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C'è un fondamento storico evidente e apprezzabile nella scelta di dedicare l'Expo italiano del 2015 all'alimentazione e all'agricoltura. La varietà, ricchezza, genialità...>>>

C'è un fondamento storico evidente e apprezzabile nella scelta di dedicare l'Expo italiano del 2015 all'alimentazione e all'agricoltura. La varietà, ricchezza, genialità della nostra cucina sono ormai un'ovvietà da senso comune. E tale fondamento si ritrova anche nella scelta di Milano, che oltre a vantare un prestigio di grande città e la modernità dei suoi servizi, custodisce un passato agricolo di rilievo mondiale. Almeno dal XVIII secolo Milano e la bassa Lombardia hanno visto fiorire una delle più prospere agricolture d' Europa e del mondo. Come sappiamo, questa grande opportunità, la ricchezza potenziale, culturale e politica di tale scelta, è andata in buona parte compromessa, se non è del tutto fallita. Certo, in tutte le Esposizioni universali del passato, sia che si tenessero a Londra o a Parigi, lo spettacolo ha avuto sempre una parte preponderante. D'altra parte, si trattava per l'appunto di Esposizioni, cioè delle esibizioni di un capitalismo orgoglioso di mostrarsi a un pubblico internazionale con le sue mirabilia tecnologiche, ma anche nei suoi virtuosismi estetici, incastonati entro mondi urbani in febbrile espansione. L'affanno e il ritardo con cui ci arriva Milano sono lo specchio impietoso di un capitalismo nazionale gravemente usurato nella sua capacità progettuale, corroso all'interno dalla prolungata corruttela che governa da decenni la vita pubblica italiana.

Di sicuro circoleranno nelle giornate milanesi dei prossimi mesi discussioni importanti e serie, contributi alla comprensione della complessa realtà del mondo agricolo e della produzione e distribuzione del cibo. Ma intanto tutti i mesi di preparazione sono già passati sprecando una grande occasione: almeno un ampio dibattito nazionale sulle condizioni della nostra agricoltura, oltre che del nostro cibo, gettando uno sguardo sugli squilibri intollerabili che governano l'architettura mondiale della produzione alimentare. Un Expo che si occupa del tema di “nutrire il pianeta” non dovrebbe dimenticare che il cibo si ottiene dalla terra e che è la sua mancanza alla base della fame di milioni di famiglie. Quella terra sottratta ai contadini dai possessi latifondistici, come accade in America Latina, dagli scavi minerari e dalle dighe, come accade in India e in Cina, dagli inquinamenti petroliferi, dall'agricoltura industriale, dalla desertificazione, e ora dalle guerre in Africa e in Medio Oriente.

Ma il cuore della discussione avrebbe dovuto essere e dovrebbe ancora essere la ragione storica del primato alimentare italiano. Perché il nostro cibo è cos' straordinariamente ricco, sapido, inventivo, vario, amato e imitato dappertutto? La risposta è all'apparenza facile e nota. Ma perché esso rispecchia la ricchezza unica e irriproducibile della nostra biodiversità agricola, frutto della varietà straordinaria di habitat naturali della Penisola e di una storia senza possibilità di confronti delle numerosissime comunità agricole che vi hanno operato per millenni. E la manipolazione alimentare delle infinite varietà di piante, di ortaggi, legumi, frutta è anch'essa opera storica del mondo contadino, della creatività popolare. In Italia come in Europa – lo ha ricordato più volte Massimo Montanari – anche l'elaborazione “alta” della cucina da parte dei cuochi professionali, faceva base sui piatti inventati dai contadini. E dunque l 'Expo di Milano avrebbe dovuto e dovrebbe ancora porsi il problema fondamentale: quale sorte è riservata oggi ai contadini e ai lavoratori della terra del nostro Paese? Perché dovrebbe essere evidente il paradosso a cui l'Italia certo non sfugge: i contadini, i piccoli agricoltori, i produttori di cibo, quelle figure che alla fine consentono a tutti noi di vivere, che sono ancora oggi la base primaria e imprescindibile delle nostre società, sono i peggio remunerati fra tutti i ceti produttivi esistenti. Spesso sono in condizione di schiavitù sostanziale, come accade ai braccianti agricoli extra-comunitari di Rosarno, di Nardò e di altre campagne italiane. Un lato oscuro e vergognoso del made in Italy, denunciato da pochi coraggiosi, tra cui Carlo Petrini.
Tale discussione è drammaticamente urgente non solo per ragioni di giustizia sociale, ma perché è in pericolo anche il nostro patrimonio, quel cibo su cui si regge ancora tanta parte della nostra ricchezza e della nostra identità nazionale. E qui occorre esser chiari. Se noi non assicuriamo ai nostri produttori agricoli una remunerazione dignitosa, se non conserveremo la terra fertile per produrre cibo, noi perderemo in breve tempo la base di biodiversità agricola su cui si è fondata la nostra eccellenza in cucina. Il made in Italy diventerà una finzione commerciale, un trucco all'Italiana di cui i consumatori internazionali si accorgeranno ben presto. Il processo è già in atto da tempo. Tra il 1982 e il 2010 sono scomparse 1 milione mezzo di aziende dalle nostre campagne. Abbandonano i campi i piccoli produttori e resistono le grandi aziende. E allora occorre chiedersi: e' questo il modello di agricoltura che vogliamo? Vogliamo puntare sulle grandi imprese per “produrre di più” riducendo i costi? Dobbiamo addirittura inserire il mais e la soia Ogm nelle nostre campagne, come pretendono taluni scienziati italiani, che hanno tanto a cuore le sorti della loro ricerca, e si curano così poco della storia e delle ragioni della nostra agricoltura?
La sparizione delle piccole aziende tradizionali comporta di necessità una crescente uniformità bioagricola dei prodotti. Su questo abbiamo prove allarmanti. Oggi siamo in grado di misurare gli esiti statistici ed epidemiologici di tale processo omologante dell'agricoltura e dell'alimentazione industriale. Nel rapporto Nuove evidenze nell'evoluzione della mortalità per tumore in Italia, pubblicata nel 2005 dall'Istat e dall'Istituto Superiore di Sanità, si legge: «L'uniformità alimentare ha prodotto un danno alle popolazioni del Sud, che in questi 30 anni hanno perso un vantaggio di salute che avevano» sul resto della popolazione italiana. L'alimentazione contadina che a lungo aveva protetto i meridionali dall'incidenza del cancro è stata dunque travolta. Un mutamento di paradigma alimentare che li espone alla virulenza cancerogena propria degli stili di vita delle società industriali.

Appare dunque evidente che le sorti dell'eccellenza italiana, il nostro cibo e i suoi infiniti piatti, al di la delle montagne di retorica che si sono sovrapposte sul tema, sono inscindibilmente legate al modello di agricoltura che vogliamo realizzare e in parte conservare. Essa dipende dal destino dei piccoli e medi produttori biologici, dalla loro disponibilità di terra, dalla remunerazione dei loro prodotti, dal premio dato a chi tutela la salubrità delle campagne, protegge il territorio su cui vive e opera, custodisce e restaura il paesaggio del Belpaese.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente al manifesto.

Il 25 aprile è certamente la data simbolicamente più significativa e fondante dell'Italia repubblicana. Il giorno della liberazione del paese dall'occupazione nazifascista ...>>>

Il 25 aprile è certamente la data simbolicamente più significativa e fondante dell'Italia repubblicana. Il giorno della liberazione del paese dall'occupazione nazifascista segna un frattura netta non solo con la dittatura mussoliniana, ma anche con il conservatorismo monarchico, ponendo le basi dell'Italia democratica. Un evento che non è una delle tante “rivoluzioni passive” della nostra storia, ma il frutto della lunga lotta partigiana, di una resistenza popolare che ha pochi precedenti nel nostro passato nazionale. Per circa un ventennio la sua celebrazione è entrata nell'immaginario degli italiani come un anniversario condiviso, una festa di tutti che ratificava l'accettazione universale dei valori della Costituzione e della democrazia. Ricordo che sul finire degli anni '60 e nel decennio successivo, la replica di quella commemorazione cominciò ad apparire, ai giovani di sinistra della mia generazione, come uno stanco rituale in una società di stabile democrazia, che aveva ormai bisogno di idealità più avanzate cui ispirarsi.

Ma dagli anni '80, com'è noto, le cose cambiarono. Il 25 aprile insieme alla Resistenza e alla prima parte della Costituzione, subirono attacchi molteplici, sia in sede storiografica che politica e giornalistica. Revisioni che contribuirono non poco a “sporcare” un mito fondativo della Repubblica. Da allora quella data è terreno, in vari modi, di contesa e di lotta politica, dal momento che tutte le forze in campo hanno compreso il valore simbolico della memoria, il suo essere terreno di egemonia. Quest'anno, la celebrazione di quella data sta lacerando il fronte antifascista promotore, creando problemi all'interno dell'Anpi a causa di un dissenso esploso di recente: la Brigata Ebraica e l'Aned, l'Associazione degli ex deportati, non parteciperanno al tradizionale corteo di porta San Paolo. Ragione del violento dissenso è la presenza di organizzazioni palestinesi all'interno del corteo, ree di aver criticato il governo di Israele e di non volere nel corteo la bandiera di quello stato.

Credo che la decisione di parte ebraica sia faziosa e sbagliata per più ragioni, e non ho bisogno di entrare nei dettagli delle discussione per dimostralo. Del resto, basta leggere l'intervista a Yussuf Salman, quale rappresentante delle comunità palestinesi (il manifesto del 10.4.2015) per vedere quanto ragionevole sia la posizione di questa parte. E' faziosa e sbagliata intanto perché nella presente fase storica, mentre infuria in Medio Oriente un fanatismo religioso di inaudita ferocia, l'intelligenza politica consiglierebbe la ricerca dell'unità, del dialogo, della cooperazione tra le forze che ambiscono alla pace. Non turba nessuno il fatto che in questo momento l'Isis sta portando i suoi massacri nel campo dei rifugiati palestinesi di Yarmouk, gremiti di bambini e di vecchi? O è solo Israele, solo gli ebrei che devono godere del monopolio della pietà una volta per sempre?

Ma nel gesto della Brigata Ebraica e dell'Aned ci sono due errori politici gravi: l'identificazione con lo stato d'Israele, e il conseguente vulnus alla coscienza pacifista e democratica dell'antifascismo italiano. Che cosa c'entrano gli ex deportati con l'attuale governo di Netanyau? Com'è possibile che ancora oggi gli ebrei democratici non comprendano un aspetto fondamentale della storia recente d'Israele? Se esso ha il merito di avere dato una patria a un popolo perseguitato e disperso, rappresenta tuttavia la coda violenta e tardiva del colonialismo europeo, una imposizione militare, che avrebbe richiesto ben altra strategia di riparazione nei confronti del mondo arabo. E invece, insieme agli USA, quello stato ha prodotto una politica che ha disperso un'alto popolo ed è all'origine della più grave instabilità di questa parte del mondo negli ultimi 60 anni.

E veniamo a noi. Forse che milioni di italiani non hanno ragioni di recriminazioni, nei confronti dell'intera comunità ebraica del nostro paese, per la tiepidezza – si fa per dire – con cui essa ha assistito al massacro di civili palestinesi a Gaza? Uccisioni e distruzioni immani, perpetrati per ben due volte, con bombardamenti simultanei da terra , dal cielo e dal mare, nel 2008 e nel 2014. Non è ad essa ben noto che milioni di italiani, forse la grande maggioranza del nostro popolo, guarda allo Stato d'Israele, come a un potere ingiusto e liberticida, che tiene in servitù un altro popolo? O crede che i cittadini non capiscano, non sappiano. Eppure, per amore di unità e di dialogo l'antifascismo italiano ricerca l'accordo, tentando di mettere insieme le parti. Perciò io credo che l'Anpi su questo punto deve avere una posizione di assoluta fermezza. Come ha ricordato Angelo D'Orsi, l'art. 2 dello statuto di quella organizzazione rivendica «un profondo legame con i movimenti di liberazione del mondo» (il manifesto, del 9.4.2015). L'equidistanza pilatesca deforma la verità. Oggi sono i palestinesi, è questo popolo che attende di essere liberato.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente al manifesto

Nel dibattito sul reddito minimo (e sue varianti) il punto da cui oggi occorrerebbe partire, in Italia,
è la ragione che nega l'impossibilità della sua applicazione ... >>>

Nel dibattito sul reddito minimo (e sue varianti) il punto da cui oggi occorrerebbe partire, in Italia,
è la ragione che nega l'impossibilità della sua applicazione: la mancanza di soldi. «Non ci sono le risorse» ha sentenziato di recente il ministro Poletti. Ma è davvero così? Sembra difficile invece crederlo, se ci si informa sulla ricchezza reale del paese, senza fermarsi alle retoriche correnti e al baccano stupido dei media. La Banca d'Italia, ad esempio, sembra avere un'idea diversa delle “risorse” dell'Italia. Nel suo documento La ricchezza delle famiglie italiane. Anno 2013, il nostro paese, con una ricchezza netta pari a 8.728 miliardi di euro, appare in una luce diversa dalla vulgata miserabilista corrente: «Nonostante il calo degli ultimi anni, le famiglie italiane mostrano nel confronto internazionale un'elevata ricchezza netta, pari nel 2012 a 8 volte il reddito lordo disponibile; tale rapporto è comparabile con quello di Francia, Giappone e Regno Unito e superiore a quello di Stati Uniti, Germania e Canada».

E' una ricchezza formata dal patrimonio abitativo (4.900 miliardi), ma anche da titoli finanziari, risparmi, attività economiche, ecc. Si tratta di una posizione di tutto rispetto, anche in confronto di grandi potenze industriali che il reddito minimo lo praticano da tempo. E' allora qual'è il problema? Perché un paese così ricco non trova le risorse per dare alle fasce più deboli ed esposte della nostra popolazione un reddito di dignità? Perché l'Italia ha oggi 6 milioni di poveri in senso assoluto, il 10% degli individui e l'8% delle famiglie? La prima risposta è - come largamente noto - nella disugualissima distribuzione della ricchezza. Su questo punto i dati della Banca d'Italia degli ultimi anni sono noti. Il 10% delle famiglie più ricche detiene quasi la metà della ricchezza nazionale.
Questione sociale di prima grandezza, ma oggi ostacolo evidente alla cosiddetta ripresa. Cinque mesi fa perfino l'OCSE, che non è la Caritas, si è spinta a sostenere, pudicamente che «l'aumento della disparità ha un impatto sulla crescita» (M. Moussanet sul Sole del 9.12.2014). E allora, perché i governi e i partiti non promuovono politiche efficaci di riequilibrio, di redistribuzione della ricchezza? Non è noto che il welfare del dopoguerra si è retto su sistemi fiscali progressivi? Eppure oggi un sistema fiscale realmente democratico non è nell'agenda del nostro governo, né ovviamente dell'UE, dove si fa a gara, tra paesi, a chi offre le migliori condizioni fiscali ai capitali esterni. Mentre in Italia, secondo i dati apparsi di recente sulla stampa, ben l'80% del peso fiscale è sostenuto dalla parte più debole del paese, dipendenti e pensionati.

Dunque, qual'è allora il vero ostacolo che si para dinnanzi all'istituzione del reddito minimo? Ma è evidente che si tratta di una ragione interamente politica. Il ceto politico non ha nessuna intenzione di scontrarsi con gli interessi costituiti, mettere in discussione la gerarchia consolidata della ricchezza così come si è venuta storicamente formando. Questo ceto, del resto, costituisce un segmento interno, una giuntura delle società capitalistiche del nostro tempo. Mettere radicalmente in discussione i rapporti dominanti esporrebbe a rischio il suo stesso potere relativo e la sua riproduzione. Eppure da noi la sperequata distribuzione della ricchezza non è solo una drammatica disuguaglianza fra le classi, che danneggia la “crescita”: dentro vi è incistata anche una questione generazionale. Sempre la Banca d'Italia, ne I bilanci delle famiglie italiane nell'anno 2012 ha ricordato che nel precedente ventennio, in termini relativi, il reddito degli anziani è passato «dal 95 al 114 per cento della media generale. (...) Per le classi di età più giovani, invece, il reddito equivalente è diventato significativamente più basso della media: il calo è stato di circa 15 punti percentuali».

Non c'è da stupirsi: il capitalismo neoliberista distribuisce la ricchezza sulla base dei puri rapporti di forza fra classi e individui. Com'era stato per tutta la precedente storia delle società umane, sino al trentennio “keynesiano”. Il generale regredire della nostra civiltà, lasciata ai liberi appetiti del cosiddetto “mercato”, si riflette anche qui. La parte meno rappresentata e forte, la nostra gioventù, indietreggia, non ha lavoro, non riesce a intraprendere, non può proseguire gli studi, non può fare ricerca, non può mettere su famiglia. E' da anni che il segmento più giovane della popolazione, il più vitale, potenzialmente più creativo e innovativo, in grado di ridare speranza e slancio al nostro paese, viene lasciato languire ai margini della società. Si facciano un giro per le città e i paesi del Sud politici e giornalisti filogovernativi: risparmieranno la fatica di leggere aride statistiche. Ma possono anche stare a Milano, dove l'altro giorno, per 25 posti da infermiere, erano in fila 13 mila persone.(Corriere della Sera del 3.4. 2015)
Davvero, qualcuno pensa di intaccare la disoccupazione giovanile italiana con il Jobs Act ? Chi può onestamente affermare che con la sola crescita potremo avere milioni di nuovi posti di lavoro? E quanti anni dovremo attendere? E quale potrà essere il ritmo di tale crescita, con i vincoli in cui ci stringono i patti iugulatori dell'UE? Nessuno faccia finta di non sapere che l'Italia è un paese sotto occupazione straniera: sotto occupazione finanziaria. Una novità assoluta nella storia degli stati sovrani.

Dunque, quello per il reddito minimo è una battaglia strategica di grande portata, in grado di dare un minimo di respiro alla nostra gioventù e a tante famiglie disperate in tempi brevi. Al tempo stesso colpirebbe la disuguaglianza e rafforzerebbe la domanda interna. Le risorse si trovano dove un tempo le trovavano i partiti della sinistra e i sindacati non asserviti: facendo leva sulla lotta sociale, con una pressione di massa che trasferisca aliquote significative di ricchezza dalle immense e crescenti rendite accumulate nelle fasce alte della società. La Coalizione sociale di Landini e altri dovrebbe porsi come centrale tale obiettivo, non solo per le ragioni già dette. Con le politiche correnti, senza un cambiamento dei trattati dell'Unione - ottenibile da un vasto movimento di massa continentale - è evidente a tutti noi che il prossimo avvenire, in Italia e in Europa, sarà delle destre. Con conseguenze imprevedibili per la democrazia.

Tutto congiura a loro favore: il rinfocolamento dei risentimenti nazionali, l'immigrazione - destinata a diventare ingovernabile con la tragedia dell'Africa e del Vicino Oriente - lo svuotamento ulteriore del welfare, la facilità di mettere i poveri l'uno contro l'altro. In politica il tempo è tutto. Perciò occorre oggi raccogliere la rabbia, il rancore, la disperazione ma anche la rassegnazione dei nostri giovani (e non solo di essi) e trasformarla in energia politica, mostrando ad essi un obiettivo conseguibile tramite il loro impegno in prima persona. Questo significa, tradotto in parole semplici, che la Coalizione sociale deve metter in moto subito iniziative nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nell'Università, in tutti gli spazi pubblici perché il reddito minimo diventi il tema dominante.
Una campagna di mesi, in cui si mettono in luce diritti e si denuncino le ingiustizie intollerabili che stanno trascinando il paese alla rovina. Una grande vertenza nazionale, che abbia al centro quest'asse, che parta ora, che avvicini le organizzazioni ai cittadini, rinsaldando un fronte politico davvero nuovo, privo delle strumentalità proprie delle campagne elettorali. E' questa una condizione importante: un aspetto mai considerato, per spiegare i fallimenti delle proposte politiche messe in piedi dalla sinistra radicale, è che sono state promosse sempre a ridosso delle elezioni. Dall'Arcobaleno in poi, puntualmente, esse sono apparse agli occhi degli elettori come una scoperta manovra da ceto politico, animate dal desiderio di occupare posti di potere. La politica fra i cittadini si dovrebbe fare tutti i giorni. Una grande battaglia nazionale così orientata può costituire l'esperienza da cui può nascere - se si sarà responsabili e si porrà al primo posto il valore dell'unità – una formazione politica dai tratti nuovi. Una “ cosa” che nessuno può ideare oggi a tavolino.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente al manifesto

Il gruppo dirigente della CGIL che critica e dissente da Maurizio Landini per la costituzione di una Coalizione sociale - ancorché lo faccia per comprensibili ragioni...>>>

Il gruppo dirigente della CGIL che critica e dissente da Maurizio Landini per la costituzione di una Coalizione sociale - ancorché lo faccia per comprensibili ragioni - dovrebbe, per dirla col vecchio linguaggio del catechismo, farsi un esame di coscienza. Viene infatti spontaneo chiedersi, di fronte agli sforzi del segretario della FIOM di porre argini a una situazione di estrema gravità di tutto il mondo del lavoro, quali iniziative abbia preso, quali proposte di mobilitazione e di lotta abbia avanzato negli ultimi sette terribili anni la CGIL nazionale. Perché, bisogna ricordarlo, il periodo che va dal 2008 ad oggi, non è stato di ordinaria storia del mondo.

L'Italia, se escludiamo le due guerre mondiali, non aveva mai conosciuto, nella sua storia unitaria, una così estesa riduzione della sua base produttiva, un crollo così rovinoso dell'occupazione, un dilagare continuo e senza argini della povertà e della disperazione sociale. Eppure, un osservatore straniero che fosse vissuto in Italia in questi anni difficilmente avrebbe immaginato che nel nostro paese opera uno dei più antichi e potenti sindacati dell'Occidente. Ma, senza voler qui aprire un infinito rosario di recriminazioni, occorrerebbe almeno ricordare che l'inerzia e il silenzio del sindacato hanno non poco favorito l'iniziativa dei novatori.
Chi ha dato a Renzi l'opportunità di presentarsi come il difensore dei giovani e dei precari, con l'iniziativa del Jobs Act? Chi ha permesso che l'iniziativa di riforma del mercato del lavoro venisse ispirata dalla Confindustria? Eppure dovrebbe essere evidente che oggi l'avversario di classe -ripristiniamo questo termine di verità nel linguaggio della politica- ha capito il gioco che il sindacato (e la sinistra) stenta a capire. Alla bulimia consumistica dei cittadini del nostro tempo occorre dare in pasto sempre prodotti nuovi. Basta che siano nuovi all'apparenza. Se poi il nuovo che si impone demolisce antichi diritti, cosa importa, visto che questo è il suo autentico fine? L'importante è “andare verso il futuro”. Lo Statuto dei lavoratori? Ma è roba del 1970, un edificio obsoleto. Figuriamoci la Costituzione, che è del lontanissimo 1948! Volete mettere il Jobs Act, un prodotto nuovissimo per giunta in smagliante lingua inglese, la lingua corrente dei nostri operai e impiegati?

La menzogna pubblicitaria che oggi ispira la politica rivela, fra le altre cose, come il conflitto insonne che i poteri economici e finanziari muovono contro i lavoratori persegue sempre più l'innovazione simbolica e cerca di raggiungere pubblici vasti. Perciò restare fermi, silenziosi, dentro i luoghi di lavoro o i propri uffici, come ha fatto la CGIL in tutti questi anni, in difesa dell'esistente, dei vecchi e consolidati diritti, ha portato e porterà a continue sconfitte. Il pachiderma assediato da una muta di cani difficilmente si salverà, se non prova a cambiare la sua disperata situazione assestando qualche calcio che apra una breccia tra gli assedianti. Certo, la condizione della CGIL e di tutti i sindacati del mondo oggi è terribilmente difficile. Si è eclissata nei parlamenti la forza politica amica, i partiti comunisti o socialdemocratici. Gli imprenditori e i finanzieri possono investire, aprire aziende, spostare capitali in ogni angolo del pianeta. I lavoratori e i sindacati sono inchiodati nel territorio delle nazioni. Ma che cosa è stato tentato per incominciare a fronteggiare una asimmetria così grave e penalizzante?

Ho spesso ricordato che l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) è stata fondata nel 1919 ed è ancora in vita, ma come un modesto ufficio studi. Eppure era nata come un generoso progetto universale della politica occidentale dopo la Grande Guerra, in difesa della classe che produceva la ricchezza di tutti i paesi. Oggi guida invece le sorti del mondo il Fondo Monetario Internazionale, nato nel 1945. Eppure nessuno osserva che dietro ad esso c'è solo l'interesse di alcune migliaia di banchieri, dietro l'ILO ci sono diversi miliardi di lavoratori sparsi per il mondo. Quando faremo esplodere la potenza di tale contraddizione? Non è possibile cominciare a tessere una rete internazionale che rivitalizzi tale organismo, o ne crei un altro nuovo o ne cambi il nome, con il fine di una reale rappresentanza degli operai di tutto il mondo?Quando incominceremo a porre in agenda l'obiettivo del salario minimo per tutti gli operai, di standard di base irrinunciabili delle condizioni e dell'orario di lavoro? Vaste programme, direbbe qualcuno, dal momento che da quando esiste l'Unione Europea non si era mai vista tanta inerzia sindacale e mancanza di azione comune nel Vecchio Continente.
Certo, per tali tentativi i dirigenti della CGIL dovrebbero disporre di energie intellettuali difficili da trovare nelle buie stanze dei loro uffici. Ma non esistono in Italia le figure capaci di un tale compito? Non è possibile che i dirigenti della CGIL si guardino intorno a vedano tanti nostri giovani, le migliori e più colte intelligenze del nostro paese, che scappano all'estero ? E perché non scegliere tra questi i tanti talenti che potrebbero portare energia, idee, motivazioni, conoscenza di lingue e realtà sociali in grado di ridare giovinezza, saperi, visione internazionale al sindacato italiano? Li dobbiamo lasciare alle imprese? Quale salto di qualità potrebbe compiere la creatività della CGIL se una nuova leva di giovani trentenni, oggi precari in Italia e nel mondo, venisse fatta entrare con specifici compiti dirigenziali?
Avanzo tale proposta non solo perché la sinistra tutta intera si dovrebbe porre il problema dei nostri giovani intellettuali. Ma anche perché il sindacato oggi potrebbe far tesoro di una sua antica istituzione, in grado di ridare una nuova vitalità all'organizzazione dei lavoratori. Nata nel 1891 a Milano, la Camera del Lavoro è stata una geniale invenzione del sindacalismo ottocentesco. Essa metteva insieme le diverse categorie operaie in unico centro territoriale, mentre lo sviluppo capitalistico si diversificava e articolava le sue geografie. E oggi? Non sappiamo da tempo che il lavoro, precario, alterno, reso autonomo, frantumato, delocalizzato, subappaltato, ecc. sempre meno ritrova unità in un luogo determinato? E allora, che cosa si aspetta a ridare nuova vitalità a tali centri, dove possano confluire non solo i lavoratori e i pensionati per pratiche di patronato, ma anche i disoccupati, le massaie, i giovani, gli studenti ?
E' una istituzione a base territoriale quella che oggi può fornire uno spazio di unità a un universo sociale in frantumi. Le Camere del Lavoro dovrebbero dunque essere accresciute nelle grandi città, ma anche fatti nascere in ogni comune, potenziate dove già esistono. Si pensi alla funzione aggregativa che potrebbero svolgere nel Mezzogiorno devastato dei nostri giorni, dove i i giovani disoccupati sono murati in casa, soli con la loro disperazione. Naturalmente, una soluzione organizzativa non è una politica, ma già darebbe un segnale di movimento. Ma i temi politici non mancano. Landini ha confessato con onestà di essere stato in passato contrario alla concessione del reddito minimo.
Si tratta di perplessità comprensibili, diffuse nella sinistra. Incertezze che nascono dal fatto che essa ha abbandonato da tempo il terreno sociale e teorico da cui è nata: l'analisi del mondo del lavoro come parte costitutiva del capitalismo contemporaneo. Marx ha disvelato l'origine della ricchezza e della sua diseguale distribuzione, mostrato l'architettura dell'intera società, partendo dal lavoro. Una analisi non superficiale del capitale, ci dice che oggi esso ha sempre meno bisogno di lavoro vivo, per via dei processi accelerati di automazione e per il vantaggio di poter trasformare direttamente il danaro in altro danaro. Ma uno sguardo sommario ai nostri ultimi anni ci dice anche che il capitale ha un interesse politico a far scarseggiare il lavoro, a renderlo raro e incerto, perché così può tenerlo sotto ricatto, rafforzare il suo rapporto di dominio. Il lavoro è elemento vitale del capitale, ma anche suo avversario. Le imprese lo sanno bene, la sinistra l'ha dimenticato, pensando che il capitale si riduca alle piccole imprese familiari del Nordest. Il reddito minimo può sottrarre i lavoratori e la nostra gioventù al grande ricatto. La Coalizione sociale può trovare in tale obiettivo una via per costruire un consenso vasto e vittorioso.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente al manifesto

Non sono state certo poche le critiche mosse al ddl sulla scuola approvato dal Consiglio dei ministri il 12 marzo scorso, anche da parte di commentatori...>>>

Non sono state certo poche le critiche mosse al ddl sulla scuola approvato dal Consiglio dei ministri il 12 marzo scorso, anche da parte di commentatori pronti ad accogliere con favore le “riforme” del governo. Merita tuttavia qualche ulteriore considerazione l'innovazione più singolare del progetto governativo: la chiamata diretta dei docenti da parte del preside-manager, cui si attribuisce anche la gestione di premi e incentivi (vere e proprie briciole per pochissimi) da elargire ai professori più meritevoli. Su Repubblica del 14 marzo Francesco Merlo ha tratteggiato una esilarante simulazione di quel che accadrebbe nella scuola italiana se questa norma dovesse essere approvata.

E' fin troppo evidente che tanta discrezionalità nelle mani di un capo, sia pure accompagnato da una “squadra “ di docenti, darebbe luogo ad arbitri, pratiche clientelari, corruzione. Mentre si trasformerebbero gli istituti scolastici in luoghi di tensione e conflitti, con la lacerazione del corpo docente, non senza risvolti e code giudiziarie, come ha paventato qualche commentatore (Il preside dell'Istituto Tecnico Avogadro di Torino in Corriere della sera, 14 marzo). Di sicuro, in pochi anni la scuola perderebbe quel po' di concordia interna che ha fatto operare per decenni insegnanti e studenti come un collettivo di lavoro. Un clima di cooperazione reso possibile dalla impersonalità delle norme, fondate sul merito, che ha selezionato i docenti della scuola italiana sino a oggi: pubblici concorsi, abilitazioni, corsi di aggiornamento, ecc . E' evidente che l'idea del preside che chiama all'insegnamento e distribuisce qualche mancia serve anche a coprire la magagna che tutti conoscono: la condizione di assoluta indigenza in cui sono lasciati da decenni gli insegnanti della scuola italiana. Giocatore delle tre carte, Renzi si fa pubblicità come riformatore e innovatore, ma nasconde quel che è drammaticamente necessario alla scuola italiana per farla risorgere: investire risorse e soprattutto portare a un livello di dignità europea gli stipendi dei professori.

L'idea del preside-capo si presta tuttavia a considerazioni più generali. Non deve sfuggire che anche nel campo della scuola si manifesta l'ossessione di Renzi per il comando. Lo si vede nei suoi rapporti col Parlamento e con i compagni del suo partito, lo si è visto con il Jobs act, che dà all'imprenditore la libertà di licenziare, ora nella riforma elettorale in discussione, che dovrebbe fornire il nome del vincitore alla chiusura delle elezioni. Non è solo un dato caratteriale del presidente del Consiglio. L'evidente incremento di tratti autoritari nelle società di più o meno antica democrazia è il risvolto inevitabile di un assoggettamento crescente del ceto politico alle pressioni dei poteri economico-finanziari. Se i corpi intermedi, le istituzioni, le casematte che hanno regolato i rapporti tra i cittadini e tra questi e il potere, in una società complessa, sono rappresentati come ostacoli al libero mercato, alla fine questa società si può tenere insieme solo tramite centri di comando assoluti. Ma la scuola è un terreno delicato e particolare.

L'enfasi che il ddl mette sulla figura del preside e sull'autonomia scolastica dovrebbe suscitare serie preoccupazioni per altre ragioni. Si va infatti verso la dissoluzione di quella struttura pubblica che regolava la vita scolastica, con meccanismi impersonali di accesso all'insegnamento e si simula, per affermarla poi di fatto, una privatizzazione degli istituti. Non è più lo stato, in rappresentanza di tutti noi, che comanda, ma il preside, a sua discrezione. Il rapporto tra insegnanti e preside non è più una relazione tra colleghi, ma un affare privato tra un capo-azienda e i suoi sottoposti. Tale dissolvimento per il momento simbolico della scuola pubblica nasconde un altro elemento che scardina assetti storici consolidati: la sempre più spinta autonomizzazione dei curricula scolastici. Ogni scuola perseguirà il proprio modello e il proprio programma di studi. Ma la scuola italiana ha avuto, tra gli altri meriti, quello di fornire agli italiani, emergenti da una secolare storia di localismi, di differenziazioni regionali, di diversità linguistiche, un comune fondo culturale, il minimo indispensabile di identità nazionale. Vogliamo che la scuola abbandoni tale compito? Bene, il presidente del Consiglio e le burocrazie ministeriali devono dirci dove vogliono andare, a che scopo si fanno queste “riforme”, qual'è il modello di società che essi intendono perseguire.

Io credo di sapere in realtà dove vogliono andare, non per capacità divinatorie, ma perché da anni i governi intervengono sulla scuola e si possono ben scorgere quali sono le loro intenzionalità riformatrici. Quel che ossessiona infatti i riformatori è l'efficienza della macchina istituzionale, senza nessuna preoccupazione della qualità dei saperi, del livello della formazione che viene fornita ai ragazzi. E questo per una ragione ben precisa. Tutta la visione progettuale del legislatore si esaurisce in un ben misero intento: adeguare la scuola alle esigenze mutevoli del mercato del lavoro. E allora occorre porre il quesito: dobbiamo innovare la scuola in tale direzione, immettere sempre più direttamente anche le istituzioni del sapere e della formazione nel tritacarne del mercato? Questa domanda è utile perché essa mette di fronte a due strade diverse che non sempre sono distinguibili nel dibattito corrente, ma che occorre avere ben chiare se si vuole elaborare un progetto di scuola all'altezza delle sfide che ci si parano innanzi.

Vogliamo una scuola che aiuti la formazione di una società nuova, più giusta e avanzata, che rielabori per il nostro tempo un nuovo assetto di civiltà, o cerchiamo di farla funzionare al meglio per rispondere ai bisogni presenti e immediati della società così com'è, con le sue gerarchie e squilibri? Nel primo caso è evidente che non basta più, alla scuola italiana, l'affermazione tra i ragazzi di una coscienza nazionale. Oggi occorrerebbe fornire una più larga visione europea e mondiale. Uno dei compiti del riformatore dovrebbe essere quello di introdurre elementi di conoscenza cosmopolita nella formazione dei nostri studenti, che non possono certo esaurirsi nell'apprendimento della lingua inglese. Preparare i nuovi cittadini del mondo, ecco uno dei compiti da assegnare alla scuola del nostro tempo, mentre intorno a noi si scontrano storie e civiltà, ribollono guerre sanguinose dipendenti da ingiustizie e soprusi, incomprensioni e ignoranza. E per tale asse formativo i saperi umanistici sono irrinunciabili.

Ma oltre a quello civile e storico-politico c'è un campo conoscitivo di prima grandezza di cui la s cuola dovrebbe occuparsi: il campo delle scienze, soprattutto di quelle della natura e del modo di insegnarle. E' un nodo decisivo per la formazione culturale dei nostri ragazzi. Non solo e non tanto perché un apprendimento di buon livello delle scienze assicura poi una superiore capacità del lavoro professionale che ciascuno andrà a svolgere. Ma soprattutto perché oggi un insegnamento interdisciplinare dei saperi scientifici appare decisivo per formare i giovani alla lettura della complessità del mondo.Un mondo sempre più interrelato che stiamo distruggendo per l' ignoranza dei più, oltre che per l'interesse egoistico dei pochi. L'attuale formazione scientifica dei nostri ragazzi è inadeguata rispetto ai drammatici problemi che stiamo creando alla casa comune del pianeta. Mentre della scienza si esalta superficialmente l'aspetto tecnologico, quello che serve al mercato del lavoro, alla “crescita”. Eppure si dimentica che perfino la disciplina da cui dipende quasi tutto delle conquiste tecnologiche del nostro tempo, la fisica, costringe oggi a una visone interrelata della natura: «Ancora una volta il mondo sembra essere relazione, prima che oggetti» ( C.Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi). Nella nuova scuola la conoscenza scientifica dovrebbe fare acquisire ai giovani un nuovo sapere scientifico-morale: l'idea di un rapporto uomo-natura meno arcaica di quello dei loro padri.

L'articolo è stato inviato contestualmente al manifesto

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Stupisce un po' osservare oggi, nel campo della sinistra, la tiepidezza politica e soprattutto la flebile mobilitazione organizzativa che accompagna una rilevante iniziativa politica. Mi riferisco alla raccolta di firme per una proposta di iniziativa popolare di revisione costituzionale, al fine di cancellare l'introduzione del principio di “pareggio di bilancio” nella nostra Costituzione. Si ricorderà che il 22 settembre 2014 un comitato promotore, composto da giuristi come Stefano Rodotà e Gaetano Azzariti, da Maurizio Landini, da parlamentari di Sel, Giulio Marcon e Giorgio Airaudo, e del PD, Pippo Civati e Stefano Fassina, ha depositato la proposta di legge in Cassazione.
Da allora, il dibattito su quel tema è stato languente e soprattutto non si è vista l'attivazione dei comitati per un ampio coinvolgimento dei cittadini.A fine gennaio Sel l'ha rilanciato a Milano, con il convegno Uman Factor (perché in inglese, francamente, non si capisce), ma il fuoco della mobilitazione stenta ancora ad accendersi. Eppure si tratta di una iniziativa politica di prima grandezza, non dissimile per molti aspetti, dalla battaglia per l'acqua bene comune. Intanto per la potenziale ampiezza del consenso che essa può raccogliere. Il fallimento delle politiche di austerità, la devastazione sociale e l'arretramento sul piano dei diritti che esse stanno generando in Europa appare sempre più evidente alla maggioranza dei cittadini. E le forze che sanno opporsi in maniera credibile alla stupida ferocia di questa politica, alla cultura che la sorregge, raccolgono consensi da ogni parte. Dicono qualcosa a tutti noi il successo di Syriza in Grecia e di Podemos in Spagna. Ma dovrebbe dirci qualcosa anche l'avanzata e la proliferazione delle formazioni di destra, che si alimentano di una politica antiausterità, anche se antieuropea. E' evidente ormai che i governi in carica non rappresentano l'opinione pubblica dei paesi dell'Unione, si reggono sull'astensionismo di massa e sulla dispersione delle opposizioni.
Ma togliere dalla Costituzione lo stupido sfregio del principio del pareggio di bilancio ha per noi un significato che va al di là del piano costituzionale e dei diritti. Quella norma, inserita il 20 aprile del 2012, rappresenta una scelta pianificata del declino italiano. Una scelta che appare insensata già alla luce delle caratteristiche storiche del capitalismo italiano. Chi conosce le vicende della nostra industrializzazione sa quale ruolo strategico ha dovuto giocare la mano pubblica, non solo nell'imporre regole e istituzioni, ma nel supplire all'assenza di capitali di rischio in settori strategici per lo sviluppo del paese.
E non si tratta solo delle antiche nostre debolezze. Oggi, dopo i colpi della crisi, viene imposta una riduzione sistematica della spesa pubblica che paralizza comuni e regioni, impedisce investimenti, riduce la produzione di ricchezza, deprime la domanda interna, trascina in un circolo vizioso l'intera macchina economica. Limitare così pesantemente il ruolo economico dello stato in una società di capitalismo maturo denuncia una strategia di pianificata autoemarginazione dell'Italia e dell'Europa. Al confronto il modello Usa, da un punto di vista strettamente capitalistico, appare più lungimirante e avanzato.Come ha mostrato con dovizia documentaria Mariana Mazzuccato ne Lo stato innovatore (Laterza), il potere pubblico gioca in quel paese un ruolo strategico di prima grandezza in investimenti nei quali il capitale privato non si avventura. Esso costituisce la vera avanguardia dell'innovazione tecnologica. Senza dire che lo stato americano ha continuato a investire generosamente in formazione e ricerca mentre in Europa, ma soprattutto in Italia, si è marciato e si continua a marciare in senso contrario.
Ma che cosa dire, d'altronde, del modello di accumulazione originaria in atto in Cina da decenni, dove è lo stato che guida le danze? E potremmo fare un lungo elenco di paesi emergenti in cui lo sviluppo economico è promosso con intelligenza strategica dal potere pubblico. L'Europa no. E' ossessionata dal debito, perché ragiona con l'animo strozzino dei banchieri tedeschi. Confida nel fatto che i conti in ordine attireranno investimenti dall'esterno e che la bassa domanda interna, dovuta a bassi salari e disoccupazione, sarà compensata dalle esportazioni. Ma tutti i paesi del mondo sperano nelle esportazioni e schiacciano i propri lavoratori per poter competere tra di loro nel mercato mondiale, col risultato di ordine e prosperità generale che oggi è sotto gli occhi di tutti. Senza dire che paesi come l'Italia, la Spagna, la Grecia, ecc i conti in ordine, con questo schema, non possono metterli, senza distruggere la società e alla fine gli stessi conti.

Tale riflessione ci consente di vedere la più ampia portata delle recenti politiche della UE.Oggi non siamo solo di fronte a una strategia economica controproducente in un periodo di crisi. Quello che si stenta a cogliere è che essa rappresenta ormai un nuovo orizzonte programmatico dei tecnocrati di Bruxelles. E' emerso sempre più chiaro da un paio di anni con il Patto europlus che impone ai governi dell'Unione le regole del Fiscal compact. Si impone che il disavanzo strutturale di ogni stato non superi lo 0,5% del Pil. Ma il Pil dei paesi di capitalismo maturo è sempre più poca cosa, com'è noto, se mai tornerà a crescere. E come potrà crescere con la contrazione della spesa pubblica? E quanto potrà spendere, con tali patti iugulatori, lo Stato italiano – che in 20 anni deve riportare il suo enorme debito al 60% del Pil - per potenziare la scuola, per ridare dignità e risorse all'Università, per consentire ai comuni di proteggere i loro territori, per mantenere in piedi la sanità coi suoi crescenti bisogni, per tutelare il nostro immenso e immeritato patrimonio artistico?

Dunque, l'UE appare oggi non solo lontanissima dai generosi propositi dei suoi primi ideatori, ma manifestamente peggiorata rispetto anche alla squilibrata fisionomia che si era data con i trattati. La sfida della costruzione di una economia sociale di mercato, che doveva competere con gli USA e col mondo, è stata abbandonata. Oggi le ammaccate conquiste del nostro welfare continuano a proteggere ampie fasce di popolazione dalle asprezze del cosiddetto mercato. Ma di questo passo esse saranno in gran parte spazzate via. In Europa un solo assillo sembra far vivere la volontà degli stati di stare insieme:la logica usuraia della solvibilità del debitore. Chi presta soldi deve riaverli con i giusti interessi. L'Unione, una delle più grandi creazioni politiche dell'età contemporanea, si avvia, dunque, sotto il furore del dogmatismo tedesco, a ridursi a un cane morto.

Ne abbiamo avuto la plastica rappresentazione in questi ultimi giorni nello scontro che ha contrapposto il governo greco di Tsipras ai rappresentanti dell'UE. Con un fuori programma che avrebbe dovuto trovare qualche voce politica capace di rivendicare la dignità degli stati sovrani.Vedere il ministro delle Finanze tedesco, Wolfang Schäuble, ringhiare come fosse il padrone d'Europa, non è stato uno spettacolo edificante. Ma ancor meno edificante è stato vedere che nessun capo di stato o di governo ha osato ricordare al ministro che l'Unione ha i suoi organismi, in rappresentanza di ben 28 paesi. In quelle trattative abbiamo visto non solo due idee di Europa, ma anche il muro che in Germania e a Bruxelles intendono tenere alto contro l'avvenire del nostro paese.
Dopo l'approvazione del jobs act, la grancassa mediatica si è messa in moto e il capo dei prestigiatori italiani amplifica i suoi trucchi per rappresentarci le magnifiche sorti che ci attendono. Non lasciamoci abbacinare. I problemi sociali degli italiani resteranno gravi a lungo, anche se ci sarà qualche segno di ripresa economica.La mutilazione del ruolo dello stato imposta dal pareggio di bilancio è un macigno su cui Renzi non potrà danzare.
Fino ad oggi l'Expo di Milano, che aprirà i battenti nella prossima primavera, ha attirato l'attenzione del pubblico italiano e internazionale... >>>

Fino ad oggi l'Expo di Milano, che aprirà i battenti nella prossima primavera, ha attirato l'attenzione del pubblico italiano e internazionale per gli episodi di corruzione legati alla costruzione dei suoi edifici e spazi espositivi. E ancora oggi, su quell'evento, si concentrano polemiche sui tempi di realizzazione dei vari padiglioni e soprattutto su attese di arrivi, di incassi, di afflussi di pubblico e di denaro. Poco o nulla dei contenuti che dovrebbero animare la mostra, se non gli accenni al cibo, tema nel quale non c'è italiano che non si senta un maestro. Eppure l'Expo dovrebbe riguardare anche l'agricoltura, perché senza di essa non si da cibo. In questo 2015, che sarà l'anno del suolo, si dovrebbe anzi ricordare che non c'è agricoltura senza terra. E qualcuno ha cominciato a farlo, prendendo sul serio l'occasione che l'Expo può offrire per un salto di qualità nella comprensione dei problemi agricoli ed alimentari del nostro tempo, per rendere popolari questi temi presso il largo pubblico e le nuove generazioni. Il 13 e il 14 di gennaio, a Firenze, su iniziativa di Vandana Shiva l'associazione Navdanya internazional, presieduta da Caroline Lockart, ha organizzato un seminario sul tema del suolo, con studiosi di varie discipline e nazionalità. L'incontro aveva una finalità editoriale: preparare un Manifesto - simile a quelli sui Semi, o sulla Conoscenza, che negli anni passati sono circolati a Terra madre, a Torino - intitolato Terra viva. Il suolo come bene comune. Il Manifesto verrà tradotto in varie lingue e messo a disposizione di un pubblico internazionale.

Il fitto dibattito di questi due giorni ha fatto emergere un originale quadro interpretativo dell'attuale stato di disordine dell'economia mondiale. L'economia, non soltanto quella agricola si fonda su un originario misconoscimento: il suolo è valutato come un contenitore vuoto che si può riempire a piacimento, con le nostre attività, un supporto neutro su cui si può produrre e edificare tutto. Ma esso è un organismo vivente, è un ecosistema su cui si basa la vita sulla terra. Un bene scarso e non facilmente rigenerabile, distribuito in maniera ingiusta e disuguale. Lo sanno milioni di contadini nel mondo, che ne hanno troppo poco per sfamare i loro figli, che se lo vedono sottrarre dalle attività minerarie o dall'avanzare del cemento. In Italia ce ne rammentiamo ogni tanto, quando le alluvioni sconvolgono città e territori ricordandoci che le piante proteggono dall'erosione, che i campi verdi, anche incolti, sono spugne che assorbono la violenza dell'acqua piovana. Ma i successi dell'economia industriale hanno creato l'illusione dell'onnipotenza tecnologica. Le alte rese che si sono succedute nei raccolti, nelle agricolture occidentali, sopratutto a partire dagli anni '50 del '900, hanno radicato l'idea che tutto è possibile, indipendentemente dal suolo, dalla natura e dai suoi equilibri.

Anche oggi, il favore di cui godono le piante Ogm presso alcune figure ed ambiti scientifici, è fondato su questa illusione tecnologica. Eppure oggi abbiamo dati che mostrano la fragilità di questa presunzione. I successi dell'agricoltura industriale, l'abbondanza di cibo a prezzi contenuti delle nostre società opulente sono solo in parte dovuti all'innovazione tecnologica. O per meglio dire, l'innovazione tecnologica è parte di un paradigma più complessivo in cui il ruolo gigantesco che svolge la natura viene cancellato. Pensiamo all'innovazione genetica nel campo dei semi. Come ha ricordato di recente Emanuele Bernardi ne Il mais “miracoloso”(Carocci, 2014), grazie al Piano Marshall gli USA introducono in Italia e nelle campagne europee i semi di mais ibrido, che hanno successo per la loro elevata produttività. Quel mais, naturalmente, metterà ai margini e farà scomparire tutte le varietà locali, con i loro caratteri speciali, e soprattutto costringerà gli agricoltori a comprare ogni anno i semi per la semina. Ma il successo del mais ibrido non è merito esclusivo dell'innovazione genetica. I raccolti più abbondanti si ottengono se si usano abbondantemente i concimi chimici, l'acqua, poi i pesticidi, i diserbanti, ecc che le corporation americane produrranno con ritmo crescente trovando nelle campagne europee un mercato sterminato. I semi ibridi sono stati il cavallo di Troia per scalzare un modello secolare di agricoltura.

Ma ciò che è rimasto a lungo nascosto è che il miracolo dei semi era dipendente dal crescente uso della concimazione chimica. Lo storico francese Paul Bairoch, ha ricostruito le stupefacenti cifre statistiche che svelano l'arcano della nostra prosperità alimentare. Tra i primi del 900 e il 1985 i rendimenti del grano son cresciuti nei vari paesi d'Europa di 3 o 4 volte. Ma nello stesso periodo il consumo di fertilizzanti chimici nelle campagne della Germania è aumentato 9 volte, 17 volte in Italia, 20 in Spagna. Quella fertilità non veniva dai suoli d'Europa, ma dai fosfati estratti in Marocco o nelle isole del Pacifico, dall'azoto prodotto industrialmente col petrolio pompato in qualche angolo del mondo. L'intero modello della nostra economia estrattiva, lineare, non ciclica, che consuma una volta per tutte, senza nulla restituire alla terra, è nelle poche cifre fornite dal geologo americano D.A. Pfeiffer nel saggio Eating fossil fuels. (2006).Negli anni in cui si realizza la cosiddetta rivoluzione verde, tra il 1950 e il 1985, la produzione mondiale del grano conosce un incremento che sarebbe sciocco non considerare senza precedenti. Essa aumenta del 250%. Ma il consumo di energia fossile negli stessi anni tocca un picco di aumento del 5000%. L'aumento di produzione e l'innovazione tecnologica di tutto il settore (concimi, macchine, pompaggio elettrico dell'acqua,diserbanti, pesticidi) si è fondato su un consumo gigantesco di energia, sulla dissipazione di risorse non rigenerabili del suolo e del sottosuolo.

Tale economia lineare svela oggi i suoi limiti e annuncia le sue minacce. Il suolo fertile comincia ad apparire scarso, scompare la falsa infinità della natura ed ecco esplodere il fenomeno del land grabing. Milioni di ettari di terra, dell'Africa, del Brasile, del Vietnam vengono accaparrati non solo dalla Cina, ma anche dagli Emirati Arabi, dalla Corea del Sud., dall'Arabia Saudita. Non si comprano semplicemente le derrate per sfamare le popolazioni, si acquisiscono direttamente i suoli trascinandoli nel gioco del mercato capitalistico mondiale. L'eterno imperialismo si riaffaccia in nuove forme ed esso alimenta scontri tribali, conflitti, guerre. Oggi appaga il senso comune e l' ipocrisia dell'Occidente ricondurre i sanguinosi conflitti in corso alle divisioni religiose. Non solo si dimentica il fanatismo dell'Occidente, chiamato crescita, ma non si vuol vedere che quello sanguinoso, ad esso speculare, è il travestimento ideologico con cui il mondo degli sconfitti, schiacciato dalle violenze dell'economia globalizzata, dà senso alla sua ribellione.

Il fondo nascosto delle guerre - senza voler sottovalutare il peso di religioni e ideologie, anche quelle occidentali - sta nel fatto che l'economia lineare avanza in forme predatorie. Lo sviluppo, la crescita economica, vanno divorando le risorse del pianeta e un numero troppo grande di uomini e donne ne riceve solo danni. Ma il suolo non appartiene solo ai paesi ricchi: quelli - per dirla con George W.Bush che polemizzava con le prescrizioni del Protocollo di Kyoto - il cui «stile di vita non è negoziabile». E dunque la crescita della popolazione, seguendo il sistema dell'economia lineare, prepara conflitti di inimmaginabile violenza.

Occorre dunque rovesciare il paradigma, scuotere dalla fondamenta la cultura dominante, fondata sul successo dei risultati immediati e sulla cancellazione delle fonti originarie della ricchezza.La storia dell'economia contemporanea è infatti fondata su una successione stratificata di occultamenti. L'agricoltura nasconde lo sfruttamento dell'energia fossile alla base dei suoi successi produttivi, l'attività dell'industria a sua volta tiene celate le immense quantità di materia e risorse che essa trasforma in merci, la finanza mette in ombra l'economia reale su cui si fonda esaltando la crescita autonoma dei suoi rendimenti virtuali. Ma l'intera economia nel suo complesso nasconde che il punto di partenza di tutto è la terra, il suolo.

Scopo del Manifesto Terra viva, è dunque mostrare la via dell'economia circolare. La Terra è un sistema chiuso.Occorre restituire quello che le si sottrae. L'agricoltura non può continuare all'infinito a surrogare la fertilità del suolo con la concimazione chimica. Già essa contribuisce per circa il 40% al riscaldamento climatico. Mentre è noto che la conservazione della fertilità del suolo gioca un ruolo rilevante nella cattura del carbonio e dunque nella riduzione dei gas serra. Occorre incrementare la nuova agricoltura già all'opera, non solo in campagna, fondata sulla piccola impresa biologica, ma anche in città. Impiantare orti e alberi nelle aree dismesse, nelle periferie, nelle terrazze, nei giardini. E occorre riportare alla terra i residui della nostra cucina, gli scarti organici della vita cittadina, ridando fertilità alla terra senza ricorrere alla chimica, incrementando la cattura di carbonio nel suolo. In questo esempio di economia circolare aumento della fertilità e della ricchezza, risparmio energetico, diminuzione della dissipazione sono tutt'uno. Per questa via l'agricoltura biologica, fondata sulle piccole aziende non è solo un settore economico che dà cibi più sani e rispettosi dell'ambiente, ma costituisce un frammento di economia circolare a cui tutti i cittadini possono concorrere, grazie alla selezione dei propri rifiuti, riconoscendosi - come' stato per secoli, per milioni di cittadini d'Italia e del mondo – i fertilizzatori del suolo da cui proviene il cibo che essi non producono.

Il paesaggio di corruttela e intreccio criminale che domina da anni la vita politica e amministrativa di Roma, a essere onesti, non dovrebbe stupirci...>>>

Il paesaggio di corruttela e intreccio criminale che domina da anni la vita politica e amministrativa di Roma, a essere onesti, non dovrebbe stupirci più di tanto. E' sufficiente avere buona memoria delle cronache politico-affaristiche degli ultimi 20 anni per capire una verità elementare: la corruzione, nella vita del nostro paese, non è l'eccezione, ma la norma. Lo dicono, peraltro, le statistiche internazionali. Essa emerge ogni qualvolta la magistratura scoperchia la crosta della legalità formale e mostra il corso reale degli affari. E' sufficiente affondare un po' l'unghia su qualunque superficie e zampilla l'umore purulento.

Costituirebbe tuttavia un errore interpretare il problema grave ed enorme nella sua normalità ricorrendo a categorie morali di interpretazione. Perché, come dovrebbe essere ovvio, la corruzione e la predazione sistematica del bene pubblico, sono un problema eminentemente politico. Possiamo chiederci perché tutti gli scandali esplosi negli ultimi anni vedono coinvolti uomini politici, rappresentati di partiti, eletti nelle amministrazioni locali? Perché nell'affare fraudolento, direttamente o indirettamente, è protagonista o ha comunque un ruolo di rilievo la figura del partito politico? Dovremmo ricordarci che per oltre tre decenni, nella seconda metà del '900, in quasi tutte le democrazie occidentali, i partiti politici sono stati, come diceva Gramsci, gli «organizzatori della volontà collettiva». Essi fornivano coesione sociale, rappresentanza, voce alle masse dentro lo stato. Erano dei grandi collettori d'istanze sociali e per ciò stesso educatori di legalità, insegnavano il valore del conflitto sociale come strumento collettivo di espressione e di emancipazione. La lotta sociale educa gli individui a pensarsi come corpo sociale e a trovare in essa, e non nelle scorciatoie personali, o nelle pratiche truffaldine, la via per far valere le proprie ragioni e i propri diritti. Com'è noto, da tempo, questa realtà ha fatto naufragio.

I partiti di massa sono stati divorati al loro interno dai poteri economico-finanziari. In Italia – ha scritto Luigi Ferrajoli nel II vol. dei suoi Principia juris (Laterza, 2007), un testo ricchissimo di indicazioni riformatrici – la perdita della dimensione di massa dei partiti, deriva anche «dalla crescente separazione dei partiti dalle loro basi sociali: per la loro progressiva integrazione nelle istituzioni pubbliche fino a confondersi con esse e a svuotarle e a spodestarle; per la loro trasformazione da associazioni diffuse sul territorio e radicate nella società in vaghi e generici partiti d'opinione, per la loro perdita di progettualità politica e di capacità di coinvolgimento ideale e di aggregazione sociale; per la loro sordità, il loro disinteresse e talora la loro ostilità ai movimenti sociali e alle sollecitazioni esterne». Si comprende, dunque, perché sono sempre di meno i cittadini che credono di poter far valere i propri diritti (lavoro, studio, casa, salute) attraverso le vie legali della pressione sulle proprie rappresentanze politiche: la diserzione crescente dall'esercizio del voto lo prova a sufficienza. Mentre aumenta il numero di chi cerca soluzioni informali e private ai propri crescenti problemi. Questa è da tempo la realtà di gran parte del Mezzogiorno, ma ormai costituisce l'humus ideale su cui prospera e si estende, in tutta Italia, un clientelismo di nuovo tipo, talora con propaggini criminali più o meno ampie.

Si potrebbe obiettare che nelle altre grandi democrazie al declino dei partiti di massa non ha corrisposto un pari tracollo delle strutture della legalità. L'obiezione, fondata, rinvia a specificità di lungo periodo della nostra storia nazionale, che qui non si possono neppure sfiorare. Ma si possono fornire spiegazioni sufficienti pur rimanendo nell'ambito della storia recente. Ebbene, come possiamo separare il quadro di devastazione civile e morale di Roma, offertoci dalla inchiesta giudiziaria in corso, da quanto è accaduto in Italia negli ultimi 20 anni? Come si possono separare i nomi di Carminati e Buzzi dalla cultura del sopruso e della illegalità profusa a piene mani per oltre vent'anni dal potere politico e di governo di Silvio Berlusconi? L'Italia, unico paese in Occidente, è stata lacerata da un conflitto di interessi senza precedenti e senza paragoni con altri stati civili del mondo. L'esecutivo della Repubblica è stato ripetutamente messo al servizio dei problemi giudiziari del presidente del Consiglio e degli interessi delle sue aziende, il parlamento è stato ripetutamente umiliato, gli interessi personali e quelli pubblici resi indistinguibili. E messaggi di impunità sono stati lanciati per anni agli imprenditori, con l'abolizione del reato di falso in bilancio, l'esortazione e la pratica dell'evasione fiscale, agli speculatori edilizi con i condoni e la libertà di saccheggiare il territorio, agli evasori fiscali con condoni benevoli per il rientro dei loro capitali. Quale altro incitamento alla frode dovevano ricevere gli italiani, addirittura dai vertici del potere politico, per perdere ogni fede – già scarsa per antica debolezza di disciplinamento civile – nelle regole comuni della nazione? Quale altro lasciapassare dovevano ricevere i gruppi affaristici e criminali per intraprendere le loro pratiche, in cooperazione con gli elementi più spregiudicati dei partiti?

Rammentare brevemente questo devastante passato consente di guardare con altri occhi alla reazione di Renzi di fronte ai fatti di Roma. Egli ha detto che è stanco di indignazione e che vuole i fatti. Siamo stanchi anche noi, ma innalzare le pene per chi corrompe e sequestrare i beni di chi delinque, non è sufficiente. E' certo apprezzabile in sé, ma ancora una volta mostra l'abilità del presidente del Consiglio di trasformare qualunque problema in occasione di pubblicità elettorale. La trovata, che placa un po' l'ira delle moltitudini e seda il moralismo dozzinale dei nostri media, nasconde una ben più grave realtà sostanziale. Renzi, emerso alla ribalta come un novatore, capace di riscattare la nazione dai suoi vecchi vizi è in realtà un continuatore.

E' anche lui un uomo della palude. La “rottamazione”, ottima trovata di innovazione propagandistica, gli è servita da strumento per regolare i conti nel suo partito e prenderne il comando. Non certo per innovare le vecchie regole della politica. Gli avversari utili, anche quelli con la fedina penale sporca, anche i corruttori della nazione, non andavano toccati. Forse che Renzi, diventato segretario del PD, ha spinto il partito verso un maggior radicamento sociale e territoriale? Ha portato un'etica nuova, una ventata di democrazia e trasparenza tra dirigenti, militanti, elettori? Una volta al governo ha forse messo mano alla situazione di illegalità in cui vive il paese da oltre 20 anni, con il conflitto di interessi di Berlusconi? Ha ripristinato il reato di falso in bilancio? Al contrario, ha compiuto l'operazione più vecchia e consunta della storia politica italiana: accordarsi con l'avversario. Ha siglato un patto segreto con un criminale, condannato in via definitiva nei tribunali della Repubblica. Ha continuato a tenere contatti con il plurinquisito Denis Verdini, ha messo mano alla struttura della costituzione, pur non essendo egli stato eletto, forzando un Parlamento che è espressione di una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte.
E allora quale messaggio di legalità viene al Paese da tali scelte? Quale incitamento a continuare come prima arriva a tutti i faccendieri d'Italia ? Non dovrebbe essere evidente che Renzi, proprio lui, il grande novatore , a dispetto del suo banale nuovismo parolaio, è l'anello di congiunzione che tiene in vita la “vecchia Italia”, autorizza la conservazione del fondo limaccioso della vita nazionale? Non dovrebbe esser chiaro che la politica incarnata dal presidente del Consiglio si fonda su una immoralità costituitiva e irrimediabile, che guasta lo spirito pubblico Egli infatti non solo rimette in mare aperto l'iceberg dell'illegalità italiana, Berlusconi e i suoi, ma conduce una politica fondata sulla menzogna. Finge una politica popolare continuando di fatto la strategia ispirata dai poteri finanziari internazionali. Quella politica che ha generato la Grande Stagnazione, che continua a distruggere il nostro tessuto industriale, soffoca la vita delle amministrazioni comunali, fa dilagare disoccupazione e povertà in tante aree del paese, mette in un angolo Università e ricerca. Renzi finge opposizione ai vertici di Bruxelles, ma lo fa con le parole, perché, da vecchio esponente del ceto politico, bada prima di ogni cosa alla conservazione del suo personale potere. Non va allo scontro con i forti, picchia chi ha a portata di mano, sindacati e lavoratori, accusandoli di essere vecchi, per renderli docili agli investimenti finanziari. E'allora, quale fiducia può rinascere nei cittadini, quale valore viene ridato a legalità e trasparenza in un paese in cui lo stato, prima ancora dei cittadini, parla il linguaggio della menzogna?

Articolo inviato contemporaneamente al manifesto

Quale perversa ironia della storia è oggi all'opera perché Venezia muoia! Tutto ciò che nella sua storia è stato primato, la supremazia>>>

Quale perversa ironia della storia è oggi all'opera perché Venezia muoia! Tutto ciò che nella sua storia è stato primato, la supremazia nei commerci, la genialità delle sue edificazioni, la sua bellezza senza uguali, la minacciano ormai apertamente di estinzione. E il colmo dell'ironia è racchiuso nel fatto che, a differenza di pressoché tutte le altre città del mondo, Venezia, sin da quando esiste è stata dominata da un costante, quotidiano, imperativo: salvarsi. Venezia ha convissuto infatti per secoli con la minaccia della sua distruzione. Chi la minacciava? Le tempeste periodiche dell'Adriatico che di tanto in tanto la colpivano. Ma il pericolo maggiore veniva essenzialmente dalla stesse potenti forze che l'avevano fatta nascere. La città è infatti un'isola - o meglio un insieme di isolotti poi collegati dai tanti ponti oggi calcati da torme di turisti - all'interno di una vasta laguna di circa 550 Km2. Un mare interno che per secoli è stato porto naturale, luogo di pesca, via di transito e di mobilità urbana.

Tanto gli isolotti che la laguna sono l'opera millenaria del trasporto dei tanti torrenti e grandi fiumi alpini (Brenta, Piave, Sile, ecc) che depositavano i loro materiali nell' Adriatico e tendevano a recingere il mare con un cordone di terra. Tanti laghi costieri italiani, lungo l'Adriatico e il Tirreno, debbono la loro origine a tale dinamica. Le isole su cui sorge Venezia son fatte del fango e della sabbia trasportate da quei fiumi, e la laguna è chiusa verso l'Adriatico– salvo l'apertura delle sue “bocche di porto”- dagli stessi materiali. Ma esattamente questa tendenza all'interramento continuo costituiva il più grande pericolo: perché con l'avanzare del fango e dell'acqua dolce in laguna, si estendevano i canneti, il mare tendeva a trasformarsi in palude, e la malaria, con la diffusione delle febbri, avrebbe spinto i cittadini ad abbandonare la città. Per secoli la Repubblica di Venezia ha combattuto contro questa minaccia, deviando i fiumi dalla Laguna, scavando tutti i giorni il fango dai rii e dai canali, costituendo magistrature, come il Magistrato alle acque (1501) che vigilavano costantemente sulle dinamiche della acque interne.
Ed essa è uscita vittoriosa da questa sfida, insegnando a noi contemporanei come si devono fronteggiare le avversità ambientali. Da quando non è stata più la potente repubblica che dominava il Mediterraneo con i suoi commerci, e soprattutto da quando è diventata una singola città dell'Italia, Venezia ha convissuto con un'altra minaccia: l'acqua alta e lo sprofondamento. Ma oggi la insidia un'altra morte e anche in questo Venezia sembra l'avanguardia funesta di un destino che può colpire tutte le città storiche: le viene inferta dal cosiddetto mercato, osannato come suprema divinità del nostro tempo. Come ci ricorda ora in un appassionato saggio Salvatore Settis (Se Venezia muore, Einaudi 2014) «Domina ormai la città una monocultura del turismo che esilia i nativi e lega la sopravvivenza di chi resta e della città stessa quasi solo alla volontà di servire: di null'altro sembra più capace Venezia che di generare bed & breakfast, ristoranti e alberghi, agenzie e immobiliari, vendere prodotti “tipici” (dai vetri alle maschere) allestire Carnevali fasulli e darsi, malinconico belletto, un'aria di perpetua festa paesana».
Che cosa è accaduto? La monocultura di cui parla Settis, ha trasformato una città viva, con il suo artigiano e piccole industrie, il suo Arsenale, con le sue piccole botteghe, i suoi servizi , i suoi mestieri (pescatori, falegnami, idraulici, sarti, calzolai) i suoi cittadini con la propria lingua e memoria in uno spazio artificiale, in una quinta teatrale. Le case di Venezia sono state acquistate da turisti facoltosi che vi trascorrono qualche settimana all'anno – lasciando d'inverno interi quartieri al buio e al deserto – e facendo lievitare i prezzi sia delle abitazioni che di tutti gli altri beni. Il popolo di Venezia non può reggere quei costi e va a vivere nella vicina Mestre, mentre chi rimane ha sempre meno negozi dove fare la spesa, meno idraulici da chiamare in caso di necessità, meno servizi indispensabili alla vita quotidiana. Le tendenze spontanee del mercato –meglio, i meccanismi di un capitalismo incontrastato - cacciano i cittadini dalla città come un tempo minacciavano di fare le febbri malariche. Cosi oggi, Venezia – che è stata per secoli una delle più popolose città d'Italia - è al minimo della sua storia, con poco più di 56000 abitanti. Ricorda Settis che c'è un solo precedente di un tale tracollo demografico, «e fu la peste del 1630».

La condizione in cui versa oggi Venezia è stata più volte denunciata. E corre qui l'obbligo di ricordare almeno un importante testo, uscito da un piccolo editore, Corte del Fontego, Venezia è una città (2009), di Franco Mancuso, con la prefazione di Francesco Erbani. Fondamentale per capire come è stata costruita Venezia, ma anche per le analisi circostanziate sui vuoti che si stanno creando, in città e nelle isole, e sulle possibilità di nuove forme di utilizzo e di vivificazione umana e culturale dei suoi spazi. Una nuova vita può rifiorire a Venezia, se la politica torna ad essere progetto sociale, urbanesimo: vale a dire abitazione degli spazi secondo le direttive di bisogni collettivi.

Il saggio di Settis ha il merito di non fermarsi all' analisi del gioiello lagunare.Venezia è un laboratorio che ci mostra quel che sta accadendo ai nostri centri urbani e quale destino li attende se non verranno governati da una cultura coerente con la loro storia: quella storia che in Italia ha visto fiorire – esempio senza pari in Europa e nel mondo – le nostre “cento città”. E pagine intense Settis scrive sul senso profondo delle nostre creazioni urbane. Esse, ricorda, non sono solo le mura, gli edifici, le piazze, le strade, ma hanno anche un'anima. E l'anima non è solo i «suoi abitanti, donne e uomini, ma anche una viva tessitura di racconti e di storie, di memorie e di principi, di linguaggi e desideri, di istituzioni e progetti che hanno determinato la forma attuale e che guideranno il suo sviluppo futuro. Una città senz'anima, di sole mura, sarebbe morto peso e funebre scenario, come dopo una bomba al neutrone che abbia distrutto ogni forma di vita, lasciando intatti gli edifizi a uso di un conquistatore che arriverà». Riprendendo una metafora di Italo Calvino Settis parla di una “città invisibile”, che vive e anima quella visibile delle pietre.

Ma Venezia è anche un significativo pretesto per denunciare una tendenza che imperversa nel resto d'Italia e del mondo. Non si tratta solo di prendere atto che «La città degli uomini, o “a misura d'uomo” ha ceduto il passo a una macchina produttiva di merci e di consumi». Ma occorre cogliere e combattere la modernità fasulla che avanza, quella tendenza dispiegata che potremmo chiamare la separazione tra architettura e urbanistica, il distacco esibizionistico della singola costruzione, che non ubbidisce ai bisogni, anche estetici di una comunità – come è avvenuto per secoli nelle nostre città - ma è frutto di una invenzione affaristica. Una china culturale incarnata perfettamente nella corsa ai grattacieli, anche quando nessun incremento di popolazione o altra necessità li reclama. «La retorica delle altezze, che trapianta nell'architettura e nella città la competitività dei mercati finanziari».

Merito di questo pamphlet di Settis è infine di aver chiarito che cosa deve significare conservazione e tutela. Questa è tutt'altro che imbalsamazione del passato, come vorrebbero far credere tanti progressisti fautori del “nuovo”, purché sia nuovo. «Il paradosso della conservazione – ricorda – è che nulla si conserva mai né mai si tramanda se resta immobile e stagnante. Anche la tradizione è un continuo rinnovarsi … la memoria storica delle nostre città non richiede la stasi, esige il movimento. Non predica l'imbalsamazione, esalta la vita». La tutela si fa nel flusso della storia che avanza e perciò necessita di cultura, equilibrio, creatività, progetto che interpreti i bisogni collettivi e legga in profondità le tendenze dell'epoca.

Sappiamo ormai bene quale potenza sprigionino le parole nel creare il nostro immaginario quotidiano. Esse sono... >>>

Sappiamo ormai bene quale potenza sprigionino le parole nel creare il nostro immaginario quotidiano. Esse sono il nostro immaginario, dunque i mattoni con cui si costruisce l'edificio della politica. E le parole dominanti, potremmo ripetere con Marx, sono l'espressione delle classi dominanti. Veicolano messaggi in cui si condensano esortazioni e imperativi lanciati alle masse dai potentati economici, intere grammatiche suggerite al ceto politico per indirizzare le loro strategie nel governo degli stati. Pensiamo a una parola come mercati. Un tempo il termine indicava i traffici commerciali, ora una potenza impersonale, un arbitro supremo e indiscutibile a cui tutti devono inchinarsi. “Come reagiranno i mercati?” si chiedono sgomenti politici e giornalisti. Con una parola si nobilita la speculazione, le mosse dei nuovi bucanieri della finanza mondiale, e si caccia in un angolo la sovranità degli stati.

Non è senza significato se ormai da diversi anni le parole nuove che fanno ingresso nella sfera della comunicazione pubblica provengono in prevalenza dal mondo della tecnica e delle merci. L'innovazione linguistica del nostro tempo sembra interamente affidata a termini come software web, wi fi, post, app, oppure iphone, smart phone, tablet, ecc, che costituiscono la prosecuzione merceologica dei lemmi delle tecnologia comunicativa. Se si riflette bene, anche in un ambito nel quale si offre un vantaggio collettivo – quello di una più ampia diffusione della comunicazione e dell'informazione – dominano in assoluto le parole che designano mezzi, strumenti. Utensili per qualche scopo che rimane indeterminato e privo di contenuto.

Questa prevalenza del significato strumentale delle parole su quello dei fini, si osserva bene nel linguaggio corrente della politica . Quali sono i termini ricorrenti, le sdrucite parole del bla bla quotidiano, che riempiono le pagine dei quotidiani, le chiacchiere corrive del discorso televisivo? Sono parole- utensili, mezzi di qualche altro mezzo: riforme, flessibilità, crescita, competizione. Per quale altro fine se non quello di portare doni sacrificali al totem del Pil? E per quale scopo incrementare il Pil? Non è detto. Perché ormai sono diventate impronunciabili le parole benessere collettivo, felicità pubblica, qualità della vita, godimento spirituale, fruizione della bellezza, convivialità. E' un edonismo insostenibile per il potere del nostro tempo, che ha messo al centro della scena l'individuo, solitario consumatore e solitario produttore, che deve lottare come un leone per essere competitivo, per primeggiare, per conseguire l'eccellenza: il tutto per un fine mai detto, ma che si suppone essere l'approdo al paradiso delle merci. Ancora un arsenale di altri strumenti

Giova rilevare, in questo festival parolaio dei mezzi, la scomparsa del termine sviluppo dal dibattito corrente. E' stato interamente assorbito dal lemma crescita (growth), vale a dire l'incremento della della ricchezza senza nessun aggettivo, senza neppure un accenno alla sua qualità, per non dire alla sua sostenibilità. Abbiamo già dimenticato che la crescita – che si vuole per giunta illimitata – si svolge entro i limiti materiali di risorse finite, nella sfera di equilibri naturali fragili, da cui sempre di più dipende la nostra stessa sopravvivenza?

Qui noi cogliamo almeno un tratto del tracollo egemonico in atto nel campo capitalistico. Parlo di egemonia, non di dominio, che si è anzi accresciuto in questi anni di crisi. I poteri dominanti non hanno più parole capaci di indicare i fini per i quali si affannano a indicare i mezzi. Non solo gli stessi mezzi sono diventati sempre più scarsi per una massa crescente di individui. Ma quando si provano a indicare le prospettive, il premio, il traguardo per il quale è necessario oggi ingaggiare la lotta per la vita devono ricorrere al nulla: al termine futuro. Devono cioè rinviare a un tempo che non c'è ancora, a un vuoto limbo di possibilità senza contenuti. E non facciamoci intimidire dalla sprezzante aggettivazione con cui la recente “sinistra neoliberista”, bolla come vecchio e dunque da gettare in discarica, ciò che non appare all'altezza dei comandi più aggiornati del potere economico. Essa infatti disprezza come obsoleto non ciò che non corrisponde agli umani bisogni, non ciò che non ha più radici nella realtà, ma ciò che appare inadeguato alle necessità della crescita, ai bisogni congiunturali delle imprese. E' una ricerca del nuovo che traduce in linguaggio politico un imperativo commerciale: il bisogno incessante di rendere obsolete le merci, per fare arrivare sul mercato quelle appena prodotte, gli ultimi modelli. In quel nuovo pubblicitario traluce la trasformazione spirituale consumatasi negli ultimi decenni dentro l'umana soggettività: la mercificazione della mente.

Dunque, quello delle parole è un territorio dove la sinistra può raccogliere le sue insegne, i suoi simboli, i suoi messaggi, i suoi valori ancora intatti, il suo immaginario accogliente. Noi possiamo mostrare l'umana felicità possibile su questa terra, mentre l'avversario si è trasformato in un aguzzino che comanda paradossali eroismi agli individui: una vita eroica e da poveri in un mondo opulento.La gioia di vivere, il benessere collettivo, la difesa dei beni comuni ( importante conquista recente del linguaggio e dell'immaginario): dalle risorse naturali, alla bellezza dei monumenti e del paesaggio, dal mangiar bene e sano alla sicurezza dei cittadini nel territorio, dalla salubrità dell'ambiente al tempo di vita sottratto al lavoro. E il mezzo per perseguirli non è la competizione, ma la solidarietà: che è un mezzo e al tempo stesso un fine, perché dà gioia anche a chi la pratica, oltre che a chi la riceve. In questi beni essenziali, in queste vie al ben vivere per tutti in società ricche, sono le nostre parole e i fini della nostra lotta . Ma per dire le nostre parole, con i nostri multiformi “dialetti,” con le nostre preziose diversità, abbiamo bisogno di un luogo dove dirle.Per nostra fortuna questo luogo esiste, ma è ancora in pericolo: è il manifesto. Occorre che tutti a sinistra sappiano che senza il manifesto saremmo senza parole, muti. E ancora più dispersi. Se non diamo a Norma Rangeri e ai suoi e nostri compagni la possibilità di ricomprasi la testata subiremo una delle più gravi sconfitte della nostra storia.

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Renzi definisce conservatori i compagni del suo partito, che resistono all'abolizione definitiva dell'art. 18. Non è la prima volta, negli ultimi anni >>>

Renzi definisce conservatori i compagni del suo partito, che resistono all'abolizione definitiva dell'art. 18. Non è la prima volta, negli ultimi anni, che nel dibattito politico esplode il motivo del conflitto tra conservatori e innovatori. Con un rovesciamento di senso rispetto a quel che normalmente significano questi due termini. E' un collaudato artificio retorico per mettere in difficoltà chi difende diritti e conquiste sociali consolidati, bollandolo come oppositore delle splendide novità portate dalla storia che avanza. Ci sarebbe da chiedersi se tutto il nuovo che si realizza nel corso del tempo corrisponda ad aspirazioni generali, porti benefici per tutti.

Prendiamo ad es. il campo della scienza, quello che al senso comune appare come il campo trionfante del progresso. Davvero tutto l'avanzamento scientifico dell'età contemporanea è andato a beneficio dell'umanità? La bomba atomica è stata una delle più grandi innovazioni scientifiche del '900. In campo militare si è passato dalle armi per combattere un nemico sul terreno a uno strumento di genocidio, di cancellazione di tutto il vivente. Mi pare difficile ascriverla tra i progressi dell'umanità. L'amianto è un magnifico materiale ignifugo, che ha trovato infinite applicazioni industriali.E' un vero peccato che esso induca il tumore mortale alla pleura o al polmone. Ma quella magnifica innovazione ci è costata e continua a costarci migliaia di morti all'anno oltre alle somme ingenti per eliminarlo da case e aziende. Anche i gas clorofluorocarburi, quelli che servivano alla refrigerazione, rappresentavano una geniale innovazione chimica. Com è noto, lacerano lo strato atmosferico dell'ozono ed espongono gli esseri viventi a raggi solari che alterano la struttura del dna.
Dunque, non sempre andare avanti significa migliorare le cose. Questa idea che cambiando l'esistente si approdi necessariamente al meglio, che andando più in là si diventi più felici che stando qui, è un vecchio cascame culturale sopravvissuto all'illuminismo. E' una superstizione paesana, e ora dispositivo retorico di un ceto politico senza prospettive, che crede di cambiare il mondo cambiando il senso delle parole.

Ma poi è sempre da condannare la conservazione? Chi si oppone a che un territorio verde venga coperto col cemento di nuove costruzioni genera un danno alla collettività o crea qualche vantaggio agli abitanti del luogo e più in generale ai viventi? Chi lotta perché la via Appia non divenga luogo di lottizzazione per villette private è certamente un conservatore: vuole preservare le pietre di due mila anni fa da edifici nuovi fiammanti. Ma chi esprime rispetto per la bellezza e la grandezza del nostro passato, chi ha una idea di società meno spiritualmente gretta, chi propone la visione di un paesaggio irriproducibile da godere collettivamente, chi si fa carico delle nuove generazioni, chi esprime un senso dell'interesse generale e del bene comune: è da mettere alla gogna? Tutto questo distillato di civiltà dobbiamo buttarlo via perché è vecchio?

Ma la retorica contro i conservatori ha avuto come bersaglio prevalente le tutele dei lavoratori. Tanto il centro-sinistra quanto il centro-destra hanno aperto una vasta breccia di innovazione nel mondo del lavoro: hanno inaugurato l'era del lavoro precario: lavoro in affitto, a progetto, interinale, somministrato, ecc. Un florilegio mai visto di innovazioni legislative. In Italia la Fornero è riuscita a creare una figura unica nel suo genere: gli esodati, lavoratori senza salario e senza pensione. Nessuno può dire che non si tratti di una innovazione. Stabilire a vantaggio di chi è altra questione.

Anche il presidente della Repubblica, nella discussione intorno all'articolo 18, ha portato un rilevante contributo di innovazione. Lo ha fatto sul piano del linguaggio. Ha esortato il governo e i suoi ad avere più coraggio. Coraggio a rendere più facilmente licenziabili operai e impiegati, coloro che tengono in piedi l'economia e i servizi del paese, spesso per un misero salario, coloro che talora entrano ed escono dalla cassa integrazione, che si infortunano, che sul lavoro ci muoiono, che rinunciano alla maternità, che vivono nell'angoscia di un licenziamento che può gettarli in strada da un momento all'altro. Non siamo di fronte a una innovazione? Chi è, nel senso comune universale, coraggioso? Certamente colui che affronta un avversario più forte, che alza la voce contro chi sta in alto. Ad esempio chi mette in atto una politica fiscale contro le grandi ricchezze, chi critica l'arrogante politica bellica degli USA, chi cerca di limitare l'arricchimento privato di tante pubbliche professioni. Il presidente della Repubblica capovolge la verità storica e anche quella delle parole e si schiera contro i lavoratori del suo paese. A favore degli imprenditori, che così potranno disporre in piena e completa libertà della forza- lavoro. Come facciamo a non considerarlo un innovatore?

Ma questa innovazione ci porta “avanti”? Indebolire la classe operaia, dunque il lavoro produttivo non sembra che faccia avanzare le società del nostro tempo. La vasta ricerca di T.Piketty, (Il capitale nel XXI secolo, Bompiani) mostra al contrario come l'ineguaglianza che si va accumulando, stia facendo ritornare indietro la ruota della storia. Misurando il peso crescente che l'eredità va assumendo nelle società industriali odierne, egli ricorda che «il passato tende a divorare il futuro: le ricchezze provenienti dal passato crescono automaticamente, molto più in fretta – e senza dover lavorare – delle ricchezze prodotte dal lavoro, sul cui fondamento è possibile risparmiare. Il che, quasi inevitabilmente, porta ad assegnare un'importanza smisurata e duratura alle disuguaglianze costituitesi nel passato, e dunque all'eredità». Le mort saisit le vif, si diceva un tempo, il morto trascina il vivo, il passato ingoia il presente. I novatori che avanzano innalzando i loro vessilli corrono in realtà verso il passato. L'innovazione dei coraggiosi capovolge non solo la verità morale delle parole, ma anche il corso, preteso progressivo, della storia del mondo.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a il manifesto

Quasi non passa giorno senza che il presidente della BCE, Mario Draghi e gli altri strateghi che presidiano il governo dell'Unione si affannino >>>

Quasi non passa giorno senza che il presidente della BCE, Mario Draghi e gli altri strateghi che presidiano il governo dell'Unione si affannino a rammentarci che in mancanza di “riforme strutturali” l'italia non “riprenderà il cammino della crescita”. Le riforme strutturali: espressione ironica della storia. Chi ha memoria del nostro passato ricorderà che la frase “riforme di struttura” è stata coniata da Palmiro Togliatti, diventando uno degli slogan del PCI tra gli anni '50 e '60. Alludeva a profonde trasformazioni da realizzare negli assetti dell'economia e nei rapporti di potere tra le classi.Ora è finita in bocca ai manager finanziari europei, e ai governanti italiani, e serve a dare una accentuazione di radicalità all'intervento invocato, quasi si trattasse di migliorare più profondamente le condizioni del paese.

In realtà, oltre a mascherare il vuoto di prospettiva, essi cercano di nobilitare la sostanza classista della più importante di queste “riforme”: una maggiore flessibilità e una più completa disponibilità della forza lavoro nelle scelte dell'impresa. Il Job Act in cantiere nel governo Renzi, evidentemente non basta. Occorre poter licenziare con più facilità, per attirare i capitali che girano per il mondo. Oggi noi sappiamo bene quanta fondatezza ha la teoria su cui si fonda tale pretesa. Come ha scritto di recente Luciano Gallino, «La credenza che una maggiore flessibilità del lavoro, attuata a mezzo di contratti sempre più brevi e sempre più insicuri, faccia aumentare o abbia mai fatto aumentare l'occupazione, equivale quanto a fondamenta empiriche alla credenza che la terra è piatta» (Vite rinviate. Lo scandalo del lavoro precario, Laterza 2014).
Ma per la verità noi non abbiamo soltanto questa certezza scientifica, oltre alla prova empirica di una economia capitalistica che continua a generare disuguaglianze, precarietà e disoccupazione. Noi possediamo un inquadramento storico quale forse mai si era raggiunto in età contemporanea per una fase così ravvicinata. Sappiamo “come sono andate le cose” negli ultimi 30 anni grazie a una letteratura ormai di considerevole ampiezza. E possediamo una lettura strutturale della crisi che nessuna altra ricostruzione di parte capitalistica può minimamente scalfire. Ha cominciato in anticipo Serge Halimi, con il Grande Balzo all'indietro (Fazi 2006, ma uscito in Francia nel 2004) – un testo ricco di informazioni e d'intelligenza politica che meritava un più ampio successo - seguito l'anno dopo dalla Breve storia del neoliberismo (tradotto dal Saggiatore nel 2007) di D. Harvey, e a seguire una lunga serie di saggi in varie lingue successivi al tracollo del 2008, cui non è neppure possibile far cenno.
Quest'anno si è aggiunto a tanta letteratura storico-analitica – oltre al grande lavoro di T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, già sufficientemente osannato - un saggio che merita di essere ripreso per la limpidezza della scrittura e la forza documentaria con cui conferma la lettura del trentennio neoliberista: I.Masulli, Chi ha cambiato il mondo? (Laterza). Masulli mostra con dovizia di tabelle e dati statistici ufficiali le tendenze di fondo che hanno governato lo sviluppo del capitalismo negli ultimi trent'anni: la delocalizzazione industriale ( indagata nei suoi effetti nei vari paesi in cui si è insediata), l'innovazione tecnologica basata sull 'automazione microelettronica e la finanziarizzazione dell'economia. Son processi noti ma a cui l'autore aggiunge informazioni spesso sorprendenti. Si pensi alle dimensioni degli investimenti all'estero dei paesi di antica industrializzazione. In Francia essi rappresentavano il 3,6% del PIL nel 1980 e sono arrivati a toccare tra il 60 e il 57% nel 2009 e nel 2012. La Germania da un 4,7% è passata al 45,6% nel 2012. Anche l'Italia ha fatto la sua parte, passando dall' 1,6% del PIL del 1980 al 28% del 2012. Dimensioni di investimenti analoghi anche dagli gli altri paesi, con un dato impressionante per la Gran Bretagna, le cui imprese, nel 2010, hanno investito all'estero 1.689 miliardi di dollari, pari a oltre il 75% del PIL. « Con quei capitali, commenta Masulli, si sarebbero potuti creare 8.722.114 posti di lavoro».

Dunque, i nostri capitalisti hanno trasferito e investito all'estero ricchezze immense, fondando quasi nuove società industriali fuori dalla rispettiva madre patria, utilizzando a man bassa il lavoro sottopagato e senza diritti dei paesi poveri, facendo mancare risorse fiscali gigantesche ai vari stati. E ora gli strateghi dell'Unione vorrebbero far tornare un po di capitali in patria riducendo la classe operaia europea alle condizioni in cui è stata sfruttata negli ultimi 30 anni in Cina o in altre plaghe del mondo. Ma il quadro delineato da Masulli conferma e approfondisce, anche per altri aspetti noti, con dati quantitativi, le linee storiche di evoluzione delle economie nel periodo considerato. Tale quadro mostra ad es. come l'innovazione tecnologica sia servita prevalentemente a sostituire forza lavoro, ingigantendo l'esercito industriale di riserva.Su questo punto forse l'autore sottovaluta l'innovazione di prodotto realizzata con la microelettronica, soprattutto negli USA. Ma è un fatto che essa non ha creato, come avvenuto in passato con lo sviluppo delle ferrovie, l'espansione della chimica, l'industria automobilistica del '900, quella durevole ondata di nuovi posti di lavoro che erano attesi.

Mentre la produzione, come sappiamo, è diminuita rispetto ai decenni precedenti il 1980: e qui tutta la gloria del capitalismo neoliberista precipita nell'ignominia di una sconfitta storica.Nel frattempo i salari sono ristagnati, è aumentata la disoccupazione. Ma ovviamente sono cresciuti i profitti. Questi si! Crescita dei profitti, nota l'autore, cui però non corrisponde un aumento del processo di accumulazione, vale a dire guadagni dell'impresa reinvestiti nel processo produttivo. Una parte sempre più consistente di tali profitti se ne è andato e continua ad andarsene in dividendi e pagamento di oneri al capitale finanziario. E così il cerchio si chiude perfettamente, dando un profilo netto alla storia economica degli ultimi 30 anni: asservimento della classe operaia, disoccupazione crescente e lavoro precario, debole crescita economica, ingigantimento del potere finanziario e ampliamento delle disuguaglianze. E' questa la musica al cui suono danziamo ormai da anni. Mentre la politica degli stati e quella dell'Unione in primo luogo propongono di ripercorre il sentiero che ha condotto al presente disordine mondiale.

Ora, l'aspetto più clamoroso della presente situazione, soprattutto in Europa, è l'ostinazione con cui i dirigenti dell'Unione e soprattutto i governanti tedeschi e nord-europei si ostinano al restar ciechi di fronte alla realtà che trent'anni di storia ci consegnano. Saremmo ingenui se pensassimo solo al dogmatismo fanatico che è nel genio nazionale dei tedeschi. E sappiamo che a ispirare la politica dell'austerità che ci soffoca, come ha ricordato Paul Krugman, è l'interesse dei creditori. Ma io credo che l'europa di oggi e gran parte degli stati di antica industrializzazione testimonino un mutamento storico finora inosservato, che ormai emerge alla luce del sole. Non solo i vecchi partiti comunisti, socialisti, socialdemocratici sono stati strappati alle loro radici popolari e guadagnati al campo avversario. E' cambiata la forma di razionalità dei governanti. Heidegger diceva che << la scienza non pensa>>.Credo che sbagliasse bersaglio: è la tecnica che non pensa. La ragione tecnica applica dispositivi dottrinari alla realtà, attendendo che essi funzionino perché così accade nei laboratori o nelle simulazioni matematiche. Nella loro ratio se il dispositivo non ha successo è perché si sbaglia nella sua applicazione o questa non è completa. Se il Job Act non funzionerà è perché qualche residua norma impedisce all'imprenditore di licenziare i suoi operai quando più gli aggrada. Dunque, la verità che nessuno vuol dire è che oggi siamo governati da uomini che non pensano. Dove il verbo pensare ha una ricchezza semantica ormai andata perduta nel lessico corrente: significa lo sforzo creativo di rispondere alle sfide della realtà ascoltandone la complessità, cercando soluzioni condivise e di utilità generale con l'arte della politica. I tecnici continuano ad applicare dottrine sconfitte dalla realtà . Ma i politici senza dottrina, come il nostro Renzi e prima Berlusconi, non pensano più dei tecnici. Esercitano l'arte redditizia della comunicazione.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a il manifesto che lo ha pubblicato l'11 ottobre con il titolo L’immensa ricchezza delocalizzata

La società industriale del nostro tempo ha deragliato dal suo sentiero storico progressista. Almeno dagli anni '30 dell' 800 a ogni salto significativo della capacità >>>

La società industriale del nostro tempo ha deragliato dal suo sentiero storico progressista.Almeno dagli anni '30 dell' 800 a ogni salto significativo della capacità produttiva delle imprese ha corrisposto un'accorciamento della giornata di lavoro. Cosi è stato per quasi tutto il '900. Una conquista del tempo di vita per i lavoratori, ottenuta tuttavia sempre dopo aspre e prolungate lotte. Negli anni '90 del secolo scorso, negli USA, l'inversione di rotta. La rivoluzione informatica imprime al lavoro una capacità produttiva di rilevante potenza. Come ha scritto Joseph Stiglitz, «nei ruggenti anni Novanta, la crescita è aumentata a livelli per i quali di solito non basta una intera generazione». A questo salto avrebbe dovuto corrispondere un significativo accorciamento della giornata lavorativa, un'ampia redistribuzione del lavoro. Avviene il contrario. Ai primi del nuovo millennio operai e impiegati americani lavoravano in media due mesi in più all'anno dei loro corrispettivi europei.

Che cosa è accaduto? Il capitalismo americano non aveva più opposizione, l'antagonista storico, l'URSS era crollato, il neoliberismo aveva colonizzato l'intero Occidente, ed esso imponeva le proprie strategie con una libertà forse mai posseduta nella sua storia.Per giunta, la rivoluzione informatica riproduceva su scala assai più ampia il passaggio, realizzatosi in Inghilterra, dalla prima alla seconda rivoluzione industriale Allora, l'uso del carbone e dell'energia a vapore aveva liberato l'impresa dai vincoli territoriali che per tutto il '700 avevano costretto le fabbriche tessili a sorgere lungo i fiumi, fornendole una libertà di espansione senza precedenti. In USA comincia l'era, destinata a estendersi in tutti i paesi, in cui vengono definitivamente aboliti i limiti di spazio e tempo delle localizzazioni industriali. Nasce il capitale-mondo, in grado di porre il salario più misero del pianeta a standard di riferimento per trascinare verso il basso tutti gli altri. Si forma il più vasto “esercito di riserva” di forza-lavoro della storia. In Europa le residue resistenze sindacali impediscono l'allungamento dell'orario di lavoro, ma viene bloccato il processo di riduzione ed esplode la pratica del lavoro precario. Così a una capacità produttiva del capitale all'altezza del nuovo millennio corrisponde oggi una organizzazione della vita e della società che indietreggia verso l' 800.

Tutte le analisi di tendenza oggi mostrano come la crescita della produttività del lavoro per opera dell' avanzamento tecnico-scientifico (intelligenza artificiale, robotica, ecc) ridurranno sempre più il ruolo del lavoro vivo, non solo nelle mansioni ripetitive, ma anche nei servizi e nelle professioni. Il capitale finanziario trova sempre meno ragioni per investire nelle attività produttive in una fase di rapida obsolescenza dei prodotti innovativi, di aspra competizione intercapitalistica, di sovraproduzione sistemica, di stagnazione tendenziale. Far scarseggiare il lavoro è una strategia del capitale: indebolisce i lavoratori e li mette in reciproca concorrenza, li costringe ad accettare qualsiasi occupazione, emargina il sindacato, pone sotto controllo la dinamica salariale. Mentre viene ristretta la capacità di investimento da parte del potere pubblico, l'impresa privata appare l'unico agente che crea occupazione, assumendo nella società un ruolo egemonico assoluto. La piena occupazione scompare dall'orizzonte del prossimo decennio.

Il reddito minimo di base è dunque necessario per svincolare le condizioni minime di esistenza degli esseri umani dalla violenza del mercato e dal lavoro, in una fase storica in cui questo è sempre più scarso, precario, destinato a diminuire. Esso verrebbe a svolgere una funzione economica anticongiunturale rilevante. Accrescerebbe e renderebbe stabile la domanda interna in una fase in cui tende a diminuire. Darebbe a tanti cittadini una base minima per intraprendere una qualche attività nella produzione di beni e nei servizi. Fornirebbe a tanti giovani la possibilità di proseguire gli studi e le ricerche avviate, spingerebbe tante delle nostre intelligenze emigrate all'estero e non stabilizzate, a rientrare in Italia. Il reddito minimo riconsegnerebbe al potere pubblico il suo ruolo di redistributore di ricchezza e di ricompositore di un tessuto sociale comunitario. Oggi esso viene minacciato non solo dalla tendenza a trasferire i servizi pubblici, statali e locali, al capitale privato, ma anche dalla strategia di diminuzione della spesa per liberare le imprese da ogni peso fiscale. La tendenza estremistica del neoliberismo è la riduzione dello stato a mero controllore di regole e il dissolvimento della nazione come comunità nell'atomismo individualistico del mercato.
Rassegnarsi ad accettare che “non ci sono i soldi” significa guardare la realtà con gli occhi
dell'avversario. I soldi per il reddito minimo “ci sono”. Essi sono incorporati nella ricchezza
privata distribuita in maniera disuguale nella società italiana, nella rendita fondiaria, nelle fortune finanziarie depositate nelle banche e nei paradisi fiscali, nell'evasione, negli stipendi degli alti dirigenti e nelle loro pensioni, nel sistema fiscale non progressivo, nelle agevolazioni alle imprese, nelle grandi opere inutili, nelle ragnatele clientelari, centrali e regionali. Ci sono per gli armamenti e per le missioni militari. Il presidente della Repubblica ha detto che la “coperta è corta” per giustificare la spesa in armamenti, sottratta ai bisogni dei cittadini. Quella coperta dobbiamo strapparla alla guerra e tirarla dalla nostra parte, opporre le ragioni della vita a quelle della morte.
I soldi si ricavano anche da una generale riorganizzazione del sistema degli ammortizzatori sociali
La lotta per il reddito minimo può fare uscire dalla disperazione individuale milioni di persone, attrarle in una battaglia comune, dare un senso e una direzione al conflitto, grazie a una controparte visibile da battere, ridando credito alla politica come strumento razionale e collettivo di lotta alle ingiustizie.
Anche a sinistra c'è chi teme di creare un popolo di assistiti. Si può rispondere: sempre meglio per tutti una persona assistita che disperata. Ma in una società competitiva come l'attuale, bombardata da mille sollecitazioni consumistiche, chi si contenta del reddito minimo? Ma si può fare di più. In Italia abbiamo davanti un grandissimo progetto: riempire di vita e di attività economiche le aree interne della Penisola che si vanno spopolando, i territori dove per secoli le popolazioni hanno fondato la nostra civiltà. Per tale compito, che comporta la cura del territorio, la rivitalizzazione dell'agricoltura e della silvicultura, sono utilizzabili i fondi strutturali europei, così come per il restauro delle nostre città. Quanto lavoro volontario, ma anche iniziative di piccola impresa, potrebbe attrarre tale obiettivo tra i detentori di un reddito minimo?
La lotta per il reddito minimo può costituire l'occasione per aggregare nuove alleanze politiche nel paese, risvegliare energie, cementare un vasto fronte di lotta. Esistono le forze, sia nella società che in Parlamento, spesso impegnate in battaglie infruttuose, che possono unirsi attorno a un obiettivo così rilevante. Si può coinvolgere il vasto mondo cattolico in una battaglia di civiltà. Come può la Chiesa di papa Francesco, la moltitudine dei credenti, tollerare che la persona umana sia posta in condizioni umilianti dentro società grondanti ricchezza, sia ridotta a mero deposito di energia lavorativa, a materia prima scambiata nel mercato come una qualunque merce?
L'Italia può uscire dalla “crisi”, o per meglio dire dalla sua progressiva e certa rovina, solo con una radicale revisione dei trattati europei e un nuovo ciclo di investimenti. Oppure con una poderosa redistribuzione della ricchezza interna, capace di alimentare un vasto progetto di riconversione ecologica. Il reddito minimo non è la rivoluzione, ma può aprire questa strada. Hic Rhodus, hic salta!

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Il recente pamphlet di Ugo Mattei, Senza proprietà non c'è libertà”falso)... >>>

Il recente pamphlet di Ugo Mattei, nella benemerita collana Idola di Laterza (Senza proprietà non c'è libertà”: falso), recensito su questo giornale da G.Amendolahttp://www.eddyburg.ithttps://eddyburg.it/archivio/lespropriazione-in-nome-della-legge/ (28 agosto), merita una prosecuzione di analisi. Va subito osservato che del grande tema della proprietà privata, non solo in Italia, si occupano quasi solo i giuristi: pochi, eterodossi, coraggiosi studiosi del diritto. Certo, è stato storicamente il diritto a fondare la proprietà privata, a trasformare un rapporto di forza e una appropriazione di ricchezza in una legge protetta dal potere dello stato. E al diritto spetta in primo luogo ritornare teoricamente sui propri passi.Ma non possiamo non osservare che la ricerca storica si tiene ben lontana da questo campo, cosi come la sociologia e le altre scienze sociali. Del pensiero economico, ovviamente, non è il caso di parlare. Deprimente prova della superficialità subalterna dei saperi sociali del nostro tempo, che accettano un processo storico di appropriazione come un dato naturale e indiscutibile.

Mattei rovescia la convinzione dominante secondo cui la proprietà privata fonda la libertà dei moderni, mostrando che essa nasce dalla privazione della libertà di molti ad opera di una èlite di dominatori: «all'origine della proprietà sta il potere e a ogni potere corrisponde una soggezione, ossia qualcuno più debole che, non avendolo, lo subisce.Tanto più libero è il proprietario tanto meno lo è il non proprietario, sicché- anche sul piano logico – l'asservimento può essere affiancato alla proprietà esattamente quanto la libertà». Ed egli conia un geniale sintagma, un'espressione da far diventare di uso comune, la «proprietà privante», come termine che esprime l'altra faccia e la natura escludente della proprietà privata.

Com'è noto, il monumento storico-teorico cui si rifanno i critici della proprietà privata e tanti teorici dei beni comuni è il capitolo 24 del Primo libro del Capitale, dedicato alla Cosiddetta accumulazione originaria. Mattei lo riprende anche in questo testo, dopo averne trattato nel suo Manifesto sui beni comuni. In effetti Marx, tramite una superba sintesi storica, disvela in questo testo l'insieme dei processi da cui nasce il moderno capitalismo. Essenzialmente esso si afferma grazie alla privazione dei mezzi di produzione della grande massa dei contadini inglesi(yeomen) da parte della piccola nobiltà. Ad essi viene sottratta la proprietà della terra e la casa (cottage) e posti in condizione di totale illibertà di decidere sulla propria vita: o il vagabondaggio o il lavoro di fabbrica. Nel frattempo i vecchi e nuovi proprietari chiudono le terre, anche quelle che erano state comuni, e fondano le aziende a salariati. I processi di espropriazione messi in atto dalla nobiltà cadetta con il movimento delle recinzioni (enclosures), a partire dal XVI secolo, non sono altro che la fondazione della proprietà privata dei pochi e l'esclusione e la perdita della libertà sostanziale dei molti. Com'è ormai noto e come Mattei ricorda, questo vasto processo di confisca di terre pubbliche, ecclesiastiche e contadine, su cui si fonda la moderna azienda capitalistica, ha ricevuto una rilevante legittimazione teorica da uno dei fondatori del pensiero politico moderno, John Locke.

Nel Secondo trattato sul governo ( 1690) Locke afferma che qualunque cosa l'uomo «rimuova dallo stato in cui la natura l'ha lasciata, mescola ad essa il proprio lavoro e vi unisce qualcosa che gli è proprio, e con ciò la rende sua proprietà». Immaginare uno stato di natura nell'Inghilterra del XVII secolo, dove un solitario individuo potesse appropriarsi di terre selvagge col proprio lavoro, costituisce una evidente costruzione ideologica, che serviva a legittimare il vasto movimento di espropriazione allora in corso. E naturalmente aveva un valore più generale soprattutto per legittimare ulteriormente il saccheggio nelle colonie americane. Ma Locke segna una svolta rilevante nella formazione del pensiero moderno anche per un altro aspetto. Come ha osservato uno studioso tedesco, Hans Immler, in un vasto studio che meriterebbe una traduzione italiana (Natur in der ökonomischen Theorie, 1985),Locke non solo fonda, con la sua teoria del valore-lavoro «proprietà privata pre-borghese», ma svaluta la natura » come selvaggia e sterile se è bene comune» mentre stabilisce che è l' «appropriazione privata che le dà valore». La natura in sé è un bene inutile, solo il lavoro che se ne appropria, la trasforma in ricchezza: il saccheggio del mondo vivente, e i problemi ambientali che ne seguiranno hanno qui la loro prima, sistematica legittimazione.

Per la verità Marx – che ha uno sguardo meno eurocentrico di quanto Mattei gli attribuisce – sa che il processo di formazione del capitalismo si svolge su scala globale, anche se ha il suo centro in Inghilterra. Egli ricorda, ad es,nel capitolo di cui trattiamo:«Liverpool è diventata una città grande sulla base della tratta degli schi avi che costituisce il suo metodo di accumulazione originaria». Uno dei grandi centri urbani della rivoluzione industriale, orgoglio del capitalismo trionfante, era figlio anche di quel cristianissimo commercio con le Americhe che era la vendita di forza-lavoro in schiavitù. Ma Marx ci ha fornito anche altri strumenti analitici, non meno rilevanti di quelli affidati al celebre capitolo del Capitale. In alcuni passi dei Grundrisse egli ricorda :«la proprietà – il lavoro altrui, passato o oggettivato – si presenta come l'unica condizione per un ulteriore appropriazione di lavoro altrui». Le macchine, la fabbrica stessa, costruite da altri operai (lavoro altrui) non appartengono ai lavoratori , ma sono proprietà dell 'imprenditore e si presentano agli operai stessi come la condizione obiettiva, naturale, che dà loro da vivere, tramite un ulteriore sfruttamento del loro lavoro. Il capitalismo non crea solo merci, ma riproduce e allarga i rapporti di produzione, ingigantisce le gerarchie di potere, rende la proprietà privata un dato di natura che si autoalimenta. «Il diritto di proprietà – continua Marx – si rovescia da una parte (quella del capitalista) nel diritto di appropriarsi del lavoro altrui, dall'altra (quella dell'operaio ) «nel dovere di rispettare il prodotto del proprio lavoro e il proprio lavoro stesso come valori che appartengono ad altri», cioé come proprietà privata del capitalista. E' questa asimmetria originaria di potere, su cui si fonda il rapporto capitalistico di produzione, a diffondere la proprietà privata come architettura generale della società. Questa occulta costantemente il lavoro che l'ha generata e trova poi la legittimazione del diritto e la difesa armata dello stato, presentandosi come una solidificazione geologica indiscutibile.

Mattei insiste spesso sulle retoriche che hanno legittimato la proprietà privata. Credo di poter dare un contributo alle sue riflessioni , accennando al ruolo che le discipline storiche hanno giocato nella costruzione di tali ideologie. Ritengo che la vittoria del modello proprietario nella formazione delle società contemporanee sia inscindibile dal successo economico del capitale. L'azienda capitalistica a salariati a un certo punto è risultata più produttiva delle singola piccola coltivazione contadina o della bottega artigiana. Lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, l'espropriazione della grande massa della popolazione, veniva nascosta dall'efficienza della macchina. La proprietà privata trovava continue giustificazioni nei trionfi produttivi del capitale.E' qui la base dell'egemonia di tale modo di produzione. Non a caso, la pagina di Marx sull'accumulazione originaria è stata trattata dagli storici come la “rivoluzione agricola inglese”, perché mentre i contadini venivano trasformati in salariati, la produzione agricola conosceva incrementi senza precedenti. Quegli storici, infatti, hanno esaltato i processi di liquidazione delle strutture feudali e hanno guardato come a un progresso generale l'avanzare del capitalismo nelle campagne. Perfino un grande storico come Marc Bloch deplorava lo «scandalo del compascuo», vale dire la disponibilità dei contadini di portare le proprie pecore nel fondo del barone dopo i raccolti. La piena disponibilità della terra da parte del proprietario veniva infatti considerata come condizione per un suo più efficiente uso e i vecchi rapporti comunitari visti come un impaccio al pieno sviluppo delle forze produttive.Ma questo atteggiamento apologetico nei confronti dei vincitori – che sorregge tutta la storiografia contemporanea – è figlia anche dell'ambivalenza di Marx, che deplora l'espropriazione dei contadini, ma ammira la borghesia rivoluzionaria impegnata a distruggere il vecchio mondo.E' questo un nodo che ci rapporta all'oggi, su cui occorre investire in analisi e ricerca.

A che serve questa Europa? Ce lo siamo chiesti in tanti, in questi ultimi anni, nei momenti di scoramento, di fronte all'ottusa rigidità >>>

A che serve questa Europa? Ce lo siamo chiesti in tanti, in questi ultimi anni, nei momenti di scoramento, di fronte all'ottusa rigidità con cui i vertici di Bruxelles affrontano i problemi economici e finanziari dell'Unione sotto l'imperversare della crisi. Ce lo siamo chiesto di fronte all'atteggiamento della Germania, che torna a perseguire con altri mezzi una politica di supremazia, nonostante abbia alle spalle la disfatta di due guerre mondiali, la responsabilità recente del più grande massacro dello storia. Continuiamo a chiedercelo avendo rinunciato alla moneta e a tanta parte della nostra sovranità nazionale, senza aver conseguito un più solidale e includente governo del Continente. Ma in questi giorni torniamo a chiedercelo per una ben più tragica ragione. L'impotenza, peggio l'indifferenza, dei gruppi dirigenti dell'UE, ragionieri ingobbiti a fare i conti del PIl, di fronte al massacro del popolo palestinese.Non una parola, una proposta, un tentativo di soluzione è stato balbettato dagli uomini di stato dei vari paesi europei, che da decenni tengono in deposito i loro cervelli presso la Segreteria di Stato di Washington. Ma non sono sufficienti i mille morti di Gaza, in grandissima maggioranza civili incolpevoli, fra cui tante donne e bambini, per sollevare gli occhi dagli affari e guardare in faccia la tragedia ? A che serve questa Europa senza pietà?

Angelo D'Orsi ha denunciato con giusto sdegno il silenzio e il “rovescismo” degli intellettuali (Manifesto del 23/7 ), su cui pesano gravi responsabilità, avendo il compito di spiegare le ragioni complesse del conflitto. Ma anche le opinioni pubbliche del Vecchio Continente appaiono come narcotizzate. Gli europei osservano in TV le immagini del massacro – quelle pietosamente depurate da ciò che è inguardabile – le case distrutte, le donne vestite di nero pietrificate dal dolore, i bambini sanguinanti tra le braccia dei padri disperati. E tacciono. Che cosa è accaduto? Quale sguardo di medusa ha gelato le loro menti? A che serve questa Europa?

Forse una parziale spiegazione è alla nostra portata. I dirigenti di Israele sono riusciti a imporre grazie ai media occidentali – rare volte capaci di una parola di verità – l'immagine di un conflitto alla pari, di due contendenti in lotta con uguali torti e ragioni. Addirittura la propaganda militare dell'esercito israeliano viene trasformata in verità autorevole da prestigiosi intellettuali, i quali, per mestiere, dovrebbero pensare alle parole prima di liberarle nell'aria. In una intervista apparsa su Le Figaro e ripresa da La Repubblica (27 luglio) il filosofo francese Alain Finkielkraut rammenta che «se la civiltà dell'immagine non stesse distruggendo la comprensione della guerra, nessuno sosterrebbe che i bombardamenti sono rivolti contro i civili. No, gli israleiani avvertono gli abitanti di Gaza dei bombardamenti che stanno per fare». Siamo dunque ai bombardamenti umanitari.

Nessuna considerazione per la distruzione delle case di tanta misera gente, delle infrastrutture idriche, delle strade, degli elettrodotti, delle scuole, degli ospedali, del poco bestiame, dei poveri orti. Nessun rammarico per centinaia di migliaia di esseri umani gettati in pochi giorni in una distesa informe di rovine. Ma il filosofo non sa e probabilmente non vuol saper che gli sms annunciano i bombardamenti con pochi minuti di anticipo, che spesso le famiglie sono immerse nel sonno, che i bambini dormono ignorando la ferocia degli adulti e tardano a svegliarsi, che i disperati non sanno dove rifugiarsi una volta lasciate le loro case. E tuttavia il filosofo ha una risposta a questa obiezione: «e quando mi dicono che queste persone non hanno un posto dove andare, rispondo che i sotterranei di Gaza avrebbero dovuto esser fatti per loro. Oggi ci sono delle stanze di cemento armato in ogni casa d'Israele».

A che serve questa Europa se i suoi intellettuali si mettono il doppiopetto di tanta incosciente ferocia? Forse qualcuno dovrebbe ricordare a Finkielkraut un po' di storia. Dovrebbe ricordare che i palestinesi non sono un moderno stato, come Israele, dotato di uno dei più efficienti eserciti del mondo, sostenuto con ingenti aiuti da tutto l'Occidente.Sono un popolo disperso di rifugiati, cacciati dalle loro terre, perseguitati talora dai popoli vicini, umiliati dalla violenza quotidiana dell'occupante. I tunnel sotterranei sono serviti ai palestinesi per ricevere cibo e medicinali e per attivare un mercato clandestino, visto che ben presto Gaza è stato trasformata dai governanti israeliani nel più grande ghetto della nostra epoca. Certo, anche le armi passano nei sotterranei, ma ci si può stupire di questo? Israele dispone di un armamento atomico e si levano strida al cielo perché gruppi e fazioni di un popolo martoriato da otre 60 anni tenti la carta disperata delle armi? I palestinesi dovevano dunque investire in bunker per difendersi dall'immancabile castigo dal cielo, dal mare e dalla terra come già è accaduto con la carneficina della campagna “ piombo fuso” del 2008/09 ?

Con quale onestà, con quale dignità intellettuale si possono mettere sullo stesso piano due opposti estremismi? Possibile che nessun commentatore, nessun giornalista ricordi che sono stati i governanti di Israele, è stato Ariel Sharon a lavorare alacremente per sconfiggere l'Autorità Nazionale Palestinese e gettare il popolo palestinese in braccio ad Hamas ? Chi ha disfatto gli accordi di Oslo, chi ha inaugurato la pratica di sparare dal cielo con gli elicotteri Apache e con i caccia F-16, chi ha esteso gli insediamenti dei coloni nei territori palestinesi, chi ha avviato nel 2002 la costruzione del “muro di sicurezza” in Cisgiordania, chi ha risposto ad ogni provocazione terroristica proveniente da Hamas con una violenza dieci volte superiore, ma rivolta contro le forze e gli edifici di Yasser Arafat? Chi ricorda le immagini del vecchio leader umiliato davanti al suo popolo, reso impotente agli occhi del mondo, rifugiato nelle rovine del suo quartier generale nel settembre del 2002? Chi ricorda le cronache quotidiane di quell'inizio di millennio con l'altalena di attentati terroristici da una parte – che sembravano ispirati dallo stesso Israele, tanto gli tornavano vantaggiosi - e bombardamenti arei, la “punizione esemplare” dall'altra ?

Sharon e la destra israeliana hanno perseguito sistematicamente la distruzione delle rappresentanze moderate del popolo palestinese per far trionfare l'estremismo indifendibile di Hamas. Come avrebbe potuto questa formazione vincere le elezioni del gennaio 2006, se non dopo l'umiliazione di un intero popolo, se non dopo che Israele ha mostrato ad esso che le politiche di mediazione dell' ANP non portavano a nulla? Ma questo è uno dei maggior delitti compiuti dai governanti israeliani negli ultimi anni: l 'avere fatto identificare agli occhi del mondo i diritti violati e le immani sofferenze di un popolo con le velleità impotenti di Hamas. A che serve questa Europa se i suoi intellettuali non sanno pensare con sguardo storico, se si fermano all'oggi, se non gettano luce sulle cause vicine e lontane dei problemi, se sono così proclivi a credere alla favola del lupo, costretto a bere l'acqua sporcata dall'agnello?

Guardando al mondo dissipatore e violento costruito dai potenti negli ultimi decenni, George Steiner si è lasciato sfuggire, pochi anni fa, un timore apocalittico. «Può darsi - ha scritto – che tutto finisca in un massacro». Un bagno di sangue generale e definitivo. A questo desolato timore noi oggi, di fronte al deserto morale di un intero continente, possiamo associare una eventualità certa: in quel caso gli intellettuali europei, prima di sparire, troveranno una rassicurante spiegazione per tutto. A che serve questa Europa?

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Anche in Ita­lia la Grande Crisi è finita. Da qual­che tempo viviamo una nuova fase. Oggi siamo alle prese con gli effetti della poli­tica eco­no­mica>>>

Anche in Ita­lia la Grande Crisi è finita. Da qual­che tempo viviamo una nuova fase. Oggi siamo alle prese con gli effetti della poli­tica eco­no­mica della Ue, che ha tra­sfor­mato la tur­bo­lenza finan­zia­ria esplosa nel 2008 in una guerra sociale con­tro i paesi in dif­fi­coltà. Eppure si può trarre un primo bilan­cio som­ma­rio dei risul­tati poli­tici che essa ha pro­dotto e con­ti­nua a pro­durre. Parlo di risul­tati poli­tici e mi limito alle forze poli­ti­che della sini­stra. Non getto nep­pure uno sguardo al fondo della società che la sini­stra tra­di­zio­nal­mente rap­pre­senta e difende: classe ope­raia, ceti medi, mondo della scuola e dell’Università, lavo­ra­tori intel­let­tuali. Qui gli arre­tra­menti sono pro­fondi e gene­ra­liz­zati. Basti pen­sare all’allungamento dell’età della pen­sione, all’inferno degli eso­dati, al dato stu­pe­fa­cente di 6 milioni di poveri asso­luti da poco cen­siti dall’Istat, basti ricor­dare che quasi un gio­vane su due non ha lavoro. Per bre­vità nep­pure un cenno al sin­da­cato, alla Cgil, un pachi­derma che si è defi­ni­ti­va­mente addor­men­tato.

È sul piano poli­tico, delle for­ma­zioni della sini­stra, che voglio pun­tare lo sguardo. Non doveva essere la Grande Crisi, uno dei più cla­mo­rosi fal­li­menti del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo, occa­sione di cre­scita delle forze poli­ti­che anta­go­ni­ste, di rior­ga­niz­za­zione del fronte alter­na­tivo? Non ha mostrato e non con­ti­nua a mostrare il neo­li­be­ri­smo di essere, con le sue ricette dog­ma­ti­che, il motore che ali­menta le tur­bo­lenze finan­zia­rie e le disu­gua­glianze distrut­tive del tes­suto sociale e della stessa sta­bi­lià eco­no­mica?

Dun­que una sta­gione di pos­si­bi­lità per la sini­stra, che doveva con­qui­stare masse sem­pre più deluse e impau­rite con la forza per­sua­siva del pro­prio diverso rac­conto. Non è andata così. Con ogni evi­denza le varie for­ma­zioni dello schie­ra­mento mul­ti­forme che con­ti­nuiamo a chia­mare sini­stra sono uscite tutte ridi­men­sio­nate, inde­bo­lite o pro­fon­da­mente tra­sfor­mate. Sel alle ultime ele­zioni del 2013 si è atte­stata al 3,20%; Rivo­lu­zione civica, che incor­po­rava Rifon­da­zione comu­ni­sta, al 2,25%. Da qual­che mese il Pd — che certo molto par­zial­mente poteva essere anno­ve­rato nell’area della sini­stra — è diven­tato un par­tito popu­li­sta, coman­dato da un capo. Un capo che mira a cam­biare, d’accordo con la più squal­lida destra che mai abbia cal­cato la scena poli­tica repub­bli­cana, la forma dello stato democratico.

Dun­que, sul piano dell’allargamento del con­senso, da que­sti anni, che pure sono stati di mobi­li­ta­zione e di lotte, di qual­che bat­ta­glia vinta (refe­ren­dum sull’acqua pub­blica), risul­tati più miseri non pote­vamo rac­co­gliere. Senza il 4% della lista «L’altra Europa con Tsi­pras» saremmo al disa­stro. Per dirla con una frase fol­go­rante di Paso­lini.

Ebbene, io credo che tali esiti dovreb­bero costi­tuire oggi il cen­tro della rifles­sione di tutti i pro­ta­go­ni­sti della scon­fitta. Usiamo la parola neces­sa­ria. Scon­fitta. Un punto di par­tenza impre­scin­di­bile per assi­cu­rare un avve­nire pos­si­bile alla sini­stra ita­liana, a una forza di oppo­si­zione in grado di affron­tare le sfide duris­sime che si annun­ciano all’orizzonte. Sapendo che, se passa la nuova legge elet­to­rale in discus­sione in Par­la­mento, l’irrilevanza isti­tu­zio­nale attende buona parte di quel che resta dello schie­ra­mento di sini­stra.
Che cosa è acca­duto? Per­ché il con­senso elet­to­rale desti­nato alle forze di sini­stra è andato al Movi­mento 5 Stelle o all’astensione? Natu­ral­mente non basta una revi­sione cri­tica delle cam­pa­gne elet­to­rali. Occorre rimet­tere in discus­sione espe­rienze del pas­sato, assetti, stra­te­gie, forme di orga­niz­za­zione, stili di lavoro. Io credo che il dibat­tito aperto dall’ «Altra europa per Tsi­pras» – ma anche la discus­sione su que­sto gior­nale, cui ha dato un ulte­riore con­tri­buto Asor Rosa il 19 luglio — dovrebbe essere accom­pa­gnato da «un’azione paral­lela» che io defi­ni­rei senza tanti giri di parole, di ver­tice. Credo nella neces­sità di ristretti tavoli di lavoro nei quali si stu­dino forme pos­si­bili di nuove archi­tet­ture uni­ta­rie delle forze della sini­stra. I pic­coli par­titi sono bloc­chi di potere, neces­sa­ria­mente pru­denti e timo­rosi. Non si sciol­gono senza trat­ta­tive che ne sal­va­guar­dino il patri­mo­nio, i legami sociali. Tale strada non è in con­trad­di­zione con le pro­spet­tive di una for­ma­zione poli­tica che non ras­so­mi­gli ai vec­chi par­titi, che si fondi sulla par­te­ci­pa­zione dal basso, ma è meto­do­lo­gi­ca­mente un momento d’avvio inag­gi­ra­bile. Ci vuole sem­pre un punto d’appoggio per rove­sciare il mondo. E que­sto non può essere il magma delle assem­blee, che sono la ric­chezza della demo­cra­zia, dove si accende il fuoco delle idee, ma che poi devono soli­di­fi­carsi in strut­ture in grado di ren­dere per­ma­nente la mili­tanza poli­tica.
La lista dell’«Altra europa» non sarebbe mai sorta senza l’iniziativa dall’alto di un gruppo di pro­mo­tori. E l’assemblaggio delle varie forze, il nome di Tsi­pras, hanno dato al pro­getto un con­te­ni­tore cre­di­bile che ha mobi­li­tato le forze ren­dendo pos­si­bile il suc­cesso. Lo sforzo di dise­gnare le forme di un’ampia aggre­ga­zione uni­ta­ria risponde anche a tale scopo: susci­tare ener­gie, dare ai con­flitti in atto o atti­va­bili una pro­spet­tiva poli­tica dure­vole e inclu­dente.
Negli ultimi anni abbiamo esal­tato «Occupy Wall Street» o le acam­pa­das dei gio­vani madri­leni. Col sot­tin­teso che in Ita­lia siano man­cate le lotte. Non è così: le lotte sono state innu­me­re­voli, aspre, su tutte le lati­tu­dini della peni­sola e hanno coin­volto gli ope­rai, i disoc­cu­pati, gli stu­denti, gli inse­gnanti, i ricer­ca­tori, i senza casa. Quel che è man­cato - e crea alla fine stan­chezza, ras­se­gna­zione e fuga - è stata una forza uni­ta­ria che facesse da col­lante gene­rale, da con­ti­nua­tore isti­tu­zio­nale della spinta par­tita dal basso. Oggi l’assenza di un tale sog­getto e di una tale pro­spet­tiva è alla base dell’inerzia e della ras­se­gna­zione che si respira in giro.
Eppure, mal­grado tutto, la pro­spet­tiva per la sini­stra rimane aperta. Obbli­ga­to­ria­mente aperta. E occorre un senso di respon­sa­bi­lità assai ele­vato da parte di tutti. Di una cosa infatti si può essere certi: alla ripresa autun­nale nes­suno dei gravi pro­blemi eco­no­mici e sociali che stanno logo­rando il paese sarà atte­nuato. Gli ultimi segnali anzi lasciano pre­sa­gire un ulte­riore peg­gio­ra­mento. Non mi rife­ri­sco ai recen­tis­simi dati sulla pro­du­zione indu­striale in calo e sul ral­len­ta­mento dell’economia tede­sca. È stata la Banca d’Italia ad annun­ciare che nel 2014 la disoc­cu­pa­zione in Ita­lia ha toc­cato il ver­tice uffi­ciale del 12,8% e che nel 2015 cre­scerà ancora, al 12,9%. Nel frat­tempo, udite, udite, il debito pub­blico ha toc­cato a luglio il nuovo record di 2.160 miliardi con un aumento di 96 miliardi dall’inizio dell’anno. Dun­que alla ripresa autun­nale gli ita­liani tro­ve­ranno ulte­rior­mente aggra­vate le loro con­di­zioni: immu­tata e forse cre­sciuta la pres­sione fiscale, sem­pre più estesa la man­canza di lavoro. E nuovi comuni fini­ranno nel frat­tempo in dis­se­sto. Sia che Renzi « faccia - come parla chiaro il lin­guag­gio dei tempi! – la riforma isti­tu­zio­nale, sia che non ce la fac­cia.
Il senso di una con­ti­nuità verso il peg­gio sarà visi­bile a tutti. Basta del resto osser­vare il mini­stro dell’Economia Padoan. Come prima Monti e poi Sac­co­manni, egli non è il tito­lare di un dica­stero, in grado di per­se­guire una poli­tica eco­no­mica auto­noma, di mobi­li­tare inve­sti­menti pub­blici, age­vo­lare il cre­dito. Più mode­sta­mente è un bro­ker che pen­dola tra Bru­xel­les e Roma, cer­cando di mediare tra gli inte­ressi del suo paese e il Castello della Grande Orto­dos­sia dell’Unione.
C’è dell’altro. Agli occhi degli ita­liani la con­ti­nuità verso il peg­gio appa­rirà da un ulte­riore dato.
L’alleanza con Ber­lu­sconi non è più un fatto tran­si­to­rio. È diven­tato un assetto sta­bile del potere poli­tico. E non è vero che la recente asso­lu­zione del boss di Arcore nel pro­cesso Ruby raf­forzi l’alleato Renzi. In quella fac­cenda nes­sun ita­liano crede all’innocenza di Ber­lu­sconi, come non può cre­dere alla nipote di Muba­rak. Al con­tra­rio mol­tis­simi nostri con­na­zio­nali comin­ciano a con­vin­cersi che la «rina­scita» di Ber­lu­sconi possa essere l’esito mediato di sor­didi scambi e patti segreti con Renzi. E comun­que il cava­liere bianco, che doveva rot­ta­mare la vec­chia poli­tica, sem­pre più appare come il capo di una casta che si è rifatta il trucco, utile a sal­vare un noto cri­mi­nale da una con­danna, ma che con­ti­nua a por­tare danni e dispe­ra­zione sociale al paese. Dal cilin­dro di Renzi non escono più coni­gli. E oggi gli ita­liani non pos­sono più guar­dare a Grillo per gri­dare il loro sde­gno o per cer­care una prospettiva.

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Vasto dibattito sulla corruzione dilagante nei media italiani. Si cerca di distillare dalla melma ...>>>

Vasto dibattito sulla corruzione dilagante nei media italiani. Si cerca di distillare dalla melma quotidiana i caratteri di fondo della speciale pestilenza che imperversa sui cieli d'Italia. Nella sua pastorale di domenica 8 giugno Eugenio Scalfari, intimo ormai del nostro pontefice, riferiva il giudizio di papa Francesco sulle cause spirituali che sono a fondamento della corruzione: «cupidigia di potere, desiderio di possesso». Il papa più radicale dell'evo moderno coglie nel segno. Ma certo questa attitudine all'accaparramento di beni e potere, che costituisce la febbre quotidiana dell'individuo contemporaneo, è una costruzione storica, non il risultato della perduta innocenza dell'Eden. E' il frutto dell'immaginario collettivo soggiogato dai valori dominanti, drogato dalle trombe quotidiane di un linguaggio pubblico fatto di esortazioni, di incitazioni a crescere, a correre, a produrre di più, a lavorare più a lungo, a consumare oltre, a essere flessibili, efficienti, più belli, più giovani, ad “entrare nel futuro” tramite l'acquisto di qualche nuova auto o televisore ad ampio schermo.

E' dunque l'etica neoliberistica – per fare il verso a Weber – che anima l'attuale spirito del capitalismo, a forgiare gli individui, pronti a qualunque misfatto per ubbidire agli imperativi dell'epoca. E i media, che ora vendono al pubblico le notizie-merce sulla corruzione, sono gli stessi strumenti che distillano correntemente gli impulsi ideologici di cui essa si alimenta. Ma la corruzione mostra anche dell'altro: lo stato nazionale, non solo va perdendo la sua sovranità politica, vede anche disfarsi i suoi collanti civili, per il venire meno di un 'idea di società come progetto collettivo.

Tuttavia, il fenomeno di cui si parla in questi giorni – che certo in Italia assume caratteri speciali – non può essere limitato agli episodi di accaparramento di denaro, aste e bilanci truccati, come fanno universalmente cronisti e commentatori. Gli scandali dell'ultimo mese, per essere afferrati nella loro gigantesca portata, vanno riportati alla misura delle “grandi opere” e collocati nel contesto italiano.

Nelle intenzioni oneste (e nella pubblicità politica) le grandi opere avrebbero il fine di mettere insieme investimenti pubblici e capitali privati per realizzare manufatti di generale utilità, creando al tempo stesso un certo numero di posti di lavoro temporaneo, allargando il mercato dei materiali per alcune fasce di imprese. Osservate nella realtà esse appaiono costruzioni ben più complesse: costituiscono un modo di operare del capitalismo del nostro tempo. Le grandi imprese non investono nella produzione di un nuovo bene, ma nella creazione, in genere, di un servizio. E utilizzando una materia prima non riproducibile: il territorio. Le grandi opere si realizzano consumando e manipolando in modo più o meno irreversibile il nostro habitat. Ed esse sono possibili, com'è noto, grazie al protagonismo del potere pubblico. E qui si annida una prima e spinosa questione.

Chi è il potere pubblico? In genere un sindaco, gli amministratori locali, parlamentari, dirigenti di partito, vale a dire rappresentanti del ceto politico. Questa nuova figura del nostro tempo, senza più ideali a cui ispirarsi, al momento di entrare in contatto con le grandi imprese, subisce una metamorfosi incontenibile. I modesti politici locali e nazionali, immersi nella normale routine, di colpo si ritrovano detentori di un potere enorme, quello di concedere una porzione del territorio nazionale all'uso del capitale privato. La politica entra in contatto con le grandi imprese e tale passaggio le squaderna davanti possibilità impensabili: danaro, potere, contatti importanti con le élites della finanza, visibilità mediatica, buona stampa, ecc. Buona stampa: quel che non emerge mai nelle cronache e nei commenti di questi giorni è il potere di formazione di opinione pubblica che hanno le grandi imprese, attraverso i media locali e nazionali. Quanta nascosta corruzione lega il potere economico-finanziario al mondo del giornalismo?

E' evidente che da questo contatto tra grande impresa e politica sortisce un risultato ormai costante: scolorisce sempre più il proposito di realizzare il bene pubblico e nasce una convergenza di interessi tra due distinti poteri, in cui soccombe l'interesse collettivo.

Sorge dunque una prima rilevante questione: com' è possibile che dei singoli cittadini, in quanto semplicemente eletti (sindaco, parlamentare, ecc) si intestino la potestà di decidere sul destino di aree a volte vaste e delicate del nostro paese? A chi appartiene la Laguna di Venezia, all'ex sindaco Orsoni, all'ex ministro Galan e ai suoi predecessori o, per caso, agli abitanti di Venezia? Se non altro perché la Laguna, e la stessa città che noi ereditiamo, sono il frutto di un'opera secolare di conservazione, realizzata con ingenti sforzi da innumerevoli generazioni di veneziani. E la Val di Susa - già collegata alla Francia con un ferrovia internazionale, con una autostrada e con altre due strade minori - che si vuole sconvolgere con un tunnel di ben 57 km? A chi appartiene la Val di Susa, al sindaco di Torino, a Prodi a Berlusconi, al ministro Alfano, che l 'ha messo sotto assedio con una operazione di guerra di posizione? O non per caso alle popolazioni che da secoli l'hanno resa produttiva contribuendo alla ricchezza nazionale, che l'hanno curata e mantenuta per noi e per le generazioni che verranno? E dov'è il superiore fine nazionale che dovrebbe far tacere i diritti locali? E il sottosuolo di Firenze, dov'è in corso una dissennata opera di escavazione per costruire una stazione sotterranea destinata alla TAV? Appartiene all'ex sindaco Renzi o agli attuali ministri in carica? E che dire dei costi, che secondo il parere di esperti come Marco Ponti, sono di almeno 4 volte superiori rispetto a una stazione di superficie ? Senza dir nulla dei pericoli di dissesto che corre la città, patrimonio dell'umanità. Sono affari degli italiani o del ceto politico, alcuni rappresentanti dei quali sono già sotto inchiesta per questi lavori?

Ma c'è, nel caso delle grandi opere italiane, un aspetto che getta su di esse un'ombra di discredito universale e irrimediabile, sotto cui bisognerà seppellirle. E si deve partire dalla domanda: ma in Italia abbiamo davvero bisogno di grandi opere? Abbiamo bisogno di trasformare la Stazione Centrale di Milano in un labirinto di boutiques che rallentano l'accesso al metro, di costruire una sontuosa opera da archistar nella stazione di Reggio Emilia, cattedrale nella campagna per pochi treni e per pochi passeggeri ? Ma noi abbiamo quasi tre milioni di pendolari, lavoratori che tengono in piedi il Paese, serviti da treni in condizioni degradate. E i treni merci? Il trasporto su merci arriva oggi a coprire un misero 6% del totale dei flussi, mentre cresce di anno in anno il trasporto su gomma e le autostrade sono al collasso. E' così che si sostiene il sistema-paese?

Ma tali considerazioni valgono come preliminari per una situazione di paradosso ormai esplosiva della vita italiana: noi abbiamo davanti una gigantesca e ignorata questione territoriale, fonte di costi continui e crescenti che dissanguano le finanze pubbliche. Il nostro territorio, che per secoli è stato sistematicamente curato e posto in equilibrio dalle popolazioni contadine e dagli ingegneri idraulici, oggi non ha più manutentori, è assediato dal cemento, viene anzi progettualmente devastato dal potere pubblico con le grandi opere. Eppure, ce lo hanno ricordato di recente gli studiosi che hanno collaborato a un volume dell' Istituto Nazionale di Geofisica, (ne ho scritto sul il manifesto del 19 giugno) per i disastri idrogeologici degli ultimi 50 anni noi sopportiamo un costo annuo di 4,5 miliardi di euro. E una somma quasi equivalente spendiamo nel riparare i danni prodotti dai terremoti che con implacabile periodicità, ogni 4-5 anni, colpiscono qualche nostra città o centro abitato.

Dunque quale etica civile può esserci nel progetto di grandi opere che, a prescindere dalla corruzione, distraggono danaro pubblico in opere di dubbia necessità a fronte dei bisogni drammatici del nostro territorio? Mentre le scuole dei nostri ragazzi sono insicure? Mentre le vere “Grandi opere”, quelle che ereditiamo dal nostro passato, da Pompei alla necropoli fenicia di Tuvixeddu in Sardegna, rischiano la degradazione per assenza di cure? Ecco un vasto campo egemonico che la sinistra radicale e popolare può occupare: propugnando un vasto progetto di piccole opere, poco costose e ad alta intensità di lavoro, diffuse, mirate a creare un sistema efficiente di trasporti su ferro, a valorizzare le aree interne con agricoltura e forestazione di qualità, a curare i fiumi e utilizzare le acque interne. Rendiamo permanente nell'immaginario nazionale l'identificazione fra grandi opere e la casta corrotta e imponiamo la nostra superiore progettualità.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al
manifesto, che lo ha pubblicato con un bel titolo (
I topi ballano nel formaggio della Grande Opera) e un utile sommario («Devi essere pronto a qualunque misfatto per far girare la macchina. E’ l’etica neoliberista, lo spirito dell’attuale capitalismo. Modesti politici locali e nazionali di colpo diventano padroni di un territorio da cedere al privato. Corruzione e distruzione vanno insieme») il 24 giugno 2024

All'infuori dei Paesi Bassi, che hanno dovuto strappare tanta parte del loro territorio al Mare del Nord, non esiste in Europa un paese più artificiale >>>

All'infuori dei Paesi Bassi, che hanno dovuto strappare tanta parte del loro territorio al Mare del Nord, non esiste in Europa un paese più artificiale dell'Italia. Artificiale nel senso che gli uomini hanno dovuto sovrapporre i loro artefatti al sostrato naturale originario per potervi vivere. E non mi riferisco solo a quella « patria artificiale » che Goethe individuava nelle sontuose rovine romane, testimonianze di una colonizzazione senza precedenti del suolo italico. Ma anche a qualcosa di più antico e profondo. Troppo precocemente, infatti, la Penisola si è riempita di popolazioni rispetto alla sua “maturità” geologica. Gran parte delle nostre terre emerse risalgono solo a un miliardo di anni fa, ci ricordano i geologi, una giovinezza che dà la febbre al nostro suolo, con ben 4 vulcani attivi, e una sequela senza fine di terremoti di varia potenza e distruttività. Ma a rendere bisognoso di artefatti il nostro territorio, oltre alla sua giovinezza geologica, contribuisce la sua morfologia. La nostra più grande pianura, la valle del Po, è un immenso catino in cui precipitano centinaia di corsi d'acqua dall'imponente barriera delle Alpi. E' il più complesso sistema idrografico d'Europa, a cui le popolazioni han dovuto dar ordine con un lavoro oscuro durato millenni. Ancora nel XIX secolo alcuni ingegneri idraulici ricordavano che il Po del loro tempo, con il suo corso unitario e relativamente ordinato, era « opera degli uomini ». Una costruzione artificiale, dunque, il risultato di una lotta delle popolazioni che hanno dovuto talora per più generazioni fare i conti con alluvioni disastrose. Come la “rotta di Ficarolo” nel XIII secolo, che sconvolse buona parte della bassa pianura padana per alcuni secoli.

Ma l'Appennino, un vero e proprio caos sotto il profilo della composizione geologica, incombe su tutto lo stivale peninsulare. Come scriveva nel 1919 un gran commis d'etat, Meuccio Ruini, « contorno e rilievo, clima, abitabilità e comunicazioni, relazioni storiche, ogni cosa insomma della Italia penisulare è signoreggiata dall'Appennino e ne riceve l'impronta .>> E questa impronta ha pesato in maniera rilevante non solo sulle colline interne, dove si sono concentrate le economie italiche e italiane, ma anche lungo le pianure costiere, impaludate e ridotte a maremme dai materiali appenninici trascinati a valle dai torrenti. L'Italia moderna è il risultato di un immensa, secolare, totalitaria bonifica dei suoi assetti naturali. Posso portare in proposito – al di la di quello che la ricerca storica ci racconta – una testimonianza singolare. Quando nei primi anni '80 ho studiato la vicende delle bonifiche italiane – per un testo curato insieme a Manlio Rossia Doria, edito poi da Laterza – ho trovato le mie più originali fonti documentarie nelle relazioni degli ingegneri impegnati sul campo in questo o quel lavoro di bonifica. Sia che si trattasse di lavori nel Bolognese o nella valle del Tevere o nella piana del Volturno, nel XVIII o nel XIX secolo, chi pianificava gli interventi si sentiva in obbligo di far precedere il proprio progetto con una una premessa storica sugli interventi che in quello stesso sito erano stati realizzati uno o due secoli prima da altri bonificatori. Una fonte preziosa di informazione storica e insieme la prova di una trasformazione ininterrotta del territorio attraverso successive generazioni. Per rendere abitabili le terre, per estendere i suoli destinati alla coltivazione, per tracciare strade e vie di comunicazione le nostre popolazioni hanno dovuto costantemente trasformare l'habitat naturale, perché esso tende naturalmente al disordine idraulico e al caos dei processi erosivi. Dunque, il nostro è un Paese dove più che altrove le popolazioni devono fare costantemente manutenzione del suolo, altrimenti gli equilibri precipitano. Una condizione necessaria che si è resa storicamente possibile grazie alla presenza secolare dei contadini sulla terra, in virtù del loro essere manutentori del suolo oltre che produttori di derrate agricole. Una condizione, com'è noto a tutti, che oggi non si da più. Il nostro territorio è rimasto abbandonato, in balia delle forze naturali che tendono al disordine idraulico. Non solo. La storia ci ricorda la fragilità della crosta terrestre su cui viviamo. Negli ultimi 100 anni abbiamo subito in media un disastro sismico ogni 4-5 anni e dunque abbiamo dovuto investire costantemente risorse nella ricostruzione di abitati e città. Anche i terremoti ci costringono costantemente a ritornare sui nostri passi, a rifare i nostri artefatti su una natura instabile. Ma forse la catastrofe più grave il nostro paese l'ha subita a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Col passare dei decenni, per arrivare ai nostri anni, è venuta affermandosi una classe dirigente fra le più incolte, irresponsabili e predatorie della nostra storia. Il suolo è diventato occasione di profitti, merce da immettere sul mercato. Una cementificazione illimitata e crescente, magnificata talora con la retorica della Grandi opere, rende il territorio del Bel Paese – che avrebbe bisogno di risorse e manutezione costante, alimentate dalla consapevolezza storica dei suoi drammatici caratteri originali – un luogo di disastri e di spese senza fondo a fine di riparazione.

Ci ricorda ora questa condizione, con grandissimo merito, il libro a cura di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, L'italia dei disastri. Dati e riflessioni sull'impatto degli eventi naturali.1861-2013, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Bologna 2013. I curatori, che nel 2011 avevano dato un importante contributo al centenario dell'Unità con Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni ora ritornano sul centenario con una ricostruzione che racchiude un po' tutti gli eventi catastrofici che hanno colpito la Penisola. Nel testo, oltre a loro scritti, ospitano un largo ventaglio di studiosi che si è cimentato con una seria ricerca storico-scientifica sugli eventi più disparati: le alluvioni del Tevere e della Nera (P.Camerieri e T.Mattioli); di Roma nel 1870 (M:Aversa), le alluvioni e le frane dal dopoguerra a oggi (G.Botta); il Vajont ( G. B.Vai); le inondazioni del Po dal 1861(F. Luino), l'indagine sulle frane alla luce degli eventi estremi e le aggressioni antropiche (M. Amanti); le eruzioni del Vesuvio dal 1861 al 1944 ( G.P.Ricciardi) ; i terremoti distruttivi (E.Guidoboni e G. Valensise). Ma l'elenco è più lungo di questi radi cenni.

I curatori, che hanno alle spalle studi rilevanti sulla storia dei terremoti, non solo italiani, mettono il peso della loro competenza e di quella dei numerosi scienziati che collaborano al volume, nel dibattito corrente sulle alluvioni disastrose degli ultimi anni. E mostrano verità assai poco dubitabili, anche se esse tardano a diventare cultura diffusa, politica lungimirante del ceto politico.Probabilmente il carattere della piovosità in Italia, sotto il profilo quantitativo, non è mutato sensibilmente, Questo sembrano dire le statistiche storiche. Ma forse è mutata l'intensità e la concentrazione temporale delle precipitazioni. E' questo un punto ancora incerto e su cui è aperta la discussione. Per il resto la vicenda recente dei nostri paesi che franano e delle città che finiscono sott'acqua costituisce la conferma una verità storica: l'Italia è un paese fragile, aggredito non solo da pressioni antropiche, ma anche da mire speculative, funestato da frequenti terremoti, ha una strada obbligata davanti a sé. E' quella della prevenzione. Prevenzione e cura del territorio, la stessa che per secoli ha permesso all'Italia di ospitare una popolazione crescente, economie diffuse, di fondare la sua civiltà.

Il puzzle sconvolto che del quadro politico europeo ci consegnano le elezioni... >>>
Il puzzle sconvolto che del quadro politico europeo ci consegnano le elezioni offre materia svariatissima di riflessione. La prima, immediata, riguarda la terremotata geografia elettorale del Vecchio Continente. L'avanzata travolgente e imprevista dell'Ukip nel Regno Unito, del partito di Le Pen in Francia ( oltre al diverso successo di tutte le formazioni antieuropee nei vari Paesi), l'umiliante tracollo dei socialisti francesi, la sconfitta di Rajoy in Spagna e di Samaras in Grecia ratificano la disfatta senza appello delle classi dirigenti e del ceto politico che ha governato l'Europa negli ultimi 10 anni. Dopo il disastro sociale provocato dalla politica di austerità arrivano i conti anche sul terreno politico. Molti partiti socialisti pagano duramente la loro ubbidienza alle ricette della Troika. Su questa sconfitta dei partiti protagonisti dell'aggressione al welfare europeo in nome dei conti pubblici bisognerà lavorare, mostrando e denunciando il fallimento complessivo del progetto conservatore dei partiti al servizio dei poteri della finanza.

Guardando all'Italia, prima di prendere in esame il dato più vistoso dei risultati, vale a dire la rilevante affermazione del PD di Renzi, qualche considerazione sul successo dell'Altra Europa con Tsipras. E' un successo, una vittoria della sinistra radicale e popolare e non c'è alcuna autocelebrazione in questa affermazione. Il pur risicato 4% del risultato elettorale dice molto di più dei numeri. Bisogna riflettere un po' meno frettolosamente del solito sugli speciali meccanismi che si mettono in moto nelle campagne elettorali.

La lista Tsipras messa su in fretta e furia all'ultimo momento era schiacciata fra due colossi. Ma la drammatizzazione orchestrata nelle ultime settimane tra Renzi e Grillo, il consueto ricatto del voto utile aveva messo in un angolo questa formazione. Bisogna prendere atto di un dato storico nelle psicologie degli elettori del nostro tempo: quanto più la democrazia rappresentativa appare debole e inefficiente, tanto più i cittadini tendono ad affidare ai partiti con più chances di vincere le loro speranze di contare qualcosa. Ho fatto un po' di campagna elettorale e ho potuto misurare sui posti il peso ricattatorio che la minacciata vittoria di Grillo ha avuto su elettori pur delusi dal PD. D'altra parte, nessuno può dimenticare che, rete o non rete, senza la presenza costante dei candidati in TV le elezioni non si vincono.
E dov'erano i candidati dell'Altra Europa? Se si esclude qualche rada apparizione di Tsipras, di Barbara Spinelli e Moni Ovadia nessuno li ha visti. Infine un'ultima pesante penalizzazione. Nella società dello spettacolo, che ingloba da decenni la lotta politica, la figura del leader continua a svolgere una funzione fondamentale. La lista aveva un leader, è Alexis Tsipras. Personalmente ho condiviso e apprezzato la scelta coraggiosa e simbolicamente significativa di candidare questo giovane greco che ha unificato la sinistra del suo Paese, martoriato dalle politiche punitive dei poteri europei. Ma la sua scarsa popolarità e il suo essere uno straniero è stato un handicap non da poco, che accresce il valore del risultato finale della formazione a lui intestata. I partiti maggiori avevano i loro leader tutti i giorni in TV, Tsipras è apparso un paio di volte e non parlava italiano. La sinistra radicale e popolare in Italia ha dunque una base molto più ampia di quanto non dica quel 4%, che ci servirà per continuare il percorso intrapreso.

La vittoria di Renzi è clamorosa, ingigantita dalle false previsioni della vigilia, le quali appaiono ormai strumenti di propaganda elettorale, armi di condizionamento degli elettori volte ad annientare le minoranze. In quel successo confluiscono più elementi, alcuni congiunturali e fortuiti, altri più profondi e forse destinati a diventare sistemici nella vita politica italiana. Senza dubbio ha molto giovato al segretario del PD essere il nuovo presidente del Consiglio: la “luna di miele” che di solito accompagna i primi mesi dei nuovi capi di governo è stato uno sfondo non da poco per la sua campagna elettorale.

Ma Renzi ha operato scelte politiche che andavano incontro ad aspettative molto diffuse. Una di questa ha interpretato forse l'esigenza più profonda dei cittadini europei, che rimane ancora largamente insoddisfatta e che spiega l'enorme astensionismo e l'avanzamento di tante formazioni di destra nel Continente: la stanchezza e talora l'odio nei confronti del ceto politico di governo e di opposizione, aggrappato ai propri privilegi , mentre classi popolari e ceti medi indietreggiano sotto i colpi della crisi e delle loro stesse politiche. L'eliminazione dei vecchi gruppi dirigenti del PD e la formazione di una squadra di governo in cui spiccano volti di giovani donne sorridenti è un gesto politico significativo e una mossa pubblicitaria di grande effetto. Così come la limitazione per legge degli stipendi degli alti dirigenti pubblici. Renzi, come Berlusconi, è continuamente in campagna elettorale.
Tali operazioni non sono interamente da demonizzare ma, certo, secondo la saggezza gattopardesca, cambia tutto perche nulla non cambi. Quale differenza politica abbiamo potuto apprezzare tra il ministro della difesa Pinotto e Mario Mauro che l'ha preceduta nel governo Letta? Dove sta la differenza tra Maria Elena Boschi e Quaglierello ex Ministro per alle riforme istituzionali? E tra Giovannini e Poletti al Lavoro? Qui anzi il peggioramento è netto. Senza dire delle nomine ai vertici delle grandi imprese pubbliche. Certo, dopo anni di tagli alle pensioni, di decurtazione della spesa sociale, di inasprimento della pressione fiscale – pur dentro la marea ancora montante di una disoccupazione senza precedenti – redistribuire, come ha fatto Renzi, 80 euro a una vasta platea di lavoratori, con la promessa di estenderli ad altre figure, rappresenta un fatto simbolico che è stato sbagliato sottovalutare nei suoi effetti elettorali.

La campagna elettorale ha fatto il resto insieme agli errori di Grillo e i limiti del movimento 5Stelle. Con il suo nuovo governo Renzi si è presentato come non responsabile dei disastri della politica di austerità, che i precedenti dirigenti del PD avevano condiviso con i vertici di Bruxelles. E' apparso come il dirigente “nuovo”, che vuol “cambiare verso” in Europa e come colui che, rafforzato dal voto, avrebbe potuto esprimere in campo continentale lo stesso dinamismo innovatore messo in campo in Italia. I toni forcaioli da parte di Grillo hanno spaventato una fascia ampia di elettori incerti, che potevano essere attratti nell'orbita del movimento o sedotti a sinistra. E la mancanza di proposte credibili di prospettiva ha fatto il resto. Se il movimento 5S non attiva alleanze con la sinistra, non aiuta quella interna al PD per aprire crepe nel suo spazio moderato, non concorre a far vincere battaglie nel Paese e nel Parlamento, da domani comincia la storia della sua definitiva irrilevanza.

In Italia il moderatismo culturale e politico ha radici vaste e profonde e parte di questo, con l'eclisse di Berlusconi, trova ora in Renzi un nuovo punto di riferimento. Si sposta con grande fiuto un po' a sinistra, ma trova un approdo sicuro. E' significativo, a tal proposito, che Berlusconi, anche in campagna elettorale, non abbia potuto (e voluto?) demonizzare la figura di Renzi. Il PD, dunque, si presenta come una formazione interclassista in grado di aggregare e stabilizzare un ampio fronte sociale e politico nei prossimi anni.

Una nuova DC? Forse peggio, perché quel partito aveva un gruppo dirigente e il PD rischia di avere un solo capo carismatico. Forse meglio, per la necessità, cui il PD non può sfuggire, di cambiare la politica europea di austerità. O si riavvia un grande progetto sociale, al più presto, o l'Italia tracolla e l'UE va in rovina. La sinistra radicale ora in corsa ha spazi ampi di manovra. Dovrebbe compiere la grande impresa di dare ai temi originali elaborati negli ultimi anni (beni comuni, reddito di cittadinanza, nuova architettura europea, ecc) una forma politica insieme plurale e trasparente, una reinvenzione originale del partito politico che vada oltre la tradizione novecentesca.

Ma l'episodio dell'Olimpico di Roma del 3 maggio, di cui sono piene le cronache... >>>

Ma l'episodio dell'Olimpico di Roma del 3 maggio, di cui sono piene le cronache di queste giorni, è solo uno squallido lacerto debordato dal mondo del calcio? La scena di Genny 'a Carogna, il capo-curva napoletano che tiene in scacco una manifestazione sportiva a cui partecipano decine di migliaia di spettatori, presenziata da alcune fra le maggiori cariche dello Stato, seguita in tv da milioni di spettatori, è stata resa possibile solo dalla violenza plebea e dallo sterminato squallore che caratterizza da anni l'ambiente calcistico italiano? O non è piuttosto la manifestazione drammatica, l'ultimo gradino di degradazione cui è giunta la decomposizione dello spirito pubblico nazionale? Perché Genny 'a Carogna, non è un episodio, un lazzo folklorico uscito dai bassifondi della vita napoletana. E' un pezzo della nostra storia, reso legittimo dal filo rosso che marchia da decenni il nostro passato e soprattutto preparato dagli sfregi subiti dalla legalità repubblicana negli ultimi anni.

Ma come si fa – lo fanno in maniera unanime tutte le televisioni e i giornali – a dare tanto spazio a questo episodio e ai soliti strombazzati provvedimenti governativi e non dire nulla, o quasi, di ciò che quell'episodio rappresenta, quale elemento di continuità allarmante viene a rappresentare nel processo degenerativo della vita civile italiana? Forse che la capacità di ricatto di un tifoso nei confronti dell'intero stato è disgiungibile, ad esempio, dalla gara che tanti giornalisti italiani (prevalentemente di sinistra) hanno ingaggiato per intervistare Silvio Berlusconi nei loro programmi televisivi? I semplici di mente obietteranno subito: che cosa c'entra? Ma Silvio Berlusconi ha subito una condanna definitiva per un reato grave contro la Pubblica amministrazione che egli doveva rappresentare e tutelare. Non è dunque un pregiudicato, che ha colpe gravi nei confronti della collettività, e per questo, quanto meno, non deve essere reso protagonista della scena pubblica nazionale? Ma Berlusconi non ha solo subito questa condanna. Com' è noto - e ci si dimentica volentieri - si è macchiato di svariati delitti infamanti, alcuni accertati, altri prescritti, altri oggetto di processi in corso - dalla corruzione dei giudici allo sfruttamento della prostituzione, dall' “acquisto” di parlamentari alla concussione. Ora, non tutto è stato penalmente sanzionato o è rilevante.

Ma il pedigree politico di Berlusconi è indubbiamente quello di un capo-curva, per così dire, della vita politica nazionale. In qualunque paese civile d'Europa e del mondo egli sarebbe oggi in carcere e comunque tenuto lontano dalla vita pubblica. Da noi succede l'impensabile: viene addirittura ricevuto dal presidente della Repubblica, il 3 aprile scorso, per la seconda volta dopo la condanna. La maggiore carica dello stato riceve un pregiudicato che ha inferto ferite gravissime al senso della legalità del nostro paese, a partire dal conflitto di interessi. Ma qualche superstite persona onesta è in grado ancora di domandarsi quale effetto produce un simile evento nell'immaginario civile degli italiani ? Berlusconi è un condannato o è stato graziato?O addirittura è innocente e il colpevole potrebbe essere Napolitano? Da che parte è il torto da che parte è la ragione? Chi ha frodato il fisco per centinaia di milioni? Ma la magistratura italiana commina davvero sanzioni a chi delinque, o chiude un occhio se il delinquente è un potente? E allora di che stupirsi se i poliziotti applaudono i loro colleghi assassini, come hanno fatto a Rimini, visto che essi sono rientrati in servizio dopo aver pestato a morte un ragazzo inerme? Di che stupirsi se Giuseppe Scopelliti, ex presidente della Regione Calabria, condannato a 6 anni in prima istanza, viene candidato dal suo partito, membro del governo, alle elezioni europee? Nel nostro paese i servizi segreti di uno statarello dittatoriale possono sequestrare una persona (la Shalabayeva) e il ministro responsabile (Alfano), restare al suo posto. E' ancora ministro dell'Interno del governo che “combatte la palude”.

E' questa la melma a cui è stato ridotto lo spirito pubblico del nostro paese. E' questo il cancro che si sta mangiando la nostra amata Italia, la causa vera e profonda del nostro declino: l'inosservanza universale delle regole della vita comune, la legge del più forte come principio di regolazione sostanziale del rapporto fra le classi e fra le persone. Qualcuno sa dire con quale autorevolezza un ceto politico che ha sconvolto l'etica civile e la decenza politica del nostro paese può chiamare i cittadini a concorrere a uno sforzo collettivo di cambiamento e addirittura di salvezza? E non è vero che Renzi sta cambiando verso, come va reclamizzando tra gli schiamazzi della sua petulante corte governativa e parlamentare. Le sue scelte e la sua stessa parabola portano l'illegalità diffusa della società italiana e dei partiti dentro le istituzioni. Senza essere stato eletto è a capo del governo e pretende di riformare la Costituzione con un Parlamento privato di legittimità da parte della Corte costituzionale. Come ha ricordato con argomenti inoppugnabili Alessandro Pace (Repubblica, 26/3/2014). L'arbitrio e lo sconvolgime nto delle regole, vale a dire la morale di base della criminalità organizzata - che non a caso da noi, unici al mondo, dura e prospera dalla metà del XIX secolo - si espande anche nelle istituzioni, plasma la vita dei partiti, si fa strada dentro lo stato.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto.

Non è la prima volta che scien­ziati e stu­diosi di varia for­ma­zione, pero­rano la causa degli Ogm ...>>>

Non è la prima volta che scien­ziati e stu­diosi di varia for­ma­zione, pero­rano la causa degli Ogm in nome della razio­na­lità scien­ti­fica, con­tro la dif­fusa super­sti­zione popo­lare che li teme. Umberto Vero­nesi in pri­mis, ma anche Edoardo Bon­ci­nelli e Giu­lio Gio­riello, per citare i più illu­stri, lo hanno fatto in pas­sato in varie occa­sioni. Ora ripro­pon­gono il motivo, con un di più di con­fu­sione, Elena Cat­ta­neo e Gil­berto Cor­bel­lini (Quelle misti­fi­ca­zioni sugli Ogm, La Repub­blica, 9/4/2014).

I due stu­diosi aprono un fronte pole­mico con­tro alcune forme di atteg­gia­mento anti­scien­ti­fico dif­fuse nel nostro paese, quali la difesa del metodo sta­mina, i sospetti con­tro il vac­cino tri­va­lente, con­si­de­rato pos­si­bile causa di auti­smo nei bam­bini, la lotta con­tro la spe­ri­men­ta­zione con­dotta sugli ani­mali, l’omeopatia e infine gli Ogm. Fran­ca­mente mi pare troppo, anche per chi, come me, lamenta la scarsa popo­la­rità delle cono­scenze scien­ti­fi­che nel nostro paese. Che cosa c’entra l’opposizione con­tro gli Ogm con tutte le que­stioni pre­ce­den­te­mente elen­cate? Non è que­sto un modo poco scien­ti­fico di sva­lu­tare un atteg­gia­mento di razio­nale cau­tela asso­cian­dolo a con­vin­ci­menti di tutt’altra natura? Cau­tela scien­ti­fica, per­ché gli Ogm sono un pro­dotto di labo­ra­to­rio appro­dato alla sto­ria umana solo da pochi anni. È poco scien­ti­fico cer­care di far pas­sare que­sta frat­tura bio­lo­gica come una con­ti­nuità sto­rica, affer­mando, come spesso si fa, che i con­ta­dini hanno sem­pre mani­po­lato le piante per miglio­rarle. Sono uno sto­rico dell’agricoltura e so bene quanto lavoro selet­tivo ha per­messo agli agri­col­tori di «costruire» il patri­mo­nio di bio­di­ver­sità agri­cola di cui dispo­niamo. Ma le sele­zioni com­piute nei mil­lenni dai con­ta­dini e dagli agro­nomi di oggi si sono mosse e si svol­gono tutte den­tro il regno vege­tale. Gli Ogm di cui par­liamo e di cui par­lano gli autori, ossia, soprat­tutto mais bt e soia round up, com­mer­cial­mente i più impor­tanti, sono piante create tra­mite un salto di spe­cie o comun­que un inne­sto tran­se­ge­nico. Nel mais Bt è stato inse­rito mate­riale gene­tico pre­le­vato dal Bacil­lus Thu­rin­gien­sis (Bt), un bat­te­rio pre­sente nel ter­reno, che difende il mais dai danni della pira­lide. Men­tre la soia tran­sge­nica, creata dalla Mon­santo, resi­ste a un potente erbi­cida, il glisofate.

Scri­vono gli autori: un «docu­mento pub­bli­cato l’anno scorso dall’European Aca­de­mies Science Advi­sory Coun­cil… sulle sfide e le oppor­tu­nità delle piante gene­ti­ca­mente miglio­rate dice espli­ci­ta­mente che gli ogm non sono dan­nosi per l’ambiente e non atten­tano alla sicu­rezza ali­men­tare» E anzi «pos­sono ridurre l’impatto ambien­tale dell’agricoltura». Non cono­sco l’autorevolissimo docu­mento – ne cir­co­lano tanti, sia con­tro che pro Ogm — ma le affer­ma­zioni non sono per nulla con­vin­centi o sono smen­tite da un’ampia let­te­ra­tura. Intanto, diciamo che c’è dif­fe­renza tra piante «gene­ti­ca­mente miglio­rate» e Ogm. Il «miglio­ra­mento» delle piante con­dotto da gene­ti­sti, bio­logi e agro­nomi — sia pure con metodi diversi — pro­se­gue la sto­ria mil­le­na­ria dei con­ta­dini e con­tri­buirà in futuro a limi­tare l’inquinamento chi­mico nelle cam­pa­gne. Ma non è così per gli Ogm di cui par­liamo. La col­ti­va­zione della soia round up è asso­ciata all’uso di un veleno che si disperde nel ter­reno, inquina le falde, è sospet­tato di pro­durre tumori negli agri­col­tori. E’ noto per­fino agli scien­ziati della Mon­santo che le piante tran­sge­ni­che disper­dono il loro pol­line nell’ambiente, inte­ra­gendo in modo ancora del tutto ignoto con le altre piante, con gli insetti, gli uccelli, i micror­ga­ni­smi del ter­reno, insomma con gli equi­li­bri gene­rali dell’ecosistema. Che cosa può acca­dere nel tempo al vasto patri­mo­nio della bio­di­ver­sità agricola?Nessuno lo sa. Nes­suno fa ricer­che e inve­ste risorse in tale ambito. Men­tre gli scien­ziati che hanno influenza e voce sui media sono impe­gnati a fare la pub­bli­cità agli Ogm.

Sul piano ali­men­tare, i cibi con­te­nenti Ogm sem­brano non dare pro­blemi. Non viene il mal di pan­cia a man­giare una pan­noc­chia di mais bt. Ma che cosa può suc­ce­dere con il tempo, in caso di assun­zione con­ti­nuata, negli ani­mali e nell’uomo, in seguito alle inte­ra­zioni che il prin­ci­pio attivo del bat­te­rio Bt può inne­scare nei bat­teri dell’intestino ? Se io oggi sbri­cio­lassi in aria un pugno di pol­vere di amianto e la respi­rassi non farei nep­pure uno star­nuto. Ma fra 10–15 anni le pro­ba­bi­lità di con­trarre il can­cro della pleura o il bla­stoma ai pol­moni sarebbe ele­va­tis­simo. Non sarebbe dun­que sag­gio rispet­tare il prin­ci­pio di pre­cau­zione, adot­tato dall’ Unione Euro­pea, oggi sem­pre più tra­bal­lante sotto la pres­sione siste­ma­tica delle lob­bies? Gli autori lamen­tano che in Ita­lia, dove gli Ogm sono proi­biti, non pos­siamo pro­durre «man­gimi eco­no­mi­ca­mente com­pe­ti­tivi» e li impor­tiamo «ipo­cri­ta­mente» dal Bra­sile o dall’Argentina. Anche in que­sto caso la pero­ra­zione della libertà della scienza, asso­ciata alla sacra «cre­scita eco­no­mica» fa pren­dere degli abba­gli ai nostri autori. Ma hanno idea i due stu­diosi di che cosa signi­fica la col­ti­va­zione di soia in Bra­sile e in Argen­tina? Ster­mi­nate aziende con col­ti­va­zioni inte­ra­mente mec­ca­niz­zate, e assog­get­tate alla chi­mica per tutte le fasi della pro­du­zione. Come potrebbe mai com­pe­tere l’agricoltura ita­liana su que­sto ter­reno? E non è piut­to­sto con­ve­niente, anche sotto il pro­filo eco­no­mico, avere soia e gran­turco non Ogm, cioé piante più sicure, che si pre­sen­tano sul mer­cato come un pro­dotto qua­li­ta­ti­va­mente supe­riore, se non altro per­ché non hanno dovuto coe­si­stere con erbi­cidi e pesti­cidi deva­sta­tori dell’ambiente?

Ma chi ci ha ordi­nato di inse­guire l’agricoltura tran­sge­nica, quando noi pos­se­diamo un patri­mo­nio di bio­di­ver­sità agri­cola unica al mondo, indi­sgiun­gi­bile da una sto­ria mil­le­na­ria e dai carat­teri ori­gi­nali del nostro ter­ri­to­rio, dalle forme del pae­sag­gio, dalle tra­di­zioni delle nostre innu­me­re­voli cucine locali? Che senso ha par­lare di pro­dotti e di com­pe­ti­zione se non si ha un’idea di che cosa sia il nostro sistema agri­colo? Dob­biamo indi­riz­zare la ricerca scien­ti­fica alla mani­po­la­zione delle piante, per get­tare sul mer­cato nuovi pro­dotti bre­vet­tati, e assog­get­tare sem­pre più gli agri­col­tori all’agroindustria? Oggi sem­pre più gio­vani scien­ziati pas­sano la loro vita in labo­ra­to­rio, impe­gnati a mani­po­lare il dna dei semi, senza mai vedere una cam­pa­gna nep­pure in gita. E’ que­sta la ricerca da pri­vi­le­giare? Non dovremmo stu­diare le piante nel loro ambiente, nella rete delle loro inter­con­nes­sioni con l’ecosistema, per pro­durre beni sem­pre più sani e sicuri, in un habi­tat più salu­bre per tutti i viventi? Non abbiamo il com­pito di pro­durre cibo abbon­dante e sano senza distrug­gere la casa in cui viviamo?

L’ecologia, vale a dire lo stu­dio degli esseri viventi nel loro habi­tat, ha aperto un oriz­zonte del tutto nuovo alle scienze natu­rali e anche alle scienze dell’uomo. Per­ché essa con­sente di vedere la rete di con­nes­sioni che lega i vari feno­meni del mondo vivente. Oggi la gene­tica, per le sue poten­zia­lità mani­po­la­tive, per la pos­si­bi­lità di ritorni imme­diati e cre­scenti che offre all’industria, spinge le scienze della natura nel vicolo stretto del ridu­zio­ni­smo. La curva ascen­dente dei pro­fitti la tra­scina verso il basso. Non è per­ciò cor­retto riven­di­care indi­stin­ta­mente la buona causa della ricerca scien­ti­fica in campo tran­sge­nico. Que­sta è una strada, ma non è neces­sa­ria­mente la più con­si­glia­bile. E una scelta può pre­giu­di­carne un’altra, più feconda e più utile all’umanità. La sto­ria ci inse­gna qual­cosa in merito. Nei decenni cen­trali del XX secolo la fisica si è con­cen­trata sullo stu­dio dell’atomo. Nata come scienza di guerra, desti­nata al geno­ci­dio della bomba ato­mica, essa è diven­tata la Big Science per creare ener­gia, assor­bendo lo stu­dio delle più grandi menti del secolo e con­cen­trando inve­sti­menti immensi da parte dei mag­giori stati indu­striali. Ci si può chie­dere che cosa sarebbe acca­duto se la ricerca si fosse incam­mi­nata su un’altra strada, se si fosse stu­diata l’energia solare? Forse oggi non avremmo di fronte lo sce­na­rio del riscal­da­mento cli­ma­tico glo­bale che incombe sul nostro avvenire.

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Che il nostro paese sia messo su una china autoritaria lo prova non solo il contenuto delle riforme istituzionali proposte dal governo Renzi…>>>

Che il nostro paese sia messo su una china autoritaria lo prova non solo il contenuto delle riforme istituzionali proposte dal governo Renzi e approvate in Consiglio dei ministri. Su queste valga non solo l'appello lanciato da Zagrebelsky e Rodotà, ma anche le osservazioni e le riserve di tanti commentatori, perfino di esponenti e settori moderati della vita politica italiana. Quel che indica il senso di marcia, la direzione dei venti dominanti è il favore popolare di cui gode al momento l'iniziativa del governo, il consenso aperto della grande stampa, come Repubblica ( con l'eccezione del suo fondatore), l'ibrido e politicamente indistinto coro di approvazione che sale dai vari angoli del paese. E, segno dei tempi non poco significativo, è il concerto di voci ostili, la condanna corriva, il linguaggio scadente fino ad essere scurrile contro i critici del progetto di riforme. Costoro vengono bollati come parrucconi, definiti – con una semantica della derisione che capovolge il significato delle parole - « soliti intellettuali », quasi fossero la banda de I soliti ignoti del film di Monicelli. E' già accaduto che in momenti tristi e difficili della vita nazionale l'intelligenza sia stata derisa. In una trasmissione televisiva, Piazza pulita del 31 marzo, aizzato dal clima generale dello spettacolo in corso, Alessandro Sallustri è arrivato al punto da definire Gustavo Zagrebelsky, il noto giurista, mite e finissimo intellettuale, « un cancro del paese » . Il conduttore Corrado Formigli, in verità, ha difeso l'assente, anche contro gli sghignazzi di altri esponenti politici presenti in trasmissione, che non meritano di essere menzionati. Ora, che un giornalista, da tanto tempo a servizio di Silvio Berlusconi - l'uomo che più di ogni altro ha influito sul destino dell'Italia negli ultimi vent'anni - il dipendente di un criminale condannato dai tribunali della Repubblica, possa definire “cancro” un uomo che onora il nostro paese, è certo un segno grave di capovolgimento di ogni criterio di verità, la prova di una involuzione grave dello spirito pubblico.

Certo, questo favore confuso e indistinto che soffia nelle vele di Matteo Renzi, non è solo il risultato dell'abilità comunicativa del nostro presidente del Consiglio. A reggere il suo atteggiamento oggi apertamente ricattatorio c'è , come ha scritto Norma Rangeri su questo giornale( 1/4) « la forza d'urto dei fallimenti della classe dirigente, a cominciare da quelle forze intermedie, partiti e sindacati, che si riferiscono alla sinistra. » Come negarlo? Quali sono state le idee, le proposte, le iniziative mobilitanti che son venute dal PD in questi ultimi anni, così drammatici per tanti cittadini italiani? Nulla che non fosse l'applicazione dei dettami della politica di austerità imposta dalla UE, sia dall'opposizione (ultimo governo Berlusconi) sia nel governo Monti e non diversamente nel governo Letta. E qualcuno ha udito, in questi ultimi 4 anni di disoccupazione dilagante, una, una sola idea, una qualche iniziativa all'altezza dei tempi, venir fuori dalla CGIL di Susanna Camusso? Il più opaco e impiegatizio tran tran tran quotidiano ha scandito la vita del maggiore sindacato italiano nel corso di una della pagine socialmente più drammatiche nella storia della repubblica.

Si capisce, dunque, il favore, l'impazienza, la fretta, con cui tanta parte del paese guarda al « fare » di Renzi. Dopo tanta inerzia e inconcludenza ( ma anche, dovremmo ricordare, dopo tante scelte ferocemente antipopolari) finalmente qualcuno che passa all'azione. All'azione qualunque essa sia. In verità occorre aggiungere anche una considerazione di più generale portata. Un'altra e più vasta corrente sotterranea alimenta gli spiriti animali del presente “decisionismo”. E' la crescente velocità con cui il capitalismo si muove sulla scena mondiale. E' la rapidità delle decisioni e delle scelte, di investimenti, di speculazioni con cui multinazionali e gruppi finanziari spostano fortune da un capo all'altro del mondo, condizionando la vita degli stati. E' una nuova dimensione temporale ( e spaziale) dell'economia che spiazza le antiche cronologie della politica. Di fronte alla celerità degli scambi, degli accordi commerciali, della manovre finanziarie, propria del capitalismo attuale, la politica appare, nelle sue più connaturate forme, come lenta, dilatoria, inconcludente. E la democrazia, che è dialogo, discussione, ponderazione delle scelte, ascolto delle diverse voci, procedura formale, appare un rituale vecchio e obsoleto, incapace di ricadute positive sulla vita dei cittadini. E qui sta il nodo su cui occorre riflettere. E' vero, ci sono rituali nella vita parlamentare italiana che oggi non sono più accettabili e occorrerebbe dare all'intera macchina legislativa una maggiore snellezza ed efficienza. Qui la sinistra dovrebbe mostrare maggiore convinzione e originalità di proposta. Ma occorre avere sguardo storico per capire il nodo che ci si para davanti, per non replicare gli errori che ci hanno portato alla situazione presente. La politica appare lenta e inefficiente soprattutto perché essa, per propria scelta, negli ultimi 30 anni ha ceduto moltissimi dei suoi poteri all'economia capitalistico-finanziaria. Dalla Thatcher a Reagan, da Clinton a Mitterand per arrivare ai nostri vari governi, essa si è privata di tanti controlli sulle banche, sui movimenti dei capitali, sui vari strumenti della politica economica. Al tempo stesso, e conseguentemente, ha indebolito i suoi tradizionali legami con le masse popolari, ponendosi così in una condizione di subalternità progressiva nei confronti del potere economico. E' la politica che ha favorito il disfrenamento della potenza anonima del mercato. Ciò che oggi appare come una condizione data, quasi naturale, spingendo i commentatori odierni ad accettarla come uno stato ineludibile, un principio di realtà, è di fatto il risultato di una scelta di un'autolimitazione della sovranità statuale. Anche autorevoli osservatori oggi ricorrono alla parola magica globalizzazione, come se si riferissero alla siccità o al maltempo. Ma un più sorvegliato uso delle parole consiglierebbe il ricorso a un altro termine, ora fuori moda: deregulation. Perché questa globalizzazione non è che una forma mondiale di dominio, privato di molti freni e regole da parte dei governi nazionali. Non è – come si vorrebbe far credere – il normale avanzare della storia del mondo.

L'attuale impotenza dei governi, la loro incapacità di mettere sotto controllo le iniziative delle potenze infernali lasciate libere di condizionare la vita delle nazioni, li spinge a restringere il campo del comando, a concentrarsi sulla macchina pubblica, sull'efficienza e la rapidità delle decisioni. E' la surrogazione di un potere perduto, che cerca un risarcimento limitando gli spazi della democrazia, strappando margini di manovra alla rappresentanza, restringendo il protagonismo delle masse popolari. E cosi riproducendo le cause storiche della propria subalternità. Ma la china autoritaria del governo Renzi si coglie appieno non solo mettendo assieme la riforma elettorale con la proposta di rafforzamento della figura del premier e l'abolizione del Senato. Anche il job act rientra in piena coerenza con la tendenza. Nel momento in cui non si riesce a ottenere da Bruxelles il via libera a una politica economica espansiva, si ricalca con proterva ostinazione il vecchio sentiero. Non si punta su investimenti e sul ruolo decisivo che il potere pubblico potrebbe svolgere in una fase di depressione, ma si cerca di far leva sulla piena disponibilità della forza lavoro alle convenienze delle imprese. E' la politica fallimentare degli ultimi decenni. Essa ha creato lavoro sempre più precario, generato bassi salari, indebolito la domanda interna, spinto gli imprenditori a contare sullo sfruttamento della forza lavoro più che sull'innovazione, contribuito a ingigantire la scala della sovrapproduzione capitalistica mondiale alla base della crisi di questi anni. Gli oltre 3 milioni di disoccupati appena censiti dall'Istat sono il seguito naturale di tale storia, nazionale e mondiale.

In Italia questa via contribuirà ad allargare l'area del “sottomondo” in cui vivono ormai milioni di persone, con lavori saltuari e mal pagati, privi di certezze, di identità e di speranze: uno solco ancor più profondo fra società e ceto politico. Quando, tra meno di due anni, occorrerà togliere dal bilancio pubblico intorno ai 40-50 miliardi di euro all'anno per onorare il rientro dal debito, come vuole il fiscal compact, occorrerà aver pronto uno stato forte per controllare l' esplosione di conflitti che seguirà alla distruzione definitiva del nostro welfare. Come si fa a non vedere già oggi la curvatura autoritaria che sta prendendo il nostro Stato?

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Ora che la zuffa nella litigiosa famiglia sorta a sostegno de l' Altra Europa con Tsipras pare sopita, si può dire pacatamente...>>>

Ora che la zuffa nella litigiosa famiglia sorta a sostegno de l' Altra Europa con Tsipras pare sopita, si può dire pacatamente qualcosa. Si può intervenire senza timore di gettare altro veleno nei pozzi già inquinati. E non si può non partire da uno degli episodi che ha scatenato le maggiori tensioni e le più vistose lacerazioni dentro il Comitato dei garanti, promotore della lista. Anche se non amo dare troppo rilievo alle singole persone ( né, tanto meno, metterle sotto accusa) è inevitabile partire dal singolo caso per svolgere poi delle considerazioni generali. Dunque, Antonia Battaglia ha abbandonato la lista Tsipras per incompatibilità con altri esponenti, provenienti dalla Sel pugliese. Ci si può interrogare un istante sull'arroganza settaria e l'irresponsabilità politica di tale gesto? Si può abbandonare un campo di impegno, costruito su difficili equilibri, ma importantissimo per tentare una svolta di possibile salvezza per il nostro paese, perché alcuni membri del collettivo non hanno il sangue perfettamente blu? Si va via perché tra i candidati nella lista ci sono degli appestati? Eppure i compagni di cui si chiedeva l'ostracismo non provenivano dalle truppe berlusconiane o dall' eterno ceto politico trasformista e nemmeno dal PD. Sono esponenti di Sel, un partito che , insieme a Rifondazione comunista, ha rinunciato al proprio simbolo e ha dato un contributo forse decisivo alla riuscita di tutta l'operazione. Se Sel non avesse appoggiato, al suo congresso nazionale la candidatura Tsipras, l'Altra europa sarebbe partita come un'anatra zoppa.

Si giustifica il gesto del gran rifiuto da parte della Battaglia con l'argomentazione della cattiva condotta politica di Sel nei confronti della ILVA di Taranto. Ora, non è certo questa la sede per discutere una questione così gigantesca come il disastro ambientale dell'Italsider. Ma si può fare di Sel – pur non sottovalutando errori, ritardi, sottovalutazioni, incidenti imbarazzanti di Vendola, ecc – il capro espiatorio di tutta quella vicenda? Con quanta superficialità si dimentica che per decenni nessuna attenzione è stata prestata al mostro siderurgico da parte dei governi nazionali, dal ceto politico – di tutti gli schieramenti - storicamente sordo in Italia a ogni problema ambientale? E che dire del sindacato, vale a dire dell' istituzione più vicina alla condizione quotidiana di inquinamento dei lavoratori, costretti a esporre i propri corpi a veleni di ogni tipo? Neppure la magistratura, nei passati decenni, è stata cosi vigile come oggi appare. Ed essa, anzi, continua a dormire in troppi angoli devastati del nostro Paese. E' evidente che gravano sull'intera vicenda responsabilità multiple e collettive che non possono essere sottaciute. Ma quello che assai gravemente si dimentica, esemplificando con superficialità il complesso nodo dei problemi, è che Taranto non incarna solo un acutissimo problema di ambiente e di salute pubblica, ma anche una drammatica questione sociale. E' noto a chi sa vedere. La degradazione ambientale prodotta dall'ILVA è arrivata a un punto tale da mettere in forse l'occupazione della gran parte degli operai, il reddito di migliaia di famiglie. Una minaccia di disoccupazione di massa in una città del Sud che ha fondato tutto sull'industria e in una fase storica in cui il nostro Mezzogiorno ha conosciuto arretramenti economici gravissimi Il tutto dentro una crisi di cui non si vede la fine. Come si fa a dimenticare il ricatto cui i Riva sottoponevano le masse operaie, l'intera città? Non a caso la popolazione di Taranto si è divisa in due schieramenti contrapposti. Poteva un partito come Sel disinteressarsi di una questione occupazionale di così vasta portata? Non ci si rende conto che astrarre da tale condizione dilemmatica il comportamento di quel partito si compie un'operazione di esemplificazione concettuale che porta al cortocircuito settario? Su questa strada si compie anche una operazione politica ingiusta e auto-distruttiva. Messi su tale china, Vendola e Sel diventano i complici dei Riva, si trasformano nei nemici da cui allontanarsi. Ma davvero non ci si accorge dell'ingiustizia enorme che si compie nei confronti delle persone e del loro passato? Non si capisce che gettiamo nell'inferno una parte importante della nostra stessa storia? La nostra stessa storia: e io non ho in tasca tessere di partito.

La scelta di Antonia Battaglia, com'è noto, ha investito anche il comitato dei garanti. Paolo Flores D'Arcais e Andrea Camilleri – di cui non cesso di ammirare la disponibilità con cui presta la sua operosa vecchiaia e il suo illustre nome a tante buone cause civili e politiche – hanno abbandonato il Comitato dei garanti. Ovviamente, non entro nel merito dei torti e delle ragioni. Nulla mi autorizza a improvvisarmi quale moralistico Catone. Ma una riflessione politica si rende necessaria. Possibile che l' offesa alla dignità dei due autorevoli membri del Comitato fosse così grave e irreparabile da non consentire un chiarimento e un aggiustamento informale? Possibile che le questioni di principio siano state ritenute più rilevanti del danno politico generale che verosimilmente si sarebbe prodotto, in termini di immagine, a tutta l'operazione ancora in fieri? Possibile che la fierezza personale venga prima di ogni altra cosa e sia comunque ritenuta più rilevante, nelle proprie scelte, dello scoramento, della sfiducia, della disillusione che esse vengono a creare in migliaia e migliaia di militanti, di cittadini, gettati nella più grave crisi e perdita di orizzonti politici degli ultimi 6o anni? Ci possiamo chiedere che come sarebbe andata la campagna referendaria contro la privatizzazione dell'acqua, senza il vincolo unitario che l'ha sorretto?

Hegel ha elaborato una figura filosofica per rappresentare questo tipo di umana soggettività innamorata della propria purezza e coerenza: la figura dell'”anima bella”. La sinistra conta non poche anime belle al proprio interno, che rifuggono dall'aspra contraddittorietà del reale, e anelano a conservare l'incorruttibilità adamantina della propria coscienza. Certo, fare politica, nel campo della sinistra è un'arte dannatamente più difficile che negli altri schieramenti. Per la destra e per gran parte del ceto politico di tutti gli schieramenti il compito è molto più agevole. Si tratta di aderire alle pieghe e alle gerarchie dei poteri dominanti, guidati dall'infallibile fiuto dell'interesse personale, e il successo diventa abbastanza agevole, pur se in mezzo a una feroce competizione. La sinistra si pone il problema gigantesco di cambiare il mondo, o quanto meno di rovesciare le intollerabili ingiustizie che lo lacerano. Deve perseguire un grande obiettivo, ubbidire a principi irrinunciabili, mettere d'accordo analisi radicale e pratica politica nella più opaca delle realtà quotidiane. E oggi, nella devastazione morale prodotta da vent'anni di neoliberismo berlusconiano, la navigazione somiglia alla barchetta di Caronte che affronta i marosi di una fetida cloaca.

E tuttavia non si possono concludere queste osservazioni senza mettere tutta, indistintamente, la costellazione della sinistra radicale e popolare di fronte a questa evidente ed esplosiva contraddizione. Noi siamo i portatori di una analisi senza misericordia delle condizioni del capitalismo mondiale e andiamo smascherando da anni il carattere pubblicitario e ingannevole delle promesse “uscite dal tunnel” dei nostri governanti. Noi sappiamo che i pannicelli caldi delle solite “riforme” non porteranno l'Italia da nessuna parte e che anzi, senza una radicale messa in discussione dei trattati dell'Unione, l'abisso si spalancherà davanti alle nostre porte. Ma proprio l'enormità del compito che consegue alle nostre terribili e fondatissime analisi dovrebbe indurci a comportamenti personali coerenti con una prospettiva così drammaticamente impegnativa. Se il compito che abbiamo davanti è così arduo, il nostro primo istinto dovrebbe essere quello di accostarci personalmente sempre di più, rinserrare le fila, serrare i ranghi, smussare le differenze, sanare le divisioni, fare della ricerca dell'unità della nostra parte la condizione fondativa della lotta. Ma questo richiede la dismissione degli abiti settari, del camice bianco da gabinetto scientifico e la capacità di guardare anche il mondo imperfetto che sta intorno a noi, mettere in uso le vecchie armi della tattica, con cui accompagnare l'astrazione, spesso troppo pura, della strategia. Se non si incomincia a guardare dentro la soggettività di tutti noi, a vedere che in essa c'è anche la radice della divisione e frantumazione del nostro campo, della nostra permanente minorità, con ogni probabilità, nei prossimi anni la sinistra radicale potrà solo contemplare, Cassandra inascoltata e impotente, l'avverarsi dei propri funesti vaticini.

Ma Silvio Berusconi non era stato condannato in via definitiva per frode fiscale l'1 agosto del 2013 , vale a dire ben 6 mesi fa? Non era stato dichiarato...>>>

Ma Silvio Berlusconi non era stato condannato in via definitiva per frode fiscale l'1 agosto del 2013 , vale a dire ben 6 mesi fa? Non era stato dichiarato decaduto dal suo seggio di senatore il 27 novembre dello stesso anno? Ebbene, a giudicare dal suo insonne attivismo sulla scena pubblica italiana, sembrerebbe che quelle decisioni, gravi e solenni, siano stati pura finzione, una recita teatrale da lasciare alla memoria di un tabellone di cartapesta. E non mi riferisco qui alla vera e propria resurrezione che il personaggio ha vissuto ( per un unto del signore non fa specie) nelle ultime settimane, grazie all' iniziativa di Matteo Renzi, poi coronata dall'apoteosi del sua salita al Quirinale. Quelle che osserviamo in questi giorni sono le sequenze ultime di un film che non ha mai cessato di svolgersi sui teleschermi nazionali. Per la TV italiana Silvio Berlusconi non è mai stato condannato, né mai cacciato dal Senato della Repubblica. Chiunque abbia seguito i telegiornali dopo l'1 agosto scorso ha potuto osservare, tutte le sere, che Berlusconi era attivissimo e presente nei luoghi più disparati d'Italia. Come se nulla fosse accaduto, nonostante la voce fuori campo ricordasse di tanto in tanto le sue recenti vicissitudini giudiziarie. Anche quando non c'erano nuovi eventi da raccontare, le immagini di repertorio ci restituivano il leader sempre aitante e sorridente. La solita maschera da teatro dell'arte della nostra tradizione, ora vituperata da quest'ultima incarnazione politica. In tutti i telegiornali della TV pubblica, anche nel TG3 di Bianca Berlinguer, si è svolta come una gara a ridare vitalità politica a un leader ormai fuori gioco. Attraverso le immagini del corpo in movimento, esibendo il viso mascelluto e volitivo del leader ( già triste icona della tronfia virilità del Capo in un'altra Italia), le immagini televisive si sono sostituite alla realtà politica e giuridica, l'hanno di fatto rimossa, tolta via dalla pubblica percezione. Berlusconi era ed è sempre lì, presentissimo e attivo, nonostante tutto. Con una modalità davvero degna di studio, la TV ha creato la realtà politica effettiva, cancellando nell'immaginario collettivo le decisioni dei pubblici ordinamenti.

Ora, si impongono alcune considerazioni. La prima riguarda le varie velocità della giustizia italiana. Perché si impiega così tanto tempo ad applicare a un leader politico la pena che gli è stata comminata? Ricordo che per reati di gran lunga più lievi – anzi creati da leggi liberticide e incostituzionali – la tempestività della carcerazione è da efficienza americana. Gli sventurati che dal Nord Africa o dal Medio Oriente giungono ai nostri agognati lidi vengono rinchiusi nei lager chiamati CIE, solo per aver profanato il suolo patrio con la loro presenza non richiesta. Mentre l'autorità giudiziaria è prontissima a riempire le nostre affollate carceri di piccoli spacciatori e fumatori di hashish. Rivestono, i casi di costoro, una così elevata pericolosità da giustificare tanta prontezza e durezza di pena?

Ma il problema centrale è la TV, sono i telegiornali a cui continuiamo ad assistere costernati tutte le sere. Conosciamo la replica dei giornalisti e la anticipiamo. I media devono riflettere la realtà politica effettiva e Berlusconi resta il capo indiscusso di un grande partito, che gode del consenso di milioni di elettori e dunque non si può non dargli rilievo, ecc. All'apparente buon senso di questa rivendicazione si può rispondere con due distinte considerazioni. C'è modo e modo di fare informazione. Si possono dare notizie di un leader, quando egli è protagonista effettivo di eventi rilevanti, che meritano di essere illustrati, senza per questo ricorrere a minuti e minuti di immagini, che hanno un evidente potere di creare realtà fittizia. E qui, naturalmente, occorrerebbe avviare una qualche discussione critica sul formato dei nostri TG. Ogni sera essi allestiscono la messinscena di un teatro sempre più insensato, dove si succedono, in una passerella iterativa e stucchevole, i teatranti di una politica che ormai sembra fare il verso a se stessa. E' vero, mostrare il volto effettivo del potere – e il ceto politico è potere, anche se oggi decaduto – giova alla democrazia. I cittadini possono così vedere da vicino i personaggi mediocri che li governano, togliendo sacralità agli arcana imperii del comando. Ma è evidente che quando si oltrepassa una certa misura, quando la mediocrità dei recitanti si accompagna a una lunga storia di inettitudine e corruzione, le loro esibizioni quotidiane servono ad accrescere il disincanto di massa nei confronti della politica e della democrazia. Senza dire che l'onnipresenza del ceto politico italiano nel nostro quotidiano immaginario immiserisce lo sguardo, rattrappisce l'orizzonte verso il vasto mondo che gira intorno a noi.

Ma la seconda considerazione da fare nel caso di Berlusconi non è di minor rilievo. Ma come si fa a considerare come un qualunque leader di partito questo personaggio? Com'è noto, a parte la grave condanna definitiva della Cassazione, egli ha comprato i giudici nel processo Imi-Sir, ha subito una prima condanna per sfruttamento della prostituzione minorile, è indagato per l”acquisto” di senatori e per vari altri reati infamanti, ha oltraggiato il Parlamento italiano con la storia della nipote di Mubarak, ha utilizzato il governo della Repubblica a fini personali e aziendali come mai era accaduto nella storia d'Italia. Insomma, ha il pedigree di un gangster e soprattutto ha fatto strame del nostro patrimonio più fragile: la moralità civile. La sua rivalutazione “in immagine”, da parte della TV, ricorda molto da vicino quella che ha graziato a suo tempo Giulio Andreotti. Si ricorderà: una sentenza della Cassazione del 2 maggio 2004, che lo assolveva da vari reati, riconosceva, tuttavia, che egli aveva avuto rapporti con la mafia sino al 1980. Cronologia misericordiosa delle sentenze italiane! L'uomo più potente d'Italia aveva avuto dunque rapporti con i criminali che avevano ucciso e uccideranno Boris Giuliano e Cesare Terranova, il giovane Livatino, Dalla Chiesa e Rocco Chinnici, Falcone e Borsellino e tanti funzionari dello stato prima e dopo il 1980. Ebbene, Andreotti venne allora accolto come un eroe e conteso dalle TV nelle più varie trasmissioni di intrattenimento. Una capovolgimento della realtà inimmaginabile in qualunque paese del mondo dove l' umana decenza vale qualcosa. Ho già scritto queste cose quando Andreotti era in vita.

Da uomo del Sud, che ha studiato il mondo meridionale, ho nutrito l'aspettativa razionale, oltre che la speranza, di vedere la parte indenne da mafie del nostro Paese, le ragioni del Centro-Nord, sconfiggere e sradicare dal Sud le sue criminalità storiche. Com'è noto, la storia ha seguito il corso inverso. Sono state le mafie del Sud a colonizzare il Nord, a radicarsi nei territori e nelle economie di quelle ragioni. Un approdo storico spaventoso, che non ha turbato più di tanto il nostro ceto politico. E di sicuro una delle cause sistemiche di questo percorso risiede nella fragilità dello spirito pubblico nazionale, nella illegalità come principio di comportamento individuale e collettivo, nella difficoltà secolare degli italiani di sentirsi nazione, comunità di uguali tenuta insieme da pari diritti e doveri. Berlusconi, che è figlio di questa perversa antropologia, le ha fornito una forma politica di massa, dandole dignità e potenza di governo. Noi siamo ancora immersi in questa devastazione di guerra dell'etica pubblica nazionale, che è causa di innumerevoli danni al nostro Paese. Forse costituisce la ragione fondamentale del nostro declino. Che milioni di italiani diano ancora il loro consenso a un noto criminale, non dovrebbe indurre i giornalisti televisivi a inseguire la loro audience, dando loro in pasto , ogni giorno, il corpo glorioso del capo. Dovrebbe al contrario farli riflettere sull'enormità della cosa e sul compito civile cui sarebbero obbligati. In un paese come il nostro, dove la grande maggioranza dei cittadini non legge né libri né giornali, che si forma un'opinione politica ascoltando la TV, mentre pranza o bighellona in casa, la verità dei fatti rischia costantemente l'esilio. La maggiore azienda culturale italiana, la TV pubblica, ha contribuito non poco e continua a contribuire a rendere incerto il confine tra verità e menzogna, a rendere opinabile il diritto, a far diventare evanescente la sanzione delle leggi, a capovolgere i principi stessi della moralità. In una parola, anch'essa lavora per rendere scadente l'etica civile dell'Italia.

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