizzata in questo nuovo e immenso serbatoio mondiale di forza lavoro, bloccando le sue rivendicazioni, costringendola in forme di subordinazione sempre più stringenti e socialmente frantumate.

È questa l'anima più travolgente della globalizzazione: la formazione di un mercato del lavoro di oltre tre miliardi di persone, il più vasto della storia, nel quale gli operai appena arrivati costituiscono, per il capitale occidentale, lo standard vantaggioso in cui trascinare tutti gli altri. Oggi queste analisi sono proposte, significativamente, da studiosi e commentatori liberal americani, che possono ormai osservare con qualche distacco le cause profonde della presente crisi. Studiosi come Walman e Colamosca, con largo anticipo, e poi Paul Mason e Luo Dobbs, il quale ultimo ha intitolato un suo recente libro, senza mezzi termini, War On The Middle Class, (guerra ai ceti medi e popolari) insieme a tanti altri mostrano nitidamente in quale sontuosa cucina è stato preparato il pranzo che sta squassando il mondo.

L'impoverimento degli strati popolari in Usa è infatti all'origine di tutto. Se questo grande paese doveva continuare ad essere la locomotiva dei consumi, e trascinare così la crescita mondiale, come si poteva quadrare il cerchio se le manifatture emigravano in Cina, i salari operai ristagnavano? Chi continuava a riempire di stuff, di mercanzie inutili il carrello del supermercato? Gli stessi lavoratori e il ceto impiegatizio, naturalmente. Un miracolo tecnologico? Niente affatto! Una trovata del capitale finanziario, un passo in avanti verso la modernità direbbero tanti nostri commentatori, vale a dire l'indebitamento di massa delle famiglie americane. Le quali hanno continuato a comprare, non solo stuff, naturalmente, ma anche case a buon mercato, con mutui ben congegnati, per la gloria universale dello sviluppo.

Quel che è accaduto dopo, con l'esplosione della bolla finanziaria, è storia nota. Meno nota, o comunque meno connessa agli svolgimenti appena accennati, è la politica degli stati industrializzati, compreso ovviamente il nostro, di fronte alle spinte che venivano dal nuovo mercato mondiale del lavoro. Quali sono state le politiche che i governi, tanto di destra che di sinistra, hanno adottato per fronteggiare una situazione così inedita, che travolgeva in tempi rapidi assetti lungamente consolidati? Essi, più o meno all'unisono, si sono adoperati per rendere più agevoli le condizioni competitive dei rispettivi capitalismi nazionali nel nuovo spazio mondiale. E lo hanno fatto con vecchie e nuove politiche: tramite la riduzione del peso fiscale alle imprese, riducendo gli spazi del welfare, ricorrendo alle "riforme del mercato del lavoro", che la cosiddetta Europa continua a invocare a gran voce.

La flessibilità, eccola l'altra lucente parola della modernità. Questa è stata individuata come la carta vincente per sostenere la competizione con Cina e India. Vale a dire la riduzione dei lavoratori a uno dei tanti fattori inerti della produzione, simile alle materie prime e ai macchinari, che vengono utilizzati a seconda della necessità. Quando non servono stanno in magazzino. Che grande passo in avanti per promuovere la crescita! Quale salto di civiltà ci fa compiere il capitalismo dei nostri anni, che mai aveva avuto così tanti volenterosi apologeti in tutta la sua storia!

Ma chi si è ricordato del fatto che gli imprenditori bisognosi di essere aiutati nella competizione erano e sono spesso gli stessi che avevano delocalizzato in Cina o in Romania? Chi comprende questo passaggio storico decisivo, che si è consumato sotto i nostri occhi? Sono le imprese, americane o europee, quelle stesse che si sono create, a loro esclusivo vantaggio, le condizioni della competizione mondiale, a chiedere al ceto politico di poterla fronteggiare con l' ormai definitivo servaggio della forza lavoro. Vale a dire accrescendo le condizioni delle loro convenienze di partenza e acuendo le disuguaglianze che stanno trascinando il mondo in una crisi senza sbocco. Questo è l'andamento del corso storico degli ultimi 30 anni, che oggi si vuol far passare come una realtà naturale, uno stato di necessità a cui non si può resistere, da assecondare, naturalmente con le riforme. Riforme, ecco le consunte parole con cui una intera generazione del ceto politico mondiale maschera la propria ormai inoccultabile impotenza.

Rendere più agevole al capitale l'uso della forza lavoro non solo non è la soluzione, ma la causa prima del presente disordine mondiale, poggiante su un sovrastante dominio di classe. Se ne persuada il ministro Fornero, e tutti gli zelanti salvatori dell'Italia, i nuovi posti non nasceranno rendendo più facili i licenziamenti dei lavoratori. A frenare gli investimenti non sono certo le condizioni del mercato del lavoro, come mostrano del resto recenti ricognizioni presso le imprese. L'abolizione dell'articolo 18, inutile allo scopo, costituirebbe un altro piccolo passo verso la barbarie: condizione a cui si perviene, ovviamente, con la giusta gradualità, perché gli uomini hanno bisogno di un po di tempo, ma poi si adattano a qualunque abiezione. Se anche nell'animo dei cristiani i dogmi neoliberali sono diventati articoli di fede, occorrerà rifondare qualche nuova religione, o l'umanità è perduta.

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Che cosa può rendere attuali e perfino per tanti versi affascinanti gli scritti, di e su un decennio ormai lontano, di un protagonista della scena culturale italiana degli ultimi 40 anni? Forse basterebbe la qualità storica del periodo in questione: gli anni '60, senza dubbio il decennio epico della seconda metà del XX secolo, la pagina più intensa e più alta della storia italiana dello scorcio finale dell'età contemporanea. Con studiata foga iperbolica – ma con molti elementi di verità - Alberto Asor Rosa (Le armi della critica: Scritti e saggi degli anni ruggenti (1960-1970) , Einaudi Torino 2011 pp.VII-LXIX, 368) la definisce « la più ciclopica trasformazione delle proprie strutture sociali, economiche, produttive – e però anche intellettuali e culturali – dai tempi della caduta dell'Impero romano in poi». Un decennio, come vedremo, su cui gravano interrogazioni fondamentali che arrivano al nostro tempo. Me nella Prefazione storica che organizza i saggi, in parte usciti in edizioni precedenti - e che a mio avviso vale, da sola, per nitore analitico e tensione esistenziale e civile, l'intero libro – c'è anche dell'altro.

Asor Rosa racconta in questo saggio il proprio ingresso nel mondo dell'impegno politico e al tempo stesso l'inquieta esplorazione dell'universo intellettuale che gli stava intorno e che e a quell'impegno doveva fornire fondamenti di senso e prospettive. Si tratta di pagine autobiografiche all'interno delle quali si snodano vicende, che solo in parte sono personali, perché riescono a coinvolgere nel racconto, sullo sfondo dei processi del decennio, la vicenda di un gruppo intellettuale tra i più significativi dell'Italia della seconda metà del secolo. Amici e sodali dell'avventura politica e culturale di Asor Rosa, in quegli anni, erano Mario Tronti, uno dei padri dell'”operaismo,” Toni Negri, oggi teorico molto influente, Massimo Cacciari, filosofo e politico a tutti noto, Umberto Coldagelli, diventato il maggiore studioso di Tocqueville in Italia, Aris Accornero, l'unico operaio italiano pervenuto alla cattedra universitaria e sociologo del lavoro, Rita di Leo, sociologa anch'essa e studiosa della composizione sociale dell'URSS e dello stalinismo, Manfredo Tafuri, storico e teorico dell'urbanistica precocemente scomparso. La storia dei gruppi intellettuali, tema negletto nel paese di Gramsci , trova nelle prime pagine della Prefazione indicazioni e suggestioni che danno il senso di un'epoca e anche non poche piste di ricerca.

La cifra essenziale della tensione teoretica dell'autore e del gruppo – molto più affollato dei nomi noti appena ricordati – è soprattutto una: il rapporto diretto con il pensiero di Marx, per afferrare con profondità analitica ciò che si voleva conoscere direttamente, la classe operaia di fabbrica. Asor Rosa ricostruisce il suo personale percorso – con uno sforzo costante, da storico di mestiere, di rendere impersonali le vicende che lo riguardano - di avvicinamento a Marx e delle scoperte che ne ha ricavato. E nel testo fa rivivere pagine dai Grundrisse o dal Capitale, che ancora oggi gettano lampi di bagliore conoscitivo ineguagliati sulla società del nostro tempo. E trovo davvero incontrovertibile l 'affermazione perentoria in cui si lascia andare : « Chi, anche oggi, non ha letto e meditato Marx non è in grado di capire in che mondo viviamo». Una verifica immediata? Osservate, con un rapido sguardo, il profilo intellettuale del ceto politico della sinistra ufficiale e ne troverete plastica ed esaustiva conferma.

Le pagine di questo saggio, tuttavia, si fanno leggere con singolare passione per un'altra ragione. Perché Asor Rosa ci trascina nella insolita bivalenza della sua personalità e nella spiazzante originalità del suo percorso esplorativo: che mette insieme Marx, Leopardi, Nietzsche e i grandi autori della letteratura europea. Forse il nucleo più ardimentoso di tutto il ragionamento, sempre esemplarmente rigoroso, del saggio sta nel tentativo, a mio avviso riuscito e persuasivo (ma potrei essere condizionato da affinità di sentire) di mettere insieme, diciamo, le forme di estrazione del plusvalore nelle società capitalistiche avanzate, descritte da Marx , con questo incantevole verso di Leopardi : «Dolce e chiara è la notte e senza vento». La teoria rivoluzionaria e la poesia, la lotta per l'emancipazione di una classe oppressa e la ricerca di una visione profonda e disincantata della condizione umana. Sfere assai distanti fra di loro, ma in realtà tenute insieme da una medesima tensione: la libertà del pensiero da tutti i condizionamenti, da tutti gli idola, la sovrana conoscenza della realtà e della “verità”, il poter collocare la propria opera transeunte nell' universo di senso che solo la grande poesia può regalarci. Con Nietzsche - «un grandioso continente di pensieri» - le cose sono più facili, anche se non meno avvincenti. Alcune riflessioni del filosofo tedesco sulla classe operaia – di folgorante inattualità - danno al ragionamento dell' autore una convincente rotondità.

Nella Prefazione Asor Rosa pone una questione storica che meriterebbe una discussione più ampia di quella possibile in queste note. Egli sostiene che in Italia, in quegli anni , «un forte sviluppo in presenza di una forte conflittualità , una forte conflittualità in presenza di un forte sviluppo avrebbero garantito a tutti quel salto che invece non c'è stato e da cui è scaturita l'attuale decadenza». Prima di entrare nel merito, io vorrei preliminarmente osservare che in tale riflessione dell'autore riaffiora una tensione, direi una vibrazione morale costante in tutta la sua opera di storico della letteratura. E' quell' «amarezza del pensiero e dell'intelligenza» , ch'egli attribuisce in questa Prefazione a Machiavelli, dipendente dallo scarto, che segna tutta la nostra storia - e che l'autore ritrova ogni volta che si occupa di Dante, di Machiavelli, Guicciardini, Leopardi – quello scarto tra le incomparabili potenzialità delle nostre energie e intelligenze nazionali e gli scadenti esiti statuali che ne sono di volta in volta derivati. Anche negli anni '60 sarebbe accaduto qualcosa di “antico”. La tesi contiene degli elementi di verità storica che andrebbero esplorati in maniera più circostanziata. Io credo, tuttavia, che forse la “mancata risposta” alla potenzialità contenuta nei conflitti, sia da spostare più avanti, e da concentrare soprattutto sul piano della cultura politica Non posso fare a meno di ricordare che gli anni '70 non furono di semplice opposizione, da parte delle classi dirigenti italiane.

Alla pressione operaia e popolare, in certi casi, si rispose con riforme importanti: la nascita delle Regioni (non senza effetti indesiderati, soprattutto al Sud) lo Statuto dei lavoratori, la nascita, nel 1978, del Sistema Sanitario Nazionale, un processo parziale, ma importante di democratizzazione dei corpi di polizia. E al tempo stesso, in quel decennio, vi furono conquiste politiche e di civiltà: l'affermazione delle sinistre nelle grandi città, la vittoria referendaria per il divorzio, mutamenti di costume e di rapporti tra genitori e figli, la ventata libertaria del movimento femminista. Naturalmente quelli sono anche gli anni della reazione stragista da parte di potenze oscure della società italiana, e poi del terrorismo.

Dunque, alcune trasformazioni importanti sono pur venute da quei conflitti. Nella società sono continuate modificazioni culturali profonde. Quel che è rimasto imballato, certamente, è stato il sistema politico. Forse perché i due maggiori partiti troppo a lungo non hanno goduto di piena autonomia nazionale. Ma quel che mi sento di dire, per ciò che riguarda la sinistra, è che il vecchio Partito comunista aveva esaurito, già negli anni '80, la sua progettualità strategica. Tardivamente e mal riformato, ha perso rapidamente, nel corso degli anni '90, la capacità di leggere i movimenti profondi che il capitalismo stava promuovendo. Il vasto sommovimento globale messo in atto dal neoliberismo è stato non a caso, anche dal gruppo dirigente di quel partito, scambiato per una nuova frontiera della modernità.

E' un obbligo di onestà intellettuale riconoscere – come hanno fatto quasi tutti gli amici che sono già intervenuti sul manifesto – il netto mutamento prodotto dal governo Monti rispetto al precedente esecutivo. Ed è anche, io credo, un obbligo della intelligenza politica saper riconoscere i mutamenti di fase, percepire gli spostamenti del fronte della lotta. Già la stessa estromissione di Berlusconi toglie all'opposizione contro le politiche neoliberistiche quell'indistinta nebulosità che l'ha caratterizzata fin qui, conferendole una maggiore nettezza, una migliore visibilità delle poste in gioco. Non sarebbe peraltro giusto sottovalutare sprezzantemente alcune novità relative alla civiltà politica del nostro Paese, che il governo ha introdotto. Il nuovo ethos pubblico, che l'esecutivo guidato da Monti ha reso subito evidente, ha non solo spazzato via d'un colpo l'aura di abiezione che circondava la masnada berlusconiana. Ha portato un ventata di pulizia nello spirito pubblico del nostro paese. E io credo che faccia in qualche modo parte – certo una piccola, ma importante parte – della pubblica felicità essere governati da persone a cui si riconosce onestà e probità morale. Si vivono meglio la proprie giornate di cittadini. La dichiarazione di umiltà da parte dello stesso Monti è, sul piano dello stile, e per il messaggio che comunica, una novità notevole, dopo un ventennio indimenticabile di arroganza e protervia del potere politico. D'altra parte, non dimentichiamolo, i governi di Berlusconi, fondati su un gigantesco conflitto d'interesse, per la costante pratica eversiva delle regole – oltre che per gli uomini che li hanno affollati dentro e nei dintorni – hanno costituito non solo un incoraggiamento, ma un incitamento e talora una fonte di illegalità. In un paese dove fiorisce la più estesa e attiva criminalità d'Europa si può agevolmente comprendere l'importanza di questo primo passo segnato dal nuovo esecutivo.

Ma tutto questo riguarda l'ethos, la pubblica moralità. La sensazione che oggi domina, di fronte a questa svolta, è che gli attori in azione sul proscenio del presente siano diretti da scelte operate nel passato, da politici defunti, oltre che da potenze impersonali e invisibili a cui si da il nome falsamente neutro ed egalitario di mercati. Le scelte sono, certamente, quelle dei vari governi nazionali che hanno accumulato un così ingente debito pubblico. Ma soprattutto quelle, fatte fuori dai confini nazionali, della deregolamentazione dei mercati finanziari messa in atto dai governi occidentali (compreso quello di Mitterand, in Francia) a partire dagli anni '80 del secolo scorso. E quelle più recenti, volte a salvare le banche dal fallimento utilizzando le risorse degli stati, oltre, naturalmente, all' internazionalizzazione del debito pubblico. Cui va aggiunta un'ultima “non scelta”, forse la decisione più clamorosa di tutte: l'assoluta mancanza di volontà politica, sia da parte di Obama, negli USA, che dei confusi e inetti governanti europei, di assoggettare il mondo finanziario in difficoltà, quando era il momento, a vincoli stringenti, che ponessero fine alle loro scorrerie. E imponendo un prelievo fiscale ai loro ingenti profitti per mettere in equilibrio un'architettura che essi stessi avevano devastato. E a proposito di inerzia e volontà politica, non si può non deplorare l'assoluta mancanza di una qualche iniziativa congiunta dei paesi con alto debito per tentare manovre comuni di contrattazione con i creditori. E la sinistra europea? Ma dov'erano, che cosa hanno detto, proposto, pensato di azione comune gli uomini che abbiamo eletto al Parlamento europeo ?

Oggi il presente esecutivo appare obiettivamente, se non al servizio, certamente subalterno ai limiti che il potere finanziario impone ai governi, alla politica intesa come libera decisione dei cittadini. Senza sottovalutare il condizionamento che esso subisce dal centro-destra, occorre riconoscere che la sua sovranità è limitata, perché essa è figlia della paura. Paura del fallimento della nazione, resa universalmente visibile dalla tragedia sociale della Grecia. Quella paura che alla fine ha avuto ragione della protervia di Berlusconi. Quello stato di necessità che svuota o limita gravemente gli spazi della democrazia e che sembra essere ormai una linea strategica dei gruppi dirigenti del capitalismo del nostro tempo.

Ebbene, bisogna dirlo subito e col giusto allarme. La paura non gioca a favore della sinistra. Corriamo il rischio, in questo anno e mezzo che ci separa dalle elezioni – se l'esecutivo Monti riesce a durare – di perdere per strada un bel po' dello slancio e dell'entusiasmo che si sono espressi nelle elezioni della primavera e nel successo dei referendum. Sotto l'assedio della paura è il centro moderato che può calamitare consensi, raccogliendo anche l'ondata di delusione che la caduta del governo e le divisioni interne al PDL e alla Lega provocherà nell'elettorato del centro-destra.

Tale pericolo imporrebbe una condotta politica del centro- sinistra e della sinistra extraparlamentare all'altezza della sfida. Non sappiamo, infatti, quanto e se l'esecutivo Monti riuscirà a farci uscire dall'emergenza finanziaria legata dal nostro debito pubblico. Quello che è facilmente prevedibile è che esso non riuscirà a contenere la divaricazione dei redditi e l'emarginazione sociale di una parte crescente della popolazione per effetto della crisi e delle decisioni di politica economica decise in Italia e in Europa. Il dato secondo cui il 10% delle famiglie italiane detiene quasi la metà del reddito nazionale – fornito non dall'ufficio studi della Fiom, ma dalla Banca d'Italia di Draghi – non verrà certamente modificato dal programma di governo che ci è stato illustrato. L'idea di una patrimoniale, che sarebbe un atto di sacrosanta giustizia sociale, prima ancora che una saggia scelta di politica economica, è scomparsa dall' orizzonte. E l'ICI sulla prima casa probabilmente aggraverà lo squilibrio.

Con ogni evidenza , dunque, il disagio sociale è destinato a crescere man mano che si faranno sentire – come già accade – l'aumento di prezzi e tariffe per l'aumento dell'IVA e gli effetti degli innumerevoli tagli imposti dal precedente esecutivo. E' a questo scenario sociale che occorrerà prestare la massima attenzione, ma intervenendo con proposte credibili, da far sentire con voce forte a tutto il Paese. Ci sono milioni di giovani senza lavoro oggi in Italia, migliaia di questi hanno lauree, dottorati, master. Quale prospettiva diamo loro? Li esortiamo a pazientare finché arriva la crescita? Draghi ci ha appena comunicato che non è alle viste. Proponiamo loro di attendere - come ha fatto il neo ministro della Pubblica istruzione – l'applicazione della legge Gelmini? Perché tanta timidezza, da parte della sinistra, nel proporre un reddito di cittadinanza per lo meno a una fascia ampia della nostra gioventù? Posti di ricercatore nell'Università, nel CNR, borse di studio per i tanti studenti meritevoli e bisognosi? Non basterebbe stornare la spesa prevista per la costruzione dei 131 cacciabombardieri F35 per finanziarlo? Non possiamo introdurre una tassa di scopo? Ricordo che la disoccupazione, presente e futura della nostra gioventù, riguarda la quasi totalità delle famiglie italiane. Essa rischia di diventare esplosiva se si aggiunge alla riduzione dei redditi familiari, alla disoccupazione dei capifamiglia. E' anche per questo che in esse si localizza una potenzialità di consenso di vasta portata. Costeggiare la sovranità della paura con una politica priva di profilo classista, moderata, incapace d'azione e di proposte coraggiose, potrebbe non rendere certa, nel 2013, una vittoria elettorale del centro sinistra che oggi invece appare alla portata.

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Chi, ormai da decenni, studia la storia del territorio italiano, di fronte alle frane e a morti delle Cinque terre e ora al disastro di Genova, oltre al dolore per le vittime, prova oggi uno scoramento profondo. La voglia di non dire nulla, il senso dell'inutilità di scrivere e protestare. Chi scrive ha troppe volte dovuto intervenire per commentare consimili tragedie, tentando di mostrare le cause morfologiche e storiche che sono normalmente all'origine delle cosiddette calamità naturali nel nostro Paese. E, per la verità, lo ha fatto insieme a voci sempre più numerose e agguerrite di geologi, metereologi, esperti. Tutto invano. E nell'ultimo ventennio più invano che mai, considerata la qualità intellettuale e morale del ceto politico di governo che ci è capitato in sorte e che del territorio italiano si è occupato per darlo in pasto agli appetiti speculativi.

Tuttavia, l'obbligo di tentare di contribuire alla riflessione collettiva su fatti così gravi finisce col vincere sul senso di frustrazione. Senza l'ostinazione e la tenacia, d'altronde, la lotta politica, specie per chi sì è ritagliato una piccola frontiera di critica e di opposizione, non sarebbe neppure concepibile.Io credo che oggi, di fronte agli eventi catastrofici che si susseguono, bisogna denunciare ormai con chiarezza l'emergere di una grave questione territoriale in Italia. Non si tratta di una novità assoluta, le vicende del territorio hanno un corso lento, lasciano il tempo per essere osservate, ma essa oggi si presenta con caratteri assolutamente nitidi e drammatici per un insieme di ragioni. Mettiamo da parte, per brevità, la Pianura padana, che ha problemi particolari, ma che ospita, ricordiamolo, il più complesso sistema idrografico d'Europa, essendo il ricettacolo dei grandi fiumi alpini. Si tratta dell'area più stabile del nostro Paese, eppure, anch'essa, è percorsa da sistemi di forze che possono assumere carattere distruttivo in caso di eventi climatici estremi.

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Il problema principale si chiama Appennino. La dorsale montuosa con i suoi innumerevoli corsi d'acqua e gli ingenti materiali d'erosione che trascina incessantemente a valle. Un tempo, la centralità dell' Appennino nell'equilibrio complessivo della Penisola era chiaro anche agli uomini politici, quando questi possedevano un proprio profilo culturale oltre al curriculum politico. Meuccio Ruini, ad esempio, che fu anche presidente del Senato, ricordava nel lontano 1919, come « contorno e rilievo, clima, abitabilità e comunicazioni, relazioni storiche, ogni cosa insomma dell' Italia peninsulare è signoreggiata dall'Appennino e ne riceve l'impronta. » Ora, è noto da tempo, l'Appennino è in stato di abbandono. Ma soprattutto in condizioni di abbandono si trovano le terre pedemontane e collinari interne, quelle che per secoli sono state presidiate dalle abitazioni contadine, che sono state tenute sotto manutenzione dal lavoro quotidiano degli agricoltori. Una delle ragioni della diffusione e della durata storica della mezzadria nell'Italia di mezzo (soprattutto Toscana, Marche, Umbria) che dal medioevo è arrivata sino alla seconda metà del '900, è legata al fatto che essa prevedeva l'insediamento della famiglia mezzadrile nel fondo, impegnata a governare un territorio instabile. Ora, anche questo è noto, da tempo le colline mezzadrili sono state abbandonate, o sono coltivate industrialmente, con poche macchine e senza uomini.

Tale situazione, nota da tempo ai pochi esperti e appassionati della materia, conosce oggi un aggravamento dovuto a più fattori evolutivi. Da una parte, il progressivo, ulteriore abbandono dell'agricoltura da parte dei piccoli coltivatori che non ce la fanno a reggere i bassi prezzi con cui viene remunerata la loro impresa. Un fenomeno a cui gli economisti agrari di solito plaudono, perché il modello competitivo – nel pensiero economico astratto - è naturalmente la grande azienda, senza alcuna considerazione di ciò che accade al territorio, quando scompare un presidio. Di norma, quando la piccola impresa non è accorpata a una azienda più ampia, il terreno viene progressivamente invaso dalla vegetazione spontanea. Negli ultimi anni, tuttavia, a tale fenomeno si è aggiunto un sempre più largo uso edificatorio del suolo. Il cemento ha preso il posto degli ulivi o degli alberi da frutto. I comuni hanno fatto cassa svendendo il loro territorio. Nel frattempo il circolo vizioso demografico si è venuto sempre più accelerando. Se si abbandonano le aree interne tutto tende a gravitare nelle zone di pianura, che nella Penisola solo prevalentemente le aree costiere. Qui oggi si accentra oltre il 66% della popolazione peninsulare. E qui sono insediati industrie, servizi, infrastrutture, la ricchezza materiale italiana. Ma anche qui, negli ultimi devastanti decenni dei governi di centro- destra ( e nella pochezza e brevità di quelli di centro-sinistra) si è continuato a cementificare con furia da “accumulazione originaria” cinese. Ora, l'ultimo elemento che completa il quadro riguarda la frequenza degli eventi estremi, vale a dire, nel nostro caso, la straripante quantità d'acqua che oggi cade in poco tempo in delimitate aree territoriali. Si tratta di un fenomeno dipendente dal riscaldamento globale, che il climatologo inglese John Houghton, definì, nel 1994, come « frequenza e intensità di eccessi metereologici e climatici».

Dunque, come in questi ultimi anni, le piogge tenderanno in futuro a presentarsi sempre più come eventi particolarmente intensi.E le acque, dalle colline abbandonate o cementificate, mal regimate, precipiteranno lungo le pianure costiere dove il verde – la spugna che un tempo assorbiva le piogge – è diventato sempre più raro, impermeabilizzato da chilometri quadrati di cemento. Che cosa possiamo aspettarci ? Davvero pensiamo di affrontare tale gigantesca questione organizzando meglio la protezione civile? Rendendo più efficaci i sistemi di allarme?

E' evidente che qui ci si presenta una sfida che è anche una grande opportunità per il nostro Paese. Sia per creare nuove occasioni di lavoro, sia per ridare orizzonti progettuali alla politica sprofondata nel tramestìo quotidiano. La prospettiva è: riequilibrare la distribuzione demografica e valorizzare le vaste aree interne della Penisola. Un grande progetto per scongiurare disastri, ridando vita a una vasta area territoriale in cui gli italiani hanno vissuto per secoli. Il che si può fare con una molteplicità di interventi concertati, che puntino alla selvicultura e all'agricoltura di qualità, allo sfruttamento economico delle acque interne, al potenziamento del turismo escursionistico, al recupero - anche per insediarvi centri di ricerca - di tanti borghi e centri cosiddetti “minori” : spesso gioielli monumentali che fanno l 'identità profonda di una parte estesa d'Italia. Un insieme di iniziative e pratiche che potrebbero offrire lavoro alla nostra gioventù e a tanti giovani extracomunitari, oggi perseguitati da una legislazione criminogena. L'urgenza e l'assoluto vantaggio economico di procedere in tale direzione potrebbe fornire anche nuova forza al grande e specifico problema di tutela e conservazione del nostro paesaggio. Un bene inestimabile che stiamo compromettendo.

Naturalmente, per realizzare tale obiettivo, che col tempo potrà salvare l'Italia da perdite umane ed economiche sempre più gravi, occorre utilizzare risorse. E le risorse – per definizione sempre scarse - oggi lo sono più che mai. Ma proprio per questo appare necessario, in questo momento, un atto di coraggio anche da parte di tanto ceto politico e giornalismo che, talora in buona fede, ha visto nelle cosiddette grandi opere (TAV, Ponte dello Stretto) un'occasione di sviluppo per il nostro Paese. Bisogna avere la forza di ricredersi. Se le risorse finanziarie andranno alle grandi opere verranno a mancare per le piccole con cui noi oggi dobbiamo affrontare la questione territoriale italiana. Se si realizzerà il TAV, le risorse pubbliche saranno prosciugate e, per la salvezza del nostro territorio, resteranno le briciole.O l'uno o le altre, tertium non datur. Senza dire che le due scelte si presentano incompatibili anche sotto il profilo storico e culturale. Le grandi opere sono il frutto recente di un modo di procedere del capitale finanziario, in concerto con i poteri pubblici, per costruire infrastrutture – di più o meno provata utilità collettiva – e in genere contro la volontà delle popolazioni che vivono nei luoghi interessati. Senza dire che il nostro è un territorio delicato, che mal sopporta il gigantismo delle costruzioni fuori misura. Al contrario, le piccole opere per risanare l'habitat italiano possono esaltare la partecipazione popolare, iscriversi nel solco di una tradizione secolare che ha fatto dell'Italia, per mano di anonimi artisti popolari, quello che resta ancora del Belpaese.

E' tempo di riprendere la discussione sull'Università, una delle istituzioni che è entrata tardivamente nel vortice delle politiche neoliberiste e che oggi le subisce con particolare asprezza. Vorrei qui richiamare l'attenzione soprattutto sull'art. 12 della Legge Gelmini, relativa ai Ricercatori a tempo determinato. Per il commento critico sistematico a questa Legge rinvio al sito www.amigi.org. Stabilisce il Comma 4: « I contratti hanno durata triennale e possono essere rinnovati una sola volta per un ulteriore triennio previa positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte». Ecco d'un sol colpo e quasi di soppiatto inserito nel corpo dell'Università un dispositivo che sconvolge l'assetto storico della riproduzione scientifica e intellettuale nel nostro Paese. Il “lavoro flessibile”, dunque, il precariato è legge anche dentro le nostre vetuste strutture dell'alta formazione. Come non esaltarsi di fronte a tanta modernità che avanza, alle invocate riforme che finalmente si realizzano?

La prima riflessione da fare, a proposito di questo punto della norma, riguarda la sua ratio. A che serve? L'unica spiegazione “nobile” – a parte quella economica, mirata a ridurre drasticamente il peso dell'Università pubblica nel bilancio dello stato – è quella di rendere i futuri ricercatori competitivi, sempre “sulla corda” rispetto alla loro posizione, costretti ad essere sempre produttivi per non essere espulsi dall' istituzione. Ora, c'era davvero bisogno di inserire la precarietà per legge al fine di dar slancio competitivo ai nuovi ricercatori? Credo che solo chi ha frequentato la nostra Università attraverso corsi per corrispondenza possa essere stato sfiorato dall'idea di una simile fandonia. Le nostre Facoltà, scientifiche o umanistiche che siano, non hanno alcun bisogno di stimoli o incentivi: la competizione è già elevatissima. Lo è anche per il fatto che dalla produttività scientifica dipende l'avanzamento della carriera, in maniera assolutamente più limpida che in altri ambiti dell'amministrazione pubblica. Chi vuole diventare ricercatore, professore associato, professore ordinario, deve pubblicare, essere riconosciuto meritevole dalla comunità scientifica di riferimento, superare regolari concorsi. Piuttosto è l'Università italiana, soprattutto per la miseria in cui versa da decenni e per la cattiva amministrazione, che non riesce a premiare una produttività e competitività che sono invece elevate.

Sono stato di recente presidente di commissione in un concorso per ricercatore di storia contemporanea e ho dovuto esaminare – e necessariamente bocciare, perché il posto assegnabile era soltanto uno – decine e decine di candidati con titoli scientifici così numerosi e pregevoli da meritare la cattedra di professore ordinario. Dunque, non è la competizione il problema, ma l'assenza totale di prospettive per i tantissimi nostri studiosi che fanno ricerca di alta qualità.

Ma c'è nell'art.12 della Legge l'introduzione di un dispositivo che va esaminato più da vicino per coglierne tutte le potenzialità distruttive di prospettiva. Innanzi tutto - è forse il primo aspetto da sottolineare – la norma istituisce solennemente la subordinazione intellettuale e il conformismo culturale come principio cardine della formazione dei futuri ricercatori e dei docenti. Chi non riesce a immaginare che cosa succederà a queste figure che hanno solo tre anni di lavoro sicuro davanti a sé e la cui conferma dipende dal docente cui sono legati? Qualcuno si ricorda le polemiche della Gelmini contro i “baroni”? Ecco, il vassallaggio personale al loro potere diventa ora assoluto. Nessun giovane si arrischierà a pubblicare ricerche eterodosse che possano urtare il proprio professore. Quindi il conformismo culturale e scientifico e l'uccisione sul nascere di ogni spirito di innovazione è assicurato. Ma questo è solo una parte del cammino predisposto da questa esaltante trovata della Legge Gelmini, che per la verità riprende strategie già in atto in altre Università, soprattutto negli USA. Anche nelle nefandezze la destra italiana è debitrice del pensiero altrui.

E qui sono costretto a notare che si è poco riflettuto su un aspetto ancora più grave e di più straordinarie implicazioni avvenire. Qualcuno si è chiesto quale mai grande impresa di ricerca, quale ambizioso progetto intellettuale, sia scientifico che umanistico, potrà mai essere concepito in futuro dai nostri giovani ricercatori su cui graverà- nella fase di fondazione dei loro studi – un orizzonte di così evidente incertezza e precarietà? Quale ricerca di lunga durata verrà mai progettata senza nessuna sicurezza dell'avvenire? E' evidente, dunque, che verranno intrapresi solo studi di breve periodo, immediatamente utili, per la carriera o per la produzione di brevetti, finalizzati al tempo veloce di valorizzazione del capitale, cui dovrebbe ormai subordinarsi l'intero mondo degli studi. Dunque, va detto con la solennità che l'evento merita: per la prima volta, nella storia d'Italia, tramite la Legge Gelmini, un governo della Repubblica programma il decadimento dei nostri studi e della nostra cultura, progetta cioé per i decenni futuri l'immiserimento della nostra civiltà e la creazione di un corpo docente ridotto al rango di frettolosi tecnocrati di un pulviscolo di discipline strumentali.

Certo, la Legge Gelmini ha il merito di mostrare con limpidezza il progetto sempre più dispiegato del capitale di piegare le strutture dell'alta formazione e della ricerca pubblica ai propri fini immediati e di breve periodo. Essa mostra cioé, in filigrana, l'orizzonte di immiserimento antropologico verso cui la cosiddetta crescita vuol condurci. Ma qui debbo ricordare almeno una pratica in corso, in atto da tempo nel nostro Paese, che si muove nella stessa direzione e che invece sembra godere di un tacito consenso universale. Mi riferisco alla istituzione ormai dilagante del numero chiuso che sbarra ai giovani l'accesso a un numero crescente di Facoltà.

Ora, metto da parte, i criteri della selezione: l'utilizzo dei test attitudinali, vale a dire i cascami degenerati di una branca della psicologia americana. Quanti giovani di valore non superano questi test ?Ma il punto da discutere è: perché lo sbarramento? Non sono sufficienti gli stessi esami universitari a selezionare l'attitudine dei giovani a proseguire negli studi intrapresi? Ricordo che i nostri esami sono tra i più severi che si praticano nelle varie università del mondo. Perché non possono iscriversi a una Facoltà se hanno il titolo di studio necessario e pagano le tasse? Non ci hanno assordato per trent'anni col ritornello che bisogna assecondare il mercato? E allora perché, se c'è una così elevata domanda di istruzione superiore, non si risponde con una offerta adeguata? L'offerta, e dunque l'investimento, si ha solo per fini immediati di profitto? Si obietta, ad esempio, che ci sono troppi medici e bisogna scoraggiare nuove iscrizioni. E se si vuole diventare ugualmente medici perché si ama la medicina, se si ha in progetto di fare il medico nel Senegal o in Bangladesh? Che fine fa la tanta esaltata nobiltà della conoscenza, che fine fa il cosmpolitismo del cosiddetto mondo globale?

In realtà la ragione non detta è un'altra, ed è di vasta portata strategica, destinata – se non verrà sconfitta – a distruggere la civiltà culturale dell'Occidente e dell'Oriente. Lo sforzo delle classi dominanti è di subordinare sempre più strettamente il processo di formazione delle nuove generazioni alle domande del mercato del lavoro. Dopo che, per almeno tre secoli, mondo della formazione e della ricerca e attività produttiva capitalistica erano stati ambiti correlati, ma dotati di relativa autonomia, oggi il capitale finanziario non è più disponibile a finanziare una formazione culturale “disinteressata”, non destinata a produrre immediate ricadute di profitto. Un tempo i giovani sceglievano liberamente di diventare maestri o ingegneri, poi il mercato del lavoro offriva loro varie opportunità d'impiego. Ora questo appare, al senso comune dominante, parassitizzato fin nel midollo dall'economicismo dell'epoca, non più tollerabile, diseconomico. Che cos'è questa voglia disinteressata di studiare chimica o letteratura greca se non ci sono i posti di lavoro in cui renderle “produttive”? Possiamo forse quotare in borsa la letteratura italiana, la linguistica, la filologia romanza? Non sono costi che ci possiamo permettere urlano gli economisti. Invito a riflettere .

L'abisso in cui il capitalismo ci sta trascinando è visibile in questo paradosso: la società più opulenta che mai sia apparsa nella storia umana dichiara di non potersi consentire il lusso di finanziare saperi che non valorizzano immediatamente il capitale investito. Com'è noto, del resto, in USA e UK si fanno indebitare gli studenti perché essi possano conseguire la formazione universitaria. Imprenditori di se stessi, essi sono diventati una fonte di lucro per le banche e un segmento dell'economia del debito, il cui successo è sotto gli occhi di tutti.

Infine un modesto consiglio agli studenti e ai ricercatori che hanno scritto negli ultimi due anni una pagina importante di lotta civile nel nostro Paese. Essi debbono rammentarsi che non costituiscono solo un gruppo sociale capace di mobilitazione. In moltissimi casi, essi sono i membri più colti e consapevoli delle proprie famiglie. Talora di estese parentele. Essi cioé sono in grado di avere una influenza politica di vasta portata anche al di fuori del proprio ambito. Occorre ricordarsene, perché, quando avremo cacciato via il presente governo, non è per nulla scontato che chi si candida a sostituirlo cambi radicalmente registro. E allora bisognerà esser consapevoli di poter influenzare un vasto bacino elettorale, avere la forza di incidere su scelte di decisiva rilevanza.

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Almeno due fenomeni, distinti fra loro, ma fortemente correlati, sgomentano oggi chiunque osservi la turbolenta scena dell'economia e della finanza. Una scena che ormai fa del presente disordine mondiale il nostro pasto mediatico quotidiano. Il primo riguarda lo stolido e pervicace conformismo con cui banche centrali, governi, partiti, economisti, continuano a trovare «soluzioni alla crisi» riproponendo le usurate ricette che hanno l'hanno generato, e ora resa potenzialmente catastrofica.

La seconda riguarda la rapidità con cui la violenza di alcuni potentati finanziari internazionali si trasforma in uno stato di necessità, accettato dai gruppi dirigenti dei vari Paesi come una inaggirabile calamità naturale. La minaccia di declassamento del debito viene vissuta come l'arrivo di un ciclone a cui si può rispondere solo chiedendo ai cittadini di rinserrarsi nelle proprie case. La cultura che non vede altra strada alle difficoltà presenti se non il vecchio e battuto sentiero, è la medesima che, in poco tempo, ha trasformato in senso comune l'impensabile. Uno Stato oggi può perdere la propria sovranità, come ad esempio accade alla Grecia (e accade in parte anche a noi) non per l'invasione di un esercito straniero, ma per il proprio debito pubblico. La ricchezza, il patrimonio artistico, la cultura, il territorio, il frutto di millenni di storia di un popolo può essere saccheggiato e spartito da predoni in giacca e cravatta che siedono dietro una scrivania a migliaia di km di distanza. È una novità storica di devastante violenza, eppure la stampa e gli esperti, con tono impassibile, fanno già l'elenco dei beni da privatizzare, dalle isole al Partenone. Quel che pochi considerano è che quel debito è frutto della medesima politica (e della medesima etica truffaldina) che oggi si erge a inflessibile rigore di razionalità economica. Il debito greco ha ricevuto - come ha ricordato Paolo Berdini su questo giornale - una potente spinta con le grandi opere delle Olimpiadi di Atene del 2004, con 20 miliardi di euro rimasti sul groppone dello Stato. Tutto questo secondo meccanismi ben collaudati, quelli appunto delle grandi opere - tavola imbandita per banche e grandi imprese di costruzione - che lasciano poi alla mano pubblica l'obbligo di accollarsi l'onere delle perdite private. La Tav in Val di Susa e il Ponte di Messina sono perfetti archetipi di queste strategie, che dopo i banchetti di banche e imprese sono destinate a lasciare stremate le finanze pubbliche.

La riproposizione delle ricette neoliberiste, tuttavia, non è solo espressione di un conformismo dottrinario ormai senza più vie d'uscite. È anche una pervicace rivendicazione di interessi di classe. Lo "stato di necessità" è una ghiotta occasione per il capitalismo industriale, che preme per mettere più strettamente al proprio servizio il mercato della forza-lavoro. Esso torna ora utile per nascondere il grande saccheggio dei redditi operai e popolari che è a l'origine del tracollo finanziario. Basti pensare che tra il 1979 e il 2007 la quota della ricchezza prodotta nell'Europa a 15 andata ai salari è passata dal 68% al 57%. L'Italia, i cui salari operai arrancano agli ultimi posti dei 30 Paesi Ocse, è un caso esemplare per osservare gli ottimi profitti conseguiti nel frattempo dalle imprese. E parliamo dell'Italia «che non cresce», «fanalino di coda» e non delle banche, ma del cosiddetto capitalismo produttivo. Ebbene, come hanno ricordato Bertorello e Corradi in Capitalismo tossico, secondo i rapporti di Mediobanca, tra il 1995 e il 2006, le grandi imprese italiane hanno accresciuto i profitti netti per dipendente del 63,5%. Se poi si considera l'insieme dell'industria italiana, comprese le imprese fallite o in perdita, il dato cala al 15,5%, ma è pur sempre tre volte quello delle retribuzioni operaie.

Questi dati e le argomentazioni correlate - peraltro ripetutamente ribadite da tanti collaboratori su questo giornale - devono costituire a mio avviso il più importante fronte di contrapposizione politico alle manovre di «salvezza nazionale» che si stanno orchestrando in questi giorni, e che purtroppo irretiscono settori della Cgil e del centrosinistra. Deve essere chiaro e ripetuto sino alla noia che la causa della crisi è l'impoverimento dei ceti popolari e medi, consumatosi negli ultimi decenni, e che il tracollo finanziario deriva dalla immensa ricchezza che si è accumulata in poche mani. E dunque proseguire per questa via con il taglio dei servizi, l'accrescimento della precarizzazione del lavoro, la privatizzazione di nuovi settori, potrà forse tranquillizzare i cosiddetti mercati, ma produrrà lacerazioni esplosive nel corpo della società. E la macchina economica resterà imballata. È dunque molto importante che il messaggio sia semplice e comprensibile a tutti. Il senso di insostenibile ingiustizia che anima la manovra governativa deve fornire nuova energia ai movimenti politici che si opporranno alle scelte oggi in atto.

Ma la questione delle strategie neoliberistiche quali soluzioni a una crisi neoliberistica meriterebbe considerazioni di vario ordine, su una delle quali, di più immediata prospettiva politica italiana, occorrerà tornare in maniera specifica. Qui vorrei svolgere una breve riflessione di carattere più generale. È evidente a tutti che il neoliberismo, responsabile della crisi, è più vivo che mai nelle proposte dei governi e dei partiti politici, nella cultura delle istituzioni. Tale dato, del resto, riflette i rapporti di forza oggi in campo a livello mondiale. Diversamente che nel corso della grande crisi degli anni Trenta, i gruppi capitalistici non sono minacciati dallo spettro del comunismo. Né Obama né Barroso sono nella condizione di Roosevelt, che aveva di fronte Stalin e l'internazionale comunista. Ed era dunque costretto a una creatività politica che i suoi successori non sentono necessaria. Ma questo evidente vantaggio storico dei nostri contemporanei si accompagna a una stupefacente sterilità di idee, di coazione a ripetere, di conformismo, a una mancanza di prospettive che sembra spingere il capitalismo verso l'abisso. Non è tanto nell'economia reale che il capitale boccheggia, ma è sul piano culturale che oggi, per usare un'immagine di Marx, appare come un «cane morto». Il declassamento del debito Usa è una novità storica di prima grandezza non solo perché una banca privata americana colpisce e umilia agli occhi del mondo il potere politico dell'Impero. Non solo perché gli Usa nel corso del trentennio neoliberista sono stati il modello di crescita a cui economisti e media ci esortavano a guardare. E che ora sono sull'orlo di un nuovo crac. Dobbiamo imitare ancora l'America che fallisce? Ma perché il potere politico appare oggi assolutamente inetto a governare le potenze infernali che esso stesso ha suscitato. L'incapacità di Obama di abbassare le tasse dei ricchi americani, difesi dai repubblicani del Tea Party, chiude perfettamente un cerchio che rivela la continuità e l'essenza stessa del fallimento americano.La deregulation di Ronald Reagan, infatti, comincio nel 1981 con quello che fu definito «il più grande taglio di tasse nella storia fiscale americana». E la storia si è ripetuta, due volte, con Bush jr. I ricchi si sono ulteriormente arricchiti, ma gli altri, com è noto, hanno avuto un diverso destino. E così il cosiddetto «sogno americano» è stato gettato nella soffitta delle patrie retoriche.

È facile dunque immaginare che questa crisi che non finisce, che nel migliore dei casi si trasformerà in una lunga depressione mondiale, che creerà nuove povertà e disuguaglianze, è destinata a infliggere una gigantesca perdita di credibilità ai ceti dominanti e ai loro rappresentanti politici. E questo sta già accadendo. Anche se i fenomeni culturali, la stoffa sotterranea su cui si regge ogni egemonia, sono più lenti a formarsi e manifestarsi. Ma poi generano mutamenti storici profondi. E accade non solo perché la crisi colpisce ora anche ceti sociali prima interni all'orbita del sistema, ma anche perché essa si accompagna all'evidente incapacità dei gruppi che governano da trent'anni di risolvere le sfide globali incombenti: esaurimento delle risorse naturali e distruzione degli habitat del pianeta, permanenza e anzi crescita dei poveri e degli affamati, riscaldamento climatico, guerre costose e disastrosamente perse.

Alle forze di sinistra, pur deboli, divise, frammentate - ma certamente portatrici di idee nuove, capaci realmente, oggi, di elaborare gli elementi di un nuovo progetto di società - spetta il compito di mostrare ai ceti popolari e ai ceti medi le responsabilità storiche del colossale fallimento che sono costretti a sopportare. E indicare anche obiettivi credibili e praticabili che mostrino vie d'uscita, mete conseguibili. È un compito difficile e drammaticamente necessario. Rappresentare politicamente le istanze di chi reggerà il maggior peso della tempesta in corso non è solo la condizione per tentare di spostare i rapporti di forza, ma è l'unica via per evitare che la democrazia venga travolta col vecchio ceto politico che dovrà uscire di scena.

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Forse è utile ricordare che è stato Jean-Francois Lyotard, filosofo francese, a fare del termine narrazione un lemma del vocabolario politico dei nostri anni, quello, per intenderci, che Nichi Vendola ha reso popolare nella sua originale prosa politica. Nel suo La condizione postmoderna (1979) Lyotard decretava la fine delle grandi narrazioni “metafisiche” che avevano sin lì influenzato gli uomini e le donne dell'Occidente. L'illuminismo, l'idealismo, il marxismo, queste grandi e totalizzanti interpretazioni del mondo apparivano ormai esaurite, di fronte ai processi di disincanto che attraversano le psicologie collettive, al pluralismo culturale che si diffonde tra gli individui, al processo di atomizzazione della società. Per la verità, io credo che la condizione definita postmoderna da Lyotard non fosse e non sia che il dispiegamento pieno dei caratteri fondativi della modernità. Quelli, per intenderci, intravisti con sovrana capacità anticipatrice da alcune grandi menti, come quella di Marx, di Nietzsche o di Weber. Chi non ricorda il famoso passo del Manifesto «Tutti gli antichi e arrugginiti rapporti della vita con tutto il loro seguito di opinioni e credenze ricevute e venerate per tradizione si dissolvono, e i nuovi rapporti che subentrano passano fra le anticaglie (...) Tutto ciò che aveva carattere stabile (...) si svapora, tutto ciò che era sacro viene profanato e gli uomini si trovano a dover considerare le loro condizioni di esistenza con occhi liberi da ogni illusione». Non parlano, queste parole, della nostra condizione? E Nietzsche nella Gaia Scienza aveva quasi urlato: «anche gli dei si decompongono. Dio è morto!» Quand'egli osservava « il deserto che avanza>> , anticipava quel dilagare del nichilismo che il processo storico avrebbe trasformato nella stoffa del nostro quotidiano. E L'Entzauberung il “disincanto” del mondo, intravisto da Weber, aveva bisogno di almeno un secolo per diventare un fenomeno di massa. La “società liquida” che Bauman oggi ci rappresenta non è che la modernità pienamente realizzata.

Quel che tuttavia stupisce e di cui importa qui parlare è il fiorire, malgrado tutto, di continue nuove narrazioni che si fanno strada, come farfalle dalla crisalide del bruco, dalla consunzione delle precedenti “immagini del mondo”. Tutta l'età contemporanea ne è teatro. La più grande vittima delle trasformazioni capitalistiche, ma anche degli orrori perpetrati dalle classi dirigenti europee, è stata l'idea di progresso, forse il più lungo racconto dell'età contemporanea: la grande fede di una umanità in marcia verso i lidi dell'emancipazione universale. Nel 1937, dopo i massacri della prima guerra mondiale e quando le ombre del nazifascismo si allungavano sull' Europa, lo storico olandese Johan Huizinga poteva irridere quella tarda eredità dell'illuminismo, degradandola quasi a credenza superstiziosa, al «concetto puramente geometrico del procedere innanzi». E dopo è seguito l'Olocausto e la carneficina della seconda guerra mondiale, che hanno seppellito, sembrava definitivamente, ogni possibile narrazione trionfante per l'avvenire. E invece non è stato così. Nella seconda metà del novecento è fiorita una nuova storia, la grande narrazione dello sviluppo, in cui siamo in parte tutt'ora immersi. La crescita economica continua e la distribuzione della ricchezza a un numero crescente di cittadini ha reincarnato, in forme nuove e per alcuni decenni, la vecchia epica del progresso ottocentesco. Il movimento operaio e i partiti di sinistra hanno incarnato perfettamente questo nuovo immaginario, non meno di altre formazioni e gruppi moderati. Ricordate Togliatti : «veniamo da lontano e andiamo lontano»? Segno, probabilmente, di una predisposizione irrinunciabile degli uomini alla speranza, alla proiezione della propria condizione presente in un futuro sempre perfettibile, al bisogno, comunque, di sentirsi dentro una storia dotata di senso. E' su questa predisposizione fondativa che la politica moderna ha giocato le sue carte, tanto in chiave conservatrice che progressista o rivoluzionaria. Occorrebbe chiedersi:non è costantemente all'opera nel fondo della politica, prima e dopo Machiavelli, un'ars retorica, un'arte della persuasione che si modella secondo narrazioni? Non risponde la politica anche a questo irrinunciabile bisogno dell'umano immaginario?

Negli ultimi 30 anni anche le èlites della borghesia hanno sentito il bisogno, per dare corpo a una controffensiva capitalistica su larga scala, della narrazione neoliberista. Un romanzo di reincarnazione del progresso al cui centro si ergeva la libertà degli individui, l'eliminazione delle burocrazie, il premio al merito, il libero mercato come supremo ed equo regolatore delle relazioni sociali. Questa aura leggenda ha avuto una gigantesca capacità di fascinazione, al punto da riuscire a parassitizzare anche i vecchi partiti della sinistra. Il termine è preso a prestito dall'entomologia. Alcuni insetti inoculano le proprie uova nel corpo di altri insetti, così che le larve nasciture possano nutrirsi con il corpo dell'ospitante. Le idee di liberalizzazione, privatizzazione, competizione, flessibilità si sono nutrite con il corpo ospitante dei vecchi partiti di sinistra, che ne sono usciti spolpati. Ma proprio oggi, guardando alle parole, si può scorgere nitidamente la fine dell'ultimo grande racconto del capitalismo contemporaneo. Che cosa sanno prometterci oggi gli apologeti dello sviluppo ? Privatizzazioni, liberalizzazioni, detassazioni, ecc. Ma quale futuro della nostra condizione possiamo intravedere dietro queste promesse? Quale pubblica felicità? Dopo trentanni di di propaganda alla libertà degli individui il fantastico risultato è che le prossime generazioni vivranno peggio delle precedenti, i figli peggio dei padri. Per la prima volta nella storia contemporanea dell'Occidente in un racconto politico manca il lieto fine. Mentre le parole sono sempre le stesse, da trent'anni. E nel grande mare del libero mercato, dove tutto diviene rapidamente obsoleto, queste consunte parole sono ormai diventate rifiuti, come le merci del consumismo quotidiano.

I beni comuni, è ormai divenuto chiaro, posseggono una straordinaria potenzialità di narrazione. Essi raccontano una storia secolare. L'avanzare dei modi di produzione capitalistici e il progressivo appropriarsi da parte dei privati delle terre, dei boschi, delle acque che prima appartenevano alle comunità. Tutta l'età contemporanea è una storia sempre più accelerata di predazioni private. Possediamo dunque un fondo storico di rivendicazioni di straordinaria potenza. Ma ci sono beni comuni, dipendenti dal vecchio welfare, che si possono rimettere al centro della narrazione, perché mutilati e messi in forse dalle aggressioni degli ultimi anni. Il sistema medico nazionale in Gran Bretagna, poi esteso ad altri paesi europei, ha reso possibile la difesa universalistica del bene comune della salute: un bene, quest'ultimo, la cui difesa consente di contrastare e battere gli interessi privati in ambiti amplissimi della vita sociale, dalla produzione di energia atomica allo smog cittadino. Allo stesso modo possono essere rivendicati con nuovo vigore il bene comune della conoscenza, della formazione pubblica garantita a tutti, un diritto nell'età dello sviluppo che ora si presenta in nuove forme. Ma al di la di ogni elencazione, e mettendo da parte questioni di definizione teorica, quel che vorrei sottolineare è che il concetto di bene comune possiede una fertilità di scoperta e applicazione assolutamente senza confronti. E' sufficiente pensarci un po' e subito si scopre che bene comune è l'etere, privatizzato da tante potenze economiche, l'aria che respiriamo, gli spazi urbani della nostra mobilità quotidiana, la bellezza del paesaggio, il tempo di vita. In realtà, la rivendicazione dei beni comuni è in gran parte l'espressione di un bisogno soggettivo degli individui di riscoprire il tessuto sociale connettivo che li può strappare all'isolamento e all'atomizzazione senza coartare la loro libertà. E' il racconto politico che tende a proteggere gli individui dall'angoscia della modernità, proiettandoli in una storia ricca di senso e in grado di illuminare criticamente i disagi del presente. Raccorda interessi e bisogni multiformi e fornisce a essi una prospettiva conseguibile con la partecipazione, quella prospettiva che negli ultimi decenni è scomparsa dai cieli delle masse popolari e di tutti noi. Infine, non va dimenticato, tale racconto confligge apertamente con la contraddizione fondativa del capitalismo: la produzione sociale di un immenso flusso di ricchezza entro i vincoli stretti dell' appropriazione privata. E oggi, dentro tale contraddizione, non si trovano soltanto delimitati stock di beni e risorse, ma la Terra intera, la casa comune degli uomini, messa in pericolo dal saccheggio privato di forze che minacciano l'universalità dei viventi. E allora si comprende quale elevato grado di consenso tra tutte le classi sociali, culture e religioni, lungo tutte le geografie del pianeta, quale slancio e progettualità può fornire a tutte le nuove generazioni il racconto dei beni comuni.

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Habent sua fata verba. Anche le parole hanno il loro destino nel confuso universo del dibattito pubblico. Il termine moderato, ad esempio, è di quelli cui sembra arridere un imperituro favore, continuamente rinnovato, anche quando esso appare sostanzialmente falsificato dalla realtà dei fatti. Così può accadere che, per spiegare la vittoria di Giuliano Pisapia a Milano, gli si attribuisca un sostanziale moderatismo, confliggente con l'area di sinistra che lo ha candidato. Un caso in cui appare esemplarmente la confusione concettuale e semantica che domina spesso il dibattito corrente. Si scambia la mitezza dei modi della persona con il suo programma politico. A Milano, casomai è stato battuto, già alle primarie, il debole progetto moderato avanzato dal PD, destinato a probabile insuccesso.

Ma perché il termine moderato gode di tanto pubblico favore? Esso incassa abusivamente i meriti indubbi della virtù morale che definisce in origine. La moderazione – dal latino modus, misura, medietà – è una encomiabile proprietà dell'uomo saggio e mite, che rifugge dagli eccessi. Un ideale di umanità che la civiltà romana mise in cima alla sua gerarchia di valori. Ma il passaggio dalla morale dell'uomo alla lotta politica e alla strategia dei partiti non sempre lascia inalterata quella eccellente virtù. In Italia, ad esempio, possono verificarsi imbarazzanti paradossi. Il PDL ha sempre preteso di essere un partito moderato. Eppure esiste oggi, sulla scena pubblica italiana, un personaggio più smodato, intemperante, eccessivo, disordinato di Berlusconi?

Perché il moderatismo politico oggi non è una virtù, ma, al contrario, la conclamata perversione di una politica riformatrice? A renderla tale sono fenomeni vari e complessi, riassumibili nella trasformazione subita dai partiti politici. Tutti, infatti – salvo quelli definiti radicali – ricercano oggi il “centro”, come un tempo i cavalieri medievali cercavano il sacro Graal. Essi puntano, cioé, a disporsi in una posizione intermedia fra le classi sociali allo scopo di rappresentare gli interessi moderati che si immaginano dominanti nella società. E' una scelta che mira dritta al successo elettorale e che non ha nessun progetto di trasformazione della società. I “moderati” assumono le gerarchie esistenti, i rapporti di forza dati non come il terreno di un progetto di trasformazione, ma come un principio di realtà. Si parte dallo status quo e dal potere su cui si regge, per rappresentarlo con messaggi politici e per svolgere un 'opera di mediazione e di raccordo con le più varie figure sociali, pensate come elettori, più che come articolazioni di una gerarchia di classi. Gli esponenti del moderatismo sono, dunque, gli agenti di un nuovo «mercato della politica», impegnati a vendere messaggi in cambio di consenso per la propria riproduzione di ceto. Per la verità il moderatismo – che non è nato ieri – non sempre ha svolto un ruolo così apertamente parassitario. La Democrazia Cristiana, ad esempio, tra gli anni '50 e '70, ha realizzato una politica moderata, che ha assorbito e neutralizzato vasti settori reazionari ed eversivi, presenti nella società italiana , imponendo, talora, forme contenute ma efficaci di modernizzazione capitalistica. Ma oggi ? Sotto il profilo culturale il moderatismo rappresenta la perpetuazione di un conformismo ideologico fra i più vasti e totalitari che l'umanità abbia conosciuto. Esso si fonda interamente sul “senso comune” neoliberista, un insieme di convinzioni dottrinarie fra le più estremiste della nostra epoca. Promuove, infatti, il sostegno incondizionato alla crescita economica, immaginata come il motore da cui discendono poi a cascata, per virtù del mercato, tutti i vantaggi distribuibili tra i vari ceti sociali. Ma è ancora così ? O non è diventata nel frattempo la crescita una fonte, per nulla moderata, di distruzione, sia sociale che ambientale? Basta un rapido sguardo storico per accorgersene. Forse che non è cresciuta l'economia USA negli ultimi 30 anni? Eppure gli americani hanno visto aumentare l'intensità e la durata della loro giornata di lavoro. In tale ambito sono ritornati indietro di quasi un secolo. Mentre l'insieme delle relazioni umane tendono, per dirla con Bauman, a liquefarsi. Non è cresciuta l'economia europea nello stesso periodo? Eppure la disoccupazione, già prima della crisi, è aumentata, solo in parte contenuta dal dilagare del lavoro a tempo determinato. Una intera generazione di giovani, in diversa misura da Paese a Paese, è stata gettata nel limbo dell' incertezza e della precarietà. Sono nati nuovi poveri, la disuguaglianza ha raggiunto picchi da antico regime, è dilagata l'infelicità sociale. E che cosa ha di moderato una crescita economica che rende sempre meno vivibili le nostre città, che viene distruggendo le risorse naturali a un ritmo insostenibile, che sta modificando il clima, che minaccia la possibilità di vita di intere regioni e popoli della terra nei prossimi decenni?

Il termine radicale non ha fortuna, perché esso è – nel linguaggio corrente – sinonimo di estremo. E dunque estremista, che oggi, in politica, è peggio di un insulto. Eppure, il pensiero teorico della sinistra aveva da tempo provveduto a disinnescare l'equivoco. E' ancora permesso citare Lenin ? Qualcuno ricorda almeno il titolo di Estremismo malattia infantile del comunismo ? Ma è stato Marx a insegnarci che radicale significa «andare alla radice delle cose», affondare lo sguardo in profondità, nei meccanismi costituitivi dei processi materiali: e quindi compiere un disvelamento dei fatti sociali occultati dalle idee ricevute, dal conformismo, dal belletto ideologico dell'industria culturale. Scorgere la distruttività fondativa del capitalismo. Giacché mai come oggi è stata tanto vera l'affermazione, dello stesso Marx, secondo cui «le idee dominanti sono le idee delle classi dominanti»

Dunque, la politica che non voglia essere moderata, ma che ha l'ambizione di incidere negli equilibri sociali con modalità riformatrice, ha l'obbligo di una lettura radicale del capitalismo del nostro tempo, deve essere consapevole della sfida che ad essa pone il gigantesco “fallimento del mercato” ereditato dal trentennio neoliberista. Appare oggi evidente che essa può avere successo se si impegna a risalire la china di una sconfitta storica, di rapporti di forza impervi. Altrimenti soccomberà alla logica moderata della mera gestione dell'esistente. E come può farlo ? Come si può, ad esempio, in Italia – dove il 10% delle famiglie detiene quasi la metà della ricchezza – ridare equità alla distribuzione dei redditi? Come si può rimettere in piedi la nostra Università, dare un futuro alla ricerca e alla gioventù studiosa senza generosi investimenti? E' evidente che occorre sconfiggere interessi potenti e consolidati. E il tentativo può avere successo solo se sostenuto dalla forza di una mobilitazione conflittuale di inusuale ampiezza. Ma questa non è una invocazione di fede.

La società italiana, tanto per restare al nostro Paese, ribolle di conflitti. Spiace dirlo, ma nell'analisi dei risultati elettorali recenti pochi commentatori si sono ricordati delle lotte che da due anni occupano la scena pubblica nazionale. Gli insegnanti della scuola e le famiglie , gli studenti, i precari della ricerca, gli operai delle fabbriche in crisi, la FIOM e la CGIL, gli extracomunitari resi schiavi nelle nostre campagne, le popolazioni minacciate dai rifiuti o da impianti inquinanti, il “popolo viola”, le varie associazioni in difesa della Costituzione, i centri sociali e , finalmente, le donne: tutti hanno protestato. Qualcuno si è chiesto quale nuova immagine dell'Italia, delle sue condizioni reali, al di là delle finzioni televisive, hanno tramesso questi movimenti a tutti gli italiani? Quale collettiva critica dell'esistente hanno promosso ? Essi rappresentano i portatori di bisogni avanzati, l'energia del conflitto, una inedita creatività, le nuove culture e le forme inedite della loro comunicazione e diffusione. Una politica radicale comprende che le trasformazioni non si conseguono tramite accordi tra capipartito, per abborracciare qualche traballante governo. La possibilità di una modificazione profonda della condizione italiana passa attraverso l'unificazione entro un progetto comune di società di questa moltitudine di voci e di bisogni. Ed essa non va pensata solo come un bacino elettorale, ma deve essere resa protagonista, coinvolta in un processo partecipativo senza precedenti alla lotta politica. Trasformazione grazie a un di più di democrazia. E' un compito di grande difficoltà. Ma qui e solo qui sta la nuova frontiera della politica per la sinistra del nostro Paese.

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Fra le novità che emergono dal primo turno delle elezioni amministrative, l'arretramento della Lega è certo la più sorprendente. Le aspettative di una ulteriore avanzata sono state smentite. Ma questo è il dato di partenza. Come già alcuni osservatori hanno messo in evidenza, la Lega che esce da queste elezioni si trova stretta dentro sempre più evidenti difficoltà. Io direi che è finita in un cul de sac di contraddizioni insostenibili.

Non è solo il dispositivo tattico del «partito di lotta e di governo» che si sta rompendo. Probabilmente si è consumato uno spiazzamento strategico più profondo. Per afferrare la novità che il risultato elettorale comincia a rendere evidente è necessario svolgere una breve considerazione preliminare. E' necessario rammentare la diversità originaria di questa formazione politica. La Lega è nata per coagulare e dar voce a un risentimento collettivo. La recriminazione di ampi ceti e territori rimasti privi, per anni, di rappresentanza e di ascolto nel governo e nel Parlamento. Una sorta di autoidentificazione conseguita per contrapposizione al potere centrale – “Roma ladrona” - e a un Mezzogiorno rappresentato come un corpo parassitario in preda alle scorribande della malavita. Più tardi un nuovo nemico esterno, i clandestini, è stato utilizzato con la stessa funzione. Dunque, e com’è noto, una delle forze propulsive della Lega è stata la sua carica “antipolitica”, la critica e la denigrazione del ceto politico tradizionale, che rappresenta un “comune sentire” degli italiani da almeno un ventennio. Il suo populismo è stato sempre più autentico di quello mediatico berlusconiano, perché legato ai territori, a ceti produttivi istintivamente portati a vedere come impacci le mediazioni e i rituali della politica, i tempi lenti delle istituzioni.

Ma in quest'ultima esperienza di governo i dirigenti nazionali della Lega non solo sono apparsi a loro agio dentro i fasti imperiali di “Roma ladrona”. Non solo hanno tenuto il sacco, in ogni occasione, alle più sordide prove pubbliche e private del presidente del Consiglio, mostrando una subalternità al Capo che ha incrinato non poche sicurezze. Un Bossi che si contorce e inventa fasulle opposizioni interne al governo, destinate a sciogliersi come neve al sole il giorno dopo, appare non più libero, consegnato mani e piedi al magnate di Arcore. Il grande capo della Lega, per riprendere il suo gergo, finisce coll' apparire sempre più, anche ai suoi, come un “contaballe”. Ma occorre anche aggiungere che, in questa discesa negli inferi della più squallida politica, i leader della Lega sono apparsi , volenti o nolenti, compagni di governo di un gruppo politico che varie indagini della magistratura hanno mostrato come una ramificata “cricca” affaristica. Non è tutto. Negli ultimi mesi niente ha potuto più nascondere che la Lega fa parte di un Governo tenuto in piedi dal più sconcio mercato di piazza di parlamentari mai verificatosi nell'Italia repubblicana.

Ora, è vero che Bossi fa appello al residuo fondo di cinismo nell'animo dei suoi elettori, per poter tagliare il “grande traguardo” finale. La traversata del deserto per giungere alla terra promessa del federalismo. Una sorta di fine della storia, il paradiso conclusivo in cui i popoli della Padania si assesteranno finalmente pacificati e felici per i decenni avvenire. Ma raggiungere l'obiettivo finale, per un movimento, non solo fa venir meno le ragioni per continuare a marciare. Il risultato nasconde un altro rischio. Scoprire che il federalismo fiscale non cambia gran che nella vita delle persone e dei territori, e che la storia non è finita, ma continua come prima e forse peggio, può generare cocenti delusioni di massa.

Da un punto di vista sostanziale, il federalismo fiscale è destinato a restare a lungo una scatola vuota, uno slogan sempre più inservibile. I suoi risultati economici e politici si vedranno – se tutto dovesse andare per il meglio – a distanza di anni. Ma per il momento niente potrà impedire che gli amministratori locali della Lega, appaiano come severi esattori di un fisco sempre più esigente. La responsabilità fiscale ha un lato scomodo che molti sindaci e assessori dovranno sperimentare a proprie spese. Questa riforma dello Stato, infatti, non solo non è a costo zero, ma deve fare i conti con la presente situazione economica e con la feroce politica deflattiva della UE. Tonino Perna su questo giornale, è arrivato a ipotizzare, che essa è un modo per “decentrare “ il debito pubblico. Ora, rammentiamo che Tremonti è, per unanime opinione, l'uomo della Lega nel Governo. Ma lo stesso Tremonti è il severo applicatore in Italia di quella politica, che colpisce tutti, ma non meno di altri i ceti produttivi che la Lega pretende di rappresentare. E anche su questo versante le contraddizioni tra il governo e “il popolo della Padania” diventano stridenti.

Di recente si è visto che la presenza al governo non è servita neppure per arginare i flussi migratori ingigantiti ad arte da Maroni. Ma è apparso anche a tanti uomini semplici da quale giganteschi problemi mondiali proviene l'emigrazione che oggi attraversa l'Europa. Che può fare la piccola Lega di fronte a un mondo così apertamente ingovernabile? Al cospetto di tali scenari tramonta anche la minaccia secessionista. Le celebrazioni dei 150 anni dell'Unità sono state così calorose, in Italia, non per un rinato patriottismo, ma per evidente ostilità nei confronti degli atteggiamenti antiunitari della Lega. Dietro cui sta una ragione evidente: in un mondo spazzato dalle scorribande delle forze finanziarie transnazionali, se già lo Stato–nazione appare insufficiente a difenderci, che cosa potrà mai una strana patria chiamata Padania, di cui non sono visibili né i confini, né tanto meno le dogane? Nel frattempo si è già appannata l'immagine mitologica del Nord immune dai fenomeni criminali, che serviva a marcare la lontananza e la diversità del Sud. E la patria onesta e laboriosa delle origini, anche da questo lato, svapora. La criminalità mafiosa è operosa anche al Nord.

E vero che la Lega, in tante realtà locali è anche buona amministrazione, servizio ai cittadini. Ma il fondo culturale che la sorregge è privo di forza e di progetto, quando non escludente e rancoroso nei confronti degli esterni. L'ancoraggio della Lega al cosiddetto territorio è privo di una cultura del territorio. Basti dare uno sguardo a che cosa è accaduto alla geografia del Nord-Est, sconvolta da una cementificazione caotica che oggi penalizza anche le attività produttive che doveva servire. Paradossalmente, in Italia una cultura territoriale ricca e avanzata esiste da tempo, anche se di rado prende forma di rappresentanza politica. Mi riferisco non solo a quanto hanno prodotto negli ultimi anni i vari movimenti ambientalisti, ma anche a quella potente leva di immaginario che è stata ed è l'elaborazione di Slow Food. Un nuovo racconto culturale che ha riempito i luoghi di cucine, prodotti, agricolture, tradizioni, apertura al mondo. La stessa cura di quell'immenso patrimonio che è il nostro paesaggio, e che imprime al nostro territorio una connotazione unica, da chi è venuta ? Non certo dalla Lega. Anche qui occorre cercare a sinistra, a Italia Nostra, al FAI, alla Rete dei Comitati coordinata da Asor Rosa, al sito eddyburg di Salzano. E ora si potrà guardare anche alla Società dei territorialisti, promossa da Alberto Magnaghi, che raccoglie le numerose intelligenze che in Italia si occupano di territorio.

Dunque, in questa fase, la Lega vede liquefarsi gran parte delle ragioni della sua forza e non può tornare all'opposizione, senza rischiare l'insignificanza. Deve restare attaccata al governo e condividere tutte le abiezioni in cui sarà trascinata in questo finale di partita. E qui occorre rammentare che la “maggioranza del popolo italiano” di cui così tanto, in questi anni, si è vantato Berlusconi, in realtà non era che il frutto di un patto politico tra forze diversissime tenute insieme dall'abilità indubbia ( ma anche dal potere televisivo) del premier. E' noto: si è sfilato prima Casini, poi Fini, tardivamente, dopo aver commesso l'errore capitale di gettare AN nell'inghiottitoio del PdL. Oggi occorre mostrare agli elettori della Lega che le vele di questo partito si sono afflosciate e nessun vento le gonfierà. Anche quest'ultimo anello della catena si sta rompendo, bisogna spezzarlo definitivamente, ed il Grande Gioco di Berlusconi è finito.

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Che la democrazia versi in più o meno precarie condizioni, in tutti i paesi in cui essa è nata o si è sviluppata nella seconda metà del Novecento, è un fatto abbastanza noto. Almeno a coloro che hanno letto qualche libro di analisi politica negli ultimi anni. Basterebbe rammentare il fatto che la democrazia è nata ed è anche cresciuta all'interno dei territori nazionali ed oggi deve fare i conti con poteri che si muovono senza frontiere, sulla base di leggi che spesso questi medesimi poteri impongono ai governi. La subalternità del ceto politico - quello che forma per l'appunto i governi e gli Stati - al potere economico e finanziario costituisce uno degli elementi di corrosione degli istituti democratici che si erano formati nel secolo scorso. Occorre aggiungere che la competizione inter-capitalistica a livello mondiale è arrivata a un tale grado di asprezza, che gli ordinamenti democratici vengono vissuti sempre più, dalla grande imprenditoria capitalistica, come una camicia troppo stretta.

Da qui la richiesta di messa in discussione dei diritti sindacali, degli accordi contrattuali, della dignità del lavoro, ridotto a merce flessibile e precaria. La democrazia diventa un ostacolo al mercato e va adattata alle sue regole. Ma così diventa un simulacro. In Italia, tuttavia, il fenomeno ha aspetti particolarmente gravi. Da noi il potere economico non si limita a condizionare il governo. In Italia è accaduto l'impensabile. Un imprenditore è diventato egli stesso il presidente del consiglio. Ma non un imprenditore qualunque, un grande magnate della tv, ossia il proprietario monopolista dello strumento principe con cui si fa la politica nel mondo attuale.

C'è di più. Questo presidente del Consiglio ha ai suoi ordini il più abietto ceto politico che abbia mai calcato la scena pubblica nella storia dell'Italia contemporanea. Non è un'invettiva moralistica ma, da storico, una constatazione freddamente politologica. Mai si era visto un'intera maggioranza di governo umiliata al punto da fare propria la più inverosimile delle menzogne per difendere il proprio premier (la nipote di Mubarak). Mai si era visto nel Parlamento italiano trionfare un così spudorato mercato dei posti di parlamentare. Moralismo? Ma l'abiezione morale dei parlamentari dei Pdl e dintorni è la condizione politica perché il presidente del consiglio possa usare le istituzioni dello Stato per fini strettamente personali, senza che questo crei dissenso e contrasti all'interno del governo e della maggioranza. Ed è anche la condizione sostanziale perché il magnate Berlusconi possa estendere la sua maggioranza con strumenti di persuasione che nessun altro possiede. Nel frattempo, perché si possa trasformare la menzogna in verità viene attaccato un potere fondamentale dello Stato, denunciati i giudici come golpisti, comunisti, persecutori di chi comanda grazie al voto popolare.

È democrazia questa? Certo, non ci sono i carri armati per le strade, le tipografie dei giornali nemici non sono incendiate, gli oppositori non sono buttati in galera. Ma si commette un grave errore di valutazione pensando che la democrazia possa morire violentemente come lo Stato liberale e sottovalutando gli aspetti etico politici della questione. Ricordiamo che la democrazia vive anche dell'ethos storico che anima le sue istituzioni. Se questo si spegne, muoiono anche i suoi istituti e noi siamo un paese fragile dove dilaga la corruzione, un paese che vanta l'infelice primato di possedere tre delle maggiori forme di criminalità organizzata del pianeta. Si indovina quale può essere il seguito della nostra storia? Di fronte all'inaudito dobbiamo solo gridare il nostro sdegno? Dobbiamo limitarci a protestare educatamente?

La proposta paradossale di Asor Rosa - equivocabile quanto si vuole - era un'evidente provocazione, frutto di una situazione moralmente intollerabile, che voleva fare scandalo. E lo scandalo occorre suscitarlo, perché le democrazie possono morire in molti modi, anche per stanchezza e rassegnazione. La canea suscitata sul Foglio da Giuliano Ferrara - un fine intellettuale, noto per il suo disinteresse personale e per sua coerenza politica, che ha dato contributi fondamentali alla cultura italiana - non mi stupisce. Continua nel suo mestiere di servire il Principe facendo finta di avere a cuore le sorti dell'Italia. Ma il manifesto bipartisan pubblicato sul Foglio del 15 aprile «contro l'antidemocrazia intollerante e anticostituzionale», firmato da parlamentri Pdl e Pd, dà le vertigini per la sua grottesca stupidità. È Asor Rosa la minaccia alla democrazia? Silvio Berlusconi sta facendo a pezzi la nostra Costituzione e si sottoscrive un manifesto con i suoi accoliti contro un intellettuale che ha reso un po' più degno vivere in questo Paese?

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In un celebre brano della Ricchezza delle Nazioni, Adam Smith osservava «Le cose che hanno il maggiore valore d'uso hanno spesso poco o nessun valore di scambio; e, al contrario, quelle che hanno maggior valore di scambio hanno spesso poco o nullo valore d'uso. Nulla è più utile dell'acqua, ma difficilmente con essa si comprerà qualcosa (...) Un diamante al contrario, ha difficilmente qualche valore d'uso, ma in cambio di esso si può ottenere una grandissima quantità di altri beni». A quasi due secoli e mezzo di distanza possiamo misurare il cammino percorso nel frattempo dal capitalismo. Quella che era una risorsa fondamentale alla vita umana, ma libera, perché non appartenente a nessuno ( res nullius) e priva di valore in quanto straordinariamente abbondante, è oggi diventata una preziosissima merce. E' il diamante della nostra epoca. La sua scarsità in rapporto ai bisogni della popolazione, e le possibilità tecniche della sua distribuzione e partizione la rendono un bene di mercato. Ma l'acqua che diventa merce non racconta solo un tratto di storia, ci parla anche del nostro presente e ci proietta negli scenari dell'avvenire. Le risorse fondamentali dell'umanità, la terra fertile, le foreste, i mari, il patrimonio genetico delle piante agricole, la biodiversità, l'aria salubre, i minerali e le fonti di energie del sottosuolo, proprio perché diventano sempre più scarsi, e in virtù delle crescenti possibilità tecniche del loro utilizzo, si trasformano in merci sempre più ambite e «recintabili» dai privati. L'accaparramento oggi in corso delle terre agricole in Africa, da parte della Cina, Arabia Saudita, ecc. ci illustra con eloquenza il fenomeno ormai in atto. Così possiamo facilmente prevedere l' aspro conflitto che si para davanti a noi. Mentre finalmente prendiamo atto che le risorse non sono infinite, e che essendo indispensabili per la sopravvivenza stessa dell'umanità, non appartengono ai singoli paesi, ma sono patrimonio di tutti i viventi, il capitalismo tende a trasformare la sopraggiunta scarsità in nuovi territori di profitti privati. Anzi – come ad esempio nella imposizione di brevetti su piante che appartengono alla sapienza degli indigeni – esso crea una scarsità artificiale attraverso l'istituzione di un monopolio su un bene che prima apparteneva alle comunità locali.

Ora, la difesa teorica che sta alla base di tale predazione, che può condurre l'umanità a dilaniarsi in guerre distruttive, sta tutta in una argomentazione molto semplice, a cui gli economisti di varie tendenze danno da tempo dignità culturale. I privati – essi sostengono – investono i propri capitali in queste risorse e le valorizzano, le rendono più facilmente disponibili: ad es. nel caso dell'acqua costruendo acquedotti, provvedendo alla loro manutenzione, ecc. I privati ricavano certo dei profitti dai pagamenti dei cittadini-utenti, ma proprio quei profitti attesi li spinge all'efficienza economica, alla cura e conservazione della risorsa, con vantaggio, dunque, generale. La gestione pubblica è invece inefficiente e fallimentare.

Proverò a mostrare che, l'argomentazione non regge né alla prova della storia, né della teoria. E ' noto che in Italia, tanto l'acqua potabile che altri servizi, per buona parte dell''800 furono gestiti da società private. I risultati furono talmente fallimentari, sia sotto il profilo dei prezzi agli utenti che della qualità del servizio, da convincere non solo i socialisti, ma anche i cattolici e gli stessi liberali a municipalizzare l'acqua delle città. Come ha ricordato di recente un giovane storico, Lorenzo Verdirosi, perfino Luigi Einaudi, se ne persuase, affermando che «quando un servizio assume carattere monopolistico non resta per l'ente pubblico che la soluzione della gestione diretta» E i comuni italiani hanno poi scritto una pagina positiva e importante per la diffusione delle risorse idriche nelle piazze e nelle case degli italiani.

La base dell'errore teorico che assegna il primato dell'efficienza ai privati in ambito di gestione dei beni comuni sta in questa convinzione: l'assenza di una ricerca del profitto priva la gestione pubblica di quel rigore nei conti economici che alla fine sfocia nelle passività di bilancio e nel collasso. La sottrazione alla libera competizione nel mercato le fa mancare gli stimoli all'innovazione tecnologica, ecc. Ma è proprio così? La storia dell'economia italiana offre un buon repertorio di smentite in proposito. Forse che l' ENI o la Società Autostrade hanno fatto mancare profitti alle casse pubbliche, finché erano statali, o non sono stati capaci di innovazione? E tuttavia, quando si gestiscono beni comuni, il fine non è il profitto, ma la distribuzione ottimale di un bene o di un servizio. In questo caso è la finalità sociale a essere preminente. Certo, la cattiva amministrazione non è mai rivoluzionaria. Ma non è la ricerca di soddisfare l'interesse collettivo, con criteri di economicità ( e non di profitto) il punto debole della gestione dei beni comuni. E' l'invasione da parte dei privati – in Italia gruppi e correnti dei partiti politici – che alterano la buona amministrazione pubblica. Dunque, quello che è un problema di trasparenza, di controllo partecipato dei cittadini, insomma una questione di democrazia, viene trasformata in un principio ideologico: solo l'egoismo privato del profitto garantisce l'efficienza!

Ma l'egoismo privato è efficiente, socialmente vantaggioso? Ricordiamo che tale principio ideologico ha assunto la guida monopolistica dell'economia mondiale da almeno 30 anni. Chi non ricorda il refrain che uno dei padri del neoliberismo, Milton Friedman, premio Nobel per l'economia nel 1976, ripeteva nelle sue interviste? «Il fine di ogni impresa è fare profitti» Ebbene, non pare che tale fine supremo, applicato a un bene pubblico come la salute, abbia portato efficienza e vantaggi generali alla sanità americana, la più costosa e iniqua dei paesi avanzati. Né sembra che esso abbia impedito la messa in atto di truffe colossali ai danni dei cittadini e dei risparmiatori, come ha provato la vicenda, ad esempio, di Enron Corporation o di Parmalat. Tanto per limitarci a casi universalmente noti. E che cos'è, del resto, la Grande Crisi dei nostri anni se non la somma generale dei singoli e ciechi egoismi privati? Ma noi in Italia possiamo offrire esempi sontuosi di “successo” di tale principio. Forse che i casalesi raccontati da Saviano o gli 'ndranghetisti analizzati dal giudice Nicola Gratteri non perseguono, con stringente razionalità economica, e con successo , lo scopo del loro privato profitto, ammazzando chi lo contrasta? Non realizzano profitti le imprese del Nord Italia che smaltiscono clandestinamente rifiuti tossici, avvelenando i terreni agricoli e probabilmente anche i mari, di tante regioni del Sud? E allora, chiediamo: che fine fa l'interesse generale, la legalità, la vita associata, che cosa possono le leggi di uno Stato, se l'interesse privato diventa non solo il criterio di gestione di beni collettivi, ma alla fine, inevitabilmente, un principio regolatore dell'etica pubblica?

Il referendum per l'acqua pubblica, dunque, non è solo una singola partita da vincere. E' un passaggio strategico fondamentale. Perché esso può schiudere un orizzonte nuovo di lotte per la trasformazione radicale della società capitalistica. Da quella possibile vittoria si può partire per annettere ai territori dei beni comuni, non solo quelli che sono appartenuti al welfare novecentesco (salute, istruzione, casa) ma anche i nuovi e sempre più irrinunciabili da sottrarre alla predazione del mercato: le terre agricole, l'alimentazione, la biodiversità, la salubrità ambientale, l'energia, il lavoro.

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Una domanda si aggira inquieta per le menti d'Europa che pensano alla politica come alla leva della libertà dei popoli e del governo del mondo. Per quali ragioni, il neoliberismo, la travolgente iniziativa capitalistica, avviata negli '80 in Gran Bretagna e in USA, e diventata pensiero unico planetario, è ancora così vivo e dominante in quasi tutti gli Stati? Eppure, quella stagione è finita nel fango della più grave crisi degli ultimi 80 anni. Non solo. Essa ha mancato pressocché tutti i suoi obiettivi dichiarati. Non ha creato nuovi posti di lavoro, anzi la disoccupazione è dilagata ben prima del tracollo del 2008, nonostante le imprese abbiano ottenuto dai vari governi nazionali flessibilità e precarietà dei lavoratori mai sperimentate prima. Alla fine degli anni '90, come ha mostrato un grande esperto del problema, Kevin Bales si potevano contare ben 27 milioni di schiavi diffusi nei vari angoli della terra. E nel 2000 erano al lavoro ben 246 milioni di bambini. Uno scacco alla civiltà umana che non può certo essere compensato dai nuovi ricchi affacciatisi al benessere nei paesi a basso reddito. Ma forse il fallimento più grande il progetto neoliberista l'ha subito sul terreno che gli è più proprio: la crescita economica. Tra il 1979 e il 2000 il tasso medio di crescita annuale del reddito mondiale procapite – come ha mostrato Branco Milanovic – è stato dello 0,9%. .Assolutamente imparagonabile al 3% e talora oltre dei periodi precedenti.

E allora? Com' è che a questa generale e inoccultabile sconfitta sul terreno economico non è corrisposta una pari disfatta sul piano politico? Non siamo così meccanicisti da non comprendere la diversità dei piani messi a confronto e la differente temporalità dei fenomeni che si agitano nelle due diverse sfere sociali. Ma la domanda si pone.

Io credo che una prima risposta sia da ricercare in questo esito paradossale: concludendo il suo ciclo nel tracollo economico-finanziario, il neoliberismo ha potuto far tesoro di due esiti politicivantaggiosi. La crisi ha infatti rese acute due gravi scarsità: la scarsità del lavoro e la scarsità di sicurezza. Quest'ultima in parte connessa alla prima. Tali scarsità pongono la classe operaia e i ceti popolari in una condizione di grave asimmetria di potere e forniscono ai ceti dominanti rapporti di forza e materia di manipolazione ideologica in grado di offuscare le sconfitte subite sul piano economico. Come sempre, bisogno e paura sono diventati due formidabili armi di potere.

Ma questa è una parte della risposta. Alla fine del '900 si è consumata una inversione storica per tanti versi stupefacente. Come ha osservato Mario Tronti, sino ad alcuni decenni fa, il movimento operaio aveva una dimensione internazionale a fronte di un confinamento nazionale del capitale. Con tutti i suoi limiti, l'insieme dei paesi comunisti era anche questo: un fronte internazionale. Oggi assistiamo a un capovolgimento completo dello scenario. Il lavoro, sempre meno rappresentato sul versante politico e sindacale, è incatenato sul suo territorio, mentre il capitale scorrazza liberamente per il mondo: una libertà di movimento che è un potere politico inedito contro chi ha perso la sua rappresentanza globale. La capacità di ricatto di Marchionne, che può muoversi liberamente tra USA, Brasile, Polonia, Serbia è, sotto tale profilo, esemplare.

Ma forse il più grande successo politico del neoliberismo- quello che gli consente oggi di avere ancora diritto di parola- è stata la sua presa egemomica sui partiti tradizionali della sinistra e il loro svuotamento come partiti popolari. Vogliamo ricordare quali sono state le parole d'ordine prevalenti – fatte salve le diversità nazionali - dei laburisti britannici, dei socialdemocratici tedeschi, dei socialisti francesi, dei comunisti italiani, in tutti questi anni ? Liberalizzazioni, privatizzazioni, flessibilità del lavoro, riduzione dello stato sociale, emarginazione del sindacato, ecc. L'idea che la libertà individuale si dovesse far strada come agente dominante di un nuovo progetto di società, regolato dalle logiche dinamiche e vincenti del mercato, è stato il cuore – tutto di marca neoliberista – che ha sostituito il vecchio patrimonio solidarista e internazionalista. Una resa senza condizioni alle ragioni dell'avversario, che, da un punto di vista culturale, si spiega anche con la tradizione marxista e comunque industrialista della sinistra europea.

L'astrale distanza di queste formazioni storiche dal pensiero ecologico contemporaneo, infatti, ha impedito loro si intravedere un nuovo orizzonte solidale e cosmopolita di fronte alla crisi fiscale dello Stato sociale nei paesi industrializzati e al tracollo dell'URSS. Esaurita la spinta riformatrice dei decenni precedenti, ad essi non è rimasta altra strada, se volevano continuare nella promozione della crescita economica, che quella indicata dall'avversario. Pur tra esorcizzazioni e camuffamenti, il neoliberismo è stato di fatto accettato come la nuova frontiera da seguire. Ma oggi quella nuova religione della crescita, che apparve negli anni '80 come l 'avanguardia di una nuova stagione di modernizzazione e di avanzamento del mondo intero, si mostra in tutta la sua paradossale e stupefacente antistoricità. Era una retroguardia ottocentesca ed è stata scambiata per il fiore in boccio di una nuova stagione dell'umanità. L'individualismo economicistico su cui esso si fondavaè apparso ben presto come l'incarnazione di un comportamento sociale non più sostenibile, perché generatore, tra l'altro, della più grave minaccia che l'umanità abbia avuto davanti a sé: l'esaurimento delle risorse, il tracollo degli equilibri ambientali, il riscaldamento climatico. E' paradossale, ma ricco di significati, il fatto che i partiti popolari non abbiano saputo cogliere il nuovo orizzonte di cooperazione e di solidarietà che i problemi ambientali rimettevano al centro della scena mentre si eclissavano quelli delle vecchie ideologie socialiste e comuniste. Essi non hanno saputo vedere come la scoperta di una “Terra finita” e in pericolo, con il corredo delle scienze ecologiche, offrivano un nuovo progetto di società nel quale il bene comune, l'interesse generale, si ripresentava in rinnovate forme universali e drammaticamente cogenti. Un nuovo collante ideologico per una moltitudine di figure e di ceti sociali e al tempo stesso la premessa di un nuovo e più vasto internazionalismo.

Oggi, esattamente il disancoramento dall' “internazionalismo del lavoro”, eredità del passato, e l'inettitudine a comprendere il nuovo, proposto dall'ambientalismo, fanno dei partiti storici della sinistra delle barche di carta nella tempesta. Senza una mèta da seguire, senza energie per affrontare il mare. Nell'immediato, tuttavia, è l'assenza di un internazionalismo del lavoro la debolezza più grave e drammatica. La mancanza di una lettura delle tendenze profonde del capitalismo contemporaneo impedisce di comprendere le distruzioni in atto nel mondo del lavoro. Non fornisce lo sguardo prospettico su ciò che il capitale va preparando, a tutto il lavoro sociale, grazie alla sua capacità di movimento su scala mondiale. Impedisce di prefigurare la gigantesca dissoluzione dei legami sociali e di classe a cui esso è sempre più vitalmente interessato. Il capitale, infatti, oggi colpisce duramente non perché c'è la crisi, ma per il gigantesco potere politico nel frattempo guadagnato sui lavoratori in una fase di aspra competizione intercapitalistica. E allora, che fare?

Io credo che se il capitale è mobile e planetario, altrettanto può esserlo il diritto, la maglia delle regole imposte dalle lotte, dalla politica: anch'essa, del resto, potenzialmente universale. Ma quale soggetto, per esempio in Italia, può muoversi in tale direzione? Dal PD mi sembra assai difficile poterlo pretendere. Dalle catastrofi culturali non si riemerge in breve tempo e per la buona volontà di qualcuno. Dai piccoli partiti di sinistra può venire solo un piccolo contributo. Senza dubbio, la forza che può assumere l'iniziativa – e che deve farlo urgentemente – è il sindacato: la CGIL.

Ritengo che oggi non sia più possibile rinviare una discussione spregiudicata e coraggiosa su questa importante forza operaia e popolare, che ha certo svolto una funzione fondamentale di difesa dei lavoratori in tutti questi difficili anni. Ma noi dobbiamo oggi chiederci e chiederlo ai dirigenti, come sia stato possibile che uno dei sindacati più potenti d'Europa – e forse il più ricco sotto il profilo patrimoniale - abbia potuto consentire un così drammatico arretramento dei redditi operai . In un rapporto OCSE 2006-2007 i salari dei lavoratori italiani risultavano al 23° posto dei 30 Paesi dell'Organizzazione. E l 'Italia, nella graduatoria, non è certo l'ultimo di questi Paesi. La CGIL, dispone di una geniale organizzazione territoriale, mutuata dal sindacalismo francese: la Camera del Lavoro. Essa raggruppa lavoratori delle varie categorie e svolge vari compiti di patronato e assistenza. Ma perché in tutti questi anni in cui il lavoro è stato frantumato, separato spesso dal luogo di lavoro, disperso, le Camere del Lavoro non hanno svolto un ruolo di ricomposizione locale, di riaggregazione sindacale e politica? Perché le Camere del Lavoro non si sono estese, disseminate nei quartieri delle città, nei piccoli centri, come nuovi presidi del lavoro sul territorio ? Non risulta che la CGIL non avesse le risorse per tali iniziative. Risulta invece che essa vive fondamentalmente e anche bene – benché non esclusivamente – con i soldi dei lavoratori e quindi ha obblighi morali più cogenti. E inoltre: come è stata possibile, mentre si realizzava l'Europa dell' euro e delle varie istituzioni dell'Unione, una così clamorosa assenza di iniziativa volta alla concertazione europea delle varie organizzazioni da parte di uno dei maggiori sindacati del Continente? Sul piano mondiale, infine, l'inerzia politica è ancora più grave e stupefacente, anche se riguarda indistintamente tutti i sindacati. E' dal 1919 che esiste a Ginevra l 'Organizzazione internazionale del Lavoro.(OIL) Essa è stata creata ben 25 anni prima del FMI e della Banca Mondiale. L' OIL, frutto delle ambizioni internazionaliste di quell'epoca, doveva vigilare sulle legislazioni del lavoro nei vari paesi del mondo. Ma nell'ultimo mezzo secolo essa è uscita di scena, mentre ha trionfato l'internazionalismo finanziario delle istituzioni di Bretton Woods. E i sindacati dove erano nel frattempo? Perché non sono stati in grado di seguire l'avanzante internazionalizzazione del capitale? Perché non sono stati capaci di fare di tale organismo, oggi membro dell'ONU, un reale potere mondiale dei lavoratori? Evidentemente, insieme alla forza dell'avversario, è l'inerzia dell'istituzione sindacale che ha giocato un ruolo importante. Per questo, l'insieme di tali fallimenti oggi rende inevitabile rivolgere alla CGIL una serie di richieste pressanti e precise. Essa deve dotarsi di una strategia volta alla creazione di una rete internazionale del movimento sindacale. Un nuovo cosmopolitismo del lavoro bussa imperiosamente alle porte. Ci sono, in Italia, migliaia di ragazze e ragazzi che a 30 anni hanno girato il mondo, conoscono più lingue, praticano ogni giorno connessioni internazionali su internet. Da essi deve venire una nuova leva di dirigenti sindacali. Per tale ragione la CGIL avrebbe l'obbligo di avviare al proprio interno un censimento che ridefinisca i compiti di dirigenti, funzionari, impiegati, per cambiare in corsa la sua organizzazione e le sue strategie. Le inerzie del passato non sono più comprensibili, né tollerabili. Questo sindacato non può più vivere nella routine mentre sul mondo del lavoro si abbatte la tempesta.

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La riforma Gelmini, definita “epocale” dalla ministra – che evidentemente ha idee confuse su ciò che sono le epoche – divenuta legge, investirà la vita delle Università italiane nei prossimi mesi. Un diluvio di norme e regolamenti da applicare pioverà sugli atenei, proseguendo ed esacerbando le tendenze dell'ultimo decennio, durante il quale “l'innovazione continua” delle cosiddette riforme ha tormentato docenti e studenti, perennemente alle prese con problemi organizzativi e novità procedurali da interpretare. Una pratica che ha assorbito non poco tempo ed energia alle loro ricerche e ai loro studi. Nulla di nuovo, dunque, se non il peggio che prosegue nella sua china, perché la riforma aggiunge un'ulteriore limitazione di risorse e di personale ai vecchi problemi.

Ciò che tuttavia iscrive la nuova legge nel quadro delle ristrutturazioni universitarie della UE è un dato di cui pochi, in verità, si sono occupati. Tutte le riforme dell' ultimo decennio non si sono neppure interrogate sulla qualità degli insegnamenti che si impartiscono nell'Università. L'unica preoccupazione che ha tenuto desta l'attenzione dei riformatori è stata quella di far corrispondere discipline e insegnamenti alle tendenze del mercato del lavoro. I solerti pedagogisti del capitale non hanno rovelli che per questo. E perciò anche un grande scrupolo nell'emarginare le discipline umanistiche, poco utili a produrre saperi strumentali, immediatamente spendibili nel mercato. Per il resto, nessuno sguardo sugli scenari attuali delle scienze, nessuna messa in discussione dell'esistente, nessun accenno a una possibile “riforma dei saperi” che allarghi gli orizzonti della ricerca e della formazione universitaria.

Qui si può osservare nitidamente la miopia sistemica della cultura capitalistica dell'ultimo trentennio. E' infatti il caso di ricordare che, mentre le nostre Università si reggono sugli insegnamenti delle vecchie discipline, sulle loro nette separazioni istituzionali – aggiornate nei contenuti da qualche solitario ed eterodosso docente - all'esterno il mondo dei saperi scientifici è stato investito da trasformazioni profonde, in questo caso davvero “epocali”. Si pensi alladiffusione, negli ultimi decenni, dell'ecologia, “la scienza delle relazioni – come scriveva il suo fondatore, Ernst Haeckel - fra le cose viventi e il loro ambiente” Questo nuovo ramo del sapere non è una qualche disciplina specialistica che si viene ad aggiungere a quelle già esistenti. Esso ha letteralmente capovolto uno dei principi costituitivi su cui si e' fondata e sviluppata l'intera scienza moderna: vale a dire la separazione e l'isolamento dell'oggetto dal suo ambiente, per essere studiato nella sua separata e solitaria struttura. L'ecologia ha mostrato, al contrario, che i fenomeni si indagano dentro il loro contesto ed ambiente, perché le connessioni, non sono accidenti, ma costituiscono la realtà intima e indisgiungibile degli stessi fenomeni. Possiamo studiare il seme del grano o l'ape in laboratorio, ma la loro vita reale si comprende nell'universo complesso del suolo, oppure tra le piante, i fiori e le altre famiglie degli insetti. La “prima scienza nuova” come Edgar Morin ha definito l'ecologia - con esplicito riferimento al nostro Giambattista Vico - per la prima volta mostra il mondo vivente in cui tutti siamo immersi come una complessa rete di connessioni i cui multiformi equilibri e relazioni costituiscono ciò che noi definiamo natura. Essa disvela, dunque, l'unità e l'interdipendenza di tutti i fenomeni che la scienza moderna aveva frantumato in una moltitudine di specialismi.

Il successo dirompente dell'ecologia che – salvo rari casi –stenta ancora a trovare spazi adeguati nelle aule delle Università, non è solo dovuto alla sua straordinaria fertilità metodologica. Basti pensare alla sua propagazione tra tante discipline tradizionali, dalla biologia alla chimica, dalla fisica alla botanica, o alla “esplosione” di un campo prima ignoto della biologia, come quello della biodiversità. Il suo vero e proprio trionfo è stato decretato da due clamorosi e drammatici fallimenti che la tecnoscienza ha subito nella seconda metà del '900. Il primo di questi, come tutti sanno, è il « buco dell'ozono”. L'intera vicenda ha mostrato che nessuno dei chimici che avevano creato i gas clorofluorocarburi aveva idea degli equilibri gassosi degli strati alti dell'atmosfera. E di come questi potessero essere gravemente alterati dai gas costruiti in laboratorio. Come apprendisti stregoni che avevano destato potenze infernali, essi hanno dovuto prendere drammaticamente atto dell'esistenza di relazioni invisibili che regolano l'atmosfera in cui dimorano i viventi sul pianeta Terra.

L'altro caso, ben noto, è il riscaldamento globale. Uno degli studiosi più impegnati sul campo, Nicholas Stern, l' ha definito “il più grave ed esteso caso di fallimento del mercato che si sia mai verificato.” Giudizio certo calzante, ma tutto interno all'economicismo imperante. In realtà, la tardiva scoperta che le attività umane condizionano il clima della Terra costituisce il più grave scacco subito dalla scienza contemporanea. L'incapacità delle discipline dominanti di pensare la Terra come una biosfera, vale a dire come un universo di relazioni il cui equilibrio rende possibile la vita, mostra nitidamente come queste discipline hanno smembrato la natura per dominarla nelle sue singole parti, dimenticando che essa è un tutto. Scoprire, come oggi facciamo, che ciò che immaginavamo come infinitamente lontano e indipendente dalle attività umane, il clima, risente invece dell'azione dei nostri scarichi e dei nostri fumi, disvela l'urgente necessità di una “scienza nuova”, di un sapere olistico di cui l'ecologia è portatrice. Dobbiamo, infatti, prendere atto, che il cielo, immaginato come infinitamente lontano e distante da noi, è invece il tetto della nostra casa, e corriamo il rischio di renderlo rovente.

Ora, questi nuovi saperi si stanno facendo strada. Com'è noto, è proprio per lo studio dei mutamenti climatici che si è formato l' IPCC, voluto dall'ONU: il più grande consesso di studiosi mai messo insieme per studiare, con diverse conoscenze disciplinari, quella speciale totalità che è il clima terrestre. Anche all'interno di qualche Università di avanguardia l'ecologia va producendo un rimescolamento dei vecchi assetti disciplinari, e comunque un nuovo dialogo tra le scienze e tra queste e i saperi umanistici. E' il caso, ad es. , dell' Environmental Science, Policy and Management dell'Università di California, a Berkeley, dove filosofi e chimici, storici e botanici cooperano o dialogano su ricerche comuni. Ma si tratta di qualche stella in un firmamento spento.

Riflessione analoga meritano i saperi umanistici, oggi letteralmente perseguitati come veicoli di parassitismi antieconomici, di contagiosi virus del pensiero libero e disinteressato. Eppure il rimescolamento senza precedenti di razze e culture che investe oggi il globo, reclama come non mai il concorso dei saperi umanistici per comprenderlo e interpretarlo. La necessità di una cultura cosmpolita, che faccia i conti con un eurocentrismo ormai angusto, capace di abbracciare le storie e le antropologie, le fedi e le lingue di moltitudini di genti ormai presenti nella nostra vita e nel nostro immaginario, reclama più conoscenze dagli storici, dagli antropologi, dai sociologi, dai geografi, dagli economisti, dai letterati.

E come rispondono i riformatori a questa sfida, anche questa, realmente« epocale »? Con quali saperi si affronta la complessità del mondo che diventa globale? Conosco un solo sforzo serio in questa direzione, avviato in Francia dalle Maisons des Sciences de l'Homme : fortilizi dei saperi umanistici di cui avremmo così bisogno in Italia. Qui, al pedagogismo straccione del centro destra italiano, che rivendicava (ricordate?) la politica delle “tre i” - internet, inglese, impresa - le Maison hanno fatto corrispondere ben diversi significati alle stesse vocali: i nternazionalità, interdisciplinarietà e interistituzionalità. Ma anche in questo caso si tratta di una piccola cometa nei cieli spenti d'Europa.

In realtà, mentre si costruisce l'UE, mentre siamo inondati di retorica sull'avanzare del mondo globale, nelle Università non si fa nulla per costruire la nuova cultura cosmopolita del cittadino europeo e globale. Anzi, in tutti questi anni abbiamo assistito a un fenomeno culturale rilevantissimo di cui le Università portano una responsabilità primaria. Alludiamo al fatto che l'economia, uno dei più antichi saperi del mondo occidentale, diventata una scienza sociale dominante in età contemporanea, si è ormai ridotta, tanto nel suo operare sociale che nelle aule dell'Università, a una tecnologia della crescita economica. Oggi dominano nei curricula delle Facoltà di economia discipline come marketing, matematica finanziaria, economia aziendale, banche e mercati finanziari, ecc, tutto ciò che serve a fare di un giovane un dirigente o un dipendente di impresa. La sua formazione culturale strettamente al servizio delle necessità presenti del capitale. E nessuno – a quanto mi risulta – mena scandalo del fatto che in queste Facoltà non sia presente una materia come storia del lavoro, o come sociologia del lavoro. Non ha nulla a che fare il lavoro con l'economia, con la formazione della ricchezza? Da dove viene, chi ha costruito la società industriale del nostro tempo, in cui i neolaureati sono chiamati a operare ?E' evidente, in questo caso, che già nelle Università si cancella il lavoro – e le persone viventi che lo realizzano - dall'orizzonte formativo dei giovani economisti. Ma questa disciplina mostra oggi altre, ormai insostenibili, inadeguatezze. Com' è possibile che chi studia economia non possa accedere a un corso fondamentale di s toria del colonialismo? Quale può essere la formazione di un giovane economista che ignora un tratto fondativo della storia economica europea: vale a dire il fatto che essa si fonda su cinque secoli di saccheggio delle risorse del Sud del mondo? Ma oggi il capitalismo, con la sua immane macchina divoratrice di energia e risorse, reclamerebbe una ben altra consapevolezza scientifica da parte delle discipline che lo promuovono e l'indirizzano. Non è l'attività economica una gigantesca e insonne manipolazione di risorse naturali destinate alla vita di esseri naturali? Non è l'economia una ecologia inconsapevole? Eppure, a tutt'oggi, i saperi ecologici dentro queste facoltà non hanno diritto di cittadinanza.

Ecco dunque che di fronte all'ampiezza di questi problemi e di queste contraddizioni – il mondo dei saperi che sopravanza in ampiezza e profondità quello strumentale con cui il capitale vuol restringere gli orizzonti formativi delle nuove generazioni – mostra quale portata strategica assuma l'Università nel nostro tempo. Quale luogo di affermazione di un sapere non piegato ai comandi del profitto, che guardi alla natura come a un bene comune da tutelare e non da saccheggiare e che operi al tempo stesso per un progetto di società solidale e multiculturale su scala planetaria. Si comprende bene, quindi, che la lotta dei ricercatori, degli studenti e dei docenti italiani è destinata a trovare motivi di continuità non solo nelle soffocanti imposizioni della legge Gelmini, ma anche in un più vasto orizzonte di ragioni e di prospettive.

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