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La Repubblica, ed. Firenze, 11 novembre 2015

UN Papa cittadino: è questa l’immagine, davvero inedita, con cui Francesco si è presentato tra noi. Abbiamo conosciuto pontefici condottieri e pontefici teologi: ma Francesco è il primo Papa che mostra di aver profondamente introiettato i valori della democrazia, considerando anche se stesso come membro della comunità civile, oltre che di quella religiosa. «I credenti sono cittadini – ha scandito ieri Francesco – E lo dico qui a Firenze, dove arte, fede e cittadinanza si sono sempre composte in un equilibrio dinamico tra denuncia e proposta».
Arte e cittadinanza! Quanto si vorrebbe veder affiorare questo nesso essenziale sulle labbra di chi governa il nostro Paese, e la nostra città. Un nesso che – per Francesco – non è reso esclusivo o parziale dalla terza forza che ha invocato: quella per lui più importante, quella della fede. Il Papa si è fatto portare in Battistero l’opera d’arte che ama di più, il Crocifisso bianco di Marc Chagall: e qui non conta il giudizio estetico o storico artistico, conta il fatto che quel Gesù non è stato pensato e dipinto da un cristiano, ma da un ebreo, che per di più aveva partecipato alla Rivoluzione Russa del 1917. E da un ebreo nel 1938: dietro al Cristo si vedono le sinagoghe in fiamme, i patriarchi dell’Antico Testamento che urlano il loro dolore per il Popolo Eletto che precipita nell’Olocausto, l’Armata Rossa come unica speranza di riscatto. Bergoglio vede dunque davvero l’arte come una via maestra per costruire una cittadinanza inclusiva.
Pochi giorni fa un giornalista ‘di strada’ olandese ha chiesto al Papa: «Il Suo omonimo San Francesco scelse la povertà radicale e vendette anche il suo evangeliario. In quanto papa, e vescovo di Roma, si sente mai sotto pressione per vendere i tesori della Chiesa?» Il papa ha risposto così: «Questa è una domanda facile. Non sono i tesori della Chiesa, ma sono i tesori dell’umanità. Per esempio, se io domani dico che la Pietà di Michelangelo venga messa all’asta, non si può fare, perché non è proprietà della Chiesa. Sta in una chiesa, ma è dell’umanità. Questo vale per tutti i tesori della Chiesa». È una risposta straordinariamente importante: tanto più se si rammenta che, nel 1978, Paolo VI tentò di vendere proprio la Pietà vaticana di Michelangelo, lacerato dall’immagine di se stesso seduto su un trono dorato mentre il mondo moriva di fame.

Ma ora Francesco dice tre cose nuove. La prima è che non c’è solo la fame materiale: se quel Michelangelo rimane di tutti, può saziare la fame di conoscenza e cultura anche dei più poveri, che è una fame di eguaglianza e giustizia. La seconda è che sulle opere sacre in proprietà della Chiesa c’è una sorta di superproprietà collettiva morale e spirituale di tutta l’umanità (e dunque anche dei musulmani, degli atei, davvero di tutti), e che questa superproprietà vincola le scelte, e limita la libertà del proprietario giuridico: e questa è un’assoluta novità nel rapporto tra la Chiesa e i suoi tesori d’arte. La terza è che il patrimonio culturale non è riducibile al mercato: letteralmente e funzionalmente. Il denaro non può comprare tutto, e il patrimonio culturale non può e non deve essere mercificato, se vogliamo che continui a renderci esseri umani.

Lo dice anche la Costituzione, ma in Italia sembriamo averlo dimenticato.

Il Papa venuto dalla fine del mondo parla a Firenze, al suo rapporto malato con l’arte del passato ridotta a merce. Come dice lui stesso, è una denuncia ed è una proposta: accogliamole entrambe, e niente sarà più come prima.

La Repubblica, 11 novembre 2015

«Non dobbiamo essere ossessionati dal potere, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all'immagine sociale della Chiesa. Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni».

Nove ore di visita. Più di trentamila persone a Prato. Oltre cinquantamila a Firenze, solo allo stadio, per la messa che chiude la giornata. E parole chiarissime di Papa Francesco, nella sua visita in Toscana, con gli echi del caso Vatileaks2 che si ripercuotono in una giornata altrimenti di grande felicità per Jorge Bergoglio, piena di incontri con la gente più umile. Echi che riprendono quota in serata, con le dichiarazioni del suo Segretario di Stato. «Non credo che queste polemiche possano creare un'atmosfera serena» dice il cardinale Pietro Parolin Effettivamente c'è un'atosfera pesante. Se leggiamo i media, vediamo che ci sono attacchi, forse anche poco ragionati, poco pensati, anche molto emotivi, per non usare qualche altra parole. Direi isterici. Ci sono certe resistenze da vincere. Definirle fisiologiche è poco; definirle patologiche è troppo. Ci sono e vanno affrontate in modo costruttivo. Vorrei dire che tutti hanno desiderio di cambiare in meglio. É il miglioramento che il Papa stesso ha chiesto alla Curia»

Alle 7,45 del mattino, a Prato, assieme alle bandierine vaticane giallo-bianche che sventolano, si affiancano quelle cinesi con la scritta in mandarino «Ciao, benvenuto». Sono della copiosa comunità di lavoratori. Appena un'ora di visita qui («Sono un pellegrino di passaggio», scherza il Pontefice). Ma la città del distretto tessile, che porta le ferite della crisi economica e dello sfruttamento, lo accoglie festosa reduce da una notte bianca con canti e preghiere. Francesco nel suo discorso dal pulpito del Duomo va subito al punto: estirpare «il cancro della corruzione», dare un «lavoro dignitoso» perché la tragedia che si è consumata due anni fa, nella zona industriale dove sono morti sette operai cinesi «è una tragedia dello sfruttamento e delle condizioni inumane di vita, e questo non
è lavoro degno!».

Da Roma era arrivato in elicottero, quindi in utilitaria fino a Firenze, poi il giro in città in papamobile. Qui partecipa al convegno decennale della Conferenza episcopale italiana. «Che Dio protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, d'immagine, di denaro». Francesco non cita mai il cardinale Camillo Ruini, l'ex presidente della Cei che ha impersonato un'era del cattolicesimo italiano, tra il collateralismo con la politica e le battaglie sui cosiddetti "valori non negoziabili" (bioetica, famiglia, ecc.), ma pungola i vescovi delle 226 diocesi italiane a voltare pagina.

«Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre pi• vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti», dice nella cattedrale di Santa Maria del Fiore. «La nostra gioia è anche di andare controcorrente e di superare l'opinione corrente, che, oggi come allora, non riesce a vedere in Ges• pi• che un profeta o un maestro». Aggiunge: «Non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo. Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli». Bergoglio cita Dante, Michelangelo e anche Guareschi: ÇMi colpisce la semplicità di don Camillo che fa coppia con Peppone, e come la preghiera di un buon parroco si unisca all'evidente vicinanza con la gente». Davanti a lui, in cattedrale, risuonano le parole emozionanti di una coppia di coniugi divorziati da matrimoni precedenti, e poi felicemente risposati. Francesco incontra gli ammalati, fra loro anche il sottufficiale dei carabinieri Giuseppe Giangrande ferito nel 2013 davanti a Palazzo Chigi.

A pranzo il Papa va alla mensa Caritas di San Francesco Poverino. Presenta la "tesserina" per accedere, e al tavolo con i poveri assaggia un men• toscano con la ribollita e i cantucci finali. Con i commensali scherza, fa un selfie, chiama «papessa»la responsabile della mensa per il piglio con cui è riuscita a mettere ordine fra i sessanta bisognosi, oggi entusiasti.

Allo stadio "Artemio Franchi" («magari quest'anno ci porta fortuna», esclama il giocatore della Fiorentina, Pepito Rossi, molto religioso e presente con la madre), Francesco professa il suo vademecum: «Mantenere un sano contatto con la realtà, con ciò che la gente vive, con le sue lacrime e le sue gioie, è l’unico modo per poterla aiutare, formare e comunicare ». Ci sono la moglie del premier, Agnese Renzi, con i figli («Mio marito è a Milano a fare il suo lavoro altrimenti sarebbe venuto»), e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Luca Lotti («Sono qui da fiorentino »).

Non è ancora buio e il Papa va. Ma non prima di aver ringraziato «i carcerati, che hanno costruito questo altare». Prima di prendere la rotta per Roma, il suo elicottero bianco volteggia più volte sullo stadio. Una nube di fazzoletti bianchi rossi e gialli, da sotto, lo saluta commossa.

La Repubblica, 22 ottobre 2015

C’È un detto di Gesù da sempre inquietante che in queste ore assume una dimensione ancora più sinistra. «Dove sarà il cadavere, lì si raduneranno insieme anche gli avvoltoi » (Luca 17,37). Il detto si ritrova anche in Matteo 24,28, e in entrambi i Vangeli la frase è del tutto fuori contesto, appare come una specie di masso erratico piovuto dall’alto, completamente a prescindere da ciò che viene prima e ciò che viene dopo. Non è nota l’occasione concreta che spinse Gesù a pronunciare quelle parole, tuttavia esse nella loro forza icastica non fanno che fotografare un’esperienza concreta della vita naturale, a quei tempi sotto gli occhi di tutti. Anche ai nostri giorni però, mutate le forme, non manca la presenza degli avvoltoi. Soprattutto se a essere in gioco è il corpo del Papa. E ancora di più se si tratta del corpo di “questo” Papa.

Che papa Francesco sia come minimo scomodo a una non piccola parte dei poteri politici, economici, finanziari e ovviamente ecclesiastici è un semplice dato di fatto, lo documenta bene un recentissimo libro di un giornalista di Avvenire, Nello Scavo, dal titolo I nemici di Francesco, sottotitolo: «Chi vuole screditare il papa, chi vuole farlo tacere, chi lo vuole morto». Ma ora la notizia del tumore al cervello, diffusa dal Quotidiano nazionale parlando di «una macchia, un piccolo tumore al cervello» è destinata ad aumentare a dismisura il volo minaccioso degli avvoltoi. Il portavoce papale padre Lombardi ha subito smentito seccamente la notizia. E L’Osservatore Romano ha parlato di «polverone sollevato con intento manipolatorio». Certo è che sarebbe difficile oggi nascondere a lungo una notizia sulla salute del Pontefice: il corpo del Papa, a differenza dei secoli passati quando era velato alla vista dei più e viveva in una dimensione sacrale che portava a pensarlo come quasi divino, del tutto privo delle manchevolezze dei comuni mortali, ora è quotidianamente esposto allo sguardo delle telecamere di tutto il mondo. Avvenne una quindicina di anni fa con Giovanni Paolo II, il cui morbo di Parkinson, prima sistematicamente negato dal portavoce vaticano, poi divenne evidente agli occhi di tutti. La salute del corpo di un Papa non è mai stata solo un fatto privato, e oggi lo è meno che mai.

Il punto vero e proprio però non riguarda la salute di Jorge Mario Bergoglio, riguarda gli avvoltoi. Ciò che colpisce infatti è che la notizia è uscita solo ieri (a dieci mesi di distanza dall’ipotetica visita specialistica) e soprattutto a poche ore dalla chiusura dello strategico Sinodo sulla famiglia. Una casuale combinazione? Ovviamente no; piuttosto l’alzata in volo di uno stormo di neri avvoltoi. Naturalmente non mi riferisco ai giornalisti che, in possesso della notizia, hanno fatto solo il loro mestiere come avrebbe fatto ogni altro giornalista del mondo; mi riferisco piuttosto a coloro che, proprio ora, hanno fatto filtrare la notizia nel momento forse più delicato del pontificato di Francesco.

In questo Sinodo infatti il Papa si gioca la gran parte della sua impresa riformatrice: se i vescovi a maggioranza gli diranno di no e bocceranno il suo desiderio di aperture, il suo pontificato è destinato a passare alla storia come il desiderio di un profeta solitario e sognatore, ben poco capace però di tradurre le sue parole e i suoi gesti in leggi e precetti concreti, come ogni pontefice degno di questo nome è invece chiamato a fare.

Io non so se vi sia un’unica regia dietro l’outing di monsignor Charamsa dichiaratosi gay e convivente all’inizio del Sinodo, dietro la diffusione di una lettera di una decina di cardinali anti-riforme a metà del Sinodo, e ora dietro questa notizia consegnata alla stampa proprio in prossimità della chiusura del Sinodo. Certo è che tutti e tre gli episodi incorniciano i lavori dell’assise vescovile. Come secondo ogni regia che si rispetti, l’ultimo colpo è stato il più devastante, perché mira a far credere al mondo che Jorge Mario Bergoglio è un Papa malato, per di più malato al cervello, nella sede decisionale della persona, sollevando così una serie di dubbi e di sospetti sulla sua effettiva capacità di guidare la Chiesa.

Molti dei cardinali che tre anni e sette mesi fa lo elessero ora gli sono ostili, perché non si immaginavano certo una tale forza riformatrice in quell’argentino che aveva fama di conservatore e che invece si è rivelato subito all’altezza della spinta innovatrice di papa Giovanni XXIII. Il papa bergamasco morì di tumore allo stomaco, ma prima riuscì, a dispetto della Curia, a convocare il Concilio Vaticano II e a iniziare l’opera di rinnovamento della Chiesa. L’opera purtroppo rimase a metà, perché a causa dei timori di Paolo VI non toccò proprio i temi della morale familiare e sessuale su cui papa Francesco ha convocato il Sinodo con l’intenzione di estendere il rinnovamento conciliare anche qui. Non sono pochi nella Chiesa coloro che glielo vogliono impedire senza comprendere l’importanza della posta in gioco.

Non si tratta infatti solo di qualche norma di disciplina ecclesiastica, in gioco c’è il cambio di rotta iniziato dalla Chiesa cattolica con il Vaticano II e rimasto incompiuto, volto a disegnare un cattolicesimo non più nemico del mondo moderno, come lo è stato per secoli, ma a fianco della vita degli uomini. In un mondo sempre più piccolo il compimento del processo iniziato con Giovanni XXIII è la condizione sine qua non perché la Chiesa cattolica sia fattore di pace e non di divisione. Papa Francesco lo sa e agisce di conseguenza. Molti però dentro la Chiesa o non lo sanno o non lo desiderano. Essi non esitano a unirsi ai numerosi gruppi di potere economico e politico fuori della Chiesa che hanno visto la recente enciclica sull’ecologia come una seria minaccia ai loro affari. E tra nemici interni e nemici esterni vi sono addirittura alcuni che non esitano a trasformarsi in avvoltoi e a volteggiare sinistramente sul corpo del Papa

, La Repubblica, 6 ottobre 2015 (m.p.r.)

FRANCESCO: IL SINODO NON è UN PARLAMENTO
SCONTRO SUI DIVORZIATI
di Marco Ansaldo


Città del Vaticano. «Non ci sono due partiti nella Chiesa, come sostengono i mezzi di informazione», dicono i vescovi appena riuniti in Vaticano nella prima giornata di lavori del Sinodo sulla famiglia. Ma nessuno crede a questa affermazione. E difatti, appena in conferenza stampa parte l’attacco dei cardinali conservatori, si alzano subito i progressisti a rintuzzarlo. Materializzando così, davanti a centinaia di giornalisti accorsi da tutto il mondo, lo scontro in atto tra chi si oppone a Francesco e chi invece vuole le sue riforme.

Comincia il cardinale Peter Erdo, ungherese, relatore generale del Sinodo, bocciando la possibilità di concedere la comunione ai divorziati risposati nella relazione introduttiva letta accanto al Papa: «Riguardo ai divorziati e risposati civilmente è doveroso un accompagnamento pastorale misericordioso, il quale però non lascia dubbi circa la verità dell’indissolubilità del matrimonio insegnata da Gesù Cristo stesso. Non è quindi il naufragio del primo matrimonio, ma la convivenza nel secondo rapporto che impedisce l’accesso all’Eucarestia». È una chiusura totale, già nella prima giornata. Dalla sua parte si schiera, a sorpresa per alcuni, l’arcivescovo di Parigi, André Vingt-Trois. «Se vi attendete un cambiamento spettacolare della dottrina della Chiesa rimarrete delusi». E riferendosi al tema del sacramento da concedere ai divorziati risposati, il cardinale francese sottolinea: «Se pensate che la teoria del cardinale Walter Kasper sia aprire indifferentemente l’accesso della comunione avete sbagliato».
È un due a zero per il fronte dei duri. È a questo punto che chiede la parola il segretario speciale del Sinodo, l’arcivescovo Bruno Forte, uomo vicino a Jorge Bergoglio. Con un ragionamento di grande raffinatezza, senza urtare nessuno, ma con efficacia, Forte rimette la discussione sui binari del confronto aperto. «Fermo restando che non ci si devono aspettare modifiche alla dottrina - premette - bisogna dire con grande chiarezza che questo Sinodo non si riunisce per non dire nulla. Non è però un Sinodo dottrinale, ma pastorale, come lo fu il Concilio Vaticano II», ricorda. «Le sfide pastorali ci sono e noi vogliamo affrontarle con parresia, ovvero con estrema franchezza». Aggiunge inoltre l’arcivescovo di Chieti e teologo: «Affrontare le questioni pastorali e cercare nuove strade per nuovi approcci rende la Chiesa più vicina agli uomini e alle donne del nostro tempo. La Chiesa non può restare insensibile alle sfide: questa è la vera posta in gioco».
Al mattino, inaugurando i lavori, il Papa aveva detto parole chiare sul desiderio di dialogo, senza chiusure: «Il Sinodo non è un parlamento dove per raggiungere il consenso si fa un accordo comune, un negoziato, un patteggiamento o dei compromessi: unico metodo è quello di aprirsi allo Spirito santo con coraggio apostolico e umiltà evangelica». E ancora: «La vita cristiana non è un museo da guardare o da salvaguardare, ma il deposito di fede è fonte viva dalla quale la Chiesa si disseta».
NON POSSIAMO GUARDARE INDIETRO
BERGOGLIO CI CHIEDE COSE NUOVE
di Marco Ansaldo


C. Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco di Baviera, presidente della Conferenza episcopale tedesca, e capo del gruppo di porporati incaricati delle riforme economiche in Vaticano, quale impressione ha avuto dalla prima giornata di Sinodo e della relazione apparsa un po’ di chiusura del segretario generale dell’assemblea, il cardinale Peter Erdo?
«Oggi c’è stata una prima ampia discussione, ma il Sinodo durerà tre settimane, avremo modo di discutere di tutto e alla fine il Papa farà quello che riterrà giusto per il suo pontificato».
Ma lei che opinione si è fatto?
«Il Sinodo è un cammino, dobbiamo fare dei passi avanti, ma non può essere una ripetizione, non possiamo guardare indietro».
E quali sono gli scopi che lei persegue, quale la sua visione?
«La discussione va avanti da oltre un anno. Il Papa vi ha dedicato una gran parte della sua catechesi. E qui ci sono discorsi importanti sul tema della famiglia. Poi, fra i due Sinodi, quello ordinario dello scorso anno e quello appena cominciato sono accadute tante altre cose. Non dobbiamo tornare indietro nelle questioni, questo dice la Chiesa e questa è la prospettiva pastorale secondo cui ci muoviamo».
Ma su quali punti avete discusso?
«Abbiamo parlato molto della questione dei profughi. Abbiamo parlato della famiglia in questo mondo globalizzato, e di quanto sia difficile mantenere una famiglia unita quando si fugge dal proprio Paese».
Ma non c’è una polarizzazione all’interno del Sinodo?
«Chi dice questo? Dove è che viene descritta così la situazione del Sinodo? Questo è quello che qualcuno vorrebbe».
Questa non è l’atmosfera all’interno dell’assemblea?
«Questa è la posizione dei media. Io ho una mia idea, ma la base della discussione non è poi così controversa. In un contesto come questo è normale che ci siano opinioni diverse, ma non solo necessariamente contrasti».
E sul tema dell’omosessualità come si pone circa le aperture del cardinale Walter Kasper?
«L’omosessualità sarà al centro di una discussione specifica, che comprende anche pareri scientifici. È un tema importante di cui lo scorso anno abbiamo già parlato».
E come affrontate i diversi temi?
«Discuteremo dell’Instrumentum laboris. Personalmente ne ho parlato anche con amici. Ma trovo che nel Sinodo occorra formulare anche cose nuove. Soprattutto è importante che non si vada sotto il livello di discussione posto dal Papa. Credo che dovremmo adeguarci a quello che ci chiede il Papa. E dobbiamo essere concreti».
Cardinale, c’è stato questo caso del teologo della Congregazione per la Dottrina della fede che ha dichiarato la propria omosessualità. Giocherà un ruolo nella discussione?
«Non credo che possa determinare la discussione. Se ne è parlato molto, ma il caso non riguarda affatto il Sinodo».
Ci si aspetta un documento importante?
«Le aspettative sono alte. Il Sinodo ha risvegliato interesse. Penso che questo sia anche il desiderio del Papa. Alla fine lui deciderà, con il suo discernimento. Come è stato alla fine del Sinodo dello scorso anno. Ma fino ad allora dobbiamo discutere. Di quello che viene discusso all’inizio, toccherà al Papa decidere che cosa resterà alla fine».
Torniamo sulla polarizzazione dei vescovi. Si dice che fra i cardinali manchi la comunicazione. Lei parla e discute con i cardinali Mueller, Pell, Sarah (i cosiddetti conservatori, n.d.r. )?
«Con il cardinale Mueller per esempio ho discusso. Noi parliamo ma non necessariamente esce tutto. Poi, durante la giornata di studio qualche mese fa a Roma, all’Università Gregoriana, con le conferenze episcopali tedesca, francese e svizzera abbiamo discusso apertamente. Anche oggi c’è stato un dialogo aperto, capisco che escano dei libri che facciano discutere, e ci siano posizioni diverse. Ma la mancanza di comunicazione fra i cardinali deve trasformarsi in una discussione organizzata».

eddyburg i testi apparsi sulla stampa alla data stessa della pubblicazione. A volte la bellezza o l'interesse del testo, se sono sfuggiti nell'immediato alla nostra attenzione li presentiamo lo stesso. Così facciamo perla commemorazione di Pietro Ingrao pronunciata da Alfredo Reichlin. Il manifesto, 1° ottobre 2015

Vor­rei espri­mere il più grande ram­ma­rico per la scom­parsa di Pie­tro Ingrao. Per l’uomo che egli è stato, il grumo di pen­sieri e di affetti anche fami­liari che ha rap­pre­sen­tato, ma soprat­tutto per il segno così pro­fondo e tut­tora aperto e vivo che egli ha lasciato nella vita italiana.

«È morto il capo della sini­stra comu­ni­sta», così, con que­sto flash, la Tv dava dome­nica pome­rig­gio la noti­zia. In que­sta estrema sem­pli­fi­ca­zione e nei com­menti di que­sti giorni io ho visto qual­cosa che fa riflettere.

Vuol dire che dopo­tutto que­sto paese ha una sto­ria. Non è solo una con­fusa som­ma­to­ria di indi­vi­dui che si distin­guono tra loro solo per i modi di vivere e di con­su­mare. Ha una grande sto­ria di idee, di lotte e di pas­sioni, di comu­nità, e di per­sone, anche se que­sta sto­ria noi non l’abbiamo saputa custodire.

Perché volevamo la luna? Oppure perché non l’abbiamo voluta abbastanza?

Non lo so. So però che adesso siamo giunti a un pas­sag­gio molto dif­fi­cile e incerto della nostra sto­ria. E che la gente è con­fusa e torna a porsi grandi domande e ad espri­mere un biso­gno insop­pri­mi­bile di nuovi biso­gni e signi­fi­cati della vita.

Si affac­cia sulla scena una nuova uma­nità. E io credo sia que­sta la ragione per cui la morte di Pie­tro Ingrao (un uomo che taceva da quasi 20 anni) ha così col­pito l’opinione pubblica.

Per­ché era di sini­stra? Di que­sta antica parola si sono persi molti signi­fi­cati. E tut­tora non quello fon­da­men­tale: la lotta per l’emancipazione del lavoro, il cam­mino di libe­ra­zione dell’uomo dalle paure e dai dogmi; la libertà dal biso­gno e al tempo stesso la assun­zione di respon­sa­bi­lità verso gli altri.

Forse mi sba­glio ma sento rina­scere il biso­gno di uomini che pen­sano e guar­dano lon­tano, che dicono la verità, che non sono dei rom­pi­sca­tole, che cer­ta­mente si ren­dono conto che il vec­chio non può più ma vedono anche luci­da­mente che il nuovo non c’è ancora. E che per­ciò si inter­ro­gano su come riem­pire que­sto vuoto molto peri­co­loso, il lace­rarsi del tes­suto che tiene insieme popoli e Stati.

Pie­tro Ingrao non ci ha dato ovvia­mente la rispo­sta a que­sti que­siti ma ci ha detto una cosa fon­da­men­tale: che la poli­tica non si può ridurre a mer­cato o a lotte di potere tra le per­sone. Che ad essa biso­gna dare una nuova dimen­sione, anche etica e culturale.

Que­sta è la lezione di Pie­tro Ingrao. Una lezione che resta, e anzi appare più che mai neces­sa­ria. E’ la risco­perta della poli­tica non come mito e oriz­zonte irrag­giun­gi­bile ma come con­sa­pe­vo­lezza della pro­pria vita.

La più grande pas­sione laica: la costru­zione di una nuova sog­get­ti­vità, e quindi di uno sguardo più pro­fondo attra­verso il quale leg­gere le cose, la realtà. E quindi agire. Per assu­mere il com­pito che la vicenda sto­rica reale pone davanti a noi.

Tutti par­lano di Ingrao come l’uomo del dub­bio. Lo farò anch’io. Ma prima di tutto Pie­tro, per me, è stato que­sto: la fusione tra poli­tica e vita, la poli­tica come sto­ria in atto. Noi vole­vamo la luna? In effetti di parole troppo grosse come rivo­lu­zione non si par­lava mai. Si par­lava molto però, e con enorme pas­sione, della lotta per cam­biare il tes­suto pro­fondo, anche cul­tu­rale e morale, del paese. L’idea di un avvento delle classi lavo­ra­trici al potere per una pro­pria strada.

L’essenziale era par­tire dagli ultimi, come ren­derli pro­ta­go­ni­sti e come dar vita a nuove strut­ture sin­da­cali, poli­ti­che, cul­tu­rali, coo­pe­ra­tive. Come non lasciare gli uomini soli di fronte alla potenza del denaro.

Que­sta fu la nostra grande pas­sione. Immer­gersi nell’Italia vera, ade­rire a «tutte le pie­ghe della società». E que­sta pas­sione io non l’ho vista in nes­suno così assil­lante come Pie­tro Ingrao. Fu Pie­tro Ingrao, una mente libera, coc­ciuta e asse­tata di cono­scenza. È tutto qui il famoso uomo del dub­bio. Non era uno scet­tico: voleva capire. Non era un inge­nuo, sapeva lot­tare e col­pire (diri­geva dopo­tutto un grande gior­nale popo­lare che era un’arma for­mi­da­bile) ma sapeva che per vin­cere biso­gna prima di tutto capire quel tanto di verità che c’è sem­pre, in fondo, e in qual­che misura, nel tuo avver­sa­rio. Insomma, l’egemonia.

Ingrao l’uomo giusto.

Credo che que­sto spie­ghi il para­dosso per cui colui che le dice­rie con­si­de­ra­vano il del­fino di Togliatti è lo stesso che comin­cia a sen­tire l’insufficienza della grande let­tura togliat­tiana dell’Italia come paese arre­trato in cui il com­pito sto­rico dei comu­ni­sti era risol­vere le grandi «que­stioni» sto­ri­che: il Mez­zo­giorno, la que­stione agra­ria, il rap­porto col Vaticano.

Que­sta let­tura, nell’insieme, non riu­sciva più a dare conto delle tra­sfor­ma­zioni che comin­cia­vano a cam­biare radi­cal­mente il volto dell’Italia: il pas­sag­gio da paese agri­colo a paese indu­striale, una biblica emi­gra­zione che svuo­tava le cam­pa­gne del Sud, l’avvento dei con­sumi di massa, la rivo­lu­zione dei costumi.

Poi ci furono molte altre vicende e anche rot­ture. Le nostre strade si diva­ri­ca­rono. Fummo tutti tra­volti dalla con­trad­di­zione lace­rante tra la potenza cre­scente dell’economia che si mon­dia­liz­zava e con i mer­cati senza regole che gover­nano le ric­chezze del mondo e il potere della poli­tica che non rie­sce a darsi nuovi stru­menti sovranazionali.

Ma que­sta è mate­ria ormai degli sto­rici. È la mon­dia­liz­za­zione, il ter­reno nuovo su cui se fosse ancora tra noi Pie­tro Ingrao ci invi­te­rebbe a scendere.

Una cosa è certa. Abbiamo biso­gno di nuovi dubbi e di nuove ana­lisi. Abbiamo biso­gno di nuovi gio­vani come Ingrao. Sono le cro­na­che delle tra­ge­die dispe­rate dei migranti le quali ci dicono che si sta for­mando una nuova umanità.

Abbrac­cio i figli, la sorella, i nipoti e i pro­ni­poti del mio vec­chio amico, che da sta­sera ripo­serà in pace nella sua Lenola.

Il manifesto, 29 settembre 2015

Il senso di ina­de­gua­tezza che provo nello scri­vere que­ste righe deriva innan­zi­tutto dal fatto che quando Pie­tro Ingrao decise che ormai il gorgo era altrove rispetto alle varie muta­zioni dell’ormai ex Pci, nel 1993, io non avevo ancora com­piuto un anno. Men­tre mi affac­ciavo al mondo la sua vita poli­tica pren­deva l’ultima, impor­tante, svolta. Per me, per la mia gene­ra­zione, Pie­tro Ingrao è stato innan­zi­tutto un uomo del Nove­cento - un secolo che, osser­vato dalla sua pro­spet­tiva, sem­bra essere affatto breve - e delle sue incom­men­su­ra­bili con­trad­di­zioni. Sarebbe un eser­ci­zio inu­tile riper­cor­rere, senza sca­dere in bana­lità o ridon­danze, le sue scelte di vita e in par­ti­co­lare di vita poli­tica: altri ne hanno ben più titolo. È forse più inte­res­sante trarre lezioni dall’enfasi del suo rac­con­tare, dalla sua straor­di­na­ria capa­cità cri­tica e autocritica.

Pro­prio cal­cando la mano sulle vicende più discusse del suo impe­gno nel Pci e in par­ti­co­lare sul suo voto favo­re­vole all’espulsione del gruppo del Mani­fe­sto nel 1969, in molti riten­gono di poter con­fi­nare il rac­conto della figura di Ingrao nella dimen­sione col­lo­ca­bile tra l’eclettismo ana­li­tico e l’etica del Par­tito, una dimen­sione ormai sepolta dalla caduta del Muro e dalla fine della Prima Repub­blica. In que­sta rico­stru­zione le con­trad­di­zioni che egli stesso amava inda­gare e met­tere in ten­sione, sot­to­po­nen­dole alla prova dell’intelletto umano e della sua capa­cità di illu­mi­nare gli angoli più oscuri della realtà, risul­tano irri­me­dia­bil­mente spia­nate. Quella di Ingrao, dun­que, sarebbe una figura dalla quale oggi è pos­si­bile trarre al limite qual­che ele­mento di rile­vanza sto­rica, vaga­mente mito­lo­gica e agio­gra­fica, ma nes­sun inse­gna­mento con­creto, nes­suno stru­mento da met­tere nella cas­setta degli attrezzi per smon­tare le brut­ture di que­sto mondo.

Mi sento di poter dis­sen­tire. Dal pen­siero e dall’azione di Pie­tro Ingrao sto ancora impa­rando molte cose, e tante credo di poterne impa­rare. Innan­zi­tutto su cos’è il dub­bio, cosa signi­fica pro­vare a farne stru­mento potente in una società in cui esso è molto evo­cato e assai poco pra­ti­cato. Era più dif­fi­cile met­tere in dub­bio, inter­ro­garsi e inter­ro­gare, dis­sen­tire, fare tutto ciò in forma pro­dut­tiva, con una con­ti­nua ten­sione verso la tra­sfor­ma­zione della realtà, nell’epoca dello scon­tro tra ideo­lo­gie con­trap­po­ste? Oppure oggi, nell’epoca del domi­nio incon­tra­stato dell’ideologia unica del libero mer­cato? Per que­sto credo che que­sto primo inse­gna­mento non sia affatto scontato.

Ancora, credo sia gra­zie a Ingrao che è diven­tato per me un po’ più chiaro cosa sia la luna. La luna, per alcuni, sarebbe la cifra della scon­fitta di Ingrao: per me è piut­to­sto il segno di una bat­ta­glia che è ancora aperta. Lungi dall’essere un luogo situato in una posi­zione inde­fi­nita tra l’astrazione dalla realtà e l’eterna scon­fitta, come qual­che detrat­tore masche­rato vuole far pas­sare in alcuni coc­co­drilli, essa è piut­to­sto quella dire­zione verso la quale far avan­zare ancora l’orizzonte delle aspet­ta­tive. La luna è pos­si­bile? Sì, lot­tando den­tro il con­ti­nuo svi­luppo della società, den­tro le vec­chie forme di domi­nio e le nuove pos­si­bi­lità di libe­ra­zione, sapendo che «in fondo, a ben vedere, certi guar­diani, per forti e feroci che siano, sono tut­ta­via alla fine abba­stanza stu­pidi», come disse Ingrao al XIX Con­gresso del PCI, nel 1990.

Ciò che ancora non credo di aver colto in tutta la sua com­ples­sità è il signi­fi­cato primo dell’indicazione di «rima­nere nel gorgo». Quando mi imbat­tei per la prima volta nella for­mula reto­rica uti­liz­zata da Ingrao all’XI Con­gresso in rispo­sta a Longo sulla que­stione del cen­tra­li­smo demo­cra­tico, la tro­vai di un tatto incom­pren­si­bile per la dia­let­tica poli­tica di oggi: quel vol­teg­gio di piuma, accolto da applausi scro­scianti, era stato tut­ta­via capace di ferire come una lama d’acciaio. Dif­fi­cile dun­que astrarre da un periodo sto­rico com­ple­ta­mente diverso da quello di oggi: credo tut­ta­via che «rima­nere nel gorgo» fosse un’indicazione di ricerca e di azione — e del rap­porto indis­so­lu­bile tra que­sti due aspetti — rivolta alla realtà, all’intricato rap­porto tra masse e potere, impos­si­bile da ridurre alla sem­plice col­lo­ca­zione den­tro o fuori dal Par­tito (che pure era parte fon­da­men­tale di quell’indicazione).

Infine, l’insegnamento più pre­zioso, che più sento den­tro, è quello di lasciarsi inter­ro­gare dalle rivolte. Non ho mai avuto la for­tuna di incon­trare Pie­tro Ingrao, ma ho incon­trato spesso la misura con­creta di que­ste sue parole nella costru­zione delle orga­niz­za­zioni stu­den­te­sche, negli sguardi delle migliaia di stu­den­tesse e stu­denti in strada e in piazza, nell’impegno poli­tico e nella neces­sità di cam­biare il mondo. Il nostro cam­mino è ancora nel tempo delle rivolte che non è sopito.

Gra­zie di tutto Pie­tro Ingrao.

Il manifesto, 29 settembre 2015

Ingrao ha imper­so­nato i nostri ideali. Tutti. Li ha ana­liz­zati, appro­fon­diti, discussi. Ne ha misu­rato la con­cre­tezza, l’attualità, l’assunzione da parte delle masse, la resi­stenza alle offese che l’ideologia del capi­tale andava muo­vendo per distor­cerne il senso e per sra­di­carli dalle coscienze. Non si è mai arreso ai dubbi che muo­veva a se stesso ed apren­dosi agli altri e mai atte­nuando o pre­clu­dendo il suo pen­sare ed il suo fare di militante,di diri­gente, di comunista.

Ha voluto sem­pre sen­tire, capire, scru­tare, cri­ti­ca­mente anche quanto a pre­sup­po­sti, tra­di­zioni, metodi, prima di indi­care, inse­gnare, con­durre sin­goli e masse. E capire era per lui pene­trare nella realtà dei rap­porti umani, comin­ciando da quelli di pro­du­zione e coglien­done ogni pro­se­cu­zione, ogni effetto imme­diato e pro­tratto a qua­lun­que altezza e in quale dimen­sione si col­lo­casse, qual­siasi suo pro­filo potesse rile­vare sulla con­di­zione umana nell’età del capitalismo

Del più alto valore è stata la con­ce­zione della demo­cra­zia che Ingrao ha defi­nito e per cui ha com­bat­tuto. Soste­nendo che «il voto non basta». E «non basta» infatti nei regimi che ne iso­lano la rile­vanza e ne limi­tano il potere reale di inci­dere diret­ta­mente o indi­ret­ta­mente sui rap­porti di potere eco­no­mico, oltre che di quello sociale e di quello politico.

Tanto meno nei regimi che ne distor­cono gli effetti devian­doli da quelli auten­ti­ca­mente rap­pre­sen­ta­tivi. Né basta se non col­le­gato ad altri isti­tuti di par­te­ci­pa­zione diretta alla dina­mica poli­tica. Soste­nendo poi la coor­di­na­zione di tutte le assem­blee elet­tive come con­di­zione e stru­mento di una demo­cra­zia che per­vada l’intera com­ples­sità isti­tu­zio­nale della aggre­ga­zione umana a forma stato. Soste­nendo, infine, con grande luci­dità ed eguale fer­mezza la neces­sità di opporsi alla deca­denza di civiltà poli­tica, cul­tu­rale e morale che andava matu­rando in Ita­lia con la cri­mi­nosa pro­spet­tiva di un uomo solo al comando.

In modo diverso, sen­tirsi ingra­iani ha signi­fi­cato inten­sità di spi­rito cri­tico, ten­sione con­ti­nua a lot­tare pen­sando pos­si­bile una società in cui il « libero svi­luppo di cia­scuno sia con­di­zione del libero svi­luppo di tutti».

Il manifesto, 29 settembre 2015

La sini­stra ita­liana che fu comu­ni­sta e qual­che volta lo resta si ritrova ormai soprat­tutto e qual­che volta solo ai fune­rali. E nulla più dell’ultimo saluto a Pie­tro Ingrao, grande ere­tico e un uomo pro­fon­da­mente di par­tito, intel­let­tuale e diri­gente popo­la­ris­simo, il tutto per cento anni di lunga vita, può rimet­tere insieme per qual­che ora le tante sto­rie di chi nel Pci c’è stato, o l’ha votato o magari l’ha con­te­stato da sini­stra. E se la com­mo­zione per la morte di un lea­der che ha lasciato un buon ricordo anche in tutti i suoi avver­sari è tanta, lo è anche per la dif­fusa sen­sa­zione che que­sto saluto sia dav­vero l’ultimo. La morte del vec­chis­simo Ingrao cala il sipa­rio su una sto­ria già chiusa.

Al primo piano della camera dei depu­tati, la camera ardente è alle­stita nella sala che da qual­che anno è inti­to­lata ad Aldo Moro (e nel ’78 toccò ad Ingrao pre­si­dente dell’assemblea di Mon­te­ci­to­rio avver­tire l’aula del rapi­mento del segre­ta­rio Dc, con un discorso che fu cri­ti­cato per­ché troppo breve e senza dibat­tito, ma in quell’ora tra­gica il comu­ni­sta avver­tiva l’urgenza di far nascere un governo, quello Andreotti, che pure non gli pia­ceva). Il primo pic­chetto attorno alla bara sco­perta è quello della Fiom, con Mau­ri­zio Lan­dini. La grande fami­glia Ingrao è siste­mata in una fila di sedie sul lato sini­stro, la sorella Giu­lia, le figlie Cele­ste, Bruna, Chiara e Renata, il figlio Guido, tanti nipoti. Alle pareti le corone di fiori della alte cari­che isti­tu­zio­nali e una sola di par­tito, il Pd. Un ritratto di Ingrao stac­cato dalla «Corea» - la Gal­le­ria dei pre­si­denti - è siste­mato al cen­tro tra una ban­diera del Pci e una della pace.

Men­tre si alter­nano i pic­chetti - Ber­ti­notti, Ven­dola e il gruppo diri­gente di Sel, Fas­sina, il pre­si­dente della Regione Lazio Zin­ga­retti e il vice sin­daco di Roma Causi - arriva subito Gior­gio Napo­li­tano. Saluta i parenti con un bacio, resta un po’ in appog­gio sul bastone di fronte al fere­tro, poi si avvi­cina e dà un col­petto a mano aperta sul legno, forse una carezza. Alla Stampa ha detto che «Ingrao è stato un uomo di asso­luta lim­pi­dezza morale, non ha mai com­bat­tuto bat­ta­glie per inte­ressi o ambi­zione per­so­nale»; i due sono stati molto avver­sari nel Pci, divisi da tutto ancora prima del cele­bre dis­senso di Ingrao nel con­gresso del ’66 e fino allo scio­gli­mento del ’90. «Ingrao era per il mono­ca­me­ra­li­smo», trova il modo di ricor­dare il pre­si­dente eme­rito della Repub­blica che oggi è il primo spon­sor della riforma costi­tu­zio­nale di Renzi. Ed è vero, salvo che nella sua costante rifles­sione sui «pro­blemi dello Stato», Ingrao par­tiva dall’esigenza di raf­for­zare par­la­mento e rap­pre­sen­tanza (rac­colto da poco in volume il suo car­teg­gio con Nor­berto Bob­bio): il mono­ca­me­ra­li­smo con l’Italicum è tutta un’altra storia.

La ten­ta­zione di accor­dare il pen­siero di un grande lea­der con il pro­prio è com­pren­si­bile — si faceva anche nel Pci con le posi­zioni di Togliatti, «lo chia­ma­vamo “tirare la coperta”, ha ricor­dato Ingrao nel suo Le cose impos­si­bili -, alla camera ardente arriva Achille Occhetto pre­ce­duto da un fondo sull’Unità ren­ziana in cui sostan­zial­mente rac­conta che Ingrao avrebbe ade­rito alla svolta della Bolo­gnina se solo gliel’avesse spie­gata lui. Renzi è a New York per l’assemblea Onu, il governo è pre­sente con la mini­stra delle riforme Boschi, il vice­mi­ni­stro Morando e il sot­to­se­gre­ta­rio De Vin­centi, che fa anche un turno di pic­chetto. Assenti in massa alla cele­bra­zione uffi­ciale della camera del cen­te­simo com­pleanno di Ingrao, i ren­ziani sta­volta fanno capo­lino: il capo­gruppo del Pd alla camera Rosato, il capo­gruppo al senato Zanda, il depu­tato Car­bone, la pre­si­dente della prima com­mis­sione del senato Finoc­chiaro. Pochi gli espo­nenti dei par­titi di cen­tro e destra che ven­gono a ren­dere omag­gio, il vice pre­si­dente for­zi­sta della camera Bal­delli, l’ex Dc D’Onofrio, Rutelli, Mariotto Segni, Nando Ador­nato che ha tra­scorsi comu­ni­sti. In serata fa il suo ingresso il pre­si­dente del senato Piero Grasso. Ma è soprat­tutto un incon­trarsi a sini­stra, tra i tanti che sono stati ingra­iani almeno un po’, o «mino­ranza di sini­stra» come pre­fe­riva Ingrao. Come Occhetto, del resto, che va incon­tro e si fa rico­no­scere dall’ottantenne Luigi Schet­tini, che è stato una colonna dell’ingraismo meri­dio­nale. Un po’ alla volta arri­vano Gavino Angius, Luigi Ber­lin­guer, Gianni Cuperlo, Wal­ter Tocci, Cesare Damiano, Vin­cenzo Vita, Cesare Salvi, Gior­gio Ruf­folo, Ugo Spo­setti, Wal­ter Vel­troni. Invece entra unita la dele­ga­zione dell’Ars: Aldo Tor­to­rella, Alfiero Grandi e Piero De Siena.

La ceri­mo­nia nel palazzo si pre­sta poco alla par­te­ci­pa­zione popo­lare, ma sono comun­que cen­ti­naia i cit­ta­dini romani che sfi­lano davanti al cada­vere di Ingrao. A tratti davanti all’ingresso prin­ci­pale della camera si forma una pic­cola fila. Molti por­tano un fiore, qual­cuno alza veloce un pugno chiuso. Domani i fune­rali saranno in piazza Mon­te­ci­to­rio, all’aperto. Come quelli di Pajetta, 25 anni fa.

La Repubblica, 29 settembre 2015

«Il voto, da solo, non basta». In questa breve frase di Pietro Ingrao può essere racchiuso tutto il senso della sua lunga riflessione sulla democrazia, sulla rappresentanza, sul sistema parlamentare. Le considerazioni che seguono sono un commento a queste parole: un commento che ha sullo sfondo — non potrebbe essere diversamente — le condizioni attuali della democrazia nel nostro Paese. Prendo lo spunto da un carteggio tra lo stesso Ingrao e Norberto Bobbio, a margine e a seguito d’un convegno torinese svoltosi nell’autunno del 1985. Le lettere sono, la prima (di Bobbio), del 12 novembre e l’ultima (d’Ingrao) del 30 gennaio 1986 (ora in P. Ingrao, Crisi e riforma del Parlamento , Ediesse). In quel dialogo si discute di “vera e falsa democrazia”. Sono a confronto due posizioni. Bobbio ripropone quella ch’egli stesso definiva la “definizione minima” di democrazia. Questa definizione a Ingrao appariva insufficiente. Anzi, nelle condizioni economiche e sociali date, gli appariva vuota e ingannevole: in sostanza, la copertura d’interessi di oligarchie nazionali e sovranazionali, contrastanti con i diritti delle masse lavoratrici e con la loro urgenza d’emancipazione. La riflessione e la terminologia di Ingrao vengono da lontano. Masse e potere è il titolo d’una raccolta di scritti (il primo è del 1964), pubblicata nel 1977, che ispirò in quegli anni parte della sinistra. I concetti- chiave di Ingrao sono tre: masse, unità ed egemonia. Naturalmente, stiamo parlando delle masse popolari, dell’unità della sinistra e dell’egemonia della cultura che ne costituiva l’identità.

Ma — ecco entrare in scena Bobbio — nell’intento di accordare la democrazia ai contesti storici, esistono limiti concettuali che devono essere tenuti fermi, a pena di confusione, fraintendimenti e, anche, d’inganni. Una definizione è necessaria, ma una definizione troppo pretenziosa non aprirebbe, bensì chiuderebbe il confronto. Ecco l’attaccamento di Bobbio alle “definizioni minime”. Sono minime le sue definizioni di socialismo, liberalismo, destra e sinistra, ad esempio. Ed è minima la definizione di democrazia; potremmo anzi dire minimissima: a) tutti devono poter partecipare, direttamente o indirettamente, alle decisioni collettive; b) le decisioni collettive devono essere prese a maggioranza. Oltre che minima, questa definizione è anche solo formale: si riferisce al “chi” e al “come”, ma non al “che cosa”. Riguarda soltanto — come si usa dire per analogia — le “regole del gioco”, ma non il risultato del gioco. In un testo del 1987 (ora in Teoria generale della politica , Einaudi), le due regole diventano sei, così: 1. tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età senza distinzione di razza, di religione, di condizione economica, di sesso, debbono godere dei diritti politici, cioè ciascuno deve godere del diritto di esprimere la propria opinione o di scegliere chi la esprime per lui; 2. il voto di tutti i cittadini deve avere peso uguale; 3. tutti coloro che godono dei diritti politici debbono essere liberi di poter votare secondo la propria opinione formatasi quanto più è possibile liberamente, cioè in una libera gara tra gruppi politici organizzati in concorrenza fra loro; 4. debbono essere liberi anche nel senso che debbono essere posti in condizione di scegliere tra soluzioni diverse, cioè tra partiti che abbiano programmi diversi e alternativi; 5. sia per le elezioni, sia per le decisioni collettive, deve valere la regola della maggioranza numerica, nel senso che si consideri eletto il candidato, o si consideri valida la decisione, che ha ottenuto il maggior numero di voti; 6. nessuna decisione presa a maggioranza deve limitare i diritti della minoranza, particolarmente il diritto di diventare maggioranza a parità di condizioni. Ripercorrendo questi sei punti, ci accorgiamo che la definizione minima e formale resta ferma, ma si introducono precisazioni, per così dire, di ambiente.

In sintesi, può dirsi che, mentre la posizione di Bobbio si giustifica sul piano della teoria; la posizione di Ingrao si radica nella realtà politica e sociale del suo tempo. Le riflessioni istituzionali di Ingrao prendono origine, sempre, da analisi realistiche. A differenza di quel che sarebbe successo in tempi a noi più vicini, le “regole del gioco” non sono da lui considerate in astratto, ma sempre in relazione ai contenuti della politica, la politica di emancipazione delle classi subalterne. L’aspetto sostanziale è sempre presente. Si tratta di promuovere realizzazioni e contrastare tendenze, avendo come obiettivo i principi di libertà, di giustizia e di emancipazione sociale scritti nella Costituzione, in particolare nell’art. 3, secondo comma, richiamato in ogni possibile occasione. Nessuna riforma delle regole è indifferente rispetto alla sostanza — per rimanere nell’immagine — del gioco che viene giocato.

Al di là delle questioni di parole, ciò che si può dire conclusivamente dal carteggio da cui ho preso spunto, è, forse, che il contrasto tra Bobbio e Ingrao è più apparente che reale. Questa conclusione non è dettata dall’amore per il compromesso a ogni costo. Ciò di cui parla Bobbio ha bisogno di ciò di cui parla Ingrao. Il loro discorso si svolge su piani diversi che non si scontrano, ma si completano. Bobbio parla della democrazia rispetto alle sue leggi di cornice entro la quale la lotta politica deve contenersi, Ingrao della democrazia come lotta politica; l’uno della democrazia come forma che presuppone una sostanza, l’altro della sostanza che implica una forma. Bobbio parla delle condizioni della democrazia, ma le possibilità non bastano se non ci sono forze che sappiano che farsi della democrazia, che traggano la democrazia dal regno delle possibilità al regno della realtà.

Se queste forze mancano, le forme, da sole, non sono capaci di suscitarle e la democrazia è destinata a essere solo il titolo d’un capitolo nei libri di diritto costituzionale. Del resto, che la forma non sia sufficiente; che essa sia destinata a diventare un guscio vuoto e a risultare una formula mendace, occultatrice di realtà non o anti- democratiche, alla fine ripudiata dai cittadini, è Bobbio stesso a riconoscerlo: «Io non posso separare la democrazia formale dalla democrazia sostanziale. Ho il presentimento che dove c’è soltanto la prima, un regime democratico non è destinato a durare » (Lettera a Guido Fassò del 14 febbraio 1972, citata in L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia ,

Laterza. Una conclusione perfettamente conforme alle preoccupazioni di Ingrao che credo giusto rammentare nel momento in cui di lui festeggiamo riconoscenti il contributo alla vita della Repubblica, ricordando cose dette più di trent’anni fa, ma valide non solo per quei tempi.

(Questo testo è un estratto del discorso pronunciato da Gustavo Zagrebelsky il 31 marzo 2015 in occasione dei 100 anni di Pietro Ingrao su invito della Camera dei deputati)

Il manifesto, 29 settembre 2015

Quando chi viene a man­care ha più di cent’anni all’evento si è pre­pa­rati, e dun­que il dolore dovrebbe essere minore. E invece non è così, per­ché pro­prio la loro lunga vita ci ha finito per abi­tuare all’idea irreale che si tratti di esseri umani dotati di eter­nità. Pie­tro Ingrao, per di più, è stato così larga parte della vita di tan­tis­simi di noi che è dif­fi­cile per­sino pen­sare alla sua morte senza pen­sare alla pro­pria. (E sono certa non solo per quelli di noi già quasi altret­tanto vecchi).

Così, quando dome­nica mi ha rag­giunto la tele­fo­nata di Chiara e io ero a sedere al sole in un caffè delle Ram­blas a Bar­cel­lona dove, essendo di pas­sag­gio per la Spa­gna, mi ero fer­mata per aspet­tare i risul­tati elet­to­rali della Cata­lo­gna, il suo tri­stis­simo annun­cio è stato quasi una fuci­lata. Per­ché prima di ogni altra cosa è stato come mi venisse aspor­tato un pezzo del mio stesso corpo.

Così, io credo, è stato per tutta la lar­ghis­sima tribù chia­mata «gli ingra­iani», qual­cosa che non è stata mai una cor­rente nel senso stretto della parola per­ché la nostra intro­iet­tata orto­dos­sia non ci avrebbe nep­pure con­sen­tito di imma­gi­nare tale la nostra rete.

E però siamo stati forse di più: un modo di inten­dere la poli­tica, e dun­que la vita, al di là della spe­ci­fi­cità delle ana­lisi e dei pro­grammi che soste­ne­vamo. Sic­ché sin dall’inizio degli anni ’60 e fino ad oggi, gli ingra­iani sono in qual­che modo distin­gui­bili, seb­bene le loro scelte indi­vi­duali siano andate col tempo diver­gendo, den­tro e fuori del Mani­fe­sto; e poi den­tro e fuori le suc­ces­sive labili rein­car­na­zioni del Pci. Oggi poi - den­tro una sini­stra che fatica a rico­no­scere i pro­pri stessi con­no­tati e nes­suno si sente a casa pro­pria dove sta per­ché vor­rebbe la sua stessa casa diversa da come è – que­sto tratto sto­rico dell’ingraismo direi che pesa in cia­scuno anche di più.

Vor­rei che non si per­desse, per­ché al di là delle scelte diverse cui ha con­dotto cia­scuno di noi, è un patri­mo­nio pre­zioso e utile anche oggi.

Di quale sia stato il nucleo forte del pen­siero di Pie­tro Ingrao, ho già par­lato, io e altri, tante volte, e ancora nell’inserto che il mani­fe­sto ha dedi­cato ai suoi cent’anni, ripro­po­sto on line pro­prio ieri. Vor­rei che quelle sue ana­lisi e linee pro­gram­ma­ti­che che pur­troppo il Pci non fece pro­prie, non venisse anne­gato, come è acca­duto per Enrico Ber­lin­guer, nella reto­rica ridut­tiva e stra­vol­gente dell’ “era tanto buono, bravo one­sto, ci dà corag­gio e passione”.

Oggi, comun­que, di Pie­tro vor­rei affi­dare alla memo­ria soprat­tutto due cose, che poi sono in realtà una sola: l’ascolto degli altri e l’idea della poli­tica come, innan­zi­tutto, par­te­ci­pa­zione e per­ciò sog­get­ti­vità delle masse.

Quando incon­trava qual­cuno, o anche nelle riu­nioni e per­sino nel dia­logo con un com­pa­gno ai mar­gini di un comi­zio, era sem­pre lui che per primo chie­deva: “ma tu cosa pensi?” ;“come giu­di­chi quel fatto?”; “cosa pro­por­re­sti?”. Non era un vezzo, voleva pro­prio saperlo e poi stava a sen­tire. Per­ché il suo modo di essere diri­gente stava nel cer­care di inter­pre­tare il sen­tire dei com­pa­gni. Anche di por­tare le loro idee a un più alto livello di ana­lisi e pro­po­sta, cer­ta­mente, ma sem­pre a par­tire da loro, per arri­vare, assieme a loro, e non da solo, a una con­clu­sione, a una scelta.

Per que­sto quel che per lui con­tava, quello che a suo parere qua­li­fi­cava la demo­cra­zia e la qua­lità di un par­tito, era la par­te­ci­pa­zione, la capa­cità di sti­mo­lare il pro­ta­go­ni­smo, la sog­get­ti­vità delle masse. Senza di cui non poteva esserci né teo­ria né prassi significativa.

Non voglio espli­ci­tare para­goni con l’oggi, sarebbe impietoso.

Ros­sana, rispon­dendo ad un’intervista di La Repub­blica, ieri ha detto di Pie­tro, anche della sua reti­cenza nell’assumere posi­zioni più nette, come fu al momento in cui noi, pur “ingra­iani doc”, ope­rammo la rot­tura della pub­bli­ca­zione della rivi­sta Il mani­fe­sto. E poi ricorda anche Arco di Trento, quando quel 30 per cento del Pci che rifiu­tava lo scio­gli­mento del par­tito pro­po­sto dalla mag­gio­ranza occhet­tiana, pur rico­no­scen­dosi nella rela­zione che a nome di tutti aveva fatto Lucio Magri, si divise sulle scelte da com­piere: fra chi decise di uscire e dette vita a Rifon­da­zione, e chi - come Pie­tro - decise invece che sarebbe comun­que restato nell’organizzazione, il Pds, che, già mala­tic­cio, veniva alla luce. “Per stare nel gorgo”, come disse con una frase che è rima­sta scol­pita nella testa di tutti noi. Certo, è vero: se Pie­tro si fosse unito alla costru­zione di un nuovo sog­getto poli­tico sarebbe stato diverso, molto diverso. La rifon­da­zione comu­ni­sta più ricca e dav­vero rifon­da­tiva, per via del suo per­so­nale apporto ma anche di quella larga area di qua­dri ingra­iani che costi­tuiva ancora un pezzo vivo del Pci e sareb­bero stati pre­ziosi alla nuova impresa; e invece resta­rono invi­schiati e di mala­vo­glia nel lento depe­rire degli orga­ni­smi che segui­rono: il Pds, poi i Ds, infine, ma ormai solo alcuni, nel Pd.

Pie­tro però capì subito che stare in quel con­te­sto non era più “stare nel gorgo”, per­ché il gorgo, seb­bene assai inde­bo­lito, scor­reva ormai altrove. E infatti ruppe poco dopo e si impe­gnò nei movi­menti che gene­ra­zioni più gio­vani ave­vano avviato. E da que­sti fu ascoltato.

La sto­ria come sap­piamo non si fa con i se. Ma riflet­tere su quel pas­sag­gio sto­rico, per ragio­nare sugli errori com­piuti, da chi e per­ché e quali, sarebbe forse utile a chi, come tutti noi, sta cer­cando di costruire un nuovo sog­getto politico.

Per farlo nascere bene mi sem­bra comun­que essen­ziale por­tarsi die­tro l’insegnamento fon­da­men­tale di Pie­tro, che non è infi­ciato dal non avere, qual­che volta, ten­tato abba­stanza : che non c’è par­tito che valga la pena di fare se non si attrezza, da subito, a diven­tare una forza in grado di sol­le­ci­tare la sog­get­ti­vità popo­lare, per­ché que­sta è più pre­ziosa di ogni ortodossia.

Ma vor­rei che di Pie­tro ci por­tas­simo die­tro anche l’ottimismo della volontà.

Era lui che amava citare la famosa para­bola di Bre­cht sul sarto di Ulm (da cui Lucio Magri trasse poi il titolo del suo libro sul comu­ni­smo ita­liano). Come ricor­de­rete, il sarto insi­steva che l’uomo avrebbe potuto volare, fin­ché, stufo, il vescovo prin­cipe di Ulm gli disse “prova” e que­sti si gettò dal cam­pa­nile con le fra­gili ali che si era costruito. E natu­ral­mente si sfra­cellò. Bre­cht però si chiede: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Per­ché alla fine l’uomo ha volato. E’ la para­bola del comu­ni­smo: fino ad ora chi ha pro­vato a rea­liz­zarlo su terra si è sfra­cel­lato, ma alla fine, come è acca­duto con l’aviazione, ci riusciremo.

E’ que­sto l’impegno che nel momento della scom­parsa del nostro pre­zioso com­pa­gno Pie­tro Ingrao vor­rei pren­des­simo: di provarci.

La Repubblica, 28 settembre 2015

È STATO un alto testimone del Novecento, Pietro Ingrao, e al tempo stesso della storia del comunismo italiano nelle speranze e nei drammi di un secolo. Un alto testimone, anche, di contraddizioni brucianti. In Volevo la luna ha raccontato benissimo una parte del suo percorso.

Dagli anni giovanili, dall’adesione all’antifascismo e al Pci sino ai mesi terribili del rapimento di Moro, che visse come primo presidente comunista della Camera. Un percorso scandito dalla Resistenza, dalle speranze dell’immediato dopoguerra e poi dalla sconfitta elettorale delle sinistre nel 1948. Sino alla presa d’atto di una sconfitta ancor più grande, ed era il 1956: con le illusioni alimentate dal XX Congresso del partito comunista sovietico, prima, e poi con il trauma dell’invasione dell’Ungheria. L’ «indimenticabile 1956», fu lui a coniare quella definizione: una citazione di un vecchio film sovietico, ha ricordato (quasi una “richiesta d’aiuto” alla sua passione per il cinema nel momento più terribile). Iniziò da lì il vero dramma del comunismo italiano, iniziò nel momento in cui quella “rivelazione” non fu compresa per quel che era. Per le menzogne che lacerava, per le tragedie su cui gettava fasci di luce cruda. Ingrao l’ha vissuto per intero, quel dramma. In qualche modo ne è stato prigioniero, forse, ma ha vissuto la contraddizione con quel rigore intellettuale, quella coerenza morale, quell’ansia intellettuale che sono il suo segno distintivo più forte.

Iniziava a trasformarsi profondamente l’Italia, in quel declinare degli anni Cinquanta, e Ingrao fu fra i primi a dire all’interno del Pci che «l’arretratezza italiana» su cui il partito ancora insisteva stava diventando un ricordo del passato. Ed era quindi necessario misurarsi con la nuova «modernità» del Paese (con il neocapitalismo, per usare i termini di allora), con i nuovi squilibri che induceva ma anche con le sue potenzialità. Scompariva davvero la vecchia Italia, allora. Iniziava la fuga dalle campagne di quei braccianti e di quei mezzadri che avevano largamente aderito al “partito nuovo” togliattiano, la stessa classe operaia si trasformava profondamente ed erano messi in discussione gli orizzonti culturali su cui si era formata larga parte della classe dirigente della Repubblica.

La grande eresia di Pietro Ingrao fu quella di dire che non si poteva comprendere e trasformare quel mondo con il centralismo (anti)democratico vigente nel partito. Fu il tema che portò sino alla tribuna dell’XI congresso del Pci, nel 1966, nonostante i durissimi attacchi che aveva ricevuto all’interno del gruppo dirigente e sapendo bene che avrebbe pagato di persona. Fu sconfitto, e quella sconfitta lo segnò in profondità. Se non si comprende cos’ha significato essere “comunisti italiani” non si comprende neppure perché accettò poco più tardi l’espulsione del gruppo, cresciuto alla sua scuola, che aveva fondato il manifesto (Natoli, Rossanda, Pintor, Magri, Castellina e altri ancora). Un grande errore, ha riconosciuto poi, ma del tutto inscritto in una più lunga storia.

Ha risposto a quei nodi con una riflessione mai abbandonata sul rapporto fra socialismo e democrazia: sul rapporto fra “masse e potere”, per citare il titolo di un suo libro, sulle forme di democrazia partecipata e su altro ancora. Restando fedele al suo essere “comunista italiano” anche quando il comunismo internazionale e il Pci scomparvero insieme. Figlio del secolo, di nuovo: di quel secolo. Con quel rigore intellettuale e con quelle passioni intellettuali, dal cinema alla poesia, che lo hanno accompagnato fino all’ultimo.

Il cinema, la letteratura, le istituzioni, la democrazia. Quando una nuova generazione di giovani comunisti porta nel Pci l’assillo di un confronto con le trasformazioni del capitalismo italiano. Il manifesto online, 28 settembre 2015 (reprint)

Arti­colo uscito nel sup­ple­mento spe­ciale al mani­fe­sto per i cento anni di Pie­tro Ingrao il 31 marzo scorso.

Ricordo ancora niti­da­mente la prima volta che cele­brai un com­pleanno di Pie­tro Ingrao: era il 1965, lui com­piva cinquant’anni (un’età che mi parve avan­za­tis­sima) ed era mezzo secolo fa. Con San­dro Curzi, ambe­due non da molto usciti dalla irre­quieta Fede­ra­zione Gio­va­nile, gli rega­lammo il suo primo paio di mocas­sini, con una dedica che lo sol­le­ci­tava ad essere meno pru­dente: «Cam­mina coi tempi, cam­mina con noi».

Lo ricordo bene per­ché era­vamo in piena bat­ta­glia «ingra­iana», pro­prio alla vigi­lia del fati­dico XI con­gresso del Pci, quando i com­pa­gni che si rico­no­sce­vano nelle sue idee (non una cor­rente, per carità), usci­rono un po’ più allo sco­perto per soste­nerle; e lui stesso operò quella che fu defi­nita una ine­dita rot­tura. Disse con chia­rezza nel suo inter­vento con­gres­suale: «Sarei insin­cero se tacessi che il com­pa­gno Longo non mi ha per­suaso rifiu­tando di intro­durre nella vita del nostro par­tito il nuovo costume di una pub­bli­cità del dibat­tito, cosic­ché siano chiari a tutti i com­pa­gni non solo gli orien­ta­menti e le deci­sioni che pre­val­gono e tutti impe­gnano ma anche il pro­cesso dia­let­tico di cui sono il risultato».

Fu, come è noto, applau­di­tis­simo, ma tut­ta­via suc­ces­si­va­mente emar­gi­nato dal ver­tice del par­tito e «rele­gato» (allora Bot­te­ghe Oscure con­tava più di Mon­te­ci­to­rio) alla pre­si­denza del gruppo par­la­men­tare e poi della Camera dei Depu­tati. E noi dispersi in ruoli minori, fuori dal palazzo.

Lo ricordo bene per­ché in fondo fu allora che comin­ciò la sto­ria de «il mani­fe­sto», che pure vide la luce solo quat­tro anni più tardi. Senza Pie­tro, che come sem­pre nella sua vita ha fatto pre­va­lere sulle sue scelte poli­ti­che la pre­oc­cu­pa­zione di non abban­do­nare il «gorgo», quello entro cui si adden­sava il popolo comu­ni­sta. Non per paura, sia chiaro, ma per via di quello che era il modo di sen­tire pro­fondo di tutto il par­tito, il timore di sacri­fi­care l’opinione col­let­tiva alla pro­pria indi­vi­duale.

Noi del mani­fe­sto alla fine lo facemmo, ma anche per­ché le nostre respon­sa­bi­lità nel Pci erano infi­ni­ta­mente minori e dun­que il nostro gesto non avrebbe potuto certo avere le stesse con­se­guenze di quello di Ingrao. Ma non cre­diate che sia stato facile nep­pure per noi, fu anzi una scelta molto molto sof­ferta e tal­volta è capi­tato anche decenni dopo di inter­ro­garsi se non avremmo dovuto restare a com­bat­tere den­tro anzi­ché met­terci nelle con­di­zioni di essere messi fuori.

(Per favore non rea­gite, voi gio­vani, dicendo: ma che tempi, non si poteva nep­pure dichia­rare un dis­senso! È vero, non era bello. E però le opi­nioni nono­stante tutto pesa­vano più di adesso, la nostra radia­zione fu un trauma per tutto il par­tito. Ora si può dire di tutto, ma per­ché non conta più niente).

Oggi Pie­tro Ingrao di anni ne com­pie 100, e noi de il mani­fe­sto, se con­tiamo anche l’incubazione, 50.

Col tempo si è forse smar­rito il senso di cosa sia stato l’ingraismo, e anzi mi chiedo se tra i gio­vani della reda­zione del gior­nale c’è ancora qual­cuno che sa di cosa si sia trat­tato. Non fu, badate, solo una bat­ta­glia per la demo­cra­tiz­za­zione del par­tito, il famoso diritto al dis­senso. C’era molto di più: si è trat­tato del ten­ta­tivo più serio del pen­siero comu­ni­sta di fare i conti con il capi­ta­li­smo nei suoi punti più alti, di indi­vi­duare le nuove, moderne con­trad­di­zioni e su que­ste — più che su quelle anti­che dell’Italietta rurale — far leva, non per «inse­guire mille rivoli riven­di­ca­tivi» (per usare l’espressione di allora), ma per costruire un vero modello di svi­luppo alternativo.

Si trat­tava della rot­tura con l’idea di uno svi­luppo lineare, col mito della «moder­nità acri­tica», che fu alla base della cul­tura neo­ca­pi­ta­li­sta (e cra­xiana) di que­gli anni. E, ancora, il ten­ta­tivo di capire che la crisi ita­liana non rap­pre­sen­tava una ano­ma­lia (un vizio tutt’ora dif­fuso), ma poteva essere capita solo nel nesso con il capi­ta­li­smo avan­zato quale si stava svi­lup­pando nel mondo.

Dal giu­di­zio sulla fase discen­de­vano due diverse linee stra­te­gi­che e per que­sto il con­fronto non fu solo teo­rico, ma stret­ta­mente intrec­ciato con il che fare poli­tico: se biso­gnava agire per ren­dere l’Italia «nor­male», e cioè alli­nearla alla moder­nità euro­pea, o invece inci­dere su quel nesso anche per risol­vere i vec­chi pro­blemi e pre­pa­rare un’alternativa anche alla «nor­ma­lità» capitalistica.

La destra del Pci ovvia­mente si oppose a que­sta pro­spet­tiva. Quando il Pci, dopo la Bolo­gnina, fu avviato allo scio­gli­mento, pro­prio su que­sta neces­sa­ria inno­va­zione costruimmo — que­sta volta uffi­cial­mente assieme a Pie­tro Ingrao — il senso della famosa «Mozione 2» che alla liqui­da­zione del par­tito si oppo­neva. Non in nome della con­ser­va­zione ma, al con­tra­rio, del cam­bia­mento, che non faceva però venir meno le ragioni dell’alternativa al sistema ma anzi le raf­for­zava. Le vec­chie cate­go­rie non basta­vano più e Ingrao è sem­pre stato attento a non ripe­tere lita­nie ma a indi­vi­duare ogni volta le poten­zia­lità nuove offerte dallo svi­luppo sto­rico, i sog­getti anta­go­ni­sti, a capire come si for­mano e si aggre­gano per diven­tare classe diri­gente in grado di pro­spet­tare una società alter­na­tiva. Oggi e qui.

Come sapete, perdemmo.

Su quel nostro dibat­tito degli anni 60 — che trovò poi una siste­ma­zione nel 1970 pro­prio nelle «Tesi per il comu­ni­smo» del Mani­fe­sto (che non dis­sero che il comu­ni­smo era maturo nel senso di immi­nente, come qual­cuno equi­vocò — e iro­nizzò -, ma che non sarebbe stato più pos­si­bile dare solu­zione ai pro­blemi posti dalla crisi nel qua­dro del sistema capi­ta­li­stico sia pure ammodernato).

Que­sto fu l’XI con­gresso del Pci, quello spar­tiac­que delle cui emo­zioni, pas­sioni, sof­fe­renze Pie­tro Ingrao ha dato eco nel suo libro «Volevo la luna».

Nell’anniversario del suo cen­te­simo anno di vita avrei forse dovuto par­lare di Pie­tro Ingrao ricor­dan­done di più i suoi aspetti umani, la sua per­so­na­lità, il modo come ha dipa­nato la sua esi­stenza, e non invece andar subito dritta al noc­ciolo poli­tico della sua vita di comunista.

L’ho fatto per due ragioni: per­ché troppo spesso ormai nel cele­brare gli anni­ver­sari si tende a ridurre tutto ai tratti del carat­tere di chi si ricorda, alle sue qua­lità morali, e sem­pre meno a riflet­tere sulle loro scelte poli­ti­che. E poi per­ché Pie­tro in par­ti­co­lare, invec­chiando, — e forse anche per via di come sono andate le cose nella sini­stra ita­liana — ha finito per ricor­darsi sot­to­tono, per­sino con qual­che vezzo civet­tuolo, più come poeta che come diri­gente poli­tico. Che è invece stato e di primo piano.

Poeta non ha in realtà mai smesso di essere, basti pen­sare al suo modo di espri­mersi, mai poli­ti­chese, sem­pre attento a illu­mi­nare l’immaginazione e non a ripe­tere cate­chi­smi. Vi ricor­date la sua sor­pren­dente uscita nell’intervento al primo dei due con­gressi di scio­gli­mento del Pci, il XIX nel 1990, quando se ne uscì col suo cla­mo­roso «viventi non umani», per chie­dere atten­zione alla natura e alle sue speci? Non era forse una poe­sia, che come tale suonò, del resto, in quel gri­gio e mesto dibat­tito di fine partita?

Pie­tro non usava il poli­ti­chese per­ché ascol­tava. Sem­bra banale, ma quasi nes­suno ascolta. E sic­come ascol­tava è stato anche ascol­tato da gene­ra­zioni assai più gio­vani, quelle che dei nostri dibat­titi all’XI con­gresso del Pci, e del Pci stesso, non sape­vano niente. Penso al Forum sociale euro­peo di Firenze nel 2002, per esem­pio, dove il suo discorso sulla pace con­qui­stò ragazzi che non sape­vano nep­pure chi fosse.

Ascol­tava per­ché della demo­cra­zia ha sem­pre sot­to­li­neato un ele­mento ormai in disuso, soprat­tutto il pro­ta­go­ni­smo delle masse, la partecipazione.

Può sem­brare curioso, ma molto del pen­siero poli­tico di Ingrao è stato segnato dalla sua ado­le­scen­ziale for­ma­zione cine­ma­to­gra­fica. Nei molti anni in cui per via del mio inca­rico nella pro­mo­zione del cinema ita­liano ho avuto con i big di Hol­ly­wood molti incon­tri e spesso la discus­sione sci­vo­lava sull’Italia e sul come era stato pos­si­bile che ci fos­sero tanti comu­ni­sti. Un po’ scher­zando e un po’ sul serio ho sem­pre finito per ricor­rere ad un para­dosso: «Badate — dicevo — il comu­ni­smo ita­liano è così spe­ciale per­ché oltre­ché a Mosca ha le sue radici qui a Hol­ly­wood, che dun­que ne porta le respon­sa­bi­lità». E poi rac­con­tavo loro la sto­ria, tante volte sen­tita da Pie­tro, della for­ma­zione di un pezzo non secon­da­rio di quello che poi diventò il gruppo diri­gente del Pci nel dopo­guerra: Mario Ali­cata, lui stesso, e anche altri che pur fuori dai ver­tici sul par­tito ave­vano avuto una for­tis­sima influenza, Visconti, Liz­zani, De San­tis. Tutti allievi del Cen­tro spe­ri­men­tale di cinematografia.

Rac­con­tavo loro, dun­que, di Ingrao che mi aveva detto di come la sua gene­ra­zione, già a metà degli anni ’30, avesse avuto il suo ceppo pro­prio nel cinema. E, segna­ta­mente, nel grande cinema — e nella let­te­ra­tura — ame­ri­cani del New Deal, tor­tuo­sa­mente cono­sciuti pro­prio al Cen­tro gra­zie a una for­tuita cir­co­stanza: l’arrivo, come inse­gnante, di un sin­go­lare per­so­nag­gio, Ahr­n­heim, ebreo tede­sco sfug­gito al nazi­smo e chissà come appro­dato pro­prio lì, prima che le leggi raz­ziali fos­sero intro­dotte anche in Italia.

«Pro­prio quelle pel­li­cole — mi disse Pie­tro in occa­sione di un’intervista (per il set­ti­ma­nale Pace e guerra che allora diri­gevo) su una impor­tante mostra alle­stita a Milano sugli anni ’30 — mostra­vano cari­che di socia­lità, in cui c’era la classe ope­raia, la soli­da­rietà sociale, la lotta. Pro­prio gra­zie a quei film, che erano mezzi di comu­ni­ca­zione fra i movi­menti sociali e l’americano qua­lun­que, così diversi dalla cul­tura anti­fa­sci­sta ita­liana degli anni ’20 — eli­ta­ria, erme­tica — che ave­vamo amato, ma non ci aveva aiu­tato; pro­prio quei film che ci apri­vano una fine­stra sull’intellettuale impe­gnato, noi ci siamo poli­ti­ciz­zati. Sono stati il primo passo verso la poli­tica».

Que­sto nesso fra cul­tura e poli­tica è stato un tratto che ha distinto il comu­ni­smo ita­liano. E Pie­tro Ingrao ne è stato uno dei più signi­fi­ca­tivi interpreti.

Gra­zie e tanti auguri, Pietro.

Riferimenti

Su eddyburg, nella vecchia edizione, una cartella dedicata a Pietro Ingrao.

Sorelle e fratelli, buon pomeriggio!

Qualche mese fa ci siamo incontrati a Roma ed ho presente quel primo nostro incontro. Durante questo periodo vi ho portato nel mio cuore e nelle mie preghiere. Sono contento di rivedervi qui, a discutere sui modi migliori per superare le gravi situazioni di ingiustizia che soffrono gli esclusi in tutto il mondo. Grazie, Signor Presidente Evo Morales, perché accompagna così risolutamente questo Incontro.

Quella volta a Roma ho sentito qualcosa di molto bello: fraternità, decisione, impegno, sete di giustizia. Oggi, a Santa Cruz de la Sierra, ancora una volta sento lo stesso. Grazie per tutto ciò. Ho saputo anche dal cardinale Turkson presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, che molti nella Chiesa si sentono più vicini ai movimenti popolari. Me ne rallegro molto! Vedere la Chiesa con le porte aperte a tutti voi, mettersi in gioco, accompagnare, e programmare in ogni diocesi, ogni Commissione di Giustizia e Pace, una reale collaborazione, permanente e impegnata con i movimenti popolari. Vi invito tutti, Vescovi, sacerdoti e laici, comprese le organizzazioni sociali nelle periferie urbane e rurali, ad approfondire tale incontro.

Dio ci consente di rivederci nuovamente oggi. La Bibbia ci ricorda che Dio ascolta il grido del suo popolo e anch’io desidero unire la mia voce alla vostra: le famose “tre t”: terra, casa e lavoro per tutti i nostri fratelli e sorelle. L’ho detto e lo ripeto: sono diritti sacri. Vale la pena, vale la pena di lottare per essi. Che il grido degli esclusi si oda in America Latina e in tutta la terra.

1. ABBIAMO BISOGNO DI CAMBIAMENTO

1. Prima di tutto, iniziamo riconoscendo che abbiamo bisogno di un cambiamento. Ci tengo a precisare, affinché non ci sia fraintendimento, che parlo dei problemi comuni a tutti i latino-americani e, in generale, a tutta l'umanità. Problemi che hanno una matrice globale e che oggi nessuno Stato è in grado di risolvere da solo. Fatto questo chiarimento, propongo di porci queste domande:

- Sappiamo riconoscere, sul serio, che le cose non stanno andando bene in un mondo dove ci sono tanti contadini senza terra, molte famiglie senza casa, molti lavoratori senza diritti, molte persone ferite nella loro dignità?

- Riconosciamo che le cose non stanno andando bene quando esplodono molte guerre insensate e la violenza fratricida aumenta nei nostri quartieri? Sappiamo riconoscere che le cose non stanno andando bene quando il suolo, l'acqua, l'aria e tutti gli esseri della creazione sono sotto costante minaccia?

E allora, se riconosciamo questo, diciamolo senza timore: abbiamo bisogno e vogliamo un cambiamento.

Voi nelle vostre lettere e nei nostri incontri - mi avete informato sulle molte esclusioni e sulle ingiustizie subite in ogni attività di lavoro, in ogni quartiere, in ogni territorio. Sono molti e diversi come molti e diversi sono i modi di affrontarli. Vi è, tuttavia, un filo invisibile che lega ciascuna delle esclusioni. Non sono isolate, sono unite da un filo invisibile. Possiamo riconoscerlo? Perché non si tratta di problemi isolati. Mi chiedo se siamo in grado di riconoscere che tali realtà distruttive rispondono ad un sistema che è diventato globale. Sappiamo riconoscere che tale sistema ha imposto la logica del profitto ad ogni costo, senza pensare all’esclusione sociale o alla distruzione della natura?

Se è così, insisto, diciamolo senza timore: noi vogliamo un cambiamento, un vero cambiamento, un cambiamento delle strutture. Questo sistema non regge più, non lo sopportano i contadini, i lavoratori, le comunità, i villaggi .... E non lo sopporta più la Terra, la sorella Madre Terra, come diceva san Francesco.

Vogliamo un cambiamento nella nostra vita, nei nostri quartieri, nel salario minimo, nella nostra realtà più vicina; e pure un cambiamento che tocchi tutto il mondo perché oggi l'interdipendenza planetaria richiede risposte globali ai problemi locali. La globalizzazione della speranza, che nasce dai Popoli e cresce tra i poveri, deve sostituire questa globalizzazione dell’esclusione e dell’indifferenza!

Oggi vorrei riflettere con voi sul cambiamento che vogliamo e di cui vi è necessità. Sapete che recentemente ho scritto circa i problemi del cambiamento climatico. Ma questa volta, voglio parlare di un cambiamento nell’altro senso. Un cambiamento positivo, un cambiamento che ci faccia bene, un cambiamento che potremmo dire redentivo. Perché ne abbiamo bisogno. So che voi cercate un cambiamento e non solo voi: nei vari incontri, nei diversi viaggi, ho trovato che esiste un’attesa, una ricerca forte, un desiderio di cambiamento in tutti i popoli del mondo. Anche all'interno di quella minoranza in diminuzione che crede di beneficiare di questo sistema regna insoddisfazione e soprattutto tristezza. Molti si aspettano un cambiamento che li liberi da questa tristezza individualista che rende schiavi.

Il tempo, fratelli, sorelle, il tempo sembra che stia per giungere al termine; non è bastato combattere tra di noi, ma siamo arrivati ad accanirci contro la nostra casa. Oggi la comunità scientifica accetta quello che già da molto tempo denunciano gli umili: si stanno producendo danni forse irreversibili all’ecosistema. Si stanno punendo la terra, le comunità e le persone in modo quasi selvaggio. E dopo tanto dolore, tanta morte e distruzione, si sente il tanfo di ciò che Basilio di Cesarea – uno dei primi teologi della Chiesa – chiamava lo “sterco del diavolo”. L’ambizione sfrenata di denaro che domina. Questo è lo “sterco del diavolo”. E il servizio al bene comune passa in secondo piano. Quando il capitale diventa idolo e dirige le scelte degli esseri umani, quando l’avidità di denaro controlla l’intero sistema socioeconomico, rovina la società, condanna l’uomo, lo fa diventare uno schiavo, distrugge la fraternità interumana, spinge popolo contro popolo e, come si vede, minaccia anche questa nostra casa comune, la sorella madre terra.

Non voglio dilungarmi a descrivere gli effetti negativi di questa sottile dittatura: voi li conoscete. E non basta nemmeno segnalare le cause strutturali del dramma sociale e ambientale contemporaneo. Noi soffriamo un certo eccesso diagnostico che a volte ci porta a un pessimismo parolaio o a crogiolarci nel negativo. Vedendo la cronaca nera di ogni giorno, siamo convinti che non si può fare nulla, ma solo prendersi cura di sé e della piccola cerchia della famiglia e degli affetti.

Cosa posso fare io, raccoglitore di cartoni, frugatrice tra le cose, raccattatore, riciclatrice, di fronte a problemi così grandi, se appena guadagno quel tanto per mangiare? Cosa posso fare io artigiano, venditore ambulante, trasportatore, lavoratore escluso se non ho nemmeno i diritti dei lavoratori? Cosa posso fare io, contadina, indigeno, pescatore che appena appena posso resistere all’asservimento delle grandi imprese? Che cosa posso fare io dalla mia borgata, dalla mia baracca, dal mio quartiere, dalla mia fattoria quando sono quotidianamente discriminato ed emarginato? Che cosa può fare questo studente, questo giovane, questo militante, questo missionario che calca quartieri e luoghi con un cuore pieno di sogni, ma quasi nessuna soluzione ai suoi problemi? Potete fare molto. Potete fare molto! Voi, i più umili, gli sfruttati, i poveri e gli esclusi, potete fare e fate molto. Oserei dire che il futuro dell'umanità è in gran parte nelle vostre mani, nella vostra capacità di organizzare e promuovere alternative creative nella ricerca quotidiana delle “tre t”, d’accordo? - lavoro, casa, terra [tierra, techo y trabajo] - e anche nella vostra partecipazione attiva ai grandi processi di cambiamento, cambiamenti nazionali, cambiamenti regionali e cambiamenti globali. Non sminuitevi!

2. SEMINATORI DI CAMBIAMENTO

Voi siete seminatori di cambiamento. Qui in Bolivia ho sentito una frase che mi piace molto: “processo di cambiamento”. Il cambiamento concepito non come qualcosa che un giorno arriverà perché si è imposta questa o quella scelta politica o perché si è instaurata questa o quella struttura sociale. Sappiamo dolorosamente che un cambiamento di strutture che non sia accompagnato da una sincera conversione degli atteggiamenti e del cuore finisce alla lunga o alla corta per burocratizzarsi, corrompersi e soccombere. Bisogna cambiare il cuore. Per questo mi piace molto l’immagine del processo, i processi, dove la passione per il seminare, per l’irrigare con calma ciò che gli altri vedranno fiorire sostituisce l’ansia di occupare tutti gli spazi di potere disponibili e vedere risultati immediati. La scelta è di generare processi e non di occupare spazi. Ognuno di noi non è che parte di un tutto complesso e variegato che interagisce nel tempo: gente che lotta per un significato, per uno scopo, per vivere con dignità, per “vivere bene”, dignitosamente, in questo senso.

Voi, da parte dei movimenti popolari, assumete i compiti di sempre, motivati​ dall’amore fraterno che si ribella contro l’ingiustizia sociale. Quando guardiamo il volto di quelli che soffrono, il volto del contadino minacciato, del lavoratore escluso, dell’indigeno oppresso, della famiglia senza casa, del migrante perseguitato, del giovane disoccupato, del bambino sfruttato, della madre che ha perso il figlio in una sparatoria perché il quartiere è stato preso dal traffico di droga, del padre che ha perso la figlia perché è stata sottoposta alla schiavitù; quando ricordiamo quei “volti e nomi” ci si stringono le viscere di fronte a tanto dolore e ci commuoviamo, tutti ci commuoviamo. Perché “abbiamo visto e udito” non la fredda statistica, ma le ferite dell’umanità sofferente, le nostre ferite, la nostra carne. Questo è molto diverso dalla teorizzazione astratta o dall’indignazione elegante. Questo ci tocca, ci commuove e cerchiamo l’altro per muoverci insieme. Questa emozione fatta azione comunitaria non si comprende unicamente con la ragione: ha un “più” di senso che solo la gente capisce e che dà la propria particolare mistica ai veri movimenti popolari.

Voi vivete ogni giorno, impregnati, nell’intrico della tempesta umana. Mi avete parlato delle vostre cause, mi avete reso partecipe delle vostre lotte, già da Buenos Aires, e vi ringrazio. Voi, cari fratelli, lavorate molte volte nella dimensione piccola, vicina, nella realtà ingiusta che vi è imposta, eppure non vi rassegnate, opponendo una resistenza attiva al sistema idolatrico che esclude, degrada e uccide. Vi ho visto lavorare instancabilmente per la terra e l’agricoltura contadina, per i vostri territori e comunità, per la dignità dell’economia popolare, per l’integrazione urbana delle vostre borgate e dei vostri insediamenti, per l’autocostruzione di abitazioni e lo sviluppo di infrastrutture di quartiere, e in tante attività comunitarie che tendono alla riaffermazione di qualcosa di così fondamentale e innegabilmente necessario come il diritto alle “tre t”: terra, casa e lavoro.

Questo attaccamento al quartiere, alla terra, all’occupazione, al sindacato, questo riconoscersi nel volto dell’altro, questa vicinanza del giorno per giorno, con le sue miserie – perché ci sono, le abbiamo – e i suoi eroismi quotidiani, è ciò che permette di esercitare il mandato dell’amore non partendo da idee o concetti, bensì partendo dal genuino incontro tra persone, perché abbiamo bisogno di instaurare questa cultura dell’incontro, perché non si amano né i concetti né le idee, nessuno ama un concetto, un’idea, si amano le persone. Il darsi, l’autentico darsi viene dall’amare uomini e donne, bambini e anziani e le comunità: volti, volti e nomi che riempiono il cuore. Da quei semi di speranza piantati pazientemente nelle periferie dimenticate del pianeta, da quei germogli di tenerezza che lottano per sopravvivere nel buio dell’esclusione, cresceranno alberi grandi, sorgeranno boschi fitti di speranza per ossigenare questo mondo.

Vedo con gioia che lavorate nella dimensione di prossimità, prendendovi cura dei germogli; ma, allo stesso tempo, con una prospettiva più ampia, proteggendo il bosco. Lavorate in una prospettiva che non affronta solo la realtà settoriale che ciascuno di voi rappresenta e nella quale è felicemente radicato, ma cercate anche di risolvere alla radice i problemi generali di povertà, disuguaglianza ed esclusione.

Mi congratulo con voi per questo. E’ indispensabile che, insieme alla rivendicazione dei vostri legittimi diritti, i popoli e le loro organizzazioni sociali costruiscano un’alternativa umana alla globalizzazione escludente. Voi siete seminatori del cambiamento. Che Dio vi conceda coraggio, gioia, perseveranza e passione per continuare la semina! Siate certi che prima o poi vedremo i frutti. Ai dirigenti chiedo: siate creativi e non perdete mai il vostro attaccamento alla prossimità, perché il padre della menzogna sa usurpare nobili parole, promuovere mode intellettuali e adottare pose ideologiche, ma se voi costruite su basi solide, sulle esigenze reali e sull’esperienza viva dei vostri fratelli, dei contadini e degli indigeni, dei lavoratori esclusi e delle famiglie emarginate, sicuramente non sbaglierete.

La Chiesa non può e non deve essere aliena da questo processo nell’annunciare il Vangelo. Molti sacerdoti e operatori pastorali svolgono un compito enorme accompagnando e promuovendo gli esclusi di tutto il mondo, al fianco di cooperative, sostenendo l’imprenditorialità, costruendo alloggi, lavorando con abnegazione nel campo della salute, dello sport e dell’educazione. Sono convinto che la collaborazione rispettosa con i movimenti popolari può potenziare questi sforzi e rafforzare i processi di cambiamento.

Teniamo sempre nel cuore la Vergine Maria, umile ragazza di un piccolo villaggio sperduto nella periferia di un grande impero, una madre senza tetto che seppe trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù con un po’ di panni e una montagna di tenerezza. Maria è un segno di speranza per la gente che soffre le doglie del parto fino a quando germogli la giustizia. Prego la Vergine Maria, così venerata dal popolo boliviano, affinché faccia sì che questo nostro Incontro sia lievito di cambiamento.

3. TRE GRANDI COMPITI

3. Infine vorrei che pensassimo insieme alcuni compiti importanti per questo momento storico, perché vogliamo un cambiamento positivo per il bene di tutti i nostri fratelli e sorelle, questo lo sappiamo. Vogliamo un cambiamento che si arricchisca con lo sforzo congiunto dei governi, dei movimenti popolari e delle altre forze sociali, ed anche questo lo sappiamo. Ma non è così facile da definire il contenuto del cambiamento, si potrebbe dire il programma sociale che rifletta questo progetto di fraternità e di giustizia che ci aspettiamo. Non è facile definirlo. In tal senso, non aspettatevi da questo Papa una ricetta. Né il Papa né la Chiesa hanno il monopolio della interpretazione della realtà sociale né la proposta di soluzioni ai problemi contemporanei. Oserei dire che non esiste una ricetta. La storia la costruiscono le generazioni che si succedono nel quadro di popoli che camminano cercando la propria strada e rispettando i valori che Dio ha posto nel cuore.

Vorrei, tuttavia, proporre tre grandi compiti che richiedono l’appoggio determinante dell’insieme di tutti i movimenti popolari:

3.1. Il primo compito è quello di mettere l’economia al servizio dei popoli: gli esseri umani e la natura non devono essere al servizio del denaro. Diciamo NO a una economia di esclusione e inequità in cui il denaro domina invece di servire. Questa economia uccide. Questa economia è escludente. Questa economia distrugge la Madre Terra.

L’economia non dovrebbe essere un meccanismo di accumulazione, ma la buona amministrazione della casa comune. Ciò significa custodire gelosamente la casa e distribuire adeguatamente i beni tra tutti. Il suo scopo non è solo assicurare il cibo o un “decoroso sostentamento”. E nemmeno, anche se sarebbe comunque un grande passo avanti, garantire l’accesso alle “tre t” per le quali voi lottate. Un'economia veramente comunitaria, direi una economia di ispirazione cristiana, deve garantire ai popoli dignità, «prosperità senza escludere alcun bene» (Giovanni XXIII, Lett. enc. Mater et Magistra [15 maggio 1961], 3: AAS 53 (1961), 402). Quest’ultima frase la disse il Papa Giovanni XXIII cinquant’anni fa. Gesù dice nel Vangelo che a chi avrà dato spontaneamente un bicchier d’acqua a un assetato, ne sarà tenuto conto nel Regno dei cieli. Ciò comporta le “tre t”, ma anche l’accesso all’istruzione, alla salute, all’innovazione, alle manifestazioni artistiche e culturali, alla comunicazione, allo sport e alla ricreazione. Un’economia giusta deve creare le condizioni affinché ogni persona possa godere di un’infanzia senza privazioni, sviluppare i propri talenti nella giovinezza, lavorare con pieni diritti durante gli anni di attività e accedere a una pensione dignitosa nell’anzianità. Si tratta di un’economia in cui l’essere umano, in armonia con la natura, struttura l’intero sistema di produzione e distribuzione affinché le capacità e le esigenze di ciascuno trovino espressione adeguata nella dimensione sociale. Voi, e anche altri popoli, riassumete questa aspirazione in un modo semplice e bello: “vivere bene” – che non è lo stesso che “passarsela bene”.

Questa economia è non solo auspicabile e necessaria, ma anche possibile. Non è un’utopia o una fantasia. È una prospettiva estremamente realistica. Possiamo farlo. Le risorse disponibili nel mondo, frutto del lavoro intergenerazionale dei popoli e dei doni della creazione, sono più che sufficienti per lo sviluppo integrale di «ogni uomo e di tutto l’uomo» (Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], 14: AAS 59 (1967), 264). Il problema, invece, è un altro. Esiste un sistema con altri obiettivi. Un sistema che oltre ad accelerare in modo irresponsabile i ritmi della produzione, oltre ad incrementare nell’industria e nell’agricoltura metodi che danneggiano la Madre Terra in nome della “produttività”, continua a negare a miliardi di fratelli i più elementari diritti economici, sociali e culturali. Questo sistema attenta al progetto di Gesù, contro la Buona Notizia che ha portato Gesù.

L’equa distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è semplice filantropia. E’ un dovere morale. Per i cristiani, l’impegno è ancora più forte: è un comandamento. Si tratta di restituire ai poveri e ai popoli ciò che appartiene a loro. La destinazione universale dei beni non è un ornamento discorsivo della dottrina sociale della Chiesa. E’ una realtà antecedente alla proprietà privata. La proprietà, in modo particolare quando tocca le risorse naturali, dev’essere sempre in funzione dei bisogni dei popoli. E questi bisogni non si limitano al consumo. Non basta lasciare cadere alcune gocce quando i poveri agitano questo bicchiere che mai si versa da solo. I piani di assistenza che servono a certe emergenze dovrebbero essere pensati solo come risposte transitorie, occasionali. Non potrebbero mai sostituire la vera inclusione: quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale.

In questo cammino, i movimenti popolari hanno un ruolo essenziale, non solo nell’esigere o nel reclamare, ma fondamentalmente nel creare. Voi siete poeti sociali: creatori di lavoro, costruttori di case, produttori di generi alimentari, soprattutto per quanti sono scartati dal mercato mondiale.

Ho conosciuto da vicino diverse esperienze in cui i lavoratori riuniti in cooperative e in altre forme di organizzazione comunitaria sono riusciti a creare un lavoro dove c’erano solo scarti dell’economia idolatrica. E ho visto che alcuni sono qui. Le imprese recuperate, i mercatini liberi e le cooperative di raccoglitori di cartone sono esempi di questa economia popolare che emerge dall’esclusione e, a poco a poco, con fatica e pazienza, assume forme solidali che le danno dignità. Come è diverso questo rispetto al fatto che gli scartati dal mercato formale siano sfruttati come schiavi!

I governi che assumono come proprio il compito di mettere l’economia al servizio della gente devono promuovere il rafforzamento, il miglioramento, il coordinamento e l’espansione di queste forme di economia popolare e di produzione comunitaria. Ciò implica migliorare i processi di lavoro, provvedere infrastrutture adeguate e garantire pieni diritti ai lavoratori di questo settore alternativo. Quando Stato e organizzazioni sociali assumono insieme la missione delle “tre t” si attivano i principi di solidarietà e di sussidiarietà che permettono la costruzione del bene comune in una democrazia piena e partecipativa.

3.2. Il secondo compito è quello di unire i nostri popoli nel cammino della pace e della giustizia.

I popoli del mondo vogliono essere artefici del proprio destino. Vogliono percorrere in pace la propria marcia verso la giustizia. Non vogliono tutele o ingerenze in cui il più forte sottomette il più debole. Chiedono che la loro cultura, la loro lingua, i loro processi sociali e le loro tradizioni religiose siano rispettati. Nessun potere di fatto o costituito ha il diritto di privare i paesi poveri del pieno esercizio della propria sovranità e, quando lo fanno, vediamo nuove forme di colonialismo che compromettono seriamente le possibilità di pace e di giustizia, perché «la pace si fonda non solo sul rispetto dei diritti dell’uomo, ma anche su quello dei diritti dei popoli, in particolare il diritto all’indipendenza» (Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 157).

I popoli dell’America Latina hanno partorito dolorosamente la propria indipendenza politica e, da allora, portano avanti quasi due secoli di una storia drammatica e piena di contraddizioni cercando di conquistare la piena indipendenza.

In questi ultimi anni, dopo tante incomprensioni, molti Paesi dell’America Latina hanno visto crescere la fraternità tra i loro popoli. I governi della regione hanno unito le forze per far rispettare la propria sovranità, quella di ciascun Paese e quella della regione nel suo complesso, che in modo così bello, come i nostri antichi padri, chiamano la “Patria Grande”. Chiedo a voi, fratelli e sorelle dei movimenti popolari, di avere cura e di accrescere questa unità. Mantenere l’unità contro ogni tentativo di divisione è necessario perché la regione cresca in pace e giustizia.

Nonostante questi progressi, ci sono ancora fattori che minano lo sviluppo umano equo e limitano la sovranità dei paesi della "Patria Grande" e di altre regioni del pianeta. Il nuovo colonialismo adotta facce diverse. A volte, è il potere anonimo dell’idolo denaro: corporazioni, mutuanti, alcuni trattati chiamati “di libero commercio” e l’imposizione di mezzi di “austerità” che aggiustano sempre la cinta dei lavoratori e dei poveri. Come Vescovi latino-americani lo denunciamo molto chiaramente nel Documento di Aparecida, quando affermano che «le istituzioni finanziarie e le imprese transnazionali si rafforzano fino al punto di subordinare le economie locali, soprattutto indebolendo gli Stati, che appaiono sempre più incapaci di portare avanti progetti di sviluppo per servire le loro popolazioni» (V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano [2007], Documento conclusivo, 66). In altre occasioni, sotto il nobile pretesto della lotta contro la corruzione, il traffico di droga e il terrorismo - gravi mali dei nostri tempi che richiedono un intervento internazionale coordinato - vediamo che si impongono agli Stati misure che hanno poco a che fare con la soluzione di queste problematiche e spesso peggiorano le cose.

Allo stesso modo, la concentrazione monopolistica dei mezzi di comunicazione che cerca di imporre alienanti modelli di consumo e una certa uniformità culturale è un altro modalità adottata dal nuovo colonialismo. Questo è il colonialismo ideologico. Come dicono i Vescovi dell’Africa, molte volte si pretende di convertire i paesi poveri in «pezzi di un meccanismo, parti di un ingranaggio gigantesco» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. Ecclesia in Africa [14 settembre 1995], 52: AAS 88 [1996], 32-33; cfr Lett. enc. Sollicitudo rei socialis [30 dicembre 1987], 22: AAS 80 [1988], 539).

Occorre riconoscere che nessuno dei gravi problemi dell’umanità può essere risolto senza l’interazione tra gli Stati e i popoli a livello internazionale. Ogni atto di ampia portata compiuto in una parte del pianeta si ripercuote nel tutto in termini economici, ecologici, sociali e culturali. Persino il crimine e la violenza si sono globalizzati. Pertanto nessun governo può agire al di fuori di una responsabilità comune. Se vogliamo davvero un cambiamento positivo, dobbiamo accettare umilmente la nostra interdipendenza, cioè la nostra sana interdipendenza. Ma interazione non è sinonimo di imposizione, non è subordinazione di alcuni in funzione degli interessi di altri. Il colonialismo, vecchio e nuovo, che riduce i paesi poveri a semplici fornitori di materie prime e manodopera a basso costo, genera violenza, povertà, migrazioni forzate e tutti i mali che abbiamo sotto gli occhi... proprio perché mettendo la periferia in funzione del centro le si nega il diritto ad uno sviluppo integrale. E questo, fratelli, è inequità, e l’inequità genera violenza che nessuna polizia, militari o servizi segreti sono in grado di fermare.

Diciamo NO, dunque, a vecchie e nuove forme di colonialismo. Diciamo SÌ all’incontro tra popoli e culture. Beati coloro che lavorano per la pace.

Qui voglio soffermarmi su una questione importante. Perché qualcuno potrà dire, a buon diritto, “quando il Papa parla di colonialismo dimentica certe azioni della Chiesa”. Vi dico, a malincuore: si sono commessi molti e gravi peccati contro i popoli originari dell’America in nome di Dio. Lo hanno riconosciuto i miei predecessori, lo ha detto il CELAM, il Consiglio Episcopale Latinoamericano, e lo voglio dire anch’io. Come san Giovanni Paolo II, chiedo che la Chiesa «si inginocchi dinanzi a Dio ed implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli» (Bolla Incarnationis mysterium [29 novembre 1998], 11: AAS 91 [1999], 140). E desidero dirvi, vorrei essere molto chiaro, come lo era san Giovanni Paolo II: chiedo umilmente perdono, non solo per le offese della propria Chiesa, ma per i crimini contro le popolazioni indigene durante la cosiddetta conquista dell’America. E insieme a questa richiesta di perdono, per essere giusti, chiedo anche che ricordiamo migliaia di sacerdoti e vescovi, che opposero fortemente alla logica della spada con la forza della Croce. Ci fu peccato, ci fu peccato e abbondante, ma non abbiamo chiesto perdono, e per questo chiediamo perdono, e chiedo perdono, però là, dove ci fu il peccato, dove ci fu abbondante peccato, sovrabbondò la grazia mediante questi uomini che difesero la giustizia dei popoli originari.

Chiedo anche a tutti voi, credenti e non credenti, di ricordarvi di tanti vescovi, sacerdoti e laici che hanno predicato e predicano la Buona Notizia di Gesù con coraggio e mansuetudine, rispetto e in pace - ho detto vescovi, sacerdoti e laici; non mi voglio dimenticare delle suore, che anonimamente percorrono i nostri quartieri poveri portando un messaggio di pace e di bene -, che nel loro passaggio per questa vita hanno lasciato commoventi opere di promozione umana e di amore, molte volte a fianco delle popolazioni indigene o accompagnando i movimenti popolari anche fino al martirio. La Chiesa, i suoi figli e figlie, sono una parte dell’identità dei popoli dell’America Latina. Identità che, sia qui che in altri Paesi, alcuni poteri sono determinati a cancellare, talvolta perché la nostra fede è rivoluzionaria, perché la nostra fede sfida la tirannia dell’idolo denaro. Oggi vediamo con orrore come il Medio Oriente e in altre parti del mondo si perseguitano, si torturano, si assassinano molti nostri fratelli a causa della loro fede in Gesù. Dobbiamo denunciare anche questo: in questa terza guerra mondiale “a rate” che stiamo vivendo, c’è una sorta – forzo il termine – di genocidio in corso che deve fermarsi.

Ai fratelli e alle sorelle del movimento indigeno latinoamericano, lasciatemi esprimere il mio più profondo affetto e congratularmi per la ricerca dell’unione dei loro popoli e delle culture; unione che a me piace chiamare “poliedro”: una forma di convivenza in cui le parti mantengono la loro identità costruendo insieme una pluralità che, non mette in pericolo, bensì rafforza l’unità. La loro ricerca di questo multiculturalismo, che combina la riaffermazione dei diritti dei popoli originari con il rispetto dell’integrità territoriale degli Stati, ci arricchisce e ci rafforza tutti.

3.3. Il terzo compito, forse il più importante che dobbiamo assumere oggi, è quello di difendere la Madre Terra.

La casa comune di tutti noi viene saccheggiata, devastata, umiliata impunemente. La codardia nel difenderla è un peccato grave. Vediamo con delusione crescente che si succedono uno dopo l’altro vertici internazionali senza nessun risultato importante. C’è un chiaro, preciso e improrogabile imperativo etico ad agire che non viene soddisfatto. Non si può consentire che certi interessi – che sono globali, ma non universali – si impongano, sottomettano gli Stati e le organizzazioni internazionali e continuino a distruggere il creato. I popoli e i loro movimenti sono chiamati a far sentire la propria voce, a mobilitarsi, ad esigere – pacificamente ma tenacemente – l’adozione urgente di misure appropriate. Vi chiedo, in nome di Dio, di difendere la Madre Terra. Su questo argomento mi sono debitamente espresso nella Lettera enciclica Laudato si', che credo vi sarà consegnata alla fine.

4. IL FUTURO È NELLE MANI DEI POPOLI

4. Per terminare, vorrei dire ancora una volta: il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. E' soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento. Io vi accompagno. E ciascuno, ripetiamo insieme dal cuore: nessuna famiglia senza casa, nessun contadino senza terra, nessun lavoratore senza diritti, nessun popolo senza sovranità, nessuna persona senza dignità, nessun bambino senza infanzia, nessun giovane senza opportunità, nessun anziano senza una venerabile vecchiaia. Proseguite nella vostra lotta e, per favore, abbiate molta cura della Madre Terra. Credetemi, sono sincero, lo dico dal cuore: prego per voi, prego con voi e desidero chiedere a Dio nostro Padre di accompagnarvi e di benedirvi, che vi colmi del suo amore e vi difenda nel cammino, dandovi abbondantemente quella forza che ci fa stare in piedi: quella forza è la speranza. E una cosa importante: la speranza non delude! E, per favore, vi chiedo di pregare per me. E se qualcuno di voi non può pregare, con tutto rispetto, gli chiedo che mi pensi bene e mi mandi “buona onda”. Grazie!

Riferimenti

La fonte del testo è il sito web del Vaticano, dove sono accessibili anche le traduzioni in altre lingua. I titoli in carattere maiuscolo sono nostri. Il video del discorso del papa à accessibile qui

Il manifesto, 1º aprile 2015

L’appello è pre­sto fatto: ci sono tutti ma pro­prio tutti a festeg­giare i cent’anni di Pie­tro Ingrao. Come una riu­nione di fami­glia, certo. Ma la fami­glia è grande, allar­gata, cent’anni di sto­ria d’Italia. «Lui non ha potuto por­tare il carico dei suoi anni qui con noi», spiega Mario Tronti.

Ma gli Ingrao sono tanti, com­po­sti ed emo­zio­nati, quat­tro gene­ra­zioni, dalla sorella Giu­lia, ai figli Cele­ste, Bruna, Renata, Chiara e Guido fino ai loro nipoti. Non basta la Sala della Regina della Camera, così l’incontro inti­to­lato ’Per­ché la poli­tica’ «senza punto inter­ro­ga­tivo», spiega la pre­si­dente Laura Bol­drini, si spo­sta nella ster­mi­nata aula dei gruppi par­la­men­tari. Le prime file sono per gli Ingrao, gli amici e i pre­si­denti della Repub­blica Mat­ta­rella e Napolitano.
Die­tro di loro le sini­stre diverse che però tutte (o quasi) non pos­sono non dirsi ingra­iane, almeno per gra­ti­tu­dine, per aver impa­rato da lui la pra­tica del dis­senso e quella del dubbio.

Nei ban­chi, Sua Mae­stà il Caso scom­pone e ricom­pone la sto­ria del Pci-Pds-Ds-Pd in nuove curiose sequenze: Occhetto l’uomo della Svolta accanto a Luciana Castel­lina fon­da­trice del mani­fe­sto, Aldo Tor­to­rella il comu­ni­sta demo­cra­tico padre dell’associazione per il Rin­no­va­mento della sini­stra accanto all’ex pre­mier Mas­simo D’Alema che due set­ti­mane fa ha pro­po­sto una nuova omo­nima asso­cia­zione. L’ex pre­si­dente del senato Man­cino accanto ai col­le­ghi ex della camera Vio­lante e Ber­ti­notti, a seguire Gen­naro Migliore, l’ultimo (per ora) a gui­dare un fram­mento di sini­stra in una simil scis­sione, onore alle vec­chie abi­tu­dini; l’ex gover­na­tore Bas­so­lino con la pasio­na­ria anti­ren­ziana Pol­la­strini, a sua volta accanto al pacato capo­gruppo Pd Spe­ranza; il migliore dei miglio­ri­sti Maca­luso con l’ingraiano Tocci, l’asorrosiano Asor Rosa e il civa­tiano Cor­ra­dino Mineo. La ditta Bersani&Epifani con la pro­diana Zampa. Il lea­der della Fiom Lan­dini, inse­guito dalle tele­ca­mere, accanto a Mussi, alla gio­vane euro­rin­fon­da­rola Eleo­nora Forenza e al dc Gerardo Bianco. Sparsi per la sala il sin­daco di Roma Marino, Anna Finoc­chiaro, Ugo Spo­setti, par­la­men­tari di Sel, Valen­tino Par­lato, tanti gior­na­li­sti anche di gior­nali chiusi (come l’Unità che Ingrao diresse dal ’47 al ’57, ria­prirà il 25 aprile). Men­zione spe­ciale per tutte le mino­ranze Pd, Fas­sina, Cuperlo, D’Attorre, Damiano, Civati, reduci dal ring della dire­zione, la sera prima: ini­ziata con un com­mosso applauso a Ingrao, l’uomo del dis­senso, finita con porte sbat­tute e un voto bulgaro.

Tutti pre­senti, indo­vina chi non c’è? Non c’è il pre­mier, né il governo, nean­che un gio­vane mini­stro inviato per buona creanza. C’è, sì, la sot­to­se­gre­ta­ria Amici, ma non vale, è dale­miana. E c’è di meglio, anzi non c’è: non c’è un ren­ziano, ecce­zion fatta per il neo­fita Migliore, che però viene dal giro del Prc, il par­tito dove alla fine Ingrao approdò. Né un gio­vane turco, quelli della maglietta di Togliatti, un tempo guar­diani non di un’ortodossia mai cono­sciuta ma almeno di una qual­che idea di par­tito. Il pre­si­dente Mat­teo Orfini spiega l’assenza con la con­sueta pole­mica verso ’gli anar­chici’ della sini­stra interna: «Ci hanno detto che dove­vamo restare in aula a votare il decreto anti­ter­ro­ri­smo. Io sono tenuto a seguire le indi­ca­zione del gruppo. Come dovreb­bero fare tutti».

Ci fosse stato, Renzi avrebbe ascol­tato Alfredo Rei­chlin, pro­prio il Rei­chlin che ha coniato la ren­zia­nissma for­mula «par­tito della nazione» rac­con­tare di come Ingrao all’XIesimo con­gresso (del ’66) abbia pro­cla­mato «il diritto a mani­fe­stare pub­bli­ca­mente il dis­senso» e nel Pci di sessant’anni fa come «abbia rotto quel vin­colo quasi sacrale in base al quale il ver­tice del par­tito si pre­senta unito all’esterno».

E la lezione del ’pro­fes­so­rone’ Gustavo Zagre­bel­sky sul car­teg­gio Ingrao-Bobbio, divisi su tutto ma uniti sul timore di una demo­cra­zia che non par­te­cipa e si tra­sforma «in un elenco di elettori». Fino allo scritto di Ros­sana Ros­sanda letto da Maria Luisa Boc­cia (fem­mi­ni­sta, ingra­iana e cura­trice con Alberto Oli­vetti del nuovo Coniu­gare al pre­sente), che torna sulla scena dell’intervento dell’XIesimo con­gresso, «accolto con un’ovazione fin­ché però la pla­tea non si accorse dell’accoglienza gla­ciale da parte della presidenza».

Per tre ore si parla di Ingrao, appunto, ’coniu­gato al pre­sente’. Fino all’ultimo «non ci sto», dopo l’89 che invita, spiega lo sto­rico Leo­nardo Paggi, «alla rico­sti­tu­zione di una sini­stra cri­tica», a «tor­nare nel gorgo con la forza ragio­nata di un pro­gramma, senza l’attesa di un mitico quanto impro­ba­bile lea­der», oggi che siamo in pre­senza «di un attacco fron­tale ai diritti del lavoro e alla demo­cra­zia par­la­men­tare». A que­sto pro­gramma «dovreb­bero atten­dere quanto prima le forze che sen­tono un legame con la vita di Ingrao».
Ecco, appunto: Renzi non c’è per­ché il Pd di Renzi ha reciso quel legame. «Un finale impe­tuoso, un appello infuo­cato», scherza ma anche no D’Alema, avvian­dosi all’uscita. Pre­si­dente, ha visto?, Renzi non c’era. D’Alema non resi­ste alla bat­tuta: «Chi?

. Inseriamo la nota editoriale e il contributo di Luciana Castellina,

«Da oggi è in tutte le edi­cole con il mani­fe­sto un numero spe­ciale di 16 pagine dedi­cato a Pie­tro Ingrao (costa 50 cen­te­simi più il prezzo del giornale). Contiene arti­coli di Luciana Castel­lina, Citto Maselli, Mas­simo Raf­faeli, Alfredo Rei­chlin, Leo­nardo Paggi, Guido Liguori, Alberto Oli­vetti più inter­venti e discorsi di Ingrao dalla «que­stione del mani­fe­sto» del 1969 alle riforme costi­tu­zio­nali del 2004.Con un ine­dito impor­tante del 1972 pub­bli­cato per gen­tile con­ces­sione dell’Archivio audio­vi­sivo del movi­mento ope­raio e demo­cra­tico che parla anche dell’oggi.Il sup­ple­mento sarà pre­sto dispo­ni­bile anche in for­mato pdf sul nostro sito ed ebook su Ama­zon».


LA STORIA DI PIETRO
di Luciana Castellina

Un secolo in una vita. Il cinema, la letteratura, le istituzioni, la democrazia. Quando una nuova generazione di giovani comunisti porta nel Pci l’assillo di un confronto con le trasformazioni del capitalismo italiano

Ricordo ancora niti­da­mente la prima volta che cele­brai un com­pleanno di Pie­tro Ingrao: era il 1965, lui com­piva cinquant’anni (un’età che mi parve avan­za­tis­sima) ed era mezzo secolo fa. Con San­dro Curzi, ambe­due non da molto usciti dalla irre­quieta Fede­ra­zione Gio­va­nile, gli rega­lammo il suo primo paio di mocas­sini, con una dedica che lo sol­le­ci­tava ad essere meno pru­dente: «Cam­mina coi tempi, cam­mina con noi».

Lo ricordo bene per­ché era­vamo in piena bat­ta­glia «ingra­iana», pro­prio alla vigi­lia del fati­dico XI con­gresso del Pci, quando i com­pa­gni che si rico­no­sce­vano nelle sue idee (non una cor­rente, per carità), usci­rono un po’ più allo sco­perto per soste­nerle; e lui stesso operò quella che fu defi­nita una ine­dita rot­tura. Disse con chia­rezza nel suo inter­vento con­gres­suale: «Sarei insin­cero se tacessi che il com­pa­gno Longo non mi ha per­suaso rifiu­tando di intro­durre nella vita del nostro par­tito il nuovo costume di una pub­bli­cità del dibat­tito, cosic­ché siano chiari a tutti i com­pa­gni non solo gli orien­ta­menti e le deci­sioni che pre­val­gono e tutti impe­gnano ma anche il pro­cesso dia­let­tico di cui sono il risultato».

Fu, come è noto, applau­di­tis­simo, ma tut­ta­via suc­ces­si­va­mente emar­gi­nato dal ver­tice del par­tito e «rele­gato» (allora Bot­te­ghe Oscure con­tava più di Mon­te­ci­to­rio) alla pre­si­denza del gruppo par­la­men­tare e poi della Camera dei Depu­tati. E noi dispersi in ruoli minori, fuori dal palazzo.

Lo ricordo bene per­ché in fondo fu allora che comin­ciò la sto­ria de «il mani­fe­sto», che pure vide la luce solo quat­tro anni più tardi. Senza Pie­tro, che come sem­pre nella sua vita ha fatto pre­va­lere sulle sue scelte poli­ti­che la pre­oc­cu­pa­zione di non abban­do­nare il «gorgo», quello entro cui si adden­sava il popolo comu­ni­sta. Non per paura, sia chiaro, ma per via di quello che era il modo di sen­tire pro­fondo di tutto il par­tito, il timore di sacri­fi­care l’opinione col­let­tiva alla pro­pria indi­vi­duale.

Noi del mani­fe­sto alla fine lo facemmo, ma anche per­ché le nostre respon­sa­bi­lità nel Pci erano infi­ni­ta­mente minori e dun­que il nostro gesto non avrebbe potuto certo avere le stesse con­se­guenze di quello di Ingrao. Ma non cre­diate che sia stato facile nep­pure per noi, fu anzi una scelta molto molto sof­ferta e tal­volta è capi­tato anche decenni dopo di inter­ro­garsi se non avremmo dovuto restare a com­bat­tere den­tro anzi­ché met­terci nelle con­di­zioni di essere messi fuori.

(Per favore non rea­gite, voi gio­vani, dicendo: ma che tempi, non si poteva nep­pure dichia­rare un dis­senso! È vero, non era bello. E però le opi­nioni nono­stante tutto pesa­vano più di adesso, la nostra radia­zione fu un trauma per tutto il par­tito. Ora si può dire di tutto, ma per­ché non conta più niente).

Oggi Pie­tro Ingrao di anni ne com­pie 100, e noi de il mani­fe­sto, se con­tiamo anche l’incubazione, 50.

Col tempo si è forse smar­rito il senso di cosa sia stato l’ingraismo, e anzi mi chiedo se tra i gio­vani della reda­zione del gior­nale c’è ancora qual­cuno che sa di cosa si sia trat­tato. Non fu, badate, solo una bat­ta­glia per la demo­cra­tiz­za­zione del par­tito, il famoso diritto al dis­senso. C’era molto di più: si è trat­tato del ten­ta­tivo più serio del pen­siero comu­ni­sta di fare i conti con il capi­ta­li­smo nei suoi punti più alti, di indi­vi­duare le nuove, moderne con­trad­di­zioni e su que­ste — più che su quelle anti­che dell’Italietta rurale — far leva, non per «inse­guire mille rivoli riven­di­ca­tivi» (per usare l’espressione di allora), ma per costruire un vero modello di svi­luppo alternativo.

Si trat­tava della rot­tura con l’idea di uno svi­luppo lineare, col mito della «moder­nità acri­tica», che fu alla base della cul­tura neo­ca­pi­ta­li­sta (e cra­xiana) di que­gli anni. E, ancora, il ten­ta­tivo di capire che la crisi ita­liana non rap­pre­sen­tava una ano­ma­lia (un vizio tutt’ora dif­fuso), ma poteva essere capita solo nel nesso con il capi­ta­li­smo avan­zato quale si stava svi­lup­pando nel mondo.

Dal giu­di­zio sulla fase discen­de­vano due diverse linee stra­te­gi­che e per que­sto il con­fronto non fu solo teo­rico, ma stret­ta­mente intrec­ciato con il che fare poli­tico: se biso­gnava agire per ren­dere l’Italia «nor­male», e cioè alli­nearla alla moder­nità euro­pea, o invece inci­dere su quel nesso anche per risol­vere i vec­chi pro­blemi e pre­pa­rare un’alternativa anche alla «nor­ma­lità» capitalistica.

La destra del Pci ovvia­mente si oppose a que­sta pro­spet­tiva. Quando il Pci, dopo la Bolo­gnina, fu avviato allo scio­gli­mento, pro­prio su que­sta neces­sa­ria inno­va­zione costruimmo — que­sta volta uffi­cial­mente assieme a Pie­tro Ingrao — il senso della famosa «Mozione 2» che alla liqui­da­zione del par­tito si oppo­neva. Non in nome della con­ser­va­zione ma, al con­tra­rio, del cam­bia­mento, che non faceva però venir meno le ragioni dell’alternativa al sistema ma anzi le raf­for­zava. Le vec­chie cate­go­rie non basta­vano più e Ingrao è sem­pre stato attento a non ripe­tere lita­nie ma a indi­vi­duare ogni volta le poten­zia­lità nuove offerte dallo svi­luppo sto­rico, i sog­getti anta­go­ni­sti, a capire come si for­mano e si aggre­gano per diven­tare classe diri­gente in grado di pro­spet­tare una società alter­na­tiva. Oggi e qui.

Come sapete, perdemmo.

Su quel nostro dibat­tito degli anni 60 — che trovò poi una siste­ma­zione nel 1970 pro­prio nelle «Tesi per il comu­ni­smo» del Mani­fe­sto (che non dis­sero che il comu­ni­smo era maturo nel senso di immi­nente, come qual­cuno equi­vocò — e iro­nizzò -, ma che non sarebbe stato più pos­si­bile dare solu­zione ai pro­blemi posti dalla crisi nel qua­dro del sistema capi­ta­li­stico sia pure ammodernato).

Que­sto fu l’XI con­gresso del Pci, quello spar­tiac­que delle cui emo­zioni, pas­sioni, sof­fe­renze Pie­tro Ingrao ha dato eco nel suo libro «Volevo la luna».

Nell’anniversario del suo cen­te­simo anno di vita avrei forse dovuto par­lare di Pie­tro Ingrao ricor­dan­done di più i suoi aspetti umani, la sua per­so­na­lità, il modo come ha dipa­nato la sua esi­stenza, e non invece andar subito dritta al noc­ciolo poli­tico della sua vita di comunista.

L’ho fatto per due ragioni: per­ché troppo spesso ormai nel cele­brare gli anni­ver­sari si tende a ridurre tutto ai tratti del carat­tere di chi si ricorda, alle sue qua­lità morali, e sem­pre meno a riflet­tere sulle loro scelte poli­ti­che. E poi per­ché Pie­tro in par­ti­co­lare, invec­chiando, — e forse anche per via di come sono andate le cose nella sini­stra ita­liana — ha finito per ricor­darsi sot­to­tono, per­sino con qual­che vezzo civet­tuolo, più come poeta che come diri­gente poli­tico. Che è invece stato e di primo piano.

Poeta non ha in realtà mai smesso di essere, basti pen­sare al suo modo di espri­mersi, mai poli­ti­chese, sem­pre attento a illu­mi­nare l’immaginazione e non a ripe­tere cate­chi­smi. Vi ricor­date la sua sor­pren­dente uscita nell’intervento al primo dei due con­gressi di scio­gli­mento del Pci, il XIX nel 1990, quando se ne uscì col suo cla­mo­roso «viventi non umani», per chie­dere atten­zione alla natura e alle sue speci? Non era forse una poe­sia, che come tale suonò, del resto, in quel gri­gio e mesto dibat­tito di fine partita?

Pie­tro non usava il poli­ti­chese per­ché ascol­tava. Sem­bra banale, ma quasi nes­suno ascolta. E sic­come ascol­tava è stato anche ascol­tato da gene­ra­zioni assai più gio­vani, quelle che dei nostri dibat­titi all’XI con­gresso del Pci, e del Pci stesso, non sape­vano niente. Penso al Forum sociale euro­peo di Firenze nel 2002, per esem­pio, dove il suo discorso sulla pace con­qui­stò ragazzi che non sape­vano nep­pure chi fosse.

Ascol­tava per­ché della demo­cra­zia ha sem­pre sot­to­li­neato un ele­mento ormai in disuso, soprat­tutto il pro­ta­go­ni­smo delle masse, la partecipazione.

Può sem­brare curioso, ma molto del pen­siero poli­tico di Ingrao è stato segnato dalla sua ado­le­scen­ziale for­ma­zione cine­ma­to­gra­fica. Nei molti anni in cui per via del mio inca­rico nella pro­mo­zione del cinema ita­liano ho avuto con i big di Hol­ly­wood molti incon­tri e spesso la discus­sione sci­vo­lava sull’Italia e sul come era stato pos­si­bile che ci fos­sero tanti comu­ni­sti. Un po’ scher­zando e un po’ sul serio ho sem­pre finito per ricor­rere ad un para­dosso: «Badate — dicevo — il comu­ni­smo ita­liano è così spe­ciale per­ché oltre­ché a Mosca ha le sue radici qui a Hol­ly­wood, che dun­que ne porta le respon­sa­bi­lità». E poi rac­con­tavo loro la sto­ria, tante volte sen­tita da Pie­tro, della for­ma­zione di un pezzo non secon­da­rio di quello che poi diventò il gruppo diri­gente del Pci nel dopo­guerra: Mario Ali­cata, lui stesso, e anche altri che pur fuori dai ver­tici sul par­tito ave­vano avuto una for­tis­sima influenza, Visconti, Liz­zani, De San­tis. Tutti allievi del Cen­tro spe­ri­men­tale di cinematografia.

Rac­con­tavo loro, dun­que, di Ingrao che mi aveva detto di come la sua gene­ra­zione, già a metà degli anni ’30, avesse avuto il suo ceppo pro­prio nel cinema. E, segna­ta­mente, nel grande cinema — e nella let­te­ra­tura — ame­ri­cani del New Deal, tor­tuo­sa­mente cono­sciuti pro­prio al Cen­tro gra­zie a una for­tuita cir­co­stanza: l’arrivo, come inse­gnante, di un sin­go­lare per­so­nag­gio, Ahr­n­heim, ebreo tede­sco sfug­gito al nazi­smo e chissà come appro­dato pro­prio lì, prima che le leggi raz­ziali fos­sero intro­dotte anche in Italia.

«Pro­prio quelle pel­li­cole — mi disse Pie­tro in occa­sione di un’intervista (per il set­ti­ma­nale Pace e guerra che allora diri­gevo) su una impor­tante mostra alle­stita a Milano sugli anni ’30 — mostra­vano cari­che di socia­lità, in cui c’era la classe ope­raia, la soli­da­rietà sociale, la lotta. Pro­prio gra­zie a quei film, che erano mezzi di comu­ni­ca­zione fra i movi­menti sociali e l’americano qua­lun­que, così diversi dalla cul­tura anti­fa­sci­sta ita­liana degli anni ’20 — eli­ta­ria, erme­tica — che ave­vamo amato, ma non ci aveva aiu­tato; pro­prio quei film che ci apri­vano una fine­stra sull’intellettuale impe­gnato, noi ci siamo poli­ti­ciz­zati. Sono stati il primo passo verso la poli­tica».

Que­sto nesso fra cul­tura e poli­tica è stato un tratto che ha distinto il comu­ni­smo ita­liano. E Pie­tro Ingrao ne è stato uno dei più signi­fi­ca­tivi interpreti.

Gra­zie e tanti auguri, Pietro

Pubblichiamo il testo integrale di uno scritto inserito in sintesi nel libro: Ella Baffoni, Vezio De Lucia, La Roma di Luigi Petroselli, Castronovi, Roma 2011

Ricordo bene il primo giorno da sindaco di Luigi Petroselli. Allora ero segretario del Pci della zona Tiburtina e quella mattina mi trovavo in sede a commentare con i compagni la seduta del consiglio comunale in cui era stato eletto. Tra di noi c'era molta curiosità e forse anche una trattenuta preoccupazione su come avrebbe interpretato quel ruolo. Come dirigente di partito aveva mostrato la lucidità politica, l'indiscussa autorevolezza, nonché la rudezza del carattere. Avevamo qualche dubbio, senza il coraggio per dircelo, sulla possibilità di coniugare quei tratti della personalità con il nuovo compito, certo più bisognoso di empatia verso i cittadini.

Mentre eravamo immersi in questi ragionamenti si sentì un baccano nel vicino mercato rionale. In un momento di follia un giovane aveva sparato colpi di fucile, per fortuna senza fare vittime, seminando sgomento in tutto il quartiere. Subito i nostri militanti, come si usava allora in un quartiere popolare a maggioranza assoluta di voti comunisti, si riversarono in strada e nei lotti dello Iacp a parlare con i cittadini per dare una risposta collettiva a quello spavento. Dopo un'oretta ci arrivò una telefonata dal Campidoglio. Era Amato Mattia – il bravissimo capo-segreteria che tanto contribuì al successo di quella stagione – e ci chiedeva di organizzare per la sera una grande manifestazione nella piazza di Pietralata con la partecipazione del sindaco per segnare una presenza democratica in quel clima degli anni di piombo. Ci mettemmo subito al lavoro, senza le mail e gli sms di oggi, ma con gli altoparlanti, i manifesti e soprattutto gli attivisti della sezione. Nonostante le poche ore a disposizione la piazza si riempì di cittadini accorsi anche dai quartieri limitrofi. Petroselli prese la parola in un silenzio carico di ansia e di aspettative. Fece un grande discorso, si appellò alle tradizioni di lotta civile di Pietralata, impegnò il Campidoglio a fianco dei cittadini nella buona e nella cattiva sorte. Esplose un applauso interminabile da parte di un popolo che capì subito di avere davanti il proprio sindaco. Poteva sembrare eccessiva la mobilitazione di piazza per un episodio che in fondo non aveva avuto conseguenze e non mostrava cause politiche. Tuttavia, quel surplus di partecipazione cancellò la paura della mattina e creò una sensazione di forza dell'azione collettiva. Oggi i politici di destra e forse anche qualcuno di sinistra risponderebbero a un fatto analogo invocando leggi d'emergenza contro i criminali. Allora, un sindaco come Petroselli rispondeva parlando al popolo di solidarietà.

Conclusa la manifestazione ci ritrovammo nella sede del partito e fummo tutti d'accordo nel risolvere i dubbi che erano affiorati la mattina. Capimmo dal primo giorno che Roma avrebbe avuto un grande sindaco. Le successive uscite nei quartieri seguirono lo stesso stile. Anche quando portava soluzioni concrete coglieva l'occasione per accrescere le risorse morali e civili della città. Lo vedevamo trasformato come persona non solo come politico. Erano scomparsi quei modi eccessivamente severi che, almeno noi giovani, avvertivamo come caratteri di una dura pedagogia di partito.

Si potrebbe pensare che il movente del cambiamento fosse politico, poiché si trattava di una personalità cresciuta nel clima culturale del totus politicus. Pur non avendo avuto la fortuna di frequentarlo di persona, ho avuto modo però da vicesindaco di raccogliere molti ricordi di persone che lo avevano conosciuto e – fosse un borgataro o un intellettuale, un burocrate comunale o un politico anche di destra – ho spesso visto la commozione negli occhi dei miei interlocutori. Questa intensa umanità non può essere solo frutto del politico, ma deve trovare spiegazione in una dimensione più interiore. Azzardo qui, senza alcun titolo per farlo, un'interpretazione unilaterale, che cioè fosse proprio quella espressa nella personalità calda e coinvolgente del sindaco la vera indole dell'uomo e che, al contrario, quella più fredda e severa che temevamo noi giovani, era invece un carattere autoimposto nella sua formazione politica.

In ogni caso il successo del sindaco derivava proprio dall'autenticità della persona. E ciò spiega anche il senso tragico con cui adempì al compito, ben sapendo che il cuore non avrebbe retto a quella fatica, ma gettandosi ugualmente in uno sforzo fisico e psicologico che lo avrebbe portato consapevolmente a morire da sindaco. A mettere a rischio la vita secondo la ragione della sua vita.

Tuttavia, questa rimane pur sempre una spiegazione unilaterale e quindi molto poco petroselliana, essendo molto forte per lui la ricerca dei nessi tra i diversi fenomeni. D'altronde, il filo tra il lato umano e quello politico è stato sempre molto forte nei dirigenti comunisti e in particolare in quelli romani. Ci sono precedenti significativi. Edoardo D'Onofrio pur essendo di cultura terzinternazionalista fu l'unico a capire i Ragazzi di vita di Pasolini respingendo gli attacchi della critica letteraria ortodossa di partito. Paolo Bufalini pur essendo un raffinato intellettuale dedicava molte serate a discutere con i militanti nelle osterie di periferia, per capire la sensibilità del sottoproletariato romano e per condurlo alla coscienza politica. Quei dirigenti conoscevano quell'eccedenza di umanità della vita popolare che andava oltre i rigidi schemi dell'ideologia. A questa tradizione apparteneva Luigi Petroselli e da essa traeva quel nesso tra l'umano e il politico che da sindaco riuscì a esprimere meglio che da dirigente di partito.

Con una differenza fondamentale rispetto ai due predecessori. D'Onofrio e Bufalini avevano piena fiducia nel partito come strumento per “fare popolo”, cioè trasformare in una forza politica il ribellismo sottoproletario. In Petroselli invece, a mio avviso, c'è già una percezione, seppure non dichiarata, delle difficoltà della forma partito e una ricerca di nuovi strumenti della politica. In questo egli condivide l'analisi ma non i rimedi con Enrico Berlinguer. E' sulla diversità comunista come risposta al rischio di decadenza dei partiti popolari che si consuma il doloroso distacco dal segretario. Ciò non gli impedisce di vedere con altrettanta acutezza la crisi del vecchio sistema politico, a partire da una lettura non contingente della rottura dei governi di unità nazionale. Da sindaco si muove all'interno di questa consapevolezza, cercando comunque concrete risposte a partire dall'esperienza amministrativa.

Con il suo stile di governo anticipa elementi significativi che emergeranno solo tre lustri più tardi con la stagione dei sindaci eletti direttamente. All'interno di un sistema politico basato su alleanze tra partiti e legge proporzionale introduce una relazione diretta tra sindaco e cittadini, una sorta di responsabilità di mandato rispetto al programma di governo, un indirizzo compatto verso la squadra di assessori e la macchina amministrativa. Le risposte in diretta ai cittadini nelle trasmissioni di Video Uno esemplificano un modo di fare il sindaco innovativo per quei tempi. Per via politica egli forza il vecchio sistema e anticipa l'ordinamento comunale che verrà poi codificato negli anni novanta.

Per tornare all'esempio del primo giorno, Petroselli sa che per parlare come sindaco a tutti i cittadini di Pietralata ha ancora bisogno della mobilitazione dei militanti del suo partito. Anzi, da sindaco continua a dirigere quei militanti e riesce a farlo meglio di prima, fornendo motivazioni civiche laddove non funzionavano già da tempo quelle politiche. Noi giovani quadri avvertiamo chiaramente che si sposta in Campidoglio il centro di orientamento della nostra organizzazione. Proprio in questa nuova collocazione il Pci a Roma può prolungare la funzione di partito popolare, che già cominciava ad appannarsi, come dimostra la sconfitta elettorale del 1979. Non a caso quello è il campanello di allarme per accelerare l'avvicendamento del sindaco Argan.

Petroselli è rimasto sempre il capo di una parte, se non intendiamo questa espressione nel senso restrittivo che ha assunto nella politica di oggi, ma nel significato storico-politico che aveva allora. Basta rileggere i suoi discorsi per capire che egli si considerava l'espressione politica di un più vasto movimento storico di emancipazione dei lavoratori e della periferia romana.

Ciò determinava in modo univoco l'azione di governo. Prima di tutto promuovere la giustizia sociale dove era sempre mancata. E' impressionante la mole di realizzazioni volte a risolvere i bisogni primari: demolizione di tutti i borghetti, costruzione di asili e scuole per eliminare i doppi e tripli turni, acqua, luce e fogne nell'immensa città abusiva, avvio dell'eliminazione delle barriere architettoniche, invenzione dei centri sociali per anziani, realizzazione di un programma titanico di edilizia economica e popolare, conclusione del cantiere ventennale della metropolitana. Fu una gigantesca redistribuzione di ricchezza a favore dei ceti popolari, come non si era mai vista prima nella storia della città e come non si vedrà più in seguito. Essere parte per quelle amministrazioni significava prima di tutto risarcire la povera gente e i lavoratori.

Il piano di edilizia popolare, in particolare, fu realizzato mediante un'importante innovazione nella struttura economica. Petroselli fece cambiare mestiere ai “palazzinari”, convincendoli a smettere di giocare a monopoli con le aree fabbricabili. Il comune avrebbe espropriato le aree ai proprietari e le avrebbe assegnate agli imprenditori perché costruissero case a prezzi calmierati e accessibili ai lavoratori. In tal modo gli operatori economici venivano stimolati ad abbandonare la speculazione per concentrarsi invece sulla effettiva capacità imprenditoriale nella costruzione degli alloggi. Su queste basi si fece l'accordo, siglato con il famoso Protocollo d'intesa nei primi mesi del mandato del sindaco. Anche in questo caso bisogna dire per la prima volta a Roma si bloccò la rendita immobiliare e si favorirono gli investimenti produttivi.

Per siglare quell'accordo Petroselli certamente utilizzò la funzione di sindaco ma fece pesare anche il ruolo di capo politico della sinistra. Anche i costruttori lo percepivano in questo modo, sapevano che stipulavano un patto con la parte che li aveva avversati per decenni e questo aveva un significato che andava oltre l'accordo con l'amministrazione. Si trattava di una mediazione che spostava in avanti il ruolo di entrambi i contraenti: l'uomo politico che si sentiva rappresentate di una lunga lotta popolare contro la speculazione era chiamato a governare i processi offrendo una soluzione diversa; gli imprenditori si impegnavano ad abbandonare le vecchie pratiche raccogliendo la sfida di un nuovo sistema di convenienze.

Certo, a quel piano edilizio sono state rivolte molte critiche, in buona parte giustificate, per la qualità degli interventi e le modalità gestionali. Si trattava di errori prodotti da mentalità amministrative e competenze tecniche troppo rigide e già antiquate per quei tempi. Erano errori da correggere e invece vennero strumentalizzati dalla controffensiva degli interessi colpiti. Anche nella legislazione nazionale vennero smantellati di strumenti di controllo del territorio. Il risultato fu il ritorno al gioco di valorizzazione delle aree e l'abbandono di qualsiasi politica di edilizia pubblica. Nei trentanni successivi in tutta Italia la rendita immobiliare si è rafforzata tramite l'alleanza con la finanza nell'economia di carta e di mattone. E in assenza di qualsiasi politica per la casa ai ceti popolari non è rimasto altro da fare che lasciare le città e andare a vivere negli hinterland in cerca di affitti e prezzi di acquisto più bassi.

Straordinaria fu la capacità di Petroselli di incidere in poco tempo, circa due anni, sulle strutture portanti dell'economia romana. Questa intensità di governo non si è più realizzata nei governi successivi, neppure nel nostro quindicennio che pure ha portato tanti risultati positivi alla città, ma non ha avuto la stessa ambizione di modificarne i caratteri strutturali. La differenza è ancora più rilevante se si considerano gli strumenti a disposizione. Quelle degli anni Settanta erano amministrazioni tradizionali e fortemente burocratiche; noi al contrario abbiamo utilizzato i potenti strumenti messi a disposizione dalle riforme degli anni novanta: società di scopo, conferenze di servizi, spoil-system, autonomia statutaria comunale ecc. Soprattutto i poteri del sindaco erano ben diversi. Se Petroselli, come si è detto, li rafforzò per via politica, i successori hanno ottenuto dalla legge l'investitura diretta dai cittadini. Infatti, all'inizio degli anni novanta in tutta Italia la nuova legge elettorale sembrò conferire al primo cittadino una forte capacità di governo. Ma ben presto la stagione dei sindaci si esaurì e negli anni successivi quel ruolo cambiò segno. Rimanendo prigionieri delle ansie da sondaggi i leader municipali hanno gradualmente ridotto le ambizioni di governo, preferendo assecondare la frammentazione sociale e dedicandosi a interventi di breve durata ma di forte impatto mediatico. La personalizzazione non mantiene la promessa della decisione. Spesso il sindaco è più impegnato a raccontare se stesso che a trasformare la città. E arrivato al secondo mandato comincia a pensare al prossimo incarico, distraendosi dal governo della cosa pubblica. Morire da sindaco è davvero un programma d'altri tempi.

Ecco perché oggi vale la pena di riflettere su Petroselli, non solo sull'uomo e non solo per il caro ricordo che ci lega a lui, ma per porsi domande attuali su come si decide nel governo delle città italiane. Le recenti elezioni amministrative hanno fatto vedere le prime crepe nel modello di governo comunale, che pure sembrava il migliore assetto istituzionale maturato nella Seconda Repubblica. Basti pensare che per una quota del 40 per cento i sindaci uscenti non sono stati confermati, mentre in passato era quasi scontato il passaggio al secondo mandato.

Nella Prima Repubblica c'è stata un'alta concezione della rappresentanza di una parte come contributo alla democrazia. Nella Seconda, al contrario, è prevalsa l'attenzione al leader di governo che risponde direttamente ai cittadini. Se entrambe le forme politiche mostrano i propri limiti non vuol dire che siano sbagliate, ma solo che non si reggono in piedi da sole, perché hanno bisogno di vivere insieme. Quando si separano, infatti, perdono forza e decadono, la prima nella programmatica rinuncia a governare e la seconda nel dare ragione a tutti senza prendere alcuna decisione. La grandezza di Petroselli è stata nel tenere insieme la parte e il tutto. Questo ci lascia in eredità come problema. Uomo di parte e sindaco di tutti è ancora oggi la condizione per prendere le grandi decisioni nel governo delle città.

Pubblichiamo il testo integrale di uno scritto inserito in sintesi nel libro: Ella Baffoni, Vezio De Lucia, La Roma di Luigi Petroselli, Castronovi, Roma 2011

Luigi Petroselli lo ricordo con una nitidezza che fa male: gli occhi quasi infantilmente interroganti, l’eterna sigaretta pendula al lato della bocca, l’andatura randagia e il vestire piuttosto trasandato, l’indimenticabile pronuncia non proprio romanesca – era originario di Viterbo – ma alquanto sciatta, a tratti fra il sottovoce e il farfugliare fin quasi a sfiorare l’incomprensibile. Era stata Maria Michetti, indomita «eretica» minoritaria nel seno del Pci romano, vicina a Pietro Ingrao, consigliere comunale da sempre, a parlare di me a Luigi Petroselli, all’epoca – primi anni Settanta – segretario della Federazione romana, interessato e, anzi, «impressionato» dai dati, ma anche dall’intento dissacrante del mio libro Roma da capitale a periferia, uscito da Laterza nel 1970, proprio in occasione delle celebrazioni di Roma capitale come un controcanto sardonico, duro, fin quasi sfrontato, rispetto alle fanfare dell’ufficialità. Anni prima, Maria Michetti era venuta a trovarmi, accompagnata dal mio fido assistente anziano Corrado Antiochia, per chiedermi di fare da «relatore» alla sua tesi di laurea, della quale sperava di liberarsi in pochi anni. Dopo averle parlato una mattina nel mio ufficio al terzo piano della Galleria Esedra, dopo un lungo silenzio sbottai: non tre anni, tre mesi; laureata e quindi nominata assistente sul campo, Maria Michetti, nello stuolo ormai fitto di assistenti, dimostrò subito qualità di studiosa e di ricercatrice eccezionali.

Era una di quelle incerte primavere romane, con giornate quasi uggiose di piogge intermittenti, di colpo interrotte da pomeriggi caldi, ormai estivi, e poi da brevi, salutari giorni di tramontana secca e cielo terso. Con Petroselli ci vedevamo nel mio ufficio; poi, sotto, al bar Dagnino, si cementava l’amicizia parcamente, con un aperitivo analcolico. Il mandato del sindaco democristiano Clelio Darida volgeva ingloriosamente al termine. C’era nell’aria una certa voglia, ancora indistinta, di cambiamento. Petroselli era semplice e diretto: il prossimo sindaco doveva esser un indipendente di sinistra, un nome nuovo, non di apparato. Toccava a me, diceva con definitiva semplicità, aprendo e chiudendo in poche parole il discorso. Io prendevo tempo. Forse Petroselli non lo sapeva o forse lo sapeva e non gliene «fregava» niente. Le sue parole riaprivano in me antiche ferite. La politica l’avevo già fatta. Ero stato deputato indipendente nella terza legislatura (1958-1963). Ero l’unico rappresentante del Movimento Comunità di Adriano Olivetti. Appartenevo al gruppo misto, con uomini come Ugo La Malfa, Oronzo Reale, Oddo Biasini, ma anche i monarchici Alfredo Covelli, il marchese Lucifero, il duca Rivera, mio dirimpettaio in Via Appennini.

Con sottile, forse inconsapevole crudeltà, Petroselli, accompagnato nelle prime visite da Maria Michetti, mi stuzzicava, dunque, e giocava, per così dire, sulla mia mai completamente sopita ambizione e desiderio di riconoscimento pubblico e l’impegno alla coerenza di chi aveva studiato le borgate, i borghetti e le baracche di Roma e che, adesso, senza alcuna condizione, si vedeva offrire su un piatto d’argento o se si vuole, di stagno, la possibilità di verificare sul metro dei rapporti di potere quotidiani le sue brillanti ipotesi intellettuali.

Aveva così inizio il mio Tabor privato. A questo punto Maria Michetti cominciava a dare chiari segni di preoccupazione: temeva per la mia distratta tendenza a parlare e a dire esattamente ciò che al momento pensavo senza badare alle conseguenze; mi stava cercando un buon avvocato di vaglia da mettermi alle costole, come già aveva fatto con Guido Calvi all’epoca in cui Enzo Biagi mi aveva querelato per diffamazione aggravata con ampia facoltà di prova. Maria era mossa, nei miei confronti, da un atteggiamento protettivo più materno che accademico.

Intanto Luigi Petroselli veniva giù esplicito, ormai sicuro di avermi in pugno: «Che vuoi. Hai analizzato la vita e la miseria delle borgate. Ne hai descritto la povertà materiale, ma anche politica, culturale… L’espediente come mezzo normale di sussistenza. La mancanza di un reddito regolare. Gli allacciamenti abusivi e pericolose con i cavi elettrici. La mancanza di fognature… Hai studiato tutto. E adesso? Adesso ti dò la possibilità di fare qualche cosa di pratico, di non limitarti alle parole, alla sterile denuncia, a sfruttare la miseria degli altri per i tuoi libri di successo…».

L’uomo sapeva come adoperare bene il bisturi psicologico. Ma le vacanze di Pasqua stavano arrivando. Avrei accompagnato la famiglia a Urbino a visitare il Palazzo ducale. Chiedevo una pausa di riflessione. Ma Petroselli era tenace come un montanaro, furbo come un vero contadino, più rapido di un intellettuale. «Ti farò dare 45 mila voti di preferenza. Se, come dici, vuoi aver tempo per studiare e scrivere, bene, mi dai tre anni. Dopo subentro io. Sta tranquillo. Se mi dici di no, dovrò imbarcare il “vecchio”». Alludeva probabilmente al noto storico dell’arte Carlo Giulio Argan. Nulla di irrispettoso, solo la rude franchezza dell’organizzatore politico di base, dell’uomo d’azione che ha il senso della scadenza e che non può permettersi alcun amletismo fra pensiero e decisione.

Sapevo che il caso di Roma, dopo la breve, luminosa parentesi dell’amministrazione di Ernesto Nathan, era un caso da manuale per quanto riguarda la speculazione edilizia dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni ’70. A questo tema doloroso e vergognoso, che aveva visto coinvolte le gerarchie ecclesiastiche e non solo i famelici partiti e gli interessi, sostanzialmente parassitari, della rendita e del «generone» avrei in seguito dedicato il libro Roma madre matrigna (Laterza, 1991). Avrei affermato in quella sede, con sicurezza e baldanza forse eccessive, che Roma era non solo una doppia capitale, del Vaticano e dello Stato italiano, ma anche una doppia economia, della rendita e del capitale, maggiormente caratterizzata da una proprietà assenteistica e parassitaria che da un capitalismo moderno, in grado di operare la combinazione ottimale fra terra, capitale e lavoro. Notavo il fatto che Roma sia divenuta una «capitale del capitale», ossia una delle sedi dove assai rapido è il movimento di denaro a livello mondiale, non contrasta davvero, ma concorda, con le caratteristiche della città; e, anzi, le esalta. Le attività industriali di una qualche consistenza continuano ad essere quasi totalmente assenti entro i confini del Comune di Roma, che con i suoi 150 mila ettari ha il territorio più vasto di ogni altra città italiana. Esse hanno trovato una loro collocazione, sollecitata e favorita dal potere centrale, lungo la direttrice Pomezia-Latina e costituiscono nel loro insieme un’importante realtà sociale e non solo un fatto economico di rilievo. La separatezza di questa consistente area industriale dalla città crea problemi anche al pianificatore urbanista, ma quei problemi presentano sempre una costante: entro i confini del Comune è il blocco edilizio che conserva vigorosamente il suo dominio.

La scelta della vicenda dei piani regolatori di Roma per definire una possibile tipologia del pianificatore urbanista non è davvero arbitraria e tanto meno «di comodo». Essa offre l’occasione di osservare come tale figura giochi uno specifico ruolo di mediazione intellettuale in una situazione assai semplificata di confronto-scontro tra interessi privati e interesse collettivo.

La letteratura urbanistica più avveduta è ben consapevole del fatto che a Roma si misura quello che abbiamo chiamato il confronto diretto tra pianificatore e «blocco edilizio». Essa è venuta rappresentando questa situazione con l’immagine delle «due città», «Roma e l’altra Roma», giustamente evitando rigide ed esclusive collocazioni di classe e prestando attenzione ai fattori ideologici, ai processi storici, al complesso delle tensioni sociali. Essa, però, ci è apparsa e ci pare a disagio nell’acquisire coscienza di quello che le ricerche sociologiche su Roma hanno individuato e definito come «interfunzionalità economica e ideologica tra le due città».

Queste due città – occorre esserne avvertiti – non sono oggi visibili a Roma nei ghetti contrapposti di quartieri residenziali e di borgate. Apparentemente è andato avanti un processo di integrazione, di omologazione, che ingannava anche Pasolini. È vero che oggi, a Roma, ci sono meno baracche e meno borghetti. Gli occhi colgono un intrecciarsi di tipologie edilizie e di modi di abitare che tendono a ridurre le differenze e comunque ad «occultare» le baracche: è meno agevole oggi intuire dalla facciata della casa la condizione concreta di vita di chi vi abita dentro.

Il rapporto tra le due città non è più riassumibile nel visibile contrasto tra miseria e ricchezza: esso si manifesta nelle forme assai più complesse che assumono i diversi livelli di potere, le modalità e le possibilità attraverso le quali essi sono individualmente e socialmente raggiungibili. L’uscita dalla baracca è (meglio, può essere, ma può anche non essere) solo il primo passo per acquisire un qualche potere.

Le vicende dell’amministrazione capitolina rispecchiano fedelmente la situazione: il sindaco Rebecchini, notoriamente «uomo dell’Immobiliare», viene travolto dalla vicenda del mega-hotel Hilton, e deve passare la mano a Umberto Tupini, chiamato a governare una situazione resa incandescente dalla questione del piano regolatore generale e dal «sacco di Roma» che accompagna gli interventi straordinari per le Olimpiadi del 1960. La sua è una giunta di minoranza, ancora una volta sostenuta di fatto dal Msi.

Appena due anni dopo, a Umberto Tupini subentra Urbano Cioccetti, che estende la maggioranza ai monarchici laurini (popolari). Si apre un biennio di acuti contrasti, principalmente sulla questione del piano regolatore generale (1959). Rieletto nel 1960 con il voto determinante della destra – alla quale paga un elevato prezzo morale rifiutandosi di far celebrare l’anniversario della Liberazione di Roma –, Cioccetti tenta un monocolore Dc di segno conservatore. Ma le vicende nazionali, con la fiammata antifascista del luglio 1960, e la paralisi amministrativa indotta dall’insostenibile stallo sul Prg, rendono impraticabile la sterzata a destra. Urbano Cioccetti è costretto a dimettersi nel luglio del 1961 e un commissario prefettizio è incaricato di predisporre le consultazioni anticipate che si svolgeranno nel giugno dell’anno successivo.

La Dc, sollecitata da Aldo Moro a sperimentare nella capitale un governo di centro-sinistra, è sconfitta. A destra, il Msi sbaraglia la concorrenza monarchica e si conferma con 13 consiglieri nel ruolo di terzo partito, dimostrando così la persistenza culturale e, insieme, la perdurante funzionalità politica della destra nel sistema amministrativo romano. Nel contesto romano, del resto, la crisi del partito trasversale reazionario, che abbiamo definito «partito romano», non ha ancora prodotto una frattura irreversibile fra neo-fascisti possibilisti e cattolici conservatori. Anzi, a tessere nuove trame e intese rese appetibili dalle risorse di scambio del sottogoverno municipale, lavorano varie riviste e associazioni tradizionalistiche.

Si tenga presente come, ancora per tutti gli anni Cinquanta, quello missino si configuri a Roma come un voto interclassista di massa, in cui gli appelli simbolici all’anima nostalgica e ai ceti sociali di antica lealtà reazionaria, si confondono con la gestione di incentivi più prosaici, di provenienza sottogovernativa e prevalentemente diretti alle aree di immigrazione sottoproletaria. Ma la destra mantiene presenze non irrilevanti nel mondo delle professioni e un discreto circuito associazionistico di fiancheggiamento. Per tutto il decennio, ad esempio, una parte consistente della stampa locale – in continuità con le campagne del «Tempo» e del «Popolo di Roma», veri organi ufficiosi del «partito romano» - asseconda contro l’ipotesi di centro-sinistra la ricomposizione di quel partito trasversale conservatore di cui i neo-fascisti sono parte costitutiva.

Il centro-sinistra – progetto legato a una seppur generica domanda di razionalizzazione e modernizzazione – rappresenta insomma il catalizzatore del conflitto e, insieme, il fattore di accelerazione della crisi. Ciò vale tanto per il fronte conservatore del vecchio «partito romano» quanto per il Blocco del popolo che in un paio di occasioni (e segnatamente con le politiche del 1952) sembra rivestire i panni del vecchio radicalismo anticlericale e antimonopolistico. Alla fine degli anni Cinquanta l’egemonia della Dc – partito del potere nazionale con ramificazioni locali non più totalmente identificabili con i notabili pacelliani – appare elettoralmente solida, ma politicamente fragile per gli effetti indotti dai nuovi termini del conflitto e dal sovrapporsi di interessi compositi che intersecano lo schieramento del cattolicesimo politico entro una dialettica tradizione-innovazione non sempre lineare. A destra, si è andata consolidando attorno al Msi un’aggregazione populista di tipo nuovo, che alza il prezzo della mediazione sotterranea con i potentati Dc e gioca sulle minacce all’ordine democratico per imporre regole del gioco ormai estranee alle possibilità di controllo del «partito romano». Il Blocco radicale si spegne fra il 1953 e il 1956. Al suo posto c’è la grande forza organizzata di un Pci atipico e destinato a fornire l’imprinting per i conflitti che animeranno nei decenni successivi la sinistra romana (’68 compreso).

Il panorama complessivo prelude a un processo di omologazione di Roma alle coordinate politiche nazionali, secondo l’ispirazione strategica del centro-sinistra in versione fanfaniana. Nel luglio del 1962, Glauco Della Porta – tecnocrate di area morotea – è il primo sindaco a guidare una maggioranza di centro-sinistra. Ancora una volta, Roma rappresenta il laboratorio delle scelte nazionali. Ma la giunta di Della Porta dura solo, e stentatamente, un biennio.

La situazione, non solo romana, precipita. I tardi anni Settanta sono l’imprevedibile, spaventoso scenario della tragedia italiana: la lotta armata, il sequestro e l’uccisone di Aldo Moro, la «notte della Repubblica». Argan si dimette; gli subentra, come previsto, Petroselli. Ricordo le sue previsioni. Quando rifiuto di farmi candidato indipendente di sinistra appoggiato dal Pci, Petroselli non nasconde la sua delusione. Arriva quasi a darmi del traditore, tanto gli sembrava scontato che la mia personale ambizione avrebbe vinto le mie resistenze interiori, squisitamente e, a suo giudizio, evanescentemente intellettuali. Era già accaduto nel 1963, quando gli amici di Ivrea giuravano che non avrei mai avuto il coraggio di lasciare Montecitorio, concupito com’ero da forze politiche che andavano da Giancarlo Pajetta a Riccardo Lombardi a una certa sinistra sociale fanfaniana. È difficile capire il fondo, il mondo proprio, lo Eigenwelt di un’anima.

Con una precisione impressionante, esaurita l’esperienza della debole giunta del democristiano Clelio Darida, eletto e quindi dimessosi il professore Argan, tocca a Petroselli prendere in mano il timone del Comune. Incredibile a dirsi, il suo atteggiamento verso di me, lungi dall’essere freddo a causa del mio «gran rifiuto», si fa sempre più stretto, amichevole, quasi fossi investito d’un ruolo di consigliere-ombra. Ci vedevamo abbastanza spesso, alle tre del pomeriggio, in una saletta del Campidoglio, dove lui riceveva le persone che avevano qualche problema, da vero rappresentante del popolo.

Era quello che gli americani, con un felice espressione, chiamano un «grass roots politician», un uomo politico delle radici dell’erba, uno che governa dal di sotto più che dall’alto, un politico che ascolta, sempre con tramezzino e una sigaretta a portata di mano, una specie di Humphrey Bogart di Tor Pignattara. Succedeva, dopo circa tre anni, a Giulio Carlo Argan, eletto, come Petroselli aveva progettato, nell’agosto del 1976, il primo sindaco laico dalla prima decade del secolo, quando era stato eletto sindaco di Roma da un «blocco popolare» messo in moto dal Paese Sera di Tommaso Smith, Ernesto Nathan (1907). Non risparmiavo le critiche al Petroselli divenuto sindaco. Gli rimproveravo, talvolta con ironia e asprezza eccessive, di cedere al gusto di riforme che erano, al volte, operazioni di cosmesi urbana. Il suo recupero delle borgate, non mi stancavo di dirgli, in una prima fase, si limitava a rinnovare la segnaletica, a normalizzare la distribuzione dell’acqua e della corrente elettrica, con grave disappunto dei borgatari, che adesso dovevano pagare le bollette. In un secondo momento in effetti va riconosciuto che egli si è impegnato in interventi più efficaci e duraturi in quanto strutturali, mettendo in piedi case popolari che risanavano, che cancellavano l’obbrobrio di borgate e borghetti. Anche se a volte ciò è accaduto con modalità tali da indurre forti dissensi rispetto al Comune e al Pci (v. il caso di Valle dell’Inferno/ Valle Aurelia) perché la gente avrebbe preferito non lasciare il proprio habitat.

A proposito, però, della speculazione edilizia non mi risparmiava bofonchiate repliche brucianti, come quando mi rammentò le sfortunate conseguenze dei miei consigli all’on. Fiorentino Sullo, ministro dei Lavori pubblici nel governo detto delle «convergenze parallele» di Amintore Fanfani. A bloccare o comunque a rendere più difficile la speculazione edilizia occorreva, avevo suggerito al ministro Sullo, fare ciò che in Inghilterra da tempo immemorabile si era fatto: tutto il territorio del Paese non è privato, ma pubblico. Sullo ebbe il coraggio o l’ingenuità di prendermi in parola e dichiarò questo suo intento pubblicamente. Come se avesse sfiorato un cavo dell’alta tensione, perdette il posto di ministro, fu espulso dalla Dc, cercò rifugio presso i socialdemocratici e forse, alla fine, qualche sollievo nella bottiglia. Morì prematuramente, solo e depresso.

Niente di personale nelle risposte sulfuree di Petroselli. Solo il realismo di un uomo politico che conosce le durezze della vita e la difficoltà di dare un senso di orientamento alla convivenza umana. Luigi Petroselli incarnava una concezione del potere esattamente opposta e simmetrica a quella oggi prevalente: il potere vissuto non come appannaggio personale per i propri interessi privati, ma come semplice, quotidiano sevizio alla comunità.

Pubblichiamo il testo integrale di uno scritto inserito in sintesi nel libro: Ella Baffoni, Vezio De Lucia, La Roma di Luigi Petroselli, Castronovi, Roma 2011

Luigi Petroselli moriva tragicamente d’infarto il 7 ottobre 1981, al termine di un appassionato discorso tenuto al Comitato centrale del Pci. Come toccò a un altro famoso parlamentare comunista, Mario Alicata, che qualche anno prima, a soli quarantotto anni, fu schiantato da un ictus dopo un polemico, tempestoso intervento nell’aula di Montecitorio. Per non parlare della prematura fine di Enrico Berlinguer che in circostanze analoghe poneva fine alla sua nobile esistenza nel giugno 1984, dopo il drammatico discorso da una tribuna di Padova. Destini di alto significato umano e politico, comuni ad alcuni esponenti di spicco della sinistra italiana.

Anche Petroselli moriva a quarantanove anni, di cui solo due vissuti nella veste di Sindaco di Roma ed era accreditato, in quanto autorevole uomo di partito, quale ispiratore delle politiche adottate dal Comune fin dal 1976, anno in cui Giulio Carlo Argan era stato eletto primo cittadino di Roma nelle liste del Pci.

Un’elezione che fece epoca, dopo ben tredici Sindaci democristiani e un trentennio dominato dallo scudo crociato; si dice che fosse stato proprio Petroselli a proporre e sostenere la candidatura dell’illustre studioso e storico dell’architettura moderna. Argan, come si sa, restò svogliatamente in carica tre anni, cedendo la poltrona proprio a Luigi Petroselli nel settembre 1979, passaggio forse sollecitato dal Petroselli stesso, deluso dalle gesta del suo protetto, più attento ai rapporti con il Vaticano e con gli illustri visitatori della Città eterna che non agli stringenti problemi della stessa.

Sono peraltro noti i meriti da attribuire a Petroselli, sia nei due anni del suo mandato da Sindaco, sia in qualità di segretario regionale del Pci durante il pontificato di Argan. Nel breve arco di quei cinque anni (1976–1981), nello scenario delle opere pubbliche e soprattutto nella realizzazione dei quartieri romani di edilizia pubblica, accadevano fatti di grande rilievo, a cui la pervicace iniziativa di Luigi Petroselli risultava tutt’altro che estranea e in qualche caso determinante.

Credo sia utile rievocare qui brevemente l’intero decennio, quei “dannati Settanta” e i relativi rivolgimenti, non solo a livello locale, come ho iniziato a fare, ma anche a livello nazionale. Agli inizi, si avvertiva l’influenza degli anni Sessanta, legati al mito dello sviluppo senza limiti, si dava grande importanza all’edilizia pubblica e si aspirava a raggiungere il traguardo di una produzione di trecentomila alloggi annui (limite mai raggiunto). Con la legge 865/71 si promulgava un riordino e un rilancio del settore: la creazione del Cer, organo nazionale di coordinamento, la trasformazione degli Iacp da istituti provinciali a strumenti attuativi di livello nazionale sui quali concentrare i finanziamenti pubblici, le cui leggi ora includevano oltre agli alloggi – udite udite – anche i servizi primari; si confermava inoltre la tendenza a procedere per insediamenti coordinati autosufficienti nelle immediate periferie dei centri urbani. Su queste basi, nella prima metà del decennio, si realizzavano nelle più importanti città italiane grandi quartieri, autoreferenziali e perentori, con i toni di un modernismo europeo. A Roma, oltre ai ben noti Corviale e Vigne Nuove, un esempio tipico fu il Laurentino 38. Nel loro insieme, questi tre quartieri costituivano un programma straordinario omogeneo varato nel 1969–1970, finanziato con settanta miliardi di lire.

Ma l’impatto fu traumatico; si registrò rapidamente un riflusso, l’esigenza di una dimensione minore, di maggiori risparmi, di un habitat più articolato e umano. Nasceva allora la legge 513/77 che introduceva norme edilizie più spartane, con tipologie ridotte e più differenziate, nuovi parametri di controllo economico, l’esclusione dei servizi di base tornati di competenza delle amministrazioni locali. Intanto la cultura scopriva lo storicismo, il recupero, la sostenibilità, una trasformazione del gusto detta post-modern. In parallelo, si adottavano nuove forme operative, quali le concessioni a privati.

Alla fine del decennio, con la legge 25/80 si dava modo ai Comuni, di avviare iniziative autonome, riferite più direttamente alle esigenze e alle risorse produttive locali. A Roma, esempi tipici furono il quartiere di Tor Bella Monaca (dal 1980) e il quartiere Quartaccio (dal1984).

A partire dai primi anni Settanta ho partecipato, con ruoli diversi, alla realizzazione dei quartieri sopra citati, attraversando tutte le tendenze, le normative, le storie che hanno segnato quel periodo, e trovando sul mio percorso tracce dirette o indirette del pensiero e dell’operato di Petroselli, che peraltro non ho mai avuto modo di incontrare di persona. Quelle esperienze, nel loro insieme, sono state tali da indurre Vezio De Lucia a includermi fra coloro che potrebbero fornire qualche testimonianza sui fatti dell’epoca, utile ai fini delle rievocazioni in corso per la ricorrenza dei trent’anni dalla morte di Luigi Petroselli.

Non appena eletto Sindaco, nel 1976, Argan dovette occuparsi di una grana concernente la realizzazione del quartiere Laurentino 38 (per 30/32 mila abitanti), di cui avevo diretto il gruppo di progettazione urbanistica, poi di quella di edilizia sovvenzionata, e di cui a quel punto ero uno dei responsabili della realizzazione nelle vesti di coordinatore generale delle progettazioni e condirettore dei lavori. Il progetto del quartiere Laurentino era nato sotto una spinta innovativa che aveva reso necessario un lungo iter burocratico (ben quattro passaggi in Commissione urbanistica), da cui nascevano forti attese psico-sociali e disciplinari. L’idea fondante del progetto, cosi come quella di altri quartieri Iacp, nasceva sotto l’influsso dei recenti interventi di edilizia pubblica realizzati in Gran Bretagna e in Francia, che fra l’altro avevo visitato di recente.

La grana di cui sopra consisteva nel ritrovamento di resti archeologici di epoca preromana in seguito al quale fu decretato il fermo dei lavori, peraltro in fase avanzata, malgrado la regolare autorizzazione rilasciata dalla Sovrintendenza competente. Gli interessi in ballo erano cospicui e contrapposti, in quanto si doveva scegliere fra il rispetto dell’antico e le urgenze dell’attualità e del moderno. Tutti i rappresentanti delle varie fazioni erano mobilitati e i contrasti apparivano irriducibili. Argan lo studioso, il massimo storico dell’architettura moderna, sembrava il Sindaco ideale per risolvere la questione, e difatti convocò una riunione generale al Campidoglio, fissata per il 13 dicembre 1976 nel suo studio. Le attese erano alle stelle.

L’esito fu deludente, Argan evitò di addentrarsi nella questione, trascurandone la gravità. Esigeva un compromesso e rimandò tutto a un comitato dei rappresentanti delle tre maggiori autorità presenti sul campo: il Comune, l’Iacp e la Soprintendenza. Gli architetti, a cominciare dal sottoscritto, ne furono esclusi. Il comitato – composto da Marcello Girelli, Direttore tecnico della XVI ripartizione comunale per l’edilizia economica e popolare, da Luigi Petrangeli Papini, Direttore centrale tecnico dell’Iacp, e dal Soprintendente La Regina – stilò un accordo che teneva conto solo degli interessi delle amministrazioni da essi rappresentate. Furono disposte tutte le modifiche necessarie alla creazione di un nuovo comprensorio vincolato a parco archeologico. Un classico rattoppo all’italiana, nessuno si curò delle conseguenze che quelle affrettate modifiche avrebbero avuto sulla qualità e sul destino del quartiere.

A mio parere, Argan si comportò da burocrate e non da esponente della cultura internazionale. Venne a mancare quella mediazione colta e illuminata che la situazione esigeva e in cui tutti, a cominciare dal sottoscritto, speravamo. Sta di fatto che da quegli eventi prese avvio una profonda avversione, che peraltro covava da tempo, fra i due corpi separati della pubblica amministrazione, responsabili locali degli interventi sul territorio: il Comune di Roma e l’Iacp romano. I quali presero a fronteggiarsi a tutto campo anteponendo le ragioni di parte agli interessi collettivi, in forza di una profonda differenza fra le loro rispettive origini e culture, fra i loro modi e tempi di lavoro, fra le loro ultime finalità.

Oltre a riconoscere, dopo più di trent’anni, i danni che questa avversione ha causato alla vita dei quartieri realizzati dall’Iacp, e in modo particolare al Laurentino 38, è interessante risalire alle cronache dei tardi Settanta onde cogliere i presupposti culturali di questa diversità, poi degenerata nel caos amministrativo e gestionale. Dal quale, occorre dirlo, discese il totale abbandono di quei quartieri, che fra l’altro condusse alle recenti demolizioni di alcuni edifici ponte al Laurentino 38. Può essere considerato un primo segnale di quella avversione un articolo di Renato Nicolini, trentacinquenne Assessore alla Cultura nella Giunta Argan, apparso sul «Corriere della Sera» nel 1977 in coincidenza con i ritrovamenti archeologici al Laurentino, nel quale il giovane studioso protestava per il carattere insolito dei nuovi quartieri di edilizia popolare, così diversi dalle tradizioni dell’Icp di Sabbatini e di Quadrio Pirani. Più che di un moto momentaneo di fastidio si trattava della classica punta emergente di un iceberg di notevoli dimensioni .

Non si può non ricordare, fra le cause lontane di tanta avversione, la ventata di interesse sollevata nei Sessanta dallo strepitoso housing britannico, nonché da quello olandese e scandinavo e dalla progressista tecnologia industriale francese, tutte conquiste di livello europeo che, come sopra ricordavo, avevano fortemente influenzato i quartieri Iacp varati nei primi Settanta, sull’onda di un nuovo slancio nella ricerca progettuale sostenuta peraltro dalla dirigenza di quell’istituto. Eventi che avevano colto del tutto impreparato il Comune, anche sul piano psicologico oltre che operativo. Troppo grande la differenza fra la mole degli impegni, improvvisi e pressanti, richiesti dalla realizzazione dei nuovi quartieri Iacp e il pigro andazzo degli uffici municipali, incapaci di uscire dalla routine quotidiana. I nuovi quartieri così poco tradizionali, ma soprattutto Corviale e Laurentino, diventavano il classico pomo della discordia, una vetrina delle abissali diversità fra l’attivismo innovatore dell’Iacp e l’inerzia dell’amministrazione capitolina.

Ne fanno fede i comportamenti riluttanti e dilatori delle strutture comunali preposte alle opere di urbanizzazione di quegli odiati quartieri e infine il clamoroso rifiuto degli organi centrali dell’ amministrazione comunale di gestire quei quartieri una volta ultimati, malgrado le intese iniziali di ben diverso tenore. Ne fanno altresì fede alcune scelte di politica amministrativa quale ad esempio l’accordo patrocinato nell’estate 1978 da un Petroselli non ancora Sindaco, fra l’Italstat, l’Isveur e la Lega delle cooperative per un rilancio dell’edilizia pubblica e privata a scala comunale, in certo modo contrapposta ai grandi interventi promossi dallo Stato. Si trattava di un orientamento complessivamente romanista, aperto verso l’imprenditoria locale, sensibile agli aggiornamenti legislativi a scala nazionale, ma lontano da quel modernismo europeo di matrice anglosassone che aveva ispirato i quartieri appena ultimati dall’Iacp. Se ne condannavano l’esotismo, la grande dimensione, il carattere perentorio delle architetture, la disumanità, i sistemi costruttivi, i costi, le difficoltà di gestione, le procedure di affidamento degli appalti.

In antitesi a quel corso, si affermava una cultura locale di stampo più nostrano e dimesso, post-moderna, che guardava alle tradizioni dell’Icp romano, sostenuta dalla rivista «Controspazio» e dal numeroso gruppo di pressione culturale che faceva capo a Paolo Portoghesi. Per ricordare quanto questa avversione fosse profonda e avesse conquistato larghi strati socio-culturali, devo ricordare che essa nacque e prosperò durante tutto l’arco dell’influenza petroselliana culminando, dopo la sua morte, in quel pubblico processo organizzato dal Comune al San Michele nella sala detta dello Stenditoio, nel quale fu nominato quale presidente della Corte improvvisata il noto urbanista milanese Bernardo Secchi, pubblico ministero Paolo Portoghesi, cancelliere moderatore Carlo Aymonino. Si trattò di una messa in scena, il cui fine era quello di screditare i quartieri moderni realizzati dall’Iacp processandone i responsabili: Fiorentino per Corviale, Passarelli per Vigne Nuove, Barucci per Laurentino, De Feo per Val Melaina, tutti presenti al banco degli imputati. La pubblica accusa, sostenuta da Portoghesi e fortemente ispirata dagli ambienti comunali, ebbe la meglio e, senza mezzi termini, in quell’aula fredda e solenne la condanna risuonò così: gli autori di quei progetti non sono stati all’altezza della situazione!

Precedendo largamente tali conclusioni, Luigi Petroselli, prima da “grigio funzionario di partito” e poi da Sindaco aveva coltivato rapporti di collaborazione con importanti operatori privati e pubblici del settore edilizio locale, in vista di una trasformazione radicale del settore stesso, imperniata sul nuovo istituto della concessione a imprenditori privati e che avrebbe dato carattere al successivo periodo Settanta-Ottanta.

Fra tutti, restava fondamentale l’incontro fra Luigi Petroselli e Carlo Odorisio, manager di alto profilo, animatore e presidente dell’Isveur, qualificato istituto privato in cui si associavano i più importanti costruttori romani e che sarebbe diventato uno dei maggiori enti concessionari del Comune di Roma.

Fu in questo quadro che Petroselli, oltre a dare il meglio di sé nella sistemazione dell’area archeologica centrale (ispirata da Antonio Cederna), immaginò la sua creatura prediletta, il nuovo quartiere di Tor Bella Monaca, operazione di punta di cui gli organi tecnici del Comune (Canali, Anna Maria Leone, Paolo Visentini) stesero il progetto urbanistico nel 1979, all’avvio del suo mandato da Sindaco. Il progetto risultò un mirabile compendio delle tendenze maturate in quel periodo: un elaborato urbanistico per 28 mila abitanti volutamente, polemicamente elementare e semplicistico, un ritorno ai primordi. Nulla a che vedere con la complessità, la carica sperimentale dei quartieri moderni dell’Iacp messi sotto accusa, ma fortemente espressivo del nuovo corso immaginato e promosso da Luigi Petroselli.

Devo precisare a questo punto, ancorché non ce ne sia forse bisogno, che questo mio discorso ricorda il procedere incerto di un funambolo sul cavo teso nel vuoto, che impugna il bilanciere di sicurezza (sto leggendo il romanzo Let the Great World spin di Column McCann). Anche io difatti ho intrapreso una traversata pericolosa, parlando della figura di Petroselli in modo favorevole, data la ricorrenza celebrativa, ma non senza riserve, data la mia posizione culturale che spesso mi ha visto schierato in campo opposto. Il pericolo che corro è di cedere d’improvviso al tentativo di denunciare i casi in cui Petroselli si è comportato in modo a mio parere biasimevole e di precipitare così nel baratro della maldicenza, cosa a cui mi devo opporre dato il mio ruolo attuale: il mio compito resta quello di spigolare fra gli argomenti probanti dei suoi meriti, ma è un procedere incerto.

Ma dovendo scegliere fra il localismo (il campanile) e l’internazionalità (Bauhaus e dintorni) ho sempre scelto la seconda, come posso dimenticarlo? Quando il Comune ha rifiutato di prendere in gestione i ponti e le scuole del Laurentino, come concordato, Petroselli come non poteva “non sapere”, che ruolo ha avuto? Quando nel dicembre 1979 la scelta del Comune, come risulta dal rapporto riservato del Direttore centrale tecnico dell’Iacp, Petrangeli Papini del 1° maggio 1984, “di innescare un quartiere della qualità e delle caratteristiche del Laurentino con 100 famiglie di abusivi, sgomberati dal centro della città proprio per eliminare quella che il Comune riteneva una piaga anche per l’ordine pubblico, ha voluto significare compromettere per almeno l’arco di una intera generazione il futuro del quartiere”: e il Sindaco Petroselli ne era il principale responsabile, come posso dimenticarlo?

È sufficiente un ricorso al bilanciere (restare nell’agiografico) per evitare di precipitare? Forse no. La mia partecipazione alla repentina vicenda di Tor Bella Monaca fu intensa e molteplice. L’incarico più importante mi fu affidato dall’Isveur per la progettazione del famoso comparto R5, indicato nel progetto urbanistico originario come una coppia di grandi corti chiuse, per complessivi 1.200 alloggi e 5 mila abitanti. Data l’importanza dell’intervento, il presidente Odorisio aveva ordinato all’uopo un gruppo di ben dieci studi professionali, poi ridotti a otto, di cui mi affidò la direzione, fra cui era in particolare evidenza lo studio di Elio Piroddi, importante e stimato collega con cui ebbi un ottimo rapporto di lavoro. Progettare l’R5 fu un’operazione campale, data la difficoltà e le dimensioni del tema, i tempi iugulatori concessi, la complessità del quadro operativo.

L’organigramma attuativo del quartiere fu un capolavoro, un ingranaggio perfetto finalizzato alla realizzazione contemporanea delle urbanizzazioni, delle abitazioni e dei servizi primari, in tempi estremamente contenuti. Il tutto affidato a un apposito Consorzio concessionario Tor Bella Monaca, formato da Isveur, Consorzio cooperative costruzioni, Interedil e Cooperative Roma, presieduto da Carlo Odorisio. Tutte le progettazioni furono organizzate dall’Isveur, suddivise fra le sezioni di edilizia abitativa, opere di urbanizzazione, edilizia scolastica, verde e arredo urbano, con un efficiente coordinamento esercitato dallo studio Passarelli, che garantì tempi assai contenuti; la direzione lavori fu svolta dallo studio Lotti & Associati per conto dell’Isveur. Furono realizzati, a seguire, il centro civico (studio Passarelli) e il complesso parrocchiale (Pier Luigi Spadolini), architetture di notevole qualità.

Si deve riconoscere che la collaborazione Petroselli-Odorisio, almeno sul piano operativo, ha dato frutti eccellenti. Nell’ottobre 1981, alla prematura scomparsa di Petroselli, i cantieri erano in avanzato corso di lavorazione e sarebbero stati rapidamente ultimati.

Nello stesso quartiere progettai inoltre, stavolta con il mio studio, altri due importanti comparti edilizi denominati rispettivamente M4 e R11, per 300 e 280 alloggi, con finanziamento Iacp, per incarico dell’impresa concessionaria Lamaro. Il mio contributo complessivo alla realizzazione dell’intero quartiere fu pertanto tutt’altro che secondario. A prescindere dagli aspetti attuativi decisamente positivi, devo dire che la riuscita generale del quartiere Tor Bella Monaca non fu migliore di quella dei precedenti quartieri Iacp ai quali si contrapponeva, anche perché rispetto ad essi la qualità complessiva era decisamente inferiore, o solo volutamente diversa quanto ai contenuti strettamente disciplinari.

Quartiere spartano ma unitario nelle architetture, con modesto “effetto città” anche per i grandi spazi vuoti richiesti dagli standard urbanistici, condizionato dalla qualità dell’utenza, condannato al rapido degrado dalla dura realtà della inesistente gestione comunale. La solita musica, con il coro dei benpensanti scandalizzati per i disagi sociali. A cui, incredibilmente, si associa oggi lo stesso Comune, unico responsabile dei rovesci, che ne propone per bocca del Sindaco Alemanno, la totale demolizione!

Trascinato dalla foga narrativa, ho fin qui messo in evidenza due argomenti contrapposti e rappresentativi di un’epoca e che, fra l’altro, mi riguardano particolarmente: il Laurentino 38 (1971-1978) e Tor Bella Monaca (1980-1982). Ho tralasciato la descrizione della breve ma importante fase intermedia (1978-1980) che ha visto la mia partecipazione, assieme agli illustri colleghi Lucio Passarelli e Marcello Vittorini, alla stesura della legge 513/77 che, come ho accennato prima, apportò fondamentali trasformazioni all’edilizia residenziale pubblica sotto il profilo normativo e tipologico.

Seguendo lo spirito dei tempi e gli intenti fondativi della legge, con Passarelli e Vittorini, abbiamo allestito e pubblicato uno studio approfondito delle nuove tipologie edilizie, contribuendo inoltre a stabilire i nuovi parametri di riferimento delle economie e delle semplificazioni perseguite dalla legge in campo progettuale. A riprova e in applicazione del portato della legge, abbiamo anche avuto l’incarico di progettare a Roma il quartiere di Torrevecchia, che fu realizzato dal 1979 e che, nella considerazione generale, resta uno dei migliori quartieri romani di edilizia residenziale pubblica. Alla legge 513/77, oltre a un generale rinnovamento sul piano progettuale, hanno fatto seguito altri provvedimenti di natura affine, fra cui la 457/78 e la 25/80. Fu quest’ultima uno dei principali strumenti che permisero al Sindaco Luigi Petroselli di immaginare e avviare a rapida realizzazione il quartiere di Tor Bella Monaca.

Petroselli resta il Sindaco di Roma più amato e rimpianto, per la sua origine popolare, per la passione con cui si è dedicato all’esercizio del suo mandato.

Spero che in questo ultimo tratto della mia traversata il bilanciere abbia funzionato a dovere.

E’ stato il solo direttore di quotidiano licenziato due volte, dalla Dc e dalla destra, per ragioni politiche. Dal “Giorno” – che aveva diretto per un dodicennio – all’avvento del governo di centrodestra Andreotti-Malagodi. Dal “Messaggero” – dopo un anno soltanto – alla vigilia del “terremoto” amministrativo del 15 giugno 1975. Parlo di Italo Pietra, nato cento anni fa il 4 luglio 1911 a Godiasco nell’Oltrepò Pavese. Probabilmente anche il primo, e solo, comandante partigiano (nome di battaglia, “Edoardo”) nominato alla guida di un quotidiano non di partito. Un maestro di giornalismo che, per la sua natura e cultura da montanaro dell’Appennino, per un certo aristocratico gusto dell’impopolarità, viene forse ricordato meno di altri. Un riformista laico, socialista, decisamente “scomodo”, a destra ma anche a sinistra.

E’ stato anche il primo direttore di un quotidiano importante ad occuparsi di ambiente. Può ben testimoniarlo Giorgio Nebbia che tante volte trattò sulle pagine della Scienza e della Tecnica rette da Antonio De Falco i temi dell’acqua tornato così prepotentemente di attualità oggi. Pietra incaricò me di una inchiesta nazionale dandomi queste direttive: “L’acqua: abbondante e inquinata al Nord; scarsa e inquinata al Sud”. La pubblicai nel grande rotocalco domenicale con foto e grafici. Pietra aveva una grande passione per la montagna. Camminatore instancabile conosceva palmo a palmo tutto l’Appennino, bellissimo, fra Varzi e Bobbio, fra Romagnese e il Genovesato. Da comandante partigiano girava di continuo, ma in abiti borghesi e senza armi addosso. Solo così si poté salvare dai tedeschi che l’avevano catturato, a causa di una storta alla caviglia, e portato, senza ancora riconoscerlo, verso Torre degli Alberi, al castello dei Dal Verme (anche Luchino Dal Verme era comandante partigiano). Qui le donne di casa che conoscevano Italo fin da ragazzo furono bravissime a far finta di non averlo mai visto. Venne rinchiuso in una stanza e lasciato lì in attesa di identificazione e quindi di fucilazione. Poi, miracolosamente, di notte, li sentì che avviavano i motori e ripartivano in tutta fretta.

Sul “Giorno” scriveva spesso della montagna che disboscata e dissestata “si vendica” precipitando a valle con terribili alluvioni. Il 4 novembre 1966 gliene diede una drammatica conferma. Citava sovente il grande discorso tenuto da Filippo Turati alla Camera, subito dopo la guerra, col titolo sempre attuale “Rifare l’Italia” e in quel “rifare” parlava pure della montagna italiana. Era un grande appassionato di agricoltura. Sosteneva Pietra che non si poteva capire un Paese se non se ne conosceva l’agricoltura e la sua storia. Instancabile, anche al “Messaggero” fu la sua campagna contro la Federconsorzi e a favore di autentiche cooperative aperte a tutti. Aveva una intera biblioteca di documenti sui Consorzi Agrari che, avanti negli anni, volle trasferirmi in blocco. Mi fece scrivere tante volte di prodotti tipici, del salame di Varzi allora privo di tutela. O delle colline del suo Oltrepò che, tagliate a fette da strade e da vigneti a ritto chino, “si squagliano come gelati”. Ma direi che all’acqua ha dedicato la maggior parte dei suoi interventi e, naturalmente, alla mafia palermitana dei “giardini” quando approfondì sempre più i temi della mafia e delle sue ramificazioni. Un pioniere, si può dire.

Figura anomala quella di Pietra. Diventa giornalista vicino ai 40 anni. Quasi un decennio in grigioverde, sino all’8 settembre 1943. Poi in montagna, nel suo amato Appennino, zona strategica, fra il Po e Genova, per un biennio durissimo di guerriglia contro i nazifascisti. Fino alla liberazione di Milano dove “Edoardo” entra per primo, comandante generale, a nemmeno 34 anni, delle brigate dell’Oltrepò, coi “cecchini” che ancora sparano dai tetti. Un plotone dei suoi partecipa all’esecuzione, prevista dal CLN Alta Italia, di Mussolini e degli ultimi seguaci. Smentirà sempre di averlo comandato lui. Sul periodo partigiano, nonostante le insistenze mie e di altri, non lascia scritti né registrazioni. “Se ne potrà parlare quando saremo morti tutti noialtri”. Soltanto lettere di artisti (è stato un collezionista precoce) come Morandi o Carrà. E’ stato anche nel Servizio Informazioni Militari (SIM). Non lo nasconde. Ad Angelo Del Boca, entrato al “Giorno” negli anni ’60, racconta di essere stato l’ultimo italiano a lasciare Casablanca mentre arrivano gli americani barattando con un orologio d’oro il passaggio verso il Riff su di un camion di maiali. Fra ex partigiani si può raccontare.

Mentre Paolo Murialdi, amico fin da ragazzo, entra subito nel giornalismo, all’“Avanti!”, all’“Umanità” e poi al “Corriere della Sera”, prima di essere uno dei fondatori del “Giorno” nel 1956, Pietra imbocca la strada della politica nel Psiup. Ha una forte cultura politica coltivata pur in grigioverde (in Africa prima, poi in Albania), abbonato a riviste francesi. Sarà, nel 1946, con altri “giovani turchi” (Matteotti, Zagari, Vassalli e gli ancor più giovani Formica e Ruffolo), promotore di “Iniziativa Socialista” che nel primo congresso del Psiup eguaglia sorprendentemente il correntone, in prevalenza frontista, Nenni-Morandi-Basso. Lui e Vassalli chiedono a Pietro Nenni, vice-presidente del governo De Gasperi, di nominare un segretario di mediazione, autorevole e accetto a tutte le parti. Niente da fare. Minaccia le dimissioni alla vigilia delle elezioni e del referendum del 2 giugno. E’ la premessa della scissione socialdemocratica del 1947, che per i “giovani turchi” avviene “da sinistra”, in senso libertario. La cavalca però Giuseppe Saragat. Italo Pietra è il vice-segretario del Psli. Fino alla rottura dell’unità sindacale nata dal Patto di Roma. La disapprova e in pratica esce dalla politica attiva.

Nasce il Pietra giornalista. Prima all’”Illustrazione italiana” di Garzanti (di Livio rimarrà amico) e poi al “Corriere della Sera”. Da “free lance” consolida la conoscenza del mondo, stringe relazioni e amicizie, dall’Est (Gomulka, Tito stesso) all’Ovest (Willi Brandt soprattutto), al Terzo Mondo, Pandit Nehru e sua figlia Indira Gandhi, i leaders della decolonizzazione africana, Kenyatta, Sekou Tourè, o maghrebina, Ben Bella, Ben Barka, Belkacem Krim. In piena guerra di Algeria, Bernardo Valli del neonato “Giorno” e Guido Nozzoli dell’“Unità” risalgono i monti della Kabilia, aprono la porta del comando del FLN e chi vedono che, con una carta spiegata sul tavolo, sta dando lezioni di guerriglia? Lui, “Edoardo”.

Italo Pietra, amico fraterno di Enrico Mattei dai giorni della Liberazione, ne ha condiviso le strategia: affrancare l’Italia dalla dipendenza energetica con l’Agip e poi l’Eni; rompere i giochi delle Sette sorelle petrolifere offrendo accordi assai più vantaggiosi ai Paesi produttori, a cominciare da Egitto e Iran; aprire le frontiere dell’Est alla cooperazione. Alla fine del 1959 Mattei, attaccato da tutte le parti, svela di essere il vero editore del “Giorno” creato con Gaetano Baldacci nell’aprile ‘56 con una formidabile carica innovativa. Ha bisogno di un direttore sicuro e sceglie Pietra. Il quale, quasi subito, affronterà, in modo critico, la crisi Tambroni, il luglio ’60. Il ministro delle Partecipazioni Statali, Mario Ferrari Aggradi, gli chiede perentorio di licenziare il suo titolista di prima pagina. “Non posso”, risponde. “Perché?” “Perché sono io”. “In Italia si ricomincia sempre da Badoglio…”, mi dice, alla fine di luglio. Capisco meglio chi sia la sera che mi trascina alla cena per il compleanno di Luigi Longo. Ad un certo punto, ci sono soltanto loro due, i comandanti “Gallo” e “Edoardo”.

Italo Pietra rafforza subito una compagine giornalistica già molto valida. Assume il più acuto dei commentatori di politica interna: Enzo Forcella messo fuori dalla “Stampa” perché troppo a sinistra. Assume e lancia nelle sue inchieste più belle Giorgio Bocca. Dall’“Unità” arriva Guido Nozzoli. Irrobustisce la rete dei corrispondenti con Luigi Fossati e Gaetano Scardocchia (dirigeranno il “Messaggero” e la “Stampa”), ma pure le cronache regionali con Leonardo Valente, presto direttore di “Avvenire”, e con Gianni Locatelli che anni dopo trasformerà “Il Sole 24 Ore”. Al Politico retto da Claudio Rastelli si specializzano giornalisti come Sergio Turone e, più avanti, Tiziano Terzani. Al “Giorno” altri giovani diventano firme importanti: Natalia Aspesi, Maurizio Chierici, Gianfranco Venè. Per la Lombardia gli inviati sono Giampaolo Pansa e Marco Nozza. Mentre un disegnatore nuovo e inventivo, Tullio Pericoli, alza ancora il livello della grafica.

E’ il giornale delle inchieste, a getto continuo. Mi fa occupare di acqua, di ambiente, di agricoltura, di porti. Chiede chiarezza, concisione, narrazione documentata (“Non fate i sociologi”). Abbiamo grande libertà di azione, tranne, s’intende, che per la politica petrolifera. In una Italia quasi ignota (e ignorata) che si trasforma tumultuosamente col primo “boom”. Il Concilio Vaticano II suscita polemiche clamorose. Lo attaccano Indro Montanelli, Panfilo Gentile e altri. Lo difendono e lo raccontano al “Giorno” laici come Pietra, Forcella, Andrea Barbato, cattolici come il vaticanista Ettore Masina. La tragica scomparsa di Enrico Mattei nell’ottobre ’62 traumatizza e però non ferma il “Giorno”. Grazie a Pietra che sarà la bestia nera dei dorotei. “Aveva una testa da Mazarino”, scriverà Bocca. Reggerà per tutto il miglior centrosinistra, attraversando il ’68 e l’autunno caldo (unico quotidiano indipendente a sostenere Cgil, Cisl e Uil, “sono più deboli della Fiat”). Dopo la strage di piazza Fontana scrive un editoriale inequivocabile “Non si illudano”. Smonterà le false piste degli anarchici preparate in Questura. Lo fanno fuori subito dopo il ritorno del centrodestra.

Rimarrà al Mulino un paio di anni. Poi, a metà ’74, Montedison gli affida il “Messaggero”. Riesce a mantenerlo su di una linea laica di sinistra. Troppo. Dal “Giorno” chiama Fossati, Turone e me. Ma presto la Dc ne pretende la testa, nuovamente. Eugenio Cefis – si conoscono bene dagli anni del partigianato – lo convoca la mattina del 16 giugno 1975, e lo solleva dall’incarico. Nel pomeriggio dalle urne la Dc esce battuta clamorosamente e vincenti Pci e Psi. In tutte le grandi città, fino a Napoli. Pietra riesce a trattare una successione rassicurante (Luigi Fossati) per la linea politica del giornale. Ne rimarrà collaboratore fino alla fine della mia direzione, nell’87. L’ultimo articolo, a quasi 80 anni, già malato, lo pubblica sull’ “Unità” e lo dedica a Craxi, ad un Psi neoriformista, ma senza gli ideali del riformismo socialista, ad un Psi che non discute più “tanto la politica nasce dalla tua testa”. “La sinistra, conclude, è all’anno zero, ci vuole un punto di raccolta”, per “la necessità di una alternativa”. E’ il 24 giugno 1991. Si spegnerà tre mesi dopo. Non si spengono la sua passione civile, la sua tensione morale, il suo riformismo “scomodo” a tanti, la sua lezione, alta e severa, di giornalismo.

Una versione ridotta dell’articolo è uscita su l’Unità del 1° luglio 2011 con il titolo: “Le battaglie di carta al "Giorno" e al "Messaggero" del comandante Edoardo”

Carissimo Pietro, è lontano, lontanissimo, quel giorno del 1936, quando, davanti al pericolo reale della dittatura franchista, decidesti il corso della tua vita con quel «no, non ci sto». Il centro sperimentale e la tua passione per il cinema vennero messi da parte e ci fu la scoperta della tua esistenza, la volontà di partecipare - sentirti esprimere con queste parole è una boccata d'ossigeno - alla lotta di classe. Sei tornato a raccontare in modo intenso queste vicende nella bellissima conversazione apparsa, qualche giorno fa, sul Corriere della sera. E' stata una fortuna per il paese Italia, per la causa dei lavoratori, come si chiamava una volta, e per tutti noi, quella scelta. Hai dato tanto, e con tanta forza e passione, che puoi essere soddisfatto, di te e della tua opera. Non è un caso che riesci a raccontare il tuo passato con una memoria serena, anche se inquieta.

Tu ritorni spesso, quasi con dolore e comunque con rammarico, sui tuoi errori. Ma vedi, Pietro, io trovo qui, un di più, non dovuto, di autocritica. Abbiamo sbagliato tutti, molte volte. Ma non sottolinerei, oggi, più di tanto, questo punto. Già siamo oppressi dal senso comune corrente, intellettuale e quasi ormai popolare, di essere stati noi, del movimento operaio di impronta comunista, gli autori di una storia sbagliata. Mentre i nostri avversari, e qualcuno dei nostri concorrenti, avevano visto giusto e capito tutto fin dall'inizio. Io credo che se dobbiamo rimproverarci qualcosa, questo sta nel campo di ciò che non abbiamo fatto, più che nel campo di ciò che abbiamo fatto male. E' quando ci siamo autolimitati nelle nostre ambizioni di trasformare le cose in grande, proprio nel momento in cui avevamo la forza per realizzarle, quelle cose. E' quando abbiamo abbassato la guardia, assunto una funzione subalterna, acconciandoci al piccolo cabotaggio del compromesso, inseguendo le contingenze e rimanendone alla fine prigionieri, non guardando più né indietro né in avanti. E' quando abbiamo subito l'ossessione, che vedo ancora maledettamente presente in quello che resta di una sinistra maggioritaria, di farci legittimare da quelli che esattamente dovevamo combattere. Ecco, questi sono gli errori che tu non hai commesso. Puoi andarne fiero: e vivere con tranquillità, direi, se possibile, con una olimpicità goethiana, quella che abbiamo chiamato la tua età dei patriarchi.

In realtà, hai cominciato a volere la luna, quando - come dici appunto nell'intervista - la lotta di classe è diventata il punto centrale della tua vita. La domanda è questa: si può consigliare questo preciso, ben determinato e, vorrei dire, realistico volere la luna a un ventenne o a una ventenne di oggi, l'età che tu avevi allora? Recita la litania: è cambiato tutto. Tutto è cambiato, tranne una cosa: quelli che comandavano ai tempi del tuo nonno Francesco, siciliano di Girgenti e garibaldino, o appena più vicino, ai tempi del mio nonno Domenico, crepato in un ospizio per poveri vecchi in quel di Tivoli, quelli, quelli stessi, comandano ancora. Allora avevano in proprietà un pezzo di terra, adesso sono proprietari del mondo, materiale e virtuale. Io penso che il problema nostro, che dobbiamo trasmettere alle nuove generazioni, è di capire e di sapere qual è la forma della lotta di classe con cui abbiamo a che fare oggi, per orientarci a pensare e per disporsi ad agire. Non è la vecchia forma, è la forma nuova, indotta da immani trasformazioni, che hanno sradicato e stravolto e alla fine mascherato le figure sia dei padroni che dei lavoratori, ma non le hanno soppresse, queste figure antagoniste, tanto meno le hanno sostituite, come si dice, con un interesse ormai comune. Quello che è in modo impressionante difficile oggi è il processo di riconoscimento delle contraddizioni reali e fondamentali. Perché tutte quelle che appaiono sono contraddizioni reali ma non fondamentali. Ci vuole una lama acuminata di pensiero forte e la scelta di una postazione di vita, di vita quotidiana, propria, che ti permetta la coltivazione di un punto di vista inassimilabile, inassorbibile, indisponibile.

Oggi non mancano, come vediamo ad occhio nudo, le rivolte, il tumulto, le emergenze, i barconi inzeppati di dannati della terra è uno spettacolo su cui vorresti chiudere gli occhi, non manca, purtroppo, la guerra. Ma io mi chiedo: perché abbiamo bisogno di queste cose per accorgerci, solo allora, che così questo mondo non va e che bisognerebbe di nuovo, anche qui in forme nuove, sovvertirlo? Mi pare di aver capito una cosa, che ritengo preziosa, e che ogni giorno pazientemente metto in pratica, guardandomi intorno: è che proprio nel tran tran del giorno per giorno, è quando non succede niente, quando tutto è apparentemente tranquillo, e l'ordine sembra perfetto - se ci pensiamo bene è poi il più gran tempo, il tempo normale - è lì che si esprime la vera subdola violenza del dominio. E' quando non te ne accorgi, e ti illudi di essere libero, è allora che sei veramente sottomesso. Tra i pensieri folli che spesso mi vengono, oggi molto attuali, uno è questo: beati quei popoli che hanno da buttar giù dal trono un tiranno. L'invisibile tirannide che ci opprime, giorno per giorno, ora per ora, in questi nostri meravigliosi giardini democratici d'Occidente, come la buttiamo giù?

E allora, di nuovo, se abbiamo qualcosa da rimproverarci, è questa qui: che lasciamo ai nostri figli, ai nostri nipoti, una condizione di vita, individuale e sociale, e uno stato interiore, che con una parola a me, ma so anche a te, cara, possiamo definire spirituale, peggiore di tutto quanto noi abbiamo vissuto. Difficile perdonarci questa colpa. I potenti, i ricchi, i sovrapposti, i possessori delle nostre vite, non si sono mai sentiti così bene al sicuro come in questo tempo. Lo dimostrano il peso della loro arroganza, la volgarità della loro egemonia, le certezze della loro indiscutibile ragione. E' qui che va posta la domanda: dove abbiamo sbagliato? Una domanda per tutti, uomini e donne, credenti e non credenti, rivoluzionari e riformisti. Non ci si può sottrarre. Non per disperarsi, tanto meno per rassegnarsi. Al contrario, per riacciuffare il filo della lotta decisiva, come tu volevi "acciuffare" la luna dietro i monti di Lenola.

Va bene, Pietro, mi avevano chiesto di scrivere una lettera per il tuo novantaseiesimo, a nome di quella piccola comunità che è il tuo Crs, a nome di tutti, a nome del suo direttore, Walter Tocci, a nome mio. L'ho fatto, nell'unico modo in cui si può fare rivolgendosi a te, non con i convenevoli, piuttosto conversando, ricordando, riflettendo, pensiero poetante....

UNO CHE ha le gambe troppo lunghe, come il famoso Daddy Longlegs, ed è troppo alto, sta scomodo, e non di rado scomoda gli altri. Era senz’altro il caso di John Kenneth Galbraith, classe 1908, altezza 1,95, uno dei geni di quella che lui stesso aveva battezzato, in uno dei suoi tanti libri, l’età dell’incertezza; insomma, il nostro tempo, di cui è stato un testimone acutissimo.

Galbraith è morto l’altro ieri a Boston. Dall’essere così alto e con le gambe così lunghe derivava forse la sua tipica tendenza all’irrequietezza e alla provocazione. Non potendo passare inosservato, Galbraith fece di tutto perché ne valesse la pena. C’era forse anche, nella sua «diversità», la sua radice di doppio immigrato, di famiglia d’origine scozzese e di nascita canadese. Per tutta la vita non nascose la sua simpatia per gli immigrati. Anche da lì nasce quella che lui stesso chiamava «l’irrefrenabile tendenza a situarsi contro ogni élite compiaciuta di sé»: «mai allearsi con essa e mai perdere un’occasione legittima di contrariarla o, se possibile, di farla infuriare». Che cosa è l’establishment per Galbraith? Quello che era stato per uno cui per molti versi Galbraith assomigliava, un altro provocatore, un altro immigrato, un altro «contadino», Thornstein Veblen. Establishment: «i pomposi clichés dei quadri d’industria, la completa sicurezza di certi vaghi discorsi d’avventurismo militare, i più ammirati luoghi comuni di politica estera». E, naturalmente, l’ortodossia economica.

Questo complesso, questa sindrome conservatrice, Galbraith l’ha bollata con uno dei suoi ossimori più famosi: la saggezza convenzionale. Cercavo, ci raccontava, qualche cosa che rendesse «quel costante scambio di idee vuote e solenni che è così comune tra personaggi importanti e presuntuosi».

DEL RESTO, faceva parte della sua tecnica polemica l’uso di espressioni di irriguardosa deferenza. Quelle che mandano più in bestia la gente. Tra queste, per esempio, le parodie delle metafore melense della saggezza convenzionale: come quella, intramontabile, dell’azienda America (sorella maggiore della nostra azienda Italia), particolarmente cara al pensiero manageriale, perché intesa a instillare nei cervelli deboli l’equivalenza tra il business e la democrazia. Qualcuno aveva avuto l’idea di elaborarla in una specie di parabola agiografica: gli Stati Uniti come società per azioni, il Presidente come amministratore delegato, i cittadini come azionisti, il Congresso come consiglio di amministrazione, i Ministri come managers (solo gli operai restavano operai). Galbraith inviò l’articolo a Kennedy spiegandogli che il popolo americano aveva commesso l’errore imperdonabile di eleggere Presidente lui anziché suo padre, il grande affarista: forse non era troppo tardi per cambiare. Kennedy si divertì e girò la lettera all’autore della metafora, che non fu felice.

Questa sua aggressività, non è che non gli sia stata restituita. L’establishment, giustamente, lo ripagava della sua stessa moneta. L’epiteto più diffuso era quello di bastardo figlio di puttana. Una gran signora cui Galbraith fu presentato durante un ricevimento finse di non capire il suo nome, se lo fece ripetere, poi disse: «Deve essere imbarazzante per Lei andare in giro con quel nome. Somiglia a quello di quel gran figlio di puttana che lavora per Kennedy».

Come grande economista, titolo che merita appieno, ha ampiamente goduto dell’invidia dei suoi colleghi: per la sua notorietà i suoi libri, tradotti in tutto il mondo, sono venduti a centinaia di migliaia di copie e per il suo successo politico e mondano. La supponenza dell’establishment si manifestò sotto forma di «addebito divulgativo»: come se lo scrivere bene e chiaro e per un vasto pubblico sia un oltraggio per la scienza e una minaccia per le istituzioni. Divulgatore, quindi, e soprattutto del pensiero keynesiano in America. Ruolo che certamente egli svolse; ma che era lontano dall’esaurire il suo contributo alla scienza economica. Quel contributo è caratteristico della «distruzione creatrice», per usare l’espressione di Joseph Schumpeter, un altro grande eccentrico che egli incontrò ad Harvard: distruzione di miti venerandi, creazione di idee nuove.

Il mito della concorrenza perfetta, per esempio: miriadi di piccole imprese brulicanti nel formicaio operoso del libero mercato, ove l’interesse individuale di ognuno concorre al miglior risultato di tutti. Galbraith vedeva, invece, di fronte a sé un mondo di divisioni corazzate, di tecnostrutture, di prezzi monopolistici, di mercati «cattivi», intenti a sconvolgere permanentemente il formicaio o a pacificarlo ripartendolo in sfere di influenza. La risposta liberal tradizionale a quella deformazione del gioco era costituita in America dalle epiche battaglie dell’Antitrust, dirette a ripristinare le regole del gioco attraverso il disarmo dei colossi. Secondo Galbraith quelle battaglie «liturgiche» erano combattute con spade di carta: «Erano l’estremo trionfo della speranza sull’esperienza». La risposta che egli ravvisò nel nuovo gioco era il «potere compensativo». Inutile tentare di frammentare i poteri esistenti. L’antidoto era costituito dai nuovi poteri che lo stesso processo di concentrazione industriale suscitava: i sindacati, le organizzazioni degli agricoltori, le cooperative dei consumatori. L’idea fu considerata eversiva del capitalismo e della democrazia. Invece, come Galbraith stesso riconobbe, era soltanto fiacca. I gruppi più deboli non riusciranno mai a compensare i più forti. Occorre dunque un potere compensativo superiore.

Il mito della sovranità del consumatore. Quando i bisogni più naturali e urgenti sono soddisfatti, i consumatori perdono il controllo della loro domanda, che viene manipolata dai produttori, soprattutto attraverso la pubblicità. Avviene allora che la ricchezza crescente sia trattenuta artificialmente nella sfera di bisogni privati sempre più futili e mutevoli, mentre i grandi bisogni pubblici l’educazione, le infrastrutture, la salute, la bellezza vengono trascurati. Così, l’opulenza privata si installa nello squallore pubblico.

Il mito della Santa Produzione. Molto presto, previde Galbraith in tempi nei quali una politica dell’ambiente sarebbe sembrata uno scherzo di dubbio gusto, «la nostra economia comincerà a preoccuparsi, più che della quantità dei beni prodotti (segnalata dall’indice di aumento del prodotto nazionale lordo) della qualità della vita sul pianeta, minacciata da quell’aumento». Bisognava pensare «alla protezione dell’ambiente e ai servizi pubblici e sociali di cui c’era necessità sempre maggiore».

Come economista, Galbraith non era certo un «puro». Si contaminò con la politica e con l’amministrazione, ne fu coinvolto in pieno, da protagonista. Era nato propriamente come economista in erba, esperto in problemi dell’agricoltura, e la sua grande esperienza tecnica di concimi, allevamenti, rotazioni, ibridazioni, meccanizzazioni, gli conferì un’esperienza pratica di prima qualità, che mise a frutto non solo nell’insegnamento universitario, ma come esperto dell’amministrazione, nella difesa dell’agricoltura americana e del sistema dei prezzi amministrati.

Stabilitosi definitivamente negli Stati Uniti e passato attraverso cinque Università Guelph, Princeton, Berkeley, Harvard, Cambridge non si lasciò mai catturare definitivamente dall’insegnamento. Roosevelt fu il suo primo amore e il partito democratico un matrimonio mai dissolto. Fu nell’amministrazione del New Deal che, ancora giovane, attinse rapidamente un vertice di potere mai toccato dopo di allora. Durante la seconda guerra mondiale si trattava di scongiurare il rischio economico più grave, quello dell’inflazione. Galbraith, che si era distinto nell’Università come specialista dei prezzi agricoli, fu posto accanto all’Albert Speer del New Deal, Leon Henderson, alla testa della nuova Amministrazione dei Prezzi. Per qualche anno fu lo zar dei prezzi americani, una specie di Colbert d’oltre Atlantico, una posizione peculiare nella Repubblica stellata. Nel paese del mercato libero, il mercato libero fu di fatto sospeso. Ma lo sforzo non poteva essere prolungato a lungo. Il capitalismo compresso, gli agricoltori, gli industriali, i commercianti, mordevano il freno. Sui giornali si moltiplicavano i titoli: Galbraith deve andarsene.

Se c’è mai stato un animale politico, uno che la politica l’aveva nel sangue, che la viveva appassionatamente, ma senza mai praticarla professionalmente è stato Galbraith. La passione della politica gli era connaturata. «Era naturale fin dalla nascita, che da noi, nell’Ontario, si nascesse conservatori o liberal, di destra o di sinistra». Lui era nato di sinistra: con una carica di aggressività di derivazione paterna. Suo padre lo portava nei comizi quando aveva dieci anni. Saliva sul deposito di letame di qualche fattoria e si scusava di parlare «dalla piattaforma dei conservatori». Galbraith partecipò alle campagne elettorali di cinque candidati alla Presidenza. Solo due furono eletti, ma che Presidenti! Roosevelt e Kennedy! Si immerse nella vita del Partito Democratico come militante, come raccoglitore di fondi, come propagandista, come ghostwriter. Nelle gallerie dei grandi economisti, è il solo che si sia «contaminato» in modo così impegnato; e così moralmente cristallino. Commitment. Impegno. Era una delle sue parole preferite. A quell’impegno civile non sacrificava la ricchezza della sua vita privata, l’amore per la sua Kitty e per i figli, la loro prodigiosa smania di viaggi per tutto il mondo, il gusto di raccontare in una prosa brillante e incisiva, lo «sfizio» di misurarsi con l’arte, come grande esperto di pittura indiana, e con la letteratura (un romanzo, una commedia). Fece anche in modo impeccabile l’ambasciatore, in India, svolgendo compiti delicatissimi in momenti decisivi e di emergenza (come la breve guerra di frontiera dell’Himalaya). Si batté senza risparmio e senza paura contro la «folle stupidità» del Vietnam.

Commitment: è anche e soprattutto, per Galbraith, l’impegno alla causa del pubblico interesse. Questo, in tutta la sua vita e la sua opera, è il massimo principio deontologico della politica democratica: la superiorità dell’interesse pubblico sugli interessi particolari. Quello non può essere lasciato al libero «gioco» di questi, ma deve essere affidato a una leadership illuminata. Il leader democratico deve cercare il consenso non abbassandosi agli umori istintuali della massa, ma suscitando in quella il bisogno di ideali. Il leader democratico non è amato perché è uno di noi, ma perché è uno migliore di noi. Non perché ci si può rispecchiare, ma perché lo si può rispettare. In ciò sta la natura aristocratica della democrazia.

Volta per volta l’interesse pubblico si identifica in una causa preminente. Nel secolo di Galbraith tre cause hanno meritato questo titolo: la lotta alla disoccupazione, e poi quella al fascismo e infine la prevenzione dell’olocausto nucleare. In tutte e tre Galbraith ha svolto una sua parte di primo piano. La battaglia su questi fronti è stata frenata, fuorviata, intralciata dalla minaccia comunista. Minaccia reale e concreta, ma spesso utilizzata dall’establishment politico a copertura di interessi che non avevano niente a che fare con la libertà.

Oggi quella minaccia è scomparsa. La difesa di quegli interessi non ha più alibi, è diventata esplicita e insolente ideologia della ricchezza e del successo privato. La portata della minaccia si è ridotta. Ma l’orizzonte degli ideali si è ristretto. Si sente la mancanza, e il bisogno, di qualcuno con le gambe un po’ più lunghe.

Nota: su eddyburg_Mall un breve testo di J.K. Galbraith del 1967 che tratta il tema Economia e Felicità

Galbraith è un economista che ha attraversato il ventesimo secolo. Nato in Canada nel 1908, si laurea in economia agraria all’Università di Toronto nel 1931, consegue il master (1933) e il ph.d (1934) nell’Università della California. Diventa cittadino americano nel 1937. Dal 1948, e fino al 1975, sarà un docente di Harvard. Militante appassionato del partito democratico, lavora alternando l’accademia alle responsabilità nella pubblica amministrazione con Roosevelt, Truman, Kennedy e Lyndon Johnson. Durante la seconda guerra mondiale dirige l’ufficio che controlla i prezzi industriali. Ripensando a quegli anni scriverà nei suoi libri che è facile controllare i mercati in cui agiscono pochi grandi attori, come venditori e compratori, ma è impossibile farlo quando i partecipanti agli scambi sono migliaia. Svolge anche altri incarichi legati al clima di mobilitazione imposto dalla guerra mondiale, e riceve dal governo americano la «medaglia della libertà», un’alta onorificenza. Testimonianza significativa di come la sua radicalità riformista non gli impediva di mettere le proprie capacità al servizio della nazione e di essere dalla nazione stessa ricompensato.

Dopo un lungo lavoro politico nel partito democratico durante la leadership di John Kennedy, viene nominato ambasciatore degli Stati Uniti in India. Agli inizi del ventunesimo secolo circola sulla stampa americana la sua candidatura al premio Nobel, perché «è il più famoso economista vivente del mondo che non lo ha ricevuto» ma anche la constatazione che non potrà riceverlo perché molti ritengono il suo lavoro troppo legato a fatti contingenti, troppo politico e non abbastanza accademico.

In effetti la fama di Galbraith nel mondo è pienamente meritata. Ma egli ha subito lo strano destino di chi scrive troppo presto le cose più importanti della propria produzione intellettuale. La descrizione della affluent society, la società dei consumi opulenti, nel 1958 e la critica del potere impropriamente esercitato dalle tecnocrazie industriali nella vita pubblica - The new industrial state nel 1967 - rappresentano due pilastri importanti per un nuovo paradigma nel mondo dell’economia politica. Oltre dieci anni dopo, nell’Europa degli anni settanta, percorsa da movimenti di massa ostili alla dimensione fordista e alienante della grande industria, le idee di questo americano liberale diventano un linguaggio capace di restituire alle scienze sociali la forza della critica rispetto all'ordinamento sociale.

Non deve stupire che questi due libri di Galbraith vengano valorizzati anche nel nostro paese dagli ambienti culturali che erano alla ricerca di un radicale superamento del marxismo di stampo tradizionalmente europeo. Claudio Napoleoni e Franco Rodano lavorano sulla centralità dei consumi opulenti per offrire, dalle pagine della Rivista Trimestrale, una politica economica capace di cambiare i processi di riproduzione sociale a partire dalla forma dei consumi e non dai rapporti di forza nei luoghi di produzione. Edoardo Salzano scrive su quelle pagine una serie di articoli intriganti sul legame involutivo che si stabilisce tra la dinamica dei consumi opulenti e le forme dell’espansione urbana. Ne nasce un libro della Laterza, Urbanistica e Società Opulenta, che verrà, purtroppo e spesso, frainteso come una sorta di elogio del pauperismo. La dimensione dell’alienazione dell’individuo, in una economia che smarrisce i valori collettivi, viene proposta come la radice della critica sociale.

La riduzione della complessità necessaria per lo sviluppo della persona umana, del resto, è una costante della stagione culturale alla quale appartengono le due opere principali di Galbraith: ricordate l’uomo di Marcuse, ridotto ad una sola dimensione? Scrive Galbraith nel Nuovo Stato Industriale: «La conformità dell’identificazione degli individui e delle organizzazioni con i fini sociali è possibile grazie alla presenza, quale forza motivante, dell’adattamento, che corre come un filo parallelo dall’individuo ai valori della società passando attraverso l’organizzazione... (grazie a) questo processo di adattamento acquista valore sociale ciò che è utile agli obiettivi dei componenti la tecnostruttura». Alla fine degli anni ottanta la Nuova Italia pubblica un volume di Ricciotti Antinolfi, economista dell’Università di Napoli, che offre la ricostruzione dell’impatto delle analisi di Galbraith sulla politica e la cultura del nostro paese.

In un pamphlet del 1990 - A short history of financial euphoria: financial genius is before the fall, tradotto in italiano da Rizzoli - si ritrova, invece, la grande paura della crisi finanziaria che, dal 1929, attraversa gli Stati Uniti, da Galbraith a Bernanke, passando per Greenspan: «Una normativa che bandisca la credulità finanziaria o l’euforia di massa non è in pratica possibile... il risultato sarebbe un sistema di leggi imponente, forse oppressivo e certamente inefficace. Quando avverrà il nuovo grande episodio speculativo ed in quale campo?.. non c’è risposta a queste domande; nessuno lo sa e chiunque pretenda di darla (la risposta) non sa di non sapere. Ma una cosa è certa, ci sarà un altro di questi episodi ed altri ancora... Gli sciocchi, presto o tardi, vengono separati dal loro denaro». Forse, nel giorno in cui Galbraith ci lascia, sarebbe utile ricordare ai giovani che la sua straordinaria capacità di navigare tra la politica, la pubblica amministrazione e l’accademia gli ha impedito di ricevere un Nobel ma ha offerto una enorme energia intellettuale al suo paese. Grazie alla sua militanza appassionata in un partito. Non sarebbe facile ripetere questa performance nell'Italia di oggi e nel suo sistema politico.

«Se si eccettua il pericolo di una guerra nucleare, la questione dell'ambiente è la minaccia più grave per il mondo». Il solito ambientalista rompiscatole, catastrofista e anche un po' menagramo? No. John Kenneth Galbraith. Sono parole che affidò al mio microfono nella sua bella casa di Boston il 31 gennaio 1991. Tema dell'intervista: la posizione della scienza economica di fronte alla crisi ecologica planetaria. Tema su cui intendevo fare un libro, e che andavo proponendo a un buon numero di economisti di grande prestigio (ben sei Nobel tra gli altri) spesso ricevendone reazioni quanto mai stupite: «Ambiente? Ma io sono un economista», fu ad esempio la prima risposta di Milton Friedman. Lui no. Mi fissò immediatamente una data. E subito, dal primo scambio di battute, fu evidente che, a differenza dei suoi colleghi, riteneva la materia tutt'altro che estranea agli interessi specifici della sua disciplina, e che già aveva considerato l'incompatibilità del modello economico attivo in tutto il mondo con la salvaguardia degli equilibri naturali.

In anni in cui, eccettuati i padri della bioeconomia (Georgescou-Roegen, Boulding, Daly, e pochissimi altri) tutti gli economisti opponevano il più reciso rifiuto anche ad accettare la discussione sulla crescita, lui già con piena consapevolezza parlava degli «effetti negativi della crescita sull'ambiente», e della necessità anzi del dovere dell'Occidente di rivedere il proprio stile di vita e di ridurre drasticamente i livelli di consumo. Aggiungendo - da sperimentato conoscitore del Sud del mondo, e sdegnato testimone del suo sfruttamento - che sarebbe indecente pretendere dai poveri un'attenzione all'ambiente che noi stessi non abbiamo. «Tocca a noi», ripeteva convinto, e - da severo antesignano della critica al consumismo - notava che dopotutto anche noi ne avremmo tratto vantaggio.

Per concludere con una affermazione che al momento chiosò come «fuori tema»: «Il capitalismo è una macchina inbattibile nel produrre ricchezza, ma assolutamente incapace di distribuirla decentemente». Io osservai che non mi pareva un discorso tanto fuori tema. Rispose con un gesto, come a dire: lasciamo perdere.

Sul problema, a differenza della grande maggioranza degli economisti, aveva riflettuto seriamente, e ne vedeva tutta la complessità: ciò che - diceva - avrebbe richiesto da parte di ciascun paese un'impegnata analisi della propria situazione ecologica, non solo per un adeguato trattamento dei rifiuti, quelli nucleari in orimis, un severo sistema di tassazione di ogni tipo di inquinamento, decisi interventi fino alla proibizione delle industrie più inquinanti, e così via. Soprattutto si rendeva conto di qualcosa di cui ancora oggi anche gli ambientalisti più qualificati raramente sembrano avvertiti. Non bastano i provvedimenti dei singoli paesi, diceva: «Ciò che manca finora, e che la situazione urgentemente richiede, è una politica globale». E citava il buco nell'ozono, le piogge acide, l'effetto serra, fenomeni che riguardano l'intero pianeta, che si manifestano sovente agli antipodi del luogo in cui se ne producono le cause, che esigono pertanto una strategia sovranazionale, che solo «un'autorità globale» può affrontare in modo adeguato. E parlò perfino (cosa allora presa in esame solo da pochi specialisti) dell'assurda contabilizzazione del Pil: «Computare in positivo il valore dell'acciaio prodotto e non il valore negativo degli scarichi inquinanti provenienti dall'acciaieria, è un modo ingannevole di fare i conti». E aggiunse, quasi commovendomi: «Inoltre il Pil omette molte cose importanti: ad esempio l'enorme contributo che proviene dal lavoro delle donne».

Continuò a parlare a lungo, senza più bisogno di sollecitazioni, quasi riflettendo ad alta voce, mentre nel pomeriggio invernale scendeva il buio sui boschi che circondavano la casa. Era chiaro che la sua attenzione al problema era dovuta anche a una sorta di aristocratica sofferenza di fronte al deterioramento estetico dell'ambiente, a «quel particolare tipo di polluzione che non lede la salute, ma offende chiunque abbia sensibilità alla bellezza del paesaggio, che deriva dall'uso incontrollato del territorio, dalla manomissione delle campagne», senza dire dei monumenti antichi «oggi gravemente a rischio». L'Italia per esempio, disse: «Era molto più bella quando la visitai le prime volte, tanti anni fa». Nel coro elogiativo che ha commentato qualche giorno fa la sua morte nessuno ha notato la sua attenzione alla crisi ecologica. Ma la cosa non stupisce.

Chi lo ha conosciuto ricorda la sua capacità di colloquiare e tenendo sempre testa all'interlocutore. Sorridente e benevolo, largamente prodigo di parole cortesi, ma non alieno da frasi mordenti e (ahimè per l'interlocutore) sempre infallibilmente centrate.

Galbraith ebbe una formazione teorica solida. Nato in Canada, fece i suoi studi all'Università di California. Successivamente fu accolto come professore di Economia delle università più prestigiose: dapprima Princeton e infine Harvard. Durante la seconda guerra mondiale, Galbraith prestò la sua opera come consulente governativo ed ebbe la responsabilità del controllo dei prezzi e del contenimento dell'inflazione.

All'università di Harvard, Galbraith teneva un seminario settimanale, nel quale, dalle due alle quattro del pomeriggio, si accalcavano gli studenti più avanzati. Era un privilegio farne parte; ma anche un rischio, perché non di rado il professore, interrompendo improvvisamente il suo dire, si rivolgeva al primo che gli capitava a tiro e gli poneva un quesito fulminante. Se il malcapitato non rispondeva prontamente, la stessa domanda veniva girata a un altro, e così via fino a che non si trovava qualcuno che, avendo avuto qualche istante per riflettere, riusciva a trovare una risposta soddisfacente.

I contributi che hanno assicurato a Galbraith la maggiore popolarità non sono nel campo della teoria pura. Tre titoli segnano le tappe della sua attività di pubblicista: Il capitalismo americano, il grande crollo. dove viene analizzata la crisi del 1929 che mise in ginocchio l'economia degli Stati uniti), e La società opulenta. Quest'ultima opera, rimasta la più celebre e quella che gode della maggiore diffusione, contiene una critica instancabile del capitalismo moderno. L'economia nella quale viviamo, osserva Galbraith, ci ha assicurato un benessere materiale crescente e diffuso. Il governo delle grandi imprese assetate di profitto, produce senza tregua nuovi beni materiali (automobili, frigoriferi, lavatrici, e via dicendo), dei quali, grazie alla pubblicità, siamo indotti a sentire un bisogno insaziabile. Chi riflette sulla miseria dei secoli passati, non può che considerare questa evoluzione come un indiscutibile progresso. Ma la disponibilità di beni materiali non è tutto; una società che voglia dirsi davvero avanzata deve porsi mete, forse meno tangibili, ma certamente più ambiziose, a cominciare dalla diffusione della cultura; e qui le lacune sono ancora vistose.

Galbraith formulò questo messaggio rivolto ai suoi concittadini statunitensi alla fine degli anni cinquanta. Messa a confronto con le idee dominanti nella cultura americana del tempo, la sua posizione risultò innovativa e per alcuni osservatori addirittura rivoluzionaria. Negli Stati uniti, la stragrande maggioranza della popolazione riceve una formazione di base estremamente limitata, mentre gli studi più avanzati sono riservati a una minoranza destinata a formare una ristretta classe intellettuale di élite. Questo assetto viene generalmente considerato soddisfacente e adeguato a una società moderna, dedita alla produzione di beni materiali. Il messaggio di Galbraith invertiva le priorità: anzitutto diffusione della cultura e successivamente preoccupazione per la ricchezza materiale. Si trattava di un richiamo a finalità non soltanto più nobili, ma anche pienamente accessibili per una società che, come quella americana, aveva largamente vinto la battaglia contro la miseria. In che misura il suo messaggio sia stato compreso e accettato dai suoi concittadini resta ancora cosa discutibile.

Galbraith era dotato di una penna felice e i suoi scritti sono sempre avvincenti. Questa dote gli permise di spaziare su temi assai vari. Nel 1958, egli compì un viaggio nei paesi d'oltre cortina, dov'era stato invitato a tenere un ciclo di conferenze: era la prima volta che il compito di parlare del capitalismo americano veniva affidato ad un economista estraneo alla scuola sovietica. Nel suo itinerario, Galbraith non toccò la Russia, ma visitò a fondo Polonia e Jugoslavia. Ne risultò un gustoso volumetto di impressioni di viaggio: a partire dall'arrivo a Varsavia, quando il malcapitato Galbraith fu costretto a una lunga serie di brindisi per ognuno dei quali era d'obbligo ingoiare il bicchierino di vodka tutto d'un sorso, fino al commiato finale, quando ebbe la soddisfazione di sentirsi dire in pubblico che le sue lezioni erano state profondamente istruttive, perché il quadro del capitalismo americano che egli aveva tracciato era ben diverso da quello che veniva abitualmente descritto nelle università e nei dibattiti scientifici.

Galbraith lascia il ricordo di un uomo che seppe essere uno studioso accurato e capace di coniugare aspetti diversi della teoria economica pura, ma al tempo stesso un osservatore acuto della realtà e un profondo conoscitore dei fatti. Chi ripercorrerà i suoi scritti troverà non soltanto una larga messe di idee originali ma anche un prezioso insegnamento di metodo: che è quello di perseguire insieme rigore logico e realtà storica.

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