... Segue
. E certo non ci dispiace sentire la Farnesina, una volta tanto, fare la voce grossa perfino con un paese amico come la Francia. E tuttavia avremmo preferito - e non da oggi - che una tale coralità di sdegno si fosse manifestata per quel che ormai da qualche anno accade alla frontiera di Ventimiglia. In questa linea di confine, dove una lunga catena di disperati cerca di raggiungere la Terra Promessa del Nord Europa, la Francia, i governanti francesi hanno allestito una barriera che è diventata una macchina di persecuzione dell'immigrato. Un dispositivo di caccia allo straniero ormai sin dentro i nostri confini, per l'appunto. I governi della Francia, del Paese dove è fiorita la cultura della tolleranza e l'idea suprema dell'umana fraternità come scopo della politica; il paese dove da sempre trovano asilo i perseguitati, hanno offerto al mondo l'immagine più meschina e degradante del proprio paese. A partire dal socialista Hollande - uno dei tanti che, in Europa, ha fatto strame della propria tradizione politica – meritatamente cancellato dalla geografia politica francese.
Gli italiani e gli europei, grazie alle immagini della TV, hanno potuto osservare a quale doloroso calvario i gendarmi francesi condannano centinaia di giovani africani e mediorientali, che tentano la sorte attraversando di notte, a temperature insostenibili, i valichi alpini, come quello del Monginevro. Gli italiani e gli europei hanno appreso del trattamento riservato a Beauty, una donna di trent'anni, incinta, malata di linfoma allo stato terminale, fornita di permesso di soggiorno e fatta scendere dal pulman che la portava in Europa, perché il marito era “irregolare”. Un episodio raccontato dalla stampa democratica in tutti i suoi atroci particolari.
Un episodio in cui la ferocia diventa oscena e la Francia, un paese opulento e sottopopolato, espone la sua immagine al disonore del mondo. E tuttavia, se non ci inganniamo, solo Marco Revelli ha avuto il coraggio intellettuale di dire quello che i commentatori perbene, rispettosi sino alle virgole dell'ordine costituito, non osano dire: «È impossibile pensare che dietro questi comportamenti reiterati non ci sia un ordine dall’alto. Che dietro la vergogna del Monginevro non ci sia l’infamia dell’Eliseo, e la firma di quell’Emmanuel Macron che a parole si presenta come campione di europeismo e di libertà, comprensivo delle ragioni dell’Italia e critico della sua solitudine sul tema migranti, ma che nei fatti alza muri come un Orbán qualunque. Ma è anche necessario aggiungere che al fondo di ogni catena di comando ci sta un uomo, che quell’ordine lo esegue. E che chi nella neve dei 1.900 metri ha vessato, offeso, esposto alla malattia e alla morte altri esseri umani, perseguitato i soccorritori e angariato i fragili, porta per intero la responsabilità della propria abiezione» (il manifesto, 1.4.2018).
E qui Revelli individua una questione di prima grandezza, perché oggi il potere, soprattutto quello supremo, ama nascondersi, magari dietro un sorriso affabile e sorridente. E in questo caso affida alle divise dei gendarmi frontalieri i compiti operativi dei suoi nascosti comandi. Come potrebbero, del resto, delle semplici guardie agire con tanta pervicace ferocia senza un comando politico dall'alto, del Ministero degli interni, e come questo potrebbe imporre un tale indirizzo senza l'avallo del Presidente? Se tale catena di comando è un fatto ben noto ed ovvio degli stati contemporanei, se ne trae una conseguenza che bisogna avere il coraggio di smascherare: la viltà del potere più alto.
Bisogna guardare dentro questa divisione del lavoro interna alla macchina del comando politico, dentro, direbbe Foucault, la “microfisica del potere”. Perché se Macron lucra consensi elettorali con la sua politica di ostentata ostilità agli immigrati, non è poi lui a subire conseguenze personali di eventuali e immaginabili ritorsioni. Nessuno, infatti, può pensare che la sofferenza inflitta ai disperati che cercano salvezza in Francia, non venga conosciuta da chi medita attentati terroristici nelle nostre città. E non è difficile immaginare quali nuove, rabbiose motivazioni tratrà dal rinfocolato desiderio di vendetta generato da tanti episodi. E tuttavia, quando la follia omicida lo spingerà, la sua azione rispetterà l'asimmetria e le maschere del potere che reggono il mondo. A essere colpiti e morire saranno cittadini innocenti.
Articolo inviato contemporaneamente a il manifesto
... (segue)
ad una sparatoria. E questo titolo, molto provocatoriamente, fu dato a una rivista da un gruppo di intellettuali di varia provenienza politica e formazione, all'indomani dell'uccisione, a Bologna, l'11 marzo del 1977, dello studente Francesco Lorusso.
Il senso di anticipazione che si percepisce in questi scritti intrigano lo storico che guarda a quei fatti dalla catastrofe politica dei nostri giorni. Quegli intellettuali che protestavano contro forme intollerabili di violenza e di sopraffazione, in realtà cominciavano a esprimere non solo disagio per un welfare cittadino avviato al declino, ma un dissenso sempre più dispiegato nei confronti della politica nazionale del PCI, ispirata dalla dalla scelta del “compromesso storico” con la Democrazia Cristiana. Nelle parole di Gianni Scalia le ragioni della rivista, che sono quelle di una rivolta intellettuale e morale molto ampia, si comprendono con rara chiarezza. E sono parole per il nostro tempo: « Dovrebbe essere semplice da capire: il Potere diventa assoluto, e funziona come tale se manca l'opposizione al potere, se l'opposizione fa parte del potere, si “compromette” col potere, se il potere si produce e si riproduce con il consenso dell'opposizione». Scalia e gli altri, in effetti, vedevano da Bologna e dall'Emilia, vale a dire dal punto più alto del successo egemonico del PCI, l'inizio del suo storico dissolvimento. E lo scorgevano marxianamente – vale a dire con l'insuperabile bussola analitica di Marx – nel progressivo disancoraggio della sinistra istituzionale dalle sue radici di classe: «Quello che ci minaccia è la perdita della “memoria” di classe, nella classe che è irriducibilmente espropriata ed è irriducibilmente, potenzialmente rivoluzionaria, perché c'è sempre la divisione intollerabile di oppressi e oppressori, di sfruttati e di sfruttatori.» Parole queste ultime che ssuoneranno arcaiche ai politici perbene della sedicente sinistra dei nostri giorni, impegnata a conseguire sempre più scarsi consensi elettorali, piuttosto che organizzare e rappresentare le classi lavoratrici e i ceti subalterni.
Non è qui possibile dar conto dei temi affrontati dalla rivista nei suoi pur pochi anni di vita. Basti qui accennare almeno al fatto che negli scritti antologizzati in questa pubblicazione si riflette anche il generale processo involutivo verso cui si avviava la vita civile del nostro Paese. Repressione e rivolta si fronteggiavano in quegli anni in una contrapposizione lacerante.Tutta «la società – scriveva Boarini in un saggio dell'ottobre 1978 – è idealmente e materialmente in armi: il pluralismo politico e sociale sembra tendere a identificarsi con una pluralità di partiti o gruppi armati». L'ombra del terrorismo calava sulla realtà italiana finendo col rendere “criminale” ogni critica radicale alla società divisa in classi.
Diciamo la verità, tutta la verità, almeno a sinistra, circondati come siamo da un oceano di menzogne pubblicitarie. Non siamo contenti di come il nostro campo politico... (segue)
Diciamo la verità, tutta la verità, almeno a sinistra, circondati come siamo da un oceano di menzogne pubblicitarie. Non siamo contenti di come il nostro campo politico è arrivato all’appuntamento elettorale. Un anno perduto appresso alle oscillazioni quotidiane di Giuliano Pisapia, quando pure appariva evidente l’inconsistenza del tentativo e l’inadeguatezza del suo proponente. Poi, al momento della configurazione di un nuovo organismo politico, con la nascita di Liberi e Uguali, l’esplosione di logiche spartitorie e pattizie che hanno emarginato i protagonisti del Brancaccio e dunque una vasta area di movimenti e di giovani. Il tutto condito dalla incoronazione dall’alto, come il deus ex machina delle tragedie antiche, di un personaggio esterno alla storia politica delle formazioni che si fondevano.
Come se il prestigio pur alto di un uomo delle istituzioni, come Pietro Grasso, avesse potuto compensare l’assenza di democrazia nella scelta dei candidati: pratica inveterata che costituisce una delle cause della fuga dai partiti politici e della diserzione delle urne. Tutto questo mentre a sinistra una nuova formazione, Potere al popolo, mostra altre forze vitali del nostro campo che si disperdono, in un momento di acuto scontro politico e ideale in atto nel Paese
Ma se è andato male il percorso con cui si è arrivati alla scadenza elettorale non è che la campagna con cui ci si presenta al 4 marzo stia andando splendidamente. Pur tra spunti apprezzabili, mancano indicazioni programmatiche limpide e nette, in grado di caratterizzare e distinguere il campo della sinistra. E nelle indicazioni, a livello di linguaggio elettorale, una strada di efficace comunicazione è costituita dalla opposizione radicale ad alcune riforme del governo Renzi. Quella contro il Jobs Act è certamente di grande importanza e parla a una larghissima platea di lavoratori e di italiani. Anche se la critica a quel monumento antioperaio andrebbe articolata con maggiore ricchezza di motivazioni.
Ma c’è un ambito fondamentale della vita del nostro Paese, una istituzione strategica per il nostro avvenire, che oggi non appare sufficientemente vicina agli sguardi e agli interessi della sinistra. E’ la scuola. Il luogo dove si formano le nuove generazioni. Ebbene, occorre dire con forza quello che è ignorato da gran parte degli italiani: la scuola così come l’abbiamo conosciuta, luogo di formazione culturale, civile, spirituale è quasi andata distrutta. Essa è stata trasformata e diventa sempre di più, una unica, indistinta, scuola professionale. La cultura, l’insieme di discipline in cui si articola il sapere del nostro tempo è ormai ridotta ad apprendistato, un campo neutro e frantumato di “competenze”, di cui gli studenti devono appropriarsi per accedere al lavoro.
Com’ è noto l’alternanza scuola lavoro prevede 400 ore annue di prestazioni lavorative da parte dei ragazzi degli istituti tecnici e 200 da parte dei liceali. Ore sottratto allo studio, alla riflessione, al dialogo con gli insegnati. Questi ultimi sempre meno sono impegnati nell’insegnamento diretto e nella preparazione delle loro lezioni e sempre più assorbiti da compiti di valutazioni del lavoro. di rendicontazione, misurazione dei risultati, elaborazione di progetti per raccogliere risorse per i loro istituti, ecc. La scuola azienda – un progetto avviato in Europa alla fine degli anni ’90 - diventa un pilastro di una più ampia riforma del mercato del lavoro, in cui le istituzioni pubbliche della formazione vengono piegate ai presunti bisogni produttivi delle aziende. Una esagerazione? Invitiamo a leggere, in Gazzetta, (25/1/2018) il decreto congiunto del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e del MIUR che istituisce il Quadro nazionale delle qualificazioni rilasciate nell'ambito del Sistema nazionale di certificazione delle competenze.
È evidente che siamo arrivati alla cancellazione di un paradigma educativo che l'Europa aveva elaborato nel corso di alcuni secoli, vale a dire il profilo culturale della modernità, il fondamento della nostra civiltà. E l’aspetto davvero grottesco di questa drammatica involuzione del processo formativo, è che avviene in una fase storica in cui la vorticosa innovazione dei processi produttivi rende obsoleto in breve tempo qualunque “competenza”. La scuola che vuole formare i giovani non come cittadini e spiriti liberi, ma come lavoratori, equivale a rincorrere a piedi un treno in corsa, ma correndo in direzione contraria. Abbiamo bisogno di generazioni culturalmente ricche e dotate di capacità creativa, per fare della tecnologia che avanza strumenti di liberazione umana e di un superiore assetto di civiltà. E invece si vogliono fabbricare soldatini di un esercito del lavoro per una guerra che si combatte con altre armi.
Per queste ragioni l’impegno a cancellare alla radice l’assetto aziendale della formazione - di cui la Buona scuola è l’ultimo esito - non è solo un tema efficace di campagna elettorale, ma un obiettivo strategico irrinunciabile della sinistra.
(segue)
Giunta al potere, infatti, la Sinistra storica emarginò la sua ala cosiddetta “Estrema” – vale a dire i propugnatori di programmi riformatori più radicali – e si alleò con la Destra liberale, governando per un decennio con una politica di centro e dando un colpo rilevante all’etica politica e all’immagine pubblica dell’istituzione parlamentare. Sui vari provvedimenti del governo, infatti, Sinistra e Destra convergevano armonicamente. Maggioranza e opposizione divennero indistinguibili. Dunque, il trasformismo del nostro tempo è, propriamente, quello inaugurato da Renzi, con il patto del Nazareno, vale a dire un’alleanza informale di governo con il precedente avversario. Senonché Silvio Berlusconi non è Marco Minghetti o i fratelli Spaventa, ma il capo di un partito-azienda, condannato in via definitiva da un tribunale della Repubblica, dunque un pregiudicato, un leader portatore di un gigantesco conflitto di interessi mai risolto, un uomo che aveva manomesso Parlamento ed esecutivo per i propri privati interessi, che aveva dato di sé, all’opinione pubblica mondiale, un’immagine offensiva della nostra dignità nazionale.
Quando un partito, com’è accaduto al PD di Renzi, finisce con l’allearsi con l’avversario politico di un ventennio, per perseguire peraltro scopi politici controversi, il colpo di natura piscologica e morale subìto da elettori e militanti risulta particolarmente severo. In questo caso una lunga stagione della vita, venti anni dei sentimenti e delle passioni di milioni di persone, vengono rovesciati e contraddetti di colpo dall’iniziativa politica decisa di un uomo solo. E’ davvero difficile pensare che una simile scelta potesse essere perseguita senza conseguenze anche gravi sul popolo che stava dietro le insegne di quel partito. I partiti e in primissimo luogo quelli di sinistra, erano ( e sono in parte ancora) formazioni di forte identità, luogo di sentimenti oltre che di idee e interessi, terreno di idealità e di generoso volontariato. La dissoluzione di queste fedi, di questi collanti sentimentali, per quanto usurati rispetto ai precedenti decenni d’oro, ha divorato ogni ragione di condivisione ideale tra la grande massa di popolo che si identificava in quel partito.
Nel novero delle repliche del passato andrebbe oggi anche posta l’idea del Partito della nazione che Renzi intendeva perseguire con la combinazione della riforma della Costituzione e l’Italicum. Una formazione che, per almeno un decennio, sarebbe diventato il “Partito unico della nazione”, se gli italiani non l’avessero bocciato nelle urne. Una replica funesta della storia, anche se in un contesto profondamente mutato, fortunatamente abortita.
Ed ecco l’ultimo grottesco ripescaggio, in nuove forme, di comportamenti politici dai bassifondi della vita civile del nostro passato: la negazione della decadenza del senatore Minzolini da parte di molti senatori del PD. Grazie anche a costoro, il Parlamento ha violato una legge dello stato. Anche in questo caso abbiamo assistito a un episodio che Gramsci avrebbe definito di «sovversivismo delle classi dirigenti», una delle tante forme di violazione dello stato di diritto che i ceti dominanti italiani hanno messo in atto lungo la nostra storia unitaria.
Per questo gli episodi di tesseramento selvaggio al PD, in varie città italiane, segnalati dalla stampa negli ultimi giorni, non deve sorprendere più di tanto. Lo svuotamento etico-politico di questo partito è ormai completo. Ed esso si presenta quale drammatica testimonianza di una esperienza fallimentare e insieme insegnamento ineludibile per il futuro. Non si può far commercio dei sentimenti e degli ideali delle persone, senza pagare conseguenze, talora anche gravi e definitive. La Realpolitik, di cui, nella sinistra, è stato maestro Giorgio Napolitano, può anche conseguire successi momentanei, ma alla lunga può risultare rovinosa. E’ diventa rovinosa nel caso di Renzi , perché al capovolgimento del sentire comune di tanta parte del popolo del PD, è anche corrisposto un suo definitivo distacco dalla rappresentanza degli interessi della classe operaia e dai ceti popolari.
(segue)
Il paradosso, clamoroso fino allo scandalo, è diventato inoccultabile, eppure il ceto politico non vuole vederlo. Il risparmio delle famiglie italiane continua a gonfiarsi - come ha ricordato di recente il governatore della Banca d’Italia - e non va agli investimenti, accresce la tesaurizzazione. Sono anni che questo accade, nonostante gli effetti della crisi mondiale e nonostante l’immobilità o quasi, quando non la regressione, dell’economia italiana. Naturalmente non tutte le famiglie risparmiano, solo una percentuale, mentre le altre non solo hanno difficoltà a risparmiare, ma vanno impoverendosi. Quindi una parte del Paese continua ad accumulare, non investe, mentre un’altra parte, crescente, perde terreno, con danno generale e lacerazione del tessuto sociale.
A fronte di questa continua accumulazione della ricchezza privata si staglia, come una montagna, il nostro debito pubblico (oltre il 133% del PIL) che illustra, a chi ha intelligenza per leggere i fenomeni, la storia dell’economia italiana degli ultimi decenni. I privati, famiglie e imprese, si sono arricchiti a spese dello stato che è andato accumulando debiti. Si sono arricchiti, certo anche con il lavoro e l’impresa. Ma una parte crescente ha accumulato ricchezza attraverso l’evasione fiscale, grazie alle esenzioni e alle agevolazioni pubbliche, per mezzo di una corruzione famelica dilagante. Ebbene dovrebbe essere evidente a tutti che, governi di centro-sinistra o di centro-destra, nulla è cambiato e nulla cambia nel modello di accumulazione capitalistica dell’Italia. E questo è il nodo che paralizza il nostro Paese.
E’ noto, infatti, che le politiche neoliberistiche hanno provato, a tutte le latitudini del pianeta, il loro irrimediabile fallimento. Ma in Italia esse continuano a provarlo in maniera specifica alla luce dei caratteri storici del nostro capitalismo. L’Italia è diventato un paese industriale moderno grazie al ruolo del potere pubblico, grazie all’azione dello Stato, sia in età liberale, con l’impulso dato alla creazione delle infrastrutture ferroviarie e viarie, la siderurgia e la chimica, sia in età fascista con la nascita dell’IRI, non diversamente che nel dopoguerra con l’ENI e gran parte delle industrie a partecipazione statale. La storia naturalmente non è né un vincolo né un’ipoteca sul futuro. Ma è ormai evidente che l’Italia, senza una capacità di stimolo e di investimento diretto da parte del potere pubblico, contando sull’attrazione di investimenti esteri attraverso la precarizzazione del lavoro, annaspa e affonda.
Ebbene, come uscire dalla trappola? La politica di austerità della UE ci condanna a morte. L’ultima capitolazione del nostro ministro dell’Economia di fronte alle imposizioni di Bruxelles non lascia dubbi. L’Unione è governata da modesti contabili che stanno distruggendo uno dei più ambiziosi progetti politici del Novecento. E l’Italia non ha né le forze né il prestigio per opporre un diverso corso alla Germania e ai suoi alleati. Nel frattempo, crescita o non crescita, flessibilità del lavoro o meno, la disoccupazione della nostra gioventù naviga sul 40%. Una cifra spaventosa. Come può sopravvivere un paese che condanna alla disperazione sociale quasi la metà delle nuove generazioni?
Ma dietro queste cifre e quelle relative al risparmio delle famiglie, esiste un legame che occorre portare in luce. Perché il paradosso insostenibile non è solo quello tra debito pubblico e risparmio privato. Esso riguarda anche le generazioni. Perché le famiglie che risparmiano e non investono, sono anche quelle i cui figli non trovano lavoro o lo svolgono in condizioni precarie, o trovano rifugio all’estero. I nonni e i padri, accumulano ricchezza e i figli e i nipoti sono impossibilitati a esprimere la propria energia e creatività.
Allora, non è evidente che il passo drammaticamente necessario è trasferire una quota significativa di ricchezza privata al potere pubblico per investimenti diretti di grande peso? È questa la leva più potente per rimettere in moto l’economia nazionale. Ma naturalmente il nostro ceto politico latita, perché teme gli esiti elettorali di una proposta di patrimoniale. Eppure qualcuno deve trovare l’onestà e il coraggio di dire ai padri e ai nonni delle famiglie abbienti d’Italia che senza il loro contributo i loro figli e nipoti non hanno avvenire e che l’Italia arretrerà, scivolando nella disgregazione sociale e nelle reti criminali. Occorre elaborare una proposta egemonica, tecnicamente ben congegnata, una specie di prestito generazionale, per affidare alla mano pubblica un grande progetto di investimento, che può costituire anche una delle forme più dinamiche di redistribuzione della ricchezza.
(segue)
Volete avere, in frammento, un’idea della pochezza culturale e della mediocrità irrimediabile delle nostre classi dirigenti? Osservate le vicende del nuovo stadio della Roma. Già un nuovo stadio in una città come la Capitale, resa ormai informe dalla cementificazione dell’ultimo quindicennio, dovrebbe apparire come un delitto urbano. La città è soffocata dal traffico per i troppi poli di espansione costruiti senza collegamenti in ferro. Esistono già due stadi, uno dei quali il Flaminio è in uno stato vergognoso di abbandono. E nessuno si sogna di ristrutturarlo. Le squadre di calcio , in Italia, perdono costantemente spettatori e hanno una media di presenze a partita di circa 21 mila spettatori, che è fra le più basse d’Europa. La Roma, fra l’altro, è fra le squadre italiane quella che subisce, insieme al Napoli, la maggiore contrazione: - 17,8% nell’ultima stagione .
www.officinadeisaperi.it
Il 5 febbraio del 1783 una violentissima scossa di terremoto sconvolse la Calabria meridionale. L’epicentro fu individuato nel territorio di Seminara, nella Piana di Gioia Tauro, ma l’onda d’urto investì con diversa intensità l’intera regione e la Sicilia, seguita da altre potenti scosse nei giorni e mesi successivi, lasciando dietro di sé uno sciame sismico che durò anni. Fu uno dei più catastrofici terremoti della nostra storia, reso particolarmente distruttivo nei paesi della Piana dagli effetti del moto ondulatorio e sussultorio, che sollevarono il suolo alluvionale poggiante sulla roccia madre e lo scaraventarono altrove. Non pochi vigneti e uliveti furono lanciati su proprietà altrui, creando problemi ardui di ricognizione ai tecnici della ricostruzione.
Il recente terremoto rischia di rendere irreversibile il più grave problema demografico-territoriale del nostro Paese, ignorato sovranamente dalle nostre classi dirigenti. Non si tratta di “mettere in sicurezza il territorio”, come si usa dire, quasi che tutto si esaurisse in un’opera di ingegneria civile. Si dimentica la drammatica situazione della Penisola: ormai quasi il 70% della sua popolazione si addensa lungo le aree costiere e la Valle padana, mentre il centro si svuota. Se dovessero verificarsi terremoti violenti o altri eventi catastrofici in queste aree, a parte il numero dei morti, l’intera economia nazionale e le infrastrutture civili subirebbero danni che metterebbero in ginocchio per anni la nostra comunità.
Dunque, nelle terre da ricostruire non bisogna solo portare dei cantieri momentanei, ma popolazione ed economie. Le aree interne, quelle oggi abbandonate e quelle colpite dal sisma, devono rinascere non con una gigantesca opera pubblica, ma con un progetto che affidi alle popolazioni l’opera di creare o ricreare il tessuto produttivo, nuove relazioni sociali, servizi, oltre a nuovi modelli abitativi da affiancare alle ristrutturazioni. Non è un nuovo gravame che si aggiunge al nostro debito, ma un investimento per il nostro futuro: si tratta infatti di far rifiorire la nostra agricoltura montano-collinare, riprendere l’economia dei nostri boschi, estendere gli allevamenti, dare nuove opportunità all’artigianato, ai saperi alimentari, al turismo, ecc.
(segue)
E invece non bisogna solo sbarrare la strada a una cattiva riforma della Costituzione e al disegno neopresidenzialista della legge elettorale. Occorre sconfiggere Renzi per ragioni drammaticamente più serie. La presente riflessione è indirizzata ai tanti democratici, intellettuali, giornalisti e varie altre personalità pubbliche che considerano Renzi, nella presente situazione italiana, il male minore. E invece anche una sommaria considerazione ci consente di vedere e prevedere, fuori da ogni ragionevole dubbio, che egli è il male peggiore.
(segue)
«Se l’Europa non ci dà ascolto, faremo da soli» ha sbruffato Renzi di fronte alle crescenti chiusure dei governi dell’Unione, che non vogliono farsi carico dei migranti in fuga da guerre e miseria. Ma come faremo da soli, noi, abitanti di una penisola in mezzo al Mediterraneo, che non ha frontiere se non tra le valli delle Alpi? Eppure in questa espressione di sfida si può limpidamente scorgere la differenza che corre tra uno statista, figura quasi scomparsa, che guida il proprio paese con lungimiranza strategica e un qualunque rappresentante del ceto politico. Vale a dire quella figura oggi prevalente di professionista, perennemente in campagna elettorale, che usa le leve del potere pubblico per affermare e conservare il proprio. Uno sguardo ai membri dei governi europei ci offre un campionario desolatamente esaustivo. Il moto di Renzi, naturalmente, è un abbaiare dei cani alla luna. Ed è noto che quella solitaria protesta non ha mai cambiato la sorte dei cani sulla Terrai, né il corso dei moti lunari.
Il passo che un vero statista dovrebbe compiere è uscire dalla Nato. Oggi esistono buone ragioni per disfare la struttura dell’Alleanza atlantica. Essa non aveva più ragioni di esistere dopo il tracollo del Patto di Varsavia. Eppure sotto il dominio americano essa ha continuato la sua opera, provocando danni immensi e incalcolabili all’umanità intera. Rammentiamo qui brevemente, tralasciando le guerre balcaniche, che sotto lo scudo statunitense, almeno una parte di paesi Nato ha invaso l’Afganistan, intrapreso la rovinosa guerra in Iraq (dalle cui macerie è sorta l’Isis, il più sanguinario fenomeno di terrorismo internazionale dei nostri tempi), ha invaso e devastato la Libia. Ma anche in Europa, la politica americana della Nato è fonte di tensioni crescenti e di conflitti armati (Ucraina) .Rinfocolando i risentimenti antirussi di molti paesi dell’Est, ha fatto rinascere antichi nazionalismi e spinto la Russia verso un irrigidimento sempre più autoritario, favorendo platealmente il potere personale di Putin.
L’uscita dalla Nato potrebbe favorire il processo di unificazione dell’Europa. Dopo la Brexit sarebbe più agevole la costituzione di una difesa europea comune, una difesa leggera, assai meno dispendiosa di quella affidata ai singoli stati, non soggetta agli interessi commerciali USA. L’Italia, insieme alla Spagna, al Portogallo, alla Grecia potrebbe mettersi alla testa di questa coraggiosa svolta politica, in grado di trascinare anche la Francia, se il senso del bene comune tornasse a brillare tra i socialisti di quel paese. Noi ne abbiamo necessità vitale. Il modo in cui evolverà il continente africano nei prossimi anni deciderà molte cose dell’avvenire del nostro Paese. Occorre una grande politica verso i paesi del Mediterraneo e non la si può realizzare con i dogmi fallimentari dell’ordoliberalismo tedesco. Mentre su questo blocco di paesi si potrebbe progettare un euro.2, una moneta euromediterranea, che segni una via d’uscita dal più grave errore fondativo dell’Unione Europea.
(segue)
Come ben sanno le persone colte d’Europa e dei vari paesi del mondo, l’Italia eredita, con poco merito dei contemporanei, un patrimonio di inestimabile valore: il suo paesaggio. E forse occorrerebbe aggiungere che questo, subito dopo la tradizione culinaria, costituisce il connotato identitario più spiccato del nostro Paese, quello che ne fa appunto il Bel paese e che nell’immaginario internazionale fa dell’Italia, l’Italia. Eppure quanta fatica per le ristrette avanguardie nazionali, che sono consapevoli di questa eredità unica al mondo, di tutelarlo, di sottrarlo ai miopi appetiti della classe dirigente della nostra epoca, priva di progetti e cultura, che vorrebbe ricavarne soldi e legna da bruciare nel misero focolare della crescita.
Su questi temi e soprattutto sulle strategie che hanno ispirato l’elaborazione del piano paesaggistico della Toscana, ritorna ora un prezioso volume, destinato a costituire un punto di riferimento imprescindibile per tutti i futuri interventi sul paesaggio, in Italia come negli altri paesi. Si tratta del testo, a cura di Anna Marson, che è stata assessore all’Urbanistica e pianificazione territoriale nella precedente giunta della regione Toscana, e ha avuto un ruolo fondamentale per la sua approvazione: La struttura del paesaggio. Una sperimentazione multidisciplinare per il piano della Toscana, Prefazione di Enrico Rossi, Laterza, 2016, €34.
(segue)
Al fine di favorire il trasferimento da Londra a Milano dell'Autorità Bancaria Europea (EBA) Ferruccio De Bortoli (Corriere della Sera del 25/7) ha individuato un obiettivo che fa al caso dell'Italia: abolire o per lo meno sospendere «l'inutile e dannosa» Tobin tax, la tassa sulle transizioni finanziarie. L'iniziativa costituirebbe un segnale «molto apprezzato dagli operatori finanziari e dai mercati». E su tale esito non abbiamo dubbi, come non abbiamo dubbi sul fatto che l'ex direttore di uno dei maggiori quotidiani italiani abbia tra i suoi compiti quello di perorare una politica apprezzata dagli operatori finanziari e dai mercati. Qualche dubbio nutriamo invece sulla logica argomentativa con la quale De Bortoli sostiene la necessità di abolire la Tobin Tax.
Di fronte alle indubbie difficoltà di applicazione che la Tobin tax incontra in Europa - dovute soprattutto al sabotaggio dei governi e del ceto politico, nonché alla cattiva stampa di cui De Bortoli ci fornisce un saggio - si potrebbe avere certamente ben altro atteggiamento. Ad es. si potrebbe insistere sulla necessità di una sua equa applicazione universale per mettere tutti gli stati alla pari e garantire così un sicuro flusso di risorse nelle casse pubbliche. Rappresenterebbe, per lo meno, una linea di tendenza favorevole a un minimo di regolamentazione dei mercati finanziari che l'attuale disordine dell'economia mondiale reclama da tempo.
Per la verità, le ovvietà neoliberistiche di De Bortoli - che tuttavia colpiscono per la loro ostinazione di fronte alla vastità dei fallimenti reali - non avrebbero attratto le nostre altrettanto ovvie critiche se non fosse stato per una ragione più precisa. Come tutti i giornali italiani, domenica le pagine del Corriere erano fitte di articoli sui fatti tragici di Monaco e sull'ennesima strage a Kabul. Pagine di dolore e di costernazione. Ebbene, strideva in maniera insopportabile, come un dato tragico della cultura del nostro tempo, la distanza abissale tra le immagini e i racconti di quegli eccidi e l'editoriale che apriva il quotidiano. L'articolo di De Bortoli appariva come il distillato di una rimozione che costituisce un dato non più tollerabile dell'analisi sociale contemporanea.
, ma soprattutto nelle grandi città... (segue)
E' stato uno dei temi più dibattuti dai commentatori che hanno preso in esame l'andamento territoriale dei flussi elettorali delle ultime amministrative: un po' ovunque, ma soprattutto nelle grandi città, il PD rastrella consensi nei centri storici e soprattutto nei quartieri bene. Perde vistosamente nelle periferie, che diventano il serbatoio del voto di protesta, della destra e dell'astensionismo. Il fenomeno è apparso clamoroso in alcune grandi città come Roma o come Torino, a cui ha dedicato una efficace disamina Marco Revelli (il manifesto, 29/6/16). Sotto il profilo politico questa sorta di inversione storica della tradizionale geografia elettorale italiana non è una grande novità. E' solo la continuazione di un processo in atto da tempo e il segnale di un definitivo disancoraggio di classe della formazione che aveva rappresentato la sinistra nel nostro paese. Il PD di Renzi ha concluso una parabola che discendeva ormai a velocità crescente.
Ma richiamo questi temi, non per l'ennesima recriminazione contro il PD, quanto per il fatto che essi invitano a ragionare, più che delle forze politiche e delle dinamiche elettorali, delle città, delle strutture urbane. Che cosa sono diventati i nostri centri storici, che cosa le periferie? Un rapido sguardo ad alcune loro trasformazioni è non solo utile per spiegare i fenomeni politici presenti, ma soprattutto per intravedere possibili linee alternative. Ci sono pochi dubbi: il fenomeno sociale più rilevante che ha investito le nostre città dalla metà del secolo scorso, è stata la cacciata dei ceti popolari dai centri storici. Nel 1991 Pier Luigi Cervellati – il “restauratore” del nucleo storico di Bologna – osservava che tra il censimento del 1951 e quello del 1971 gli abitanti dei centri storici si erano dimezzati. (La città bella, il Mulino ). Un fenomeno che è continuato nel tempo: «Le undici più grandi città italiane - ha ricordato Paolo Berdini - hanno perduto circa 700 000 abitanti nel decennio compreso tra i censimenti del 1991 e del 2001». (La città in vendita, Donzelli, 2008).
Sotto il profilo sociale e politico tale destrutturazione demografica non ha prodotto grandi scosse fino ad epoca recente. Nelle periferie i vecchi cittadini e i nuovi abitanti hanno trovato spesso standard più moderni di servizi abitativi e potuto compensare i disagi di più lunghi spostamenti grazie a nuovi redditi da lavoro e alle strutture locali, per quanto insufficienti, del welfare. Ma negli ultimi 15 anni le cose sono precipitate. La crescente disoccupazione si è combinata, all'indomani della crisi del 2008, con la politica dettata da Bruxelles, che ha di fatto impedito ai comuni di far fronte ai crescenti bisogni di servizi dei cittadini: dai trasporti agli asili nido, dai rifiuti alla manutenzione del verde pubblico. Alla marginalità territoriale si è aggiunta la disperazione sociale. In alcune realtà urbane come quella di Roma la degradazione della vita civile è ormai un motivo di scandalo e di vergogna a scala europea. Ma come si risponde a tali problemi senza scorgere, nella prospettiva storica, la filigrana classista delle trasformazioni avvenute, senza tener conto del potere fondiario-finanziario che decide il destino delle nostre città? Davvero possiamo affrontare i loro problemi invocando la copertura delle buche, il rafforzamento del trasporto pubblico, la possibilità di ospitare le Olimpiadi, le fumisterie tecnologiche delle smart cities?
C'è una città in Italia, che ci racconta quel che avverrà a tanti nostri centri senza adeguate contromisure, ma che ci suggerisce anche che cosa può essere oggi una politica urbana di sinistra. Questa città è Venezia, diventata ormai una sorta di Disneyland. Come ricorda Franco Mancuso (Venezia è una città, Corte del Fontego, 2016) il centro lagunare si è ridotto a soli 56 mila abitanti, dopo essere stata per secoli una delle più popolose città d'Italia. Eppure Venezia attrae ogni giorno per studio e lavoro circa 50 mila persone, più di quanto non non faccia il Petrolchinico di Marghera. Persone che son costrette a vivere nell'entroterra di Mestre per l'elevato costo delle case e per la morte della città come comunità civile: mancanza di artigiani, di botteghe per i consumi quotidiani, di servizi adeguati, di relazioni stabili e normali tra gli abitanti. Eppure tante coppie di giovani amerebbero risiedere in città se i costi non fossero per loro proibitivi, potrebbero farla rivivere di vita vera e non del frettoloso consumismo del turismo di massa.
Norma Rangeri, la nostra instancabile direttrice, mi invita a esprimere pubblicamente la mia scelta di voto al prossimo ballottaggio delle elezioni per il sindaco di Roma. L'intenzione, naturalmente, è di raccogliere una pluralità di pareri davanti a uno scenario cha appare abbastanza problematico e ingarbugliato. Per lo meno per chi si colloca a sinistra del Partito Democratico. Oggi, tuttavia, rispetto a poco tempo fa, il quadro della situazione politica romana mi appare molto più chiaro e definito e le possibilità di fare una scelta di voto assai meno problematica.
Ma che c'entra tale valutazione con la scelta del sindaco di Roma? Per fortuna, senza dover dimenticare i danni generali della politica nazionale del PD, al ballottaggio non sarò costretto a turarmi il naso. Ho sentito più volte Giachetti in Tv perorare la causa delle Olimpiadi a Roma e del nuovo stadio della squadra capitolina e questo mi ha definitivamente persuaso. Considero simili scelte il distillato del neoliberismo urbanistico che già affligge le nostre città (Venezia fa testo da anni) e che rischia di distruggerle. E' il processo di disneylizzazione dei nostri centri urbani, un modo di mobilitare risorse per singoli eventi, tutto interno alla logica della società dello spettacolo, del profitto per alcuni gruppi, mentre si rimuove la visione d'insieme della città: con i suoi bisogni quotidiani, le sue periferie, il suo crescente disagio sociale, le sacche di emarginazione che si vanno gonfiando.
Infine, qualche considerazione sugli insuccessi elettorali più significativi della sinistra a Roma e a Torino, che mi paiono comuni per tanti aspetti. Avevo considerato, a suo tempo, imprudente la candidatura di Fassina, ma - una volta nell'agone elettorale - ho espresso su questo giornale il mio sostegno al suo lavoro per tanti versi coraggioso. Naturalmente, senza illusioni, con l'auspicio che si costruisca a Roma, per il futuro, un centro aggregatore delle forze di sinistra, quale terminale di una formazione politica più larga, di respiro nazionale. C'era, tuttavia, nella candidatura di Airaudo a Torino e di Fassina a Roma, un peccato d'origine che evidentemente il lavoro sul campo, quello tra la classe operaia torinese e nella periferia romana, non è bastato a sanare. E le ragioni sono ovvie.
L'articolo è inviato contemporaneamente a il manifesto
Credo che sulla polemica esplosa in seguito alla dichiarazioni di Camillo Davigo occorra un di più di riflessione politica, rispetto alle schermaglie formali, alle difese e alle accuse che abbiamo letto in questi giorni. Sotto la densa polvere che si è alzata occorre cogliere una sostanza politica di primissimo rilievo. Sono in totale disaccordo con quanto sostiene Anna Canepa, segretaria di Magistratura Democratica, a proposito delle posizioni di Camillo Davigo, nell'intervista concessa ad Andrea Fabozzi, sul Manifesto del 24 aprile. Sono in disaccordo non tanto per i contenuti in sé, che rientrano in logiche e schermaglie di corrente e che interessano a pochi italiani. Anche se nell'intervista vi si leggono banalità folgoranti del tipo: «Noi pensiamo che la corruzione non possa essere affrontata esclusivamente in termini repressivi». Un motivo di bassa retorica per depotenziare le posizioni di Camillo Davigo e ridurlo al rango del Grande Repressore.
Capisco bene quanto ha dichiarato ad Aldo Cazzullo, Reffaele Cantone, in un'intervista su Corriere del 23 aprile: «Mani Pulite ha fallito perché le manette non bastano». Certamente, le manette non sono bastate e non bastano mai, in nessun caso. Ma chi doveva far seguire alla repressione i fatti di una profonda trasformazione della macchina amministrativa, delle procedure giudiziarie, delle strutture della vigilanza e dei controlli? Chi se non i governi e il ceto politico? Chi non ha fatto seguire alla galera i fatti positivi di un profondo rinnovamento anche dello spirito pubblico nazionale? Chi, se non il potere legislativo e gli esecutivi? Sono costoro che sono mancati alla prova. Non certo i magistrati, che avevano svolto il loro compito e a cui spettano altri compiti.
Abbiamo già dimenticato? Noi siamo appena usciti da una fase storica in cui un avvocato, Cesare Previti, che faceva vincere le cause al suo padrone comprando i magistrati che lo giudicavano, è diventato ministro della Repubblica. Vigeva allora la barbarie giustizialista? Erano gli anni in cui il presidente del Consiglio, Berlusconi, con i suoi avvocati fatti eleggere in Parlamento, si faceva emanare le leggi che dovevano salvarlo dalla cause pendenti. L'intero parlamento della Repubblica asservito ai voleri, ai capricci, perfino alle bugie ridicole di un magnate. A questo giustizialismo allude Renzi? Sono anni di giustizialismo i nostri, in cui il parlamentare Denis Verdini, amico del presidente del Consiglio Renzi, e suo importante sostegno politico, con ben 6 rinvii a giudizio, è tranquillamente al suo posto e continua a onorare della sua presenza il nostro Parlamento? Ma perché Renzi scopre oggi l'urgenza del garantismo? Non è per caso che, avendo fondato il suo potere su una costellazione di appoggi, dal mondo imprenditoriale a quello finanziario - come ha ben scritto A.Floridia sul Manifesto del 14 aprile - teme che qualche inchiesta giudiziaria possa mandare in aria il suo traballante castello?
Ora, nel paese in cui si tende a guardare solo al dito e a non scorgere la luna, bisogna ricordare che Davigo ha anche fatto una affermazione importante, ripresa da pochi: «la classe dirigente, quando delinque, fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada, e fa danni più gravi». Ed è questo il punto, il vero punto da discutere. Perché la corruzione dominante nel nostro paese, non è quella dei ladruncoli di strada, ma delle classi dirigenti. E tra queste, lo si voglia o no, occorre metterci mafia, 'ndrangheta e camorra, sia per l'imponenza dei capitali che muovono, che per l'ampiezza dei territori che controllano. Tale corruzione non è solo rilevante per il danno economico che infligge al paese, com'è universalmente riconosciuto. Essa rivela in realtà una questione politica di prima grandezza, a cui la sinistra dovrebbe guardare con più attenzione.
(continua la lettura)
Ma la scarsità di lavoro, diventata una convenienza strategica per il capitale, non è solo una immensa fonte di nuova legittimazione del suo dominio, è anche l'origine di un progressivo arretramento della nostra civiltà. Siamo al punto che ormai esaltiamo senza nessun pudore i nostri successi industriali anche quando sono finalizzati alla guerra, a portare morte e distruzioni presso altri popoli. Finmeccannica firma un maxicontratto per la fornitura di 28 Eurofighter Typhoon al Kuwait, titolava trionfante Il Sole 24 ore il 4 aprile e ripetevano con pari giubilo gli altri grandi quotidiani nazionali. Ma l'inglese dei termini usati non può cambiare la natura criminale dei prodotti. Fighter significa combattente, e quell'euro che lo precede serve solo a camuffare e nobilitare il termine, quasi si trattasse di un computer di nuova generazione, mentre è invece un aereo, un areo Typhoon, cioé uragano, che genera una tempesta di morte. Plaudiamo a Finmeccanica che crea occupazione costruendo aerei da combattimento, destinati ad alimentare le guerre che infuriano in Medio Oriente?
Certo, lo sfruttamento del mare non è paragonabile all'industria degli armamenti. Sono due cose molto distanti tra loro. In un caso – ma solo quale esito indiretto o incidentale – si uccidono pesci e si distrugge l'habitat marino, e per lo meno si produce petrolio, nell'altro si producono armi per uccidere espressamente uomini e donne. Ma chi difende le ragioni del no a tutela dei posti di lavoro deve essere portato a riflettere su un altro aspetto. La convenienza a sfruttare le vecchie economie comporta un rallentamento degli investimenti nelle nuove. E questo è storicamente provato.Quando nel 1972, il Club di Roma pubblicò il Rapporto sui limiti dello sviluppo, circolato poi in piena crisi petrolifera, si aprì una vasta discussione sulla ricerca di energie alternative. Un dibattito destinato ben presto a esaurirsi quando si scopri che di petrolio ce n' era ancora tanto, nella pancia della Terra, insieme a veri e propri oceani di gas. E per i decenni successivi gli investimenti di ricerca, nel solare e nell'eolico, divennero diletti per hobbisti solitari.Quanti investimenti e ci ha fatto perdere lo sfuttamento degli idrocarburi? Quanto gas serra avremmo potuto risparmiare al nostro clima?
Ma c'è un'altra ragione ancora più importante da considerare. Già in passato nel nostro paese è stato commesso un grave errore di strategia industriale. Quando, tramite gli investimenti della Cassa per il Mezzogiorno, si occuparono tanti siti costieri del nostro Sud, da Brindisi fino a Priolo, venne adottata una politica non dissimile da quella dell'ENI in Basilicata. Grandi strutture industriali calate dall'alto, che non generarono nuove economie, non stimolarono una ulteriore crescita del territorio, perché estranee ad esso, alla sua storia, alle sue vocazioni, ai saperi delle genti che lo abitano. Anche allora territori di altissima qualità (mica i deserti dell'Arabia Saudita) furono letteralmente “svenduti” all'industria, in gran parte pubblica. Si trattava e si tratta di industrie che potremmo definire nature intensive, che consumano risorse naturali (immense quantità d'acqua) inquinando suoli, strati aerei, fondali marini. Ma almeno allora, nell'errore, quegli interventi erano interni a un progetto generale di sviluppo del nostro Mezzogiorno. Si pensava di generare posti di lavoro investendo in attività industriali che peraltro non si esaurivano nell'insediamento dei petrolchimici. Ma oggi? Dobbiamo continuare a difendere attività residuali? Dobbiamo conservare i pochi posti di lavoro gentilmente concessi dalla Total e da Shell, senza badare alla nostra industria turistica, alla vita dei nostri mari, al riscaldamento climatico che incombe, alimentato in misura così rilevante dal consumo di petrolio?
nel nostro Paese. Un conflitto per così dire fondativo ha contrapposto il lavoro alla natura... (continua la lettura)
Neppure miglior fortuna ha avuto il mondo naturale nel pensiero rivoluzionario italiano.Nel nostro teorico più grande, Gramsci, non c'è posto per le sorti della natura. Anche in lui il processo storico è pensato secondo la curvatura dello sviluppo industriale, leva dell'umana emancipazione. In uno dei suoi Quaderni più anticipatori, Americanismo e fordismo, di fronte all'organizzazione tayloristica del lavoro Gramsci ha uno sguardo di sconcertante provvidenzialità teleologica. «La storia dell'industrialismo - scrive - è sempre stata ( e lo diventa oggi in una forma più accentuata e rigorosa) una continua lotta contro l'elemento “animalità” dell'uomo, un progresso ininterrotto, spesso doloroso e sanguinoso, di soggiogamento degli istinti ( naturali, cioé animaleschi e primitivi ) a sempre nuove, più complesse e rigide norme e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione che rendano possibili le forme sempre più complesse di vita collettiva che sono la conseguenza necessaria dello sviluppo dell'industrialismo».
D'altra parte l'Italia, Penisola di antichissima antropizzazione non ha una tradizione culturale favorevole allo sviluppo di una narrazione naturistica dell'umana vicenda. Dominata da mille città, che hanno assoggettato per millenni i loro contadi, non poteva certo generare élites sensibili ai problemi degli equilibri degli habitat, se non per fini di sfruttamento economico. Come è accaduto con le bonifiche. L'avvento delle società industriali - la fase storica a partire dalla quale è legittimo e non anacronistico aspettarsi sensibilità ambientale - non produce in Italia le reazioni protoambientalistiche che si verificano ad es. negli USA. Qui nell' 800 sterminati lembi di wilderness, di natura incontaminata apparvero minacciati dallo sviluppo industriale. In Germania i piccoli villaggi circondati da boschi – modello prevalente degli insediamenti umani in quel paese– furono sconvolti in pochi decenni alla fine dell' 800, generando una vasta opposizione destinata a grande influenza sul pensiero politico ed ecologico tedesco. E non meno cura per il mondo naturale creò, per contrasto, la rivoluzione industriale nelle élites inglesi, a partire da quel secolo. Niente di tutto questo in Italia, che arriva tardi all'industrializzazione Uno sviluppo concentrato peraltro, nel Triangolo Milano-Torino-Genova, in gran parte manifatturiero e perciò di limitato impatto ambientale. Si comprende allora come sia potuto accadere che nel corso del '900 è sorto accanto al fragile gioiello di Venezia, il Petrolchimico di Porto Marghera; in uno dei siti più incantevoli del Belpaese , a Bagnoli, l'Italsider, e poi l'Ilva nei due mari di Taranto, i vari stabilimenti petrolchimici a Brindisi, Gela, Priolo, ecc. cioé in località marittime con habitat delicati e ad alta vocazione turistica. E non stupisce, peraltro, che in un paese afflitto da disoccupazione endemica, le posizioni ambientaliste siano state minoritarie nel PCI e nel sindacato.
Solo dopo Cernobyl, non solo il ceto politico, ma anche gli italiani scoprono la fragilità della natura in quanto minacciata dall'inquinamento. E solo negli ultimi decenni, l'ambientalismo è diventato di massa (con le lotte contro gli inceneritori, le discariche, le centrali a carbone, ecc) allorché le popolazioni hanno scoperto, tramite i danni prodotti dall'inquinamento alla salute, quella natura insuperabile che è in ognuno di noi. La natura è stata scoperta nel corpo vulnerabile degli uomini. E' stata la malattia a mandare gambe all'aria il vecchio storicismo antropocentirico. Grandi masse di cittadini hanno scoperto che la storia ha cambiato il suo corso e la crescita economica non genera di per sé benessere e progresso. Il nuovo ambientalismo italiano oggi parla un linguaggio che non è più “sviluppista”, scopre il valore storico dei territori, della natura antropizzata e trasformata in paesaggio e bellezza, e il ceto politico stenta a comprenderlo.
Occorrerà conservare in una cineteca speciale, in un archivio dell'orrore, i filmati che i nostri telegiornali fanno entrare tutti i giorni nelle nostre case: le immagini delle barriere ...(continua la lettura)
Occorrerà conservare in una una cineteca speciale, in un archivio dell'orrore, i filmati che i nostri telegiornali fanno entrare tutti i giorni nelle nostre case: le immagini delle barriere e dei fili spinati, i fotogrammi di una guerra inimmaginabile fino a poco tempo fa e forse unica nella nostra storia. Quella che varie polizie delle vecchie frontiere d'Europa combattono contro donne, bambini, anziani, giovani, scampati alle guerre innescate dall'Occidente nelle periferie del mondo. Occorrerà conservare questi documenti di ottusa e primitiva malvagità alle generazioni che verranno perché - se i Paesi del Vecchio Continente non saranno definitivamente inghiottiti dalla barbarie - possano osservare, in tempi meno oscuri dei nostri, di che cosa sono stati capaci i loro padri e nonni.
Ma forse occorre uscire dall' immagine indefinita che assegna a popolazioni indistinte il marchio di una così ottusa e ostinata ferocia.La notte in cui tutte le vacche sono nere non ha mai fatto comprendere niente a nessuno. Se guardiamo ad alcuni paesi dell'Europa occidentale, come la Francia, l'indistinto di una umanità genericamente ostile e senza misericordia si scioglie. Il grande paese che ha fondato la modernità della politica, innalzando il vessillo della libertà, dell'uguaglianza, della fraternità, il paese governato dai socialisti del presidente Hollande, muove oggi a Calais una sua abietta guerra contro una massa di disperati, a cui toglie perfino le misere baracche e le tende in cui era da mesi accampata. Com'è possibile, come si sia arrivati fin qui? Questa domanda non ci pone solo davanti a un generico arretramento di civiltà che oggi colpisce indistintamente “l'Europa”. Essa ci squaderna un fenomeno politico di prima grandezza che già la vicenda greca dello scorso anno ci aveva illustrato con desolante chiarezza. I vecchi partiti socialisti e socialdemocratici europei, quello tedesco come quello britannico, sono stati intimamente ripuliti di ogni contenuto ideale e di valore. Le loro dirigenze hanno gettato via come vecchio tutto l'antico bagaglio di solidarietà che ha segnato la loro storia e sono diventati moderni, come vuole il capitalismo attuale e la sua razionalità neoliberista. E' una perdita gigantesca alla quale addebitare non poco dell' arretramento del processo di unificazione dell'Europa.
Ma non ci si può fermare alla recriminazione e allo sdegno. Occorre capire con freddezza e lucidità che cosa è accaduto e accade, tentare delle contromisure. Che cosa vuol dire per i partiti politici diventare moderni, come vuole il linguaggio pubblicitario corrente ? Moderni vuol dire essere competitivi nel mercato politico, attenti al mutare degli umori della “gente”, vale a dire i cittadini ormai interamente assimilati agli elettori quali meri consumatori di messaggi. Moderni significa cercare di vincere, contro gli avversari competitori, il campionato pluriennale delle elezioni politiche e amministrative. Per questa via una democrazia interpretata come passiva adesione agli umori del momento, diventa una sua perversione perniciosa. E' una novità storica rilevantissima. Un tempo i socialisti francesi – come gli altri partiti popolari- avrebbero combattuto a muso duro contro le posizioni xenofobe dei loro avversari, non solo senza cedimenti di fatto alle loro pretese, ma mettendo in atto quella pedagogia di massa che i grandi partiti popolari e di sinistra hanno esercitato per oltre un secolo. I partiti non ancora trasformati in ristretti club dominati dal ceto politico, avrebbero combattuto contro le destre xenofobe rassicurando le popolazioni, disinnescando i meccanismi della paura, mostrando perfino l'utilità economica di un ingresso rilevante di popolazione giovane nei loro vasti territori. La Francia è uno dei paesi a più bassa densità demografica d'Europa. Ma i partiti non sono più portatori e divulgatori di conoscenze dei reali fenomeni sociali e quindi non sono più guide, ispiratori di orientamento, elaboratori di orizzonti più avanzati di civiltà. Essi corrono dietro agli imprenditori della paura, cercano di non farsi battere nella competizione messa in atto dai partiti della destra, cedendo alla loro visione generale non solo perché non hanno più alcuna visione, ma perché è mutato il fine del loro stesso agire.Questo fine – ciò è ormai chiaro sino all'ovvietà – è la loro affermazione, il loro successo e la loro sopravvivenza e riproduzione di ceto.
Come può dunque, una sinistra che non vuole arrendersi a questa disfatta storica, porre in atto forme di resistenza, allestire contromisure? Immenso problema, come sappiamo.Ma qualche strada da percorrere è già stata esplorata e occorrerebbe percorrerla con più determinazione. Oggi appare velleitario e ingenuo richiamare i vecchi partiti ai grandi valori del loro passato. La morale non si insuffla con le esortazioni e con le prediche. Ma dove vien meno la sostanza morale, il diritto è capace, se non di surrogarla, di porre qualche argine. E quel che il diritto può fare è impedire (o limitare fortemente) che la militanza politica diventi una carriera. Non potremo mai, almeno in un prevedibile futuro, imporre a chi opera sulla scena politica di rappresentare e promuovere esclusivamente l'interesse generale, se non faremo in modo che egli sia, per legge, impossibilitato a costruire sulla politica le proprie personali fortune. Occorre limitare drasticamente la durata delle cariche pubbliche, separare queste ultime da quelle di partito, sottoporre a trasparente monitoraggio il bilancio dei rappresentanti e quello della formazione politica a cui appartengono. E cosi via. Non c'è altro modo, per sottrarre il ceto politico alla tentazione di cedere alla vie più facili per ottenere consenso e quindi di inseguire i populismi. E costituisce una strada importante per sottrarlo alle sirene del potere economico e finanziario. Occorre spezzare alla radice questo legame, che alla fine condanna la politica all'impotenza. Chi fa politica deve rispondere alle domande dei cittadini e ridiventare cittadino dopo pochi anni di impegno pubblico.
In Italia la sinistra ha compiuto su tale terreno uno sforzo di elaborazione importante negli ultimi mesi, grazie all'iniziativa di Luigi Ferrajoli e della Fondazione Basso. Occorrerebbe che queste elaborazioni trovassero una più ampia circolazione e visibilità, perché diventino un patrimonio comune, un marchio di innovazione reale del nostro schieramento.
(continua la lettura)
Ci sono analisi settoriali che svelano molte più cose di profondità sistemica che non tante indagini di portata programmaticamente generale. E' questo il caso del libro di Walter Tocci, La scuola, le api e le formiche. Come salvare l'educazione dalle ossessioni normative, Donzelli 2015, che è' molto più di una tagliente analisi della scuola italiana nel nostro tempo. Senza forzare molto le cose si potrebbe dire che è una diagnosi della società italiana e al tempo stesso una spiegazione etiologica del suo conclamato declino attraverso le politiche della formazione. L'autore, infatti, prende in esame i tentativi di riforma degli ultimi anni, i suoi impatti sulla scuola, ma ha il grande merito di non rimanere dentro questo recinto, di scorgere le origini dei problemi in dinamiche più generali, sotto il cui influsso l'Italia indietreggia a grandi passi, chiudendosi in un processo di autoemarginazione di cui non si vede la fine.
Da ciò discende l'emarginazione sempre più dispiegata della cultura umanistica, poco utile ai bisogni economici del momento, l'insistenza ossessiva sulla valutazione e sui suoi criteri, piegati a logiche sempre più attente ai risultati quantitativi immediati, piuttosto che al processo evolutivo dei ragazzi. Il fine della scuola è sempre meno quello di formare spiritualmente e civilmente i cittadini italiani, di dotarli di un patrimonio cognitivo e culturale per la futura navigazione in una società complessa, ma di renderli più pronti alle esigenze del mercato del lavoro. Questo spiega l'ossessione normativa con cui i governi sono intervenuti negli ultimi decenni in tale ambito, senza alcuna ambizione di innalzare la qualità dei processi formativi, di innovare i metodi e i modi dell'insegnamento, di attingere alle novità dei saperi contemporanei, oggi impegnati in uno straordinario sforzo di cooperazione interdisciplinare. Una tendenza a cui si è accompagnata la nessuna cura per le sorti di chi “non eccelle”, dei ragazzi provenienti da famiglie modeste, che sempre più numerosi ripercorrono il destino sociale dei padri, entro un meccanismo di mobilità sociale bloccato, riproduttore di disuguaglianze sociali oltre che territoriali.
Indagini recenti - ricorda Tocci - mostrano che nel nostro paese poco meno di un terzo della popolazione attiva possiede le competenze necessarie per interagire consapevolmente nella società del XXI secolo. Da noi, tale incapacità, fondativa di una piena cittadinanza, riguarda il 70% dei cittadini tra i 16 e i 65 anni. Una cifra impressionante - che ci colloca agli ultimi posti, insieme alla Spagna, nelle statistiche OCSE - composta da dati articolati in altre cifre edificanti: il 6% di analfabeti primari; il 22 % di analfabeti di ritorno (quelli che perdono negli anni le poche competenze apprese a scuola); il 42% di analfabeti funzionali, di coloro, cioè che pur essendo in grado di leggere un testo non riescono a padroneggiarne il significato.
Un quadro allarmante che avrebbe dovuto essere posto al centro della riflessione delle classi dirigenti italiane, quale fuoco strategico decisivo su cui intervenire per invertire il corso accelerato del declino nazionale. E che invece non trova attenzione se non per qualche giorno sui nostri media, figuriamoci nell'agenda politica di governo. Tocci racconta che nel 2014, quando i giornali pubblicarono i risultati dell'indagine Piaac-Ocse, di fronte all'enormità dei dati, il governo Letta decise di nominare una commissione, presieduta da Tullio De Mauro, per studiare i rimedi. Giusto un gesto di buona volontà. Inutile rammentare che il governo Renzi, l'ha messa da parte, realizzando il progetto risolutivo a tutti noto come “Buona scuola”: sigillo definitivo di questo esecutivo sulla propria radicale inadeguatezza ad affrontare i problemi fondamentali del Paese.
Significativamente poche voci critiche si son levate dal mondo imprenditoriale e professionale, dal giornalismo, dai gruppi intellettuali, e non per caso. I livelli di istruzione delle nostre classi dirigenti sono fra i più bassi d'Europa: il 31% di laureati contro la maggioranza assoluta in Germania, Regno Unito e Francia, accompagnati da un sontuoso 26% di individui col solo titolo elementare. A fronte di dati a una sola cifra negli altri paesi.
Tali numeri sono decisivi per comprendere come si configura il sistema-Italia e il carattere perverso del suo avvitarsi verso il basso. Tocci lo mostra con nitore espositivo e argomentazioni inoppugnabili. Una classe imprenditoriale fra le più incolte del Continente investe in ricerca meno di quanto faccia lo stato - caso unico in Europa - che già di suo investe meno di tutti gli altri. Il sistema produttivo avanza una domanda modesta di innovazione tecnologica e si accontenta di una percentuale annuale di laureati che è la metà di quella europea. Sicché non stupisce come nel nostro Paese sia stato politicamente così agevole, ai vari governi, praticare i tagli lineari alla scuola e all'Università degli ultimi anni. Così come non stupisce lo spreco delle competenze e dei saperi dei nostri laureati e ricercatori, della nostra gioventù studiosa di cui l'intero sistema paese, fondato sullo sfruttamento intensivo della forza lavoro, non sa che fare. Come non vedere allora che scuola e Università sono le leve strategiche per invertire la china e che solo un grande progetto politico può metterle in moto?
Nata per scongiurare i nazionalismi che avevano devastato il Vecchio Continente e il mondo nella prima metà del '900, l'UE ritorna... (continua a leggere)
Alla base dell'egoismo nazionalistico tedesco, ben orchestrata dai media, opera infatti una narrazione ideologica potente: la leggenda che la Germania, seria e laboriosa, stia a svenarsi per sostenere una vasta platea di popoli debosciati. Sappiamo che l'opinione pubblica tedesca è una delle più colte, se non la più colta, d'Europa. Ma nella patria di Lutero il messaggio di una nazione del Nord, laboriosa e risparmiatrice, che si contrappone ai popoli del Sud, oziosi e dissipatori ha una capacità di presa difficilmente resistibile. Tanto più che in soccorso di tale convinzione viene una serie di stereotipi lunga diversi decenni, una Grande Retorica, che divide il Nord ed il Sud in due sfere separate dello spirito umano. E a rendere materia di senso comune tale divisione contribuisce anche il linguaggio popolare, che separa i popoli in cicale e formiche. Antica metafora del regno animale nobilitata dalla letteratura del mondo classico. Chi non conosce la favola di Esopo, tradotta da Fedro nel suo elegante e musicale latino? Olim cicada in frondosa silva canebat / laboriosa formica autem assidue laborabat. Non è necessario tradurre.
Ora, questa favola, comprensibile in un'epoca che doveva ancora costruire la sua etica del lavoro, si fonda su una serie interessante di errate conoscenze. E soprattutto condensa oggi la metafora di un capitalismo che ha smarrito ogni senso e progetto e corre verso la propria autodistruzione. Già a suo tempo Gianni Rodari, poeta di genio, non aveva ceduto all'autorità degli antichi: «Chiedo scusa alla favola antica/se non mi piace l'avara formica./Io sto dalla parte della cicala/che il più bel canto non vende, regala». Ma oggi noi possiamo aggiungere che la favola non è più proponibile innanzi tutto sul piano biologico. Le operose formiche, e soprattutto le operaie e i maschi fecondatori, vivono pochi mesi. Le cicale hanno un ciclo più complesso e possono vivere 4-5 anni, nel terreno, allo stato di larve, prima di mettere le ali. La cicala nord americana – ci informano gli entomologi - può superare i 15 anni di vita. Anni passati sugli alberi, non a raccattare cibo da accumulare nelle tane come accade alle formiche. I maschi e le operaie, i lavoratori alla base della piramide del formicaio, non godono gran che dei beni accumulati durante i lavori dell'estate. Proprio come tanti operai poveri delle società avanzate di oggi. Tanto lavoro, poco reddito. D'inverno, in genere, muoiono.
Occorre aggiungere che le formiche, impegnate tutto il tempo della loro breve esistenza in lavori faticosissimi, sono inquadrate in una società gerarchica e castale, una caserma piena di soldati, sempre alla ricerca di beni e di prede, una monarchia assoluta in cui comanda una dispotica regina. Le cicale, all'ombra di ulivi o di pini – i loro alberi preferiti - riempiono del loro incanto il cielo dell'estate, per il puro piacere del cantare, senza alcuna finalità utilitaria. Offrono gratuitamente, a tutti gli altri viventi e perfino agli uomini, il dono della loro musica che nasce da luoghi invisibili, fanno sentire anche noi partecipi, se sappiamo ascoltare, della misteriosa ventura che è la vita sulla Terra.
Perché dovremmo preferire la formica alla cicala? Il senso della favola antica va rovesciato. Il male non tanto oscuro del capitalismo dei nostri anni è che esso vuole imporre a tutte le società il modello sociale del formicaio, quando abbiamo risorse per vivere, tutti, da cicale. Il modello di vita più avanzato, carico di futuro, è quello di questo insetto cantore, che lavora sempre meno, è libero di esercitare i suoi talenti creativi, non è divorato dalla febbre usuraia dell'accumulazione e del risparmio. Queste virtù del capitalismo delle origini, così ben interpretate dall'ordoliberismo tedesco, sono adatte per una società che guarda al passato, ancora prigioniera di paure di un mondo di scarsità che non c'è più, che non ha più nulla di affascinante da proporre alle generazioni venture.
Un clamoroso paradosso segna la nostra epoca. Forse mai, come oggi, a una conoscenza così profonda delle contraddizioni insostenibili, a una consapevolezza universale delle ingiustizie che lacerano il mondo... (continua a leggere)
Un clamoroso paradosso segna la nostra epoca. Forse mai, come oggi, a una conoscenza così profonda delle contraddizioni insostenibili, a una consapevolezza universale delle ingiustizie che lacerano il mondo, era corrisposta una così perdurante impotenza da parte delle grandi masse popolari e delle forze antagoniste che vogliono combatterle. Le analisi e le sistemazioni storico- teoriche del capitalismo contemporaneo hanno raggiunto negli ultimi anni una vastità e intensità forse sconosciuta perfino nei momenti politici più effervescenti del '900. Marx è ritornato ad essere un nostro contemporaneo. E una ricchissima costellazione di analisti - da Bauman ad Harvey, da Piketty al nostro Gallino, per citarne pochissimi - ci consegna una radiografia dei meccanismi profondi della società capitalistica di rara ricchezza e densità.
Appare oggi dunque evidente quale sia, in Italia e nel mondo, l'imperativo della nostra epoca: rimettere in piedi le forme organizzate del conflitto. Il capitale possiede i generali e vari altri gradi di comando, perfino dei caporali (spesso molto loquaci), ma noi possediamo l'esercito, siamo l'esercito potenziale. Questa gigantesca sperequazione è alla base delle disuguaglianze crescenti tra le classi e tra i popoli, della sofferenza di milioni di persone, dell'usura progressiva degli spazi della democrazia, dell'ingovernabilità del sistema, del disordine politico mondiale.
Che cosa si aspetta dunque a fare di questa assenza gigantesca, di questa dispersione frammentata della nostra potenza, l'oggetto fondamentale delle nostre cure, il centro su cui far convergere il nostro pensiero, il nostro impegno immaginativo? Costruire una nuova forza capace di organizzare il conflitto sociale, che non somigli ai vecchi partiti, che ne erediti le esperienze migliori ma che sappia attivare meccanismi di trasparenza, democrazia e partecipazione sconosciuti al passato e all'oggi: ecco la sfida che abbiamo di fronte.
Rompendo una inerzia non più tollerabile, Nichi Vendola e Sel hanno avviato in questi giorni una iniziativa lodevole e necessaria. E' auspicale che essa venga condotta nelle forme più aperte, trasparenti, inclusive che l'attuale cultura politica della sinistra radicale pretende. Ma nel popolo frammentato dei movimenti, tra i dispersi, nel generoso e disilluso popolo della sinistra, deve scattare oggi il senso della realtà che l'epoca richiede. Non solo ognuno deve fare la propria parte.Ma ognuno deve saper rinunciare a parte delle proprie ambizioni, anche intellettuali, in cambio di una unità organizzata che fa la forza di tutti. Il più temibile nemico da battere è oggi la nostra divisione, e senza una forza plurale ma unitaria nessuna idea ha gambe per camminare. Si dice che abbiamo bisogno di un nuovo soggetto politico.Ma per realizzarlo avremmo bisogno di una nuova soggettività politica, la consapevolezza che il nostro ombroso e intransigente individualismo è spesso il calco vittorioso della cultura avversaria.
La pochezza e pericolosità della legge sulla cosiddetta “buona scuola” messa in evidenza da commentatori di ogni tendenza...(continua a leggere)
La pochezza e pericolosità della legge sulla cosiddetta “buona scuola” messa in evidenza da commentatori di ogni tendenza (da ultimo l'ottimo intervento di L. Illetterati su il manifesto del 28/5) ci dovrebbe tuttavia spingere a tentare di delineare i tratti di una scuola all'altezza del nostro tempo. Al di là della necessità di remunerare gli insegnanti italiani con un reddito dignitoso – la più vera e urgente riforma – occorrerebbe avviare una riflessione di prospettiva. La scuola è un asse fondamentale per la trasformazione radicale del capitalismo e costituisce un terreno su cui la sinistra ha potenzialità egemoniche.
E' evidente infatti che su tale terreno le classi dirigenti europee non vanno oltre un basso orizzonte economicistico. Tutti gli interventi riformatori che si sono succeduti in Italia e in Europa su scuola e Università, a partire dal cosiddetto “processo di Bologna” (1999) sino alla “buona scuola” dell'attuale governo - ovviamente con differenti ambizioni - hanno un elemento in comune: quello di ricercare una maggiore efficienza funzionale degli istituti della formazione. Modificazioni e aggiustamenti che non hanno mai riguardato la qualità degli insegnamenti e il modo di impartirli, l'estensione e l'innalzamento dei processi di conoscenza e di formazione, ma i meccanismi “produttivi” delle stesse istituzioni (quantità di laureati e diplomati, tempo e risorse impiegati, assunzione di personale, ecc.).
Significativamente, non pochi, maldestri e ignari, si spingono ad accusare la scuola quale responsabile della disoccupazione giovanile. Ed è questa pressione, che si esercita sul mondo della formazione, a determinare l'ossessione dilagante per la valutazione ed il merito. Quel che preme al legislatore è incrementare e misurare la prestazione dei soggetti che operano nell'istituzione come in qualunque impresa che deve competere. Da qui discende l'intero edificio normativo e burocratico, che cresce su se stesso e che soffoca oggi scuola e università, distratte dai loro compiti formativi e chiamate continuamente a valutare e a valutarsi, a mimare imprese che devono produrre beni e servizi.
Ma è questa la scuola di cui abbiamo bisogno? L'innovazione nei contenuti degli insegnamenti si può davvero esaurire nell'aggiunta di qualche disciplina ( «Arte, Musica, Diritto, Economia, Discipline motorie») e, come recita ancora il testo del Ddl governativo, nel guardare «al futuro attraverso lo sviluppo delle competenze digitali degli studenti»? La modestia di queste amene genericità partorite dalle burocrazie ministeriali rivela tutta l'angustia culturale in cui è imprigionata la pedagogia neoliberista del nostro tempo. E , per la verità, non solo essa. In realtà, oggi, sul piano dei contenuti e delle discipline la scuola potrebbe costituire uno straordinario laboratorio di riforma scientifica, culturale e morale. Un luogo in cui si formano giovani in grado di pensare in forme nuove la realtà della natura, all'altezza delle sfide gigantesche che dobbiamo fronteggiare.
C'è un altro aspetto di carattere disciplinare e contenutistico che rimane clamorosamente assente dalle indicazioni dei riformatori che intervengono sulla scuola. Non mi riferisco soltanto all'assenza di idee su come valorizzare gli insegnamenti della nostra grande tradizione umanistica, base di formazione ed emancipazione spirituale degli individui, di educazione al pensiero, alla bellezza e alla poesia, e non semplicemente competenza professionale da utilizzare nel lavoro. Anche in questo caso è la storia contemporanea recente a suggerire la direzione necessaria. Il 900 ci consegna un'altra grande frattura. A dispetto del perdurante dominio economico e militare dell'Occidente, è evidente che la visione eurocentrica della storia del mondo oggi appare disarticolata dall'irrompere di nuove forze.
Lo hanno scritto e affermato in molti. Queste elezioni regionali consegnano una certezza non camuffabile: Matteo Renzi è stato seccamente... (continua a leggere)
Per afferrare la portata strategica di questa sconfitta occorre brevemente rammentare le mosse vincenti compiute da Matteo Renzi. E' evidente che un passaggio decisivo, il primo, più clamoroso, è stata l'alleanza diretta con Berlusconi. Il patto del Nazareno. Più spregiudicato di Letta, che si era fermato ad Alfano, Renzi ( ah, questi cattolici intemerati!) ha scelto direttamente di portarsi in casa l'Orco, di stringere un patto con l' Impresentabile. Il Berlusconi di allora era una perfetta anatra zoppa, ancora con tanto potere, ma privo di agibilità politica, come si diceva. Un avversario ideale per Renzi, che poteva persuaderlo facilmente del vantaggio reciproco delle sue mosse, tanto più che si trattava di scelte graditissime al capo del centro-destra. L'iniziativa, urticante per tanti dirigenti del PD, per la sua base e per i suoi elettori, è stata abilmente giustificata dalla necessità di coinvolgere anche l'avversario per riforme di portata costituzionale.
Ma il conflitto con la sinistra interna e soprattutto le scelte del governo hanno toccato radici profonde del consenso su cui si è retto sinora il PD. E occorre rammentare. Per ragioni di inerzia culturale, e per vari altri fattori, il PD, agli occhi di tanti italiani, è apparso come l'erede storico del vecchio PCI. Se anche per un intellettuale radicale come Mario Tronti, il Pd è ancora IL PARTITO, figuriamoci quanto tale identificazione abbia operato nella mente di semplici militanti ed elettori. E per questa larghissima fascia del popolo della sinistra – che in Italia è vivo e vegeto nonostante gli scongiuri degli avversari – Il Jobs act ha significato la licenziabilità e la ricattabilità dei dipendenti da parte del padrone. Mentre la Buona scuola e il preside-manager sono apparsi un cuneo lacerante dentro la comunità scolastica, un diversivo autoritario per non affrontare il problema centrale: la remunerazione secondo standard europei dei nostri insegnanti.
Dunque, queste scelte di destra sono state punite dagli elettori di sinistra, ma non premiate dagli elettori di destra. Perché, visto che il centro-destra è ancora più diviso del fronte avversario? Credo che una risposta sia da cercare nel fatto che pressoché nulla è cambiato nella condizione della grande maggioranza degli italiani. La pressione fiscale si mantiene elevata, sia al centro che in periferia, ed è anzi in crescita, la disoccupazione non da segni di cedimento, salari e stipendi sono fermi, aumenta senza sosta il part-time. Nessuno di questi dati è stato scalfito dall'azione di governo, e Renzi va in giro spandendo sorrisi di letizia per la ripresa in atto. Ma tale forma di comunicazione è altamente controproducente: mostra agli italiani solo la sua strabiliante capacità di mentire. Non è tutto. Le forze di centro-destra, ma anche il movimento 5S, conducono una politica aggressiva nei confronti dell'UE, ormai responsabile sempre più decisiva delle nostre disastrose condizioni. Ma Renzi, dopo i motteggi orgogliosi su “ l'Europa cambia verso”, dopo un semestre europeo senza sussulti, ha mostrato il suo perfetto allineamento ai voleri di Bruxelles, il solito perbenismo europeista di chi fa i compiti a casa. Con un ministro dell'Economia, Padoan, che sembra davvero credere nello screditato catechismo dei padroni dell'UE. E questo ormai gli italiani non lo perdonano più a nessuno.
Dunque, il progetto di Renzi è crollato. E ciò non è avvenuto per imperizia. Se si è onesti occorre riconoscere che l'uomo è senza storia e senza cultura, privo perciò di visione. E' solo tatticamente bravo: non basta per un grande paese nelle nostre condizioni. Con queste elezioni la destra italiana ha annusato il sangue e sa che può tornare a vincere, anche incrementando, come fa Salvini, la guerra tra poveri, visto che la riduzione del welfare e la disoccupazione l'alimentano. E ha sperimentato, anche con Toti, quanto sia conveniente opporsi a Renzi invece di collaborare. Questa stampella dunque verrà meno. A sinistra per il momento non c' è gran che, mentre resta in piedi la forza oppositiva dei 5S. Un movimento, com' è stato osservato, che ha mostrato la rapida maturazione di un gruppo dirigente giovane, radicato nelle realtà locali, malgrado l'estremismo infantile di Grillo e Casaleggio. Il bipolarismo che doveva mettere ai margini le “frange estreme” è a pezzi. Il partito della nazione resta un sogno di regime da riporre nel cassetto.
Che i grandi flussi migratori costituiscano fenomeni inarrestabili, destinati a cambiare il volto dei paesi, dovrebbe esser noto in Italia, terra d’emigrazione e di antica sapienza storica. A poco valgono le barriere, gli strepiti, le paure di fronte a processi demografici e sociali incontenibili. Essi avanzano a dispetto di tutto, procedono anche molecolarmente e cambiano la storia del mondo, che lo vogliano o no i contemporanei.
Perciò una istituzione come i Centri d’Identificazione ed Espulsione – nati dalla fantasia miserabile del centro-destra — ha sintetizzato tutta la miopia e l’inettitudine delle nostre classi dirigenti di fronte a un fenomeno che non sono in grado di fronteggiare, ma neppure di comprendere. Miopia e inettitudine paradossali, per un paese in declino demografico, malamente invecchiato, che respinge l’energia vitale di una gioventù affamata di lavoro, di stabilità e di sicurezza di vita. Eppure, non mancano gli esempi recenti che potrebbero insegnare qualcosa ai governanti italiani e anche a quelli europei.
I quali, come s’è visto di recente, di fronte alle ecatombi nel Mediterraneo, condensano la loro alta progettualità nell’idea di affondare i barconi dei disperati. Qui gli algoritmi degli strateghi della finanza precipitano nel ridicolo. Negli anni ’90 gli USA hanno conosciuto una ondata di immigrazione fra le più vaste e intense della loro storia.
Quell’immissione demografica, proveniente dal Sud e Centro America, ha costituito, fino all’ 11 settembre, una delle leve della straordinaria espansione economica del decennio. Nuova popolazione, dunque nuovi bisogni di case, servizi, cibo e beni, e tanta disponibilità di forza lavoro a basso costo. E ancora oggi è l’immigrazione che tiene in piedi la base alimentare di quel paese. In California, la “campagna” degli USA, quasi nessuna raccolta di frutta e ortaggi sarebbe possibile senza il lavoro dei latinos, in grado di reggere un durissimo lavoro a temperature insopportabili per la popolazione americana. Non è un modello da imitare, ma è la realtà. Ma anche a casa nostra, lo ricordano giustamente Tonino Perna e Alfonso Gianni nel loro articolo, gli immigrati svolgono già una funzione economica decisiva nelle nostre campagne, ancorché in condizioni spesso inaccettabili. Si fa poco sapere agli italiani, ad es., che gran parte del settore zootecnico del Nord Italia è stato tenuto in vita dal lavoro oscuro e silenzioso degli immigrati dall’India.
Ma quanto propongono Perna e Gianni può diventare in effetti un grande progetto. Costituisce una strada non solo utile e percorribile, ma obbligata per un insieme di ragioni. Intanto perché riportare alla nostra terra migliaia di giovani africani o di altri altri stati che l’hanno dovuta abbandonare nel loro paese, per miseria o per guerra, significa dare una prospettiva a una parte importante della popolazione migrante. Al tempo stesso, l’ingresso di tanti giovani che hanno esperienza e vocazione per il lavoro agricolo potrebbe rimettere in vita territori vastissimi non solo del nostro Sud, ma anche delle colline preappeniche di tutta la Penisola, oggi in abbandono o in via di spopolamento. Infine, porre il fenomeno dell’immigrazione al centro di un vasto progetto di inserimento sociale, farne una leva di progresso economico e ambientale di tutto il paese, rafforzerebbe enormemente il discorso di pura difesa umanitaria degli immigrati che oggi fa la sinistra e le forze democratiche. Qui sta un nodo di elaborazione politica di assoluto rilievo, che può disinnescare la miscela populistica e xenofoba della destra italiana.
Com’ è ovvio, il processo di inserimento dei nuovi arrivati nelle nostre campagne non può essere affidato alla spontaneità. Questi miracoli del cosi detto libero mercato avvengono solo nella testa degli economisti neoliberisti. Occorre che la mano pubblica faccia la sua parte, sia a livello centrale, con apposite leggi, sia in periferia, tramite le amministrazioni comunali. La base di partenza è la disponibilità della terra. Esistono immense estensioni di territori abbandonati, ricordano Perna e Gianni. Ma molti di questi, specie se collocati non lontano dal mare, sono in attesa di edificazione, perché la speranza di arricchirsi con la rendita non muore mai. E dunque occorre stabilire per legge l’impossibilità netta e invalicabile di cambiare destinazione d’uso alle terre agricole. Tanto più che si tratta quasi sempre di terre collinari, che assolvono un compito di equilibrio ambientale e idrogeologico decisivo per la sicurezza di territori e abitati. Ma i comuni dovrebbero fare la loro parte, impegnandosi a inventariare le loro terre e quelle demaniali disponibili.
In queste aree, che rappresentano certamente l’osso della nostra agricoltura, è possibile sviluppare economie niente affatto marginali. Nelle migliori terre di collina potrebbe fiorire e in parte rifiorire la frutticoltura di qualità, in grado di valorizzare la biodiversità agricola ineguagliabile di cui ancora disponiamo. Oggi esiste solo a livello amatoriale, si dovrebbe innalzare a una scala accettabile di produzione e immettere nel mercato. Ma accanto all’agricoltura si potrebbe sviluppare un ambito gravemente sottovalutato: quello della silvicultura.
E’ poco noto che nel Mezzogiorno l’intervento della Cassa, che ha riforestato larga parte delle nostre montagne e colline - limitando le alluvioni che periodicamente funestavano paesi a abitati - ha avuto un indirizzo molto specifico: si è limitato alla protezione del suolo dai fenomeni di erosione. Oggi noi abbiamo km quadrati di boscaglia e di macchia e siamo costretti a importare dall’Europa il legname da opera: noci, ciliegi, castagni, oltre a quello dei paesi tropicali. Si apre dunque uno scenario di possibilità di nuova forestazione con alberi di pregio di straordinaria ampiezza, in grado di far rivivere tanti paesi e terre oggi abbandonati. Tanto più che alla selvicoltura si può accompagnare l’allevamento, soprattutto di animali da cortile, e l’uso delle acque interne, capaci di produrre reddito immediato.
Naturalmente, a valle, si presenta il problema della commercializzazione dei prodotti. E’ questo l’altro grande nodo su cui intervenire. Lasciare i produttori in balia della grande distribuzione significa strozzare i loro redditi e condannarli all’abbandono dell’impresa. E qui occorre imparare dall’esperienza della riforma agraria del 1950. Le imprese che allora ebbero successo e riuscirono a sopravvivere, furono quelle che ebbero una quota sufficiente di terra (almeno 5 Ha) e la casa. Ma che al tempo stesso godettero dell’assistenza tecnica degli Enti di riforma e la possibilità di accesso al mercato. La creazione di cooperative, come quelle previste dal Decreto Gullo per l’assegnazione delle terre incolte, del 1944, dovrebbe costituire una piattaforma importante dell’intero progetto, in grado di mettere insieme efficienza economica e relazioni solidali. Non è solo in gioco la possibilità di valorizzazione economica dei territori. Si gioca qui anche la scommessa di ricostruire, sulle nostre antiche terre, nuove comunità di vita