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«Una via mistica non come fuga dal mondo, ma come immersione amorosa, intensa e piena nella vita che ci è stata data, per vedere attraverso e al di là della superficie e del limite». Corriere della Sera, 8 agosto 2016 (c.m.c.)

Perché Francesco si ostina a parlare di misericordia e di perdono quando, di fronte alla violenza, c’è bisogno di risposte forti e determinate? E perché il Papa ha voluto affermare che le religioni non c’entrano e che dietro la violenza ci sono sempre interessi economici e politici? Siamo davanti ad un Pontefice «buonista» che non riesce a vedere le tensioni che agitano il mondo?

Sono domande risuonate in questi giorni e che meritano qualche ulteriore riflessione. Ad uno sguardo non schiacciato sulla contingenza, la crisi che sta investendo il mondo intero esprime i dilemmi dell’epoca che C.Taylor chiama «dell’umanesimo autosufficiente»: privati della trascendenza di Dio, non sono ammessi fini ultimi diversi dalla prosperità umana.

In un mondo globalizzato, ciò sembra però esporci a una dinamica, contraddittoria e lacerante: da una parte l’attrazione tecnocratica verso l’oltre-uomo, come se l’uomo contemporaneo, in una torsione paradossale, pretendesse di divinizzarsi di nuovo e questa volta con le sue stesse mani; dall’altra il ritorno a forme di sacralizzazione arcaiche, nutrite con istanze fondamentalistiche, fatalmente imbevute di violenza.

Tale crisi, che tocca tutti, si produce in modo particolarmente acuto nel contatto problematico tra la modernità occidentale e l’Islam contemporaneo. Estraneo al percorso di secolarizzazione, l’Islam — uscito da un lungo torpore — appare incerto, nelle sue componenti, sull’atteggiamento da assumere nei confronti della modernità e sul modo in cui la potenza, oggi tutta umana più che divina,viene elaborata. Prestando il fianco ad ogni tipo di strumentalizzazione politica ed economica, una parte delle sue élite considera mortale per la stessa religione islamica l’esposizione ad un Occidente che ha fatto ormai della tecnica — alleata dell’io individuale — il proprio dio.

Nel quadro della società contemporanea, il punto di forza, e insieme di debolezza, della tradizione islamica è di parlare di un dio imperscrutabile. Tanto è vero che al fedele non è richiesta una precisa linea di comportamento per salvarsi, né uno sforzo di razionalizzazione della propria esistenza.

L’idea di sottomissione — che ci suona scandalosa — offre una via d’uscita alla solitudine e al disorientamento di tanti. Dio, attraverso i suoi interpreti, può arrivare a chiedere qualsiasi cosa, anche contro la ragionevolezza e la comune umanità. Nella stagione dell’autonomia dell’uomo, ciò rappresenta il ritorno, paradossale ma non incomprensibile, del padre come pura potenza: con le parole di Lacan, quando il «padre del patto», che unisce legge e desiderio, lascia il posto al puro arbitrio, al di fuori dalla legge, il soggetto si può abbandonare ad un godimento anarchico e minaccioso.

È questa la fessura nella quale si incunea oggi il fanatismo (islamico, ma non solo) che, come osserva O. Roy, si intreccia col nichilismo dominante delle società avanzate. È nella follia dei kamikaze che uccidono pensando di essere già in paradiso o nella crudeltà mostrata dai combattenti dell’Isis che vediamo le conseguenze più tragiche della sovrapposizione tra il vuoto dell’Io e l’onnipotenza divina.

Così, le convulsioni che sconvolgono il mondo intero esprimono, in modo distruttivo, la domanda che interpella le grandi tradizioni spirituali: come ripensare l’esperienza religiosa nell’era tecno-scientifica, per definizione globale? Interrogativo peraltro che non risparmia la tecnica: siamo sicuri che l’oltre-uomo sia la strada giusta da perseguire?

Francesco è ben consapevole della delicatezza di questa stagione. Per questo, a partire da una chiara distinzione tra religione e politica, egli fa quello che un capo religioso deve fare, e cioè lavorare per creare un terreno di dialogo tra tutti i credenti. Sollecitando la sua Chiesa — e l’intera cristianità — a recuperare una concezione mistica della fede. Una via mistica non come fuga dal mondo, ma come immersione amorosa, intensa e piena nella vita che ci è stata data, per vedere attraverso e al di là della superficie e del limite. Per chi ha fede, se Dio non è nel qui e ora della vita, dice Francesco, non è da nessuna parte.

Lo sguardo mistico di Francesco, più che una dottrina, nutre un’etica (la cura dei legami che ci costituiscono) e insieme una politica e una economia (la gestione della nostra casa comune a partire dalla centralità degli ultimi). E poiché la fede, che per Francesco è generativa, è sempre cammino, ricerca, rischio, è ai giovani che il Papa affida il compito di mostrare come sia possibile costruire ponti quando molti vogliono costruire muri.

La via mistica, iconicamente espressa dal suo sostare, ad Auschwitz, in solitudine e in silenzio (come a dire che c’è una fede nuda che tutti accomuna) è il possibile terreno di incontro tra fedi diverse: essa non prevede risposta per tutto, ma una sospensione operosa e coraggiosa davanti al mistero, cioè a ciò che non sappiamo e non dominiamo. È questa, per papa Francesco, la condizione su cui ogni dialogo (tra le religioni e con la tecnica) si può oggi rigenerare. Come ricerca sincera, piena di stupore e di misericordia, di ciò che ci accomuna come esseri umani.

Il manifesto, 6 luglio 2016 (p.d.)

Dito puntato, ancora una volta, da papa Francesco contro tutti i Paesi occidentali di area Nato, ma anche contro le monarchie saudite e la Russia, che vendono armi alla Siria o ai ribelli anti Assad mentre contemporaneamente invocano la pace. «Come si può credere a chi con la mano destra ti accarezza e con la sinistra ti colpisce?», chiede retoricamente il pontefice in un videomessaggio diffuso ieri in occasione del rilancio della campagna per la pace in Siria («Siria, la pace è possibile») promossa dalla Caritas Internationalis, organismo a cui aderiscono 165 Caritas di tutto il mondo, tra cui quella italiana. «Mentre il popolo soffre – si ascolta nel videomessaggio di Francesco –, incredibili quantità di denaro vengono spese per fornire le armi ai combattenti. E alcuni dei Paesi fornitori di queste armi, sono anche fra quelli che parlano di pace».

Nomi Bergoglio non ne fa, ma sul banco degli imputati siedono i principali governi occidentali e i Paesi della Nato, che per anni hanno venduto armi alla Siria e da un po’ di tempo le vendono agli oppositori di Assad (fra cui si annidano anche gli jhiadisti dell’Isis e di Al Qaeda), ma anche la Russia di Putin. E qualche giorno fa il New York Times ha rivelato che una grande quantità di armi che la Cia – in collaborazione con i sauditi – aveva destinato ai ribelli siriani contro il regime di Assad è stata rubata dai servizi segreti giordani e collocata sul mercato nero.

Si tratta di una guerra, ricorda il papa nel videomessaggio, «oramai entrata nel suo quinto anno. È una situazione di indicibile sofferenza di cui è vittima il popolo siriano, costretto a sopravvivere sotto le bombe o a trovare vie di fuga verso altri Paesi». E a questo proposito la Rete italiana per il disarmo rilancia il rapporto della ong olandese Stop Wapenhandel («Border wars») che denuncia come «le principali aziende europee di armamenti coinvolte nella vendita di sistemi militari al Medio Oriente sono le stesse aziende che stanno traendo profitti dalla crescente militarizzazione delle frontiere dell’Unione europea». Insomma un affare doppio.

Non è la prima volta che papa Francesco denuncia il commercio internazionale delle armi come causa prima delle guerre. E non è la prima volta che interviene sulla Siria, da quando, nel settembre 2013, alla vigilia di quello che sembrava un imminente attacco occidentale alla Siria di Assad, scrisse a Putin (contrario all’azione militare) che presiedeva un G20 a San Pietroburgo per chiedere ai capi di Stato e di governo di abbandonare «ogni vana pretesa di una soluzione militare» contro Damasco; e pochi giorni dopo promosse una giornata di digiuno e una grande veglia per la pace in piazza San Pietro che contribuì a fermare l’intervento armato.

«Appelli puntualmente inascoltati – spiega Giorgio Beretta (Rete disarmo) – le responsabilità sono tutte dei governi occidentali che continuano a vendere armi nonostante siano ben coscienti delle continue violazioni dei diritti umani in Medio Oriente. Se vogliamo fermare le guerre, il primo passo è la trasparenza e un controllo rigoroso sull’export di armamenti, che invece è in aumento, come confermano i recenti contratti firmati da Finmeccanica e Fincantieri» Ancora papa Francesco: «Non c’è una soluzione militare per la Siria, ma solo una politica. La comunità internazionale deve sostenere i colloqui di pace verso la costruzione dì un governo di unità nazionale. La pace in Siria è possibile!».

. La Repubblica, 7 maggio 2016 (c.m.c.)

Papa Francesco, allergico alle formalità, ha accettato ieri il premio Carlo Magno. Più che un premio era un appello. Il disorientamento intellettuale del Continente è andato a chiedere a Bergoglio di essere scosso: ha avuto quel che cercava. In un discorso come sempre denso di riferimenti teologici impliciti e segnato da un finale severamente profetico: «Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stata la sua ultima utopia».

Nato nel 1949 ad Aachen, il premio Carlo Magno esprimeva un europeismo occidentalista, atlantico, anticomunista, secondo quella che era la cultura politica di un industriale, oppositore delle leggi razziste, come Kurt Pfeiffer. Ma in quell’europeismo, che parlava in tedesco e pensava in cattolico, inseguendo l’utopia di una Europa cristiana, è stata generata una Europa di pace, di cui il premio ha seguito le movenze. Il Carlo Magno è stato attribuito a varie figure ora politiche ora spirituali, come frère Roger di Taizé o Giovanni Paolo II che avevano dato un apporto effettivo alla costruzione europea.

Francesco non lo poteva ricevere allo stesso titolo. Il suo europeismo non pensa politicamente e culturalmente in termini est-ovest. Su quella linea lui vede correre un’altra istanza, quella ecumenica: che mette davanti alla chiesa latina (cattolici, luterani, ecc.) e alla chiesa d’oriente (greci, russi, ecc.) lo scandalo della divisione e la vocazione all’unità. Lo ha ripetuto ieri ponendo l’ecumenismo come “segno dei tempi” e citando le lezioni sulla “Idea d’Europa” come terra di diversità, lette alla radio tedesca nel secondo dopoguerra da uno dei più grandi teologi del Novecento a cui fa frequente riferimento, Erich Przywara.

E da lì Francesco ricava l’idea che tutte e solo le differenze integrate culturalmente sono la ricchezza europea, letta lungo un asse nord-sud, alto-basso, profitto-giustizia, liquidità-socialità, spiazzante rispetto alle filastrocche della crescita, del rigore e dell’innovazione.

Il Papa ha ieri invertito il principio-guida dell’europeismo wojtyliano: non ha mai citato le “radici cristiane” (o giudeo- cristiane come diceva il ritornello inconsapevole che in quell’assorbimento c’è il seme dell’antisemitismo) ricordate come matrice di cose meravigliose e dimenticandone le atrocità. Ha invece citato le “radici” plurali di un’Europa dei diritti umani, che il vangelo (il vangelo!) può “annaffiare”, portando i frutti di pace e di giustizia che i cristiani producono solo nella loro fedeltà al vangelo stesso.

Al posto della faglia otto-novecentesca fra credenti e non credenti, pone quella pluralisti e indifferenti: mette così in fuori gioco il secolarismo low-cost che ha impoverito l’Europa pensando che siano capi religiosi gentili e non teste pensanti che alimentano la cultura del dialogo. Non ha chiesto perciò un’ora di religioni, ma un’ora di “cultura del dialogo” che scardina il laicismo fobico e il clericalismo furbo.

Mentre l’analfabetismo religioso concima i fondamentalismi e dissecca la sorgente della riforma teologica delle chiese e delle fedi, Francesco ha chiesto agli europei di tornare al “logos” non come “ragione”, ma come “racconto” capace di un risultato. Chiedendo alla Europa: “cosa ti è successo?”, le ha aperto una porta lasciando che la paziente decida se e come varcarla.
Ha evocato la diversità di tre millenni davanti gli esponenti di una classe dirigente che ha espulso la storia dal proprio pensare per appiattirsi su un sapere fatto di intellettuali di corte, pronti a fornire costose soluzioni precotte a “decision makers” che spesso son solo dei consumatori di sondaggi, inconsapevoli della gravità dei problemi che li sovrastano.

Il triplice appello del Papa a dialogare, integrare e generare non è detto che troverà ascolto. La capacità europea di cogliere queste dimensioni è modesta: lo si vede nelle commemorazioni della Grande Guerra, sbriciolate in festicciole turistico- nazionali che hanno alzato muri in una memoria comune. Ma nella conclusione cupa e profetica del discorso di Francesco appare anche un segnale importante.

Dire che i diritti umani (non i valori, non le identità), potrebbero essere l’ultima utopia che finirà con l’Europa coglie il problema dei problemi. Dopo la libera circolazione, dopo i legami oggi vissuti come legacci non c’è un male: c’è il peggio: il peggio che ha già devastato l’Europa (e annichilito la Germania) almeno due volte in cent’anni.

La cosa tocca da vicino il cattolicesimo. C’è infatti un vento gelido e leggero che percorre l’Europa e interpella il Papa di Roma. Sono gli alisei dell’odio e della chiusura, che mescolano autoritarismo, antisemitismo e xenofobia in dosi variabili. Soffiano su molti Paesi, ma per una coincidenza singolare percorrono quella che un tempo si sarebbe detta l’Europa cattolica: spira dalla Polonia, scende nella Slovacchia, si rafforza in Ungheria e ora torna verso l’Austria. Disegna una antica geografia asburgica: poi affonda nel Lombardo-Veneto; tocca la Francia in cui il cattolicesimo tradizionalista si salda col lepenismo; e aleggia su una Italia in cui la chiesa è stata argine antileghista e che qualche schematismo elettoralistico vorrebbe ricattare puntando il disastro possibile alla tempia dei riluttanti.

Di questo vento Francesco sa di essere e dover essere al tempo stesso l’argine e l’esorcista. Il suo gesto di rimettere l’esigenza del vangelo davanti alla politica, ha un valore politico perché antepone effettivamente le istanze del vangelo come tale. La sua condanna della subcultura dei muri, fa stridere i denti al demone autodistruttivo del nazionalismo, che come nei racconti evangelici, strepita quando l’irruzione messianica scintilla dentro le mediocrità dei credenti.

E così il Papa non Europeo chiede all’Europa di liberarsi dalla dicotomia fra credenti- non credenti, e passare a quella fra pontieri e “muristi”, fra “fidenti” e indifferenti, da cui dipende il destino di questa utopia-Europa e la pace che chi la abita potrà o godere ancora un po’ o rimpiangere a lungo.

La Repubblica, 17 aprile 2017

CON la visita a Lesbo papa Francesco ha deciso di esporre, sul fronte politico più caldo di questo momento, tutta la sua forza e tutta la sua impotenza. Ha compiuto un gesto che s’iscrive nel quadro dei grandi gesti profetici e apocalittici mancati ai decenni recenti e affidati ad una impossibile storia dei “se”: se Pio XII fosse andato a Palazzo Salviati a via della Lungara, la sera del 16 ottobre 1943, dove erano stati portati gli ebrei di Roma...; se Giovanni Paolo II in visita in Cile avesse chiesto a Pinochet di accompagnarlo al forte “Silva Palma” a Valparaiso, dove si torturavano i desaparecidos... La ricerca storica ci insegna la ragioni per cui questo non accadde: la convinzione di dover agire diplomaticamente, di poter far meglio dialogando con quei poteri, qualche illusione politicistica, e via dicendo.

Davanti al dramma di popoli in fuga da un segno apocalittico come la guerra – «a bello fame et peste», dicevano le litanie – è accaduta, invece, la visita di Francesco a Lesbo. Dove arriva una disperazione che non ha nulla di comparabile alla Shoah, che non ha dietro la spietatezza della realpolitik americana: ma che imponeva anche il papato di delle scelte. E Francesco ha fatto la sue.
Ha compiuto un atto liturgico di intercomunione con l’ortodossia, toccando insieme la carne del Cristo povero nei poveri. Ha scelto di compiere un gesto di umiliazione: e alla propaganda jihadista sui crociati mostra un credente disarmato che può solo carezzare qualche viso di quelli che hanno vissuto per decenni sotto le bombe e devono fuggire portandosi la vita come bottino. E ha compiuto un grande gesto politico.

Che consiste nel girare le spalle alla politica, volgersi dalla parte delle vittime e parlare (anche alla politica) solo rimanendo lì, accanto al corpo di Abele: l’Abele dei morti distesi sul fondo dei mari che separano le terre della guerra dalle terre [della]paura; l’Abele degli innocenti vivi e piangenti che gli sono parati innanzi con gesti che mimavano gli episodi stessi del Vangelo.

«Troverete qualche lacrima da asciugare» disse papa Giovanni la sera del discorso della Luna; Francesco è andato a dare la carezza del Papa ai bambini che piangevano disperati, che si sono prostrati davanti a lui in un gesto straziante che consegnava ad un uomo andato a dire «non perdete la speranza», tutta la disperazione inconsolabile di chi è in fuga e rischia di essere ributtato nelle mani di chi ha caricato i propri campi di profughi da usare come arma e come leva di un ricatto che ha funzionato benino.

Da quel punto-Abele ha lanciato un messaggio politico che denuncia l’impotenza di un’Europa che si misura con questi drammi, o facendosi portare dagli amici – Tajani ne aveva ha fatto un mestiere – simpatici capi religiosi che rassicurano una società secolarizzata sulla bontà delle “religioni” o facendo qualche domanda sbagliata alla sociologia religiosa di solito francese... La soluzione che Francesco ha “implorato” infatti non è fatta di principi: legge naturale, norme morali, concetti di civiltà; ma di una prossimità reale di cui ha dato l’esempio andando solo (si portasse il presidente della conferenza episcopale europea non sarebbe male) insieme al Patriarca Ecumenico e ai suoi metropoliti.

Esattamente come ha imposto ai vescovi cattolici di prendere in mano le situazioni “cosiddette irregolari” così ha fatto coi migranti. Il Papa ha stabilito che i vescovi debbano prender in mano personalmente quei drammi e i disastri degli amori estinti non perché pensi che i vescovi sappiano dire parole appropriate: ma perché pensa che sia indispensabile ai vescovi per essere vescovi. E allo stesso modo il papa sa che non saranno le parrocchie dello staterello Vaticano o gli episcopi che aprono qualche stanza ad alcune famiglie a risolvere il dramma di milioni di persone cacciate da casa da guerre lucrose e da lucrosi maneggi politico-petroliferi: sa, però, che aver vicino anche solo un poco di quel disastro rende umano chi lo fa, e disumano chi non lo fa.

«Chi alza muri non è cristiano» ha detto rispondendo a una battuta di Trump che credeva di poter fare lo strafottente col vescovo di Roma. A Lesbo ha spiegato che chi non vuol vedere la sofferenza del carcerato – che “è” il Cristo dice Matteo 25 – non è umano.

Perché come dice Francesco «siamo tutti migranti»: e a forza di muri e confini questo continente che ha inventato le guerre di religione, la guerra totale, il colonialismo, i totalitarismi, lo sterminio e la pulizia etnica, finirà per ripetersi. E perché come dice Bartholomeos «la società sarà giudicata per come vi tratta »: in senso etimologico una Europa “se-cura” – cioè che si libera dal prendersi “cura” di nessuno – è una utopia destinata a dar frutti malvagi.

Per una Europa che si “cura” della pace e della giustizia di terre dimenticate, dove i grandi affari generano grandi cinismi, non basta il disegno di un bambino afghano messo sul tavolo del Papa. Le tre famiglie che diventano rifugiati in Vaticano non sono “la” soluzione di questo dramma epocale: hanno senso se sono un promemoria, un gesto che suscita qualche santa emulazione nei vescovi, nei credenti, negli europei.
Corriere della sera, 9 aprile 2016
NEW YORK L’invito con il timbro della Pontificia accademia delle scienze sociali è stato spedito a un solo politico americano. Non al presidente e Premio Nobel Barack Obama. Non a Hillary Clinton, la candidata democratica favorita per la presidenza. E neanche a Ted Cruz, il repubblicano che sta conducendo una campagna tutta «Bibbia e Costituzione». L’ospite in arrivo dagli Stati Uniti sarà Bernie Sanders, outsider assoluto delle primarie, il senatore «socialista» ed egualitario del Vermont sospinto dall’entusiasmo dell’America più giovane.

Il 15 aprile Sanders sospenderà i comizi nello Stato di New York, dove si vota il 19 aprile, e prenderà parte al convegno di riflessione sull’enciclica di Giovanni Paolo II, «Centesimus Annus» di cui cade il venticinquesimo anniversario.

Secondo il racconto di un funzionario anonimo del Vaticano, riportato dall’agenzia Bloomberg , Sanders avrebbe fatto il possibile per essere invitato. Gli osservatori più maligni hanno subito richiamato il caso dell’ex sindaco di Roma Ignazio Marino, accorso a Filadelfia nel settembre 2015 per presenziare a un incontro con il Pontefice. «Non l’ho invitato io», precisò in quell’occasione papa Francesco.

Ma monsignor Sanchez Sorondo, Cancelliere (una specie di direttore generale) della Pontificia Accademia ha chiarito di essere stato lui a sollecitare la partecipazione del senatore americano, spiegando anche perché: «Mi è sembrato che Sanders avesse un reale interesse nello studio dei documenti scritti dal Papa. Non ho visto altri candidati citare il Papa nella loro campagna. Non so se siano interessati a questi scritti». Monsignor Sorondo, argentino come Bergoglio, con un esercizio di carità, sorvola sullo scontro tra Donald Trump e il pontefice del 18 febbraio scorso, su muri e migranti. Eppure quello resta un passaggio chiave per ricostruire un’operazione che non si esaurisce con Sanders.

Non è ancora chiaro se, alla fine, il Papa riceverà il settantaquattrenne senatore. E in questo caso non è neanche rilevante che Sanders sia di confessione ebraica. Bisogna, invece, fare grande attenzione a come sarà composta la platea. Ci saranno il presidente della Bolivia, Evo Morales, e quello dell’Ecuador, Rafael Correa. Inoltre il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga dell’Honduras e il professor Jeffrey Sachs, ascoltato consigliere di Bergoglio per la stesura dell’enciclica «Laudato si» su ecologia e sviluppo economico, pubblicata nel giugno del 2015. In quei giorni l’ambientalista Obama commentò con grande trasporto l’opera papale. Poi ci fu la visita di Francesco alla Casa Bianca e l’intesa con il presidente apparve solida.

Adesso, però, la Pontificia Accademia presta attenzione a ciò che si muove oltre Obama, mettendo insieme esperienze di governo e correnti di pensiero tra le più radicali. Giusto un anno fa, nel Vertice delle Americhe a Panama, Morales e Correa si produssero in un’aspra requisitoria contro il modello economico Usa, davanti a Obama, impassibile. E Jeffrey Sachs, direttore dell’Earth Institute alla Columbia University, è punto di riferimento fondamentale per studiare i limiti del capitalismo: povertà, polarizzazione sociale, inquinamento.

In questo contesto, oggettivamente, sarebbe difficile immaginare un altro politico americano diverso da Sanders. Forse è esagerato pensare che stia nascendo una specie di «Internazionale Bergoglio», un’alleanza politico-culturale nel segno del riequilibrio sociale. Quello della Pontificia Accademia resta un seminario di riflessione. Tuttavia la nuova Chiesa Cattolica guidata dal pastore argentino lavora per diffondere con sempre maggiore forza la richiesta di grandi cambiamenti nelle politiche economiche e sociali. È la ricerca di un’egemonia nella «ragion pratica», nella concretezza, con uno scarto rispetto alla tradizione, come si può leggere anche nel libro in uscita di Manlio Graziano, professore alla Sorbonne di Parigi, In Rome we trust (editore Il Mulino) sui rapporti tra Usa e Santa Sede.

Sanders ha colto per primo questo cambio di passo: «L’imperativo morale che il Papa sta portando nella discussione è assolutamente straordinario ed è assolutamente ciò di cui il mondo ha bisogno. Questi temi non sono stati affrontati per anni». Per lui un posto in prima fila nel parterre di Francesco.

Corriere della Sera, 22 febbraio 2016 (m.p.r.)

Papa Francesco lancia una proposta rilevante: «Propongo a quanti sono cattolici di compiere un gesto coraggioso ed esemplare: che nessuna condanna venga eseguita in questo Anno Santo della Misericordia». Mobilita autorevolmente i fedeli, i vescovi e i governanti cattolici per la moratoria delle esecuzioni. Quali reazioni positive o critiche ci saranno? Si pensi ai governatori americani. Bergoglio delegittima religiosamente la pena capitale: «Il criminale mantiene l’inviolabile diritto alla vita, dono di Dio».

La sua posizione ha innovato rispetto al passato. Wojtyla e Ratzinger avevano fatto passi in avanti, ma pesava l’ipoteca della continuità con l’insegnamento tradizionale. Si poteva smentire la storia della Chiesa? Ancora nel 1868, furono eseguite due condanne a morte (approvate da Pio IX) nella Roma papale. Francesco è consapevole di quanto lucidamente affermava papa Giovanni: «Non è il Vangelo che cambia: siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio». E il Vangelo narra dell’iniqua condanna alla croce dell’unico «giusto» per i cristiani.
La moratoria delle esecuzioni per il Giubileo è parte d’un disegno ambizioso del Papa: l’abolizione della pena di morte. Su questo la Chiesa dovrà dialogare anche con gli altri cristiani e le religioni. La posizione del Papa è però oggi di grande rilievo, quando vari governi pensano a reintrodurre la pena capitale, nella lotta al terrorismo e al narcotraffico. Francesco delegittima la pena di morte anche dal punto di vista dell’efficacia sociale: le società hanno altre possibilità «di reprimere il crimine». In Messico, il Papa ha incontrato un’escalation di violenza. Una società violenta non deve trascinare lo Stato ad altra violenza. La proposta del Giubileo della Misericordia è invece la realizzazione di un’inclusiva «salute sociale», che generi cultura, crei reti, prevenga il crimine e realizzi condizioni carcerarie mirate al recupero .

Corriere della Sera e il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2016 (m.p.r.)

Corriere della Sera
IL MONITO ALLE DEMOCRAZIE
CHE COSTRUISCONO I MURI

di Massimo Franco

Si sarebbe tentati di dire che il Papa ha scomunicato Trump. Non è così, naturalmente. Semmai, è stato il miliardario statunitense, uno dei candidati repubblicani alla Casa Bianca, a usare parole rozzamente provocatorie nei confronti di Bergoglio.

Dargli dell’agente del governo messicano perché difende i migranti significa non capire né voler capire il ruolo che il Pontefice si assegna. E farlo poche ore dopo che il Papa aveva visitato il muro di separazione tra Usa e Messico a Ciudad Juárez, città-simbolo di sfruttamento e femminicidi, ma anche di economie e di umanità che si incontrano, non poteva non avere effetto.

Ieri, nel volo di ritorno in Italia, Francesco ha replicato dicendo che Trump «non è cristiano» perché vuole costruire barriere e non ponti. Parole ruvide, in linea con la tempra argentina del pontefice. La campagna presidenziale negli Usa non c’entra nulla, però. Anche se il candidato ha già cominciato a sfruttare l’attacco a proprio favore. Sa che tra i conservatori Usa circola l’accusa di criptocomunismo verso un Papa latinoamericano che, in realtà, nella sua Argentina era accusato dai teologi della liberazione di essere antimarxista. E gli si attribuisce una vena «antiyankee», che qualcuno avrà intravisto nella storica riconciliazione tra Vaticano e Patriarcato ortodosso a Cuba.
Eppure, Francesco non ha abbracciato i vecchi regimi castristi del Sud America. Semmai, ha preso atto della loro capitolazione e della loro subalternità alla «pax bergogliana» che si diffonde in tutto il loro continente australe. Il suo giudizio sferzante è rivolto incidentalmente a Trump. In realtà, suona come monito all’Occidente americano e europeo nel loro complesso. La volontà del Papa è di ribadire la pericolosità di una cultura dei muri che denuncia la debolezza, non la forza delle grandi democrazie. Magari fa prendere qualche voto in più, ma sulle macerie della solidarietà. E distrugge le radici di una società sempre più bisognosa di meticciato.
L’insofferenza verso un atteggiamento così inclusivo non si registra soltanto nel candidato repubblicano. Trump è il capofila di un populismo in ascesa: una filiera culturale che ha epigoni in molti Paesi dell’Europa orientale, soprattutto; ma anche in Francia, Italia, Danimarca, Scandinavia. Ed esprime un risentimento e un odio verso lo «straniero» che nascono dalla paura e dall’insicurezza economica; che piegano o almeno ipotecano in senso xenofobo le priorità dei governi; e seminano veleni nelle stesse Chiese, alimentando la deriva verso un «cristianesimo etnico» che usa la religione per discriminare i migranti.
Senza analizzare questo sfondo, le parole papali sono condannate al fraintendimento, a sospetti di ingerenza abbastanza surreali. Rischia di far rumore anche il suo accenno poco bellicoso alle polemiche sulle unioni civili. Francesco ieri si è limitato a sostenere che «il Papa non si immischia nella politica italiana». Ha riferito di avere detto ai vescovi: «Arrangiatevi voi». Sul tema delle unioni omosessuali non ha glissato e nemmeno infierito: «Io penso quello che la Chiesa ha sempre detto». Le sue risposte confermano un atteggiamento che può dispiacere, eppure denota una forte coerenza. Bergoglio ha cambiato il punto d’osservazione della Chiesa cattolica, non la sua dottrina.
Ponendo l’accento su alcuni temi invece che su altri, spiazza in primo luogo l’episcopato e l’opinione pubblica occidentali: in particolare in un’Italia abituata per decenni a papi interventisti anche nelle vicende politiche. Oggi, almeno da parte del pontefice, questo non c’è più. L’attenzione si concentra su questioni sociali filtrate con lenti «sudiste» e sensibili alle ragioni degli esclusi. L’impressione è che per Francesco l’Occidente sia quasi da rieducare: una ricca terra di missione. E Trump diventa la metafora di un cristianesimo egoista e razzista che per il Papa rappresenta un ossimoro inaccettabile.

Corriere della Sera
IL PAPA: TRUMP NON È CRISTIANO

di Gian Guido Vecchi

Dal volo papale. Sono passate poche ore da quando Francesco, a Ciudad Juárez, ha salutato e benedetto i migranti oltre il Rio Grande e la rete metallica che divide Messico e Stati Uniti. Si torna a Roma, il Papa raggiunge in fondo all’aereo i giornalisti che lo hanno seguito fino al confine e per un’ora risponde a tutte le domande, anche le più scomode, come quando elogia il coraggio di Ratzinger nella lotta alla pedofilia con parole che fanno capire le resistenze che subì in Curia. Anzitutto, però, c’è il tema che ha segnato il viaggio.

Santità, a Ciudad Juárez ha parlato di immigrazione. Uno dei candidati alla Casa Bianca, Donald Trump, ha detto che lei è un uomo politico e forse una pedina del governo messicano. Dice di voler costruire 2.500 chilometri di muro e deportare 11 milioni di immigrati illegali. Cosa ne pensa di queste accuse? E un cattolico americano può votarlo?
«Grazie a Dio, ha detto che sono politico: Aristotele ha definito la persona umana come “animale politico”, almeno sono una persona umana! Pedina? Mah, forse, non so, lo lascio al giudizio della gente. E poi una persona che pensa soltanto a fare muri e non ponti, non è cristiana. Questo non è nel Vangelo. Quanto a votare o non votare, non m’immischio. Dico solo: quest’uomo non è cristiano, se dice così. Bisogna vedere se ha detto così, perciò do il beneficio del dubbio».
In Italia si discute di unioni civili. Qual è il suo pensiero, in particolare sulle adozioni?
«Prima di tutto, non so come stanno le cose nel Parlamento italiano. Il Papa non si immischia nella politica italiana. Nella prima riunione coi vescovi italiani, a maggio del 2013, una delle cose che ho detto è stata: col governo italiano arrangiatevi voi, perché il Papa è per tutti e non può mettersi nella politica interna di un Paese. Questo non è il ruolo del Papa. L’Italia non è il primo Paese che fa questo, sono tanti. Io penso ciò che la Chiesa ha sempre detto».
Un documento dell’Ex Sant’Uffizio del 2003 dice che i parlamentari cattolici non devono votare queste leggi. Ha ancora valore?
«Io non ricordo bene quel documento, ma un parlamentare cattolico deve votare secondo la propria coscienza ben formata. Direi solo questo, credo sia sufficiente. E dico “ben formata”, perché non è la coscienza del “quello che mi pare”. Quando a Buenos Aires è stato votato il matrimonio delle persone dello stesso sesso, e c’era il pareggio di voti, un parlamentare disse: “Preferisco dare il voto alla Kirchner e non a Bergoglio!”. Questa non è coscienza ben formata. Sulle persone dello stesso sesso, ripeto ciò che ho detto al ritorno da Rio de Janeiro e che è nel Catechismo della Chiesa Cattolica».
Il carteggio fra Giovanni Paolo II e la filosofa Anna Tymieniecka: un Papa può avere una relazione così intima con una donna?
«Di questo rapporto di amicizia si sapeva, i libri di lei sono conosciuti, lui era un uomo inquieto… A un uomo che non riesce ad avere un buon rapporto di amicizia con una donna, manca qualcosa. Un rapporto amoroso con una donna che non sia tua moglie è peccato. Un’amicizia con una donna non è peccato. Il Papa è un uomo, e ha bisogno anche del pensiero delle donne. Anche il Papa ha un cuore che può avere una amicizia sana e santa con una donna. Ci sono santi amici, come Francesco e Chiara… Ma le donne non sono ben considerate, non abbiamo capito il bene che una donna può fare alla vita di un prete e della Chiesa, nel senso di consiglio, aiuto, sana amicizia».
Per il virus Zika, alcune autorità hanno proposto alle donne di abortire o evitare la gravidanza. Per la Chiesa in questi casi c’è un male minore?
«L’aborto non è un male minore, è un crimine. È far fuori, come fa la mafia. Un male assoluto. Riguardo al “male minore”, evitare la gravidanza è un caso. Il grande Paolo VI, in una situazione difficile in Africa, ha permesso alle suore di usare contraccettivi per i casi di violenza. L’aborto non è un problema teologico ma umano, medico, un male in se stesso, si uccide contro il giuramento di Ippocrate. Invece evitare la gravidanza non è un male assoluto e in certi casi, come quello del beato Paolo VI, era chiaro. Io esorterei i medici a trovare vaccini, cure».
Sembra che l’unità europea vada in pezzi, la crisi, i rifugiati…
«Non so chi la approvi o no, ma ho sentito una parola che mi è piaciuta: la “rifondazione” dell’Europa. E ho pensato ai grandi padri. Oggi dov’è uno Schumann? Un Adenauer? I grandi che nel dopoguerra hanno fondato l’Ue? Mi piace questa idea della rifondazione, magari si potesse fare. Perché l’Europa ha una forza, una cultura, una storia che non si può sprecare».
In Messico il caso di padre Maciel (fondatore pedofilo dei Legionari di Cristo) ha lasciato eredità pesanti. Le vittime della pedofilia non si sentono protette, si cambia di parrocchia i sacerdoti coinvolti. Che ne pensa?
«Un vescovo che per questo cambia di parrocchia un prete è un incosciente e la cosa migliore che possa fare è dimettersi, presentare la rinuncia. Nel caso Maciel, bisogna rendere omaggio a chi si è opposto a tutto questo, il cardinale Joseph Ratzinger - un applauso per lui! - che ha raccolto la documentazione sul caso e come cardinale prefetto (dell’ex Sant’Uffizio, ndr ) ha fatto le indagini, ed è andato avanti ma non ha potuto andare oltre nell’esecuzione. Però dieci giorni prima della morte di San Giovanni Paolo II, durante la Via Crucis, Ratzinger disse che bisognava pulire la sporcizia della Chiesa. E lo stesso nella messa Pro eligendo Pontifice: non è uno sciocco, sapeva di essere un candidato, ma non gli importò di mascherare la sua posizione. È stato l’uomo coraggioso che ha aiutato tanti ad aprire la porta. Rendo grazie a Dio perché questa pentola è stata scoperchiata, bisogna continuare. Gli abusi sono una mostruosità, perché un sacerdote è consacrato per portare un bimbo a Dio e invece se lo mangia in un sacrificio diabolico, lo distrugge».

Come può la Chiesa perdonare più facilmente un assassino di chi divorzia e si risposa?

«Mi piace la domanda! Nel documento post-sinodale, che uscirà forse prima di Pasqua, si riprende ciò che il Sinodo ha detto sulle famiglie ferite. La parola chiave che riprenderò è “integrare” nella vita delle Chiesa le famiglie ferite».
Potranno fare la comunione?
«Questa è l’ultima cosa. È un lavoro di integrazione, tutte le porte sono aperte, ma non si può dire “d’ora in poi possono fare la comunione”. Sarebbe una ferita anche ai coniugi, perché non fa compiere loro quella strada di integrazione. Se c’è qualcosa di più, il Signore lo dirà loro, ma è un cammino, una strada».
Il Patriarca Kirill l’ha invitata a Mosca?
«Ciò che abbiamo detto in pubblico è quello che si può dire del colloquio privato. Ma posso dirle che io ne sono uscito felice, e anche lui».
Incontrerà il «papa sunnita» di Al Azhar?
«Io voglio e so che a lui piacerebbe, stiamo cercando il modo. Quella è la strada, ce la faremo».
Quali viaggi sogna?
«La Cina. Mi piacerebbe tanto andare là!».

Ha pregato a lungo davanti alla Madonna di Guadalupe, che cosa le ha chiesto?

«Ho pregato per la pace, per tante cose... La poverina ha finito con una testa così! Ho chiesto perdono, che la Chiesa cresca sana, ho pregato per il popolo messicano... Ma poi, le cose che un figlio dice alla mamma sono segrete».

Il Sole 24 Ore
«UNIONI CIVILI? NON MI IMMISCHIO. SE TRUMP ALZA MURI NON è CRISTIANO»
di Carlo Marroni

Sul volo Ciudad Juarez.Roma. Il volo da Ciudad Juarez a Roma chiude il viaggio in Messico. Ma Francesco, nella conferenza stampa che tiene al termine di ogni missione, apre altri “fronti”, come il giudizio sulle posizioni espresse dal magnate Usa e candidato repubblicano Donald Trump («fare muri non è cristiano»). E, sulle vicende italiane, chiarisce qual è la sua posizione sulle unioni civili: «Non mi immischio, si voti secondo coscienza».

Parla più di un’ora il Pontefice al termine di una settimana tra Cuba e Messico destinata a lasciare una traccia profonda.Cosa pensa delle regolamentazione delle unioni civili e del capitolo più controverso delle adozioni? «Prima di tutto io non so come stanno le cose nel Parlamento italiano, il Papa non s’immischia nella politica italiana. - dice Bergoglio - Nella prima riunione che ho avuto con i vescovi nel maggio 2013 ho detto loro: con il Governo italiano arrangiatevi voi. Il Papa non si mette nella politica concreta di un Paese. L’Italia non è il primo paese che fa questa esperienza. Quanto al mio pensiero, io penso quello che la Chiesa sempre ha detto su questo tema». E la Chiesa ha sempre detto che il matrimonio è tra un uomo e una donna, anche se da tempo si è aperto un dibattitto sul riconoscimento progressivo dei diritti per altre forme di unione.

Ma la questione è complessa, e già nel 2003 un documento della Congregazione per la dottrina della Fede disse che di fronte a scelte come questa i parlamentari cattolici devono votare contro. «Non ricordo bene quel documento – risponde il Papa - ma un parlamentare cattolico deve votare secondo la propria coscienza ben formata, questo direi, soltanto questo, è sufficiente, e parlo di coscienza ben formata, cioè non quello che mi sembra o che mi pare». Papa Francesco ricorda una storia argentina quando fu votato il matrimonio fra persone dello stesso sesso: «I voti erano pari allora un parlamentare ha consigliato all'altro: “Tu ci vedi chiaro?”. “No”. “Neanch'io, pero così perdiamo. Se non andiamo a votare non si raggiunge il quorum, ma se raggiungiamo il quorum diamo i voto a Kirchner (l’ex presidenta della Repubblica, ndr). Preferisco darlo a Kirchner e non a Bergoglio, e andiamo!”. Questa non è una coscienza ben formata».
Poi il capitolo Trump, che in un’intervista ha detto che il Papa è un politico, peggio, una «pedina» del governo messicano per le politiche migratorie, e ha aggiunto di voler costruire un muro di 2.500 chilometri e voler deportare 11 milioni di illegali. Un cattolico americano - è stato chiesto – può votarlo? «Grazie a Dio ha detto che io sono politico, perché Aristotele definisce la persona umana come “animale politico”, e questo significa che almeno io sono una persona umana. Io una pedina? Mah, lo lascio al vostro giudizio e al giudizio della gente. Una persona che pensa solo a fare muri e non ponti, non è cristiana. Questo non è nel Vangelo. Votarlo o non votarlo? Non mi immischio, soltanto dico che quest'uomo non è cristiano, se ha parlato così».
Le parole del Papa, trasmesse poco dopo l’atterraggio, sono arrivate subito a Trump, che ha replicato: «Per un leader religioso mettere in dubbio la fede di una persona è vergognoso. Io sono orgoglioso di essere cristiano e come presidente non permetterò alla cristianità di essere continuamente attaccata e indebolita, proprio come sta avvenendo adesso, con l'attuale presidente» americano. E ancora: «Stanno usando il Papa come una pedina, e dovrebbero vergognarsi di farlo. Tutti sanno che l’obiettivo ultimo dell’Isis è attaccare il Vaticano. E il Papa dovrebbe pregare che Donald Trump diventi presidente, perché così questo non accadrà».
Ma la conferenza stampa di ieri ha nei fatti aperto altri “varchi”, quantomeno di riflessione. Come sull’aborto: alla domanda se per evitare gli effetti del virus Zika si possa ricorrere ad aborto o contraccezione per le donne in gravidanza, il Papa ha detto che l’aborto è un «crimine, è fare quello che fa la mafia» ma «evitare la gravidanza non è un male assoluto in certi casi». Ricorda come Paolo VI in una situazione difficile in Africa, ha permesso alle suore di usare gli anticoncezionali per i casi di violenza. «Non si deve confondere il male di evitare la gravidanza con l'aborto».
Molti altri gli argomenti toccati, dalla Cina («Sogno di andarci») al rapporto con gli ortodossi, dal Messico alle lettere di Giovanni Paolo II a una sua amica filosofa («un'amicizia non è peccato»). E poi torna sulla piaga della pedofilia nella Chiesa e al caso di Macial Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo che commise abusi. «Innanzitutto, un vescovo che cambia di parrocchia un prete che ha commesso abusi sui minori è un incosciente, è meglio che rinunci. Chiaro!» dice con forza e aggiunge: «Nel caso Maciel bisogna fare un omaggio a colui che si è opposto a tutto questo, il cardinale Ratzinger, un uomo che ha presentato tutta la documentazione sul caso Maciel e come Prefetto ha fatto l’indagine, ha raccolto tutta la documentazione e poi non ha potuto andare oltre nella sua messa in pratica».

La Repubblica, 18 febbraio 2016

La benedizione del Papa nel punto esatto dove passa la frontiera tra Stati Uniti e Messico. Le sue dita che, sotto una croce di legno piazzata lungo il Rio Bravo, si tendono a salutare i 50 mila accalcati al confine americano, uniti ai 200 mila nella parte messicana. Un gesto che genera grande emozione. La gente piange, agita i fazzoletti, in aria volteggiano nel più totale silenzio due elicotteri di parti diverse, quasi uno di fronte all’altro. «Nessuna frontiera potrà impedire di unirci. Grazie, fratelli e sorelle, per sentirci una sola famiglia e una stessa comunità cristiana».

È una messa per tutti. Al di qua e al di là del confine. In una terra immersa nella violenza delle bande di narcotrafficanti. Di qua Ciudad Juarez, oggi una delle città più sanguinose al mondo. Di là El Paso, la mèta agognata. In mezzo, un reticolato. E i migliaia che tentano di fuggire ogni giorno. La celebrazione di Francesco è la prima di un Pontefice a cavallo fra due Paesi, con l’altare posto ad appena 80 metri dalla linea di demarcazione.

È questa l’ultima immagine di Francesco in questi suoi sei giorni di viaggio in Messico. Lungo la rete di metallo che separa lo Stato del Texas da quello del Chihuahua, il Pontefice argentino ha per tutti parole di conforto: «Qui a Ciudad Juárez si concentrano migliaia di migranti dell’America Centrale. Un cammino carico di terribili ingiustizie: schiavizzati, sequestrati, molti nostri fratelli sono oggetto di commercio».

«Non possiamo negare la crisi umanitaria — dice Bergoglio — negli ultimi anni ha significato la migrazione di migliaia di persone, in treno, in autostrada, anche a piedi attraversando centinaia di chilometri per montagne, deserti, strade inospitali. Questa tragedia umana che la migrazione forzata rappresenta, è un fenomeno globale. Questa crisi, che si può misurare in cifre, noi vogliamo misurarla con nomi, storie, famiglie. Sono fratelli e sorelle che partono spinti dalla povertà e dalla violenza, dal narcotraffico e dal crimine organizzato. Ingiustizia che si radicalizza nei giovani: loro, come carne da macello, sono perseguitati e minacciati quando tentano di uscire dalla spirale della violenza e dall’inferno delle droghe ». Solo un’ora prima, in un incontro con il mondo del lavoro, aveva detto basta allo sfruttamento: «Dio chiederà conto agli schiavisti dei nostri giorni».

Le statistiche dicono che oggi Ciudad Juarez è più violenta di Caracas. Sede di 950 pandillas, le bande armate che infestano il Messico, è tristemente famosa per le migliaia di donne scomparse, prelevate soprattutto dalle fabbriche clandestine. I racconti di questa gente parlano di ponti sulle strade dove pendono cadaveri impiccati, corpi infilzati, teste mozzate.

E allora Francesco va a incontrare i detenuti nel carcere Cereso 3, istituto con 3.600 prigionieri. Qui scontano la pena sicari, membri delle gang, assassini. In 30, distintisi per buona condotta, lo salutano e gli stringono la mano. Il Papa compare dietro il filo spinato. «Non rimanete prigionieri del passato. Alzate la testa e lavorate per la vostra libertà. Chi sperimenta l’inferno può essere profeta nella società. Non parlo dalla cattedra, ma dall’esperienza dei miei peccati».

E nemmeno in viaggio la diplomazia di Francesco si ferma. Una delegazione vaticana, in visita all’università islamica al-Azhar del Cairo, riapre i canali dopo i rapporti difficili degli anni scorsi. Ora il Papa è disposto a ricevere il Grande Imam egiziano.

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Il manifesto, 18 febbraio 2016

La strada da San Diego a El Paso costeggia 1.200 km di frontiera fra Messico e Stati uniti, e non sono neanche la metà per completare il tragitto a Brownsville, sul Golfo del Messico. Il più lungo confine di terra fra mondo sviluppato e «terzo mondo» è la linea arbitraria che taglia una regione meticcia: duecento anni di colonizzazione spagnola e duecento di dominio americano, con una costante, la pulizia etnica dei popoli indigeni, uno sterminio che è l’atto fondativo di una terra di frontiera permanente e ne plasma tuttora il retaggio violento.

Nessun luogo su questo confine crudele ne è forse un simbolo quanto la città divisa di El Paso/Ciudad Juarez un agglomerato binazionale di quasi 4 milioni di abitanti tagliata a metà dalla frontiera internazionale. Da El Paso l’originale governatore spagnolo Don Juan De Oñate lanciò la spedizione che avrebbe finito per massacrare gli indiani Pueblo (per sedare una rivolta ad ogni maschio adulto venne tagliato il piede sinistro). Il presente di Ciudad Juarez esprime violenze altrettanto efferate nella sanguinosa narco-guerra che ne fece la «capitale mondiale degli omicidi».

Questo luogo è stato il terminale del viaggio pastorale più simbolico ad oggi di Papa Francesco. La violenza più didascalica della frontiera — e cioè di tutte quelle che disegnano le ingiuste divisioni del pianeta — è contenuta nell’abisso fra i due lati contigui, la quasi allegorica differenza fra ricchezza texana e miseria messicana. Su questa soglia che unisce e divide due mondi, è venuto ad inginocchiarsi il papa scegliendo di farlo nel momento in cui sul lato settentrionale, ricco e potente, è in corso una elezione che amplifica le contraddizioni espresse da questa frontiera.

I latinos, su entrambi i lati del confine, sono ancora una volta al centro della retorica politica grazie alle invettive di Donald Trump ma anche quelle di Ted Cruz e Marco Rubio, che pur di origine cubana fanno a gara per superarsi come paladini anti-immigrazione. Nell’etere sotto il cielo impossibilmente stellato del deserto il fiele corre sulle onde medie, quelle delle radio conservatrici che vomitano la propria rabbia contro «quelli che vengono a rubarci il paese» e contro il presidente «traditore musulmano e comunista» che li accoglie . È la paura viscerale che gonfia i sondaggi di Trump esacerbata in questi giorni dalla morte di un santo protettore dell’«America di una volta», Antonin Scalia, àncora reazionaria della corte suprema.

Con Scalia viene meno il controllo conservatore della Corte suprema, cruciale per smontare la «legacy» di Obama . Nel panico, la destra annuncia il boicottaggio di una nomina di un nuovo giudice da parte del presidente. Ma l’ostruzionismo a priori obbliga i repubblicani a scoprirsi e il costo politico per i candidati potrebbe essere molto alto, in particolare proprio fra gli ispanici. Fra le pratiche al vaglio della corte suprema infatti c’è anche il progetto di amnistia parziale agli immigrati e richiedenti asilo. Il «filibuster» ad oltranza dei repubblicani del congresso si tradurrebbe quindi, in un anno elettorale, in affronto potenzialmente suicida al 17% della popolazione.

Obama martedì ha denunciato il boicottaggio repubblicano come sabotaggio della stessa democrazia. «È la misura del rancore che rende impossibile governare» ha dichiarato. Intanto i latinos del Sudovest potrebbero essere determinanti anche in campo democratico nelle primarie contese fra Hillary e Bernie Sanders. Sabato prossimo si voterà in Nevada dove gli ispanici sono un quarto della popolazione e costituiscono in particolare una alta percentuale nei sindacati, tradizionali sostenitori clintoniani.

La presenza di Franscesco sulla soglia simbolica di un occidente sempre più chiuso contro i diversi è stata dunque la più significativa del suo papato. Non a caso Donald Trump da giorni la denuncia come un ingerenza negli «affari interni» della sua campagna xenofoba. Di sicuro si è trattato di un atto profondamente politico, giunto al termine di un pellergrinaggio simbolico che ha ripercorso in Messico i passi dei migranti dalle alture indigene del Chiapas attraverso lo stato Purepecha del Michoacan, le favelas di Città del Messico fino al Rio Grande dove, 400 anni dopo che i frati francescani benedissero il genocidio, Bergoglio ha tenuto a benedire un gruppo di immigrati attraverso quel reticolato che vuole dividere fisicamente ricchi e diseredati.

L’abbattimento simbolico di uno di quei confini che il papa ha chiaramente definito monumenti all’esclusione.

La Repubblica, 10 febbraio 2016

DIPLOMAZIA della misericordia. Un filo rosso unisce le aperture di Francesco alla Cina all’incontro con il patriarca Kyril, l’ennesimo appello perché si continui a negoziare in Siria alla celebrazione a Ciudad Juarez, al confine con gli Stati Uniti, che concluderà la sua visita in Messico. Questo papa ha un robusto pensiero geopolitico, come ha intuito fin dall’inizio Lucio Caracciolo. Ora, però, c’è una novità. Francesco non fa solo — per così dire — incontri storici o gesti memorabili: a cominciare dal discorso al corpo diplomatico, non perde occasione per esporre anche il suo pensiero sui rapporti internazionali. È una sorta di nuova “dottrina diplomatica” quella che propone al mondo intero e, in particolare, all’Occidente.

In un lungo articolo su “La diplomazia di Francesco” pubblicato su La Civiltà cattolica, il suo direttore, Antonio Spadaro, ha chiarito le radici religiose e teologiche di questo pensiero, che ruota in gran parte intorno al termine frontiere. «Non muri ma ponti», non si stanca di ripetere con parole che rischiano di apparire retoriche mentre i muri resistono o tornano in tante parti del mondo. Nei discorsi di Francesco, però, l’idea del ponte trova nuova credibilità. Questo papa sembra infatti aver capito il vero peso della parola frontiere — che i ponti devono attraversare — nel mondo globalizzato. Diversamente da quanto abbiamo creduto davanti al primo irrompere della globalizzazione, frontiere e confini continuano a resistere, mentre mantengono un peso rilevante anche i territori che essi definiscono. Non è la stessa cosa, infatti, essere nati da una parte o dall’altra del filo spinato che separa il Messico dagli Stati Uniti. Oggi, però, le frontiere non servono solo per trattenere i sudditi sotto il potere del re ma anche per evitare l’ingresso di nuovi cittadini, sono costruite sempre meno per tenere dentro e sempre più per chiudere fuori. In questo senso i grandi flussi migratori costituiscono oggi una chiave illuminante per capire la direzione della storia. Paradossalmente, però, a blindare le frontiere concorre spesso anche chi forte non è ma ha paura della propria debolezza, convinto in questo modo di difendere la propria identità come avviene, in modi diversi, in Europa orientale e occidentale. Sono l’etnicismo e il nazionalismo le ideologie dei perdenti nel XXI secolo.

Ai leader occidentali, Francesco ricorda gli errori compiuti cercando di estendere con la guerra le proprie frontiere — in chiave coloniale o per “esportare la democrazia” — e mostra loro come si può rispettare frontiere degli altri, attraversandole non per dominare ma per aiutare, non per escludere ma per includere. La logica della guerra fredda tanto radicata in Occidente — ieri contro i comunisti, oggi contro la Russia, l’Islam o la Cina — non è adatta al mondo multipolare. Non è chiaro come evolverà il rapporto tra cattolici e ortodossi dopo l’incontro di Cuba, ma se Kyril si è affrettato ad incontrare Francesco è perché nel prossimo luglio è previsto a Creta il primo Concilio pan-ortodosso e il papa costituisce oggi una sponda sicura per tutte le principali Chiese ortodosse. Il futuro del Medio Oriente è oscuro, ma intanto respingere la logica di chi vuole accogliere in Europa solo i cristiani significa costruire un ponte verso i musulmani. Non sappiamo come si svilupperanno i rapporti tra Santa Sede e Cina, ma le recenti parole del papa “suonano bene” nelle orecchie di milioni di cinesi, come ha scritto il quotidiano ufficioso di Pechino “Global times”.

Francesco può contare su collaboratori di grande spessore, come il cardinale Parolin. Ma anche tra i cattolici non mancano avversari della sua geopolitica: sono tra quanti vorrebbero difendere le proprie frontiere con tutti i mezzi. I maggiori oppositori della mano tesa alla Cina stanno ad Hong Kong, una città che si sente parte dell’Occidente — anche se si parla cantonese — e che vede ogni giorno aumentare il controllo di Pechino. Tra i più contrari all’incontro con Kyril, dietro cui vedono l’ombra di Putin, sono i cattolici dell’Ucraina e dei paesi dell’Europa orientale, gli stessi che denunciano l’“invasione musulmana” dell’Europa. L’ episcopato statunitense è complessivamente freddo verso questo papa che viene dal Sud del mondo. Tali opposizioni ad un papa estraneo a ideologie identitarie o a logiche etnico-religiose mostrano che, anche all’interno della grande internazionale costituita dalla Chiesa cattolica — così l’ha definita Andrea Riccardi — molti sono rimasti ai tempi in cui potere e territorio coincidevano, senza aver capito che la generosità dell’apertura coincide con l’arma dell’influenza, una delle più efficaci nel mondo contemporaneo. Finito questo pontificato, tramonteranno anche questa iniziativa e questo pensiero? Cambiamenti sono sempre possibili, ma i processi avviati sembrano davvero profondi.

La Repubblica, 23 gennaio 2016


Contrariamente a molte altre volte, il Papa non ha sorpreso nessuno con il discorso di ieri al Tribunale della Rota Romana, un testo del tutto secondo copione, il medesimo che non solo Benedetto XVI e Giovanni Paolo II ma anche tutti gli altri 263 Papi avrebbero potuto tenere.
Francesco ha detto che «non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione », perché la famiglia tradizionale (cioè quella «fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo ») appartiene «al sogno di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità». Vi è quindi un modello canonico di famiglia, rispetto al quale tutte le altre forme di unione affettiva e permanente sono livelli più o meno intensi di quanto il Papa ha definito «uno stato oggettivo di errore». È per questo che solo la famiglia della dottrina ecclesiastica merita il nome di famiglia, mentre a tutte le altre spetta il termine meno intenso di «unione».

Ma è proprio vero che la famiglia della dottrina ecclesiastica corrisponde al disegno di Dio? Oppure è anch’essa una determinata espressione sociale, nata in un certo momento della storia e quindi in un altro momento destinata a tramontare, come sta avvenendo proprio ai nostri giorni all’interno delle società occidentali? Penso che il referendum della cattolicissima Irlanda con cui è stata mutata la costituzione per permettere a persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio sia una lezione imprescindibile per il cattolicesimo, della quale però a Roma ancora si fatica a prendere atto.

In realtà che la famiglia evolva e cambi lo mostra già il linguaggio. Il termine “famiglia” deriva dal latino familia e sembra quindi dotato di una stabilità più che millenaria, ma se si consulta il dizionario si vede che il termine latino, ben lungi dall’essere ristretto al modello di famiglia della dottrina cattolica, esprime una gamma di significati ben più ampia: «Complesso degli schiavi, servitù; truppa, masnada; compagnia di comici; l’intera casa che comprende membri liberi e schiavi; stirpe, schiatta, gente». Lo stesso vale per il greco del Nuovo Testamento, la lingua della rivelazione divina per il cristianesimo, che conosce un significato del tutto simile al latino in quanto usa al riguardo il termine oikia, che significa in primo luogo “casa” (da qui deriva anche il termine “parrocchia”, formato da oikia + la preposizione parà che significa “presso”). Anche nell’ebraico biblico casa e famiglia sono sinonimi, dire “casa di Davide” è lo stesso di “famiglia di Davide”: si rimanda cioè al casato, comprendendo mogli, figli, schiavi, concubine, beni mobili e immobili.

Quindi le lingue della rivelazione di Dio non conoscono il termine famiglia nel senso usato dalla dottrina cattolica tradizionale e ribadito ieri dal Papa. Non è un po’ strano? La stranezza aumenta se si apre la Bibbia.

È vero che in essa si legge che «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno un’unica carne» (Genesi 2,24), ma se si analizzano le esistenze concrete degli uomini scelti da Dio quali veicoli della sua rivelazione si vede uno scenario molto diverso con altre forme di famiglia: Abramo ebbe 3 mogli (Sara, Agar e Keturà), Giacobbe 2, Esaù 3, Davide 8, Salomone 700.

A parte Salomone, che in effetti eccedette, non c’è una sola parola di biasimo della Bibbia a loro riguardo. Che dire? La parola di Dio è contro il disegno di Dio? Oppure si tratta di testi che vanno interpretati storicamente? Ma se vanno interpretati storicamente i testi biblici, come non affermare che va interpretato storicamente anche il modello di famiglia della dottrina ecclesiastica?

Ciò dovrebbe indurre, a mio avviso, a evitare affermazioni quali «stato oggettivo di errore». La vita quotidiana nella sua concretezza insegna che vi sono unioni ben poco tradizionali di esseri umani nelle quali l’armonia, il rispetto, l’amore sono visibili da tutti, e viceversa unioni con tanto di sacramento cattolico nelle quali la vita è un inferno. Siamo quindi davvero sicuri che la dottrina cattolica tradizionale sulla famiglia sia coerente con l’affermazione tanto cara a papa Francesco secondo cui «il nome di Dio è misericordia»?

Io ovviamente mi posso sbagliare, ma mi sento di poter affermare che Dio non pensa la famiglia, meno che mai quella del Codice di diritto canonico. Pensa piuttosto la relazione armoniosa alla quale chiama tutti gli esseri umani, perché il senso dello stare al mondo è esattamente la relazione armoniosa, che si esplicita in diversi modi e che trova il suo compimento nell’amore. Ogni singolo è chiamato all’amore: questo è il senso della vita umana secondo il nucleo della rivelazione cristiana. Sicché nessuno deve poter essere escluso dalla possibilità di un amore pieno, totale, anche pubblicamente riconosciuto. Ed è precisamente per questo che ci si sposa: perché il proprio amore, da fatto semplicemente privato, acquisti una dimensione pubblica, politica, in quanto riconosciuto dalla polis. Questo amore è definibile come integrale, in quanto integra la dimensione soggettiva con la dimensione pubblica e oggettiva dell’esistenza umana.

La nascita di alcuni esseri umani con un’inestirpabile inclinazione sessuale verso persone del proprio sesso è un fatto, non piccolo peraltro: essi devono strutturalmente rimanere esclusi dalla possibilità dell’amore integrale? In realtà l’aspirazione all’amore integrale deve essere riconosciuto come diritto inalienabile di ogni essere umano acquisito alla nascita. L’amore integrale è un diritto nativo, primigenio, radicale, riguarda cioè la radice stessa dell’essere umano, e nessuno ne può essere privato. Spesso nel passato non pochi lo sono stati, e ancora oggi in molte parti del mondo non di rado continuano a esserlo.

Oggi però il tempo è compiuto per sostenere nel modo più esplicito che tutti hanno il diritto di realizzarsi nell’amore integrale, eteroaffettivi e omoaffettivi senza distinzione. La maturità di una società si misura sulla possibilità data a ciascun cittadino di realizzare il diritto nativo all’amore integrale, ma io credo che anche la maturità della comunità cristiana si misuri sulla capacità di accoglienza di tutti i figli di Dio così come sono venuti al mondo, nessuno escluso.
Che cosa vuol dire che «il nome di Dio è misericordia» per chi nasce omosessuale? È abbastanza facile dire che Dio è misericordia quando ci si trova al cospetto di casi elaborati da secoli di esperienza. Più difficile quando ci si trova al cospetto della richiesta di riconoscimento della piena dignità da parte di chi per secoli ha dovuto reprimere la propria identità. Qui la misericordia la si può esercitare solo modificando la propria visione del mondo, ovvero infrangendo il tabù della dottrina. Ma è qui che si misura la verità evangelica, qui si vede se vale di più il sabato o l’uomo. Qui papa Francesco si gioca buona parte del valore profetico del suo pontificato.

La Repubblica, 20 gennaio 2016

Nelle settimane passate è apparso in Italia un testo di Papa Bergoglio, che a me sembra di grande importanza. Si tratta dell’intervento da lui pronunciato a un Congresso internazionale di teologia (da lui stesso voluto e preparato), svoltosi a San Miguel in Argentina dal 2 al 6 settembre 1985, sul tema “Evangelizzazione della cultura e inculturazione del Vangelo”.

L’intervento, nella forma pubblicata da Civiltà cattolica, porta il titolo “Fede in Cristo e Umanesimo”. Ritengo però che il suo vero tema sia più esemplarmente testimoniato da quello del convegno.

Andrò per accenni, limitandomi a segnalare quello che, dal mio punto di vista, spicca per novità e intelligenza del discorso. In effetti, trovo, per cominciare dagli inizi, che ipotizzare questa doppia missione – che è anche un doppio movimento di andata e ritorno per ognuno dei due elementi che lo compongono, e cioè: “evangelizzazione della cultura” e “inculturazione del Vangelo”– significa offrire una visione nuova dei rapporti tra la “fede cristiana” e “il mondo”.

Bergoglio, infatti, non dice: “questa” o “quella cultura”. Dice: “cultura”. A chiarimento della tesi scrive: «Stiamo rivendicando all’incontro tra fede e cultura, nel suo duplice aspetto di evangelizzazione della cultura e di inculturazione del Vangelo, “un momento sapienziale”, essenzialmente mediatore, che è garanzia sia dell’origine (movimento di creazione) sia della sua pienezza e fine (movimento di rivelazione)». «Un momento sapienziale, essenzialmente mediatore…»: se la traduzione dallo spagnolo in italiano non ha deformato qualche senso, questo vuol dire che tra “fede” e “cultura” si può stabilire un confronto, i cui momenti di reciprocità sono destinati a influenzare sia l’una sia l’altra parte, producendo, attraverso la “mediazione”, un accrescimento di sapere e di conoscenza per tutti.

Bergoglio chiama in causa una parola-concetto tipicamente laica o quanto meno mondana: “mediatore”, mediazione. Tale impressione però si accentua, in misura significativa, nella lettura di un brano seguente, che qui riporto per intero, perché lo trovo denso di parole-concetti sorprendenti: «La base di questo sforzo è sapere che nel compito di evangelizzare le culture e di inculturare il Vangelo è necessaria una santità che non teme il conflitto ed è capace di costanza e pazienza. Innanzi tutto, la santità implica che non si abbia paura del conflitto: implica parresia, come dice San Paolo. Affrontare il conflitto non per restarvi impigliati, ma per superarlo senza eluderlo. E questo coraggio ha un enorme nemico: la paura. Paura che, nei confronti degli estremismi di un segno o di un altro, può condurci al peggiore estremismo che si possa toccare: l’“estremismo di centro”».

In questo caso, la parola-concetto centrale è: “conflitto”. Si deve ammettere che siamo di fronte a una acquisizione inedita nel campo della cultura cristiano-cattolica. Il termine infatti ricorre nel pensiero e nelle problematiche del pensiero dialettico e sociologico europeo e americano degli ultimi due secoli: da Hegel a Marx, e poi Simmel, von Wiese, Dahrendorf… Nessun equivalente, almeno della stessa portata, nel pensiero cristiano-cattolico dello stesso periodo, e si capisce perché: la predicazione evangelica sembrerebbe escludere una virata di tale natura.

Ma la sorpresa è destinata persino ad aumentare se si procede nell’analisi del ragionamento. «Affrontare il conflitto », scrive Bergoglio, «per superarlo », ma «senza eluderlo»; si misura con «un enorme nemico: la paura». Paura di che? Paura dei possibili estremismi, che dal conflitto possono scaturire. Ma tale paura, se incontrollata, è destinata a condurre «al peggiore estremismo che si possa toccare: l’“estremismo di centro”, che vanifica qualsiasi messaggio». L’“estremismo di centro”! In un paese come l’Italia, spesso arrivato a catastrofiche conclusioni proprio a causa di un sistematico e prevaricante “estremismo di centro”, tale messaggio dovrebbe risultare più comprensibile che altrove. Anche il riferimento alla parresia s’inserisce in questo contesto: solo chi parla alto e libero può vincere la paura.

Quali considerazioni si possono fare su posizioni, di questa natura? Su Bergoglio sono stati scritti molti articoli (bellissimi quelli di Eugenio Scalfari). Pochi, però, si sono soffermati sulla scaturigine storica delle sue prese di posizione, che è inequivocabilmente gesuitica. I gesuiti, nel corso della loro lunga storia, ne hanno combinate di tutti i colori, nella difesa perinde ac cadaver della Chiesa di Roma. E però… Molti anni or sono ho studiato a lungo la cultura gesuitica del Seicento in Italia. Mi risultò chiaro allora che carattere perspicuo della cultura gesuitica, nei momenti migliori, è sempre stato il tentativo «di operare la saldatura fra cultura laica e cultura ecclesiastica, fra tradizione e rinnovamento… »; e questo su base mondiale.

Se le cose stanno così, la domanda (provvisoriamente) finale di questa ricostruzione è: quale rapporto esiste fra la centralità della parola-concetto “conflitto” e la centralità della parola-concetto “misericordia”, alla quale Papa Francesco ha voluto dedicare il Giubileo?

La risposta più semplice è: nessuno. “Misericordia” è parola evangelica, pochissimo usata in ambito laico, come pochissimo “conflitto” in ambito ecclesiale. Sono passati trent’anni dalla prima formulazione, padre Jorge Mario Bergoglio, divenuto Papa Francesco, ha ripensato radicalmente le sue posizioni, rientrando nell’ambito più tradizionale della cultura ecclesiastica.

Come tutte le soluzioni troppo semplici, anche questa però si presta a un’obiezione di fondo. Una noticina al testo pubblicato da Civiltà cattolica informa infatti che il testo è stato ripresentato «in forma rivista dal Santo Padre ». Questo ci rende lecito pensare che nel pensiero di Papa Francesco “conflitto” e “misericordia” possano stare insieme. Cioè: il prodotto di una cultura laica può stare insieme con il prodotto tipico di una cultura evangelico- cristiana.

Non può esserci “misericordia” se non c’è stato “conflitto”; il “conflitto” è buono, anzi, addirittura indispensabile, se è necessario per superare la paura, e superare la paura è necessario per arrivare alla “misericordia”. Sarebbe troppo pretendere che Bergoglio, divenuto Pontefice, dopo averci additato come il conflitto sia necessario per attivare la misericordia, ci additi come la misericordia sia necessaria per attivare il conflitto, motivo quest’ultimo inesauribile – e positivo, quando c’è – delle azioni umane. Però la connessione possibile – il prima e il dopo, insomma, che però è anche o può essere anche, un dopo e un prima – almeno a noi laici e non credenti, risulta – credo – ben chiara.

Il manifesto, 23 dicembre 2015 (m.p.r.)

Ogni parola pronunciata da Papa Francesco viene - giustamente, molto giustamente a mio parere - riportata con grande attenzione e ampio spazio. E viene spesso condivisa e approfondita. Ma anche questa regola prevede una eccezione e accade così che una parola del pontefice - quella parola - sia inesorabilmente censurata. E la parola è: amnistia. L'attuale papa la pronunciò una prima volta lo scorso settembre: «Il Giubileo ha sempre costituito l'opportunità di una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell'ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contributo onesto».

Chiaro, no? Eppure si verificò un fatto singolare e istruttivo. Monsignor Rino Fisichella che, in qualità di presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, era il destinatario del documento, si affrettò manzonianamente a «sopire, troncare». Fisichella, da decenni definito «cappellano di Montecitorio» e aduso a comportarsi come tale, affermò che in quella lettera non c'era «alcuna intenzione di rivolgersi al governo e agli Stati». E così, «il monsignore più chic che c'è» (appellativo che un suo autorevole collega mi sussurrò un giorno all'orecchio) sostenne in sostanza che si era scherzato. Si potrebbe dire, uno scherzo da prete destinato a dare la baia a Giorgio Napolitano e ai radicali, al manifesto e a chi scrive, a numerosi e autorevoli giuristi e, soprattutto, a decine di migliaia di detenuti. Secondo Fisichella, insomma quella parola - amnistia - non andava presa alla lettera, non andava intesa in senso strettamente giuridico e non era indirizzata alle autorità politiche italiane e a quelle di altri paesi.
La cosa venne così tanto apprezzata dalla classe politica, si fa per dire, laica, che la parola impronunciabile ritornò immediatamente nell'oblio. Ma ecco che il 16 dicembre, implacabile, il Pontefice riprende l'argomento e le sue parole non consentono più dubbi: «Desidero rinnovare l’appello alle autorità statali (attenzione: rinnovare, nda) per l’abolizione della pena di morte, là dove essa è ancora in vigore, e a considerare la possibilità di un’amnistia». E tuttavia anche questo secondo e vigoroso richiamo rimane assolutamente inascoltato: al punto che non si apre nemmeno uno straccio di discussione pubblica. Eppure - è proprio il caso di dire - dio solo sa quanto un'amnistia sia oggi indispensabile e indifferibile, tenuto conto che le positive misure adottate dagli ultimi due ministri della giustizia, Annamaria Cancellieri e Andrea Orlando, hanno deflazionato una situazione abnorme, ma certo non l'hanno avviata a soluzione. E se c'è stata una riduzione del sovraffollamento penitenziario, le condizioni complessive della reclusione in Italia restano drammatiche; e il sovraccarico di fascicoli e procedimenti per quanto riguarda l'amministrazione della giustizia penale, per limitarci a questa, costituisce un macigno che arriva a compromettere la stessa tenuta democratica del sistema.
Ciò nonostante, quella parola o, meglio, quelle due parole, amnistia e indulto, rimangono sottoposte a censura. Una censura in primo luogo culturale e ideologica. E che è il frutto della combinazione perversa tra il populismo penale di una classe politica codarda e priva di autonomia e un senso comune nevrotizzato da campagne d'odio che producono allarme sociale e panico morale. Tutto ciò è già accaduto e tende a riprodursi all'infinito. Nel novembre del 2002 papa Giovanni Paolo II, in visita alla Camera dei deputati chiese «alle pubbliche istituzioni» di manifestare «un segno di clemenza» attraverso una «riduzione della pena per i detenuti». Ci vollero quasi quattro anni prima che il Parlamento approvasse quella «riduzione della pena» (l'indulto). C'è da chiedersi: quanto ce ne vorrà, oggi, di tempo? Buon Natale a tutti, custoditi e custodi.

La Repubblica, 16 dicembre 2015 (m.p.r.)

La crisi dell’acqua a Messina non è un incidente di percorso, ma il preannuncio del mondo che verrà. Anzi, che è già venuto: megalopoli come San Paolo, Lagos, Mumbai (ma anche Los Angeles) sperimentano frequenti siccità. L’urbanizzazione che concentra nelle città il 53% della popolazione mondiale (nel 2030 sarà il 70%) non fa i conti con l’ambiente, con l’esaurirsi delle risorse naturali, con carestie che parevano dimenticate ma colpiscono un miliardo di esseri umani ammassati negli
slum.

Secondo il geografo M. Gandy, «non c’è nessun modo per placare questa sete urbana e industriale: nuove fonti di approvvigionamento semplicemente non esistono». Mutamenti climatici, disastri idrogeologici, mancata manutenzione dei suoli, cementificazione di superfici agricole aggravano una crisi che ci sforziamo di non vedere. In un libro recente, Water 4.0, David Sedlak (che insegna ingegneria sanitaria) prefigura un mondo in cui crescono insieme lo spreco e la penuria, e l’acqua è un prodotto troppo costoso per i poveri. L’acqua è la cartina di tornasole del degrado ambientale, e il mondo distopico di Mad Max di George Miller (2015), dove un tiranno la elargisce capricciosamente alle plebi, rischia di essere il nostro. Messina mostra in piccolo quel che a San Paolo riguarda 21 milioni di abitanti.

Nel 1979 Hans Jonas, nel suo Principio responsabilità, proclamava “l’imperativo ecologico”: «La comunanza dei destini dell’uomo e della natura, riscoperta nel pericolo, ci fa riscoprire la dignità propria della natura, imponendoci di conservarne l’integrità». Ma in nome di che cosa? Due correnti del pensiero ecologico hanno tentato una risposta. Nel 1969 un chimico, James Lovelock, lanciò “l’ipotesi Gaia”, secondo cui la Terra è un sistema unitario che si autoregola puntando a risultati ottimali. Se questa visione porta il nome della dea greca della Terra, Gaia, è su proposta di un vicino di casa di Lovelock, William Golding (l’autore del Signore delle mosche), che vi alluse anche nel suo discorso di accettazione del Nobel (1983).
Ancor più influente è lo storico L. White, che imputava (1967) la crisi del rapporto uomo-natura alla convergenza tra concezione cristiana dell’uomo e fede baconiana nella tecnologia: donde la distruzione di risorse naturali e «il carcinoma dell’urbanizzazione non pianificata». Per White, la via d’uscita è «trovare una nuova religione, o ripensare la nostra» secondo l’insegnamento di San Francesco, «il piú grande radicale della storia cristiana dopo Gesú», perché ha «sostituito l’idea dell’eguaglianza di tutte le creature (incluso l’uomo) a quella del dominio illimitato dell’uomo sulla natura».
San Francesco è stato dunque il santo patrono degli ecologisti cinquant’anni prima dell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco (24 maggio 2015), dove il Cantico delle Creature innesca la riflessione sulla «smisurata e disordinata crescita di molte città, invivibili dal punto di vista della salute, non solo per l’inquinamento da emissioni tossiche, ma anche per il caos urbano, i trasporti e l’inquinamento visivo e acustico. [...] Non si addice ad abitanti di questo pianeta vivere sommersi da cemento e asfalto, privati del contatto con la natura. In alcuni luoghi, rurali e urbani, la privatizzazione degli spazi ha reso difficile l’accesso dei cittadini a zone di particolare bellezza; altrove si sono creati quartieri residenziali “ecologici” a disposizione di pochi, dove altri non entrino a disturbare una tranquillità artificiale. Gli spazi verdi sono curati nelle aree “sicure”, non dove vivono gli scartati della società».
Parlando di ambiente, uno storico (White) e un chimico (Lovelock) richiamano precedenti religiosi o mitici; il Papa propone una diagnosi orientata su un asse non solo religioso, ma etico-politico, e aggiornata sull’orologio dei movimenti ecologici e per il diritto alla città. Perciò l’enciclica condanna la crescita delle megalopoli, la privatizzazione degli spazi, la formazione di ghetti urbani per «gli scartati della società», e parla di responsabilità come «cura della casa comune», missione affidata da Dio all’uomo, ma anche secondo il diritto, «moderatore effettivo delle regole per le condotte consentite alla luce del bene comune, funzioni irrinunciabili di ogni Stato: pianificare, coordinare, vigilare e sanzionare all’interno del proprio territorio». Questo rimescolarsi delle carte, dove il linguaggio religioso invade testi scritti da studiosi laici e il Papa adotta un linguaggio secolarizzato, nasce dalla drammatica situazione del mondo che ci circonda, che impone una responsabilità comune.
Il nesso forte, che ricorre nell’enciclica, tra devastazioni dell’ambiente, minacce alla salute e crescita delle povertà, indirizza la diagnosi verso le pratiche della democrazia, inclusa quella azione popolare che viene dal diritto romano e che risalta in alcune recenti Costituzioni dell’America Latina (Brasile, Colombia): «Poiché il diritto si dimostra insufficiente a causa della corruzione, si richiede una decisione politica sotto la pressione della popolazione. La società, attraverso ong e associazioni intermedie, deve obbligare i governi a sviluppare normative, procedure e controlli più rigorosi. Se i cittadini non controllano il potere politico non è possibile contrastare i danni ambientali». Questo ammonimento ci riguarda tutti: al centro dell’enciclica, come delle riflessioni di filosofi e giuristi, sono i diritti delle generazioni future, giacché «l’ambiente è bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti».
Perciò, oltre ogni differenza ideologica, «è urgente elaborare un pensiero comune pratico, uno stesso insieme di convinzioni volte all’azione, innescata dai principi del bene comune e indirizzata alla politica» (J. Maritain).

Il manifesto, 8 dicembre 2015

È il giubileo dei paradossi il Giubileo della Misericordia voluto da papa Bergoglio che si inaugura oggi con l’apertura della Porta Santa a Roma. Il primo paradosso è che in verità è già stato inaugurato due settimane fa, il 29 novembre a Bangui, quando papa Francesco ha aperto la porta della cattedrale della capitale della Repubblica Centroafricana. Un atto che i media hanno doverosamente seguito, ma senza l’eccitazione contagiosa che accompagna di solito le azioni del Papa.

Troppo distante, troppo scomodo, troppo poco sgargiante. Troppo fuori dalla logica cinica che regola i rapporti tra media e Vaticano, monarchia regnante che con i suoi riti spettacolari attira l’attenzione e alza le vendite, al pari dei reali inglesi o altre celebrità. Quindi venerata anche dai più agnostici tra i giornalisti, ma solo se corrisponde alle attese.

Il secondo paradosso è in quel titolo che si rincorre tra i giornali, o piuttosto viene nascosto tra le pagine. Questo giubileo è già un flop. E perché è un flop? Perché le prenotazioni diminuiscono, sono già al 50% in meno rispetto all’anno scorso, dicono gli albergatori, a causa degli attentati di Parigi. Ma è questo il metro di misura per valutare l’evento che vuole aprire i cuori al perdono e alla compassione? Perché dimenticare che papa Francesco ha voluto aprire il giubileo in Africa, ma sconsiglia un inutile e costoso viaggio a Roma, e numerosi eventi e aperture di porte sono previsti in tutto il mondo? È come se fosse in corsa una specie di contesa tra papa Francesco e i media.

Riuscirà il Papa a far arrivare a tutti l’idea base della sua scelta, che punta all’esperienza tutta interiore anche se vissuta in comunità? O vincerà la logica dei media, che privilegia l’eventone, i grandi numeri, l’eccezionalità irripetibile, quello che non si era mai visto prima in una rincorsa senza fine?

Papa Francesco ha una forza comunicativa speciale, del tutto estranea al luogo comune, mediatico e non solo. È il suo orizzonte simbolico a essere divergente dalla mentalità corrente.

Semplice e chiaro nel linguaggio, diretto nello sguardo come nel muoversi, nel toccare senza paura chi gli sta vicino. La misericordia diventa nelle sue parole un’azione comprensibile, che si sottrae alla magnificenza e alle pompa che con tutta evidenza non ama, e a cui tutti vorrebbero ricondurlo. La misericordia a cui vorrebbe portare il gregge umano, credente e non, non è certo la misericordia dei regnanti e dei potenti. Che condonano pene, debiti, azioni negative (i peccati) proprio perché ne hanno il potere, di cui la magnanimità è un attributo non secondario. La misericordia a cui invita papa Francesco è quella degli umani che si riconoscono umani come tutti, è una pratica della fragilità e del limite. Lo dice lui stesso: «Il mondo di oggi ha bisogno di misericordia, ha bisogno di compassione, ovvero di patire con». Ma sarà sufficiente, la sua forza, a rompere le abitudini e gli schemi che i media perpetuano?

Il terzo paradosso è il più complesso, quello contro cui lo stesso Bergoglio potrebbe trovarsi in difficoltà . Perché il terzo paradosso è la sicurezza. Il Papa non impedisce che Piazza San Pietro venga recintata, che chi entra venga sottoposto a un accurato controllo, che siano mobilitati 2000 agenti, che l’intero spazio di Roma sia no-fly. Non può neppure impedire che in nome della sicurezza ci sia una stretta di vite sui clandestini che vivono a Roma, che tutti i posti di blocco e le sorveglianze in atto nei luoghi pubblici abbiano un unico copione: la richiesta di documenti a chi ha un aspetto sospetto.

Certo papa Francesco non può chiedere ai fedeli che vogliono recarsi a San Pietro il coraggio di cui dà l’esempio. Né intende metterne a rischio la vita, lui che per primo ha parlato di una strana terza guerra mondiale a pezzetti in corso nel mondo. In molti hanno chiesto che il Giubileo venisse sospeso, dopo gli attentati di Parigi, un invito che il Vaticano ha respinto subito. Così il Papa che dopo avere aperto la porta santa di Bangui, si è mosso lungo il pericolosissimo quinto chilometro, portando sulla papamobile l’Iman, ed entrando nella Moschea a piedi scalzi, mostra che la misericordia ha molti aspetti.

Se non tutti verranno a Roma, pazienza, non interessa la kermesse. A lui interessa che si aprano i cuori, quelli che la paura vuole chiudere.

Aver aperto il Giubileo non a Roma. ma a Bangui "è stato un segno estremo, da solo capace di esprimere la coscienza che il papa ha della gravità della condizione del mondo (e della Chiesa)». La Repubblica, 8 dicembre 2015

OGGI a Roma si apre forse il Giubileo della Misericordia? Eh no, il Giubileo è già stato aperto. Non a Roma né in altro luogo romano o almanco italiano. È stato a Bangui, in Centrafrica. Qui papa Francesco ha spalancato la porta in legno e vetro della cattedrale e ha invitato a vedervi «la capitale spirituale del mondo »: non a Roma. Ora, è vero che altre volte i papi sono stati costretti a celebrare fuori Roma eventi simbolici importanti. La storia cristiana dei Giubilei comincia da quel discusso 1300.

Bonifacio VIII indisse la “perdonanza” che fece affluire a Roma una folla sterminata di pellegrini (fra cui Dante Alighieri). Lo fece oscurando l’indulgenza generale gratuita offerta dal suo predecessore Celestino V. Da allora in poi potere e danaro si mescolarono all’offerta di perdono dei peccati. Finché non fu un monaco tedesco, l’agostiniano Martin Lutero, a negare al papa quel potere sulle anime che ne costituiva la pretesa e la prerogativa fondamentale. Ma il cristianesimo occidentale non aveva mai visto prima di oggi mettere in discussione da parte di un papa il primato di Roma.

Questo è stato un segno estremo, da solo capace di esprimere la coscienza che il papa ha della gravità della condizione del mondo (e della Chiesa). Di fatto non si può dire che l’evento, così importante per Roma e per gli italiani tutti, abbia scosso il resto dell’umanità: altre sono le fedi religiose di cui il mondo è costretto a occuparsi. E l’ennesimo, sgangherato scandalo romano scoppiato proprio mentre il papa partiva per l’Africa ha spiegato a sufficienza perché il Vaticano non possa proprio dichiararsi capitale dello spirito. Intanto in Europa c’è una Germania che sta preparando un altro “giubileo”: la celebrazione dei 500 anni trascorsi da quel 1517 in cui Martin Lutero negando al papa di Roma il potere di cancellare i peccati e spedire in Paradiso le anime del Purgatorio, spalancò le porte a una modernità europea segnata da ben altri macelli religiosi che il preteso jihad di Daesh.

Oggi il Giubileo della Misericordia ripropone l’offerta antica del perdono. Ma non fa menzione né di purgatorio né di inferno né di demonio. La Chiesa apre le braccia al mondo, si preoccupa della tutela della vita umana e dell’ambiente. E lo speciale perdono giubilare torna a concernere le colpe dei singoli individui, dopo che quello dell’anno 2000 aveva sgombrato il campo dalle colpe storiche dei cristiani e della Chiesa. A esseri umani carichi di sensi di colpa e di fallimenti un papa gesuita propone il rimedio di cui i seguaci di Sant’Ignazio sono stati sempre i maestri: il perdono in confessione. Come? Lo dice la bolla e lo spiega bene monsignor Tettamanzi nel suo piccolo libro edito da Einaudi. Ci saranno dei sacerdoti speciali, missionari della misericordia che avranno facoltà di perdonare i peccati anche più gravi, quelli finora delegati ai vescovi. Niente di nuovo: fin dal ‘500 in Europa i “missionari del perdono” furono proprio i gesuiti. Quell’eredità è ben viva nella mente di questo pontefice. Non è un caso se il primo atto di papa Francesco è stato quello di proclamare santo Pietro Fabro, il gesuita figlio di contadini savoiardi esaltato da papa Francesco perché capace di un «dialogo con tutti, anche i più lontani e gli avversari ». Perfino con Lutero.

Certo, non è solo sugli affioramenti del passato che si può basare un tentativo di ragionare con calma sul giubileo di Papa Bergoglio. La premessa dovrebbe essere il tranquillo riconoscimento che siamo davanti a un papato che ha modificato la percezione diffusa, non tanto della Chiesa quanto proprio della figura del papa: il quale è percepito e vissuto — in Italia e in altre parti del mondo — come leader sostanzialmente indiscusso, vero capo morale capace di imporre la sua egemonia su popoli e governi. E questo nell’età del populismo.

In mezzo al discredito generale per la politica e al senso di impotenza che pervade i governanti c’è un capitale di attesa e di speranza sul quale papa Bergoglio ha fatto qualcosa di più che avanzare un’opzione: se ne è semplicemente impadronito grazie a doti non comuni di spontanea comunicatività ma anche e soprattutto grazie alla sua capacità di intercettare attese e desideri profondi.

Questo Giubileo è un’occasione utile per guardarsi intorno e capire che cosa stia accadendo nel mondo, specialmente in quello delle religioni storiche. Il clima è insolito, nel mondo come nella Chiesa di Roma: si vive nel clima di una guerra strana, diffusa, «a pezzi» secondo la definizione del pontefice regnante. E questo pontefice è anche lui molto insolito. Averlo scelto la dice lunga sulle preoccupazioni diffuse nell’alta gerarchia cattolica — almeno in quella non romana e nemmanco italiana.

La Repubblica online, 2 dicembre 2015

Parla al rientro dal viaggio in Kenya,Uganda e Centrafrica, Papa Francesco. Fa riferimento alla realtà vista nella sua visita. Ma non solo. «La distanza tra ricchi e poveri in Africa ma anche in tutto il mondo rappresenta uno scandalo», dice. E ancora: «La convivenza fra ricchezza e miseria è uno scandalo, una vergogna per l'umanità».

«Tutelare il creato riformando il modello di sviluppo perché sia equo, inclusivo e sostenibile: è questa la sfida globale della nostra epoca», ha detto il Papa nell'udienza generale. Secondo Francesco, l'Europa è un continente dove i giovani «sono pochi perché la natalità sembra un lusso" mentre in Africa gran parte della popolazione è costituita da minorenni, «una promessa per andare avanti».

Il Papa ha poi ricordato la sua tappa in Centrafrica. «Questa visita - ha detto - era in realtà la prima nella mia intenzione, perché quel Paese sta cercando di uscire da un periodo molto difficile, di conflitti violenti e tanta sofferenza nella popolazione. Per questo ho voluto aprire proprio là, a Bangui, con una settimana di anticipo, la prima Porta Santa del Giubileo della Misericordia, in un Paese che soffre tanto, come segno di fede e di speranza».

«Passare all'altra riva, in senso civile, significa lasciare alle spalle la guerra, le divisioni, la miseria, e scegliere la pace, la riconciliazione, lo sviluppo. Ma questo presuppone un 'passaggio' che avviene nelle coscienze, negli atteggiamenti e nelle intenzioni delle persone. E a questo livello è decisivo l'apporto delle comunità religiose».ha aggiunto Bergoglio riferendo che per questo motivo, nel recente viaggio apostolico in Africa, ha «incontrato le Comunità Evangeliche e quella musulmana, condividendo la preghiera e l'impegno per la pace».

Il Papa ha concluso l'udienza generale soffermandosi, a braccio, sui missionari, «uomini e donne che hanno lasciato tutto: la patria, da giovani, e se ne sono andati là, in una vita di tanto, tanto lavoro, alle volte dormendo sulla terra», e esortando i ragazzi presenti in piazza san pietro a non escludere di scegliere la vita in missione.

La Repubblica, 30 novembre 2015

RICOMINCIARE dalle periferie. Non è rivolto solo alla Chiesa cattolica il messaggio che scaturisce dal coraggioso viaggio di Francesco in Africa. Aprendo la Porta santa nella cattedrale di Bangui, infatti, il papa ha trasformato questa poco nota città africana nella «capitale spirituale del mondo» e dato inizio qui ad un Anno santo della misericordia che, nelle sue intenzioni, riguarda tutta l’umanità. Ma esponendosi personalmente ai rischi del conflitto in cui oggi si contrappongono cristiani e musulmani nella Repubblica Centrafricana, ha anche voluto tenacemente testimoniare che le religioni non sono un ostacolo bensì una risorsa per la pace. È un messaggio importante anche per un’Europa spaventata dalla violenza delle sue periferie.

Con la battuta sulla sua paura delle zanzare più che dei terroristi, Francesco ha fatto capire che non teme gli uomini, neppure i più pericolosi. Ma a chi gli ha chiesto se ci potesse essere una giustificazione religiosa dei tragici eventi di Parigi ha risposto che tanta violenza «non è umana». Contro un terrorismo che si alimenta anzitutto «di paura e povertà », il dialogo interreligioso deve puntare sulla comune umanità che unisce tutti. La sua tenace volontà di portare fino a Bangui questo messaggio - contro le raccomandazioni di tanti - non è rimasta senza risposta. La presidente Samba Panza ha confessato «tutto il male che è stato fatto nella Repubblica centrafricana nel corso della storia» e chiesto «perdono a nome di tutti coloro che hanno contribuito alla discesa agli inferi» di questo paese. E l’imam Oumar Kobime Layama ha condannato le violenze perpetrate dai miliziani musulmani di Seleka, sconfessando il loro richiamo alla fede islamica. Al Papa verrà inoltre consegnato un inatteso accordo tra le due principali fazioni in lotta. Il Centrafrica spera intensamente che la visita di Francesco segni un nuovo inizio, aprendo la via della pace e riportando cristiani e musulmani a ritessere legami di «appartenenza e convivenza».

Dagli “inferi” di Bangui il messaggio di Francesco rimbalza nelle periferie europee, dove il malessere di molti giovani - non solo immigrati - genera un radicalismo che si incontra con l’ideologia fondamentalista e la violenza estrema del Daesh. I tragici eventi di Parigi hanno fatto crescere in Europa tensioni, contrasti e pregiudizi tra non musulmani e musulmani. Ma contro il terrorismo ci sono state anche dichiarazioni di imam e leader islamici europei, manifestazioni pubbliche di musulmani, presenze di uomini e donne di fede islamica nei talk-show. Sono voci di chi non è mai stato favorevole al terrorismo e non aveva il dovere di dissociarsi, ma ha capito che non basta più astenersi dalla violenza e rispettare le leggi. È una novità importante. Secondo molti, però, sono ancora pochi i musulmani che scendono in piazza e permangono in loro incertezze e ambiguità. Per questi critici manca il riconoscimento che la violenza scaturisce dalle radici stesse dell’Islam. Insomma, il dialogo non sarebbe solo inutile, ma anche impossibile e persino sbagliato. In questo clima, qualche settimana fa l’invito ufficiale in Italia di al-Tayyeb, rettore di Al Azhar e più alta autorità islamica che abbia preso esplicitamente posizione contro lo stato islamico, è stato bruscamente annullato. Ma pretendere immediata e totale identità di vedute su tutto ciò di cui si discute significa rinunciare alla convergenza di tanti in una comune opposizione alla violenza del Daesh.

L’esigenza del confronto culturale — e del dialogo interreligioso — appare sempre più forte. Subito dopo gli eventi di Parigi è risuonato il grido “siamo in guerra”. C’è chi ha parlato di 11 settembre europeo, è riapparso lo scontro di civiltà, è stata rievocata Oriana Fallaci. Ma poi sono sopravvenuti altri ricordi: la guerra in Afghanistan, quella in Iraq e l’intervento in Libia. Ricordi, cioè, di successi militari che si sono poi rivelati fallimenti politici, con un “dopo” almeno in parte peggiore del “prima”. Tony Blair ha riconosciuto l’errore commesso. Il vuoto che si è creato dopo Saddam Hussein è stato infatti riempito dallo “Stato islamico” e ha innestato un aspro scontro tra sunniti e sciiti.

«Occorre resistere alla tentazione di ripiegarsi su se stessi» e «di dare addosso al nemico interno», ha ammonito Habermas, richiamando l’attentato di Utoya compiuto da un fondamentalista cristiano, Breivik. Non è l’Islam a scatenare il radicalismo, è il radicalismo dei giovani nelle periferie europee a cercare l’ideologia fondamentalista. In una partita che si gioca in gran parte sul terreno della propaganda e attraverso strumenti mediatici, sul web prima che nei campi di battaglia, coinvolgere i musulmani contro la violenza è cruciale: sono loro che più di altri possono oggi raggiungere quanti si stanno trasformando in foreign fighters.

i da ascoltare e i giornali da leggere sono davvero pochini. Il manifesto, 28 novembre 2015

Francesco è da ieri in Uganda per la seconda tappa del suo viaggio apostolico in Africa che si concluderà domani a Bangui — Repubblica Centrafricana — con l’apertura della porta santa che segnerà l’inizio del Giubileo della misericordia.

Ad accoglierlo venerdì pomeriggio all’aeroporto di Entebbe — a 40 km dalla capitale Kampala — c’erano il presidente Yoweri Museveni, personalità politiche e religiose oltreché uomini e donne di tutte le età ammassate lungo i cordoni del percorso verso il palazzo presidenziale.

Prima di lasciare il Kenya per l’Uganda il papa ha visitato in mattinata la grande bidonville ai margini di Nairobi, Kangemi (più di 100 mila i residenti): «Mi sento a casa qui».

Riferendosi all’«ingiustizia terribile dell’emarginazione urbana», «come non denunciare le ingiustizie che subite?» ha detto Bergoglio rivolgendosi agli abitanti, ai volontari e al clero nella piccola chiesa Saint-Joseph Travailleur, nel cuore di una baraccopoli dalle strade piene di buche, le fogne a cielo aperto e baracche fatiscenti a poche centinaia di metri dai compound residenziali. «Si tratta di ferite inferte dalle minoranze che si aggrappano al potere e alla ricchezza, che egoisticamente sperperano mentre una maggioranza crescente è costretta a fuggire verso periferie abbandonate, sporche e fatiscenti».

Un discorso, quello sulle periferie, che va a integrarsi a quello sull’ambiente del giorno prima dalla sede del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente con cui ha invocato un accordo globale sui cambiamenti climatici alla Cop21.

Dalla bidonville Francesco ha condannato «le nuove forme di colonialismo che fanno dei Paesi africani i pezzi di un meccanismo, le parti di un gigantesco ingranaggio e li sottomettono a diverse pressioni perché siano adottate politiche di emarginazione, come quella della riduzione della natalità». Inoltre «privare una famiglia dell’acqua, per pretesti burocratici, è una grande ingiustizia, soprattutto quando si lucra su questo bisogno», ha lamentato il papa denunciando la mancanza di accesso alle infrastrutture di base come bagni, fognature, illuminazione, strade, scuole, ospedali, centri per il tempo libero, lo sport, e l’arte. Aggiungendo che è un dovere di tutti garantire ai poveri nelle aree urbane l’accesso alla terra, a un alloggio e al lavoro.

Dopo Kangemi, dallo stadio Kasarani di Nairobi — gremito di gente — Papa Francesco ha esortato i giovani del Kenya a non cedere al dolce richiamo della corruzione (che pochi giorni fa ha portato a un rimpasto di governo). La corruzione «è come lo zucchero, dolce, ci piace, è facile». «Anche in Vaticano ci sono casi di corruzione» (con il chiaro riferimento ai recenti casi Vatileaks). «Ogni volta che mettiamo nelle nostre tasche, distruggiamo il nostro cuore, distruggiamo la nostra personalità e distruggiamo il nostro Paese. Per favore, non sviluppate quel gusto per quello zucchero che si chiama corruzione».

Il papa ha poi esortato i giovani a prendere posizione contro il tribalismo, invitando i presenti a tenersi per mano in simbolo di unità: «Siamo tutti una nazione». In Kenya dopo le elezioni del 2007 furono circa 1.200 le vittime causate da violenze interetniche.

E in riferimento alla minaccia terroristica (il Kenya ha subito diversi attacchi dal gruppo integralista somalo degli Al-Shabaab): «Se una giovane donna o uomo non ha lavoro, non può studiare, che cosa può fare? La prima cosa che dobbiamo fare per fermare un giovane dall’essere reclutato è l’istruzione e il lavoro».

In Uganda, a voler incontrare il papa — nel corso della giornata di oggi — c’è anche il presidente del Sud Sudan Salva Kiir, giunto nel Paese inaspettatamente senza aver precedentemente annunciato la visita.

Oltre a corruzione e diritti degli omosessuali (i gruppi Lgbt hanno fatto appello al pontefice affinché denunci le leggi omofobiche e le persecuzioni da parte della società civile), ci si aspetta che Papa Francesco si pronunci anche sulla situazione in Sud Sudan e le sue relazioni con il Sudan.

Il Sud Sudan — resosi indipendente dal Sudan nel 2011 — è afflitto dalla guerra civile dal dicembre 2013, quando una controversia politica tra Kiir e il suo vice Riek Machar è sfociata in un conflitto armato che ha riaperto linee di frattura etniche. Kampala ha inviato truppe intorno a Giuba — la capitale del Sud Sudan — per sostenere il governo del presidente Salva Kiir subito dopo gli scontri scoppiati con le truppe fedeli al vice presidente del Sud Sudan Riek Machar. Ed è stata proprio la loro presenza uno dei principali motivi di contesa alla base di prolungati negoziati di pace tra i due Paesi andati avanti nella capitale etiope Addis Abeba per quasi due anni.

Tra crescenti pressioni internazionali e la minaccia di sanzioni, Kiir e Machar hanno firmato un accordo di pace nel mese di agosto, in rispetto del quale il mese scorso l’Uganda ha annunciato l’imminente ritiro delle truppe dal Sud Sudan (con il plauso delle potenze regionali e occidentali, a scongiurare il rischio — come si temeva — che il coinvolgimento dell’Uganda potesse trasformare la lotta tra le due parti in un conflitto regionale).

Le associazione per la difesa dei diritti umani hanno accusato entrambe le parti di abusi e violenze alla base degli scontri tra il gruppo etnico dei Nuer cui appartiene Machar e quello dei Dinka di cui è membro Kiir. Il conflitto ha fatto più di 10.000 vittime e costretto più di 2 milioni di persone ad abbandonare le loro case.

Laudato si' il costituzionalista sottolinea come «la tradizione cristiana non abbia mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto di proprietà privata, e abia messo in risalto la funzione sociale di qualsiasi forma di proprietà». Casadellacultura.it, 25 novembre 2015 (m.p.r.)

La grandezza di questa straordinaria Enciclica, che ha il fine precipuo di offrirci una visione del mondo in contrasto con l'attuale immaginario collettivo, si nota già nella scelta del filo conduttore dell'intero discorso: la bellezza. Se ne parla all'inizio (par. 1), ricordando «la casa comune come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia», e se ne riparla frequentemente, come quando si ricorda che «suolo, acque, montagne, tutto è carezza di Dio» (par. 84), o quando si afferma «Dio ha scritto un libro stupendo, le cui lettere sono la moltitudine delle creature presenti nell'universo» (par. 85).

Sappiamo che definire 'intellettualmente' la bellezza non si può. Lo aveva detto Kant qualche secolo fa e lo si deve ribadire anche oggi, nell'imperante relativismo filosofico secondo il quale è bello ciò che piace a ciascun individuo, indipendentemente da qualsiasi canone o regola estetica.

Ciò non ostante, se non è possibile una definizione concettuale, è certamente possibile affermare che il bello è certamente qualcosa che 'si percepisce' in modo intuitivo da parte di ogni uomo. Lo conferma il fatto che l'educazione alla bellezza non può essere espressa in un manuale, ma solo attraverso la contemplazione stessa di ciò che è bello. D'altro canto, è intuitivo anche il concetto opposto alla bellezza: la bruttezza, che deve essere intesa come la percezione di una mancanza di bellezza, o un accumulo di imperfezioni, che suscita indifferenza o dispiacere e genera una percezione negativa dell'oggetto. La scelta di Papa Francesco di mantenere la bellezza come punto fermo di riferimento ha dunque anche un significato, per così dire, di comunicazione diretta. Tutti infatti sono in grado di distinguere il 'bello' dal 'brutto', trattandosi di una scelta intuitiva e non intellettualistica.

Tuttavia, se la bellezza la si percepisce intuitivamente, ciò non significa che non si possa definire quale cosa possa essere 'oggetto di bellezza'. E qui è da porre in evidenza che per la nostra cultura occidentale (Aristotele, Platone, Vico, Kant) il 'bello' esiste 'nella natura' e 'nell'arte'. Nella Critica del giudizio Kant definisce il «bello naturale» come il «bello d'arte»e il «bello d'arte» come il «bello di natura». Insomma gli oggetti di un 'giudizio' di bellezza possono essere la Natura nel suo complesso e l'attività artistica dell'uomo.

A questo punto, considerando il 'bello' (che proviene da una intuizione) come oggetto di una riflessione intellettuale, ci si accorge che c'è un elemento comune nei caratteri di qualsiasi cosa noi definiamo 'bella': è 'l'armonia' tra le varie componenti dell'oggetto e tra l'oggetto e il contesto naturale nel quale l'oggetto si trova. E, a questo proposito, è puntuale il richiamo dell'Enciclica a S. Francesco d'Assisi: «Egli manifestò un'attenzione particolare verso la creazione di Dio e verso i più poveri e abbandonati. Amava ed era amato per la sua gioia, la sua dedizione generosa, il suo cuore universale. Era un mistico e un pellegrino che viveva in semplicità e in una meravigliosa armonia con Dio, con gli altri, con la natura e con se stesso» (par. 10).

L'armonia, come agevolmente si capisce, è espressione, nel campo del 'bello', di un principio universale che governa il mondo e l'universo intero: 'l'equilibrio'. Qualità che riguarda, sia il mondo naturale, sia il mondo delle attività umane. Equilibrio, armonia, bellezza, appaiono, dunque, come concetti strettamente connessi, per cui si può capire perché taluni studiosi hanno parlato di bellezza, non solo per la natura e per l'arte, ma anche per le forme di governo, le strategie, i modelli matematici e così via dicendo. D'altro canto quante volte noi stessi abbiamo detto 'questo articolo è bello, questo libro è bello', per dire che si tratta di un'opera ben fatta, che segue i criteri della logica e che raggiunge i fini che l'autore si era proposto di perseguire. Anche a questo proposito, sono puntualissime le affermazioni di Papa Francesco, che richiama, insieme, «l'armonia», gli «equilibri naturali» e le «leggi di natura», che dell'armonia e dell'equilibrio sono la massima espressione.

L'Enciclica osserva infatti che «la legislazione biblica si sofferma a proporre all'essere umano diverse norme, non solo in relazione agli altri esseri umani, ma anche in relazione agli altri esseri viventi: se vedi l'asino di tuo fratello o il suo bue caduto lungo la strada, non fingerai di non averli scorti. Quando, cammin facendo, troverai sopra un albero o per terra un nido d'uccelli con uccellini o uova e la madre che sta covando gli uccellini o le uova, non prenderai la madre che è con i figli» (par. 68). Ed è sempre la legislazione biblica «che ha cercato di assicurare l'equilibrio e l'equità nelle relazioni dell'essere umano con gli altri e con la terra dove viveva e lavorava», ponendo in evidenza che «il dono della terra con i sui frutti appartiene a tutto il popolo»(par.71).

Se i concetti di equilibrio, armonia, bellezza investono l'universo intero, esprimendosi nelle leggi di natura, non si può fare a meno di ricordare, nel contesto su cui andiamo riflettendo, che tutto l'universo non è immobile, ma scorre nello spazio e nel tempo, mentre tutti gli esseri viventi nascono, crescono e muoiono sempre rinnovando la loro specie. Insomma, se ne deve dedurre, come diceva Platone, che «questo mondo è davvero un essere vivente dotato di anima», o, se si preferisce, che la Natura è essenzialmente «vita». Del resto, la parola 'natura' deriva dal participio futuro del verbo nascor, e significa, dunque, ciò che nasce, nel momento in cui nasce, e, quindi, la vita. Altrettanto è da dire per la parola greca fusis, che significa 'natura', e viene dal verbo fuo, che significa generare, per cui 'natura' è ciò che viene generato, considerato nel momento in cui è generato, e, dunque, significa vita. Ed è sintomatico che l'Enciclica Laudato si' si concluda proprio con un inno alla vita, osservandosi che «la persona umana tanto più cresce, matura e si santifica quanto più entra in relazione, quando esce da se stessa per vivere in comunione con Dio, con gli altri e con tutte le creature» (par. 240), osservandosi ancora che «la vita eterna sarà una meraviglia condivisa, dove ogni creatura, luminosamente trasformata, occuperà il suo posto e avrà qualcosa da offrire ai poveri definitivamente liberati» (par. 243).

Eppure questa «madre bella», continua Papa Francesco (par. 1 e par. 2), «protesta per il male che le provochiamo, a causa dell'uso irresponsabile e dell'abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La violenza che c'è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell'acqua, nell'aria e negli esseri viventi».

Sull'onda di questo grido di dolore, l'Enciclica passa a considerare le cause di questo abuso e di questo saccheggio. «Osservando il mondo notiamo che questo livello di intervento umano, spesso al servizio della finanza e del consumismo, in realtà fa sì che la terra in cui viviamo diventi meno ricca e bella, sempre più limitata e grigia, mentre contemporaneamente lo sviluppo della tecnologia e delle offerte di consumo continua ad avanzare senza limiti» (par. 34).

L'Enciclica continua su questa via con delle affermazioni di grandissimo rilievo. Essa sottolinea che «la politica non deve sottomettersi all'economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l'economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana» (par. 189). E' arrivato il momento di opporsi decisamente all'idea di una «crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a spremerlo fino al limite e oltre il limite. Si tratta del falso presupposto che esiste una quantità illimitata di energia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente» (par. 106). D'altro canto, sottolinea Papa Francesco, «i poteri economici continuano a giustificare l'attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una rendita finanziaria che tendono ad ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull'ambiente […] Oggi qualunque cosa che sia fragile come l'ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta» (par. 56).

Al contrario, incalza Papa Francesco, «dobbiamo rifiutare con forza che dal fatto di essere creati a immagine di Dio e dal mandato di soggiogare la terra si possa dedurre un dominio assoluto sulle altre creature […] I testi biblici ci invitano a coltivare e custodire il giardino del mondo […] custodire vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare»(par. 67).

Di qui la grande e innovativa affermazione secondo la quale «quando parliamo di ambiente facciamo riferimento anche a una particolare relazione: quella tra natura e la società che la abita». Questo non deve farci «considerare la natura come qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo inclusi in essa, siamo parte di essa e ne siamo compenetrati». (par 139). «La relazione originariamente armonica tra essere umano e natura si è trasformata in un conflitto. Per questo è significativo che l'armonia che san Francesco d'Assisi viveva con tutte le creature sia stata interpretata come una guarigione di tale rottura» (par. 66).

Alla luce di questi fondamentalissimi principi, l'Enciclica entra poi direttamente anche nel campo giuridico, affermando che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto di proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualsiasi forma di proprietà […] Dio ha dato la terra a tutto il genere umano perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno […] non sarebbe veramente degno dell'uomo un tipo di sviluppo che non rispettasse e non promuovesse i diritti umani, personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli». La Chiesa insegna «che su ogni proprietà privata grava sempre un'ipoteca sociale, perché i beni servano alla destinazione generale che Dio ha dato loro» (par. 93). Di conseguenza, «l'ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l'umanità e responsabilità di tutti» (par. 95).

Sempre sotto il profilo giuridico, Papa Francesco, dando molto risalto al concetto di «comunità» - sia che si tratti di quella che noi chiamiamo 'comunità biotica', sia che si tratti di quella che noi chiamiamo 'comunità politica' o Stato - sottolinea con molta chiarezza che «sono funzioni improrogabili di ogni Stato quelle di pianificare, coordinare, vigilare e sanzionare all'interno del proprio 'territorio'»(par. 177), mentre le relazioni tra gli Stati devono salvaguardare la «sovranità di ciascuno» (par. 173). Per Papa Francesco, dunque, la 'globalizzazione' riguarda solo la 'transitabilità' dei confini e non fa venir meno l'idea stessa della 'comunità politica', cioè l'essenzialità dei Popoli e dei territori, e, quindi l'importanza 'degli Stati nazionali', che, purtroppo, perdono potere a causa «della dimensione economica finanziaria» (par.175). Né è da sottovalutare l'importanza che l'Enciclica dà alla «partecipazione» popolare (par. 181 e par.183) e alle «comunità locali», nelle quali «possono nascere una maggiore responsabilità, un forte senso comunitario, una speciale capacità di cura e una creatività più generosa, un profondo amore per la propria terra» (par. 179). In altri termini, secondo Papa Francesco «se riconosciamo il valore e la fragilità della natura, e allo stesso tempo le capacità che il Creatore ci ha dato, questo ci permette oggi di porre fine al mito moderno del progresso materiale illimitato», ed alle sue conseguenti devastazioni ambientali (par. 77).

Dunque, ben diverso deve essere il comportamento che l'uomo deve mantenere verso la natura. Anzi si deve necessariamente ritenere che uomo e natura, agendo entrambi sul piano della soggettività, sono naturalmente stretti da un 'patto' inviolabile secondo il quale il 'dono' immenso che la natura fa all'uomo porgendogli, con i servizi ambientali, tutto ciò di cui ha bisogno, compreso il soddisfacimento dell'insopprimibile desiderio di 'bellezza', deve essere ricompensato dall'uomo, non solo con il rispetto della natura, ma anche e soprattutto con una sua completa dedizione alla cura e al benessere della natura stessa. E questo 'patto', come sottolinea Papa Francesco, deve consistere in una «conversione ecologica», che deve avvenire riconoscendo «il mondo come dono ricevuto dall'amore del Padre [con] l'amorevole consapevolezza di non essere separati dalle altre creature, ma di formare con gli altri esseri dell'Universo una stupenda comunione universale» (par. 191). E se si tiene conto che oggi la terra è abitata da sette milioni e duecentomila abitanti, e che la stessa, come hanno affermato gli scienziati, dal 2 agosto 2012 non è più in grado di rigenerare quanto noi consumiamo, appare evidente che in queste parole di Papa Francesco deve scorgersi un invito a quella che noi chiamiamo 'decrescita'. Occorre cambiare gli 'stili di vita'. Si deve respingere il 'consumismo', si deve, in ultima analisi ristabilire un 'equilibrio' tra l'azione dell'uomo e la vita di tutti gli altri esseri viventi.

Il problema, a questo punto diventa necessariamente giuridico. Ci si deve chiedere, infatti, quali devono essere i comportamenti che l'uomo deve seguire per ricompensare la Natura dei suoi immensi doni. E qui la risposta non può non essere che quella di un 'giusnaturalista', fondata, cioè, sul 'diritto naturale', al quale Papa Francesco riserva tanta rilevanza. Infatti, non è chi non veda come una risposta data secondo i criteri del 'positivismo giuridico', oggi degradato a 'nichilismo giuridico', non avrebbe senso, per il semplicissimo fatto che il positivismo toglie alla natura ogni valore e ritiene che l'uomo può fare tutto ciò che vuole, purché obbedisca a leggi emanate secondo particolari procedure preventivamente stabilite.

Insomma, è inevitabile rivolgersi al 'diritto naturale', secondo il quale il comportamento dell'uomo deve essere indiscutibilmente conforme alle 'leggi di natura', poiché soltanto queste consentono alla natura e all'opera dell'uomo di esplicitarsi nella 'bellezza', che appare come supremo valore da conservare e proteggere.

E si deve sottolineare a questo punto che l'antica diatriba tra positivismo e giusnaturalismo è stata risolta dal costituzionalismo moderno del secondo dopoguerra, che ha dato nuovo impulso al giusnaturalismo, inserendo nelle Costituzioni europee il valore della natura e dell'arte. Lo afferma esplicitamente l'art. 9 della nostra Costituzione, secondo il quale «la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio artistico e storico della Nazione», mentre l'art. 33 della stessa Costituzione sancisce che «l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento». Né è da sottovalutare il fatto che l'art. 117, del Titolo V della Seconda Parte della Costituzione, novellato con legge costituzionale n. 3 del 2001, ha assegnato alla potestà legislativa esclusiva dello Stato le materie dell'«ambiente, ecosistema e beni culturali». Il 'giusnaturalismo', dunque, è entrato a pieno titolo nella Costituzione e la 'bellezza', che si esprime nella natura e nell'arte, è da ritenere, a sua volta, 'valore costituzionale'.

Nel giusnaturalismo costituzionale (anche se taluno lo nega) risiede, a nostro avviso, la 'bellezza' della nostra Costituzione: infatti, il dar rilievo, non solo al «lavoro» umano, considerato il «fondamento» della Repubblica, ma anche al paesaggio, ai beni artistici e storici, all'arte e alla scienza, nonché all'ambiente, all'ecosistema e ai beni culturali in genere, vuol dire che la Costituzione stessa pone in 'equilibrio', e quindi in 'armonia' tra loro, il valore Uomo e il valore Natura, considerando entrambi indispensabili per lo «sviluppo della persona umana» e il «progresso materiale e spirituale della società» (art. 3 e art. 4 Cost.). Oggetto di regolamentazione, in altri termini, è la 'vita nel suo complesso' che, come sopra si notava, è la massima espressione della 'bellezza'. E a questo punto non si può sottacere che la 'bellezza' della quale è ammantata la nostra Costituzione deriva anche da quella che è stata definita 'l'etica repubblicana', il fatto cioè che tutte le disposizioni costituzionali si ispirano ai principi di 'libertà, eguaglianza e solidarietà' (l'eguaglianza soprattutto), principi che costituiscono, per così dire, l'asse portante del 'bello' che si ritrova nella nostra Carta costituzionale.

Dunque, per ricompensare la Natura dei suoi immensi doni, la via è già tracciata: è scritta nella Costituzione, che è impostata secondo le linee di Papa Francesco poco sopra esposte, e che è, come si accennava, 'equilibrata' e 'armonica', quindi 'bella'.

Questo testo è uno stralcio di una più ampia lectio magistralis - intitolata L'Enciclica 'Laudato si' di Papa Francesco. Riflessi giuridici - tenuta da Paolo Maddalena all'inaugurazione dell'anno accademico dell'Istituto Superiore di Scienze Religiose Euromediterraneo di Tempio Pausania il 17 ottobre 2015.

«Repubblica centrafricana. Il conflitto in corso da tempo ha costretto più di mezzo milione di persone a cercare asilo nei paesi vicini. E i continui scontri tra bande rischiano di far saltare le elezioni». Il terribile scenario nel quale papa Francesco ha scelto di aprire il Giubileo della misericordia. Il manifesto, 28 novembre 2015

Sarà Bangui ad aprire domani l’anno santo del Giubileo della misericordia, tra i derelitti del pianeta e non tra i fasti di San Pietro. A dispetto delle allerte dell’intelligence mondiale, il papa a conclusione del suo viaggio in Africa di ritorno dal Kenya e dall’Uganda metterà piede nella Repubblica Centrafricana.

Dove né le forze francesi dell’Operazione Sangaris né quelle regionali africane sono riuscite ad arrestare una spirale di violenza che sta facendo strage di civili almeno dalla débâcle di Bangui nel marzo 2013 a opera della coalizione Seleka (coalizione di fazioni ribelli dissidenti di diversi movimenti politico-militari) in nome dell’accesso alle risorse a favore delle popolazioni del nord, soprattutto di quelle petrolifere nelle mani della China National Petroleum Corporation.

E che vede la contrapposizione tra due bande di combattenti assoldati da burattinai politici che mirano al controllo del territorio e delle risorse minerarie di cui il Paese è ricchissimo.

Da una parte dunque i Seleka (gli stranieri del nord di fede islamica che non parlano né francese né sango, scesi alla conquista delle popolazioni del sud), dall’altra gli Anti-Balaka (in maggioranza giovani analfabeti orfani di famiglie uccise dai ribelli Seleka), cristiani e animisti la cui ala minoritaria — i Combattants pour la libération du peuple centrafricain — sarebbe legata al Front pour le retour à l’ordre constitutionnel en Centrafrique (Froca), il movimento creato in Francia dall’ex presidente della Repubblica Centrafricana François Bozizé.

Un conflitto di cui subiscono le tragiche conseguenze soprattutto le popolazioni civili e che non ha risparmiato neanche Medici Senza Frontiere — l’ong impegnata nella Repubblica Centrafricana dal 1997 — quando fu attaccata nell’aprile del 2014 dai ribelli Seleka (almeno 22 le vittime tra civili e operatori).

Sarebbero più di un milione i bambini nella Repubblica Centrafricana che hanno urgente bisogno di aiuti umanitari, mentre quasi la metà di quelli sotto i cinque anni sono malnutriti. A renderlo noto giorni prima dell’arrivo del Papa è l’agenzia Onu per l’infanzia, l’Unicef.

«La violenza che ha afflitto questo paese ha avuto un impatto devastante sulla vita dei bambini», ha detto Mohamed Fall, rappresentante Unicef nella Repubblica Centrafricana. «Per far fronte ai bisogni umanitari abbiamo bisogno di un maggiore sostegno internazionale».

Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite, il conflitto ha costretto circa mezzo milione di persone a cercare asilo nei paesi vicini, mentre i recenti attacchi ai convogli hanno ostacolato le consegne di aiuti e le azioni di soccorso.

Gli scontri tra le milizie dei Seleka e quelle degli Anti — balaka che si pensasse potessero dissuadere il pontefice dal mettervi piede, rischiano però di far slittare ancora una volta le elezioni del prossimo 27 dicembre già rimandate lo scorso ottobre.

L’arrivo di Francesco è previsto per domani: «Siamo fiduciosi che la visita del Papa sarà promuovere la riconciliazione in un paese che ha un disperato bisogno di pace» sostiene Fall.

Quest’anno l’Unicef ha ricevuto 37 milioni di dollari su circa 70 milioni di cui ha bisogno per provvedere a interventi di soccorso urgenti per i bambini più vulnerabili della Repubblica Centrafricana.

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite visto in esclusiva dalla Thomson Reuters Foundation i ribelli nella Repubblica Centrafricana avrebbero rapito, bruciato e sepolto vive «streghe» in cerimonie pubbliche, sfruttando superstizioni ampiamente diffuse con l’obiettivo di controllare il territorio.

Il rapporto mostra fotografie delle vittime legate a pali di legno, nonché i torsi carbonizzati di quelli sottoposti al rituale.

Le torture sarebbero avvenute tra dicembre 2014 e l’inizio del 2015 sotto direttive dei leader della milizie Anti-Balaka (a maggioranza cristiana) che da più di due anni combattono in tutto il Paese contro i ribelli (a maggioranza musulmana) dei Seleka.

Secondo ricercatori dell’Onu, mentre la credenza nella stregoneria è comune in tutta l’Africa, in questo caso sembra che i ribelli Anti-Balaka abbiano sfruttato tali superstizioni per intimidire, estorcere denaro e esercitare autorità su aree senza legge.

Il manifesto, 27 novembre 2015

«Più che le persone, mi fanno paura le zanzare»; «Io voglio andare. Se non mi ci portate voi, datemi un paracadute». Sono solo un paio di battute, colte “al volo” – è il caso di dirlo – sull’aereo che il 25 scorso portava papa Francesco a Nairobi, capitale del Kenya e prima tappa del viaggio di cinque giorni che lo sta vedendo impegnato nel continente dalle risorse del suolo e del sottosuolo più ricche al mondo e dalle popolazioni più miserabili della terra. Come tale gigantesco, incrollabile, insostenibile paradosso sia possibile, e come tutti lo accettiamo senza fiatare, è forse la spina avvelenata che sta contagiando il mondo: che lo sta portando verso una catena di guerre, di violenze e di disastri sia ecologici sia sociali che potrebbe anche rivelarsi di proporzioni mai viste.

Perché dev’esser chiaro che questa è la posta in gioco. E che, tra i grandi leaders mondiali, questo gesuita italoargentino che al suo paese qualcuno accusa di essere «un gaucho peronista irresponsabile» è l’unico ad affrontarla direttamente e a chiamare le cose con il loro nome: come ha fatto nell’enciclica Laudato si’. I rischi sono molti ed evidenti: per lui, per chi gli sta vicino, per le folle che accorrono a salutarlo. Lui lo sa bene.

E sa bene che, quando il pericolo è relativo e non incombe, lo si può anche evitare; ma quando è lì, ci è addosso, minaccia di sopraffarci, allora non c’è nulla da fare: va affrontato a muso duro. E lui, dietro certi suoi disarmanti sorrisi, la grinta del duro ce l’ha eccome.

In un raid mozzafiato, rifiutando papamobili corazzate e giubbotti antiproiettile, questo ciclone quasi ottantenne sta visitando un bel pezzo di Africa centroccidentale: il Kenya dove i cattolici sono quasi 9 milioni, l’Uganda dove superano i 14, la Repubblica Centroafricana dove sono invece piuttosto pochi mentre forti sono le comunità cristiano-evangeliche e musulmana, che lui visiterà tra domenica e lunedì.

Senza per nulla minimizzare le tappe a Nairobi in Kenia e a Kampala in Uganda, è proprio a Bangui, capitale della Repubblica Centroafricana, che avranno luogo gli incontri più significativi: anzitutto al visita al campo profughi, quindi la messa nella cattedrale e l’apertura della prima Porta Santa di quel Giubileo della Misericordia che – il papa ci tiene – non dovrà avere Roma come centro e mèta bensì svolgersi fondamentalmente in quelle periferie che egli ama e nelle quali vede le chiavi per il destino del mondo di domani. Quindi il papa visiterà la grande moschea della capitale.

Se non ci saranno intoppi gravi, è evidente che questo è solo il principio. Non potrà non esserci un’altra visita, specie nei paesi dove i fedeli cattolici sono ancora più numerosi: 31 milioni nella Repubblica Democratica del Congo, 20 in Nigeria. Va ricordato che in Africa i cattolici sono 200 milioni, vale a dire il 17% della popolazione cattolica del mondo; nel clero, i preti africani stanno ormai diventando sempre più numerosi e a loro viene sovente affidata l’evangelizzazione e la pastorale rivolta agli europei. Ecco perché Francesco sostiene che la risorsa più preziosa dell’Africa non sono né il petrolio, né l’oro, né i diamanti, né l’uranio, né il coltan, bensì gli uomini. Eppure da questo continente sfruttato e distrutto soprattutto a causa della scellerata complicità tra le lobbies multinazionali che lo dissanguano sfruttandolo e i corrotti governi locali che tengono loro il sacco ricevendone laute prebende mentre la guerra infuria e le bande terroristiche impazzano, la gente è costretta a fuggire. Derubati in casa loro e quindi cacciati. Inaudito, ignobile, intollerabile.

In Africa c’è anche una grave minaccia terroristica: il papa lo sa bene e non sottovaluta in pericolo. Non ci sono prove effettive che gruppi come Boko Haram o come le molte milizie attive in area somala da dove irradiano la loro violenza siano strutturalmente legate all’IS del califfo al-Baghdadi. Egli agisce forse solo in franchising, apponendo il suo trade mark agli attentati e alle azioni violente che riescono e dando così l’impressione di una potenza intercontinentale che non possiede. Ciò non diminuisce però di un grammo la pericolosità dei guerriglieri islamisti. In Uganda agisce, ai confini con il Ruanda e il Congo, la Adf-Nalu (“Forze democratiche alleate – Esercito Nazionale di Liberazione dell’Uhanda”), che ormai ha assunto un inquietante colore confessionale da quando a guidarlo c’è Jamil Mukulu, un ex cristiano convertito alla setta musulmana taqlib.

Quel ch’è accaduto il 20 scorso nel Radisson Hotel di Bamako nel Mali, è ancora troppo recente per essere già stato dimenticato: dei clienti uccisi una volta appurato semplicemente che non conoscevano il Corano. Qualche giorno fa i rappresentanti dell’Unione europea, riuniti a Malta, hanno stanziato un po’ meno di 2 miliardi di euro per sostenere lo sviluppo economico africano e rimpatriare i migranti irregolari: una goccia nell’oceano, che per giunta – come assicura padre Mussie Zerai, dell’autorevole agenzia Habeshia – finirà quasi del tutto nelle tasche di governanti e di politicanti locali. Eppure l’equilibrio sociopolitico del mondo discende dalla necessità di una ridistribuzione delle ricchezze nel continente africano.

Il papa lo sa; e sa benissimo altresì che il terrorismo è imprevedibile e che – se non si coordinano bene intelligence e infiltrazione per distruggerne le centrali – i quasi 36.000 uomini del servizio sociale non possono far quasi nulla per tutelare la sicurezza da nessuno. Lo ha detto chiaro e tondo: «Il terrorismo si alimenta di paura e povertà». Ma no, i soliti esperti tuttologi abituali ospiti dei talk-show durante i quali discettano su tutto, dalla questione femminile alla Juventus, gli hanno dato sulla voce giudicando la sua tesi “semplicistica” e “superficiale”, ribadendo con sussiego che alla base del terrorismo c’è l’ideologia distorta dei fondamentalismi. Ma sfugge a questi competenti per autolegittimazione che in una dottrina nella quale la fede viene degradata a base politica di un nuovo imperialismo vi sono sì i teorici che sanno quel che fanno, ma la massa di manovra agisce in quanto esasperata dalle sue condizioni economiche e incapace di disporre di un linguaggio sociale che non faccia riferimento al bagaglio religioso.

Ma alla base di tutto v’è una miseria che dilaga in Asia, in Africa, in America latina , che tocca a differenti livelli il 90% della popolazione del globo (e tra loro più poveri, quelli che vivono sotto la soglia di sopravvivenza fissata dalla Banca Mondiale, i fatidici due dollari al giorno, sono 700 milioni) e che è aggravata dall’informazione.

Non esiste povero e isolato centro che non sia raggiunto dalla Tv o dalla rete informatica. Ora, i miserabili che pensavano alla loro condizione economica come “naturale”, sanno e vedono; gli africani ai quali le multinazionali fanno pagare perfino l’acqua potabile sanno che là, “in Occidente”, c’è chi nuota in piscine private olimpioniche la cui capacità sarebbe tale da soddisfare le esigenze idriche giornaliere di migliaia di persone. E non ci stanno più. Ora, tra loro molti non trovano di meglio del jihadismo islamista per reagire; se piegheremo quella forza eversiva, non illudiamoci. Ne nasceranno altre: in quanto esse costituiscono le risposte distorte, scorrette, crudeli, disperate, a una situazione intollerabile.

Il papa chiede giustizia per i poveri nel nome del Cristo, povero tra i poveri. Quelli tra noi che sono insensibili alla parola di Dio e alla voce dell’umanità, si muovano almeno per egoismo, per legittima difesa. Per troppo tempo i poveri non si sono mossi perché non sapevano. Ora che sanno, non illudiamoci: o costruiamo tutti insieme una società più giusta e dignitosa, o ci travolgeranno.

Il manifesto, 26 novembre 2015

È la povertà ad alimentare il terrorismo. Papa Francesco, appena arrivato in Kenya, prima tappa del suo viaggio apostolico in Africa cominciato ieri e che nei prossimi giorni lo porterà anche in Uganda e Repubblica Centrafricana, interviene sul tema di maggiore attualità di queste settimane.

Lo fa pochi minuti dopo il suo atterraggio all’aeroporto internazionale «Jomo Kenyatta» di Nairobi quando – dopo aver effettuato una breve visita di cortesia al presidente della Repubblica del Kenya, Uhuru Kenyatta, e aver piantato un albero nel giardino della State House di Nairobi – incontra, oltre al presidente, i ministri del governo e gli ambasciatori.

«Fintanto che le nostre società sperimenteranno le divisioni, siano esse etniche, religiose o economiche, tutti gli uomini e le donne di buona volontà sono chiamati a operare per la riconciliazione e la pace», dice Bergoglio nel suo discorso. «Nell’opera di costruzione di un solido ordine democratico, di rafforzamento della coesione e dell’integrazione, della tolleranza e del rispetto per gli altri, il perseguimento del bene comune deve essere un obiettivo primario. L’esperienza dimostra che la violenza, il conflitto e il terrorismo si alimentano con la paura, la sfiducia e la disperazione, che nascono dalla povertà e dalla frustrazione».

Dalla giustizia sociale all’ambiente, anche perché, spiega Bergoglio, «vi è un chiaro legame tra la protezione della natura e l’edificazione di un ordine sociale giusto ed equo». C’è la denuncia dello sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, da parte soprattutto dei Paesi industrializzati del nord, spesso proprio a danno dei popoli dell’Africa. «Il Kenya è stato benedetto non soltanto con una immensa bellezza, nelle sue montagne, nei suoi fiumi e laghi, nelle sue foreste, nelle savane e nei luoghi semi-deserti, ma anche con un’abbondanza di risorse naturali», dice Bergoglio. «La grave crisi ambientale che ci sta dinnanzi esige una sempre maggiore sensibilità nei riguardi del rapporto tra gli esseri umani e la natura. Noi abbiamo una responsabilità nel trasmettere la bellezza della natura nella sua integrità alle future generazioni e abbiamo il dovere di amministrare in modo giusto i doni che abbiamo ricevuto. Tali valori sono profondamente radicati nell’anima africana. In un mondo che continua a sfruttare piuttosto che proteggere la casa comune, essi devono ispirare gli sforzi dei governanti a promuovere modelli responsabili di sviluppo economico».

Di ecologia si è parlato anche nell’incontro fra la delegazione vaticana, guidata dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, e quella keniana, in cui era presente il ministro dell’Ambiente che, riferisce il direttore della Sala stampa della Santa sede padre Lombardi, ha introdotto il tema della tutela del clima in vista della Cop21 di Parigi e assicurato l’impegno del Kenya per il vertice. E quello ambientale sarà uno dei temi che ricorrerà più volte durante i sei giorni della trasferta africana. Già questo pomeriggio, quando papa Francesco, dopo un incontro ecumenico ed interreligioso con i rappresentanti di varie fedi e una messa nel campus dell’università (molto probabilmente saranno ricordati i 147 studenti uccisi, ad aprile, dagli jihadisti di Al-Shabaab al Garissa University College), farà visita alla sede Onu di Nairobi, una delle più grandi al mondo, dove ci sono gli uffici della Unep (agenzia per l’ambiente) e dell’Un-Habitat (agenzia per gli insediamenti umani): «Ci si attende un discorso ampio che riprenda i temi della Laudato si’», ha anticipato Lombardi.

Domani Bergoglio partirà per l’Uganda, da dove, riferisce Frank Mugisha, leader della ong Sexual minorities, è giunta al papa da parte degli attivisti gay la richiesta di un’udienza privata e l’appello affinché denunci le leggi omofobiche: in Uganda l’omosessualità è un reato, punito anche con l’ergastolo.

il diritto all’esistenza della stessa natura umana». Il manifesto, 25 novembre 2015

Il papa va a Bangui ad aprire l’anno santo della misericordia e siccome le grandi idee hanno bisogno di simboli concreti il papa, per significare l’ingresso in questo anno di misericordia, aprirà una porta.

Ma per lo stupore di tutte le generazioni che si sono succedute dal giubileo di Bonifacio VIII ad oggi, la porta che aprirà non sarà la porta «santa» della basilica di san Pietro, ma la porta della cattedrale di Bangui, il posto, ai nostri appannati occhi occidentali, più povero, più derelitto e più pericoloso della terra.

Ma si tratta non solo di cominciare un anno di misericordia. Che ce ne facciamo di un anno solo in cui ritorni la pietà? Quello che il papa vuol fare, da quando ha messo piede sulla soglia di Pietro, è di aprire un’età della misericordia, cioè di prendere atto che un’epoca è finita e un’altra deve cominciare. Perché, come accadde dopo l’altra guerra mondiale e la Shoà, e Hiroshima e Nagasaki, abbiamo toccato con mano che senza misericordia il mondo non può continuare, anzi, come ha detto in termini laici papa Francesco all’assemblea generale dell’Onu, è compromesso «il diritto all’esistenza della stessa natura umana». Il diritto!

Di fronte alla gravità di questo compito, si vede tutta la futilità di quelli che dicono che, per via del terrorismo, il papa dovrebbe rinunziare ad andare in Africa («dove sono i leoni» come dicevano senza curarsi di riconoscere alcun altra identità le antiche carte geografiche europee) e addirittura dovrebbe revocare l’indizione del giubileo, per non dare altri grattacapi al povero Alfano.

Ma il papa, che ha come compito peculiare del suo ministero evangelico di «aprire la vista ai ciechi», ci ha spiegato che il vero mostro che ci sfida, che è «maledetto», non è il terrorismo, ma è la guerra. Il terrorismo è il figlio della guerra e non se ne può venire a capo finché la guerra non sia soppressa. La guerra si fa con le bombe, il terrorismo con le cinture esplosive. Non c’è più proporzione, c’è una totale asimmetria, le portaerei e i droni non possono farci niente. Possiamo nei bla bla televisivi o governativi fare affidamento sull’«intelligence», ma si è già visto che è una bella illusione.

Questo vuol dire che per battere il terrorismo occorre di nuovo ripudiare quella guerra di cui, dal primo conflitto del Golfo in poi, l’Occidente si è riappropriato mettendola al servizio della sua idea del mercato globale, e che da allora ha provocato tormenti senza fine, ha distrutto popoli e ordinamenti, suscitato torture e vendette, inventato fondamentalismi e trasformato atei e non credenti in terroristi di Dio.

E che cosa è rimasto di tutte queste guerre?, ha chiesto il papa nella sua omelia del 19 novembre, la prima dopo le stragi di Parigi. Sono rimaste «rovine, migliaia di bambini senza educazione, tanti morti innocenti: tanti! E tanti soldi nelle tasche dei trafficanti di armi»; ed è rimasto che perfino le luci, le feste, gli alberi luminosi, anche i presepi del Natale che ci apprestiamo a celebrare, sarà «tutto truccato».

E’ rimasto il grande movente della guerra e l’inesauribile riserva del terrorismo: il commercio delle armi, sia per incrementare le ricchezze private che per migliorare un po’ i bilanci pubblici. «Facciamo armi, così l’economia si bilancia un po’ – ha ironizzato papa Francesco – e andiamo avanti con il nostro interesse».

Rendiamo le armi beni illegittimi se non per le legittime esigenze di difesa di Stati sovrani, disarmiamo il dominio, l’oppressione, l’ingiustizia, l’ineguaglianza, la discriminazione e finiranno non solo le guerre ma finirà anche il mondo di guerra «questo mondo che non è un operatore di pace», e così anche il terrorismo si inaridirà e diverrà sempre più residuale.

E se decideremo di smetterla con i bombardamenti e la guerra, potremo promuovere una vera operazione di polizia internazionale, non solo autorizzata, ma eseguita dall’Onu, e non sotto un comando nazionale, per ristabilire il diritto nelle terre devastate dall’Isis e dunque ripristinare l’integrità territoriale dell’Iraq e della Siria, lasciando ai siriani di decidere cosa fare con Assad.

Il papa aveva detto, già dopo Charlie Hebdo, tornando dalla Corea del Sud, che «l’aggressore ingiusto ha il diritto di essere fermato, perché non faccia del male». Non è solo nostro dovere è suo diritto; e anche i giovani estremisti che vengono reclutati per andare in Siria a indottrinarsi e poi tornare in Europa a suicidarsi hanno il diritto di essere salvati da noi e di non avere alcuna Siria in cui andare a buttare la vita.

Questo è ciò che richiede il diritto internazionale se finalmente si darà attuazione al capitolo VII della Carta dell’Onu, ed è la cosa più «nonviolenta» che si può fare per neutralizzare e battere l’Isis.
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