C'è un fondamento storico evidente e apprezzabile nella scelta di dedicare l'Expo italiano del 2015 all'alimentazione e all'agricoltura. La varietà, ricchezza, genialità...>>>
Di sicuro circoleranno nelle giornate milanesi dei prossimi mesi discussioni importanti e serie, contributi alla comprensione della complessa realtà del mondo agricolo e della produzione e distribuzione del cibo. Ma intanto tutti i mesi di preparazione sono già passati sprecando una grande occasione: almeno un ampio dibattito nazionale sulle condizioni della nostra agricoltura, oltre che del nostro cibo, gettando uno sguardo sugli squilibri intollerabili che governano l'architettura mondiale della produzione alimentare. Un Expo che si occupa del tema di “nutrire il pianeta” non dovrebbe dimenticare che il cibo si ottiene dalla terra e che è la sua mancanza alla base della fame di milioni di famiglie. Quella terra sottratta ai contadini dai possessi latifondistici, come accade in America Latina, dagli scavi minerari e dalle dighe, come accade in India e in Cina, dagli inquinamenti petroliferi, dall'agricoltura industriale, dalla desertificazione, e ora dalle guerre in Africa e in Medio Oriente.
Appare dunque evidente che le sorti dell'eccellenza italiana, il nostro cibo e i suoi infiniti piatti, al di la delle montagne di retorica che si sono sovrapposte sul tema, sono inscindibilmente legate al modello di agricoltura che vogliamo realizzare e in parte conservare. Essa dipende dal destino dei piccoli e medi produttori biologici, dalla loro disponibilità di terra, dalla remunerazione dei loro prodotti, dal premio dato a chi tutela la salubrità delle campagne, protegge il territorio su cui vive e opera, custodisce e restaura il paesaggio del Belpaese.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente al manifesto.
Il 25 aprile è certamente la data simbolicamente più significativa e fondante dell'Italia repubblicana. Il giorno della liberazione del paese dall'occupazione nazifascista ...>>>
Il 25 aprile è certamente la data simbolicamente più significativa e fondante dell'Italia repubblicana. Il giorno della liberazione del paese dall'occupazione nazifascista segna un frattura netta non solo con la dittatura mussoliniana, ma anche con il conservatorismo monarchico, ponendo le basi dell'Italia democratica. Un evento che non è una delle tante “rivoluzioni passive” della nostra storia, ma il frutto della lunga lotta partigiana, di una resistenza popolare che ha pochi precedenti nel nostro passato nazionale. Per circa un ventennio la sua celebrazione è entrata nell'immaginario degli italiani come un anniversario condiviso, una festa di tutti che ratificava l'accettazione universale dei valori della Costituzione e della democrazia. Ricordo che sul finire degli anni '60 e nel decennio successivo, la replica di quella commemorazione cominciò ad apparire, ai giovani di sinistra della mia generazione, come uno stanco rituale in una società di stabile democrazia, che aveva ormai bisogno di idealità più avanzate cui ispirarsi.
Credo che la decisione di parte ebraica sia faziosa e sbagliata per più ragioni, e non ho bisogno di entrare nei dettagli delle discussione per dimostralo. Del resto, basta leggere l'intervista a Yussuf Salman, quale rappresentante delle comunità palestinesi (il manifesto del 10.4.2015) per vedere quanto ragionevole sia la posizione di questa parte. E' faziosa e sbagliata intanto perché nella presente fase storica, mentre infuria in Medio Oriente un fanatismo religioso di inaudita ferocia, l'intelligenza politica consiglierebbe la ricerca dell'unità, del dialogo, della cooperazione tra le forze che ambiscono alla pace. Non turba nessuno il fatto che in questo momento l'Isis sta portando i suoi massacri nel campo dei rifugiati palestinesi di Yarmouk, gremiti di bambini e di vecchi? O è solo Israele, solo gli ebrei che devono godere del monopolio della pietà una volta per sempre?
E veniamo a noi. Forse che milioni di italiani non hanno ragioni di recriminazioni, nei confronti dell'intera comunità ebraica del nostro paese, per la tiepidezza – si fa per dire – con cui essa ha assistito al massacro di civili palestinesi a Gaza? Uccisioni e distruzioni immani, perpetrati per ben due volte, con bombardamenti simultanei da terra , dal cielo e dal mare, nel 2008 e nel 2014. Non è ad essa ben noto che milioni di italiani, forse la grande maggioranza del nostro popolo, guarda allo Stato d'Israele, come a un potere ingiusto e liberticida, che tiene in servitù un altro popolo? O crede che i cittadini non capiscano, non sappiano. Eppure, per amore di unità e di dialogo l'antifascismo italiano ricerca l'accordo, tentando di mettere insieme le parti. Perciò io credo che l'Anpi su questo punto deve avere una posizione di assoluta fermezza. Come ha ricordato Angelo D'Orsi, l'art. 2 dello statuto di quella organizzazione rivendica «un profondo legame con i movimenti di liberazione del mondo» (il manifesto, del 9.4.2015). L'equidistanza pilatesca deforma la verità. Oggi sono i palestinesi, è questo popolo che attende di essere liberato.
Nel dibattito sul reddito minimo (e sue varianti) il punto da cui oggi occorrerebbe partire, in Italia,
è la ragione che nega l'impossibilità della sua applicazione ... >>>
Nel dibattito sul reddito minimo (e sue varianti) il punto da cui oggi occorrerebbe partire, in Italia,
è la ragione che nega l'impossibilità della sua applicazione: la mancanza di soldi. «Non ci sono le risorse» ha sentenziato di recente il ministro Poletti. Ma è davvero così? Sembra difficile invece crederlo, se ci si informa sulla ricchezza reale del paese, senza fermarsi alle retoriche correnti e al baccano stupido dei media. La Banca d'Italia, ad esempio, sembra avere un'idea diversa delle “risorse” dell'Italia. Nel suo documento La ricchezza delle famiglie italiane. Anno 2013, il nostro paese, con una ricchezza netta pari a 8.728 miliardi di euro, appare in una luce diversa dalla vulgata miserabilista corrente: «Nonostante il calo degli ultimi anni, le famiglie italiane mostrano nel confronto internazionale un'elevata ricchezza netta, pari nel 2012 a 8 volte il reddito lordo disponibile; tale rapporto è comparabile con quello di Francia, Giappone e Regno Unito e superiore a quello di Stati Uniti, Germania e Canada».
Dunque, qual'è allora il vero ostacolo che si para dinnanzi all'istituzione del reddito minimo? Ma è evidente che si tratta di una ragione interamente politica. Il ceto politico non ha nessuna intenzione di scontrarsi con gli interessi costituiti, mettere in discussione la gerarchia consolidata della ricchezza così come si è venuta storicamente formando. Questo ceto, del resto, costituisce un segmento interno, una giuntura delle società capitalistiche del nostro tempo. Mettere radicalmente in discussione i rapporti dominanti esporrebbe a rischio il suo stesso potere relativo e la sua riproduzione. Eppure da noi la sperequata distribuzione della ricchezza non è solo una drammatica disuguaglianza fra le classi, che danneggia la “crescita”: dentro vi è incistata anche una questione generazionale. Sempre la Banca d'Italia, ne I bilanci delle famiglie italiane nell'anno 2012 ha ricordato che nel precedente ventennio, in termini relativi, il reddito degli anziani è passato «dal 95 al 114 per cento della media generale. (...) Per le classi di età più giovani, invece, il reddito equivalente è diventato significativamente più basso della media: il calo è stato di circa 15 punti percentuali».
Dunque, quello per il reddito minimo è una battaglia strategica di grande portata, in grado di dare un minimo di respiro alla nostra gioventù e a tante famiglie disperate in tempi brevi. Al tempo stesso colpirebbe la disuguaglianza e rafforzerebbe la domanda interna. Le risorse si trovano dove un tempo le trovavano i partiti della sinistra e i sindacati non asserviti: facendo leva sulla lotta sociale, con una pressione di massa che trasferisca aliquote significative di ricchezza dalle immense e crescenti rendite accumulate nelle fasce alte della società. La Coalizione sociale di Landini e altri dovrebbe porsi come centrale tale obiettivo, non solo per le ragioni già dette. Con le politiche correnti, senza un cambiamento dei trattati dell'Unione - ottenibile da un vasto movimento di massa continentale - è evidente a tutti noi che il prossimo avvenire, in Italia e in Europa, sarà delle destre. Con conseguenze imprevedibili per la democrazia.
Il gruppo dirigente della CGIL che critica e dissente da Maurizio Landini per la costituzione di una Coalizione sociale - ancorché lo faccia per comprensibili ragioni...>>>
Il gruppo dirigente della CGIL che critica e dissente da Maurizio Landini per la costituzione di una Coalizione sociale - ancorché lo faccia per comprensibili ragioni - dovrebbe, per dirla col vecchio linguaggio del catechismo, farsi un esame di coscienza. Viene infatti spontaneo chiedersi, di fronte agli sforzi del segretario della FIOM di porre argini a una situazione di estrema gravità di tutto il mondo del lavoro, quali iniziative abbia preso, quali proposte di mobilitazione e di lotta abbia avanzato negli ultimi sette terribili anni la CGIL nazionale. Perché, bisogna ricordarlo, il periodo che va dal 2008 ad oggi, non è stato di ordinaria storia del mondo.
La menzogna pubblicitaria che oggi ispira la politica rivela, fra le altre cose, come il conflitto insonne che i poteri economici e finanziari muovono contro i lavoratori persegue sempre più l'innovazione simbolica e cerca di raggiungere pubblici vasti. Perciò restare fermi, silenziosi, dentro i luoghi di lavoro o i propri uffici, come ha fatto la CGIL in tutti questi anni, in difesa dell'esistente, dei vecchi e consolidati diritti, ha portato e porterà a continue sconfitte. Il pachiderma assediato da una muta di cani difficilmente si salverà, se non prova a cambiare la sua disperata situazione assestando qualche calcio che apra una breccia tra gli assedianti. Certo, la condizione della CGIL e di tutti i sindacati del mondo oggi è terribilmente difficile. Si è eclissata nei parlamenti la forza politica amica, i partiti comunisti o socialdemocratici. Gli imprenditori e i finanzieri possono investire, aprire aziende, spostare capitali in ogni angolo del pianeta. I lavoratori e i sindacati sono inchiodati nel territorio delle nazioni. Ma che cosa è stato tentato per incominciare a fronteggiare una asimmetria così grave e penalizzante?
Non sono state certo poche le critiche mosse al ddl sulla scuola approvato dal Consiglio dei ministri il 12 marzo scorso, anche da parte di commentatori...>>>
E' fin troppo evidente che tanta discrezionalità nelle mani di un capo, sia pure accompagnato da una “squadra “ di docenti, darebbe luogo ad arbitri, pratiche clientelari, corruzione. Mentre si trasformerebbero gli istituti scolastici in luoghi di tensione e conflitti, con la lacerazione del corpo docente, non senza risvolti e code giudiziarie, come ha paventato qualche commentatore (Il preside dell'Istituto Tecnico Avogadro di Torino in Corriere della sera, 14 marzo). Di sicuro, in pochi anni la scuola perderebbe quel po' di concordia interna che ha fatto operare per decenni insegnanti e studenti come un collettivo di lavoro. Un clima di cooperazione reso possibile dalla impersonalità delle norme, fondate sul merito, che ha selezionato i docenti della scuola italiana sino a oggi: pubblici concorsi, abilitazioni, corsi di aggiornamento, ecc . E' evidente che l'idea del preside che chiama all'insegnamento e distribuisce qualche mancia serve anche a coprire la magagna che tutti conoscono: la condizione di assoluta indigenza in cui sono lasciati da decenni gli insegnanti della scuola italiana. Giocatore delle tre carte, Renzi si fa pubblicità come riformatore e innovatore, ma nasconde quel che è drammaticamente necessario alla scuola italiana per farla risorgere: investire risorse e soprattutto portare a un livello di dignità europea gli stipendi dei professori.
L'idea del preside-capo si presta tuttavia a considerazioni più generali. Non deve sfuggire che anche nel campo della scuola si manifesta l'ossessione di Renzi per il comando. Lo si vede nei suoi rapporti col Parlamento e con i compagni del suo partito, lo si è visto con il Jobs act, che dà all'imprenditore la libertà di licenziare, ora nella riforma elettorale in discussione, che dovrebbe fornire il nome del vincitore alla chiusura delle elezioni. Non è solo un dato caratteriale del presidente del Consiglio. L'evidente incremento di tratti autoritari nelle società di più o meno antica democrazia è il risvolto inevitabile di un assoggettamento crescente del ceto politico alle pressioni dei poteri economico-finanziari. Se i corpi intermedi, le istituzioni, le casematte che hanno regolato i rapporti tra i cittadini e tra questi e il potere, in una società complessa, sono rappresentati come ostacoli al libero mercato, alla fine questa società si può tenere insieme solo tramite centri di comando assoluti. Ma la scuola è un terreno delicato e particolare.
Io credo di sapere in realtà dove vogliono andare, non per capacità divinatorie, ma perché da anni i governi intervengono sulla scuola e si possono ben scorgere quali sono le loro intenzionalità riformatrici. Quel che ossessiona infatti i riformatori è l'efficienza della macchina istituzionale, senza nessuna preoccupazione della qualità dei saperi, del livello della formazione che viene fornita ai ragazzi. E questo per una ragione ben precisa. Tutta la visione progettuale del legislatore si esaurisce in un ben misero intento: adeguare la scuola alle esigenze mutevoli del mercato del lavoro. E allora occorre porre il quesito: dobbiamo innovare la scuola in tale direzione, immettere sempre più direttamente anche le istituzioni del sapere e della formazione nel tritacarne del mercato? Questa domanda è utile perché essa mette di fronte a due strade diverse che non sempre sono distinguibili nel dibattito corrente, ma che occorre avere ben chiare se si vuole elaborare un progetto di scuola all'altezza delle sfide che ci si parano innanzi.
Ma oltre a quello civile e storico-politico c'è un campo conoscitivo di prima grandezza di cui la s cuola dovrebbe occuparsi: il campo delle scienze, soprattutto di quelle della natura e del modo di insegnarle. E' un nodo decisivo per la formazione culturale dei nostri ragazzi. Non solo e non tanto perché un apprendimento di buon livello delle scienze assicura poi una superiore capacità del lavoro professionale che ciascuno andrà a svolgere. Ma soprattutto perché oggi un insegnamento interdisciplinare dei saperi scientifici appare decisivo per formare i giovani alla lettura della complessità del mondo.Un mondo sempre più interrelato che stiamo distruggendo per l' ignoranza dei più, oltre che per l'interesse egoistico dei pochi. L'attuale formazione scientifica dei nostri ragazzi è inadeguata rispetto ai drammatici problemi che stiamo creando alla casa comune del pianeta. Mentre della scienza si esalta superficialmente l'aspetto tecnologico, quello che serve al mercato del lavoro, alla “crescita”. Eppure si dimentica che perfino la disciplina da cui dipende quasi tutto delle conquiste tecnologiche del nostro tempo, la fisica, costringe oggi a una visone interrelata della natura: «Ancora una volta il mondo sembra essere relazione, prima che oggetti» ( C.Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi). Nella nuova scuola la conoscenza scientifica dovrebbe fare acquisire ai giovani un nuovo sapere scientifico-morale: l'idea di un rapporto uomo-natura meno arcaica di quello dei loro padri.
L'articolo è stato inviato contestualmente al manifesto
Tale riflessione ci consente di vedere la più ampia portata delle recenti politiche della UE.Oggi non siamo solo di fronte a una strategia economica controproducente in un periodo di crisi. Quello che si stenta a cogliere è che essa rappresenta ormai un nuovo orizzonte programmatico dei tecnocrati di Bruxelles. E' emerso sempre più chiaro da un paio di anni con il Patto europlus che impone ai governi dell'Unione le regole del Fiscal compact. Si impone che il disavanzo strutturale di ogni stato non superi lo 0,5% del Pil. Ma il Pil dei paesi di capitalismo maturo è sempre più poca cosa, com'è noto, se mai tornerà a crescere. E come potrà crescere con la contrazione della spesa pubblica? E quanto potrà spendere, con tali patti iugulatori, lo Stato italiano – che in 20 anni deve riportare il suo enorme debito al 60% del Pil - per potenziare la scuola, per ridare dignità e risorse all'Università, per consentire ai comuni di proteggere i loro territori, per mantenere in piedi la sanità coi suoi crescenti bisogni, per tutelare il nostro immenso e immeritato patrimonio artistico?
Dunque, l'UE appare oggi non solo lontanissima dai generosi propositi dei suoi primi ideatori, ma manifestamente peggiorata rispetto anche alla squilibrata fisionomia che si era data con i trattati. La sfida della costruzione di una economia sociale di mercato, che doveva competere con gli USA e col mondo, è stata abbandonata. Oggi le ammaccate conquiste del nostro welfare continuano a proteggere ampie fasce di popolazione dalle asprezze del cosiddetto mercato. Ma di questo passo esse saranno in gran parte spazzate via. In Europa un solo assillo sembra far vivere la volontà degli stati di stare insieme:la logica usuraia della solvibilità del debitore. Chi presta soldi deve riaverli con i giusti interessi. L'Unione, una delle più grandi creazioni politiche dell'età contemporanea, si avvia, dunque, sotto il furore del dogmatismo tedesco, a ridursi a un cane morto.
Fino ad oggi l'Expo di Milano, che aprirà i battenti nella prossima primavera, ha attirato l'attenzione del pubblico italiano e internazionale per gli episodi di corruzione legati alla costruzione dei suoi edifici e spazi espositivi. E ancora oggi, su quell'evento, si concentrano polemiche sui tempi di realizzazione dei vari padiglioni e soprattutto su attese di arrivi, di incassi, di afflussi di pubblico e di denaro. Poco o nulla dei contenuti che dovrebbero animare la mostra, se non gli accenni al cibo, tema nel quale non c'è italiano che non si senta un maestro. Eppure l'Expo dovrebbe riguardare anche l'agricoltura, perché senza di essa non si da cibo. In questo 2015, che sarà l'anno del suolo, si dovrebbe anzi ricordare che non c'è agricoltura senza terra. E qualcuno ha cominciato a farlo, prendendo sul serio l'occasione che l'Expo può offrire per un salto di qualità nella comprensione dei problemi agricoli ed alimentari del nostro tempo, per rendere popolari questi temi presso il largo pubblico e le nuove generazioni. Il 13 e il 14 di gennaio, a Firenze, su iniziativa di Vandana Shiva l'associazione Navdanya internazional, presieduta da Caroline Lockart, ha organizzato un seminario sul tema del suolo, con studiosi di varie discipline e nazionalità. L'incontro aveva una finalità editoriale: preparare un Manifesto - simile a quelli sui Semi, o sulla Conoscenza, che negli anni passati sono circolati a Terra madre, a Torino - intitolato Terra viva. Il suolo come bene comune. Il Manifesto verrà tradotto in varie lingue e messo a disposizione di un pubblico internazionale.
Il fitto dibattito di questi due giorni ha fatto emergere un originale quadro interpretativo dell'attuale stato di disordine dell'economia mondiale. L'economia, non soltanto quella agricola si fonda su un originario misconoscimento: il suolo è valutato come un contenitore vuoto che si può riempire a piacimento, con le nostre attività, un supporto neutro su cui si può produrre e edificare tutto. Ma esso è un organismo vivente, è un ecosistema su cui si basa la vita sulla terra. Un bene scarso e non facilmente rigenerabile, distribuito in maniera ingiusta e disuguale. Lo sanno milioni di contadini nel mondo, che ne hanno troppo poco per sfamare i loro figli, che se lo vedono sottrarre dalle attività minerarie o dall'avanzare del cemento. In Italia ce ne rammentiamo ogni tanto, quando le alluvioni sconvolgono città e territori ricordandoci che le piante proteggono dall'erosione, che i campi verdi, anche incolti, sono spugne che assorbono la violenza dell'acqua piovana. Ma i successi dell'economia industriale hanno creato l'illusione dell'onnipotenza tecnologica. Le alte rese che si sono succedute nei raccolti, nelle agricolture occidentali, sopratutto a partire dagli anni '50 del '900, hanno radicato l'idea che tutto è possibile, indipendentemente dal suolo, dalla natura e dai suoi equilibri.
Ma ciò che è rimasto a lungo nascosto è che il miracolo dei semi era dipendente dal crescente uso della concimazione chimica. Lo storico francese Paul Bairoch, ha ricostruito le stupefacenti cifre statistiche che svelano l'arcano della nostra prosperità alimentare. Tra i primi del 900 e il 1985 i rendimenti del grano son cresciuti nei vari paesi d'Europa di 3 o 4 volte. Ma nello stesso periodo il consumo di fertilizzanti chimici nelle campagne della Germania è aumentato 9 volte, 17 volte in Italia, 20 in Spagna. Quella fertilità non veniva dai suoli d'Europa, ma dai fosfati estratti in Marocco o nelle isole del Pacifico, dall'azoto prodotto industrialmente col petrolio pompato in qualche angolo del mondo. L'intero modello della nostra economia estrattiva, lineare, non ciclica, che consuma una volta per tutte, senza nulla restituire alla terra, è nelle poche cifre fornite dal geologo americano D.A. Pfeiffer nel saggio Eating fossil fuels. (2006).Negli anni in cui si realizza la cosiddetta rivoluzione verde, tra il 1950 e il 1985, la produzione mondiale del grano conosce un incremento che sarebbe sciocco non considerare senza precedenti. Essa aumenta del 250%. Ma il consumo di energia fossile negli stessi anni tocca un picco di aumento del 5000%. L'aumento di produzione e l'innovazione tecnologica di tutto il settore (concimi, macchine, pompaggio elettrico dell'acqua,diserbanti, pesticidi) si è fondato su un consumo gigantesco di energia, sulla dissipazione di risorse non rigenerabili del suolo e del sottosuolo.
Tale economia lineare svela oggi i suoi limiti e annuncia le sue minacce. Il suolo fertile comincia ad apparire scarso, scompare la falsa infinità della natura ed ecco esplodere il fenomeno del land grabing. Milioni di ettari di terra, dell'Africa, del Brasile, del Vietnam vengono accaparrati non solo dalla Cina, ma anche dagli Emirati Arabi, dalla Corea del Sud., dall'Arabia Saudita. Non si comprano semplicemente le derrate per sfamare le popolazioni, si acquisiscono direttamente i suoli trascinandoli nel gioco del mercato capitalistico mondiale. L'eterno imperialismo si riaffaccia in nuove forme ed esso alimenta scontri tribali, conflitti, guerre. Oggi appaga il senso comune e l' ipocrisia dell'Occidente ricondurre i sanguinosi conflitti in corso alle divisioni religiose. Non solo si dimentica il fanatismo dell'Occidente, chiamato crescita, ma non si vuol vedere che quello sanguinoso, ad esso speculare, è il travestimento ideologico con cui il mondo degli sconfitti, schiacciato dalle violenze dell'economia globalizzata, dà senso alla sua ribellione.
Occorre dunque rovesciare il paradigma, scuotere dalla fondamenta la cultura dominante, fondata sul successo dei risultati immediati e sulla cancellazione delle fonti originarie della ricchezza.La storia dell'economia contemporanea è infatti fondata su una successione stratificata di occultamenti. L'agricoltura nasconde lo sfruttamento dell'energia fossile alla base dei suoi successi produttivi, l'attività dell'industria a sua volta tiene celate le immense quantità di materia e risorse che essa trasforma in merci, la finanza mette in ombra l'economia reale su cui si fonda esaltando la crescita autonoma dei suoi rendimenti virtuali. Ma l'intera economia nel suo complesso nasconde che il punto di partenza di tutto è la terra, il suolo.
Scopo del Manifesto Terra viva, è dunque mostrare la via dell'economia circolare. La Terra è un sistema chiuso.Occorre restituire quello che le si sottrae. L'agricoltura non può continuare all'infinito a surrogare la fertilità del suolo con la concimazione chimica. Già essa contribuisce per circa il 40% al riscaldamento climatico. Mentre è noto che la conservazione della fertilità del suolo gioca un ruolo rilevante nella cattura del carbonio e dunque nella riduzione dei gas serra. Occorre incrementare la nuova agricoltura già all'opera, non solo in campagna, fondata sulla piccola impresa biologica, ma anche in città. Impiantare orti e alberi nelle aree dismesse, nelle periferie, nelle terrazze, nei giardini. E occorre riportare alla terra i residui della nostra cucina, gli scarti organici della vita cittadina, ridando fertilità alla terra senza ricorrere alla chimica, incrementando la cattura di carbonio nel suolo. In questo esempio di economia circolare aumento della fertilità e della ricchezza, risparmio energetico, diminuzione della dissipazione sono tutt'uno. Per questa via l'agricoltura biologica, fondata sulle piccole aziende non è solo un settore economico che dà cibi più sani e rispettosi dell'ambiente, ma costituisce un frammento di economia circolare a cui tutti i cittadini possono concorrere, grazie alla selezione dei propri rifiuti, riconoscendosi - come' stato per secoli, per milioni di cittadini d'Italia e del mondo – i fertilizzatori del suolo da cui proviene il cibo che essi non producono.
Il paesaggio di corruttela e intreccio criminale che domina da anni la vita politica e amministrativa di Roma, a essere onesti, non dovrebbe stupirci...>>>
Costituirebbe tuttavia un errore interpretare il problema grave ed enorme nella sua normalità ricorrendo a categorie morali di interpretazione. Perché, come dovrebbe essere ovvio, la corruzione e la predazione sistematica del bene pubblico, sono un problema eminentemente politico. Possiamo chiederci perché tutti gli scandali esplosi negli ultimi anni vedono coinvolti uomini politici, rappresentati di partiti, eletti nelle amministrazioni locali? Perché nell'affare fraudolento, direttamente o indirettamente, è protagonista o ha comunque un ruolo di rilievo la figura del partito politico? Dovremmo ricordarci che per oltre tre decenni, nella seconda metà del '900, in quasi tutte le democrazie occidentali, i partiti politici sono stati, come diceva Gramsci, gli «organizzatori della volontà collettiva». Essi fornivano coesione sociale, rappresentanza, voce alle masse dentro lo stato. Erano dei grandi collettori d'istanze sociali e per ciò stesso educatori di legalità, insegnavano il valore del conflitto sociale come strumento collettivo di espressione e di emancipazione. La lotta sociale educa gli individui a pensarsi come corpo sociale e a trovare in essa, e non nelle scorciatoie personali, o nelle pratiche truffaldine, la via per far valere le proprie ragioni e i propri diritti. Com'è noto, da tempo, questa realtà ha fatto naufragio.
I partiti di massa sono stati divorati al loro interno dai poteri economico-finanziari. In Italia – ha scritto Luigi Ferrajoli nel II vol. dei suoi Principia juris (Laterza, 2007), un testo ricchissimo di indicazioni riformatrici – la perdita della dimensione di massa dei partiti, deriva anche «dalla crescente separazione dei partiti dalle loro basi sociali: per la loro progressiva integrazione nelle istituzioni pubbliche fino a confondersi con esse e a svuotarle e a spodestarle; per la loro trasformazione da associazioni diffuse sul territorio e radicate nella società in vaghi e generici partiti d'opinione, per la loro perdita di progettualità politica e di capacità di coinvolgimento ideale e di aggregazione sociale; per la loro sordità, il loro disinteresse e talora la loro ostilità ai movimenti sociali e alle sollecitazioni esterne». Si comprende, dunque, perché sono sempre di meno i cittadini che credono di poter far valere i propri diritti (lavoro, studio, casa, salute) attraverso le vie legali della pressione sulle proprie rappresentanze politiche: la diserzione crescente dall'esercizio del voto lo prova a sufficienza. Mentre aumenta il numero di chi cerca soluzioni informali e private ai propri crescenti problemi. Questa è da tempo la realtà di gran parte del Mezzogiorno, ma ormai costituisce l'humus ideale su cui prospera e si estende, in tutta Italia, un clientelismo di nuovo tipo, talora con propaggini criminali più o meno ampie.
Si potrebbe obiettare che nelle altre grandi democrazie al declino dei partiti di massa non ha corrisposto un pari tracollo delle strutture della legalità. L'obiezione, fondata, rinvia a specificità di lungo periodo della nostra storia nazionale, che qui non si possono neppure sfiorare. Ma si possono fornire spiegazioni sufficienti pur rimanendo nell'ambito della storia recente. Ebbene, come possiamo separare il quadro di devastazione civile e morale di Roma, offertoci dalla inchiesta giudiziaria in corso, da quanto è accaduto in Italia negli ultimi 20 anni? Come si possono separare i nomi di Carminati e Buzzi dalla cultura del sopruso e della illegalità profusa a piene mani per oltre vent'anni dal potere politico e di governo di Silvio Berlusconi? L'Italia, unico paese in Occidente, è stata lacerata da un conflitto di interessi senza precedenti e senza paragoni con altri stati civili del mondo. L'esecutivo della Repubblica è stato ripetutamente messo al servizio dei problemi giudiziari del presidente del Consiglio e degli interessi delle sue aziende, il parlamento è stato ripetutamente umiliato, gli interessi personali e quelli pubblici resi indistinguibili. E messaggi di impunità sono stati lanciati per anni agli imprenditori, con l'abolizione del reato di falso in bilancio, l'esortazione e la pratica dell'evasione fiscale, agli speculatori edilizi con i condoni e la libertà di saccheggiare il territorio, agli evasori fiscali con condoni benevoli per il rientro dei loro capitali. Quale altro incitamento alla frode dovevano ricevere gli italiani, addirittura dai vertici del potere politico, per perdere ogni fede – già scarsa per antica debolezza di disciplinamento civile – nelle regole comuni della nazione? Quale altro lasciapassare dovevano ricevere i gruppi affaristici e criminali per intraprendere le loro pratiche, in cooperazione con gli elementi più spregiudicati dei partiti?
Rammentare brevemente questo devastante passato consente di guardare con altri occhi alla reazione di Renzi di fronte ai fatti di Roma. Egli ha detto che è stanco di indignazione e che vuole i fatti. Siamo stanchi anche noi, ma innalzare le pene per chi corrompe e sequestrare i beni di chi delinque, non è sufficiente. E' certo apprezzabile in sé, ma ancora una volta mostra l'abilità del presidente del Consiglio di trasformare qualunque problema in occasione di pubblicità elettorale. La trovata, che placa un po' l'ira delle moltitudini e seda il moralismo dozzinale dei nostri media, nasconde una ben più grave realtà sostanziale. Renzi, emerso alla ribalta come un novatore, capace di riscattare la nazione dai suoi vecchi vizi è in realtà un continuatore.
Articolo inviato contemporaneamente al manifesto
Quale perversa ironia della storia è oggi all'opera perché Venezia muoia! Tutto ciò che nella sua storia è stato primato, la supremazia>>>
Quale perversa ironia della storia è oggi all'opera perché Venezia muoia! Tutto ciò che nella sua storia è stato primato, la supremazia nei commerci, la genialità delle sue edificazioni, la sua bellezza senza uguali, la minacciano ormai apertamente di estinzione. E il colmo dell'ironia è racchiuso nel fatto che, a differenza di pressoché tutte le altre città del mondo, Venezia, sin da quando esiste è stata dominata da un costante, quotidiano, imperativo: salvarsi. Venezia ha convissuto infatti per secoli con la minaccia della sua distruzione. Chi la minacciava? Le tempeste periodiche dell'Adriatico che di tanto in tanto la colpivano. Ma il pericolo maggiore veniva essenzialmente dalla stesse potenti forze che l'avevano fatta nascere. La città è infatti un'isola - o meglio un insieme di isolotti poi collegati dai tanti ponti oggi calcati da torme di turisti - all'interno di una vasta laguna di circa 550 Km2. Un mare interno che per secoli è stato porto naturale, luogo di pesca, via di transito e di mobilità urbana.
La condizione in cui versa oggi Venezia è stata più volte denunciata. E corre qui l'obbligo di ricordare almeno un importante testo, uscito da un piccolo editore, Corte del Fontego, Venezia è una città (2009), di Franco Mancuso, con la prefazione di Francesco Erbani. Fondamentale per capire come è stata costruita Venezia, ma anche per le analisi circostanziate sui vuoti che si stanno creando, in città e nelle isole, e sulle possibilità di nuove forme di utilizzo e di vivificazione umana e culturale dei suoi spazi. Una nuova vita può rifiorire a Venezia, se la politica torna ad essere progetto sociale, urbanesimo: vale a dire abitazione degli spazi secondo le direttive di bisogni collettivi.
Il saggio di Settis ha il merito di non fermarsi all' analisi del gioiello lagunare.Venezia è un laboratorio che ci mostra quel che sta accadendo ai nostri centri urbani e quale destino li attende se non verranno governati da una cultura coerente con la loro storia: quella storia che in Italia ha visto fiorire – esempio senza pari in Europa e nel mondo – le nostre “cento città”. E pagine intense Settis scrive sul senso profondo delle nostre creazioni urbane. Esse, ricorda, non sono solo le mura, gli edifici, le piazze, le strade, ma hanno anche un'anima. E l'anima non è solo i «suoi abitanti, donne e uomini, ma anche una viva tessitura di racconti e di storie, di memorie e di principi, di linguaggi e desideri, di istituzioni e progetti che hanno determinato la forma attuale e che guideranno il suo sviluppo futuro. Una città senz'anima, di sole mura, sarebbe morto peso e funebre scenario, come dopo una bomba al neutrone che abbia distrutto ogni forma di vita, lasciando intatti gli edifizi a uso di un conquistatore che arriverà». Riprendendo una metafora di Italo Calvino Settis parla di una “città invisibile”, che vive e anima quella visibile delle pietre.
Ma Venezia è anche un significativo pretesto per denunciare una tendenza che imperversa nel resto d'Italia e del mondo. Non si tratta solo di prendere atto che «La città degli uomini, o “a misura d'uomo” ha ceduto il passo a una macchina produttiva di merci e di consumi». Ma occorre cogliere e combattere la modernità fasulla che avanza, quella tendenza dispiegata che potremmo chiamare la separazione tra architettura e urbanistica, il distacco esibizionistico della singola costruzione, che non ubbidisce ai bisogni, anche estetici di una comunità – come è avvenuto per secoli nelle nostre città - ma è frutto di una invenzione affaristica. Una china culturale incarnata perfettamente nella corsa ai grattacieli, anche quando nessun incremento di popolazione o altra necessità li reclama. «La retorica delle altezze, che trapianta nell'architettura e nella città la competitività dei mercati finanziari».
Merito di questo pamphlet di Settis è infine di aver chiarito che cosa deve significare conservazione e tutela. Questa è tutt'altro che imbalsamazione del passato, come vorrebbero far credere tanti progressisti fautori del “nuovo”, purché sia nuovo. «Il paradosso della conservazione – ricorda – è che nulla si conserva mai né mai si tramanda se resta immobile e stagnante. Anche la tradizione è un continuo rinnovarsi … la memoria storica delle nostre città non richiede la stasi, esige il movimento. Non predica l'imbalsamazione, esalta la vita». La tutela si fa nel flusso della storia che avanza e perciò necessita di cultura, equilibrio, creatività, progetto che interpreti i bisogni collettivi e legga in profondità le tendenze dell'epoca.
Sappiamo ormai bene quale potenza sprigionino le parole nel creare il nostro immaginario quotidiano. Esse sono... >>>
Non è senza significato se ormai da diversi anni le parole nuove che fanno ingresso nella sfera della comunicazione pubblica provengono in prevalenza dal mondo della tecnica e delle merci. L'innovazione linguistica del nostro tempo sembra interamente affidata a termini come software web, wi fi, post, app, oppure iphone, smart phone, tablet, ecc, che costituiscono la prosecuzione merceologica dei lemmi delle tecnologia comunicativa. Se si riflette bene, anche in un ambito nel quale si offre un vantaggio collettivo – quello di una più ampia diffusione della comunicazione e dell'informazione – dominano in assoluto le parole che designano mezzi, strumenti. Utensili per qualche scopo che rimane indeterminato e privo di contenuto.
Questa prevalenza del significato strumentale delle parole su quello dei fini, si osserva bene nel linguaggio corrente della politica . Quali sono i termini ricorrenti, le sdrucite parole del bla bla quotidiano, che riempiono le pagine dei quotidiani, le chiacchiere corrive del discorso televisivo? Sono parole- utensili, mezzi di qualche altro mezzo: riforme, flessibilità, crescita, competizione. Per quale altro fine se non quello di portare doni sacrificali al totem del Pil? E per quale scopo incrementare il Pil? Non è detto. Perché ormai sono diventate impronunciabili le parole benessere collettivo, felicità pubblica, qualità della vita, godimento spirituale, fruizione della bellezza, convivialità. E' un edonismo insostenibile per il potere del nostro tempo, che ha messo al centro della scena l'individuo, solitario consumatore e solitario produttore, che deve lottare come un leone per essere competitivo, per primeggiare, per conseguire l'eccellenza: il tutto per un fine mai detto, ma che si suppone essere l'approdo al paradiso delle merci. Ancora un arsenale di altri strumenti
Giova rilevare, in questo festival parolaio dei mezzi, la scomparsa del termine sviluppo dal dibattito corrente. E' stato interamente assorbito dal lemma crescita (growth), vale a dire l'incremento della della ricchezza senza nessun aggettivo, senza neppure un accenno alla sua qualità, per non dire alla sua sostenibilità. Abbiamo già dimenticato che la crescita – che si vuole per giunta illimitata – si svolge entro i limiti materiali di risorse finite, nella sfera di equilibri naturali fragili, da cui sempre di più dipende la nostra stessa sopravvivenza?
Qui noi cogliamo almeno un tratto del tracollo egemonico in atto nel campo capitalistico. Parlo di egemonia, non di dominio, che si è anzi accresciuto in questi anni di crisi. I poteri dominanti non hanno più parole capaci di indicare i fini per i quali si affannano a indicare i mezzi. Non solo gli stessi mezzi sono diventati sempre più scarsi per una massa crescente di individui. Ma quando si provano a indicare le prospettive, il premio, il traguardo per il quale è necessario oggi ingaggiare la lotta per la vita devono ricorrere al nulla: al termine futuro. Devono cioè rinviare a un tempo che non c'è ancora, a un vuoto limbo di possibilità senza contenuti. E non facciamoci intimidire dalla sprezzante aggettivazione con cui la recente “sinistra neoliberista”, bolla come vecchio e dunque da gettare in discarica, ciò che non appare all'altezza dei comandi più aggiornati del potere economico. Essa infatti disprezza come obsoleto non ciò che non corrisponde agli umani bisogni, non ciò che non ha più radici nella realtà, ma ciò che appare inadeguato alle necessità della crescita, ai bisogni congiunturali delle imprese. E' una ricerca del nuovo che traduce in linguaggio politico un imperativo commerciale: il bisogno incessante di rendere obsolete le merci, per fare arrivare sul mercato quelle appena prodotte, gli ultimi modelli. In quel nuovo pubblicitario traluce la trasformazione spirituale consumatasi negli ultimi decenni dentro l'umana soggettività: la mercificazione della mente.
Dunque, quello delle parole è un territorio dove la sinistra può raccogliere le sue insegne, i suoi simboli, i suoi messaggi, i suoi valori ancora intatti, il suo immaginario accogliente. Noi possiamo mostrare l'umana felicità possibile su questa terra, mentre l'avversario si è trasformato in un aguzzino che comanda paradossali eroismi agli individui: una vita eroica e da poveri in un mondo opulento.La gioia di vivere, il benessere collettivo, la difesa dei beni comuni ( importante conquista recente del linguaggio e dell'immaginario): dalle risorse naturali, alla bellezza dei monumenti e del paesaggio, dal mangiar bene e sano alla sicurezza dei cittadini nel territorio, dalla salubrità dell'ambiente al tempo di vita sottratto al lavoro. E il mezzo per perseguirli non è la competizione, ma la solidarietà: che è un mezzo e al tempo stesso un fine, perché dà gioia anche a chi la pratica, oltre che a chi la riceve. In questi beni essenziali, in queste vie al ben vivere per tutti in società ricche, sono le nostre parole e i fini della nostra lotta . Ma per dire le nostre parole, con i nostri multiformi “dialetti,” con le nostre preziose diversità, abbiamo bisogno di un luogo dove dirle.Per nostra fortuna questo luogo esiste, ma è ancora in pericolo: è il manifesto. Occorre che tutti a sinistra sappiano che senza il manifesto saremmo senza parole, muti. E ancora più dispersi. Se non diamo a Norma Rangeri e ai suoi e nostri compagni la possibilità di ricomprasi la testata subiremo una delle più gravi sconfitte della nostra storia.
Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto
Renzi definisce conservatori i compagni del suo partito, che resistono all'abolizione definitiva dell'art. 18. Non è la prima volta, negli ultimi anni >>>
Renzi definisce conservatori i compagni del suo partito, che resistono all'abolizione definitiva dell'art. 18. Non è la prima volta, negli ultimi anni, che nel dibattito politico esplode il motivo del conflitto tra conservatori e innovatori. Con un rovesciamento di senso rispetto a quel che normalmente significano questi due termini. E' un collaudato artificio retorico per mettere in difficoltà chi difende diritti e conquiste sociali consolidati, bollandolo come oppositore delle splendide novità portate dalla storia che avanza. Ci sarebbe da chiedersi se tutto il nuovo che si realizza nel corso del tempo corrisponda ad aspirazioni generali, porti benefici per tutti.
Ma poi è sempre da condannare la conservazione? Chi si oppone a che un territorio verde venga coperto col cemento di nuove costruzioni genera un danno alla collettività o crea qualche vantaggio agli abitanti del luogo e più in generale ai viventi? Chi lotta perché la via Appia non divenga luogo di lottizzazione per villette private è certamente un conservatore: vuole preservare le pietre di due mila anni fa da edifici nuovi fiammanti. Ma chi esprime rispetto per la bellezza e la grandezza del nostro passato, chi ha una idea di società meno spiritualmente gretta, chi propone la visione di un paesaggio irriproducibile da godere collettivamente, chi si fa carico delle nuove generazioni, chi esprime un senso dell'interesse generale e del bene comune: è da mettere alla gogna? Tutto questo distillato di civiltà dobbiamo buttarlo via perché è vecchio?
Ma la retorica contro i conservatori ha avuto come bersaglio prevalente le tutele dei lavoratori. Tanto il centro-sinistra quanto il centro-destra hanno aperto una vasta breccia di innovazione nel mondo del lavoro: hanno inaugurato l'era del lavoro precario: lavoro in affitto, a progetto, interinale, somministrato, ecc. Un florilegio mai visto di innovazioni legislative. In Italia la Fornero è riuscita a creare una figura unica nel suo genere: gli esodati, lavoratori senza salario e senza pensione. Nessuno può dire che non si tratti di una innovazione. Stabilire a vantaggio di chi è altra questione.
Ma questa innovazione ci porta “avanti”? Indebolire la classe operaia, dunque il lavoro produttivo non sembra che faccia avanzare le società del nostro tempo. La vasta ricerca di T.Piketty, (Il capitale nel XXI secolo, Bompiani) mostra al contrario come l'ineguaglianza che si va accumulando, stia facendo ritornare indietro la ruota della storia. Misurando il peso crescente che l'eredità va assumendo nelle società industriali odierne, egli ricorda che «il passato tende a divorare il futuro: le ricchezze provenienti dal passato crescono automaticamente, molto più in fretta – e senza dover lavorare – delle ricchezze prodotte dal lavoro, sul cui fondamento è possibile risparmiare. Il che, quasi inevitabilmente, porta ad assegnare un'importanza smisurata e duratura alle disuguaglianze costituitesi nel passato, e dunque all'eredità». Le mort saisit le vif, si diceva un tempo, il morto trascina il vivo, il passato ingoia il presente. I novatori che avanzano innalzando i loro vessilli corrono in realtà verso il passato. L'innovazione dei coraggiosi capovolge non solo la verità morale delle parole, ma anche il corso, preteso progressivo, della storia del mondo.
Quasi non passa giorno senza che il presidente della BCE, Mario Draghi e gli altri strateghi che presidiano il governo dell'Unione si affannino >>>
Quasi non passa giorno senza che il presidente della BCE, Mario Draghi e gli altri strateghi che presidiano il governo dell'Unione si affannino a rammentarci che in mancanza di “riforme strutturali” l'italia non “riprenderà il cammino della crescita”. Le riforme strutturali: espressione ironica della storia. Chi ha memoria del nostro passato ricorderà che la frase “riforme di struttura” è stata coniata da Palmiro Togliatti, diventando uno degli slogan del PCI tra gli anni '50 e '60. Alludeva a profonde trasformazioni da realizzare negli assetti dell'economia e nei rapporti di potere tra le classi.Ora è finita in bocca ai manager finanziari europei, e ai governanti italiani, e serve a dare una accentuazione di radicalità all'intervento invocato, quasi si trattasse di migliorare più profondamente le condizioni del paese.
Dunque, i nostri capitalisti hanno trasferito e investito all'estero ricchezze immense, fondando quasi nuove società industriali fuori dalla rispettiva madre patria, utilizzando a man bassa il lavoro sottopagato e senza diritti dei paesi poveri, facendo mancare risorse fiscali gigantesche ai vari stati. E ora gli strateghi dell'Unione vorrebbero far tornare un po di capitali in patria riducendo la classe operaia europea alle condizioni in cui è stata sfruttata negli ultimi 30 anni in Cina o in altre plaghe del mondo. Ma il quadro delineato da Masulli conferma e approfondisce, anche per altri aspetti noti, con dati quantitativi, le linee storiche di evoluzione delle economie nel periodo considerato. Tale quadro mostra ad es. come l'innovazione tecnologica sia servita prevalentemente a sostituire forza lavoro, ingigantendo l'esercito industriale di riserva.Su questo punto forse l'autore sottovaluta l'innovazione di prodotto realizzata con la microelettronica, soprattutto negli USA. Ma è un fatto che essa non ha creato, come avvenuto in passato con lo sviluppo delle ferrovie, l'espansione della chimica, l'industria automobilistica del '900, quella durevole ondata di nuovi posti di lavoro che erano attesi.
Mentre la produzione, come sappiamo, è diminuita rispetto ai decenni precedenti il 1980: e qui tutta la gloria del capitalismo neoliberista precipita nell'ignominia di una sconfitta storica.Nel frattempo i salari sono ristagnati, è aumentata la disoccupazione. Ma ovviamente sono cresciuti i profitti. Questi si! Crescita dei profitti, nota l'autore, cui però non corrisponde un aumento del processo di accumulazione, vale a dire guadagni dell'impresa reinvestiti nel processo produttivo. Una parte sempre più consistente di tali profitti se ne è andato e continua ad andarsene in dividendi e pagamento di oneri al capitale finanziario. E così il cerchio si chiude perfettamente, dando un profilo netto alla storia economica degli ultimi 30 anni: asservimento della classe operaia, disoccupazione crescente e lavoro precario, debole crescita economica, ingigantimento del potere finanziario e ampliamento delle disuguaglianze. E' questa la musica al cui suono danziamo ormai da anni. Mentre la politica degli stati e quella dell'Unione in primo luogo propongono di ripercorre il sentiero che ha condotto al presente disordine mondiale.
Ora, l'aspetto più clamoroso della presente situazione, soprattutto in Europa, è l'ostinazione con cui i dirigenti dell'Unione e soprattutto i governanti tedeschi e nord-europei si ostinano al restar ciechi di fronte alla realtà che trent'anni di storia ci consegnano. Saremmo ingenui se pensassimo solo al dogmatismo fanatico che è nel genio nazionale dei tedeschi. E sappiamo che a ispirare la politica dell'austerità che ci soffoca, come ha ricordato Paul Krugman, è l'interesse dei creditori. Ma io credo che l'europa di oggi e gran parte degli stati di antica industrializzazione testimonino un mutamento storico finora inosservato, che ormai emerge alla luce del sole. Non solo i vecchi partiti comunisti, socialisti, socialdemocratici sono stati strappati alle loro radici popolari e guadagnati al campo avversario. E' cambiata la forma di razionalità dei governanti. Heidegger diceva che << la scienza non pensa>>.Credo che sbagliasse bersaglio: è la tecnica che non pensa. La ragione tecnica applica dispositivi dottrinari alla realtà, attendendo che essi funzionino perché così accade nei laboratori o nelle simulazioni matematiche. Nella loro ratio se il dispositivo non ha successo è perché si sbaglia nella sua applicazione o questa non è completa. Se il Job Act non funzionerà è perché qualche residua norma impedisce all'imprenditore di licenziare i suoi operai quando più gli aggrada. Dunque, la verità che nessuno vuol dire è che oggi siamo governati da uomini che non pensano. Dove il verbo pensare ha una ricchezza semantica ormai andata perduta nel lessico corrente: significa lo sforzo creativo di rispondere alle sfide della realtà ascoltandone la complessità, cercando soluzioni condivise e di utilità generale con l'arte della politica. I tecnici continuano ad applicare dottrine sconfitte dalla realtà . Ma i politici senza dottrina, come il nostro Renzi e prima Berlusconi, non pensano più dei tecnici. Esercitano l'arte redditizia della comunicazione.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente a il manifesto che lo ha pubblicato l'11 ottobre con il titolo L’immensa ricchezza delocalizzata
La società industriale del nostro tempo ha deragliato dal suo sentiero storico progressista. Almeno dagli anni '30 dell' 800 a ogni salto significativo della capacità >>>
La società industriale del nostro tempo ha deragliato dal suo sentiero storico progressista.Almeno dagli anni '30 dell' 800 a ogni salto significativo della capacità produttiva delle imprese ha corrisposto un'accorciamento della giornata di lavoro. Cosi è stato per quasi tutto il '900. Una conquista del tempo di vita per i lavoratori, ottenuta tuttavia sempre dopo aspre e prolungate lotte. Negli anni '90 del secolo scorso, negli USA, l'inversione di rotta. La rivoluzione informatica imprime al lavoro una capacità produttiva di rilevante potenza. Come ha scritto Joseph Stiglitz, «nei ruggenti anni Novanta, la crescita è aumentata a livelli per i quali di solito non basta una intera generazione». A questo salto avrebbe dovuto corrispondere un significativo accorciamento della giornata lavorativa, un'ampia redistribuzione del lavoro. Avviene il contrario. Ai primi del nuovo millennio operai e impiegati americani lavoravano in media due mesi in più all'anno dei loro corrispettivi europei.
Tutte le analisi di tendenza oggi mostrano come la crescita della produttività del lavoro per opera dell' avanzamento tecnico-scientifico (intelligenza artificiale, robotica, ecc) ridurranno sempre più il ruolo del lavoro vivo, non solo nelle mansioni ripetitive, ma anche nei servizi e nelle professioni. Il capitale finanziario trova sempre meno ragioni per investire nelle attività produttive in una fase di rapida obsolescenza dei prodotti innovativi, di aspra competizione intercapitalistica, di sovraproduzione sistemica, di stagnazione tendenziale. Far scarseggiare il lavoro è una strategia del capitale: indebolisce i lavoratori e li mette in reciproca concorrenza, li costringe ad accettare qualsiasi occupazione, emargina il sindacato, pone sotto controllo la dinamica salariale. Mentre viene ristretta la capacità di investimento da parte del potere pubblico, l'impresa privata appare l'unico agente che crea occupazione, assumendo nella società un ruolo egemonico assoluto. La piena occupazione scompare dall'orizzonte del prossimo decennio.
Il recente pamphlet di Ugo Mattei, Senza proprietà non c'è libertà”falso)... >>>
Mattei rovescia la convinzione dominante secondo cui la proprietà privata fonda la libertà dei moderni, mostrando che essa nasce dalla privazione della libertà di molti ad opera di una èlite di dominatori: «all'origine della proprietà sta il potere e a ogni potere corrisponde una soggezione, ossia qualcuno più debole che, non avendolo, lo subisce.Tanto più libero è il proprietario tanto meno lo è il non proprietario, sicché- anche sul piano logico – l'asservimento può essere affiancato alla proprietà esattamente quanto la libertà». Ed egli conia un geniale sintagma, un'espressione da far diventare di uso comune, la «proprietà privante», come termine che esprime l'altra faccia e la natura escludente della proprietà privata.
Com'è noto, il monumento storico-teorico cui si rifanno i critici della proprietà privata e tanti teorici dei beni comuni è il capitolo 24 del Primo libro del Capitale, dedicato alla Cosiddetta accumulazione originaria. Mattei lo riprende anche in questo testo, dopo averne trattato nel suo Manifesto sui beni comuni. In effetti Marx, tramite una superba sintesi storica, disvela in questo testo l'insieme dei processi da cui nasce il moderno capitalismo. Essenzialmente esso si afferma grazie alla privazione dei mezzi di produzione della grande massa dei contadini inglesi(yeomen) da parte della piccola nobiltà. Ad essi viene sottratta la proprietà della terra e la casa (cottage) e posti in condizione di totale illibertà di decidere sulla propria vita: o il vagabondaggio o il lavoro di fabbrica. Nel frattempo i vecchi e nuovi proprietari chiudono le terre, anche quelle che erano state comuni, e fondano le aziende a salariati. I processi di espropriazione messi in atto dalla nobiltà cadetta con il movimento delle recinzioni (enclosures), a partire dal XVI secolo, non sono altro che la fondazione della proprietà privata dei pochi e l'esclusione e la perdita della libertà sostanziale dei molti. Com'è ormai noto e come Mattei ricorda, questo vasto processo di confisca di terre pubbliche, ecclesiastiche e contadine, su cui si fonda la moderna azienda capitalistica, ha ricevuto una rilevante legittimazione teorica da uno dei fondatori del pensiero politico moderno, John Locke.
Nel Secondo trattato sul governo ( 1690) Locke afferma che qualunque cosa l'uomo «rimuova dallo stato in cui la natura l'ha lasciata, mescola ad essa il proprio lavoro e vi unisce qualcosa che gli è proprio, e con ciò la rende sua proprietà». Immaginare uno stato di natura nell'Inghilterra del XVII secolo, dove un solitario individuo potesse appropriarsi di terre selvagge col proprio lavoro, costituisce una evidente costruzione ideologica, che serviva a legittimare il vasto movimento di espropriazione allora in corso. E naturalmente aveva un valore più generale soprattutto per legittimare ulteriormente il saccheggio nelle colonie americane. Ma Locke segna una svolta rilevante nella formazione del pensiero moderno anche per un altro aspetto. Come ha osservato uno studioso tedesco, Hans Immler, in un vasto studio che meriterebbe una traduzione italiana (Natur in der ökonomischen Theorie, 1985),Locke non solo fonda, con la sua teoria del valore-lavoro «proprietà privata pre-borghese», ma svaluta la natura » come selvaggia e sterile se è bene comune» mentre stabilisce che è l' «appropriazione privata che le dà valore». La natura in sé è un bene inutile, solo il lavoro che se ne appropria, la trasforma in ricchezza: il saccheggio del mondo vivente, e i problemi ambientali che ne seguiranno hanno qui la loro prima, sistematica legittimazione.
Per la verità Marx – che ha uno sguardo meno eurocentrico di quanto Mattei gli attribuisce – sa che il processo di formazione del capitalismo si svolge su scala globale, anche se ha il suo centro in Inghilterra. Egli ricorda, ad es,nel capitolo di cui trattiamo:«Liverpool è diventata una città grande sulla base della tratta degli schi avi che costituisce il suo metodo di accumulazione originaria». Uno dei grandi centri urbani della rivoluzione industriale, orgoglio del capitalismo trionfante, era figlio anche di quel cristianissimo commercio con le Americhe che era la vendita di forza-lavoro in schiavitù. Ma Marx ci ha fornito anche altri strumenti analitici, non meno rilevanti di quelli affidati al celebre capitolo del Capitale. In alcuni passi dei Grundrisse egli ricorda :«la proprietà – il lavoro altrui, passato o oggettivato – si presenta come l'unica condizione per un ulteriore appropriazione di lavoro altrui». Le macchine, la fabbrica stessa, costruite da altri operai (lavoro altrui) non appartengono ai lavoratori , ma sono proprietà dell 'imprenditore e si presentano agli operai stessi come la condizione obiettiva, naturale, che dà loro da vivere, tramite un ulteriore sfruttamento del loro lavoro. Il capitalismo non crea solo merci, ma riproduce e allarga i rapporti di produzione, ingigantisce le gerarchie di potere, rende la proprietà privata un dato di natura che si autoalimenta. «Il diritto di proprietà – continua Marx – si rovescia da una parte (quella del capitalista) nel diritto di appropriarsi del lavoro altrui, dall'altra (quella dell'operaio ) «nel dovere di rispettare il prodotto del proprio lavoro e il proprio lavoro stesso come valori che appartengono ad altri», cioé come proprietà privata del capitalista. E' questa asimmetria originaria di potere, su cui si fonda il rapporto capitalistico di produzione, a diffondere la proprietà privata come architettura generale della società. Questa occulta costantemente il lavoro che l'ha generata e trova poi la legittimazione del diritto e la difesa armata dello stato, presentandosi come una solidificazione geologica indiscutibile.
Mattei insiste spesso sulle retoriche che hanno legittimato la proprietà privata. Credo di poter dare un contributo alle sue riflessioni , accennando al ruolo che le discipline storiche hanno giocato nella costruzione di tali ideologie. Ritengo che la vittoria del modello proprietario nella formazione delle società contemporanee sia inscindibile dal successo economico del capitale. L'azienda capitalistica a salariati a un certo punto è risultata più produttiva delle singola piccola coltivazione contadina o della bottega artigiana. Lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, l'espropriazione della grande massa della popolazione, veniva nascosta dall'efficienza della macchina. La proprietà privata trovava continue giustificazioni nei trionfi produttivi del capitale.E' qui la base dell'egemonia di tale modo di produzione. Non a caso, la pagina di Marx sull'accumulazione originaria è stata trattata dagli storici come la “rivoluzione agricola inglese”, perché mentre i contadini venivano trasformati in salariati, la produzione agricola conosceva incrementi senza precedenti. Quegli storici, infatti, hanno esaltato i processi di liquidazione delle strutture feudali e hanno guardato come a un progresso generale l'avanzare del capitalismo nelle campagne. Perfino un grande storico come Marc Bloch deplorava lo «scandalo del compascuo», vale dire la disponibilità dei contadini di portare le proprie pecore nel fondo del barone dopo i raccolti. La piena disponibilità della terra da parte del proprietario veniva infatti considerata come condizione per un suo più efficiente uso e i vecchi rapporti comunitari visti come un impaccio al pieno sviluppo delle forze produttive.Ma questo atteggiamento apologetico nei confronti dei vincitori – che sorregge tutta la storiografia contemporanea – è figlia anche dell'ambivalenza di Marx, che deplora l'espropriazione dei contadini, ma ammira la borghesia rivoluzionaria impegnata a distruggere il vecchio mondo.E' questo un nodo che ci rapporta all'oggi, su cui occorre investire in analisi e ricerca.
A che serve questa Europa? Ce lo siamo chiesti in tanti, in questi ultimi anni, nei momenti di scoramento, di fronte all'ottusa rigidità >>>
A che serve questa Europa? Ce lo siamo chiesti in tanti, in questi ultimi anni, nei momenti di scoramento, di fronte all'ottusa rigidità con cui i vertici di Bruxelles affrontano i problemi economici e finanziari dell'Unione sotto l'imperversare della crisi. Ce lo siamo chiesto di fronte all'atteggiamento della Germania, che torna a perseguire con altri mezzi una politica di supremazia, nonostante abbia alle spalle la disfatta di due guerre mondiali, la responsabilità recente del più grande massacro dello storia. Continuiamo a chiedercelo avendo rinunciato alla moneta e a tanta parte della nostra sovranità nazionale, senza aver conseguito un più solidale e includente governo del Continente. Ma in questi giorni torniamo a chiedercelo per una ben più tragica ragione. L'impotenza, peggio l'indifferenza, dei gruppi dirigenti dell'UE, ragionieri ingobbiti a fare i conti del PIl, di fronte al massacro del popolo palestinese.Non una parola, una proposta, un tentativo di soluzione è stato balbettato dagli uomini di stato dei vari paesi europei, che da decenni tengono in deposito i loro cervelli presso la Segreteria di Stato di Washington. Ma non sono sufficienti i mille morti di Gaza, in grandissima maggioranza civili incolpevoli, fra cui tante donne e bambini, per sollevare gli occhi dagli affari e guardare in faccia la tragedia ? A che serve questa Europa senza pietà?
Angelo D'Orsi ha denunciato con giusto sdegno il silenzio e il “rovescismo” degli intellettuali (Manifesto del 23/7 ), su cui pesano gravi responsabilità, avendo il compito di spiegare le ragioni complesse del conflitto. Ma anche le opinioni pubbliche del Vecchio Continente appaiono come narcotizzate. Gli europei osservano in TV le immagini del massacro – quelle pietosamente depurate da ciò che è inguardabile – le case distrutte, le donne vestite di nero pietrificate dal dolore, i bambini sanguinanti tra le braccia dei padri disperati. E tacciono. Che cosa è accaduto? Quale sguardo di medusa ha gelato le loro menti? A che serve questa Europa?
Forse una parziale spiegazione è alla nostra portata. I dirigenti di Israele sono riusciti a imporre grazie ai media occidentali – rare volte capaci di una parola di verità – l'immagine di un conflitto alla pari, di due contendenti in lotta con uguali torti e ragioni. Addirittura la propaganda militare dell'esercito israeliano viene trasformata in verità autorevole da prestigiosi intellettuali, i quali, per mestiere, dovrebbero pensare alle parole prima di liberarle nell'aria. In una intervista apparsa su Le Figaro e ripresa da La Repubblica (27 luglio) il filosofo francese Alain Finkielkraut rammenta che «se la civiltà dell'immagine non stesse distruggendo la comprensione della guerra, nessuno sosterrebbe che i bombardamenti sono rivolti contro i civili. No, gli israleiani avvertono gli abitanti di Gaza dei bombardamenti che stanno per fare». Siamo dunque ai bombardamenti umanitari.
Nessuna considerazione per la distruzione delle case di tanta misera gente, delle infrastrutture idriche, delle strade, degli elettrodotti, delle scuole, degli ospedali, del poco bestiame, dei poveri orti. Nessun rammarico per centinaia di migliaia di esseri umani gettati in pochi giorni in una distesa informe di rovine. Ma il filosofo non sa e probabilmente non vuol saper che gli sms annunciano i bombardamenti con pochi minuti di anticipo, che spesso le famiglie sono immerse nel sonno, che i bambini dormono ignorando la ferocia degli adulti e tardano a svegliarsi, che i disperati non sanno dove rifugiarsi una volta lasciate le loro case. E tuttavia il filosofo ha una risposta a questa obiezione: «e quando mi dicono che queste persone non hanno un posto dove andare, rispondo che i sotterranei di Gaza avrebbero dovuto esser fatti per loro. Oggi ci sono delle stanze di cemento armato in ogni casa d'Israele».
A che serve questa Europa se i suoi intellettuali si mettono il doppiopetto di tanta incosciente ferocia? Forse qualcuno dovrebbe ricordare a Finkielkraut un po' di storia. Dovrebbe ricordare che i palestinesi non sono un moderno stato, come Israele, dotato di uno dei più efficienti eserciti del mondo, sostenuto con ingenti aiuti da tutto l'Occidente.Sono un popolo disperso di rifugiati, cacciati dalle loro terre, perseguitati talora dai popoli vicini, umiliati dalla violenza quotidiana dell'occupante. I tunnel sotterranei sono serviti ai palestinesi per ricevere cibo e medicinali e per attivare un mercato clandestino, visto che ben presto Gaza è stato trasformata dai governanti israeliani nel più grande ghetto della nostra epoca. Certo, anche le armi passano nei sotterranei, ma ci si può stupire di questo? Israele dispone di un armamento atomico e si levano strida al cielo perché gruppi e fazioni di un popolo martoriato da otre 60 anni tenti la carta disperata delle armi? I palestinesi dovevano dunque investire in bunker per difendersi dall'immancabile castigo dal cielo, dal mare e dalla terra come già è accaduto con la carneficina della campagna “ piombo fuso” del 2008/09 ?
Con quale onestà, con quale dignità intellettuale si possono mettere sullo stesso piano due opposti estremismi? Possibile che nessun commentatore, nessun giornalista ricordi che sono stati i governanti di Israele, è stato Ariel Sharon a lavorare alacremente per sconfiggere l'Autorità Nazionale Palestinese e gettare il popolo palestinese in braccio ad Hamas ? Chi ha disfatto gli accordi di Oslo, chi ha inaugurato la pratica di sparare dal cielo con gli elicotteri Apache e con i caccia F-16, chi ha esteso gli insediamenti dei coloni nei territori palestinesi, chi ha avviato nel 2002 la costruzione del “muro di sicurezza” in Cisgiordania, chi ha risposto ad ogni provocazione terroristica proveniente da Hamas con una violenza dieci volte superiore, ma rivolta contro le forze e gli edifici di Yasser Arafat? Chi ricorda le immagini del vecchio leader umiliato davanti al suo popolo, reso impotente agli occhi del mondo, rifugiato nelle rovine del suo quartier generale nel settembre del 2002? Chi ricorda le cronache quotidiane di quell'inizio di millennio con l'altalena di attentati terroristici da una parte – che sembravano ispirati dallo stesso Israele, tanto gli tornavano vantaggiosi - e bombardamenti arei, la “punizione esemplare” dall'altra ?
Sharon e la destra israeliana hanno perseguito sistematicamente la distruzione delle rappresentanze moderate del popolo palestinese per far trionfare l'estremismo indifendibile di Hamas. Come avrebbe potuto questa formazione vincere le elezioni del gennaio 2006, se non dopo l'umiliazione di un intero popolo, se non dopo che Israele ha mostrato ad esso che le politiche di mediazione dell' ANP non portavano a nulla? Ma questo è uno dei maggior delitti compiuti dai governanti israeliani negli ultimi anni: l 'avere fatto identificare agli occhi del mondo i diritti violati e le immani sofferenze di un popolo con le velleità impotenti di Hamas. A che serve questa Europa se i suoi intellettuali non sanno pensare con sguardo storico, se si fermano all'oggi, se non gettano luce sulle cause vicine e lontane dei problemi, se sono così proclivi a credere alla favola del lupo, costretto a bere l'acqua sporcata dall'agnello?
Guardando al mondo dissipatore e violento costruito dai potenti negli ultimi decenni, George Steiner si è lasciato sfuggire, pochi anni fa, un timore apocalittico. «Può darsi - ha scritto – che tutto finisca in un massacro». Un bagno di sangue generale e definitivo. A questo desolato timore noi oggi, di fronte al deserto morale di un intero continente, possiamo associare una eventualità certa: in quel caso gli intellettuali europei, prima di sparire, troveranno una rassicurante spiegazione per tutto. A che serve questa Europa?
Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto
Anche in Italia la Grande Crisi è finita. Da qualche tempo viviamo una nuova fase. Oggi siamo alle prese con gli effetti della politica economica della Ue, che ha trasformato la turbolenza finanziaria esplosa nel 2008 in una guerra sociale contro i paesi in difficoltà. Eppure si può trarre un primo bilancio sommario dei risultati politici che essa ha prodotto e continua a produrre. Parlo di risultati politici e mi limito alle forze politiche della sinistra. Non getto neppure uno sguardo al fondo della società che la sinistra tradizionalmente rappresenta e difende: classe operaia, ceti medi, mondo della scuola e dell’Università, lavoratori intellettuali. Qui gli arretramenti sono profondi e generalizzati. Basti pensare all’allungamento dell’età della pensione, all’inferno degli esodati, al dato stupefacente di 6 milioni di poveri assoluti da poco censiti dall’Istat, basti ricordare che quasi un giovane su due non ha lavoro. Per brevità neppure un cenno al sindacato, alla Cgil, un pachiderma che si è definitivamente addormentato.
Dunque, sul piano dell’allargamento del consenso, da questi anni, che pure sono stati di mobilitazione e di lotte, di qualche battaglia vinta (referendum sull’acqua pubblica), risultati più miseri non potevamo raccogliere. Senza il 4% della lista «L’altra Europa con Tsipras» saremmo al disastro. Per dirla con una frase folgorante di Pasolini.
Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto
Vasto dibattito sulla corruzione dilagante nei media italiani. Si cerca di distillare dalla melma ...>>>
Vasto dibattito sulla corruzione dilagante nei media italiani. Si cerca di distillare dalla melma quotidiana i caratteri di fondo della speciale pestilenza che imperversa sui cieli d'Italia. Nella sua pastorale di domenica 8 giugno Eugenio Scalfari, intimo ormai del nostro pontefice, riferiva il giudizio di papa Francesco sulle cause spirituali che sono a fondamento della corruzione: «cupidigia di potere, desiderio di possesso». Il papa più radicale dell'evo moderno coglie nel segno. Ma certo questa attitudine all'accaparramento di beni e potere, che costituisce la febbre quotidiana dell'individuo contemporaneo, è una costruzione storica, non il risultato della perduta innocenza dell'Eden. E' il frutto dell'immaginario collettivo soggiogato dai valori dominanti, drogato dalle trombe quotidiane di un linguaggio pubblico fatto di esortazioni, di incitazioni a crescere, a correre, a produrre di più, a lavorare più a lungo, a consumare oltre, a essere flessibili, efficienti, più belli, più giovani, ad “entrare nel futuro” tramite l'acquisto di qualche nuova auto o televisore ad ampio schermo.
E' dunque l'etica neoliberistica – per fare il verso a Weber – che anima l'attuale spirito del capitalismo, a forgiare gli individui, pronti a qualunque misfatto per ubbidire agli imperativi dell'epoca. E i media, che ora vendono al pubblico le notizie-merce sulla corruzione, sono gli stessi strumenti che distillano correntemente gli impulsi ideologici di cui essa si alimenta. Ma la corruzione mostra anche dell'altro: lo stato nazionale, non solo va perdendo la sua sovranità politica, vede anche disfarsi i suoi collanti civili, per il venire meno di un 'idea di società come progetto collettivo.
Tuttavia, il fenomeno di cui si parla in questi giorni – che certo in Italia assume caratteri speciali – non può essere limitato agli episodi di accaparramento di denaro, aste e bilanci truccati, come fanno universalmente cronisti e commentatori. Gli scandali dell'ultimo mese, per essere afferrati nella loro gigantesca portata, vanno riportati alla misura delle “grandi opere” e collocati nel contesto italiano.
Nelle intenzioni oneste (e nella pubblicità politica) le grandi opere avrebbero il fine di mettere insieme investimenti pubblici e capitali privati per realizzare manufatti di generale utilità, creando al tempo stesso un certo numero di posti di lavoro temporaneo, allargando il mercato dei materiali per alcune fasce di imprese. Osservate nella realtà esse appaiono costruzioni ben più complesse: costituiscono un modo di operare del capitalismo del nostro tempo. Le grandi imprese non investono nella produzione di un nuovo bene, ma nella creazione, in genere, di un servizio. E utilizzando una materia prima non riproducibile: il territorio. Le grandi opere si realizzano consumando e manipolando in modo più o meno irreversibile il nostro habitat. Ed esse sono possibili, com'è noto, grazie al protagonismo del potere pubblico. E qui si annida una prima e spinosa questione.
Chi è il potere pubblico? In genere un sindaco, gli amministratori locali, parlamentari, dirigenti di partito, vale a dire rappresentanti del ceto politico. Questa nuova figura del nostro tempo, senza più ideali a cui ispirarsi, al momento di entrare in contatto con le grandi imprese, subisce una metamorfosi incontenibile. I modesti politici locali e nazionali, immersi nella normale routine, di colpo si ritrovano detentori di un potere enorme, quello di concedere una porzione del territorio nazionale all'uso del capitale privato. La politica entra in contatto con le grandi imprese e tale passaggio le squaderna davanti possibilità impensabili: danaro, potere, contatti importanti con le élites della finanza, visibilità mediatica, buona stampa, ecc. Buona stampa: quel che non emerge mai nelle cronache e nei commenti di questi giorni è il potere di formazione di opinione pubblica che hanno le grandi imprese, attraverso i media locali e nazionali. Quanta nascosta corruzione lega il potere economico-finanziario al mondo del giornalismo?
E' evidente che da questo contatto tra grande impresa e politica sortisce un risultato ormai costante: scolorisce sempre più il proposito di realizzare il bene pubblico e nasce una convergenza di interessi tra due distinti poteri, in cui soccombe l'interesse collettivo.
Sorge dunque una prima rilevante questione: com' è possibile che dei singoli cittadini, in quanto semplicemente eletti (sindaco, parlamentare, ecc) si intestino la potestà di decidere sul destino di aree a volte vaste e delicate del nostro paese? A chi appartiene la Laguna di Venezia, all'ex sindaco Orsoni, all'ex ministro Galan e ai suoi predecessori o, per caso, agli abitanti di Venezia? Se non altro perché la Laguna, e la stessa città che noi ereditiamo, sono il frutto di un'opera secolare di conservazione, realizzata con ingenti sforzi da innumerevoli generazioni di veneziani. E la Val di Susa - già collegata alla Francia con un ferrovia internazionale, con una autostrada e con altre due strade minori - che si vuole sconvolgere con un tunnel di ben 57 km? A chi appartiene la Val di Susa, al sindaco di Torino, a Prodi a Berlusconi, al ministro Alfano, che l 'ha messo sotto assedio con una operazione di guerra di posizione? O non per caso alle popolazioni che da secoli l'hanno resa produttiva contribuendo alla ricchezza nazionale, che l'hanno curata e mantenuta per noi e per le generazioni che verranno? E dov'è il superiore fine nazionale che dovrebbe far tacere i diritti locali? E il sottosuolo di Firenze, dov'è in corso una dissennata opera di escavazione per costruire una stazione sotterranea destinata alla TAV? Appartiene all'ex sindaco Renzi o agli attuali ministri in carica? E che dire dei costi, che secondo il parere di esperti come Marco Ponti, sono di almeno 4 volte superiori rispetto a una stazione di superficie ? Senza dir nulla dei pericoli di dissesto che corre la città, patrimonio dell'umanità. Sono affari degli italiani o del ceto politico, alcuni rappresentanti dei quali sono già sotto inchiesta per questi lavori?
Ma tali considerazioni valgono come preliminari per una situazione di paradosso ormai esplosiva della vita italiana: noi abbiamo davanti una gigantesca e ignorata questione territoriale, fonte di costi continui e crescenti che dissanguano le finanze pubbliche. Il nostro territorio, che per secoli è stato sistematicamente curato e posto in equilibrio dalle popolazioni contadine e dagli ingegneri idraulici, oggi non ha più manutentori, è assediato dal cemento, viene anzi progettualmente devastato dal potere pubblico con le grandi opere. Eppure, ce lo hanno ricordato di recente gli studiosi che hanno collaborato a un volume dell' Istituto Nazionale di Geofisica, (ne ho scritto sul il manifesto del 19 giugno) per i disastri idrogeologici degli ultimi 50 anni noi sopportiamo un costo annuo di 4,5 miliardi di euro. E una somma quasi equivalente spendiamo nel riparare i danni prodotti dai terremoti che con implacabile periodicità, ogni 4-5 anni, colpiscono qualche nostra città o centro abitato.
Dunque quale etica civile può esserci nel progetto di grandi opere che, a prescindere dalla corruzione, distraggono danaro pubblico in opere di dubbia necessità a fronte dei bisogni drammatici del nostro territorio? Mentre le scuole dei nostri ragazzi sono insicure? Mentre le vere “Grandi opere”, quelle che ereditiamo dal nostro passato, da Pompei alla necropoli fenicia di Tuvixeddu in Sardegna, rischiano la degradazione per assenza di cure? Ecco un vasto campo egemonico che la sinistra radicale e popolare può occupare: propugnando un vasto progetto di piccole opere, poco costose e ad alta intensità di lavoro, diffuse, mirate a creare un sistema efficiente di trasporti su ferro, a valorizzare le aree interne con agricoltura e forestazione di qualità, a curare i fiumi e utilizzare le acque interne. Rendiamo permanente nell'immaginario nazionale l'identificazione fra grandi opere e la casta corrotta e imponiamo la nostra superiore progettualità.
Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto, che lo ha pubblicato con un bel titolo (
I topi ballano nel formaggio della Grande Opera) e un utile sommario («Devi essere pronto a qualunque misfatto per far girare la macchina. E’ l’etica neoliberista, lo spirito dell’attuale capitalismo. Modesti politici locali e nazionali di colpo diventano padroni di un territorio da cedere al privato. Corruzione e distruzione vanno insieme») il 24 giugno 2024
All'infuori dei Paesi Bassi, che hanno dovuto strappare tanta parte del loro territorio al Mare del Nord, non esiste in Europa un paese più artificiale >>>
Ma l'Appennino, un vero e proprio caos sotto il profilo della composizione geologica, incombe su tutto lo stivale peninsulare. Come scriveva nel 1919 un gran commis d'etat, Meuccio Ruini, « contorno e rilievo, clima, abitabilità e comunicazioni, relazioni storiche, ogni cosa insomma della Italia penisulare è signoreggiata dall'Appennino e ne riceve l'impronta .>> E questa impronta ha pesato in maniera rilevante non solo sulle colline interne, dove si sono concentrate le economie italiche e italiane, ma anche lungo le pianure costiere, impaludate e ridotte a maremme dai materiali appenninici trascinati a valle dai torrenti. L'Italia moderna è il risultato di un immensa, secolare, totalitaria bonifica dei suoi assetti naturali. Posso portare in proposito – al di la di quello che la ricerca storica ci racconta – una testimonianza singolare. Quando nei primi anni '80 ho studiato la vicende delle bonifiche italiane – per un testo curato insieme a Manlio Rossia Doria, edito poi da Laterza – ho trovato le mie più originali fonti documentarie nelle relazioni degli ingegneri impegnati sul campo in questo o quel lavoro di bonifica. Sia che si trattasse di lavori nel Bolognese o nella valle del Tevere o nella piana del Volturno, nel XVIII o nel XIX secolo, chi pianificava gli interventi si sentiva in obbligo di far precedere il proprio progetto con una una premessa storica sugli interventi che in quello stesso sito erano stati realizzati uno o due secoli prima da altri bonificatori. Una fonte preziosa di informazione storica e insieme la prova di una trasformazione ininterrotta del territorio attraverso successive generazioni. Per rendere abitabili le terre, per estendere i suoli destinati alla coltivazione, per tracciare strade e vie di comunicazione le nostre popolazioni hanno dovuto costantemente trasformare l'habitat naturale, perché esso tende naturalmente al disordine idraulico e al caos dei processi erosivi. Dunque, il nostro è un Paese dove più che altrove le popolazioni devono fare costantemente manutenzione del suolo, altrimenti gli equilibri precipitano. Una condizione necessaria che si è resa storicamente possibile grazie alla presenza secolare dei contadini sulla terra, in virtù del loro essere manutentori del suolo oltre che produttori di derrate agricole. Una condizione, com'è noto a tutti, che oggi non si da più. Il nostro territorio è rimasto abbandonato, in balia delle forze naturali che tendono al disordine idraulico. Non solo. La storia ci ricorda la fragilità della crosta terrestre su cui viviamo. Negli ultimi 100 anni abbiamo subito in media un disastro sismico ogni 4-5 anni e dunque abbiamo dovuto investire costantemente risorse nella ricostruzione di abitati e città. Anche i terremoti ci costringono costantemente a ritornare sui nostri passi, a rifare i nostri artefatti su una natura instabile. Ma forse la catastrofe più grave il nostro paese l'ha subita a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Col passare dei decenni, per arrivare ai nostri anni, è venuta affermandosi una classe dirigente fra le più incolte, irresponsabili e predatorie della nostra storia. Il suolo è diventato occasione di profitti, merce da immettere sul mercato. Una cementificazione illimitata e crescente, magnificata talora con la retorica della Grandi opere, rende il territorio del Bel Paese – che avrebbe bisogno di risorse e manutezione costante, alimentate dalla consapevolezza storica dei suoi drammatici caratteri originali – un luogo di disastri e di spese senza fondo a fine di riparazione.
Ci ricorda ora questa condizione, con grandissimo merito, il libro a cura di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, L'italia dei disastri. Dati e riflessioni sull'impatto degli eventi naturali.1861-2013, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Bologna 2013. I curatori, che nel 2011 avevano dato un importante contributo al centenario dell'Unità con Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni ora ritornano sul centenario con una ricostruzione che racchiude un po' tutti gli eventi catastrofici che hanno colpito la Penisola. Nel testo, oltre a loro scritti, ospitano un largo ventaglio di studiosi che si è cimentato con una seria ricerca storico-scientifica sugli eventi più disparati: le alluvioni del Tevere e della Nera (P.Camerieri e T.Mattioli); di Roma nel 1870 (M:Aversa), le alluvioni e le frane dal dopoguerra a oggi (G.Botta); il Vajont ( G. B.Vai); le inondazioni del Po dal 1861(F. Luino), l'indagine sulle frane alla luce degli eventi estremi e le aggressioni antropiche (M. Amanti); le eruzioni del Vesuvio dal 1861 al 1944 ( G.P.Ricciardi) ; i terremoti distruttivi (E.Guidoboni e G. Valensise). Ma l'elenco è più lungo di questi radi cenni.
I curatori, che hanno alle spalle studi rilevanti sulla storia dei terremoti, non solo italiani, mettono il peso della loro competenza e di quella dei numerosi scienziati che collaborano al volume, nel dibattito corrente sulle alluvioni disastrose degli ultimi anni. E mostrano verità assai poco dubitabili, anche se esse tardano a diventare cultura diffusa, politica lungimirante del ceto politico.Probabilmente il carattere della piovosità in Italia, sotto il profilo quantitativo, non è mutato sensibilmente, Questo sembrano dire le statistiche storiche. Ma forse è mutata l'intensità e la concentrazione temporale delle precipitazioni. E' questo un punto ancora incerto e su cui è aperta la discussione. Per il resto la vicenda recente dei nostri paesi che franano e delle città che finiscono sott'acqua costituisce la conferma una verità storica: l'Italia è un paese fragile, aggredito non solo da pressioni antropiche, ma anche da mire speculative, funestato da frequenti terremoti, ha una strada obbligata davanti a sé. E' quella della prevenzione. Prevenzione e cura del territorio, la stessa che per secoli ha permesso all'Italia di ospitare una popolazione crescente, economie diffuse, di fondare la sua civiltà.
Guardando all'Italia, prima di prendere in esame il dato più vistoso dei risultati, vale a dire la rilevante affermazione del PD di Renzi, qualche considerazione sul successo dell'Altra Europa con Tsipras. E' un successo, una vittoria della sinistra radicale e popolare e non c'è alcuna autocelebrazione in questa affermazione. Il pur risicato 4% del risultato elettorale dice molto di più dei numeri. Bisogna riflettere un po' meno frettolosamente del solito sugli speciali meccanismi che si mettono in moto nelle campagne elettorali.
La vittoria di Renzi è clamorosa, ingigantita dalle false previsioni della vigilia, le quali appaiono ormai strumenti di propaganda elettorale, armi di condizionamento degli elettori volte ad annientare le minoranze. In quel successo confluiscono più elementi, alcuni congiunturali e fortuiti, altri più profondi e forse destinati a diventare sistemici nella vita politica italiana. Senza dubbio ha molto giovato al segretario del PD essere il nuovo presidente del Consiglio: la “luna di miele” che di solito accompagna i primi mesi dei nuovi capi di governo è stato uno sfondo non da poco per la sua campagna elettorale.
La campagna elettorale ha fatto il resto insieme agli errori di Grillo e i limiti del movimento 5Stelle. Con il suo nuovo governo Renzi si è presentato come non responsabile dei disastri della politica di austerità, che i precedenti dirigenti del PD avevano condiviso con i vertici di Bruxelles. E' apparso come il dirigente “nuovo”, che vuol “cambiare verso” in Europa e come colui che, rafforzato dal voto, avrebbe potuto esprimere in campo continentale lo stesso dinamismo innovatore messo in campo in Italia. I toni forcaioli da parte di Grillo hanno spaventato una fascia ampia di elettori incerti, che potevano essere attratti nell'orbita del movimento o sedotti a sinistra. E la mancanza di proposte credibili di prospettiva ha fatto il resto. Se il movimento 5S non attiva alleanze con la sinistra, non aiuta quella interna al PD per aprire crepe nel suo spazio moderato, non concorre a far vincere battaglie nel Paese e nel Parlamento, da domani comincia la storia della sua definitiva irrilevanza.
In Italia il moderatismo culturale e politico ha radici vaste e profonde e parte di questo, con l'eclisse di Berlusconi, trova ora in Renzi un nuovo punto di riferimento. Si sposta con grande fiuto un po' a sinistra, ma trova un approdo sicuro. E' significativo, a tal proposito, che Berlusconi, anche in campagna elettorale, non abbia potuto (e voluto?) demonizzare la figura di Renzi. Il PD, dunque, si presenta come una formazione interclassista in grado di aggregare e stabilizzare un ampio fronte sociale e politico nei prossimi anni.
Ma l'episodio dell'Olimpico di Roma del 3 maggio, di cui sono piene le cronache... >>>
Ma l'episodio dell'Olimpico di Roma del 3 maggio, di cui sono piene le cronache di queste giorni, è solo uno squallido lacerto debordato dal mondo del calcio? La scena di Genny 'a Carogna, il capo-curva napoletano che tiene in scacco una manifestazione sportiva a cui partecipano decine di migliaia di spettatori, presenziata da alcune fra le maggiori cariche dello Stato, seguita in tv da milioni di spettatori, è stata resa possibile solo dalla violenza plebea e dallo sterminato squallore che caratterizza da anni l'ambiente calcistico italiano? O non è piuttosto la manifestazione drammatica, l'ultimo gradino di degradazione cui è giunta la decomposizione dello spirito pubblico nazionale? Perché Genny 'a Carogna, non è un episodio, un lazzo folklorico uscito dai bassifondi della vita napoletana. E' un pezzo della nostra storia, reso legittimo dal filo rosso che marchia da decenni il nostro passato e soprattutto preparato dagli sfregi subiti dalla legalità repubblicana negli ultimi anni.
Ma come si fa – lo fanno in maniera unanime tutte le televisioni e i giornali – a dare tanto spazio a questo episodio e ai soliti strombazzati provvedimenti governativi e non dire nulla, o quasi, di ciò che quell'episodio rappresenta, quale elemento di continuità allarmante viene a rappresentare nel processo degenerativo della vita civile italiana? Forse che la capacità di ricatto di un tifoso nei confronti dell'intero stato è disgiungibile, ad esempio, dalla gara che tanti giornalisti italiani (prevalentemente di sinistra) hanno ingaggiato per intervistare Silvio Berlusconi nei loro programmi televisivi? I semplici di mente obietteranno subito: che cosa c'entra? Ma Silvio Berlusconi ha subito una condanna definitiva per un reato grave contro la Pubblica amministrazione che egli doveva rappresentare e tutelare. Non è dunque un pregiudicato, che ha colpe gravi nei confronti della collettività, e per questo, quanto meno, non deve essere reso protagonista della scena pubblica nazionale? Ma Berlusconi non ha solo subito questa condanna. Com' è noto - e ci si dimentica volentieri - si è macchiato di svariati delitti infamanti, alcuni accertati, altri prescritti, altri oggetto di processi in corso - dalla corruzione dei giudici allo sfruttamento della prostituzione, dall' “acquisto” di parlamentari alla concussione. Ora, non tutto è stato penalmente sanzionato o è rilevante.
Ma il pedigree politico di Berlusconi è indubbiamente quello di un capo-curva, per così dire, della vita politica nazionale. In qualunque paese civile d'Europa e del mondo egli sarebbe oggi in carcere e comunque tenuto lontano dalla vita pubblica. Da noi succede l'impensabile: viene addirittura ricevuto dal presidente della Repubblica, il 3 aprile scorso, per la seconda volta dopo la condanna. La maggiore carica dello stato riceve un pregiudicato che ha inferto ferite gravissime al senso della legalità del nostro paese, a partire dal conflitto di interessi. Ma qualche superstite persona onesta è in grado ancora di domandarsi quale effetto produce un simile evento nell'immaginario civile degli italiani ? Berlusconi è un condannato o è stato graziato?O addirittura è innocente e il colpevole potrebbe essere Napolitano? Da che parte è il torto da che parte è la ragione? Chi ha frodato il fisco per centinaia di milioni? Ma la magistratura italiana commina davvero sanzioni a chi delinque, o chiude un occhio se il delinquente è un potente? E allora di che stupirsi se i poliziotti applaudono i loro colleghi assassini, come hanno fatto a Rimini, visto che essi sono rientrati in servizio dopo aver pestato a morte un ragazzo inerme? Di che stupirsi se Giuseppe Scopelliti, ex presidente della Regione Calabria, condannato a 6 anni in prima istanza, viene candidato dal suo partito, membro del governo, alle elezioni europee? Nel nostro paese i servizi segreti di uno statarello dittatoriale possono sequestrare una persona (la Shalabayeva) e il ministro responsabile (Alfano), restare al suo posto. E' ancora ministro dell'Interno del governo che “combatte la palude”.
E' questa la melma a cui è stato ridotto lo spirito pubblico del nostro paese. E' questo il cancro che si sta mangiando la nostra amata Italia, la causa vera e profonda del nostro declino: l'inosservanza universale delle regole della vita comune, la legge del più forte come principio di regolazione sostanziale del rapporto fra le classi e fra le persone. Qualcuno sa dire con quale autorevolezza un ceto politico che ha sconvolto l'etica civile e la decenza politica del nostro paese può chiamare i cittadini a concorrere a uno sforzo collettivo di cambiamento e addirittura di salvezza? E non è vero che Renzi sta cambiando verso, come va reclamizzando tra gli schiamazzi della sua petulante corte governativa e parlamentare. Le sue scelte e la sua stessa parabola portano l'illegalità diffusa della società italiana e dei partiti dentro le istituzioni. Senza essere stato eletto è a capo del governo e pretende di riformare la Costituzione con un Parlamento privato di legittimità da parte della Corte costituzionale. Come ha ricordato con argomenti inoppugnabili Alessandro Pace (Repubblica, 26/3/2014). L'arbitrio e lo sconvolgime nto delle regole, vale a dire la morale di base della criminalità organizzata - che non a caso da noi, unici al mondo, dura e prospera dalla metà del XIX secolo - si espande anche nelle istituzioni, plasma la vita dei partiti, si fa strada dentro lo stato.
Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto.
Non è la prima volta che scienziati e studiosi di varia formazione, perorano la causa degli Ogm ...>>>
Non è la prima volta che scienziati e studiosi di varia formazione, perorano la causa degli Ogm in nome della razionalità scientifica, contro la diffusa superstizione popolare che li teme. Umberto Veronesi in primis, ma anche Edoardo Boncinelli e Giulio Gioriello, per citare i più illustri, lo hanno fatto in passato in varie occasioni. Ora ripropongono il motivo, con un di più di confusione, Elena Cattaneo e Gilberto Corbellini (Quelle mistificazioni sugli Ogm, La Repubblica, 9/4/2014).
I due studiosi aprono un fronte polemico contro alcune forme di atteggiamento antiscientifico diffuse nel nostro paese, quali la difesa del metodo stamina, i sospetti contro il vaccino trivalente, considerato possibile causa di autismo nei bambini, la lotta contro la sperimentazione condotta sugli animali, l’omeopatia e infine gli Ogm. Francamente mi pare troppo, anche per chi, come me, lamenta la scarsa popolarità delle conoscenze scientifiche nel nostro paese. Che cosa c’entra l’opposizione contro gli Ogm con tutte le questioni precedentemente elencate? Non è questo un modo poco scientifico di svalutare un atteggiamento di razionale cautela associandolo a convincimenti di tutt’altra natura? Cautela scientifica, perché gli Ogm sono un prodotto di laboratorio approdato alla storia umana solo da pochi anni. È poco scientifico cercare di far passare questa frattura biologica come una continuità storica, affermando, come spesso si fa, che i contadini hanno sempre manipolato le piante per migliorarle. Sono uno storico dell’agricoltura e so bene quanto lavoro selettivo ha permesso agli agricoltori di «costruire» il patrimonio di biodiversità agricola di cui disponiamo. Ma le selezioni compiute nei millenni dai contadini e dagli agronomi di oggi si sono mosse e si svolgono tutte dentro il regno vegetale. Gli Ogm di cui parliamo e di cui parlano gli autori, ossia, soprattutto mais bt e soia round up, commercialmente i più importanti, sono piante create tramite un salto di specie o comunque un innesto transegenico. Nel mais Bt è stato inserito materiale genetico prelevato dal Bacillus Thuringiensis (Bt), un batterio presente nel terreno, che difende il mais dai danni della piralide. Mentre la soia transgenica, creata dalla Monsanto, resiste a un potente erbicida, il glisofate.
Scrivono gli autori: un «documento pubblicato l’anno scorso dall’European Academies Science Advisory Council… sulle sfide e le opportunità delle piante geneticamente migliorate dice esplicitamente che gli ogm non sono dannosi per l’ambiente e non attentano alla sicurezza alimentare» E anzi «possono ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura». Non conosco l’autorevolissimo documento – ne circolano tanti, sia contro che pro Ogm — ma le affermazioni non sono per nulla convincenti o sono smentite da un’ampia letteratura. Intanto, diciamo che c’è differenza tra piante «geneticamente migliorate» e Ogm. Il «miglioramento» delle piante condotto da genetisti, biologi e agronomi — sia pure con metodi diversi — prosegue la storia millenaria dei contadini e contribuirà in futuro a limitare l’inquinamento chimico nelle campagne. Ma non è così per gli Ogm di cui parliamo. La coltivazione della soia round up è associata all’uso di un veleno che si disperde nel terreno, inquina le falde, è sospettato di produrre tumori negli agricoltori. E’ noto perfino agli scienziati della Monsanto che le piante transgeniche disperdono il loro polline nell’ambiente, interagendo in modo ancora del tutto ignoto con le altre piante, con gli insetti, gli uccelli, i microrganismi del terreno, insomma con gli equilibri generali dell’ecosistema. Che cosa può accadere nel tempo al vasto patrimonio della biodiversità agricola?Nessuno lo sa. Nessuno fa ricerche e investe risorse in tale ambito. Mentre gli scienziati che hanno influenza e voce sui media sono impegnati a fare la pubblicità agli Ogm.
Sul piano alimentare, i cibi contenenti Ogm sembrano non dare problemi. Non viene il mal di pancia a mangiare una pannocchia di mais bt. Ma che cosa può succedere con il tempo, in caso di assunzione continuata, negli animali e nell’uomo, in seguito alle interazioni che il principio attivo del batterio Bt può innescare nei batteri dell’intestino ? Se io oggi sbriciolassi in aria un pugno di polvere di amianto e la respirassi non farei neppure uno starnuto. Ma fra 10–15 anni le probabilità di contrarre il cancro della pleura o il blastoma ai polmoni sarebbe elevatissimo. Non sarebbe dunque saggio rispettare il principio di precauzione, adottato dall’ Unione Europea, oggi sempre più traballante sotto la pressione sistematica delle lobbies? Gli autori lamentano che in Italia, dove gli Ogm sono proibiti, non possiamo produrre «mangimi economicamente competitivi» e li importiamo «ipocritamente» dal Brasile o dall’Argentina. Anche in questo caso la perorazione della libertà della scienza, associata alla sacra «crescita economica» fa prendere degli abbagli ai nostri autori. Ma hanno idea i due studiosi di che cosa significa la coltivazione di soia in Brasile e in Argentina? Sterminate aziende con coltivazioni interamente meccanizzate, e assoggettate alla chimica per tutte le fasi della produzione. Come potrebbe mai competere l’agricoltura italiana su questo terreno? E non è piuttosto conveniente, anche sotto il profilo economico, avere soia e granturco non Ogm, cioé piante più sicure, che si presentano sul mercato come un prodotto qualitativamente superiore, se non altro perché non hanno dovuto coesistere con erbicidi e pesticidi devastatori dell’ambiente?
Ma chi ci ha ordinato di inseguire l’agricoltura transgenica, quando noi possediamo un patrimonio di biodiversità agricola unica al mondo, indisgiungibile da una storia millenaria e dai caratteri originali del nostro territorio, dalle forme del paesaggio, dalle tradizioni delle nostre innumerevoli cucine locali? Che senso ha parlare di prodotti e di competizione se non si ha un’idea di che cosa sia il nostro sistema agricolo? Dobbiamo indirizzare la ricerca scientifica alla manipolazione delle piante, per gettare sul mercato nuovi prodotti brevettati, e assoggettare sempre più gli agricoltori all’agroindustria? Oggi sempre più giovani scienziati passano la loro vita in laboratorio, impegnati a manipolare il dna dei semi, senza mai vedere una campagna neppure in gita. E’ questa la ricerca da privilegiare? Non dovremmo studiare le piante nel loro ambiente, nella rete delle loro interconnessioni con l’ecosistema, per produrre beni sempre più sani e sicuri, in un habitat più salubre per tutti i viventi? Non abbiamo il compito di produrre cibo abbondante e sano senza distruggere la casa in cui viviamo?
L’ecologia, vale a dire lo studio degli esseri viventi nel loro habitat, ha aperto un orizzonte del tutto nuovo alle scienze naturali e anche alle scienze dell’uomo. Perché essa consente di vedere la rete di connessioni che lega i vari fenomeni del mondo vivente. Oggi la genetica, per le sue potenzialità manipolative, per la possibilità di ritorni immediati e crescenti che offre all’industria, spinge le scienze della natura nel vicolo stretto del riduzionismo. La curva ascendente dei profitti la trascina verso il basso. Non è perciò corretto rivendicare indistintamente la buona causa della ricerca scientifica in campo transgenico. Questa è una strada, ma non è necessariamente la più consigliabile. E una scelta può pregiudicarne un’altra, più feconda e più utile all’umanità. La storia ci insegna qualcosa in merito. Nei decenni centrali del XX secolo la fisica si è concentrata sullo studio dell’atomo. Nata come scienza di guerra, destinata al genocidio della bomba atomica, essa è diventata la Big Science per creare energia, assorbendo lo studio delle più grandi menti del secolo e concentrando investimenti immensi da parte dei maggiori stati industriali. Ci si può chiedere che cosa sarebbe accaduto se la ricerca si fosse incamminata su un’altra strada, se si fosse studiata l’energia solare? Forse oggi non avremmo di fronte lo scenario del riscaldamento climatico globale che incombe sul nostro avvenire.
Che il nostro paese sia messo su una china autoritaria lo prova non solo il contenuto delle riforme istituzionali proposte dal governo Renzi…>>>
Che il nostro paese sia messo su una china autoritaria lo prova non solo il contenuto delle riforme istituzionali proposte dal governo Renzi e approvate in Consiglio dei ministri. Su queste valga non solo l'appello lanciato da Zagrebelsky e Rodotà, ma anche le osservazioni e le riserve di tanti commentatori, perfino di esponenti e settori moderati della vita politica italiana. Quel che indica il senso di marcia, la direzione dei venti dominanti è il favore popolare di cui gode al momento l'iniziativa del governo, il consenso aperto della grande stampa, come Repubblica ( con l'eccezione del suo fondatore), l'ibrido e politicamente indistinto coro di approvazione che sale dai vari angoli del paese. E, segno dei tempi non poco significativo, è il concerto di voci ostili, la condanna corriva, il linguaggio scadente fino ad essere scurrile contro i critici del progetto di riforme. Costoro vengono bollati come parrucconi, definiti – con una semantica della derisione che capovolge il significato delle parole - « soliti intellettuali », quasi fossero la banda de I soliti ignoti del film di Monicelli. E' già accaduto che in momenti tristi e difficili della vita nazionale l'intelligenza sia stata derisa. In una trasmissione televisiva, Piazza pulita del 31 marzo, aizzato dal clima generale dello spettacolo in corso, Alessandro Sallustri è arrivato al punto da definire Gustavo Zagrebelsky, il noto giurista, mite e finissimo intellettuale, « un cancro del paese » . Il conduttore Corrado Formigli, in verità, ha difeso l'assente, anche contro gli sghignazzi di altri esponenti politici presenti in trasmissione, che non meritano di essere menzionati. Ora, che un giornalista, da tanto tempo a servizio di Silvio Berlusconi - l'uomo che più di ogni altro ha influito sul destino dell'Italia negli ultimi vent'anni - il dipendente di un criminale condannato dai tribunali della Repubblica, possa definire “cancro” un uomo che onora il nostro paese, è certo un segno grave di capovolgimento di ogni criterio di verità, la prova di una involuzione grave dello spirito pubblico.
Certo, questo favore confuso e indistinto che soffia nelle vele di Matteo Renzi, non è solo il risultato dell'abilità comunicativa del nostro presidente del Consiglio. A reggere il suo atteggiamento oggi apertamente ricattatorio c'è , come ha scritto Norma Rangeri su questo giornale( 1/4) « la forza d'urto dei fallimenti della classe dirigente, a cominciare da quelle forze intermedie, partiti e sindacati, che si riferiscono alla sinistra. » Come negarlo? Quali sono state le idee, le proposte, le iniziative mobilitanti che son venute dal PD in questi ultimi anni, così drammatici per tanti cittadini italiani? Nulla che non fosse l'applicazione dei dettami della politica di austerità imposta dalla UE, sia dall'opposizione (ultimo governo Berlusconi) sia nel governo Monti e non diversamente nel governo Letta. E qualcuno ha udito, in questi ultimi 4 anni di disoccupazione dilagante, una, una sola idea, una qualche iniziativa all'altezza dei tempi, venir fuori dalla CGIL di Susanna Camusso? Il più opaco e impiegatizio tran tran tran quotidiano ha scandito la vita del maggiore sindacato italiano nel corso di una della pagine socialmente più drammatiche nella storia della repubblica.
Si capisce, dunque, il favore, l'impazienza, la fretta, con cui tanta parte del paese guarda al « fare » di Renzi. Dopo tanta inerzia e inconcludenza ( ma anche, dovremmo ricordare, dopo tante scelte ferocemente antipopolari) finalmente qualcuno che passa all'azione. All'azione qualunque essa sia. In verità occorre aggiungere anche una considerazione di più generale portata. Un'altra e più vasta corrente sotterranea alimenta gli spiriti animali del presente “decisionismo”. E' la crescente velocità con cui il capitalismo si muove sulla scena mondiale. E' la rapidità delle decisioni e delle scelte, di investimenti, di speculazioni con cui multinazionali e gruppi finanziari spostano fortune da un capo all'altro del mondo, condizionando la vita degli stati. E' una nuova dimensione temporale ( e spaziale) dell'economia che spiazza le antiche cronologie della politica. Di fronte alla celerità degli scambi, degli accordi commerciali, della manovre finanziarie, propria del capitalismo attuale, la politica appare, nelle sue più connaturate forme, come lenta, dilatoria, inconcludente. E la democrazia, che è dialogo, discussione, ponderazione delle scelte, ascolto delle diverse voci, procedura formale, appare un rituale vecchio e obsoleto, incapace di ricadute positive sulla vita dei cittadini. E qui sta il nodo su cui occorre riflettere. E' vero, ci sono rituali nella vita parlamentare italiana che oggi non sono più accettabili e occorrerebbe dare all'intera macchina legislativa una maggiore snellezza ed efficienza. Qui la sinistra dovrebbe mostrare maggiore convinzione e originalità di proposta. Ma occorre avere sguardo storico per capire il nodo che ci si para davanti, per non replicare gli errori che ci hanno portato alla situazione presente. La politica appare lenta e inefficiente soprattutto perché essa, per propria scelta, negli ultimi 30 anni ha ceduto moltissimi dei suoi poteri all'economia capitalistico-finanziaria. Dalla Thatcher a Reagan, da Clinton a Mitterand per arrivare ai nostri vari governi, essa si è privata di tanti controlli sulle banche, sui movimenti dei capitali, sui vari strumenti della politica economica. Al tempo stesso, e conseguentemente, ha indebolito i suoi tradizionali legami con le masse popolari, ponendosi così in una condizione di subalternità progressiva nei confronti del potere economico. E' la politica che ha favorito il disfrenamento della potenza anonima del mercato. Ciò che oggi appare come una condizione data, quasi naturale, spingendo i commentatori odierni ad accettarla come uno stato ineludibile, un principio di realtà, è di fatto il risultato di una scelta di un'autolimitazione della sovranità statuale. Anche autorevoli osservatori oggi ricorrono alla parola magica globalizzazione, come se si riferissero alla siccità o al maltempo. Ma un più sorvegliato uso delle parole consiglierebbe il ricorso a un altro termine, ora fuori moda: deregulation. Perché questa globalizzazione non è che una forma mondiale di dominio, privato di molti freni e regole da parte dei governi nazionali. Non è – come si vorrebbe far credere – il normale avanzare della storia del mondo.
L'attuale impotenza dei governi, la loro incapacità di mettere sotto controllo le iniziative delle potenze infernali lasciate libere di condizionare la vita delle nazioni, li spinge a restringere il campo del comando, a concentrarsi sulla macchina pubblica, sull'efficienza e la rapidità delle decisioni. E' la surrogazione di un potere perduto, che cerca un risarcimento limitando gli spazi della democrazia, strappando margini di manovra alla rappresentanza, restringendo il protagonismo delle masse popolari. E cosi riproducendo le cause storiche della propria subalternità. Ma la china autoritaria del governo Renzi si coglie appieno non solo mettendo assieme la riforma elettorale con la proposta di rafforzamento della figura del premier e l'abolizione del Senato. Anche il job act rientra in piena coerenza con la tendenza. Nel momento in cui non si riesce a ottenere da Bruxelles il via libera a una politica economica espansiva, si ricalca con proterva ostinazione il vecchio sentiero. Non si punta su investimenti e sul ruolo decisivo che il potere pubblico potrebbe svolgere in una fase di depressione, ma si cerca di far leva sulla piena disponibilità della forza lavoro alle convenienze delle imprese. E' la politica fallimentare degli ultimi decenni. Essa ha creato lavoro sempre più precario, generato bassi salari, indebolito la domanda interna, spinto gli imprenditori a contare sullo sfruttamento della forza lavoro più che sull'innovazione, contribuito a ingigantire la scala della sovrapproduzione capitalistica mondiale alla base della crisi di questi anni. Gli oltre 3 milioni di disoccupati appena censiti dall'Istat sono il seguito naturale di tale storia, nazionale e mondiale.
In Italia questa via contribuirà ad allargare l'area del “sottomondo” in cui vivono ormai milioni di persone, con lavori saltuari e mal pagati, privi di certezze, di identità e di speranze: uno solco ancor più profondo fra società e ceto politico. Quando, tra meno di due anni, occorrerà togliere dal bilancio pubblico intorno ai 40-50 miliardi di euro all'anno per onorare il rientro dal debito, come vuole il fiscal compact, occorrerà aver pronto uno stato forte per controllare l' esplosione di conflitti che seguirà alla distruzione definitiva del nostro welfare. Come si fa a non vedere già oggi la curvatura autoritaria che sta prendendo il nostro Stato?
Questo articolo è inviato contemporaneamnente al manifesto
Ora che la zuffa nella litigiosa famiglia sorta a sostegno de l' Altra Europa con Tsipras pare sopita, si può dire pacatamente...>>>
Ora che la zuffa nella litigiosa famiglia sorta a sostegno de l' Altra Europa con Tsipras pare sopita, si può dire pacatamente qualcosa. Si può intervenire senza timore di gettare altro veleno nei pozzi già inquinati. E non si può non partire da uno degli episodi che ha scatenato le maggiori tensioni e le più vistose lacerazioni dentro il Comitato dei garanti, promotore della lista. Anche se non amo dare troppo rilievo alle singole persone ( né, tanto meno, metterle sotto accusa) è inevitabile partire dal singolo caso per svolgere poi delle considerazioni generali. Dunque, Antonia Battaglia ha abbandonato la lista Tsipras per incompatibilità con altri esponenti, provenienti dalla Sel pugliese. Ci si può interrogare un istante sull'arroganza settaria e l'irresponsabilità politica di tale gesto? Si può abbandonare un campo di impegno, costruito su difficili equilibri, ma importantissimo per tentare una svolta di possibile salvezza per il nostro paese, perché alcuni membri del collettivo non hanno il sangue perfettamente blu? Si va via perché tra i candidati nella lista ci sono degli appestati? Eppure i compagni di cui si chiedeva l'ostracismo non provenivano dalle truppe berlusconiane o dall' eterno ceto politico trasformista e nemmeno dal PD. Sono esponenti di Sel, un partito che , insieme a Rifondazione comunista, ha rinunciato al proprio simbolo e ha dato un contributo forse decisivo alla riuscita di tutta l'operazione. Se Sel non avesse appoggiato, al suo congresso nazionale la candidatura Tsipras, l'Altra europa sarebbe partita come un'anatra zoppa.
Si giustifica il gesto del gran rifiuto da parte della Battaglia con l'argomentazione della cattiva condotta politica di Sel nei confronti della ILVA di Taranto. Ora, non è certo questa la sede per discutere una questione così gigantesca come il disastro ambientale dell'Italsider. Ma si può fare di Sel – pur non sottovalutando errori, ritardi, sottovalutazioni, incidenti imbarazzanti di Vendola, ecc – il capro espiatorio di tutta quella vicenda? Con quanta superficialità si dimentica che per decenni nessuna attenzione è stata prestata al mostro siderurgico da parte dei governi nazionali, dal ceto politico – di tutti gli schieramenti - storicamente sordo in Italia a ogni problema ambientale? E che dire del sindacato, vale a dire dell' istituzione più vicina alla condizione quotidiana di inquinamento dei lavoratori, costretti a esporre i propri corpi a veleni di ogni tipo? Neppure la magistratura, nei passati decenni, è stata cosi vigile come oggi appare. Ed essa, anzi, continua a dormire in troppi angoli devastati del nostro Paese. E' evidente che gravano sull'intera vicenda responsabilità multiple e collettive che non possono essere sottaciute. Ma quello che assai gravemente si dimentica, esemplificando con superficialità il complesso nodo dei problemi, è che Taranto non incarna solo un acutissimo problema di ambiente e di salute pubblica, ma anche una drammatica questione sociale. E' noto a chi sa vedere. La degradazione ambientale prodotta dall'ILVA è arrivata a un punto tale da mettere in forse l'occupazione della gran parte degli operai, il reddito di migliaia di famiglie. Una minaccia di disoccupazione di massa in una città del Sud che ha fondato tutto sull'industria e in una fase storica in cui il nostro Mezzogiorno ha conosciuto arretramenti economici gravissimi Il tutto dentro una crisi di cui non si vede la fine. Come si fa a dimenticare il ricatto cui i Riva sottoponevano le masse operaie, l'intera città? Non a caso la popolazione di Taranto si è divisa in due schieramenti contrapposti. Poteva un partito come Sel disinteressarsi di una questione occupazionale di così vasta portata? Non ci si rende conto che astrarre da tale condizione dilemmatica il comportamento di quel partito si compie un'operazione di esemplificazione concettuale che porta al cortocircuito settario? Su questa strada si compie anche una operazione politica ingiusta e auto-distruttiva. Messi su tale china, Vendola e Sel diventano i complici dei Riva, si trasformano nei nemici da cui allontanarsi. Ma davvero non ci si accorge dell'ingiustizia enorme che si compie nei confronti delle persone e del loro passato? Non si capisce che gettiamo nell'inferno una parte importante della nostra stessa storia? La nostra stessa storia: e io non ho in tasca tessere di partito.
La scelta di Antonia Battaglia, com'è noto, ha investito anche il comitato dei garanti. Paolo Flores D'Arcais e Andrea Camilleri – di cui non cesso di ammirare la disponibilità con cui presta la sua operosa vecchiaia e il suo illustre nome a tante buone cause civili e politiche – hanno abbandonato il Comitato dei garanti. Ovviamente, non entro nel merito dei torti e delle ragioni. Nulla mi autorizza a improvvisarmi quale moralistico Catone. Ma una riflessione politica si rende necessaria. Possibile che l' offesa alla dignità dei due autorevoli membri del Comitato fosse così grave e irreparabile da non consentire un chiarimento e un aggiustamento informale? Possibile che le questioni di principio siano state ritenute più rilevanti del danno politico generale che verosimilmente si sarebbe prodotto, in termini di immagine, a tutta l'operazione ancora in fieri? Possibile che la fierezza personale venga prima di ogni altra cosa e sia comunque ritenuta più rilevante, nelle proprie scelte, dello scoramento, della sfiducia, della disillusione che esse vengono a creare in migliaia e migliaia di militanti, di cittadini, gettati nella più grave crisi e perdita di orizzonti politici degli ultimi 6o anni? Ci possiamo chiedere che come sarebbe andata la campagna referendaria contro la privatizzazione dell'acqua, senza il vincolo unitario che l'ha sorretto?
Hegel ha elaborato una figura filosofica per rappresentare questo tipo di umana soggettività innamorata della propria purezza e coerenza: la figura dell'”anima bella”. La sinistra conta non poche anime belle al proprio interno, che rifuggono dall'aspra contraddittorietà del reale, e anelano a conservare l'incorruttibilità adamantina della propria coscienza. Certo, fare politica, nel campo della sinistra è un'arte dannatamente più difficile che negli altri schieramenti. Per la destra e per gran parte del ceto politico di tutti gli schieramenti il compito è molto più agevole. Si tratta di aderire alle pieghe e alle gerarchie dei poteri dominanti, guidati dall'infallibile fiuto dell'interesse personale, e il successo diventa abbastanza agevole, pur se in mezzo a una feroce competizione. La sinistra si pone il problema gigantesco di cambiare il mondo, o quanto meno di rovesciare le intollerabili ingiustizie che lo lacerano. Deve perseguire un grande obiettivo, ubbidire a principi irrinunciabili, mettere d'accordo analisi radicale e pratica politica nella più opaca delle realtà quotidiane. E oggi, nella devastazione morale prodotta da vent'anni di neoliberismo berlusconiano, la navigazione somiglia alla barchetta di Caronte che affronta i marosi di una fetida cloaca.
E tuttavia non si possono concludere queste osservazioni senza mettere tutta, indistintamente, la costellazione della sinistra radicale e popolare di fronte a questa evidente ed esplosiva contraddizione. Noi siamo i portatori di una analisi senza misericordia delle condizioni del capitalismo mondiale e andiamo smascherando da anni il carattere pubblicitario e ingannevole delle promesse “uscite dal tunnel” dei nostri governanti. Noi sappiamo che i pannicelli caldi delle solite “riforme” non porteranno l'Italia da nessuna parte e che anzi, senza una radicale messa in discussione dei trattati dell'Unione, l'abisso si spalancherà davanti alle nostre porte. Ma proprio l'enormità del compito che consegue alle nostre terribili e fondatissime analisi dovrebbe indurci a comportamenti personali coerenti con una prospettiva così drammaticamente impegnativa. Se il compito che abbiamo davanti è così arduo, il nostro primo istinto dovrebbe essere quello di accostarci personalmente sempre di più, rinserrare le fila, serrare i ranghi, smussare le differenze, sanare le divisioni, fare della ricerca dell'unità della nostra parte la condizione fondativa della lotta. Ma questo richiede la dismissione degli abiti settari, del camice bianco da gabinetto scientifico e la capacità di guardare anche il mondo imperfetto che sta intorno a noi, mettere in uso le vecchie armi della tattica, con cui accompagnare l'astrazione, spesso troppo pura, della strategia. Se non si incomincia a guardare dentro la soggettività di tutti noi, a vedere che in essa c'è anche la radice della divisione e frantumazione del nostro campo, della nostra permanente minorità, con ogni probabilità, nei prossimi anni la sinistra radicale potrà solo contemplare, Cassandra inascoltata e impotente, l'avverarsi dei propri funesti vaticini.
Ma Silvio Berusconi non era stato condannato in via definitiva per frode fiscale l'1 agosto del 2013 , vale a dire ben 6 mesi fa? Non era stato dichiarato...>>>
Ora, si impongono alcune considerazioni. La prima riguarda le varie velocità della giustizia italiana. Perché si impiega così tanto tempo ad applicare a un leader politico la pena che gli è stata comminata? Ricordo che per reati di gran lunga più lievi – anzi creati da leggi liberticide e incostituzionali – la tempestività della carcerazione è da efficienza americana. Gli sventurati che dal Nord Africa o dal Medio Oriente giungono ai nostri agognati lidi vengono rinchiusi nei lager chiamati CIE, solo per aver profanato il suolo patrio con la loro presenza non richiesta. Mentre l'autorità giudiziaria è prontissima a riempire le nostre affollate carceri di piccoli spacciatori e fumatori di hashish. Rivestono, i casi di costoro, una così elevata pericolosità da giustificare tanta prontezza e durezza di pena?
Ma il problema centrale è la TV, sono i telegiornali a cui continuiamo ad assistere costernati tutte le sere. Conosciamo la replica dei giornalisti e la anticipiamo. I media devono riflettere la realtà politica effettiva e Berlusconi resta il capo indiscusso di un grande partito, che gode del consenso di milioni di elettori e dunque non si può non dargli rilievo, ecc. All'apparente buon senso di questa rivendicazione si può rispondere con due distinte considerazioni. C'è modo e modo di fare informazione. Si possono dare notizie di un leader, quando egli è protagonista effettivo di eventi rilevanti, che meritano di essere illustrati, senza per questo ricorrere a minuti e minuti di immagini, che hanno un evidente potere di creare realtà fittizia. E qui, naturalmente, occorrerebbe avviare una qualche discussione critica sul formato dei nostri TG. Ogni sera essi allestiscono la messinscena di un teatro sempre più insensato, dove si succedono, in una passerella iterativa e stucchevole, i teatranti di una politica che ormai sembra fare il verso a se stessa. E' vero, mostrare il volto effettivo del potere – e il ceto politico è potere, anche se oggi decaduto – giova alla democrazia. I cittadini possono così vedere da vicino i personaggi mediocri che li governano, togliendo sacralità agli arcana imperii del comando. Ma è evidente che quando si oltrepassa una certa misura, quando la mediocrità dei recitanti si accompagna a una lunga storia di inettitudine e corruzione, le loro esibizioni quotidiane servono ad accrescere il disincanto di massa nei confronti della politica e della democrazia. Senza dire che l'onnipresenza del ceto politico italiano nel nostro quotidiano immaginario immiserisce lo sguardo, rattrappisce l'orizzonte verso il vasto mondo che gira intorno a noi.
Ma la seconda considerazione da fare nel caso di Berlusconi non è di minor rilievo. Ma come si fa a considerare come un qualunque leader di partito questo personaggio? Com'è noto, a parte la grave condanna definitiva della Cassazione, egli ha comprato i giudici nel processo Imi-Sir, ha subito una prima condanna per sfruttamento della prostituzione minorile, è indagato per l”acquisto” di senatori e per vari altri reati infamanti, ha oltraggiato il Parlamento italiano con la storia della nipote di Mubarak, ha utilizzato il governo della Repubblica a fini personali e aziendali come mai era accaduto nella storia d'Italia. Insomma, ha il pedigree di un gangster e soprattutto ha fatto strame del nostro patrimonio più fragile: la moralità civile. La sua rivalutazione “in immagine”, da parte della TV, ricorda molto da vicino quella che ha graziato a suo tempo Giulio Andreotti. Si ricorderà: una sentenza della Cassazione del 2 maggio 2004, che lo assolveva da vari reati, riconosceva, tuttavia, che egli aveva avuto rapporti con la mafia sino al 1980. Cronologia misericordiosa delle sentenze italiane! L'uomo più potente d'Italia aveva avuto dunque rapporti con i criminali che avevano ucciso e uccideranno Boris Giuliano e Cesare Terranova, il giovane Livatino, Dalla Chiesa e Rocco Chinnici, Falcone e Borsellino e tanti funzionari dello stato prima e dopo il 1980. Ebbene, Andreotti venne allora accolto come un eroe e conteso dalle TV nelle più varie trasmissioni di intrattenimento. Una capovolgimento della realtà inimmaginabile in qualunque paese del mondo dove l' umana decenza vale qualcosa. Ho già scritto queste cose quando Andreotti era in vita.
Da uomo del Sud, che ha studiato il mondo meridionale, ho nutrito l'aspettativa razionale, oltre che la speranza, di vedere la parte indenne da mafie del nostro Paese, le ragioni del Centro-Nord, sconfiggere e sradicare dal Sud le sue criminalità storiche. Com'è noto, la storia ha seguito il corso inverso. Sono state le mafie del Sud a colonizzare il Nord, a radicarsi nei territori e nelle economie di quelle ragioni. Un approdo storico spaventoso, che non ha turbato più di tanto il nostro ceto politico. E di sicuro una delle cause sistemiche di questo percorso risiede nella fragilità dello spirito pubblico nazionale, nella illegalità come principio di comportamento individuale e collettivo, nella difficoltà secolare degli italiani di sentirsi nazione, comunità di uguali tenuta insieme da pari diritti e doveri. Berlusconi, che è figlio di questa perversa antropologia, le ha fornito una forma politica di massa, dandole dignità e potenza di governo. Noi siamo ancora immersi in questa devastazione di guerra dell'etica pubblica nazionale, che è causa di innumerevoli danni al nostro Paese. Forse costituisce la ragione fondamentale del nostro declino. Che milioni di italiani diano ancora il loro consenso a un noto criminale, non dovrebbe indurre i giornalisti televisivi a inseguire la loro audience, dando loro in pasto , ogni giorno, il corpo glorioso del capo. Dovrebbe al contrario farli riflettere sull'enormità della cosa e sul compito civile cui sarebbero obbligati. In un paese come il nostro, dove la grande maggioranza dei cittadini non legge né libri né giornali, che si forma un'opinione politica ascoltando la TV, mentre pranza o bighellona in casa, la verità dei fatti rischia costantemente l'esilio. La maggiore azienda culturale italiana, la TV pubblica, ha contribuito non poco e continua a contribuire a rendere incerto il confine tra verità e menzogna, a rendere opinabile il diritto, a far diventare evanescente la sanzione delle leggi, a capovolgere i principi stessi della moralità. In una parola, anch'essa lavora per rendere scadente l'etica civile dell'Italia.