UNO CHE ha le gambe troppo lunghe, come il famoso Daddy Longlegs, ed è troppo alto, sta scomodo, e non di rado scomoda gli altri. Era senz’altro il caso di John Kenneth Galbraith, classe 1908, altezza 1,95, uno dei geni di quella che lui stesso aveva battezzato, in uno dei suoi tanti libri, l’età dell’incertezza; insomma, il nostro tempo, di cui è stato un testimone acutissimo.
Galbraith è morto l’altro ieri a Boston. Dall’essere così alto e con le gambe così lunghe derivava forse la sua tipica tendenza all’irrequietezza e alla provocazione. Non potendo passare inosservato, Galbraith fece di tutto perché ne valesse la pena. C’era forse anche, nella sua «diversità», la sua radice di doppio immigrato, di famiglia d’origine scozzese e di nascita canadese. Per tutta la vita non nascose la sua simpatia per gli immigrati. Anche da lì nasce quella che lui stesso chiamava «l’irrefrenabile tendenza a situarsi contro ogni élite compiaciuta di sé»: «mai allearsi con essa e mai perdere un’occasione legittima di contrariarla o, se possibile, di farla infuriare». Che cosa è l’establishment per Galbraith? Quello che era stato per uno cui per molti versi Galbraith assomigliava, un altro provocatore, un altro immigrato, un altro «contadino», Thornstein Veblen. Establishment: «i pomposi clichés dei quadri d’industria, la completa sicurezza di certi vaghi discorsi d’avventurismo militare, i più ammirati luoghi comuni di politica estera». E, naturalmente, l’ortodossia economica.
Questo complesso, questa sindrome conservatrice, Galbraith l’ha bollata con uno dei suoi ossimori più famosi: la saggezza convenzionale. Cercavo, ci raccontava, qualche cosa che rendesse «quel costante scambio di idee vuote e solenni che è così comune tra personaggi importanti e presuntuosi».
DEL RESTO, faceva parte della sua tecnica polemica l’uso di espressioni di irriguardosa deferenza. Quelle che mandano più in bestia la gente. Tra queste, per esempio, le parodie delle metafore melense della saggezza convenzionale: come quella, intramontabile, dell’azienda America (sorella maggiore della nostra azienda Italia), particolarmente cara al pensiero manageriale, perché intesa a instillare nei cervelli deboli l’equivalenza tra il business e la democrazia. Qualcuno aveva avuto l’idea di elaborarla in una specie di parabola agiografica: gli Stati Uniti come società per azioni, il Presidente come amministratore delegato, i cittadini come azionisti, il Congresso come consiglio di amministrazione, i Ministri come managers (solo gli operai restavano operai). Galbraith inviò l’articolo a Kennedy spiegandogli che il popolo americano aveva commesso l’errore imperdonabile di eleggere Presidente lui anziché suo padre, il grande affarista: forse non era troppo tardi per cambiare. Kennedy si divertì e girò la lettera all’autore della metafora, che non fu felice.
Questa sua aggressività, non è che non gli sia stata restituita. L’establishment, giustamente, lo ripagava della sua stessa moneta. L’epiteto più diffuso era quello di bastardo figlio di puttana. Una gran signora cui Galbraith fu presentato durante un ricevimento finse di non capire il suo nome, se lo fece ripetere, poi disse: «Deve essere imbarazzante per Lei andare in giro con quel nome. Somiglia a quello di quel gran figlio di puttana che lavora per Kennedy».
Come grande economista, titolo che merita appieno, ha ampiamente goduto dell’invidia dei suoi colleghi: per la sua notorietà i suoi libri, tradotti in tutto il mondo, sono venduti a centinaia di migliaia di copie e per il suo successo politico e mondano. La supponenza dell’establishment si manifestò sotto forma di «addebito divulgativo»: come se lo scrivere bene e chiaro e per un vasto pubblico sia un oltraggio per la scienza e una minaccia per le istituzioni. Divulgatore, quindi, e soprattutto del pensiero keynesiano in America. Ruolo che certamente egli svolse; ma che era lontano dall’esaurire il suo contributo alla scienza economica. Quel contributo è caratteristico della «distruzione creatrice», per usare l’espressione di Joseph Schumpeter, un altro grande eccentrico che egli incontrò ad Harvard: distruzione di miti venerandi, creazione di idee nuove.
Il mito della concorrenza perfetta, per esempio: miriadi di piccole imprese brulicanti nel formicaio operoso del libero mercato, ove l’interesse individuale di ognuno concorre al miglior risultato di tutti. Galbraith vedeva, invece, di fronte a sé un mondo di divisioni corazzate, di tecnostrutture, di prezzi monopolistici, di mercati «cattivi», intenti a sconvolgere permanentemente il formicaio o a pacificarlo ripartendolo in sfere di influenza. La risposta liberal tradizionale a quella deformazione del gioco era costituita in America dalle epiche battaglie dell’Antitrust, dirette a ripristinare le regole del gioco attraverso il disarmo dei colossi. Secondo Galbraith quelle battaglie «liturgiche» erano combattute con spade di carta: «Erano l’estremo trionfo della speranza sull’esperienza». La risposta che egli ravvisò nel nuovo gioco era il «potere compensativo». Inutile tentare di frammentare i poteri esistenti. L’antidoto era costituito dai nuovi poteri che lo stesso processo di concentrazione industriale suscitava: i sindacati, le organizzazioni degli agricoltori, le cooperative dei consumatori. L’idea fu considerata eversiva del capitalismo e della democrazia. Invece, come Galbraith stesso riconobbe, era soltanto fiacca. I gruppi più deboli non riusciranno mai a compensare i più forti. Occorre dunque un potere compensativo superiore.
Il mito della sovranità del consumatore. Quando i bisogni più naturali e urgenti sono soddisfatti, i consumatori perdono il controllo della loro domanda, che viene manipolata dai produttori, soprattutto attraverso la pubblicità. Avviene allora che la ricchezza crescente sia trattenuta artificialmente nella sfera di bisogni privati sempre più futili e mutevoli, mentre i grandi bisogni pubblici l’educazione, le infrastrutture, la salute, la bellezza vengono trascurati. Così, l’opulenza privata si installa nello squallore pubblico.
Il mito della Santa Produzione. Molto presto, previde Galbraith in tempi nei quali una politica dell’ambiente sarebbe sembrata uno scherzo di dubbio gusto, «la nostra economia comincerà a preoccuparsi, più che della quantità dei beni prodotti (segnalata dall’indice di aumento del prodotto nazionale lordo) della qualità della vita sul pianeta, minacciata da quell’aumento». Bisognava pensare «alla protezione dell’ambiente e ai servizi pubblici e sociali di cui c’era necessità sempre maggiore».
Come economista, Galbraith non era certo un «puro». Si contaminò con la politica e con l’amministrazione, ne fu coinvolto in pieno, da protagonista. Era nato propriamente come economista in erba, esperto in problemi dell’agricoltura, e la sua grande esperienza tecnica di concimi, allevamenti, rotazioni, ibridazioni, meccanizzazioni, gli conferì un’esperienza pratica di prima qualità, che mise a frutto non solo nell’insegnamento universitario, ma come esperto dell’amministrazione, nella difesa dell’agricoltura americana e del sistema dei prezzi amministrati.
Stabilitosi definitivamente negli Stati Uniti e passato attraverso cinque Università Guelph, Princeton, Berkeley, Harvard, Cambridge non si lasciò mai catturare definitivamente dall’insegnamento. Roosevelt fu il suo primo amore e il partito democratico un matrimonio mai dissolto. Fu nell’amministrazione del New Deal che, ancora giovane, attinse rapidamente un vertice di potere mai toccato dopo di allora. Durante la seconda guerra mondiale si trattava di scongiurare il rischio economico più grave, quello dell’inflazione. Galbraith, che si era distinto nell’Università come specialista dei prezzi agricoli, fu posto accanto all’Albert Speer del New Deal, Leon Henderson, alla testa della nuova Amministrazione dei Prezzi. Per qualche anno fu lo zar dei prezzi americani, una specie di Colbert d’oltre Atlantico, una posizione peculiare nella Repubblica stellata. Nel paese del mercato libero, il mercato libero fu di fatto sospeso. Ma lo sforzo non poteva essere prolungato a lungo. Il capitalismo compresso, gli agricoltori, gli industriali, i commercianti, mordevano il freno. Sui giornali si moltiplicavano i titoli: Galbraith deve andarsene.
Se c’è mai stato un animale politico, uno che la politica l’aveva nel sangue, che la viveva appassionatamente, ma senza mai praticarla professionalmente è stato Galbraith. La passione della politica gli era connaturata. «Era naturale fin dalla nascita, che da noi, nell’Ontario, si nascesse conservatori o liberal, di destra o di sinistra». Lui era nato di sinistra: con una carica di aggressività di derivazione paterna. Suo padre lo portava nei comizi quando aveva dieci anni. Saliva sul deposito di letame di qualche fattoria e si scusava di parlare «dalla piattaforma dei conservatori». Galbraith partecipò alle campagne elettorali di cinque candidati alla Presidenza. Solo due furono eletti, ma che Presidenti! Roosevelt e Kennedy! Si immerse nella vita del Partito Democratico come militante, come raccoglitore di fondi, come propagandista, come ghostwriter. Nelle gallerie dei grandi economisti, è il solo che si sia «contaminato» in modo così impegnato; e così moralmente cristallino. Commitment. Impegno. Era una delle sue parole preferite. A quell’impegno civile non sacrificava la ricchezza della sua vita privata, l’amore per la sua Kitty e per i figli, la loro prodigiosa smania di viaggi per tutto il mondo, il gusto di raccontare in una prosa brillante e incisiva, lo «sfizio» di misurarsi con l’arte, come grande esperto di pittura indiana, e con la letteratura (un romanzo, una commedia). Fece anche in modo impeccabile l’ambasciatore, in India, svolgendo compiti delicatissimi in momenti decisivi e di emergenza (come la breve guerra di frontiera dell’Himalaya). Si batté senza risparmio e senza paura contro la «folle stupidità» del Vietnam.
Commitment: è anche e soprattutto, per Galbraith, l’impegno alla causa del pubblico interesse. Questo, in tutta la sua vita e la sua opera, è il massimo principio deontologico della politica democratica: la superiorità dell’interesse pubblico sugli interessi particolari. Quello non può essere lasciato al libero «gioco» di questi, ma deve essere affidato a una leadership illuminata. Il leader democratico deve cercare il consenso non abbassandosi agli umori istintuali della massa, ma suscitando in quella il bisogno di ideali. Il leader democratico non è amato perché è uno di noi, ma perché è uno migliore di noi. Non perché ci si può rispecchiare, ma perché lo si può rispettare. In ciò sta la natura aristocratica della democrazia.
Volta per volta l’interesse pubblico si identifica in una causa preminente. Nel secolo di Galbraith tre cause hanno meritato questo titolo: la lotta alla disoccupazione, e poi quella al fascismo e infine la prevenzione dell’olocausto nucleare. In tutte e tre Galbraith ha svolto una sua parte di primo piano. La battaglia su questi fronti è stata frenata, fuorviata, intralciata dalla minaccia comunista. Minaccia reale e concreta, ma spesso utilizzata dall’establishment politico a copertura di interessi che non avevano niente a che fare con la libertà.
Oggi quella minaccia è scomparsa. La difesa di quegli interessi non ha più alibi, è diventata esplicita e insolente ideologia della ricchezza e del successo privato. La portata della minaccia si è ridotta. Ma l’orizzonte degli ideali si è ristretto. Si sente la mancanza, e il bisogno, di qualcuno con le gambe un po’ più lunghe.
Nota: su eddyburg_Mall un breve testo di J.K. Galbraith del 1967 che tratta il tema Economia e Felicità
«Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti». Cominciava così un libro nato per scuotere le sicurezze e il senso comune di una collettività. Si intitolava Lettera a una professoressa, lo scrissero otto ragazzi della scuola di un piccolo borgo toscano, due case addossate a una chiesa - Barbiana, frazione di Vicchio, nel verde del Mugello. Li guidò un prete, don Lorenzo Milani. Il volumetto, centosessanta pagine, uscì a maggio del 1967. Alla fine di quello stesso mese il prete compì quarantaquattro anni e il 26 giugno morì.
A quarant’anni da allora quel libro non ha smesso di scuotere. Ha suscitato appassionati consensi e vibrati dissensi, e ha costruito un mondo a sé, fatto dei modi diversi di leggerlo, arrivando persino a essere giudicato come il modello di una scuola permissiva o, all’opposto, savonaroliana e manesca. La Lettera è però anche lì con la sua scrittura asciugata, le tabelle su quanti ragazzi poveri vengono bocciati nella scuola dell’obbligo, su quanto contano la cultura e il censo della famiglia per il successo scolastico. Un libro sulla scuola che invece di attutirle consolida le differenze e come i cattivi ospedali cura i sani e respinge i malati, sull’ingiustizia di far parti uguali fra disuguali, su quanto invece renda uguali il possesso della lingua, con frasi scolpite, tipo: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia». E poi i paradossi, le provocazioni e le male parole. E gli interrogativi che tuttora pone a una comunità la quale, ha ricordato Tullio De Mauro (vedi l’intervista qui accanto), conduce alla licenza media il novantadue per cento di chi ne ha diritto, ma, sola in Europa, custodisce un quaranta per cento di persone che poi stentano a capire una frase con una relativa e un’operazione a due cifre.
Libro-manifesto, si è detto, consegnato al mondo contadino di Barbiana, utopico e indigesto. Ma quel volume, suggerisce Giorgio Pecorini, che ha frequentato il prete per dieci anni, «non deve esser letto come un ricettario, ma come un atteggiamento etico». «Spesso gli amici (...) insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi (...)», annota don Milani in Esperienze pastorali, pubblicato nel 1958, quattro anni dopo l’arrivo a Barbiana. «Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola».
Testimone di come fu scritto quel libro è Adele Corradi. Nel 1963 aveva poco meno di quarant’anni e insegnava Lettere in una scuola media. Le parlò di don Milani la sua preside, moglie del giudice Marco Ramat, uno dei fondatori di Magistratura democratica. Era appena stata varata la riforma della media: obbligo fino a 14 anni, niente più avviamento al lavoro, scuola uguale per tutti, come dettava la Costituzione. Un giorno di settembre salì a Barbiana, lì quel sacerdote proveniente dalla buona borghesia, di solida cultura classica e laica, madre ebrea, convertitosi a vent’anni e ordinato a ventiquattro, sperimentava da un decennio il nuovo sistema. Le avevano detto di fare in fretta, perché gli era stato diagnosticato il morbo di Hodgkin e gli restavano tre mesi di vita.
Quella mattina don Milani e i suoi ragazzi stavano tentando un esperimento: una lettera collettiva agli alunni di un altro grande innovatore, il maestro Mario Lodi. Quel modello di scrittura venne praticato altre volte fino a sfociare nella Lettera a una professoressa. Nel frattempo la Corradi si era trasferita a Barbiana, aveva affittato una stanza vicino alla chiesa. Don Lorenzo stava male, ma le cure avevano dato risultati e smentito le previsioni più infauste. «La scrittura della Lettera iniziò a fine estate del 1966», racconta la Corradi. «Due ragazzi erano stati bocciati agli esami». Due ragazzi figli di povera gente, a uno dei quali si deve la pagina iniziale: «Cara Signora, lei di me non si ricorderà nemmeno il nome». «Don Lorenzo era spesso a letto, si alzava solo la domenica per la messa. Poi da gennaio non si alzò più. La scrittura collettiva funzionava così: ognuno appuntava delle idee su un foglietto, poi i foglietti venivano accumulati e discussi uno per uno. Si limava, si toglieva il superfluo e si cercavano le parole più efficaci, comprensibili anche all’ultimo degli alunni. Un giorno proposi di inserire un concetto: non limitiamoci a dire agli insegnanti di non bocciare, diciamo che devono anche insegnare. Don Lorenzo mi guardò e disse: "Non va bene. Gli insegnanti devono insegnare. Se non insegnano vanno all’inferno". Giancarlo, un ragazzo di 15 anni, si occupò delle statistiche. A darci una mano venne Giuseppe Matulli, che lavorava all’Istat e che ora è vicesindaco di Firenze. Fu don Lorenzo a trasformare quelle tabelle in disegnini a colori. E fu sempre lui a scrivere il capitoletto sull’Italia contadina assente da quel Parlamento che aveva approvato la riforma della media, con la destra che proponeva più latino, la sinistra più scienza, topi di museo i primi, topi di laboratorio i secondi, li chiamava: "Lontani gli uni e gli altri da noi che non si parla e s’ha bisogno di lingua d’oggi e non di ieri, di lingua e non di specializzazioni"».
Don Lorenzo e i ragazzi lavorarono alla lettera per nove mesi. «Barbiana era una scuola aperta dodici ore al giorno, tutto l’anno», racconta Pecorini. Lui, giornalista dell’Europeo, conobbe il prete nell’estate del 1958, quando la Civiltà Cattolica stroncò Esperienze pastorali, precedendo il decreto del Sant’Uffizio che ne voleva vietare la vendita. «Gli mandai un telegramma e dopo due giorni mi fece telefonare. Arrivai a Barbiana mentre faceva scuola. Senza sollevare la testa da un libro, don Milani sibilò: "Questo è l’imbecille che ci ha mandato il telegramma". Rimasi di sasso. Ma a Barbiana non si distribuiva la posta, non c’erano telefono ed elettricità. Era arrivato un avviso e lui si era allarmato. Qualcuno era sceso a Vicchio e aveva dovuto pagare una multa salata».
La scuola era uno stanzone accanto alla chiesa. Alle pareti, ricorda Pecorini, una libreria costruita dai ragazzi. Poi tavolacci d’osteria, carte geografiche e tabelle sulla decolonizzazione in Africa e in Asia, uno schema del Parlamento, foto di Gandhi e di bambini neri. Più tardi comparve la scritta: «I care». Qualche volta spuntava un gigantesco spartito: «I ragazzi ascoltavano Beethoven e don Lorenzo con una bacchetta li invitava a seguire la musica». La musica, le lingue straniere (poca grammatica, molto uso), saper costruire uno scaffale: erano pilastri pedagogici. Come scrivere e leggere collettivamente. Oppure far scuola fra loro, i più grandi che diventano maestri dei più piccoli. «Niente libri di testo, ma per ogni materia anche cento libri, e poi i giornali, commentati a fondo». Da una porta si entrava nella stanza dove dormiva il priore. Al piano di sopra vivevano Leda, la perpetua, e Michele e Francesco (Francuccio) Gesualdi, che vissero a Barbiana fino alla morte di don Lorenzo. (Michele è diventato sindacalista della Cisl e presidente della Provincia di Firenze, Francuccio è stato fondatore della Rete Lilliput, e ora esce un suo libro Il mercante d’acqua - Feltrinelli, pagg. 132, euro 8).
Quando il libro fu finito, don Lorenzo si era trasferito dalla madre a Firenze, dove continuava a lavorare con i ragazzi. «Venne a trovarlo il proprietario della Libreria editrice fiorentina, che stampò la Lettera in cinquemila copie», racconta la Corradi, «e lui gli disse "ti basteranno per una settimana"». Della Lettera si fecero nuove edizioni, ma don Lorenzo non c’era più. Una copia l’aveva regalata ad Adele con la dedica: «Poi finalmente trovammo una professoressa diversa da tutte le altre che ci ha fatto tanto del bene».
«E pensare che giocavo bene a tennis», dice il novantunenne Pietro Ingrao, mentre avanza con passo lento nella sua frugale casa, dritto come un fuso e una memoria che sfiora il prodigio. «Il battito asciutto della pallina sul campo aveva per me un effetto terapeutico. Bastavano pochi colpi per cancellare comitati centrali, riunioni di direzione, interminabili segreterie...».
Di match point è costellata anche la sua vita. È stato uno dei grandi capi del comunismo italiano, ha attraversato la storia del Novecento quasi sempre in prima linea - la cospirazione antifascista, la guerra, l’Unità clandestina, poi le istituzioni repubblicane nel loro sorgere tempestoso - , ha incontrato personaggi come Stalin, Mao e Che Guevara, ma la sua esistenza appare segnata da una vena d’inquietudine mai appagata. Volevo la luna è l’efficace titolo dell’autobiografia che racconta con passione e severità il romanzo d’una vita intensa e forse mai pienamente risolta (Einaudi, pagg 384, euro 18,50, in uscita il 12 settembre). Un feuilleton ottocentesco, nei primi capitoli, con la storia degli avi garibaldini che cospirarono contro i Borboni e quel romantico incesto tra nonno Francesco e la splendida cugina Marianna da cui trae origine la progenie Ingrao. Se c’è una trama segreta, in Volevo la luna, va cercata nell’intima ribellione che anima costantemente il protagonista. Sin da bambino, quando figlio dei signori di Lenola, l’agiato ceto agrario del basso Lazio, partecipa ai rituali borghesi però dolendosi della distanza del mondo contadino. O da ragazzo, nei primi anni Trenta, lettore di Joyce e Kafka contro le semplificazioni sommarie della cultura ufficiale, e ancora studente dei Littoriali, ma con i primi germi del dissenso antifascista. Più tardi la scelta di vita comunista, anche questa segnata da dubbi, perplessità, insofferenza verso le formule teologiche del credo sovietico. Fino al dissenso esplicito negli anni Sessanta, con quell’epilogo da eretico verso gli stessi eretici: è rimasto storico il voto con cui Ingrao radiò gli ingraiani dal suo partito («La cosa più sbagliata ma anche la più assurda. Fu più forte il richiamo della chiesa comunista»).
Da cosa nasce questa inquietudine?
«Fin da piccolo, ebbi l’abitudine di interrogarmi sulle cose. Vivevo tra i contadini, ma ne avvertivo la distanza. Non erano nostri pari. In certo modo lì ebbe origine la mia riflessione sull’oppressione di classe e sul mondo diviso fra sfruttatori e sfruttati».
La sua critica verso Togliatti è molto nitida. Sono descritte le sue durezze, i protratti silenzi, la lunga e insopportabile soggezione a Mosca. Insomma, una resa dei conti senza reticenze.
«Sì, il suo percorso fu più complesso e contraddittorio di quanto sia stato scritto, come di errori e contraddizioni è disseminato il mio. Ma tra noi c’era anche un rapporto umano molto forte, coltivato nei lunghi anni della mia direzione dell’ Unità. Da gran rompiscatole, non mancava di farmi avere continuamente i suoi bigliettini, più o meno di questo tenore: "ma che cavolo volevi dire?". Quando parlava alla Camera c’era un rito: dopo l’intervento, veniva in redazione per rivedersi il testo, parola per parola. Sudatissimo, c’era qualcuno che l’asciugava. E intanto lui correggeva parole e virgole, secondo fissazioni bizzarre. Era persuaso che si dicesse "arme", non "arma". Così scriveva Missiroli, che a lui piaceva molto. Io storcevo il naso».
Qualche volta però lei scelse di non interpellare il segretario.
«Fu all’indomani del XX Congresso, al principio del 1956, dopo le rivelazioni di Krusciov sui crimini di Stalin. Togliatti aveva il testo del rapporto segreto, ma al rientro da Mosca non ne fece parola: né con noi né con i giornalisti che l’attendevano all’aeroporto. E sulle denunce dello stalinismo tacque anche al Comitato Centrale di marzo, dove ebbe solo accenti apologetici per l’Urss. E noi dell’Unità costretti a stare zitti, mentre nel mondo si scatenava la bufera. Quando sulla stampa americana comparve il misterioso rapporto, mi feci coraggio e, senza interpellarlo, pubblicai un resoconto».
E Togliatti?
«Laconico, come sempre. "Hai visto?", gli domandai trepido. "Ho visto", fu la risposta».
Finì lì?
«No, l’evento più pesante fu a Livorno, nell’aprile successivo, durante l’assemblea generale in vista delle elezioni comunali. Nella relazione Togliatti non fece nessun accenno al tema dello stalinismo. La nostra protesta assunse forme diverse. Al momento dell’applauso, Pajetta e Amendola stesero le mani sul panchetto per sottolineare che non applaudivano. Nel discorso conclusivo, Togliatti fu ancora muto sul "rapporto segreto". Aggiunse solo alcune brevi amarissime parole sulle tempeste che aveva attraversato».
Avevate un rapporto confidenziale. Si è mai lasciato andare sulle nefandezze di Mosca?
«No, mai. Aveva avuto una vita tragica, se ne avvertiva l’eco anche nei silenzi. Solo una volta lo vidi esplodere corrucciato. Fu durante un incontro con D’Onofrio, che si doleva col segretario per un trasferimento non desiderato. Lo gelò: "E allora cosa avrei dovuto fare io quando diceste sì a Stalin che non voleva farmi tornare in Italia?"».
Anche Nilde Iotti era reticente?
«No, con Nilde si parlava più serenamente. Mi confessò una volta il sospiro di sollievo che lei e Palmiro avevano tratto sul treno che li allontanava dalla frontiera sovietica. Stalin era ancora vivo».
Nel 1961 la leadership di Togliatti sembra sbandare. Lei racconta di un’aspra riunione del Comitato Centrale, che però lasciò una traccia scritta mitigata.
«I suoi ripetuti silenzi sullo stalinismo lasciarono molti di noi amareggiati. L’attacco partì da Amendola, seguito da Natoli, Chiaromonte, Alicata, Salinari, io stesso. Togliatti replicò con toni ancor più brucianti. S’accomiatò con una minaccia: se volete farmi la lotta, sono pronto».
Era stato Franco Fortini, incontrato casualmente nel 1940, a parlarle per primo delle purghe staliniane?
«No. Sapevamo già da tempo. Ma ci fu un colpevole silenzio. Il mito di Stalin scavalcava tutto. L’evento che sconvolse il nostro gracile gruppo romano fu nel 1939 lo sciagurato patto Ribbentrop-Molotov. Antonio Amendola, Lucio Lombardo Radice e io stesso fummo duramente critici. Aldo Natoli esitò: e fu strano perché Aldo era tra i più rigorosi e i più maturi fra di noi».
Della cospirazione antifascista, lei dà un ritratto assai poco eroico, restituendone anche fragilità e cedimenti.
«Eravamo esseri umani che imparavano - passo a passo - la lotta sociale in un momento molto difficile. Nel nostro piccolo vivevamo anche vicende amarissime. Antonio Amendola fu colpito da un grave disturbo psichico. Fummo costretti - per ragioni di sicurezza - ad interrompere i rapporti con lui. Fu una storia dolorosa: io da Antonio avevo appreso quasi tutto».
Con Amendola aveva partecipato anche ai Littoriali.
«E per questo Antonio s’era beccato una condanna furente dal fratello Giorgio, confinato a Ponza, che solo dopo avrebbe compreso l’importanza di quei nostri incontri: furono per noi occasione di maturazioni preziose, laboratori di coscienza antifascista. Senza i Littoriali sarei rimasto un pischelletto di provincia. Eppure nell’immediato dopoguerra subii un processo dalla stampa di destra: ma come, hai scritto un inno fascista a Littoria e ora fai il comunista? Fu Togliatti a dirmi di fregarmene di quegli "scocciatori reazionari"».
Sessant’anni dopo, più o meno si parla delle stesse cose. Ma ripensando a quella stagione, cosa la mosse a partecipare ai Littoriali?
«Il desiderio di stare nel clamore. Ho amato troppo l’applauso».
Quanto ancora ha contato l’amore dell’applauso nella sua vita successiva?
«Ahimé, sempre. Eh, la vanità... Però con una riserva costante: l’interesse e il rispetto per il dubbio. In fondo questa mia autobiografia è un libro sulla possibilità di dubitare, negata per troppo tempo nel Pci. Credo che la grande tragedia del comunismo e la ragione della sua sconfitta abbia origine anche in questo: nel monolitismo, nell’unanimismo forzato, in un’idea imbalsamata di classe, nell’adesione acritica al catechismo di Lenin e Stalin».
Lei ricorda con disagio il discorso pronunziato da Mao a Mosca nell’autunno del 1957.
«Sì, è come se lo rivedessi ora: un omone imponente, che ci accolse con grandi pacche sulle spalle. Profetizzò un radioso avvenire a prezzo di milioni di vite uccise. Nessuno ebbe il coraggio di obiettare. A peggiorare le cose, provvide il compagno francese Duclos, con una pesante filippica contro di noi. Chiesi a Togliatti se era il caso di replicare. Rispose con un "no" rabbioso. Poi in macchina proruppe in invettive da trivio, come mai l’avevo sentito».
Nel libro ci si imbatte in parole proibite come "frazionismo".
«Sì, il frazionismo allora era un termine maledetto, ma invece sarebbe stato necessario e vivificante. L’avessi sostenuto all’epoca, sarei finito nel rogo».
Però negli anni Sessanta lei dà avvio a una sorta di frazione. Per poi decidere insieme al Partito a favore dell’espulsione dei suoi stessi fratelli.
«Non so dire altro che uscii di senno. Io pure avevo assorbito un fondo chiesastico che mi indusse all’errore fratricida. Uno sbaglio grave, non solo per il tradimento verso quei compagni, ma anche perché annullava il principio del dissenso: un nodo che per me divenne vitale per la costruzione di un soggetto rivoluzionario articolato e molteplice».
La sua autobiografia è anche una toccante dichiarazione d’amore per sua moglie Laura Lombardo Radice, un misto di rigore e dolcezza.
«Sì, siamo stati molto uniti nella vita. E io ho avuto un dono enorme da lei. Anche quando con grazia ironica usava tirarmi le orecchie, per aprirmi gli occhi. Ricordo quando le feci leggere la Dichiarazione programmatica che Togliatti mi aveva sollecitato per il congresso del partito, nel dicembre del 1956. "Mi sembra il rosario della Madonna di Pompei". Avvampai di rabbia, ma aveva ragione lei».
Sfilano nel racconto tanti volti femminili. Perfino Alida Valli, la più amata della vostra generazione.
«La incontrai al Centro sperimentale di cinematografia, che frequentai alla metà degli anni Trenta. Era bellissima, ma fredda e un po’ altera».
A un certo punto lei confessa che era "quasi innamorato" di Marcella Ferrara, allora segretaria di Rinascita.
«Non rimasi insensibile al fascino di Marcella, donna di gran temperamento. In quegli anni - ma non vorrà scrivere anche questo? - le richieste sentimentali non mi mancavano. Il nostro non era un partito né di freddi né di casti».
Se c’è un’immagine che si staglia nel libro, è la grande scalinata che conduce allo studio di Togliatti. Cos’è che non le piaceva di quella scala?
«La vastità, lo sterminato numero di gradini. Era una delle cose assurde di Botteghe Oscure. Quando, circa alla metà degli anni Cinquanta, fui chiamato in Segreteria - posto nevralgico di potere - mi perdevo nel saliscendi dell’immenso palazzo, tra ampi corridoi e riunioni interminabili. Non ero tagliato per quella vita. Tra lo stupore di molti, decisi di lasciare».
L'umano, ecco il punto ancora di nuovo e sempre. L'umano differente, incommensurabile, irriducibile; «lo smisurato che non si lascia misurare», così lo chiama Ingrao, che c'è in ciascuno e in ciascuna, e in ciascuno e ciascuna eccede l'essere sociale dell'operaio che fa l'operaio, del politico che fa il politico, dell'uomo di legge che giudica altri uomini con la legge. «L'indicibile di noi stessi e della relazione con l'altro che non possiamo mai afferrare fino in fondo». La domanda sull'essere che si è aperta all'inizio del 900 con Freud e Joyce, questo è il messaggio a cui il novantenne Pietro tiene di più, non deve lasciarsi chiudere con la fine del 900: «Ecco la mia paura, che mi venga tolto non tanto il pane, e nemmeno la Costituzione, ma questa idea dell'umano che ho imparato in questo secolo. Vi prego, non permettete che questa domanda venga cancellata». L'inciso su Berlusconi - «per questo, vi parrà strano, sono spaventato quando lo vedo» - non va preso alla lettera, ma non è nemmeno accidentale. Allude a un mutamento dell'epoca che non è solo politico, ma della politica tocca la base antropologica, il il presupposto e il limite: l'umano appunto. Che ne sarà della politica, se dell'umano tutto diventa misurabile, contabile, spendibile, visibile, mediatizzato? Che ne sarà degli stati e dei governi, dei partiti e dei movimenti, se lasciamo che si chiuda quella domanda sulla soggettività che ha fatto grande il secolo della grande politica? Ci tiene il novantenne Pietro, breve ed ellittico come poche altre volte di fronte ai tremila amici che lo festeggiano, a ribadire la sua propria differenza incommensurabile e irriducibile: «vedete, sono stato immerso nella politica a tempo pieno e tutto intero, eppure non sono stato e non sono solo quello». Perché la domanda più vera sulla politica «è quella sul limite della politica»: l'umano che la eccede, il linguaggio poetico che dice quello che la razionalità politica non sa, il montaggio cinematografico delle immagini che mostra l'associazione diretta fra le cose e il movimento senza guidatore della vita. Quello che dalla politica resta fuori, ma senza cui la politica non è nulla, diventa piccola e vuota, sorda e muta. Per la semplice ragione che quando quell'eccedenza non c'è o è tacitata, non c'è nemmeno decisione politica, o passione se preferite, o obbligazione. Qualcosa a un certo punto cambiò negli anni Trenta, racconta Ingrao, e non fu propriamente una scelta; fu un passo, una spinta, un'azione, di fronte a quello che stava per accadere. Non era e non è questione di scelte morali ben ponderate. «Non sono mai stato in sintonia con l'eticismo - scrive Ingrao a Goffredo Bettini nel '78, quando lascia il Parlamento e decide di tornare a fare ricerca con il Crs -. Credo nella corporeità e nella passioni vitali. Dire `non ci sto' di fronte al nazismo e al fascismo non fu la risposta a un dover essere; fu la spinta fisica e emotiva di qualcosa dentro che resisteva». La stessa spinta, lo stesso scatto, che oggi Ingrao vorrebbe vedere di fronte alla Costituzione stracciata, e non vede, perché forse «il paese non capisce la soglia a cui siamo».
Anni Trenta, anni Quaranta e poi oggi. Il Novecento, «secolo grande e tragico» come Ingrao ama definirlo, passa nelle parole sue e in quelle per lui di Walter Veltroni e Luciana Castellina, nelle citazioni di Montale e Ungheretti di Gianni D'Elia e in quelle dei neorealisti di Ettore Scola; ma passa accorciato, davvero un secolo breve. Castellina sfiora il `68, Ingrao gli errori che nel `78 era già chiaro che avrebbero portato alla sconfitta, ma degli ultimi decenni resta poco; lo snodo decisivo sta prima. Perché nell'età anziana il passato si accorcia e prende altre proporzioni? O perché è lo snodo di oggi a riportare allo snodo di allora? Non c'è il nazismo e non c'è il fascismo, no. Ma il rischio di un destino triste delle democrazie sì. Una soglia, appunto. Dove di nuovo, come negli anni Trenta, non c'è scelta e c'è lotta: «la politica è obbligata».
«Assaporando un po' di tempo non vissuto», come dice Veltroni per descrivere il piacere di dialogare con i nostri novantenni più amati, ci troviamo messi di fronte a questa contrazione del tempo. C'è da imparare? Certo che sì. Da un padre e da un compagno, da «un padre compagno», come lo chiama Gad Lerner. Eppure, che strano, «noi non abbiamo avuto maestri», racconta Ingrao ancora con la memoria agli anni Trenta: «i maestri erano in esilio, in carcere, lontani, cacciati. Avevamo venti o trent'anni, ci misurammo con quello che stava per accadere». Senza maestri ma con passione, messaggio duro da recepire nell'epoca del disincanto piena di maestri e svuotata di passioni. Lui intanto, il maestro, ripete ancora una volta l'incanto dell'oratore che ha appena finito di descrivere nella bella intervista sul cinema filmata da Mario Sesti: «Tu sali su un palco, hai di fronte la piazza piena di gente, comincia il rito del comizio, applausi, saluti, bandiere, un po' una sceneggiata, calcoli i tempi e le pause e ti chiedi se riuscirai davvero a comunicare qualcosa a quelle centinaia e migliaia di persone che non conosci; ma se a un certo punto puoi fermarti, bere un bicchiere d'acqua o soffiarti il naso e la piazza sta ferma, allora hai la certezza che un filo si è creato fra te e loro». Un filo si è creato, un'altra volta, fra PietroIngrao e i suoi tremila amici venuti a festeggiarlo. «Altre domande? siamo qui», sprona lui incontentabile alla fine del film-intervista di Sesti. Sì, abbiamo ancora altre domande.
Una citazione di due autori che so per certo non graditi a Pietro Ingrao.
Ma so anche di certo che per lui non sarà un problema, conoscendo non tanto la sua tolleranza, quanto il suo gusto per il diverso e per il contrario. Jünger scrisse un biglietto di auguri a Schmitt per il suo novantesimo compleanno. E Schmitt rispose con un altro biglietto: "la vecchiaia è finita; adesso comincia l’età dei patriarchi".
E’ bello poter dire in vita: la vecchiaia è finita. Si può veramente, finalmente, coltivare quella che Goethe anziano chiamava “la cara dolce abitudine di vivere”. Anche se Ingrao resiste al compito di vestire i panni biblici del patriarca. Potrebbe prestarsi ad essere agevolmente il patriarca della sinistra. Ma sappiamo quanto questo sia contrario alla sua indole. Alcune sue scelte recenti – una soprattutto – hanno voluto sottolineare la sua appartenenza di campo e, per utilizzare una formula ormai per il troppo uso diventata banale, un’appartenenza di campo senza se e senza ma.
Mi colpì una frase della sua amatissima moglie Laura, pronunciata qualche tempo prima della scomparsa: dovevamo diventare vecchi per ritrovarci ad essere dei senza partito. Non c’è pensiero che meglio definisca la "Stimmung", diciamo così, il senso e il tono, di questo estremo lembo dell’impegno pubblico di Ingrao.
Non voglio ripercorrere qui le fasi del suo percorso politico. Né voglio farne una biografia per consegnarlo al passato. Stiamo trasformando il Crs, questa sua creatura, inaugurato nel 1972 da un altro Presidente, Umberto Terracini, in Fondazione, raccogliendo qui l’Archivio Ingrao. Abbiamo in programma una giornata di studio, per approfondire, con il contributo di storici, di politologi, di critici, i passaggi della sua presenza nella vita politica, istituzionale, culturale del paese.
Sì, anche culturale, perché un punto determinante da tenere a mente per ricostruire la personalità di Ingrao è questo: che in lui la vocazione intellettuale precede quella politica. Solo questo spiega la sua attenzione agli strumenti del linguaggio, non in quanto comunicazione, secondo la deriva a cui è oggi sottoposta e subordinata la parola umana, ma in quanto espressione: dire di sé e del mondo l’essenziale, il significato e il valore di ciò che veramente è.
Di qui la curiosità per gli strumenti nuovi del linguaggio: il cinema, questa passione giovanile, rimasta nel tempo,il cinema come forma espressiva del Novecento, l’immagine del mondo per il secolo. E poi…, quella voce della maturità che è la poesia. Ingrao poeta non è un particolare della sua persona; non è un accessorio da aggiungere al resto. La poesia è costruzione di sé, momento e processo di autoconsapevolezza, memoria del passato e etica del presente.
Ieri sera, nella serata popolare in suo onore,ci ha parlato del dissidio che sente in sé, tra il limite della politica e lo “smisurato” dell’umano.Qualcosa che nemmeno si può dire per intero.“L’indicibile dei vinti, il dubbio dei vincitori”e quel grido: “Leva in alto la sconfitta”,
furono, a metà degli anni ottanta il presagio di ciò che stava per accadere.Del resto, ci sono dei titoli dei suoi libri: "Masse e potere", in mezzo agli anni settanta,"Tradizione e progetto", all’inizio degli anni ottanta, "Le cose impossibili", all’inizio degli anni Novanta, che perfettamente aderiscono al tempo storico che li suggeriva.
Ingrao ha riconosciuto il suo secolo, lo ha vissuto, con “l’alta febbre del fare”, e quindi, in questi ultimi anni lo ha giudicato. Un giudizio severo, a mio parere, anche troppo severo, soprattutto quando ha coinvolto la sua stessa persona, le sue scelte e prese di posizione su eventi, che è più facile riguardare oggi di quanto non fosse allora, quando si stava nel “gorgo”, per usare una parola cara a Pietro.
Questo suo andare oggi elencando puntigliosamente gli errori di allora è umanamente molto bello, ma, vorrei dirgli con affetto,sembra a molti di noi anche eccessivamente autocritico.
Ci allontaniamo dal “nostro” secolo e forse sta maturando il momento di uno sguardo più equanime. Il Novecento è stato, sì, tragedia e violenza, ma è stato anche emancipazione, liberazione, conquiste. Il negativo delle guerre è vissuto accanto al positivo delle lotte. Intreccio, appunto, tragico tra disumani esperimenti riusciti e grandiosi tentativi falliti. Male assoluto e male necessario: questa dialettica è ancora da sciogliere ed è tremendamente complicato scioglierla. Profetiche rimangono le parole di Max Weber, pronunciate appena dopo la fine della prima grande guerra: "Non è vero che soltanto il bene possa derivare dal bene e il male dal male, bensì molto spesso il contrario. Chi non lo capisce, in politica non è che un fanciullo".
A malo bonum: questo segno agostiniano è alla base della giusta volontà politica; dal peccato la grazia, dalla caduta la libertà del cristiano. Non è nella contrapposizione tra male e bene, ma nell’intreccio tra l’uno e l’altro che deve districarsi e motivarsi la buona politica.
Non è esattamente questo l’orizzonte dell’agire pubblico ingraiano,
piuttosto quell’altro, più che alternativo, direi, complementare
rispetto a questo: i popoli in movimento, le masse protagoniste, la storia vista e agita dal basso, il potere partecipato, quelle cose che hanno fatto di Ingrao, prima durante e dopo la sua Presidenza della Camera, il campione di quella che una volta si chiamava la “centralità del Parlamento”,
e cioè il primato della rappresentanza sulla decisione,
appunto della partecipazione democratica sulla concentrazione del potere;
Ricordo che una volta lo trascinammo, per un convegno dell’Istituto Gramsci veneto, a un confronto con Gianfranco Miglio:uno scontro di civiltà!, sia pure nell’agreement tra gentiluomini.
Il modello Westminster non è stato mai nelle grazie di Ingrao.
C’è una figura che mi piace accostare ad Ingrao, è quella di Dag Hammarskjöld, segretario generale dell’Onu tra il 1953 e il 1961. Un Quaderno della rivista "Servitium", quella di Padre Turoldo, lo ha recentemente inserito in una galleria dedicata ai Mistici d’oggi, accanto a Giovanni Vannucci, Edith Stein, Benedetto Calati, Teilhard de Chardin, Cristina Campo. Hammarskjöld aveva fatto predisporre all’ingresso del palazzo dell’Onu una “stanza di raccoglimento” – la chiamava così - dove, tra un incontro e l’altro, si ritirava a meditare e a contemplare. E invitava gli altri a fare la stessa cosa prima degli incontri. E’ lui che ha detto quella frase splendida: "merita il potere solo chi ogni giorno lo rende giusto".
C’è un piccolo video, amatoriale, di appena qualche anno fa, che ritrae Pietro Ingrao, con gli occhi lucidi, mano nella mano, con il vecchio monaco camaldolese, impedito nella parola e alla vigilia della morte, Benedetto Calati, per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, persona di grande carisma spirituale.A vederli, veniva da pensare: ecco, due fratelli e compagni.
Confesso che non mi ha mai scandalizzato la pur rozza definizione del comunismo come una chiesa.
In parte lo era. Perché era un orizzonte di fede per milioni e milioni di uomini e di donne “semplici”, come si chiamavano allora - e di speranza per chi non aveva da perdere altro che le proprie catene, e in un certo senso anche di carità, che si esprimeva nella pratica della solidarietà.
C’era quell’idea-forza, passata non a caso nelle canzoni proletarie, che nominava il “riscatto del lavoro”. Il comunismo, non quello dello Stato ma quello del popolo, è stato una forma di attesa, della venuta di qualcosa se non di qualcuno, qualcosa che non era di questo mondo, ma di un altro, da venire. L’”avvenire” , l’Avvento, “cieli nuovi e terre nuove”, è parola comune al cristianesimo e al comunismo.
La secolarizzazione è cosa bella e buona, ma va presa con saggia misura.Essa contiene dentro di sé, come pericolo, la volgarizzazione dell’esistenza. Tutto ciò che laicamente passa per le compatibilità di sistema, va poi ad alimentare quel vizio pubblico, oggi deflagrante, che è la “servitù volontaria”.
Quello scrittore pessimista e al fondo nichilista che è Cioran ci ha ammonito: attenzione!, la morte del sacro ha come conseguenza non che non si crede più a niente, ma che si crede a tutto.
Le fedi non vanno soppresse, vanno civilizzate, umanizzate, tolte all’uso che ne possono fare i potenti,e riconsegnate ai bisogni degli umili.
Un’altra figura con cui Ingrao è entrato in sintonia negli ultimi anni è quella di Giuseppe Dossetti, questo monaco politico, - penso che si possa dire così, anche così, per definirlo, almeno nell’ultima parte della sua vita. Li ha accomunati la difesa di quel bene pubblico primario che è la lettera e lo spirito della Costituzione. Anche se il loro “patriottismo costituzionale” – al contrario di quanto si pensa - mai si è presentato come conservazione, sempre anche come innovazione. Li ha accomunati poi anche la passione per la pace,il ripudio costituzionale della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali quell’art. 11, che è diventato un po’ l’assillo del vecchio Ingrao.
Ma c’è qualcosa di più profondo che accosta le due personalità. Il loro essere, nei diversi campi di appartenenza, non eretici, piuttosto, direi, eterodossi.E’ importante questa differenza. Eretico è chi rompe con il proprio mondo e vi si contrappone. Non ortodosso, o altro da ortodosso, è chi sceglie di restare dentro in posizione critica. In questo caso, si paga un prezzo, appunto, alla propria chiesa,
ma si rimane in contatto con le forze che essa organizza, lievito per una trasformazione interna di essa.
Ingrao è stato interprete e rappresentante di una forma inedita di “critica” dentro la pur pesante ortodossia marxista. Nella storia teorica del movimento operaio il revisionismo ha avuto sempre un’etichetta di destra. Quello di Ingrao è stato, ha voluto essere, un revisionismo di sinistra. Al di là dei contenuti e degli approdi, questa è fondamentalmente la forma di eredità che ci lascia. Bisogna dire che non sempre questo punto è stato tenuto fermo,in quella folla di figure che si sono dette, senza il consenso di Ingrao,"ingraiani".
Due sono le parole-chiave che – per sua espressa confessione - definiscono la persona di Ingrao:
il dubbio e l’organizzazione. Il dubbio come atteggiamento critico nei confronti della realtà e di se stessi. Pensiero antidogmatico e conseguentemente comportamenti autonomi. Libertà di essere, di conoscere, di dialogare e di fare.
E organizzazione come politica collettiva strutturata, preparata e guidata.Politica come fare insieme
E non come la propria faccia su un manifesto. Bisogno umano di partito. Dovremmo interrogarci tutti su che cosa abbiamo fatto per aver reso questa parola, a livello di senso comune, oggi, così dispregiativa. Il disprezzo per la parola “partito” trascina con sé il disprezzo per la parola “politica”.
Ecco. Uomini come Pietro Ingrao sono la confutazione in vita di un così diffuso pregiudizio negativo. La politica come “scelta di vita” – un’espressione che fu di Giorgio Amendola – il partito, come comunità, non di destino,ma di volontà e di decisione, volontà e decisione collettive, quel noi che è più che io,oggi così fuori di moda: questa è la misura umana che per l’occasione qui festeggiamo.
Ingrao appartiene a quella straordinaria generazione di uomini e di donne “gettata”, uso consapevolmente questo concetto della filosofia dell’esistenza – gettata nella politica dalla grande storia. La crisi del fascismo, la lotta contro il fascismo, la seconda grande guerra, la Resistenza, ancora la Costituzione: questo c’era, intorno, negli anni di formazione.
E poi, l’esperienza di costruzione di quella “giraffa” togliattiana,questo animale strano, che era il “partito nuovo”,non più di quadri ma di massa, popolare alla base e centrale al vertice,che ha dato molte soddisfazioni e anche qualche sofferenza a Pietro Ingrao, e non solo a lui.
Signor Presidente, perdoni il piccolo atto d’orgoglio contenuto nel passaggio che adesso farò, a conclusione di questo discorso. Ho riflettuto se non fosse di cattivo gusto evocare qui questo motivo, con il rischio di urtare qualche altra sensibilità. So bene che fu un’intera classe politica, trasversale, ad assolvere questo ruolo fondatore. Ne ho concluso che, stante la tonalità delle cose dette fin qui, il passaggio non poteva mancare.
Insomma. Montanelli ha detto una volta che,nella deprecata prima Repubblica, e io andrei più in là, allungherei il tiro, forse nella non esaltante storia italiana unitaria, non c’era stato ceto politico migliore di quello comunista. Ingrao è prima di tutto esponente di questo ceto.
Sulle radici di questo tronco, di questo ceppo,la pianta Ingrao allarga poi i suoi rami.
Ha avuto la fortuna che a noi è mancata,di qui tutte le nostre insufficienze:quella di prender parte da protagonisti all’età dei costruttori, costruttori insieme del Partito e della Repubblica.
Uomini di parte, con il senso dello Stato:una combinazione difficile, una sorta di stato d’eccezione permanente, che ti costringe a coltivare un quotidiano equilibrio. Per reggerla, ci voleva "Beruf",weberianamente,professione e vocazione della e per la politica,etica della convinzione più etica della responsabilità,e, gramscianamente,buona cultura, molta buona cultura.
Radicare il partito nel Paese, contribuire a costruire la forma repubblicana dello Stato,
con la politica “fare società”, attraverso la politica produrre legame sociale, preparare, educare, organizzare, i lavoratori, operai, contadini, ceti medi vecchi e nuovi,ad essere, a diventare, forza politica democratica di governo.
Un’impresa interrotta.Ci guardiamo intorno, curiosi, a volte smarriti,a cercare di capire chi può riprendere,chi può riafferrare con le proprie mani,innovandola, ammodernandola, aggiornandola a tempi radicalmente mutati,questa impresa storica. Con chi altri, come e quando.
I novant’anni di Ingrao sono da vedere proiettati verso questa ricerca. Auguriamo a lui, e a noi, che possa dire presto: ecco, ho trovato da dove ripartire.
Il sito del Cantro per la riforma dello Stato
Mio Presidente,
non riesco a essere a Roma mentre coloro che ti vogliono bene, festeggiano i tuoi novant’anni.
Eppure desidero esserci per l’affetto e la stima che mi legano a te da tanti anni.
Questo vincolo che mi onora e mi conforta, nacque al tempo della mia vicepresidenza alla Camera quando tu la presiedevi.
Mi ha colpito molto e mi è rimasto di esempio, il tuo scrupolo vero di mantenerti libero e al di sopra. Non posso dimenticare le lunghe sedute dei quattro vicepresidenti con te, affinché la delicata gestione della procedura che portò all’incriminazione di colleghi, non avesse oscillazioni sostanziali, sbavature, contrapposizioni incomprensibili e dannose.
E fu ammirevole il tuo impegno per dare ai Parlamentari ogni aiuto per una conoscenza sempre più profonda
Per una continua formazione che tenesse alta la statura di tutta la Camera e aiutasse ciascuno di noi a rispondere al meglio alle attese della gente che chiede sempre maggiore competenza e dignità nei propri eletti.
Ho tanto ammirato la tua cultura animata da una ricerca costante, inesauribile nel voler affrontare i temi essenziali della vita, i grandi interrogativi che nel corso dei secoli, hanno tormentato le intelligenze più forti e più assetate di verità e di giustizia.
Sì la giustizia, tema vivo nella parola dei politici, ma che pochi sentono come dovere di risposte tanto attese e che, mancando, solo a pochi, turbano la pace e la coscienza.
Quanto insegnamento!
Aggiungo un grazie particolare per quella emozione che ho provato più volte nell’ascoltarti come ricercatore dell’eterno, come chi con gli occhi dell’intelligenza e del cuore scruta l’infinito...
Un abbraccio, tuo Oscar Luigi Scalfaro
E´ vero che lei ha dovuto rinunciare alla sua passione per il cinema a causa della lotta contro il fascismo? E´ vero che da studente del Centro Sperimentale di Cinematografia è stato tirato dentro la battaglia politica "a forza"?
«C´era stato l´attacco alla repubblica spagnola e da quel momento ho iniziato a vivere l´esperienza dell´iniziazione alla politica antifascista. Quello è stato per me un crinale decisivo. Mi ricordo quel luglio terribile del ´36, quando è scoppiata l´insurrezione di Franco, e abbiamo visto l´avanzata del fascismo che oramai si dispiegava ovunque. Sono cominciati degli anni terribili e a quel punto, per usare una frase di rito, sono cambiati i libri sul mio tavolo. Io che avevo fatto il primo anno di studio di cinema al Centro Sperimentale, e volevo fare il regista, ho ceduto - ma ceduto non è davvero il verbo giusto - alle pressioni dei miei compagni che già erano più avanti nella cospirazione. Uno fra tutti, Antonio Amendola. Sono apparsi altri libri, è cominciato il mio impegno nella politica e allora il cinema è rimasto un amore».
Quando è che ha un po´ lasciato da parte il cinema e non l´ha più seguito con la stessa assiduità? Per quale ragione?
«La vecchiaia. Io sono molto, molto anziano. Ma ho scritto più volte di cinema e presumo di capire più di cinema che di politica».
Se dovesse citare i film che più amato, i pezzi di cinema che più le sono rimasti impressi e che più hanno contato nella sua vita, quali film o autori le verrebbero in mente?
«Uno, prima di tutti. Chaplin. E un film soprattutto: Luci della città. Non è forse il più bel film di Chaplin, forse Tempi moderni è più bello, però Luci della città ha un finale straordinario: quando la ragazza cieca ritornata guarita dall´America, rincontra il vagabondo che passa per la strada, ridotto proprio male. Lui resta colpito da questa apparizione improvvisa e lei lo riconosce, ma non con gli occhi, perché non l´ha visto mai. E come? Spolverando, toccando leggermente la giacca del vagabondo. Non c´è nulla di parlato ma l´intera, breve sequenza, mi sembra di una estrema, grande allusività. In pochi, muti attimi, passano tante domande sulla vita e una capacità del cinema di essere cinema assoluto, puro, senza una parola. Poi, per il cinema italiano, mi viene in mente Paisà. L´episodio finale, quello della lotta partigiana nelle paludi. Anche lì, non c´è quasi parola, i personaggi non si parlano, avviene tutto per cenni, in uno sterminato silenzio. Non solo mi sembrava il più bello di tutto il film, ma una delle cose migliori di Rossellini: un pezzo di cinema straordinario che mi riportava a questa idea del cinema come immagine, e poi insomma, come a dire, parlava della guerra senza parlarne. E´ uno dei momenti del cinema neorealista che ancora stavano parecchio dentro l´estetica del cinema che avevo in testa io, prima dell´avvento del sonoro.
«E poi il finale di Ladri di biciclette, quando il personaggio, dopo il furto della bicicletta, viene assediato dalla folla e lo vogliono ammanettare. C´è quella scena molto bella in cui il padrone della bicicletta lo guarda in faccia come a dire "ma questo è un poveraccio come me". Allora lo lasciano andare. E c´è una sequenza brevissima, in cui il padre e il fanciullo si danno la mano e rimangono soli con tutto il mondo intorno. Un pezzo di efficacia straordinaria: che un po´ anche mi sorprese, all´epoca, perché, sapevo che De Sica aveva tante qualità ma non sospettavo possedesse quella vena struggente. Quello, diciamo così, in un museo delle cose più belle del cinema, io lo ritaglierei e poi lo metterei in un quadro come icona, insieme a Luci della città e a Paisà».
Qual è l´ultimo film che ha visto in sala dal quale è rimasto colpito?
«Quel film di quel regista americano sulla guerra in Giappone, come si chiama. La sottile linea rossa, di quel regista americano».
Terrence Malick
«Sì. C´era una bellezza singolare che non era tanto nella storia, anzi, la rappresentazione dei soldati mi sembrava piuttosto usuale. Non era quello che determinava la qualità del film. Però nella rappresentazione del paesaggio, c´erano dei pezzi che mi sembravano straordinari. C´è tutta una parte del film cui si vedono solo le vampe delle cannonate e poi il modo in cui fa vedere quelle colline presso cui si svolge tutta la battaglia.
«Ecco, lì c´è un´idea, una rappresentazione della guerra che mi sembra di grande forza. E anche, direi, più semplicemente, di grande malinconia poetica. Anche se, quando poi fa parlare i personaggi, il film diventa più convenzionale. Però l´uso di quel sonoro e quelle immagini mi sembrarono davvero notevoli».
Pensa ci sia un rapporto tra il cinema e la poesia (che è un´altra sua grande passione)?
«Sono due linguaggi diversi anche se sono tutti e due riconducibili a quell´idea che chiamiamo arte. Poi cosa sia l´arte, ci sono biblioteche intere che se lo chiedono. Però i due linguaggi sono molto diversi, mi sembra. La poesia, diciamo così, è una musica più segreta, più sottile. Tornando a quell´episodio di Luci della città, insomma, è più importante lo sguardo di Chaplin o il modo con cui la mano di lei tocca la giacca del vagabondo, la capacità del cinema di possedere un´allusività molto forte. Che spesso non è riconosciuta, perché il cinema viene letto come copia del reale. Sembra che la sua qualità stia nella quantità di realtà che può riprodurre. Invece è una bugia, perché non è così. Per me, almeno. Però la poesia ha qualcosa di diverso, qualcosa in più, che è la musica. Mentre nel cinema, tutto sommato, anche nelle scene più intense, più raccolte, più intime, beh, noi quello che vuol dire lo vediamo. Più che ad un verso, corrisponde ad un parlare scandito. Qualcosa che si vede, qualcosa che quasi lo tocchi con la mano».
Senta, le posso chiedere se c´è un film che più di altri ha raccontato il mondo della politica in maniera più autentica? Lei, spesso, quando ha parlato della politica, ha parlato della sua fatica, la fatica di dover comunicare, di dover parlare, di dover incontrare persone, eccetera. Per esempio, lei ha scritto di avere una grande ammirazione per le persone che sanno parlare a tantissime altre e nella sua vita le è capitato spesso di incontrarne e di essere lei stesso una di queste persone. Questo piacere o questa fatica della politica, le sembra siano state raccontate in un film?
«Mi pare proprio di no. Ho parlato da qualche parte di qualcosa che sembra un dato molto esteriore della politica: il comizio. Tu sali su un palco, hai dinanzi, come ce le ho avute io molte volte, la piazza piena di gente, a volte strapiena di gente. E un po´ una sceneggiata, un atto teatrale. I saluti, la presentazione, gli evviva, le bandiere. Tutto questo, però, è come l´involucro. Poi comincia invece una cosa molto più difficile e più profonda: tu che stai là sopra, riuscirai a comunicare veramente, cioè a interessare quelle persone, che a volte sono migliaia, a volte sono molte migliaia, molto diverse, grandi, piccoli, bambini? Lo scopri solo se c´è un momento, del comizio, del tuo discorso, in cui senti che ti puoi fermare, senza nemmeno finire la frase. Ti fermi e t´accorgi che la piazza non si muove perché aspetta il seguito della tua frase. Se in quel momento t´accorgi che ti puoi fermare, bere un bicchier d´acqua, soffiarti il naso o non fare nulla e la piazza sta ferma a sentire, allora vuol dire che s´è creato un filo, una comunicazione, un legame tanto forte quanto impalpabile tra te e la massa di persone che ti stanno ad ascoltare».
Un po´ come al cinema
«Eh, forse».
E' l'estate del 1984, è mattina, nell'atrio in ombra d'una vecchia casa di Lenola, appoggiata sui dossi del basso Lazio che nascondono il mare di Sperlonga. Due uomini sono intenti al loro lavoro, senza parlare. Il più anziano è seduto su una poltrona, corregge delle bozze, ogni tanto alza un braccio dietro la testa, pensieroso, un gesto abituale. Davanti a lui su un cavalletto, che come la poltrona non cambia posto per tre mesi, un uomo più giovane lo ritrae su grandi fogli di carta spessa, due metri per tre. Nell'atrio pochi passano, fuori la calura sale. A mezzogiorno i due deporranno fogli e colori e scenderanno al mare, che non è proprio a tre passi. Steso sulla sedia a sdraio o sulla sabbia l'uno, l'altro lo segue e annota su un taccuino i gesti del riposo, a ciascuno peculiari, smemorati, fuori dal tempo. Ma per la posa, se tale si può chiamare una lunga osservazione sul modo di trasformare in immagini la persona che legge davanti a sé, sono le ore tranquille del mattino. Dieci (o undici?) di questi grandi cartoni del 1984 sono esposti qui per la prima volta, a venti anni da quelle mattinate. L'uomo ritratto è Pietro Ingrao, allora era alla soglia dei settanta anni, ancora giovane e teso, conchiuso in se stesso. Sembra colto in un passaggio. Alle sue spalle oltre quaranta anni al vertice del Partito comunista italiano e prima nella Resistenza, poi all' Unità, poi in segreteria, poi alla presidenza della Camera (dove anche vive per essere più vicino al lavoro ma in pochi spazi e imbarazzato di farsi servire, soltanto la domenica uno sciame di nipotini corre strepitando nelle brutte sale dorate). Battuta tutta Italia fra riunioni e comizi, si porta più facilmente in una fabbrica che non si fermi con la stampa di Montecitorio. L'estate torna a Lenola (...). Il fascino che esercita su migliaia e migliaia di militanti viene dall'essere il dirigente che più ascolta, quello che più si interroga, più problematizza e assieme il più assolutamente sicuro. Bello è ascoltarlo in una sala e in una piazza o in un congresso, perché dirà qualcosa che nessun altro ha detto, andrà più a fondo, indicherà una frontiera, avanzerà nella critica - simile a una marea che ritirandosi lascerà le sabbie più feconde, ma il litorale intatto. Una sola volta, all'XI Congresso, l'onda Ingrao s'è alzata troppo e fin la base più adorante si è spaventata e ha lasciato che si rovesciasse contro di lui. Ma sono passati quasi venti anni. Se ne ha patito, non lo dirà. Ingrao è l'alterità e la fedeltà, ben strette assieme, è tutto del suo partito, pretesa ingenua e crudele. Ingrao è un comunista e non muterà, questo è sicuro ma da quella estate in poi si concederà di scrivere anche per sé e in suo solo nome (...).
Enrico Berlinguer è mancato un mese prima, stroncato da un male su un podio di Padova, mentre parlava di un referendum che si sarebbe perduto, ma non ha avuto il tempo di percepirlo. Il futuro del Pci è più incerto. Quell'estate Ingrao non può immaginare quanto. Il decennio che ha davanti e dovrebbe essere lo sfondo di una acquietata maturità, cova veleni. Dal 1984 al 1994 al 2004 precipitano le perdite, anche dei privati affetti, e quelle pubbliche rinviano a domande raggelanti: crolla il Muro di Berlino, e poi l'Unione Sovietica, e poi i partiti comunisti, poi quello italiano cambia nome e non solo, e tutto questo nel rivelarsi d'una putrescenza nazionale nella quale sprofonda la prima repubblica. Ingrao tenterà di sbarrare la svolta del Partito in un congresso che perderà, esiterà a lungo davanti alla prospettiva di separarsene prima che accada il peggio. Ma il peggio arriva con la guerra, la guerra che torna, era impensabile. Ingrao getta se stesso fra la guerra del Golfo e la tentazione del partito di aderirvi. E infatti frena. Ma è l'ultima volta che lo fa. Da un partito cambiato in radice uscirà poco dopo, e solo (...).
In questi ritratti Alberto Olivetti traduce un Pietro Ingrao in concentrazione, sospensione, dubbio. Stati della mente e del cuore, curioso «vero». Concentrata è l'immobilità della testa, il suo solido stare sulle spalle. Non distratta dai lineamenti del volto (salvo in un caso, più giovane e come imbronciato), nascosto e rivelato da un tessuto di colori congiunti e cangianti, stesi a pennellate fini che sembrano un andare e tornare su di sé. Concentrazione è l'imporsi di quel cranio, assolutamente il marchio Ingrao, come un nodo cui è appeso il tutto il resto. Perché sospeso è quel riposo del corpo quanto il cranio è immobile e concentrato, il pittore lo fa fluire con assoluta libertà e lo configura in molti modi - ora è una benevola divinità fluviale e muschiosa di verde con la mano che si perde lontano, ora è il nervoso raccogliersi su se stesso d'un corpo giovane come un anemone di mare violetto, ora si proietta fuori da sé in un gesto subitaneo e fissato, ora si stende e contorce in una sagoma nera e frastagliata. Il colore è sempre puro, pulito. Concentrazione e sospensione sono la forma di una umana medusa che si estende e ritrae «in presenza» del pittore e della sua mano. Mentre il dubbio folgora nell'apparire d'un occhio, anzi di un'orbita fosforescente che ti inchioda. Perché il dubbio di Ingrao non è una fuga agevole dal mondo, come perlopiù praticato oggi, è una domanda lancinante sul come starci. Dubbio è anche solitudine, e sola è la figura che campeggia in tutti i ritratti, senza sfondi, senza parlare che con sé e in un vuoto. Sono raramente quiete, queste immagini di momenti di quiete. Questa inquietudine, quella di un agire sempre interrogandosi e di un interrogarsi sempre per agire, è il segno che in molti di noi Pietro Ingrao ha lasciato una volta per sempre. Lo «spazio della pittura» di Alberto Olivetti è, stavolta, questo.
Carissimo Ingrao, innanzitutto, da parte di tutti noi, i complimenti per i tuoi straordinari novant'anni e i più forti auguri per quelli a venire. Il tuo vissuto è stato per tanti di noi e per me grandemente utile, e sottolineo l'aggettivo utile nel senso forte usato da Brecht nelle storie di Me-Ti. Utile e originale: nella nostra formazione -consentimi - il fattore I è stato sempre importante e, ripeto, utile anche nelle battaglie perdute. Lo ammetto, il valore forte del fattore I non lo ho (non lo abbiamo) capito subito; c'è stato un tempo di incomprensioni e risentimenti e mi dispiace che questo ti abbia indotto anche ad autocritiche, generose, ma forse non utili. Ci è voluto del tempo - almeno per me - per capirlo, ma ci hai insegnato due cose. La prima è che non si entra in politica, non si ha la superbia di occuparsi degli altri e anche di orientarli, con l'obiettivo - pure legittimo - di accrescere il proprio personale potere. Si entra in politica, ci si consente la superbia di orientare, di indicare la giusta via solo per la passione di esplorare, di cercare, di tentare di individuare il percorso giusto nel labirinto della realtà presente. La seconda è - direi - l'etica della responsabilità: quando si arriva a un punto di rottura con qualcosa che è più grande e che coinvolge il destino di molti si può, forse si deve, fare un passo indietro. Non rinnegare ma tacere e anche subire.
Credo che nella lettura del fattore I, amici e avversari abbiano commesso l'errore di trascurare il peso della poesia, considerata più un tuo vezzo o una debolezza piuttosto che - come credo sia - che una componente decisiva. La poesia - lo insegnano i poeti maggiori - non è una divagazione letteraria. La poesia è espressione massimamente sintetica di ricerca, di tensione culturale e morale, che contrasta lo stato di cose esistente. Pensiamo solo al nostro Leopardi e anche alla lezione di Luporini. Nella lettura del fattore I abbiamo sempre, erroneamente, sottovalutato o messo al margine il potere della poesia e della poesia del tuo tempo; una poesia peraltro poco accetta al tuo partito. Ricordo un articolo di Togliatti su Rinascita, nel quale esprimeva pena e, direi, commiserazione per quei giovani contemporanei che si dovevano contentare di Montale e di Morandi. Ma come si fa a tentare una lettura di Ingrao prescindendo da Ungaretti e Montale? Dal «codesto solo oggi possiamo dirti...» al desiderio spasmodico della formula che dischiuda la conoscenza del mondo. Questa continua presenza della poesia nell'agire politico la si ritrova in molti titoli degli scritti di Ingrao: «le cose impossibili, l'alta febbre del fare», «il dubbio dei vincitori», «variazioni serali», «masse e potere».
La spinta della poesia alla ricerca, alla decifrazione del presente, all'individuazione del futuro, è stato l'assillo permanente di Ingrao insieme all'alta febbre del fare, che spiega e giustifica molte sue scelte, anche recenti e non sempre condivise. Anche il famoso XI congresso del Pci va letto nella chiave della ricerca, nell'ansioso tentativo di individuare il futuro. C'era stato il miracolo italiano, si potevano scorgere gli annunci del `68 e Ingrao si avventurò nella generosa illusione del nuovo modello di sviluppo di fronte alla trasformazione e al rinnovamento del capitalismo italiano. Il presente gli dà torto, ma allora bisognava guardare avanti anche a costo di sbagliare. E sempre in questo non dimenticato XI congresso la rivendicazione del diritto al dissenso non era la richiesta di una garanzia democratica o democraticistica ma la riaffermazione del dovere comunista alla ricerca. Ed è la prevalenza di quest'ansia di ricerca sulle finalità (legittime) di potere personale, che spiega la specificità del gruppo dei suoi sostenitori e la natura degli «ingraiani» che gli rassomigliavano e gli rassomigliano.
Nei diari di Dimitrov si può leggere il testo di un sintomatico brindisi di Stalin. Un brindisi ai «quadri intermedi», nel quale Stalin afferma che Trotsky e Bukarin erano molto più brillanti e importanti di lui ma che furono sconfitti perché, a differenza di Stalin, non si basarono sui quadri intermedi. Ingrao ha avuro il consenso e l'ammirazione di molti quadri intermedi ma non ne ha mai fatto la sua forza. E quelli che gli sono stati e gli sono più vicini sono tutto il contrario dei quadri intermedi di cui parlava Stalin: del tutto inadatti a trasformarsi in un disciplinato gruppo di sostegno, cosa che peraltro fuoriusciva dall'ottica di Ingrao.
Dall'osservazione attenta e dalla partecipazione di buona parte dei tuoi novant'anni un po' di cose le abbiamo imparate e abbiamo anche imparato ad apprezzare i dissensi pur se aspri e dolorosi. E adesso? Adesso, quando per l'età avanzata tutti siamo indotti ad avere più fretta e si alza la febbre del fare? Adesso ci ritroviamo nell'antico e umanissimo mito di Sisifo: uno scrittore ha detto che in Sisifo c'era dell'ironia. Cerchiamo di avere anche noi questa fiduciosa ironia, pur con il dubbio, non sterile, che qualcosa è cambiata o va cambiando nel masso che dobbiamo spingere a monte. In ogni modo, forza, complimenti per gli anni passati e auguri per quelli che arrivano.
Norberto Bobbio nasce a Torino il 18 ottobre 1909. Studia al liceo Massimo D'Azeglio. In quegli anni conosce Leone Ginzburg, Cesare Pavese e Vittorio Foa.
Nel 1927 si iscrive alla facoltà di giurisprudenza, allievo di Francesco Ruffini, Luigi Einaudi e Gioele Solari. Nel 1931, dopo la laurea, si trasferisce in Germania e a Heidelberg frequenta i corsi di Gustav Radbruch. Stringe amicizia con Karl Jaspers e poi, a Marburg, con Renato Treves e Ludovico Geymonat.
Nel 1932 consegue una seconda laurea in filosofia con una tesi sulla fenomenologia di Husserl. Nel 1934 ottiene la libera docenza e, con il saggio L'indirizzo fenomenologico nella filosofia sociale e giuridica, comincia una intensa collaborazione con riviste scientifiche non solo italiane.
Nel 1935 è coinvolto nella retata con cui il regime fascista cerca di liquidare il gruppo torinese di Giustizia e Libertà. Arrestato il 15 maggio, insieme a Vittorio Foa, Carlo Levi, Augusto Monti e Cesare Pavese, viene rilasciato con una semplice ammonizione. L'8 luglio Bobbio decide di scrivere a Mussolini per affermare la sua adesione al fascismo.
Alla fine dello stesso anno ha un incarico all'università di Camerino. Due anni dopo è, con Guido Calogero e Aldo Capitini, nel processo di costituzione del «movimento liberal-socialista». Nel 1938 concorre per l'abilitazione al ruolo di docente, ma viene prima escluso e poi riammesso grazie alla mediazione di uno zio generale che fa intervenire De Bono con una lettera a Mussolini. Ottiene la cattedra a Siena.
Nel 1941 cura per Einaudi una edizione critica della Città del sole di Campanella. E' l'inizio di una collaborazione che lo farà diventare uno dei più ascoltati consiglieri dello Struzzo. Il 28 aprile 1943 sposa Valeria Cova. Resteranno insieme per 57 anni, fino alla morte di lei. Nel `43 a Padova è arrestato dai repubblichini. Rilasciato a febbraio del `44 pubblica La filosofia del decadentismo.
Nel 1946 escono due saggi su Karl Popper editi dalle riviste «Belfagor» e «La rivista di filosofia». La sconfitta alle elezioni del 1948 del Partito d'Azione coincide con il suo ritiro dalla scena politica. Nel 1955 in due importanti raccolte, gli Studi sulla teoria generale del diritto e Politica e cultura, affronta il ruolo dell'intellettuale nella società. Partecipa a un viaggio di intellettuali italiani in Cina ma non cambia il suo giudizio critico nei confronti del maoismo. Dal `55 al 1965 si occupa dei grandi classici del pensiero politico moderno. Gli scritti di questo periodo saranno raccolti nel volume Teoria generale del diritto.
Nel 1968 appoggia con convinzione l'unificazione socialista. Della contestazione studentesca condivide le «esigenze di rinnovamento» ma ne critica l'«esasperazione verbale». Nel 1969 escono i Saggi sulla scienza politica in Italia dove si occupa dei teorici delle elites. Sempre nello stesso anno viene pubblicato un Profilo ideologico del Novecento italiano, una brillante sintesi di fatti, protagonisti e tendenza della nostra cultura. Nel 1971 esce Una filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo. La pubblicazione nei «Quaderni di Mondo Operaio» di un saggio in cui nega l'esistenza di una teoria marxista dello Stato provoca un vivace dibattito che coinvolge Bobbio nelle vicende del Psi.
Nel 1976 esce Quale socialismo? Discussione di un'alternativa che contiene le sue riflessioni su «questione socialista e questione comunista». Comincia la sua collaborazione con La Stampa. I suoi articoli saranno pubblicati in Ideologie e poteri in crisi, L'utopia capovolta, Verso la seconda Repubblica. Nel 1978 fa parte del gruppo che sostiene la candidatura Giolitti al congresso socialista di Torino. I suoi rapporti con Craxi saranno cordiali ma distanti politicamente e culturalmente. E già nei primi anni `90 Bobbio sottolineerà i rischi legati all'indifferenza per la «questione morale» e la deriva verso la «democrazia dell'applauso» del Psi. Il 16 maggio 1979 tiene la sua ultima lezione universitaria. In quell'anno escono Società e Stato nella filosofia politica moderna e Il problema della guerra e le vie della pace.
Nel 1984 viene nominato senatore a vita da Pertini. Pubblica Il futuro della democrazia e la raccolta dei ritratti politici e intellettuali Maestri e compagni. Nel 1989 raccoglie gli scritti su Thomas Hobbes e pubblica Il terzo assente sul problema della guerra e della pace. Nel 1990 esce L'età dei diritti, mentre l'intervento Una guerra giusta?Sul conflitto del Golfo suscita una vasta discussione tra gli intellettuali italiani.
E' del 1993 la prima edizione di Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, un pamplhet che raggiunge tirature da best-seller. Lo stesso anno ritorna sul ruolo degli intellettuali con Il dubbio e la scelta. Sono del 1996 la raccolta De senectute e altri scritti autobiografici e Tra due repubbliche, scritti del periodo della Resistenza. Nel 1997 esce l'Autobiografia; nel 1999, Michelangelo Bovero raccoglie gran parte della sua opera nel volume Teoria generale della politica. Del 2001 è un Dialogo intorno alla Repubblica.
Pubblichiamo per gentile concessione del Centro Studi Piero Gobetti parte del discorso inedito sulla Resistenza tenuto daNorberto Bobbioil 20 aprile ‘55 al Centro Universitario Cinematografico di Torino.
Vi sono alcuni giovani, a quanto leggo in una lettera pubblicata su Ateneo, i quali vorrebbero si mettesse una pesante pietra tombale sulla Resistenza, perché è stata una «guerra fratricida», come se colui che difende la libertà potesse riconoscere come fratello colui che la opprime, o colui che sofferse nei campi di sterminio nazisti potesse riconoscere come fratello colui che aiutava in patria i nazisti a prolungare il loro dominio in Europa. «Fratricida» solo nel senso che tutti gli uomini sono fratelli; ma allora tutte le guerre, e non solo la Resistenza, sono fratricide. Orbene vorrei invitare uno di questi giovani, che ostentano tanta saggezza, di andare a leggere uno dei quei giornali studenteschi che si stampavano nel periodo «glorioso» del fascismo, quando questi giornali erano diventati «politici», ma di quella sola politica che piaceva ai gerarchi e il loro compito principale era di attaccare, con maggiore accanimento e maggiore improntitudine di quel che fosse lecito ai rispettabili quotidiani, i nemici che di volta in volta i gerarchi indicavano loro. Se non prova vergogna o orrore, vuol dire che la sua testa è ermeticamente chiusa a comprendere i problemi della democrazia e del progresso civile (…). Ma se arrossisce, o magari scoppia in una risata, o ammette che ora si possono scrivere cose magari non sempre sublimi, ma non si cade più nella cieca faziosità o nella ciarlataneria di venti anni fa, vuol dire che anch´egli ormai respira, magari senza accorgersene, o non volendolo riconoscere, la nuova aria creata dalla Resistenza. E quest’aria poi, creata dalla Resistenza, è semplicemente l’aria della libertà. Se dovessi dire in breve quel che distingue un regime di libertà da un regime di servitù direi che mentre la servitù è un malanno per tutti, anche per coloro che ne traggono vantaggio, la libertà è un beneficio per tutti, anche per coloro che la sconfessano.
Oltretutto, coloro che rifiutano la Resistenza italiana devono rifiutare il grande moto storico di liberazione che ha scosso tutta l’Europa. La Resistenza italiana è solidale con la Resistenza europea. Gli apologeti del fascismo come gloria nazionale, si rassicurino: il fascismo nel 1943 era diventato un moto quasi universalmente europeo, e ovunque sinonimo di violenza e terrore. L’Italia ha avuto un indiscusso primato; ma la gloria di essere stata fascista l’ha poi dovuta dividere, fortunatamente, con gli altri paesi. Ebbene, la Resistenza rappresenta l’inserimento di una parte degli italiani nella lotta europea per la libertà. Vogliamo respingere la resistenza italiana? Dobbiamo allora, se vogliamo essere coerenti, respingere anche la Resistenza europea. Ma chi respinge la Resistenza europea, dovrà assumere su di sé la responsabilità di dichiarare che il suo ideale di vita sociale sono i campi di sterminio e la discriminazione razziale. Non volete la Resistenza? Allora volevate Hitler. La storia è una selva intricata, dove non vi è talora che un piccolo sentiero che conduce all’aperto. Nei momenti cruciali ci pone di fronte a dure alternative. O di qua o di là. (…)
A coloro che non vogliono più saperne della Resistenza perché in Italia le cose non vanno come dovrebbero andare, c’è da rispondere che la nostra non sempre lieta situazione presente dipende da una ragione soltanto: che non abbiamo ancora appreso tutta intera la lezione della libertà. E siccome l’inizio di questo nuovo corso della libertà è stata la Resistenza, si dovrà concludere che i nostri malanni, se ve ne sono, non dipendono già dal fatto che la Resistenza sia fallita, ma dal fatto che non l’abbiamo ancora pienamente realizzata.
Dopo dieci anni cominciamo soltanto ora a comprendere di quali enormi difficoltà sia irta la vita di un regime libero. Abbiamo imparato che un regime di servitù, quand’è giunto al momento della sua esasperazione, si può strozzare in poco tempo, ma la libertà per consolidarla ci vogliono decenni. Per uccidere un malvagio, basta un tratto di corda. Ma per fare un uomo onesto, quante cure, quanti affanni, quanti sacrifici. E poi, qualche volta, nonostante la buona volontà, non ci si riesce neppure.
Squillano in continuazione i telefoni di casa Foa a Formia. I giornali vogliono sapere di Bobbio. E Foa, il suo vecchio amico fin dai tempi dell’università, sempre restio a usare la memoria perché preferisce ragionare sul futuro, sa di dover parlare. Alle agenzie dice di essere commosso non addolorato. E si capisce che per Foa la morte ha chiuso una bella vita, una vita «positiva»: la commozione al posto del dolore testimonia il privilegio della vita del suo amico filosofo. «Ci siamo conosciuti quando eravamo studenti universitari. Laureati nello stesso luglio del 1931, facoltà giuridica dell’università di Torino».
Lei era già antifascista?
«Io sì».
Bobbio, invece?
«Non si impegnava politicamente e non era mai stato un cospiratore ma io ho sempre pensato, anche allora, che le sue idee fossero idee pulite e non idee torbide. L’ho conosciuto sempre come un uomo dalle idee pulite. Col pensiero rivolto al futuro collettivo. Mai idee rivolte alla violenza contro gli altri. In realtà, al di la di quel che ha detto, Bobbio non è mai stato fascista».
A Torino eravate un gruppo consistente...
«Sì. Amici che si frequentavano e si divertivano anche. Andavamo a ballare. Sia ben chiaro: non eravamo gente che si vedeva solo per studiare. C’era il cinema, il ballo, il trovarci con le ragazze. C’erano poi anche i gruppi di attività cospirativa, che però erano un’altra cosa. Con Bobbio era una vita di amicizia orientata in modo positivo».
Con lui ha mai parlato delle sue attività cospirative?
«No. Pensavo che non avesse senso metterlo al corrente di una attività di cui lui non faceva parte. Lui si occupava di studio ad altissimo livello e ritenevo fosse giusto si occupasse di questo. La differenza tra lui ed altri è tutta qui: lui ha sempre privilegiato lo studio e la riflessione rispetto alla politica contingente».
Chi c’era nella squadra di amici di cui Bobbio e lei facevate parte?
«Eravamo tanti. C’erano i fratelli Galante-Garrone, Alessandro e Carlo. Molto importante per il suo ruolo, Giorgio Agosti. C’era Livio Bianco e tutti i partigiani che poi sarebbero confluiti in Giustizia e libertà. Ettore Gelli, Carlo Ziini, Alberto Levi fratello di Natalia, Leone Ginzuburg. Molti altri come Carlo Levi e altri ancora».
In queste vostre amicizie di giovani contava il filo dell’antifascismo?
«Secondo me contava molto anche se non era mai dichiaratamente espresso. Non si poteva dire tranquillamente “sono antifascista” se non eri dentro un certo giro. Parlavi delle altre cose attribuendo un senso positivo di rispetto degli altri, di profonda aspirazione alla giustizia sociale. E già questo era un prendere posizione».
Poi le strade si sono diversificate. Lei finì in carcere. Si perse di vista con Bobbio?
«Quando uscii di prigione, erano gli ultimi giorni d’agosto del 1943 (pochi giorni dopo ci fu l’occupazione tedesca e dovetti tornare in clandestinità nella Resistenza), appena fuori andai a trovare i miei genitori che erano sfollati sulle colline torinesi. Due giorni dopo venne a trovarmi in macchina Bobbio. Aveva saputo che ero uscito e voleva vedermi. Non ci vedevamo da dieci anni, io li avevo trascorsi in carcere e...»
...Il presidente del Consiglio direbbe che anche lei aveva avuto il privilegio di essere mandato in «villeggiatura» dal fascismo...
«...E’ naturale! ma lasciamo perdere... Naturalmente, parlammo della situazione e io rimasi molto colpito dalla forza del suo sentimento socialista che non era schematico per nulla, perché non c’era nulla di schematico in Bobbio. In Bobbio la ricerca era ricerca vera, mai schematismo. Ma c’era calore e passione nella ricerca del senso della giustizia sociale. Mi colpì moltissimo. Anche perché erano molti anni che non parlavamo di queste cose e per la prima volta dopo tanto tempo discutevamo insieme e liberamente di tutto questo».
Foa, quando capì che Bobbio era uno studioso di altissimo livello?
«Si capì subito. In lui c’era una cosa straordinaria. Amava molto la democrazia ma aveva anche questo spirito di critica della democrazia. Sapeva che nella democrazia ci sono molte cose che non vanno e che quindi bisogna amare la democrazia ma anche criticarla, conoscere le cose che non vanno e correggerle: le ingiustizie, le violenze, gli arbitri. È stato il portatore di un senso dinamico nella lotta per l’affermazione della democrazia».
Dopo di allora vi siete ritrovati nel partito d’azione. Bobbio come ci arrivò?
«Lui seguì una via diversa dalla mia. Una via che veniva dal Veneto, da Padova. Bobbio aveva partecipato all’attività padovana».
Né Bobbio né lei siete mai stati comunisti. Lei però fece l’esperienza del Psiup, molto vicino all’Urss. Bobbio, invece, fu sempre molto severo sull’esperienza dei paesi che vennero chiamati del socialismo reale.
«Tra Bobbio e me non fu questa la differenza. Anche io sono sempre stato molto severo con l’Urss. Lui era un socialista moderato. Apparentemente moderato, perché in realtà aveva principi molto fermi. Io invece ero più legato alle vicende politiche più contingenti. Se però dobbiamo pensare al contributo di Bobbio lo vedrei non tanto nel contenuto immediato delle sue posizioni politiche quanto nel valore dell’esempio, dell’esempio civile che lui ci ha dato. Lui ha concepito la politica anche come educazione attraverso l’esempio ed è secondo me un contributo molto importante di cui la Repubblica italiana gli è debitrice. Siamo debitori della capacità di vedere nella politica anche l’insegnamento di un costume e di un comportamento».
Per Bobbio, lei e i vostri amici di generazione, l’etica quanto ha pesato? Avevate letto molti libri, più delle generazioni successive, ma la morale quanto contava?
«Per alcuni i libri sono stati decisivi. Per altri, hanno inciso di più le esperienze. Io credo che ognuno di noi è stato fatto dall’esperienza. Tenga conto che eravamo diversi uno dall’altro anche quando poi insieme sentivamo il valore etico, che era vero».
Quando l’ha incontrato per l’ultima volta?
«Ci siamo incontrati spesso. Spesso Bobbio è venuto a pranzo a casa mia. E l’ho incontrato anche a casa del figlio Andrea. Bobbio era molto legato alla famiglia, è un aspetto molto positivo della sua vita. Ho sempre molto ammirato il modo affettuoso di Bobbio e la sua tenerezza verso i figli e la moglie, Valeria Cova, una donna singolarmente attiva e positiva, una persona deliziosa morta pochi anni fa. Io sono ancora oggi molto legato a due dei suoi figli: Luigi ed Andrea».
Cosa ci lascia Bobbio?
«Possiamo dire che lascia agli italiani, e non solo agli italiani, la lezione di come si deve vivere insieme. Intanto, bisogna imparare a vivere, e non è una cosa facile. E a vivere insieme, non è una cosa facilissima. Bisogna saperlo fare e imparare a farlo. Lui ci ha insegnato a fare queste cose qui».
Norberto Bobbio aveva compiuto novantaquattro anni il 18 ottobre. Si spegne con lui una delle più alte e generose coscienze critiche della nostra democrazia. Si cancella il promemoria vivente d´un secolo. Da oltre sessant´anni, quando collaborò agli esordi clandestini del partito d´Azione e ancora prima, quando, giovane professore, incappò nei rigori giudiziari del fascismo, la sua presenza nella vita politico-culturale italiana si è fatta sentire nelle forme più varie, con elaborazioni teoriche e interventi di attualità. Fu lui, sulla metà degli anni Cinquanta, a stabilire con Palmiro Togliatti un dialogo sia pure aspramente contestativo, legato alla convizione che fosse necessario legare più saldamente l´estrema sinistra alle nostre istituzioni. Più tardi, vennero dal professore torinese le più decise obiezioni alla politica craxiana. Essa - dopo un inizio che giudicò promettente - gli parve tradire quegli ideali socialisti che da sempre lo animavano.
Con la sua azione di stimolo e di monito, il filosofo torinese avrebbe poi seguito i momenti di svolta della sinistra italiana dopo la dissoluzione dell´universo comunista. Da ultimo, aspramente contestato dai cultori di quella voga storiografica per i quali l’azionismo (o ciò che ne resta) è il nemico giurato, Bobbio ha diradato i suoi interventi. Ma le sue messe a punto, pur soffuse di un’amarezza da vegliardo, sono altrettante lezioni.
Dalla fine degli anni Settanta ho intrattenuto con Norberto Bobbio rapporti continui. Gli telefonavo. Ci vedevamo a volte a Torino. Più regolarmente a Roma, nella sua stanza all’hotel Santa Chiara o nel suo piccolo ufficio di senatore a vita in palazzo Giustiniani, finché le condizioni di salute gli hanno consentito di partecipare alla vita parlamentare. Bobbio percorreva amabilmente i suoi ricordi, interveniva sull’attualità. Di queste conversazioni trascrivevo i brani che più mi colpivano, dividendoli per argomento. Quei fogli mi aiutano a ricordarne i gesti, la voce, la sobria passionalità, i disinganni.
Maestri e compagni. Fra i primi amici fu Leone Ginzburg, compagno di classe di Bobbio al liceo D’Azeglio di Torino. Originario di Odessa, ebreo, aveva girato il mondo. Intorno al 1925, era già un antifascista deciso. Gli amici provavano nei suoi confronti un certo complesso d’inferiorità. Li impressionava il sentir dire da un loro coetaneo che Mussolini era un ciarlatano, che avrebbe distrutto l’Italia. Ciò completava la lezione di antifascismo impartita da alcuni insegnanti. Uno era Zino Zini, professore di filosofia, mite e dottissimo. Aveva collaborato all’Ordine nuovo di Gramsci, era comunista. Per i fascisti, un sovversivo. Un reprobo era considerato anche il professore d’italiano Umberto Cosmo, ex redattore della Stampa ed ex neutralista: come dire, agli occhi del regime, un nemico. «Due professori così lasciano il segno», raccontava Bobbio. Ma ancora più profonda fu l’influenza di Augusto Monti. Insegnava anche lui italiano, ma nella sezione B del D’Azeglio (Bobbio era nella A), avendo per allievi Cesare Pavese, Massimo Mila, Giulio Einaudi. Monti li incontrava, con Bobbio, Ginzburg e Vittorio Foa, una volta la settimana al «Rattazzi», un piccolo caffè al centro di Torino. Il professor Monti dirigeva allora, in incognito, Il Baretti, la terza rivista di Piero Gobetti, che sopravvisse al suo fondatore per un paio d’anni. Bobbio, Mila, Ginzburg vi scrissero i loro primi articoli. «Attraverso Monti e la collaborazione al Baretti, per noi Piero Gobetti sarebbe diventato un personaggio mitico». Più tardi, all’università, Bobbio avrebbe trovato altri professori avversi al regime: Luigi Einaudi, Francesco Ruffini, Gioele Solari.
Il primo arresto. A venticinque anni, laureato in giurisprudenza e in filosofia, Bobbio si considerava politicamente meno maturo di un Ginzburg o di un Mila. Meno convinto dell’antifascismo. Il suo primo scritto «consistente» uscì sulla Cultura di Giulio Einaudi, la rivista per la quale l’editore sarebbe stato arrestato l’anno successivo. Il 15 maggio del ?35 arrestarono anche Bobbio, nella grande retata che liquidò il gruppo torinese di Giustizia e Libertà. Vi furono coinvolte una trentina di persone: fra i primi Ginzburg, Foa e Mila, che erano a capo del movimento. Foa e Mila andarono in carcere. Antonicelli e Pavese, al confino. Bobbio, visto come un congiurato «a latere», venne liberato dopo una settimana. Questo precedente non danneggiò troppo la sua carriera accademica. Al concorso per cattedra, che si tenne nel ?38, Bobbio fu inizialmente espulso in conseguenza dell’arresto di tre anni prima. Ma poi venne reintegrato (anche per l’intervento di Emilio De Bono, amico di famiglia) e vinse il concorso. Presidente della Commissione era Giuseppe Capograssi, un cattolico antifascista.
L’insegnamento. Per tre anni, giovane docente a Camerino. Poi, ordinario di filosofia del diritto a Siena: un biennio di studio intenso. Ma anche di contatti politici. Bobbio ha una piccola auto, viaggia con piacere. A Perugia c’è Aldo Capitini, uno dei capi del liberalsocialismo, il movimento fondato da Guido Calogero che continua la tradizione di Giustizia e Libertà. Figlio del guardiano del palazzo comunale di Perugia, Capitini ha per sé una stanzetta in alto, nel municipio, sotto il campanile: questa specie di abbaìno diventa un punto di convegno per dissidenti politici. Capitini di tanto in tanto interrompe la conversazione per correre a suonare le campane (è un compito che gli ha affidato suo padre).
Capitini aveva pubblicato nel ?37 una sorta di libro-guida dell’antifascismo, Elementi di un’esperienza religiosa. I temi portanti erano tre: la non collaborazione al male, la non-menzogna, la non-violenza. Tutti di alta spiritualità. «A Perugia ci si vedeva con Walter Binni, letterato, figlio del farmacista di piazza del Duomo, e con Arturo Massolo, professore di filosofia al liceo. A Siena, i liberalsocialisti erano Mario Delle Piane, Leone Bortone e Michele Gandin. In totale, pochissimi».
Nel partito d’Azione. Di antifascisti Bobbio ne trova pochi anche a Padova, dove va a insegnare nel ?40. Ad esempio, un suo assistente di grande avvenire accademico, Enrico Opocher. Nel Veneto c’erano altri gruppetti. A Treviso Bruno Visentini, vicino a Giustizia e Libertà. Appunto a Treviso avvenne, nel ?42, la fondazione del Partito d’Azione veneto. Arrivò da Milano Ugo La Malfa. Era l’unico che avesse partecipato alla vita politica prefascista, nel gruppo di Giovanni Amendola. «Rappresentava», testimonia Bobbio, «il nostro tramite con il "mondo di ieri"». Nel Partito d’Azione Bobbio sarà vicino al gruppo fiorentino, capeggiato da Calamandrei e Tristano Codignola. Ma provava una solida analogia d’idee con i torinesi, provenienti da Giustizia e Libertà: fra gli altri, Alessandro Galante Garrone, Giorgio Agosti.
Ascoltando Croce. Bobbio conobbe il filosofo nel 1933. Da Meana, in val di Susa, dove villeggiava d’estate, Benedetto Croce andava spesso a Torino, alla Biblioteca nazionale. Bobbio era laurendo in filosofia. «Che cosa consulta?», gli chiese una mattina il senatore. «Sto studiando Husserl». «Ah, interessante», fu il laconico commento. Ma ci furono altri incontri, nella casa torinese di Oreste Rossi, cognato di Croce, o dall’italianista Carlo Dionisotti. Poi il filosofo napoletano si trasferì, d’estate, a Pollone nel Biellese. Poco distante aveva casa Franco Antonicelli. Ancora una volta, Croce era fisicamente vicino agli antifascisti torinesi. Parlava volentieri, ascoltava poco. Ma Bobbio e gli altri ragazzi avevano letto tutti i suoi libri. «Dividevamo il mondo in crociani e non crociani: chi non era crociano era un povero diavolo». L’essere impregnati di Croce li aiutò molto, nel momento di fare una scelta avversa al regime littorio. Più tardi il Croce politico militante, con il suo liberalismo e la sua polemica contro il Partito d’Azione, li scontentò. Ma non per sempre. Nel profondo, Bobbio ha continuato a considerarlo il maestro della sua giovinezza.«Ho sempre pensato che Croce, non ostante il suo spiritualismo di tradizione tedesca, avesse un grande senso della realtà. A differenza di Gentile». Verso il teorico dello Stato etico ebbe infatti un atteggiamento assai più cauto. Oscillava fra il considerarlo «un uomo intellettualmente vigoroso e moralmente generoso» e a bollarne gli atteggiamenti politici come quelli d’«un retore e un corruttore».
Altri maestri. Nel Profilo ideologico del Novecento, Bobbio cita in coppia Luigi Einaudi e Gaetano Salvemini. «Ci hanno insegnato», diceva, «che per fare politica occorre conoscere i problemi uscendo dalle astruserie filosofiche». Entrambi erano legati a Cattaneo, «l’ unico filosofo italiano che non sia un metafisico». In Cattaneo s’era riconosciuto con entusiasmo Piero Gobetti, figura centrale del liberalismo. «Salvemini, Einaudi, Gobetti: la lezione di Cattaneo l’ho ricevuta da queste tre fonti». Altri maestri di realismo politico sono, per Bobbio, Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca.
Il secondo arresto. E’ a Padova, il 7 dicembre del 1943. Il federale della città ha ordinato che i docenti dedichino una lampada votiva ai martiti fascisti. Bobbio, con qualche collega, si rifiuta e finisce in manette. Per qualche settimana lo tengono chiuso in una caserma. Seguono tre mesi di permanenza a Verona, in quel carcere degli Scalzi dove sono rinchiusi Ciano e gli altri «traditori» del 25 luglio. Il giorno della loro fucilazione, il filosofo torinese è lì.
Prigione. Interrogatori. Una mattina, per spaventarlo, fanno credere al detenuto Bobbio di aver arrestato anche sua moglie, incinta. «Se non confessate dov’è nascosto Concetto Marchesi, né voi né vostra moglie uscirete vivi da qui». Marchesi, celebre latinista, è un capo dell’antifascismo, legato al Pci. Bobbio, che non sa dove sia, viene rilasciato nel febbraio del ?44.
Che cos’è un intellettuale. E’ una persona che deve essere «indipendente» dalla politica, non «indifferente» ad essa. Non deve asservirsi al potere. Deve però occuparsi anche di questioni nelle quali sono in gioco rapporti di potere. «Seminare dubbi è certo una funzione importante dell’intellettuale». Seminarne. Nutrirne. A costo di apparire, o di essere, fragile. L’uomo di cultura «non è al di sopra della mischia. Viene trascinato, come tutti». Anche Benedetto Croce? Certo, anche lui. Durante la prima guerra mondiale, era un Realpolitiker. Irrideva gli ideali. E’ famosa una frase che scrisse nel 1917. Suonava così: «Io sarò sempre grato a Marx per avermi liberato dalle alcinesche seduzioni della dea Giustizia e della dea Libertà». Poi, venuto il fascismo, con quelle dee Croce ha dovuto fare i conti. E’ diventato un campione, appunto, di libertà.
Lui e i comunisti. Fu molto seguita la discussione fra Bobbio e Togliatti. Si svolse fra il ?54 e il ?55 fra Nuovi Argomenti e Rinascita. «Allora i comunisti erano presi dall’idea del Partito con la p maiuscola. Il partito di massa come il "novello Principe", per dirla con Gramsci». Lui, Bobbio, sosteneva che i diritti dell’uomo sono il presupposto di qualsiasi convivenza civile, e non accettava la distinzione (sulla quale Togliatti insisteva) tra «libertà formale» e «libertà sostanziale». Il professore non tollerava di veder sbeffeggiati gli «ideali dell’Ottantanove». Le posizioni, fra i due, erano molto lontane. Ma, almeno, si parlava. Bobbio ne era compiaciuto. «Il mio intervento terminava così: "Ora il dialogo è veramente cominciato"».
L’ideologia italiana. Ecco uno dei bersagli polemici di Norberto Bobbio. Si tratta di «un certo spiritualismo di maniera» che pervade la nostra cultura e che «scomunica, dovunque appaiano, positivismo, empirismo, utilitarismo come filosofie volgari, anguste, mercantili, impure». Cattaneo ne fu una vittima, «soffocato tra giobertismo e idealismo». Più tardi, Giovanni Gentile sarebbe stato uno dei campioni dello spiritualismo (di destra). I marxisti, fino a qualche decennio fa, erano gli araldi di una sorta di spiritualismo rovesciato «che contrapponeva allo Spirito con la s maiuscola la Materia con la m maiuscola». Queste filosofie dell’assoluto, delle certezze, del progresso garantito hanno ritardato, secondo il pensatore appena scomparso, lo sviluppo in Italia di quelle correnti pragmatiste, neoempiriste, neopositiviste, di radice anglosassone, che studiosi come il suo collega Nicola Abbagnano, a Torino, credevano più adatte a una società democratica e pluralista. Quando il sapere empirico diventerà davvero una bussola per la politica?. Era la domanda che il filosofo torinese, fervido seguace di Carlo Cattaneo, non si stancava di porsi.
La democrazia è un’abitudine? In Italia essa, secondo Bobbio, non era mai stata molto di casa. Invece oggi c’è. E’ entrata, a dispetto di tutto, nel costume. In democrazia è naturale che prevalgano le filosofie adatte a questo modo di vivere: cioè di tipo relativistico, empiristico appunto, non assolutizzanti. Ciò si accompagna alla scomparsa dell’intellettuale rivoluzionario, che crede davvero alla grande avventura della trasformazione. Avendo perso il senso di quella sua «missione», l’intellettuale trova presso i politici forse minor ascolto di prima. Qualche esempio concreto? Craxi conquista nel 1976 il Psi. Qualche tempo più tardi, un gruppo di uomini di cultura di «area» socialisti (Bobbio è fra questi) rende pubblica una lettera in cui si danno dei consigli al nuovo segretario. Craxi li respinge, «dicendo di non riconoscere alla corporazione degli intellettuali alcun diritto privilegiato».
La cultura e i sergenti. Poco entusiasta di Craxi (ancor meno lo sarà di Berlusconi), il filosofo torinese cercava però di capire tutto. Anche l’«antintellettualismo» dei politici. Citava, trovandola assai espressiva, una battuta che Julien Benda inserì in un suo libro, desumendola da un aneddoto tolstoiano. Durante una marcia militare un sergente strapazza brutalmente un soldato. Accanto c’è un intellettuale, che si rivolge scandalizzato al sergente: «Che diamine, lei non ha mai letto il Vangelo?». «E lei», ribatte il sergente, «non ha mai letto il regolamento militare?». Emerge dall’apologo il timore che il ceto politico diventasse una casta con un suo apposito «Vangelo».
La politica, un duello civile. E’ del 1994 il libro più fortunato di Bobbio. S’intitola Destra e sinistra. Lo pubblica l’editore Donzelli, avrà numerose ristampe, raggiungendo una diffusione del tutto insolita nella saggistica politica. E’ una sorta di testamento. Pur considerandosi un moderato e giudicando anacronistico ogni estremismo, Bobbio non condivide l’appiattimento che porta con sé l’asserita «caduta delle ideologie». La politica rimane per lui un universo conflittuale. Destra e sinistra non sono termini obsoleti. Nessuna «corsa al centro» smentisce l’esistenza di queste due realtà in competizione, anzi la rafforza. «Quale centro potrebbe nascere senza due poli»?, insisteva nel chiedersi Bobbio. Il centro, più che un’appartenenza, è una qualità della politica. Una sinistra che guardi verso il centro, e una destra che guardi anch’essa al centro sono garanzia di alternanza nelle moderne democrazie. Per moderata che sia, la sinistra non deve smarrire il senso della propria distinzione. Fra i suoi connotati, prevalente è l’atteggiamento nei riguardi degli immigrati. A sinistra, si tende a vedere nel «diverso» l’uomo.
Il disinganno. La scesa in campo di Berlusconi gli procurò dubbi inquietanti, fino ad indurlo a domandarsi se si trattasse di un politico autoritario o semplicemente di uno sprovveduto, incapace di «ponderare la differenza fra il manager di una grande impresa e l’uomo di governo». Più di recente, il filosofo ha salutato con ottimismo l’ingresso dell’Italia nell’euro: una dimostrazione, al cospetto dei partner europei, che «siamo una nazione, uno stato degni di rispetto». Ma è uno stato d’animo contraddetto da eventi di segno opposto. Da ultimo, il risultato delle elezioni europee del 13 giugno 1999 gli è parso un drastico rovesciamento del nostro sistema politico. Nella «sconfitta disastrosa» riportata in quella consultazione dalla sinistra italiana (una sinistra «sparpagliata e litigiosa»), Bobbio ravvisava un rovesciamento del nostro sistema politico: dalla partitocrazia - disse in quei giorni - si è passati alla «partitopenìa»: ciè, per paradosso, non ostante la loro proliferazione numerica, a una penuria di partiti veri. Specie a sinistra. Quello di Berlusconi, che in certi momenti sembra trionfare, non è infatti un partito vero, ma la protesi di una persona.
Un’Italia piena di incognite. Ecco il panorama che Bobbio contemplava al termine della vita. Ma la vita, è ovvio (ripeteva nella sua serena partecipazione di «intellettuale e di insegnante che si è occupato spesso di politica»), sarebbe continuata dopo di lui. Possibilmente, ad opera di quelli che restano, senza pause e senza distrazioni. Come egli preferiva.
TORINO - Chiede "Funerali semplici, privati, non pubblici", "civili", anche se afferma di non considerarsi "nè ateo nè agnostico". Sono alcune delle ultime volontà che Norberto Bobbio ha stabilito prima di morire e che sono state lette oggi pomeriggio nella camera ardente, chiusa al pubblico e alla presenza del presidente della Repubblica Ciampi, del rettore Rinaldo Bertolino e delle altre autorità, da uno dei figli, Luigi.
Sullo sfondo la musica della "Passione secondo san Giovanni" di Bach, così come indicato dal filosofo e senatore a vita.
"Ho compiuto 90 anni il 18 ottobre. La morte dovrebbe essere vicina - scrive Bobbio - A dire il vero l' ho sentita vicina tutta la vita. Non ho mai neppure lontanamente pensato di vivere così a lungo. Mi sento molto stanco, nonostante le affettuose cure di cui sono circondato, di mia moglie e dei miei figli. Mi accade spesso nella conversazione e nelle lettere di usare l'espressione 'stanchezza mortale'. L'unico rimedio alla stanchezza mortale è il riposo della morte. Requiem aeternam dona eis Domine. Nell'ultimo bellissimo coro della Passione secondo San Giovanni di Bach, il coro subito dopo la morte di Cristo canta: 'Ruht wohl' (riposa in pace)".
"Desidero funerali civili in comune accordo con mia moglie e i miei figli - aggiunge nel suo 'testamento' Bobbio - in un appunto del 10 maggio 1968 'più di 30 anni fa trovo scritto: 'vorrei funerali civili. Credo di non essermi mai allontanato dalla religione dei padri, ma dalla Chiesa si'. Me ne sono allontanato ormai da troppo tempo per tornarvi di soppiatto all'ultima ora. Non mi considero nè ateo nè agnostico. Come uomo di ragione non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano in vari modi".
"Funerali semplici, privati non pubblici. Raccomando caldamente ai miei familiari questo mio desiderio - insiste Bobbio - ho avuto nella mia vita, anche in occasione dei miei 90 anni, pubblici riconoscimenti, premi, varie forme di onoranze che ho accettato pur essendo convinto che eccedessero i miei meriti. Alla morte si addice il raccoglimento, la commozione intima di coloro che sono più vicini. Il silenzio. Breve cerimonia in casa o, se sarà il caso, in ospedale. Nessun discorso. Non c' è nulla di più retorico e fastidioso che i discorsi funebri. E poi il trasferimento a Rivalta per essere sepolto nella tomba di famiglia".
Sulla lapide "soltanto nome e cognome, data di nascita e di morte, seguiti da questa unica dicitura 'figlio di Luigi e Rosa Caviglia'. Mi piace pensare - conclude Bobbio - che sulla mia lapide il mio nome compaia insieme a quello dei miei genitori".
"Mio padre, alessandrino, è stato il capostipite dei Bobbio di Torino; la tomba è stata fatta costruire da lui nel paese, che ha molto amato, di sua moglie. Il mio nome, unito a quello dei miei genitori, oltretutto, dà il senso della continuità delle generazioni. La famiglia dia la notizia della morte a funerali avvenuti con un necrologio composto con le parole semplici con cui sono in genere scritti i necrologi della gente comuni".