Ho letto il testo di Paolo Desideri sulle periferie urbane pubblicato il 18 settembre su Repubblica e vorrei modestamente esporre qualche motivazione a completamento della mia parziale spiegazione dei problemi del quartiere ZEN a Palermo. Le motivazioni che ho addotto delle difficoltà di quel quartiere da me attribuite alla sua realizzazione parziale e senza i servizi previsti non sono poco. Vorrei qui aggiungere anzitutto che a conti fatti, credo, varrebbe ancora la pena di completare il quartiere ZEN, che potrebbe offrire così una condizione abitativa migliore dell´80% di ciò che è stato costruito a Palermo nel dopoguerra.
Belle o brutte poi, le costruzioni delle nostre periferie, nelle attuali condizioni di nessuna politica per le case a basso costo, sono tutte da utilizzare. Personalmente sono contro gli apparenti radicalismi delle demolizioni.
Desideri afferma però che la questione è più « strutturale» (come abbiamo imparato a dire da Karl Marx) e che esiste uno scollamento irreversibile tra i modelli offerti dal moderno per lo sviluppo della città e la cultura abitativa contemporanea. Giusto anzitutto il plurale perché i «modelli» sono molti e diversificati; dalla città giardino all´«unité d´habitation de grandeur conforme» e quindi diversi tra loro come lo ZEN e il Corviale di cui ho il massimo rispetto sia come qualità architettonica che come utopia. Mi pare invece che Desideri individui l´autentico nemico conservatore e passatista, nella pianificazione (flessibile o meno che essa sia) cioè nella costituzione di ipotesi di sviluppo compatibili e di regole da mettere in atto.
Quella che Desideri giustamente definisce «la mediocre utopia liberista» della deregolazione è invece ciò che presiede gli omogenei ed eterodiretti desideri della vastissima classe media. Giusto: anzi forse non ci sono più classi: solo ricchi e poveri, anche se questi ultimi aumentano sempre di più. Forse non si chiamano più proletari ma solo diseredati ma non per questo non necessitano di alloggi, di lavoro, di educazione, di sanità e, per far questo, uno sforzo collettivo, civile va fatto.
No, a me le questioni strutturali non sfuggono affatto; quello che mi sfugge sono le proposte alternative alle tradizioni del moderno; ciò che mi dispiace è che la cultura di architetti ed urbanisti non abbia saputo trovare nuove risposte credibili e durevoli dal punto di vista dell´architettura come da quello del vivere civile.
A meno di considerare una soluzione, una volta rivolto lo sguardo alla città diffusa, la sociologia e l´estetica della constatazione, del dilagare senza regole del costruito, della distruzione del bene finito territorio e della costruzione di un intrico costosissimo di infrastrutture all´inseguimento delle villette.
Dietro gli ideali del movimento moderno vi sono certamente illusioni, utopie e persino ingenuità, ma dietro alla città delle villette vi è solo la resa all´ideologia del soggettivismo postsociale: ci si può sempre arrendere ma penso che sia anche legittimo lottare per la ricostituzione proprio di quella «civitas» che viene invocata alla fine del suo testo.
Liberazione 8 agosto 2003
Cassonetti bruciati e rottami gettati in strada. Famiglie intere che bloccano il traffico. Una rabbia sociale che non si contiene. Sono le nuove barricate di periferia. Nuove trincee contro il degrado in cui versano i quartieri "dormitorio" di alcune metropoli italiane. Il tam tam silenzioso della rivolta contagia gli alloggi dello Iacp di Ostia, del Laurentino 38 di Roma o del S. Paolo di Bari. Da quindici giorni gli undici "ponti" del Laurentino 38 a Roma sono messi a ferro e fuoco. Gli abitanti sono scesi in strada, hanno formato barricate per manifestare contro le condizioni precarie nelle quali sono costretti a vivere. Si protesta per gli ascensori fuori uso da anni, per i rifiuti ammassati lungo le strade e nei giardini, per le infiltrazioni dell'acqua causate dagli scarichi a cielo aperto. Ed i cittadini denunciano una situazione sociale diventata insostenibile. Nella realtà i ballatoi dei "ponti" sono stati murati per farne alloggi abusivi. I nuovi poveri che bussano alla porta dell'Occidente ricco vengono a trascorrere qui le loro nottate dopo una giornata di fatica dedicata ad ingrassare qualche "padrone" dalla pelle più bianca della loro. E allora la protesta potrebbe innescare violenze a non finire. «Stiamo contenendo l'occupazione quotidiana di tanti extra-comunitari - ha dichiarato Salvatore Grilletto, residente al X ponte del Laurentino e rappresentante delle Rdb - Finora abbiamo dato un esempio di tolleranza, ma non vorrei che la situazione peggiorasse. Chiediamo maggiore vigilanza a tutela di tutti». E tre giorni, fa proprio al Laurentino, i residenti del IV e V ponte hanno incendiato i cassonetti e bloccato il traffico. I manifestanti chiedono la riparazione di un ascensore, maggiore pulizia, tutele contro la microcriminalità dilagante, la presenza della polizia. Il Laurentino, come lo Zen di Palermo o il S. Paolo di Bari sembra una polveriera sempre pronta ad esplodere. Analogamente a quanto avvenuto a Scampia a Napoli nel mese di giugno, la rivolta investe anche gli "occupanti della notte". La convivenza con gli extra-comunitari avviene in condizioni di completo abbandono da parte delle istituzioni. E la rivolta del Laurentino ha avuto un suo epilogo. Alle 3 del mattino, proprio al X ponte, si è verificato l'ultimo sgombero forzato. Benzina per dare fuoco ai giacigli della disperazione, ed è stato il fuggi-fuggi. Questi sono i quartieri delle nuove periferie. Enormi, densamente popolati, privi di servizi, nell'insieme paurosi. Che fare allora? C'è chi pensa alla demolizione e chi alla riqualificazione. E la mente va alle "Vele" di Napoli che saltano in aria oppure a "Sorridi città", operazione di capitalizzazione delle facciate del patrimonio immobiliare dello Iacp a Bari. A Roma con il piano regolatore del marzo 2003 si è proposto l'abbattimento degli ultimi tre ponti del Laurentino. Un'operazione limitata che non investe il quartiere nel suo complesso. Meglio allora, come sostiene Rifondazione comunista, dare impulso ai progetti di recupero e di integrazione sociale. Lavoro, istruzione e dignità, anzitutto. Il tam tam della rivolta invoca pari diritti nell'accesso alla vita. Per tutti.
Indagine: caro-abitazione al primo posto tra le spese degli italiani
Casa dolce casa. Corsa all'acquisto dell'abitazione nel centro Italia, e nel nord consumi soprattutto per prodotti non alimentari, mentre cresce la spesa alimentare nel Mezzogiorno anche se cala il consumo di olii e grassi. Tiene la carne anche dopo la paura di mucca pazza ma aumenta il consumo di pesce. Spendono così, gli italiani, secondo l'ultima indagine diffusa da Confcommercio che fotografa gli usi delle famiglie italiane nel quinquennio 1997-2002, evidenziandone le differenze geografiche. Dal borsellino delle famiglie italiane escono ogni mese soldi impegnati per il 24% in spese per la casa, 19,4% in alimenti e bevande, 14,3% in trasporti, 11,1% in altri beni e servizi, 6,8% abbigliamento e calzature, 6,4% mobili ed elettrodomestici, 4,9% tempo libero, cultura e giochi, 3,8% sanità. In questi anni la spesa media delle famiglie è cresciuta dell'8,3% con punte del 15% per le regioni del centro. Inferiore, invece, nelle regioni del sud (6,3%) che peggiorano di oltre un punto percentuale il gap che le separa dal livello medio di spesa familiare degli italiani. E se le famiglie del nord hanno incrementato in maniera significativa (7%) la spesa per i consumi non alimentari, nelle regioni meridionali il comportamento delle famiglie resta di tipo tradizionale ed evidenzia una maggiore attenzione alla spesa per la tavola (10%).
Dentro il dibattito autoreferenziale degli addetti ai lavori, irrompe talvolta il punto di vista di chi specialista non è, e forse proprio per questo finisce per vedere quello che sfugge agli esperti. È il caso, mi pare, dell´articolo di Michele Serra («Le periferie dimenticate dalla società dei sapienti» uscito su Repubblica il 26 agosto) a commento dei fatti di Rozzano.
Sul tema delle "periferie", dell´assenza di qualità dello spazio fisico e sociale che le caratterizza, Serra propone una elementare domanda che sembra fare piazza pulita dei tanti dibattiti degli addetti ai lavori: «Ma io vivrei lì, in quel clima sociale, con quel paesaggio davanti alle finestre?».
Una domanda a lungo elusa da noi architetti, che sembra porsi tuttavia persino la gente comune. Meglio sarebbe dire che da almeno trent´anni si è posta la gente comune mentre quella che Serra definisce la "società dei sapienti" - cioè gli architetti, gli urbanisti, gli amministratori - continuava a progettare, in cieca buona fede, i Corviale, gli Zen, i Tor Bella Monaca, i Laurentino 38. Uno iato ormai quasi incolmabile, quello tra le attese della gente comune e la cultura architettonica, che è possibile far risalire almeno agli anni Settanta. È a partire dalla seconda metà di quel decennio, infatti, che si segnala una svolta nel fenomeno dell´abusivismo edilizio. La casa abusiva diviene strumento di una società che non è più in grado di condividere i valori e la cultura abitativa proposta nella città pianificata. «Il rifiuto di un quartiere costituito da case multipiano è espressione di un giudizio negativo sulla incongruenza dell´impianto urbanistico con tipologie ad alta densità, che determinano una sindrome da ghetto appartenente alla tradizione dei quartieri popolari di periferia (...). L´indiscussa vincitrice del referendum sulla casa desiderata è risultata la piccola dimensione: il 56,9% degli intervistati ha indicato nella casa di borgata il luogo preferito dove vivere».
Era il 1983 e il Censis (nella Indagine conoscitiva sul fenomeno dell´abusivismo edilizio, realizzata su incarico del Comune di Roma) proponeva un´interpretazione dell´abusivismo edilizio come risposta alla deludente qualità della vita che gli ambienti urbani della città pianificata moderna sapevano garantire ai loro abitanti: «Il trasferimento nell´alloggio costruito illegalmente solo in pochi casi si configura come un evento dettato da una stringente necessità. Nella generalità esso appare invece come l´occasione di un miglioramento voluto e consapevolmente pianificato dagli standards abitativi. L´alloggio abusivo rappresenta quindi, per la maggioranza degli intervistati, la conquista di un miglioramento sostanziale del comfort abitativo. Accanto all´incremento della superficie abitabile e del numero medio di stanze si può rilevare un pronunciatissimo incremento delle superfici accessorie dell´alloggio e delle superfici scoperte di pertinenza dell´abitazione, specialmente costituite dai giardini e dalle aree libere».
Una bella lezione per gli architetti: a fronte della nostra incapacità di garantire qualità all´ambiente urbano, la gente comune cominciava ad autocostruirsi la sua villettopoli. Cominciava a percorrere quella strada che oggi consegna i nostri territori metropolitani a un oggettivo paradosso: da un lato ettari di aree suburbane informi (nelle quali, tuttavia, la gente vive volentieri); dall´altro interventi pianificati per mano pubblica (dove ogni persona in regola con la propria intelligenza non vorrebbe vivere).
Fin da allora dunque ce ne sarebbe stato a sufficienza per allertare "la società dei sapienti", che però ed al contrario, proprio in quegli anni metteva a segno alcuni tra i meno amati interventi edilizi di mano pubblica. Un "fiasco", a cogliere il giudizio pressoché unanime dei non addetti, che non ha nulla a che vedere, si badi bene, con la speculazione edilizia e con i cosiddetti "palazzinari", se è vero che le forze messe in campo per la progettazione provengono in buona parte dalle file giuste. Proprio in quegli anni e di fronte a quelle attese, Vittorio Gregotti e Franco Purini realizzano il quartiere Zen a Palermo (1970); Mario Fiorentino il Corviale a Roma (1974). Mi limito a citare questi due esempi perché in questi due casi, forse più che per i tantissimi altri esempi che si potrebbero citare, la divaricazione tra quello che in campo cinematografico chiameremmo il giudizio della critica ed il giudizio del pubblico, misura la maggiore distanza.
Perché dunque noi architetti abbiamo tanto apprezzato il Corviale e lo Zen che al contrario ogni persona "in regola con la propria intelligenza" ha individuato come manifestazione evidente dell´invivibilità dello spazio urbano contemporaneo?
Mi convince solo parzialmente la spiegazione che fornisce Vittorio Gregotti (Repubblica del 30 agosto): lo Zen non ha funzionato perché mai furono realizzati i servizi previsti, perché il progetto fu compiuto in modo frammentario, perché da subito l´amministrazione Ciancimino tentò di sottrarre ai progettisti ogni possibilità di controllo della realizzazione. Non è poco, certo. Anzi ce n´è a sufficienza per assicurare il fallimento di qualsiasi buon progetto. Ma tutto questo non coglie quello che a me pare il dato essenziale, e cioè lo scollamento irreversibile che con il Corviale e lo Zen noi possiamo misurare tra i modelli urbanistici messi a punto dal Movimento Moderno nel corso del Novecento, ed i modi e le attese e la cultura (o la sub-cultura) abitativa contemporanea nelle società post-capitaliste. Lo Zen e il Corviale rappresentano il punto di arrivo di una ricerca che in campo architettonico parte dal lavoro delle avanguardie degli anni Venti e Trenta, e si alimenta del pensiero dei grandi maestri del Movimento Moderno come Gropius e Le Corbusier. Un modello fondato in quegli "eroici" decenni della prima metà del Novecento, a partire dalle tumultuose esigenze di una società e di un´economia fondata sulla produzione industriale, sulle fabbriche, sulla manodopera, sulle lotte operaie, su un pensiero ancora di stampo modernista-determinista che garantiva un futuro inscindibilmente legato al progresso. Lo Zen e il Corviale sono il punto di arrivo di tutto questo: il che spiega l´apprezzamento degli architetti.
Ma proprio per questo essi rappresentano allo stesso tempo quanto di più distante possa essere percepito dalla società contemporanea. Dentro la quale sembrano scomparsi tutti gli attori che popolavano sino a ieri la società moderna: non più operai con le chiavi a stella; non più fabbriche; non più classe operaia ed anzi definitivamente non più classi sociali in assoluto; non più politica; niente più determinismo; e un futuro che appare non più irreversibilmente legato al progresso ed allo sviluppo.
Più consone alle attese e alla cultura abitativa dell´uomo contemporaneo, le tipologie autocostruite della città non pianificata, le casette della città diffusa, rappresentano la mediocre utopia liberista di un soggetto che in quelle architetture senza architetti realizza il suo contraddittorio paradiso individualista. Basterebbe guardarle con meno disgusto per rileggere, in filigrana, il soggetto metropolitano che le abita, le sue attese, la sua cultura abitativa. Un uomo metropolitano contemporaneo che a differenza di quello moderno si caratterizza subito per il suo fortissimo individualismo. È un soggetto che sembra l´opposto esatto di quello per il quale il moderno aveva efficacemente costruito una precisa cultura abitativa attraverso altrettanto precise tipologie edilizie. Sui Corviale, sugli Zen, sui Tor Bella Monaca, allora, si addensa il confronto, irreale, tra due culture dell´abitare: l´uomo e la cultura urbana moderna per il quale quelle tipologie furono messe a punto nel corso del secolo ormai passato; e l´uomo e la cultura che dovrebbe abitarle oggi, senza avere più nulla da spartire con i valori che quello spazio metteva in figura. Le motivazioni di Gregotti non percepiscono la crisi "strutturale" delle periferie di stampo modernista dentro la metropoli contemporanea. Una crisi che proviene dall´inadeguatezza del modello di città proposto e che ben poco ha a che vedere con la sua completezza.
Ma allora tutto questo mi sembra converga verso un limite: la cultura urbana espressa dal moderno, che è alla base della formazione di noi architetti, che è tuttora la struttura principale dell´insegnamento di architettura, è ampiamente superata nei fatti e dalla cultura materiale della gente comune. Solo partendo da questa definitiva consapevolezza potremo, e dobbiamo con urgenza e con passione, rifondare un rapporto accettabile tra urbs (cioè città fisica) e civitas (cioè società civile).
Ricordo com’erano le periferie delle nostre città, mezzo secolo fa. Erano luoghi lontani dalla città. Le periferie erano oltre le mura, oltre i sobborghi legati alla città vecchia dalla crescita di poche case, allineate lungo una strada. Erano, prevalentemente, in campagna: la interrompevano con i quartieri popolari di casermoni a molti piani, abitati prevalentemente dagli operai e dai contadini immigrati, o con le casette dei vari stili impiegati dagli architetti del regime (fascista) o da quelli della democrazia, oppure ancora (soprattutto a Roma) nei tuguri e nelle baracche di legno, lamiera e carrozzerie sfasciate.
Del resto l’Italia, fino allora, era ancora prevalentemente costituita da paesi e piccole città. Il fascismo aveva tentato, non senza successi, di frenare quello che veniva definito (e deprecato) come “urbanesimo”, considerato un pericolo anche socialmente: qualcuno si sarà ricordato, allora, il detto “l’aria della città rende liberi”? Nelle stesse terre che aveva bonificato, le Paludi Pontine, non aveva costruito metropoli, ma poche cittadine e una miriade di piccoli borghi.
Gli italiani vivevano ancora prevalentemente dell’agricoltura. Ogni palmo di terra era coltivato: nell’economia, la regola dell’autarchia aveva cancellato tutte le altre: la produttività non contava, contava solo la produzione. Le campagne, le colline, e anche le pendici e le valli delle montagne erano abitate da paesi, borghi, gruppi di case, casolari. Avevano magari la dimensione (ma non la struttura, non la vita) delle città i grandi paesi nelle terre del latifondo, in Calabria, Sicilia, Puglia, Lucania, dove i contadini vivevano a ore di distanza (a piedi o a dorso di mulo) dalla terra che coltivavano.
I quartieri e le borgate, che costituivano la periferia della città, ospitavano abitanti espulsi dai centri (come a Roma, a causa delle operazioni di bonifica edilizia nel centro), oppure contadini immigrati, respinti dalla povertà e attirati dal lavoro nelle fabbriche. Spesso erano paesi trapiantati in città, oppure ne avevano l’aspetto. I loro abitanti erano segregati dalla vita urbana: conoscevano la città attraverso i luoghi di lavoro: le case dei borghesi dove andavano a servizio, le fabbriche dove si inserivano nella catena di montaggio. Quasi come contropartita, le periferie avevano una identità precisa. Erano dei “luoghi”, ciascuno caratterizzato da un evento, da un comune destino, da un nucleo elementare di servizi (è bene ricordare che in quegli anni anche la fontana era un servizio: non serviva per abbellire, ma per gli usi domestici).
Le cose sono cambiate, violentemente e drammaticamente, proprio a cavallo del 1950. Per una serie di ragioni che sarebbe lungo raccontare, la decisione politica che fu assunta fu quella di affidare lo sviluppo economico e sociale ad alcuni settori portanti, tra cui svolgevano un ruolo di primo piano l’edilizia e la produzione di beni di consumo durevoli, e di inserire questo sviluppo in una cornice in cui, alle regole e alla libertà di una democrazia sempre più dispiegata, si accompagnava la difesa, ideologicamente motivata, della proprietà privata: anzi, la sua promozione, con l’assistenza dell’intervento pubblico.
Fu su queste basi che si raggiunse l’obiettivo di inserire l’economia italiana nel mercato mondiale, di spostare l’asse della vita economica dall’agricoltura all’industria manifatturiera, di accrescere il benessere e di ridurre le sacche di malcontento. Il prezzo più visibile che fu pagato dalle generazioni che sono succedute fu la distruzione della città e del territorio. La modernizzazione del paese fu raggiunta con quello che, dalle denuncie di Antonio Cederna, ricordiamo come lo scempio del Belpaese.
Lo scempio non fu solo costituito dalla distruzione di paesaggi, dalla devastazione di architetture, dalla dispersione di testimonianze della storia, dal saccheggio e dalla degradazione di preziose risorse naturali. Fu costituito anche dalla degradazione della città nel suo insieme. Gli antichi nuclei formati nei secoli che precedettero la cultura del cemento armato e del dominio del privatismo proprietario, accresciute con misura, e in una sostanziale continuità di disegno, nel secolo che precedette la seconda guerra mondiale, sono stati affogati da un’espansione indifferenziate di case e strade, in un caotico insieme di aggregati di alloggi uniti soltanto dalla rete del traffico automobilistico, dove la società si è tendenzialmente dissolta in una massa di individualismi, la complessità si è annullata in monofunzione, la comunicazione si è rovesciata in solitudine. La tendenza è stata insomma quella della distruzione della città da parte della periferia: anzi, delle periferie.
Esistono in effetti molti tipi di periferie. Come ogni altra parte della città, le caratteristiche sono determinate soprattutto dalla loro nascita. Le periferie della “città pubblica”, nate per un programma socialmente orientato, su aree preventivamente acquisite dalla mano pubblica, secondo un progetto urbanistico definito e chiaro (a volte vittorioso alla prova dei fatti, altre volte sconfitto). Le periferie della speculazione tipica degli anni Sessanta, su un impianto urbanistico simile a quello della città dei decenni precedenti ma con un’estensione cento volte maggiore e densità edilizie decuplicate. Le periferie della speculazione fondiaria più moderna, condizionata dalla regole della lottizzazione convenzionata introdotta dalla “legge ponte”, meno povere di qualità edilizia e urbanistica ma nettamente separate dal resto della città. Le periferie dell’abusivismo urbanistico (attorno a Roma e le città del Mezzogiorno), manifestazione al tempo stesso proterva e miserabile dell’assenza, o del disprezzo, delle regole comuni della civitas. E le periferie della “città diffusa”, pulviscolo periurbano di case, casette, ville, villette e villettine, prevalentemente figlie del permissivismo delle legislazioni regionali, o delle loro applicazioni comunali nell’interpretare e nel piegare a fini di “sviluppo” le normative delle zone agricole.
Queste diverse tipologie si articolano poi e si declinano a seconda del luogo e del tempo. Così, i “quartieri” della città pubblica nati prima della legge 167 del 1962 scontano la segregazione provocata dai provvedimenti di finanziamento, destinati ora a quella categoria sociale, e le difficoltà nell’acquisizione di aree a prezzo sopportabile dai bilanci pubblici: in quelli successivi invece, almeno nelle regioni dove si è affermata una prassi di pianificazione urbanistica e di governo del territorio, l’integrazione tra i diversi ceti sociali, il livello di dotazione di servizi, l’efficienza degli impianti e della gestione urbani, l’integrazione con la città ne fanno degli esempi a livello dei migliori casi europei. E così, ancora, l’abusivismo straccione delle centinaia di casette tirate su dal tramonto all‘alba su lotti di 500 o 1000 mq uguali l’uno all’altro nella periferia romana degli anni Cinquanta è ben diverso da quello che ha impiegato i modelli edilizi e il i target di consumo del mercato legale.
Un fatto è certo. Le periferie rappresentano oggi la città: è qui che si gioca la scommessa sul futuro della civiltà urbana. Ciò che è stato urbanizzato e costruito fino alla fine della seconda guerra mondiale ha seguito, in un modo o nell’altro, le regole che fino allora avevano determinato le trasformazioni urbane: dopo, le regole sono state travolte. La quantità (si calcola che il territorio urbanizzato è aumentato, nel cinquantennio, di cento volte) è diventata negazione della qualità. Nelle periferie, èla città stessa che si è degradata.
Così come sono state configurate nella grande maggioranza dei casi le periferie sono infatti la non città. Se la città è comunicazione, incontro, condivisione, identità (piazza, viale, passeggiata, centro, municipio, fontana, giardino), la periferia è divenuta “dormire e mangiare”, televisione, parcheggio e automobile, solitudine, anomia e anonimia.
Il fatto è che - come ho accennato - fino ai primi anni del dopoguerra le periferie erano parti della città: vivevano dei suoi servizi, del suo centro, e possedevano esse stesse (i quartieri e le borgate delle periferie) nuclei elementari di vita sociale. Oggi, gli antichi centri, le antiche città sono ricordi affogati nell’indistinta ameba del continuum urbano. La sete di relazioni, di vita sociale, di incontri rimane inappagata. Quanto essa sia intensa lo dimostrano gli episodi di vitalizzazione del centro storico, che richiamano nel luogo della centralità e degli incontri la parte più mobile della popolazione: i giovani.
Il primo episodio fu quello promosso da Renato Nicolini, assessore alla cultura a Roma, Sindaco Giulio Carlo Argan, negli anni Ottanta. Con una serie di iniziative culturali aperte si invitarono i giovani a venire, la sera, nelle piazze del centro. I locali rimanevano aperti fino a tardi, le strade e le vetrine illuminate. Fu un trionfo. In autobus e in motoretta, in automobile e a piedi, centinaia di migliaia di abitanti delle lontane borgate e dei quartieri intensivi delle periferie venivano nel centro, si impossessavano della città che non avevano mai conosciuta. Era voglia di evasione dai luoghi senza vita dove la maggior parte della popolazione era costretta a vivere, ed era voglia d’incontro, di scambio, di condivisione: era voglia di città.
È possibile soddisfare questa aspirazione, rispondere in termini non episodici ed eccezionali alla voglia di città? È possibile “urbanizzare” le periferie, renderle città? Questa è la grande scommessa dei prossimi decenni. Vincerla non sarà facile. Occorrerebbe in primo luogo avere chiare le direttrici dell’azione, gli obiettivi da raggiungere, i percorsi da seguire. Bisognerebbe comprendere, in primo luogo, che le periferie non si rinnovano se non si rinnova la città. Occorre una visione strategica, un progetto d’insieme della città, un “piano”: se non c’è , oppure se non è adeguato all‘obiettivo di riqualificare le periferie, occorre farlo. La città è un organismo unitario: non si salva a pezzi se i pezzi non sono tessere d’un mosaico chiaramente definito e condiviso. È solo a livello dell’intero sistema urbano e territoriale, del resto, che si possono risolvere due dei più gravi problemi che affliggono la vita delle periferie: quello del traffico e quello dell’organizzazione dei servizi e dei “luoghi centrali”.
Bisognerebbe poi assumere consapevolezza piena, nelle regioni devastate dall’abusivismo, che il ripristino della legalità violata è la premessa necessaria per qualsiasi operazione di riqualificazione della città e delle sue parti. Il recupero dei quartieri abusivi non può essere la premessa della sanatoria: esso deve essere possibile, invece, solo là dove le condizioni (urbanistiche, amministrative, patrimoniali) hanno consentito la sanatoria e questa è già avvenuta.
Bisognerebbe poi stabilire priorità precise, per rendere attendibile l’esito della riqualificazione. Due mi sembrano i parametri da prendere in considerazione per individuare le situazioni dove maggiori sono i margini di manovra e migliori le possibilità di riuscita: la densità territoriale e la situazione patrimoniale. È evidente, infatti, che il ridisegno dei quartieri, l’arricchimento delle funzioni (la “complessificazione” funzionale), la progettazione degli spazi pubblici sono operazioni praticabili dove la densità è ragionevolmente bassa e dove una configurazione vivibile può essere raggiunta senza riduzione del numero degli abitanti. Ed è altrettanto chiaro che la proprietà indivisa dell’area costituisce un requisito di base difficilmente sostituibile dalle improbabili alchimie delle contrattazioni tra proprietà suddivise.
In molte aree urbane, soprattutto dell’Italia del sud e del centro, i quartieri pubblici sono stati additati come il simbolo del degrado urbano: basta evocare lo Zen a Palermo o le Vele di Scampia a Napoli o Corviale e Laurentino 38 a Roma. Un’analisi attenta farebbe comprendere come le colpe siano più nell’assenza di gestione sociale che negli errori dei progetti. Ma mi sembra che proprio da quei quartieri potrebbe partire una sperimentazione nella quale la bassa densità territoriale e il controllo pubblico degli immobili potrebbero consentire l’introduzione di servizi e di funzioni urbane qualificate (e quindi la “complessificazione”), il miglioramento dell’accessibilità (e quindi dell’appetibilità per le utilizzazioni rare), e dunque la trasformazione dei quartieri dormitorio in parti della città.
Molto più difficile una riqualificazione delle vaste plaghe della periferia a bassa densità dove il modello sociale e urbanistico della casa unifamiliare su lotto recintato. In esse, la bassa densità territoriale consentirebbe, dal punto di vista tecnico, di definire soluzioni soddisfacenti e praticabili. Ma quando l’assetto fisico e sociale è profondamente segnato dall’individualismo proprietario il riscatto urbano apre contraddizioni difficilmente gestibili: occorreranno molto tempo e molta pazienza per far maturare le condizioni (innanzitutto sociali e culturali) che consentano di riqualificare porzioni significative delle fasce perturbane.
Ancora più complessa, e addirittura improbabile, una riqualificazione profonda dei quartieri ad alta densità. Lì ci si dovrà limitare a promuovere la “complessificazione” funzionale, attraverso un impiego rigoroso del controllo pubblico delle destinazioni d’uso, e a ridisegnare l’assetto degli spazi pubblici utilizzando le disponibilità delle abbondanti reti stradali dopo avervi “banalizzato” il traffico, e unificando in un unico disegno i brandelli di aree destinate al consumo sociale.
La difficoltà che si incontreranno, se si vorrà assumere sul serio l’obiettivo della trasformazione delle periferie in città, danno la misura degli errori che si sono compiuti nel mezzo secolo trascorso. Non è questa la sede in cui interrogarsi sulle responsabilità di quegli errori, nà sulle loro matrici. Vale però la pena di sottolineare un rischio nel quale si può cadere di nuovo, in questi tempi nei quali l’allentamento delle regole, la valorizzazione del “privato”, il consenso dei ceti sociali più forti sembrano gli obiettivi centrali degli amministratori delle città. Il rischio di dimenticare che la città, per la sua stessa natura, richiede l’esercizio di un potere pubblico forte, autorevole, determinato, dotato di una visione lungimirante e capace di far prevalere gli interessi della collettività su quelli dei singoli individui e gruppi, di tutelare gli interessi delle generazioni future a fianco di quelli del presente.
Nelle aree e nelle città in cui si è saputo comportarsi così nel cinquantennio che sta alle nostre spalle, oggi le periferie sono città, non pongono i problemi gravi che inquietano altrove. Non sarebbe male ricordarlo. Altrimenti, l‘impresa di riqualificare le periferie correggendo mezzo secolo di errori non meriterebbe neppure d’essere avviata, perché sarebbe condannata al fallimento.
Ho letto qualche intervento sulle periferie sul tuo sito. Ho letto anche le sciocchezze sui giornali, di chi, alla ricerca (inconsapevole, naturalmente) di una sorpassata "ecologia sociale", tenta grottescamente di correlare certo sviluppo urbano con la devianza dei cittadini: un semplicismo bigotto che raggela l'animo ma non stupisce, perché cosi va questo mondo "real tv", e questa "politica tg4". Ho pensato, appena ho visto il ritorno del tema "periferia", che si trattasse del solito "tormentone" estivo, ed in parte, credo, lo è stato.
Ma c'è di più. La memoria, per esempio. Che è diventata un problema mantenere ("manutenere") nonostante le capacità archiviative e consultative di cui oggi disponiamo. Quanta ignoranza ruspante c'è nelle righe di chi scrive articoli (anche strumentali) su fatti e luoghi che hanno una storia, profonda e (tra l'altro) assai studiata, e vengono raccontati con argomentazioni funamboliche e anacronistiche? Come se 150 anni di filosofi, sociologi, architetti, urbanisti (ecc.) e quintali di carta stampata - sul tema "periferie" e "cittadini periferici" - non fossero mai esistiti, i moderni "informatori" ci "aggiornano" sulle loro scoperte: come antropologi in una nuova foresta, a contatto con tribù remote e incontaminate, lavorano a reportage strepitosi, per lettori vergini; conviti d'essere originali! Forse questi "peones" dell'informazione sono il veicolo più (pericolosamente) audace per riscrivere la storia. Perché, com'è noto, la storia l'hanno scritta i comunisti.
Ma c'è ancora dell’altro. Che dire della "periferia" che sta in alcuni centri storici, o in alcuni centri e basta, di alcune città italiane. Troviamo bellissimi edifici e paesaggi costruiti da lasciar il fiato sospeso, nei centri storici. Non c'è (molto spesso) l'ombra di casermoni né la mano di architetti post moderni (e vetero comunisti). Eppure, vivendo o passando, in qualche centro storico, mi sembra di vedere "sporcizia", "degrado", "incuria", "assenza di servizi alle famiglie", "insicurezza"; che sono, mi pare, gli attribuiti delle neglette periferie. È vero, c'è la "bellezza" del centro che compensa. Ma può l'uomo vivere di solo pane?
E ancora. Ho rivisto qualche notte fa il film "I piccoli maestri" (di Daniele Lucchetti), dove si tenta (con buon esito) di raccontare la storia (una parte) dell'ultima guerra mondiale dopo l'8 settembre (?); dove i protagonisti (i piccoli maestri) si danno regole per bandire la retorica della loro azioni. La punizione, per chi non rispetta la regola, è "pane e acqua per una settimana". Non mi astengo allora dall'augurare "pane e acqua per una settimana", a chi si spinge sulla fune dell'informazione saldamente legato alla retorica. Molti giornalisti (e politici, e pensatori, e opinionisti, e...) sparirebbero, credo, per la magrezza provocata da questo austero pasto.
Mi ha colpito una originale interpretazione musicale della nuova periferia milanese. Il ricorso alla musica nei discorsi sull’architettura e sull’arte che vanta non pochi autorevoli precedenti del Novecento (Ginzburg, Taut, Le Corbusier, Badovici, Ozenfant, Kandinsky…) è sempre più abituale fra architetti e urbanisti. Mi devo adeguare. “Lo spazio periferico e della dispersione” sarebbe ”qualcosa di più importante, di più coerente alla nostra società, al nostro sistema di valori, anche alle nostre aspirazioni, solo che lo si sappia cogliere. […] la periferia è come il passaggio dalla grande musica che tra Rinascimento e secolo scorso [XIX) si assesta nelle grandi forme dello ‘stile classico’ alla musica di Shönberg, Berg, Debussy […]. Dall’abbandono delle grandi forme compositive sono derivati alcuni fondamentali problemi” [1]. L’autore sta scrivendo del “dilagare metropolitano” [2], circa il quale fenomeno altrove mette in guardia da esprimere un giudizio, talora diveniente “esplicito rifiuto” infine impedimento “a cogliere il nuovo che è in marcia” [3]. Allora l’autore giudica, questo “nuovo” è un avanzamento, direi una rivoluzione se lo si paragona alla musica dei due viennesi (Debussy sembra appiccicato lì). Quanto ai problemi: non risolti, si direbbe. Il “passaggio”, mi pare, avviene altrimenti: sull’onda del Romanticismo, accensione del pieno sentimento sulla base della ratio nei secoli verificata. Schönberg secondo la critica condivisibile di Adorno appartiene al filone romantico, in lui la ragione dodecafonica vive nel permanere di quello spirito [4]. Proviene da Wagner e da Brahms; la vocazione rivoluzionaria risale a Bach. La dodecafonia, una piena rifondazione delle strutture musicali, da un lato è costruzione di un nuovo ordinamento, la mirabile rete di sostegno costituita dalla funzione prioritaria delle serie di dodici note; dall’altro, proprio grazie alla chiarezza dei vincoli, è invito, se colti nel loro cuore già pulsante di creatività, a libertà forse sconosciute sia alla musica esclusivamente tonale, sia alle forme dell’espressionismo più coraggiose (egli stesso, qui, precedente protagonista). Vincoli e libertà che riconducono alla potenza della revisione bachiana (l’equabilità nelle ventiquattro paritarie tonalità del Clavicembalo ben temperato). D’altronde i quartetti di Schönberg antecedenti o successivi al manifesto della dodecafonia stanno alla pari dei quartetti di Beethoven. Se per “grandi forme compiute” si intendono le sinfoniche, nemmeno queste mancano, sebbene non possa essere questo il solo punto dirimente.
Cosa c’entrano con tutto ciò quelle periferie se non al contrario quanto a simbiosis fra ragione e sentimento? Chi sa ascoltare l’architettura, lo spazio umanizzato, la composizione urbana, il paesaggio, quando ha cercato di ascoltare anche quei pezzi di “città esplosa […] brutta” [5], non ha udito, sentito (recepito con tutti i sensi) musica. Svagavano nell’aria suoni fessi o muti, cosa ben diversa dal silenzio delle pause, indispensabile deuteragonista della composizione musicale. La musica è forse la suprema delle arti dal momento che raduna a sé tutte le altre, compresa l’architettura [6]. Come accostarvi tale periferia? Né reggerebbe un paragone fra spontaneismo di certi assetti residenziali neo-coreani, all’apparenza, e la musica popolare o la musica improvvisata. La prima è piena di convenzioni molto serie. Le improvvisazioni, sia la più frequente espressione nell’età barocca fino a metà del Settecento, sia un Mozart al clavicembalo (che poi le trascriveva), sia le cadenze (tutte tramandate in scrittura), sia la forma più significativa, il jazz dei due periodi d’oro, non avrebbero potuto sussistere senza le strutture, architettoniche direi, di riferimento. Peraltro questa città esplosa potrebbe essere così “perché qualcuno l’ha pensata” [7]. Quanto ai nuovi mostri del terziario finanziario e/o commerciale sparpagliati nella metropoli, non dovrebbe restare a noi architetti , non alla musica, che un rumoroso silenzio di protesta per tanta protervia. Sempre altrove l’autore attribuisce alle “lottizzazioni della città diffusa” caratteri di “discontinuità, eterogeneità, apertura, assenza di narratività, di una logica narrativa e dispositiva” [8]: un mondo opposto a quello del progettista Schönberg, rigore ed espressione in uno, ma anche a quello di tutti gli altri grandi compositori. Sicché solo per benevolenza, penso, altri concede che la necessaria “educazione [degli studenti] alla dimensione sinfonica, alla complessità del progetto possa corrispondere “l’ascolto della musica schönberghiana che forse si può rintracciare nella periferia” [9]. Diverso dall’impossibile rintracciamento per inesistenza della cosa nella realtà è la possibile scoperta di un incitamento al progetto attraverso difficili percorsi mentali spirituali corporei nell’ascolto. Si dà il caso, davvero interessante sul piano della trasmissione per vie misteriose di messaggi non inviati per vie normali, che parecchi anni prima facessi ascoltare agli studenti il terzo quartetto di Schönberg (1927, dodecafonico) mentre ci si accingeva a progettare “nuovi spazi locali” in comuni dell’hinterland. Cosa ne venne, da Schönberg? Non so nulla di risultati diretti. So di un piccolo deposito di sensazioni in alcuni studenti, so delle discussioni non banali con loro: giovani che forse avrebbero conquistato in seguito la maturità degli allievi del maestro viennese, ai quali egli si rivolge con grande rispetto nella prefazione al corposissimo Manuale di armonia, poche pagine di un grande insegnante ed educatore [10].
Città “diffusa”… Aggettivo insufficiente per indicare sia negatività sia positività. Se si aggiungono le definizioni citate e altre note, per esempio “confusa”, tutte convergono verso l’immagine di uno spappolamento, letteralmente, come in medicina, un processo di alterazione delle strutture di un tessuto prodotto da gravi lesioni, una perdita di consistenza riducentesi a poltiglia, come “il tessuto perduto della coscienza” [11] di urbanisti e architetti. Emerge la realtà del circondario milanese nella mezza corona settentrionale, e di altre agglomerazioni ravvicinate quali la Brianza, Busto Arsizio con Legnano e Gallarate, ecc. [12].Ma una metropoli diffusa potrebbe consistere in tutt’altra organizzazione e forma del territorio. Definendole policentriche vi si attribuisce un titolo di assoluta positività. Esse persistono, dure a morire, anche nel milanese, rappresentate grosso modo dalla semi-corona opposta alla precedente: eredità residuale, modesto e vacillante lascito da un ben più grande patrimonio non gravemente intaccato fino al secondo dopoguerra. Troppi urbanisti italiani, usando l’aggettivo “diffusa” puro e semplice in senso positivo riguardo al “dilagare metropolitano” e nascondendone i risvolti affatto preoccupanti, esprimono la portata della svolta culturale: perdita di ogni legame con la storia sia del territorio lombardo e milanese sia delle teorie e sperimentazioni corse in un secolo e mezzo di sviluppo del pensiero sociale e urbanistico. Quando essi un po’ piegati a sociologi avvisano del pericolo insito in prese di posizioni culturali ritenute elitarie (osare giudicare persino il bello e il brutto) a fronte di fenomeni insediativi metropolitani tipo le lottizzazioni residenziali piccolo-borghesi o i Monte Bianco del terziario e i centri commerciali dell’ultima generazione (i finti paesetti), e dei relativi comportamenti, sanno bene qual è l’oggetto in discussione: quella poltiglia invasiva e pervasiva a flussi e a salti come una lava o come i baccelloni del vecchio film di fantascienza Una cosa dall’altro mondo. Può darsi che le popolazioni residenti o frequentanti siano soddisfatte o, meglio, credano di esserlo. Quanto si sa, fuori da sociologismi e badando ai fatti, di cultura, sentimento e scelte socio-politiche degli attuali ceti maggioritari, quanto soprattutto riguardo ad ambiente, natura, architettura, arte e così via, non ammette inganni. In tanti casi di penosità, vista da fuori, dello stare, lavorare, muoversi, consumare, svagarsi ci sarebbero state rivolte se non si fosse verificato una sorta di mutamento antropologico: adatto ad accondiscendere a un modello sociale e territoriale conveniente non a quei ceti, né ad atri meno favoriti, ma alla classe occupante l’intero fronte della mancata contesa sociale: produzione, distribuzione, consumo, territorio, cultura. Che poi ai meteci vengano sparse appaganti briciole non è una contraddizione, è l’ultimo tornar di conto. Sarebbe dunque sorprendente che l’abitante medio di territori privi delle dotazioni e delle qualità che non troppo tempo fa l’urbanistica e l’architettura italiane ritenevano loro compito progettare e ambivano realizzare (l’esempio proveniva da altri paesi), persona inoltre tutta diversa da “l’uomo della metropoli” del terzo decennio del XX secolo secondo Willy Hellpach [13], non fosse o non pensasse di essere contento della sua debolezza. Fra l’altro gli si è insegnato l’odio contro la città compatta, il cuore a cui è pur costretto a rivolgersi continuamente. Gli abitanti delle Lewittowns, certamente campioni di americano conformismo, secondo il sociologo Herbert Gans, ricercatore né troppo grave né troppo indulgente, espressero consenso, come certi inglesi, allo “stile suburbano” [14]. Lo fecero però dopo aver verificato le dotazioni, la congruenza dell’offerta rispetto non solo o non tanto alle risorse familiari bensì a una serie di istanze, inusuali agli italiani, corrispondenti a linee-desiderio da giudicare sapendo il diverso rapporto fra la città esistente e i nuovi insediamenti nello spazio regionale vuoto. William Lewitt e i suoi specialisti li progettavano con qualche cura, tipi di case a uno a due piani soltanto, giardinetto, servizi della comunità civili e commerciali (non troppo generosi…) [15]. Così l’habitat dei Lewittowners che noi “gente di gusto” [16] non possiamo non criticare se non denigrare (i tre “stili” di case poi… [17]) è migliore dell’habitat dell’hinterland milanese. Dove , incredibile dictu, per trovare un quartiere realizzato in base a un progetto urbanistico e architettonico di qualità si va all’arcaico quartiere Ina-casa di Cesate, non per caso presentato al Ciam di Aix-en-Provence nel 1952: quartiere che i cantori del nuovo che avanza riterranno patetico [18].
Una parte consistente, penso maggioritaria, della cultura urbanistica nazionale considera doverosamente liberista l’accantonare Come in altri campi, ai signori Lewitt nostrani, ai nostri imprenditori di urbanistica e di edilizia non importa nulla dell’urbanistica, dell’architettura, del paesaggio, degli uomini. Si affidano alla comune insipienza o costrizione della domanda. È di nuovo la “ Cacotopia: la dissipazione privatistica” di cui in Patrick Geddes [19] poco meno che un secolo fa. Una parte consistente della cultura urbanistica nazionale considera doverosamente liberista l'accantonare non solo qualsiasi piano ma ogni idea di città. Come in una guardinga tautologia l’urbanistica è la stessa realtà fisica della città e del territorio, quali sono e mutano grazie al mercato e alle forze economiche più dinamiche. È “la mera cultura dell’esistente” [20]. Gli imprenditori privati, ben poco simili agli inassistiti omologhi americani, sono essi gli urbanisti autentici del fare sostenuti dagli urbanisti del dire (tale per esempio la sostanza del documento programmatico fornito alla giunta comunale di Milano l’anno scorso). Gli uni e gli altri ora hanno disponibile un nuovo perfetto manuale, il libro di Massimiliano Fuksas, Caos sublime: una laudatio della deregulation, del magma informe quale unico contesto territoriale ammissibile, delle baraccopoli abusive, della Tokio cresciuta senza piano [21]. Tali atteggiamenti sono del tutto diversi dalla oggettività e serietà della ricerca scientifica. Caratteri che riconosco allo studio citato Il territorio che cambia. Ambienti…, tra l’altro dotato di efficaci foto aeree. Tuttavia s’impone una critica di fondo: è talmente malthusiano nell’evitare valutazioni di merito, consistendo essenzialmente in una “descrizione” benché apprezzata dal commentatore come creativa se la definisce “ricerca fertile del ‘nuovo’ che investe lo spazio urbano dell’area milanese” [22], da sfiorare talvolta soglie pericolose, a mio parere, circa la destinazione alla formazione scientifica e artistica degli studenti: vedo per esempio la pubblicazione di fotografie di quei mostri edilizi, come il Procaccini Center di via Messina o la sede della Bnl in via Lorenteggio, a Milano, senza alcun commento sull’architettura [23]. Se anche quest’ultima la si ritiene sempre oggettiva, fenomeno naturale indiscusso, un “nuovo” derivante inevitabilmente da nuovi processi, rapporti e procedure economici sociali politici (nella sfera del pensiero filosofico una miscellanea di necessità e casualità, una specie di determinismo necessaristico, cioè Stalin che dà la mano al capitale e alla chiesa), si dovrebbe abolire nella scuola ogni ragionamento dialettico sulla costituzione dello spazio e sull’architettura anche nella sua interiorità, oltre che sulle questioni strutturali che la sottendono e le sovrastrutturali che la sovrintendono.
Tanto vale chiuderla, la scuola.
Note
[1] B. Secchi, Progettarela periferia e la città diffusa, in C. Macchi Cassia (a cura di), Il progetto del territorio urbano, Politecnico di Milano, 1993, 1996, Angeli, Milano 1998, p. 194.
2 Ivi.
3 B. Secchi, Un commento ai risultati dello studio, in S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, Il territorio che cambia. Ambienti, paesaggi e immagini della regione milanese, Abitare Segesta Cataloghi, Milano 1993, p.269.
4 Cfr. T. W. Adorno, Filosofia della musica moderna ( Philosophie der neuen Musik, 1949), Einaudi, Torino 1979 (1959), p.24. “Oggi la musica della scuola di Schönberg è il contrario di quella ‘vuotezza di pensiero e di sentimento’ che Hegel temeva”. Vuotezza di pensiero e di sentimento, è questo la nuova periferia.
5 G. Consonni, Urbanistica come medicina e come musica, in C. Macchi Cassia (a cura di), cit., p.196.
6 “La musica prima di tutto”, “tutte le arti tendono alla musica”, così B. Barilli a proposito del pensiero di Kandinsky, in Kandinsky e la smaterializzazione dell’arte, in Aa.Vv., Wassily Kandnisky. Tradizione e astrazione in Russia 1896-1921, catalogo della mostra alla Fondazione Mazzotta , Milano febbraio-giugno 2001, pp.41 e 42.
7 G. Consonni, cit.
8 B. Secchi, cit., p.267.
9 G. Consonni, cit.
10 Cfr. A. Schönberg, Manuale di armonia ( Harmonielehre, 1922), a cura di L. Rognoni, Il Saggiatore, Milano 1963, Prefazione, pp.1-5.
Ho dato rilievo alla musica nel libro Architettura e paesaggio. Memoria e pensieri, Unicopli, Milano 2000, capitolo Intermezzo (così detto anche a causa di non brevi incursioni musicali) sulle sensazioni, in particolar nel sottocapitolo Paesaggi sonori. Architettura musica / Musica architettura, pp. 65-70.
11 H. James, La tigre nella giungla ( The Beast in the Jungle, 1903), Cederna, Milano 1947, p.89, anche in Romanzi brevi, II, Mondadori, Milano 1990, p.986.
12 Circa l’individuazione e descrizione delle aree più fortemente urbanizzare della “regione milanese” vedi la ricerca citata Il territorio che cambia. Ambienti…Sulla conurbazione a nord di Milano e il diverso tipo di espansione nella pianura irrigua a sud vedi anche C. Bianchetti e B. Secchi, Milano, ad esempio, in “Casabella”, n.596, dicembre 1992, pp.44-47. Fra i miei interventi di anni fa si possono consultare: Ambiente e forme del suburbio urbano milanese, in Aa.Vv, Morfologia e progetto per le trasformazioni urbane, (a cura di A. Bazzi e C. Morandi), Clup, Milano 1986, pp.144-149; Introduzione a Aa.Vv., Progetto e contesto: il ruolo della storia, in Aa.Vv. Complessità e progetto: quali politiche per il territorio, (a cura di L. Diappi e S. Tintori), Clup, Milano 1987; Paesaggio agrario e periferia metropolitana (con O. Valli), in Aa.Vv., L’origine, le trasformazioni e l’uso del territorio. Un approccio didattico interdisciplinare: il caso di Rozzano (a cura di C. Capurso), Cieds, Rozzano 1987, pp. 75-83; Ricerca e progetto nella periferia della metropoli, in “qa16. Quaderni del Dipartimento di progettazione dell’architettura del Politecnico di Milano”, n.16, marzo 1994, pp. 154-164.
13 Vedi W. Hellpach, L’uomo della metropoli ( Mensch und Volk der Grosstadt, 1938, 1952) Comunità, Milano 1960.
14 J. M. Richards, in L. Rodwin, Le città nuove inglesi ( The British New Town Policy, 1956), Marsilio, Padova 1964, p. 239.
15 Cfr. H. J. Gans, Indagine su una città satellite Usa., ( The Lewittowners, 1967), Il Saggiatore, Milano 1970, pp. 303-309.
16 J. M. Richards, in L. Rodwin, cit.
17 Cfr. Herbert J.Gans, cit., p.34.
18 Progettisti F. Albini, G. Albricci, Bbpr, E. Castiglioni, I. Gardella. La pubblicazione più esauriente è in “Casabella continuità”, n.216, giugno 1957, pp.452-457.
19 P. Geddes, Città in evoluzione ( Cities in evolution, 1915), Il Saggiatore, Milano 1970, p.93.
20 Documento del Dipartimento di progettazione dell’architettura Quaderni di architettura 23. La nuova periferia, 6 luglio 2001, p. 1.
21 Vedi M. Fuksas con P. Conti, Caos sublime, Rizzoli, Milano 2001. Confesso di non aver letto il libro. Mi fido dei commenti sui quotidiani del 29 e 30 luglio 2001.
22 B. Secchi, Un commento…, cit., p.265.
23 Cfr. S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, cit., figg. a pp. 91 e 90. Quasi tre lustri fa lamentavamo i fenomeni nuovi relativi alla lacerazione del territorio nella fascia meridionale della metropoli: “passaggio diretto e immediato da un’agricoltura altamente qualificata, seminativo irriguo di forte produttività, per esempio ai pretenziosi torvi estranei edifici di Assago”, L. Meneghetti e O.Valli, L’origine…, cit., p.81: Milano fiori, in provocazione botanica; a cui avrei potuto aggiungere fra l’altro, perché altrettanto botanico oltre che berlusconiano anziché cabassiano, Girasole di Lacchiarella. Oggi nella metropoli i manufatti a cui mi riferisco rappresentano una violenza anche maggiore a causa della loro imponenza altezza obesità e del loro “stile”.
[1] B. Secchi, Progettarele periferie la città diffusa, in C. Macchi Cassia (a cura di), Il progetto del territorio urbano, Politecnico di Milano, 1993, 1996, Angeli, Milano 1998, p. 194.
[2] Ivi.
[3] B. Secchi, Un commento ai risultati dello studio, in S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, Il territorio che cambia. Ambienti, paesaggi e immagini della regione milanese, Abitare Segesta Cataloghi, Milano 1993, p.269.
[4] Cfr. T. W. Adorno, Filosofia della musica moderna (Philosophie der neuen Musik, 1949), Einaudi, Torino 1979 (1959), p.24. “Oggi la musica della scuola di Schönberg è il contrario di quella ‘vuotezza di pensiero e di sentimento’ che Hegel temeva”. Vuotezza di pensiero e di sentimento, è questo la nuova periferia.
[5] G. Consonni, Urbanistica come medicina e come musica, in C. Macchi Cassia (a cura di), cit., p.196.
[6] “La musica prima di tutto”, “tutte le arti tendono alla musica”, così B. Barilli a proposito del pensiero di Kandinsky, in Kandinsky e la smaterializzazione dell’arte, in Aa.Vv., Wassily Kandnisky. Tradizione e astrazione in Russia 1896-1921, catalogo della mostra alla Fondazione Mazzotta , Milano febbraio-giugno 2001, pp.41 e 42.
[7] G. Consonni, cit.
[8] B. Secchi, cit., p.267.
[9] G. Consonni, cit.
[10] Cfr. A. Schönberg, Manuale di armonia (Harmonielehre, 1922), a cura di L. Rognoni, Il Saggiatore, Milano 1963, Prefazione, pp.1-5.
Ho dato rilievo alla musica nel libro Architettura e paesaggio. Memoria e pensieri, Unicopli, Milano 2000, capitolo Intermezzo (così detto anche a causa di non brevi incursioni musicali) sulle sensazioni, in particolar nel sottocapitolo Paesaggi sonori. Architettura musica / Musica architettura, pp. 65-70.
[11] H. James, La tigre nella giungla (The Beast in the Jungle, 1903), Cederna, Milano 1947, p.89, anche in Romanzi brevi, II, Mondadori, Milano 1990, p.986.
[12] Circa l’individuazione e descrizione delle aree più fortemente urbanizzare della “regione milanese” vedi la ricerca citata Il territorio che cambia. Ambienti…Sulla conurbazione a nord di Milano e il diverso tipo di espansione nella pianura irrigua a sud vedi anche C. Bianchetti e B. Secchi, Milano, ad esempio, in “Casabella”, n.596, dicembre 1992, pp.44-47. Fra i miei interventi di anni fa si possono consultare: Ambiente e forme del suburbio urbano milanese, in Aa.Vv, Morfologia e progetto per le trasformazioni urbane, (a cura di A. Bazzi e C. Morandi), Clup, Milano 1986, pp.144-149; Introduzione a Aa.Vv., Progetto e contesto: il ruolo della storia, in Aa.Vv. Complessità e progetto: quali politiche per il territorio, (a cura di L. Diappi e S. Tintori), Clup, Milano 1987; Paesaggio agrario e periferia metropolitana (con O. Valli), in Aa.Vv., L’origine, le trasformazioni e l’uso del territorio. Un approccio didattico interdisciplinare: il caso di Rozzano (a cura di C. Capurso), Cieds, Rozzano 1987, pp. 75-83; Ricerca e progetto nellaperiferia della metropoli, in “qa16. Quaderni del Dipartimento di progettazione dell’architettura del Politecnico di Milano”, n.16, marzo 1994, pp. 154-164.
[13] Vedi W. Hellpach, L’uomo della metropoli (Mensch und Volk der Grosstadt, 1938, 1952) Comunità, Milano 1960.
[14] J. M. Richards, in L. Rodwin, Le città nuove inglesi (The British New Town Policy, 1956), Marsilio, Padova 1964, p. 239.
[15] Cfr. H. J. Gans, Indagine su una città satellite Usa., (The Lewittowners, 1967), Il Saggiatore, Milano 1970,pp. 303-309.
[16]J. M. Richards, in L. Rodwin, cit.
[17] Cfr. Herbert J.Gans, cit., p.34.
[18] Progettisti F. Albini, G. Albricci, Bbpr, E. Castiglioni, I. Gardella. La pubblicazione più esauriente è in “Casabella continuità”, n.216, giugno 1957, pp.452-457.
[19] P. Geddes, Città in evoluzione (Cities in evolution, 1915), Il Saggiatore, Milano 1970, p.93.
[20] Documento del Dipartimento di progettazione dell’architettura Quaderni di architettura 23. La nuova periferia, 6 luglio 2001, p. 1.
[21] Vedi M. Fuksas con P. Conti, Caos sublime, Rizzoli, Milano 2001. Confesso di non aver letto il libro. Mi fido dei commenti sui quotidiani del 29 e 30 luglio 2001.
[22] B. Secchi, Un commento…, cit., p.265.
[23] Cfr. S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, cit., figg. a pp. 91 e 90. Quasi tre lustri fa lamentavamo i fenomeni nuovi relativi alla lacerazione del territorio nella fascia meridionale della metropoli: “passaggio diretto e immediato da un’agricoltura altamente qualificata, seminativo irriguo di forte produttività, per esempio ai pretenziosi torvi estranei edifici di Assago”, L. Meneghetti e O.Valli, L’origine…, cit., p.81: Milano fiori, in provocazione botanica; a cui avrei potuto aggiungere fra l’altro, perché altrettanto botanico oltre che berlusconiano anziché cabassiano, Girasole di Lacchiarella. Oggi nella metropoli i manufatti a cui mi riferisco rappresentano una violenza anche maggiore a causa della loro imponenza altezza obesità e del loro “stile”.
Piaga, bubbone, verruca, metastasi. Non sono lusinghiere le immagini che usiamo per parlare delle nostre periferie. Quando ne parliamo: moltissimo sull’onda emotiva del massacro di Rozzano; pochissimo invece negli ultimi anni e decenni, dopo l’abbuffata ideologica dei Sessanta e dei Settanta, e prevedibilmente anche in quelli che verranno, sparatorie permettendo. È davvero una terra di nessuno quella dei quartieri-dormitorio, espulsa dal dibattito, dimenticata da giornali, libri e cinema, spesso sconosciuta anche ai cittadini delle medesime metropoli che contorna e soffoca. "Non conosco quasi nessuno che c’è stato a Corviale", dice Franco Cordelli che al serpentone romano, monumento all’utopia urbanistica prima e al degrado poi, ha dedicato un romanzo, ‘Un inchino a terra’.
Già. Si può vivere a Roma, a Milano, a Palermo, a Napoli, a Bari, senza neppure vederli, i ‘mostri’: Corviale, Rozzano, lo Zen, le Vele (finché c’erano), San Paolo. Ma dalla ‘zona rimozione’ i malanni urbanistici ineluttabilmente riaffiorano, più insanguinati e febbricitanti, più repellenti e incattiviti di prima. E allora, in attesa del prossimo insabbiamento collettivo, ecco la domanda: che fare? Ed ecco le risposte, paradossali o ragionevoli, opportunistiche o sconsolate, dalla proposta di Renzo Piano di far adottare dall’Unesco le periferie del mondo come patrimonio dell’umanità, a quelle due righette nella bozza del prossimo Dpef, il documento di programmazione economico-finanziaria per il 2004-2007: riqualificare "attraverso interventi di demolizione e ricostruzione sui tessuti urbani degradati".
Tutto giù per terra? E un diluvio di calcinacci che sommerga, infine, la sventata Babele orizzontale dei quartieri-dormitorio? Il germe radicale del distruzionismo si fa vivo in giro per l’Europa (200 mila alloggi popolari saranno demoliti nei prossimi cinque anni in Francia, a Milano destra e sinistra concordano sugli abbattimenti a San Siro, Stadera, Lorenteggio, Ponte Lambro). E riaccende la discussione sulle periferie urbane, sulla metastasi socio-economica prodotta, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, dall’inurbamento di massa di milioni di immigrati, prima interni e poi stranieri.
Ma la tentazione distruzionista incontra i favori degli urbanisti e degli architetti, che si schierano, con i distinguo e le sfumature del caso, per un ‘migliorismo’ che tenga in debito conto le ‘tre ecologie’ (sociale, culturale, materiale) indispensabili secondo il maestro belga Lucien Kroll a uno sviluppo urbano a misura umana e non inquinato "dall’ostinazione modernista". Ovvero da quelle "finestre messe di sghimbescio" che secondo Pier Luigi Cervellati, architetto bolognese e docente di Urbanistica a Venezia, sono il segnale altrettanto distorto e malsano di periferie sgangherate dall’incultura, dal degrado, dal luogo comune.
"I distruzionisti sono degli imbecilli", ride Vittorio Gregotti: "Il bisogno di abitazioni è in crescita, i poveri aumentano, occorre semmai costruire di più, rimettere a posto quello che c’è. Demolire è senza senso. È grave, piuttosto, che non ci sia più una lira per le case popolari, che non ci sia più una politica per le case a basso costo". Secondo Gae Aulenti, "è un modo per fare confusione, per continuare a non fare niente. Che gli amministratori facciano il loro dovere, amministrino. Anche se vengono incaricati dei buoni tecnici, con i tempi abnormi imposti dagli enti pubblici tutto si sfascia. All’estero esistono tre fasi: programma, progetto, manutenzione. Da noi il concetto di manutenzione non esiste, e il progetto veleggia sospeso in tempi vaghissimi".
A Parigi, spiega Aulenti, del rifacimento delle vecchie case popolari (le Hlm, habitations à loyer modéré, quattro milioni, costruite fra il 1945 e il 1965) "vengono incaricati i giovani architetti, appena laureati. A Barcellona le periferie sono pensate urbanisticamente come zone dove non si va solo a dormire. Qui no, niente di tutto questo. L’errore delle periferie italiane è strutturale, quartieri-dormitorio è un’espressione che ne fotografa perfettamente i difetti, e non vedo alcun segno di nuove espansioni pensate in un altro modo".
In altre parole, stavolta di Pier Luigi Cervellati, "stiamo allargando la periferia invece di progettare la città del presente". La metafora tumorale si colorisce ulteriormente: crosta cementizia, malattia infettiva. "Per noi urbanisti", dice Cervellati, "il problema dovrebbe essere quello di evitare la crescita della periferia. Il contrario esatto dello spreco edilizio attuale, degli indici di inquinamento sempre più alti, della devastante impermeabilizzazione del territorio con l’asfalto, dello scadimento qualitativo". E il recupero, la riqualificazione? "Bisognerebbe cambiare mentalità, ripensare l’edilizia pubblica. Invece si vende il patrimonio immobiliare pubblico. E continua a esserci, anzi aumenta, la speculazione edilizia". Meglio demolire, allora? "Certo. Le case abusive, però. Altrimenti il distruzionismo è puro, furbesco usa-e-getta: costruisci e poi demolisci per ricostruire. Cioè per continuare a vendere".
Il "volgarissimo mercato", secondo Gregotti, serve però a volte a "rimettere in circolo" energie nel corpaccione bolso e infermo dell’edilizia popolare e periferica. Le case dei ferrovieri d’inizio Novecento oggi sono considerate bellissime (e carissime). Quartieri come Roehampton o Golden Lane, a Londra, sono stati esemplari. A Rozzano c’è la Fondazione Arnaldo Pomodoro, e ci sono magari più balordi intorno alla centralissima Stazione Centrale di Milano. E la Bicocca ridisegnata da Gregotti & associati (slogan: ‘Un centro storico per la periferia’) "non avrà mai un destino di degrado perché oltre ai servizi fondamentali include tante funzioni diverse, non soltanto il dormitorio. È questo che dà vitalità, ed è così che sono fatte le città: non monofunzionali, non monosociali".
Le città, non le periferie. Almeno non quelle di cui si ventila la demolizione, sola igiene del mondo irrecuperabile di hinterland, cinture, sobborghi. Se nella ‘Belle Équipe’ (era il 1936) Jean Gabin prendeva la fisarmonica e scendeva in strada a festeggiare la gioia di vivere nella periferia, la ricetta attuale non è poi così diversa. Che i quartieri emarginati diventino "un luogo pieno, dove si lavora, si vive, si sogna, si lotta" (Alain Bertho, autore di ‘Banlieue, banlieue, banlieue’). Che si studino dei sistemi, anche mediante incentivi fiscali, "che favoriscano l’insediamento nelle periferie di attività vere, lavorative, che mescolino la vita" (Gregotti). Che si recuperi "il senso della città, della comunità, della partecipazione alle vicende del territorio. E non costruendo stadi per olimpiadi demenziali, ma palestre, giardini, spazi pubblici" (Cervellati). C’è un sacrosanto elemento di nostalgia, di confronto con il passato. "Prima avevamo case brutte e città belle, adesso abbiamo case belle e città brutte", sintetizza Cervellati. Appartamenti tirati a lucido e pattume fuori dalla porta, "l’Italia era una meraviglia, la proprietà pubblica era straordinariamente bella: oggi siamo tutti proprietari in città pessime". Nei condomini, popolari o di lusso in stile Milano 2, ma anche in quella che l’architetto e urbanista chiama villettopoli, l’Italia scempiata dalle mono, bi e pluri-familiari, una periferia di nuovo genere, immensa, dilagante, in una parola brutta.
Brutto, bello. Tornano parole semplici e antiche, che nessuno sembra maneggiare più. E invece: "La bellezza è una componente della centralità", dice ancora Cervellati: l’opposto della periferia. "La periferia si produce sempre per incultura e per mercato". E al contrario, Gregotti: "Del lato estetico non me ne frega niente, se non è connesso alla funzionalità".
Bello, brutto. Periferie brutte e quindi anche cattive, sarà per questo che si parla di lifting, di bisturi, di microchirurgia negli interventi di risanamento? La repressione della bellezza è la causa "dei maggiori problemi sociali, politici ed economici del nostro tempo", come predicava James Hillman? Gli architetti concordano che gli architetti servono a poco, almeno a garantire l’etica e l’estetica delle nostre periferie. Per Gregotti "l’architettura non è determinante per il sistema sociale", contano di più le istituzioni, quelle stesse che per vent’anni non hanno costruito fogne e scuole nel suo Zen. Per Cervellati "bisognerebbe chiudere un po’ di facoltà di architettura, ci sono oltre 100 mila iscritti. Che sanno a malapena raccapezzarsi in una mappa topografica, che non sanno disegnare né misurare". È l’estinzione di una specie, di un mestiere? Dall’estero, quell’estero che sempre inseguiamo, proviene il requiescat di Rem Koolhaas: "Dieci anni fa deploravamo l’autoritarismo degli architetti, oggi rimpiangiamo la loro scomparsa". Chissà se le periferie hanno altre lacrime da versare, stavolta per loro.
E intanto lui abitava in via Giulia. ‘Lui’ è Mario Fiorentino, l’autore di quel chilometrico emblema delle periferie che è il Corviale a Roma, "bravissimo architetto", secondo Vittorio Gregotti; "cattivello", invece, per Massimiliano Fuksas. Il giudizio parte da elementi concreti, tecnici. "Al Corviale i muri sono di cemento, non era neanche possibile unire due appartamenti. È invece la flessibilità, che permette di impossessarsi di una casa costruita magari in termini anonimi, badando solo alla quantità. Come a Port de Bouc, banlieue difficilissima di Marsiglia: lì era tutto rivolto a nord, per risanarla abbiamo demolito e ricostruito, interrompendo quella inospitale, rigidissima barriera di torri".
Demolirebbe anche in Italia, e che cosa?
"Bisogna fare una graduatoria. I luoghi di vera e propria disperazione vanno abbattuti; sono tanti, forse il 30 per cento delle periferie. Va salvaguardato il patrimonio di qualità: il Tiburtino di Ridolfi e la Garbatella a Roma. Per il resto bisogna studiare, studiare, studiare: valutando caso per caso".
La demolizione suona a volte come un repulisti, una soluzione sommaria per sbarazzarsi di magagne non soltanto architettoniche.
"C’è chi vorrebbe buttar via le case con tutti gli abitanti, certo. È arduo risanare se non esiste un parco abitativo pubblico che faccia da calmiere e da compensazione, mentre demolisci. E questo governo, cosa gravissima, sta vendendo il patrimonio abitativo sociale".
Quale origine hanno i disastri delle nostre periferie?
"Un combinato di cause, dall’industrializzazione al neo-illuminismo che negli anni Sessanta immaginava utopie urbane poi rivelatesi fallimentari. L’architetto-demiurgo ha forti responsabilità. Il quartiere Zen di Palermo è tutto uguale, le ‘insulae’ sembrano campi di deportati. È una visione militare dei problemi umani: una città che rende felici è invece il contrario della rigidità".
Parecchie volte, negli ultimi giorni, leggendo le litanie di proclami e scempiaggini con cui il centrodestra si è gettato a capofitto sulla “emergenza periferie”, mi è tornata in mente un’immagine dimenticata. Un’immagine solo letta, per ovvi motivi anagrafici: il borgomastro di Bruxelles Charles Buls, che all’alba del Novecento, passeggiando nei giardinetti sottobraccio al ministro Luigi Luzzatti, perorava la causa della bellezza anche nelle abitazioni da realizzarsi da parte dei neonati Istituti Case Popolari. Buls, paladino dell’arte di costruire le città, e a modo suo (via Gustavo Giovannoni) fra i “padri” dell’urbanistica italiana, intuiva vagamente come non potesse esistere “città pubblica” senza tutte le caratteristiche della città, incluse riconoscibilità, identità, insomma tutte le cose che poco più tardi iniziarono a sparire, spazzate via soprattutto da un’idea: la macchina per abitare.
In sé l’idea non era male, anche e soprattutto perché si inseriva in pieno nella logica “meccanica” dello sviluppo industriale, e soprattutto all’inizio poteva contare su un notevole slancio di ricerca, riflessione, innovazione. Nell’Italia fascista, però, non poteva nemmeno iniziare a svilupparsi l’apporto critico delle discipline sociali che per esempio, in Inghilterra, avrebbero di lì a poco definito certe idee urbanistiche “un modo per portare la gente da dove non sta a dove non vuole andare”. Gli allora presidenti degli ICP erano certamente più propensi a sottoscrivere il commento del collega Giuseppe Gorla a proposito dell’uso della polizia nell’imporre abitudini igieniche e moderne agli inquilini: “una volta abituati, non c’è più bisogno di costringerli”. Perché, come osservano il più delle volte inascoltati i critici di questo modello di città pubblica, gli oggetti principali della faccenda non sono le più o meno aggraziate scatole di cemento, ma il loro contenuto, che ha la brutta abitudine di camminare, e di farsi opinioni (di solito pessime) sullo spazio che occupa.
Dopo la seconda guerra mondiale, all’inizio della grande modernizzazione e urbanizzazione italiana, una piccola e discutibile eccezione alla regola è quello che Rinascita bolla come “l’incredibile parto della fantasia del professor Fanfani”. Un incredibile parto che, se non altro, dal punto di vista della progettazione fisica degli spazi si pone almeno due obiettivi: ricostruire una atmosfera da villaggio, e usare gli operatori sociali per “alfabetizzare” i contadini neoinurbati alla vita di città e di relazioni umane. Detto terra terra, è un po’ la replica democratica dei metodi spicci di Giuseppe Gorla; qui non si usa la milizia, ma comunque si spiega agli ex contadini che in città non ci si accoltella, al massimo ci si denuncia, che non si usa il bidet per piantare il basilico, e via di questo passo. Ma le critiche della sinistra, come specifica Giuseppe Di Vittorio (relatore di minoranza del progetto di legge Fanfani), vanno un po’ più in là dell’idea di villaggio o di modernizzazione “guidata”, e implicano una diversa idea di società e investimenti per lo sviluppo.
Un’idea diversa che, guarda un po’, sembra poter trovare spazio ancora nelle grandi “macchine per abitare”, tanto gradite agli architetti di sinistra che Piero Bottoni anche nell’ambito dell’INA-Casa ha progettato un enorme candido monolite, che affacciato sul Corso Sempione (un po’ lontano, in effetti, dalle “periferie”), racconta che anche con l’edilizia popolare si fa città moderna a tutti gli effetti. Ma per ogni Bottoni versato alla ricerca e alla riflessione sul piano e il progetto, ci sono (come ovvio e prevedibile), schiere di progettisti che stanno a le Corbusier più o meno come Teo Teocoli sta a Elvis Presley. E saranno soprattutto loro, insieme ai pochi soldi, alla disorganizzazione, alla malafede, a progettare gran parte delle periferie che ora il centrodestra chiama “frutti del comunismo”, o altre sciocchezze del genere.
Frutti del comunismo che, tra l’altro, vengono a maturazione, cioè cominciano a rimpolparsi di contenuto umano, proprio mentre con le prime avvisaglie di crisi del modello di sviluppo la grande fabbrica non è più centro di riferimento, aggregazione, simulacro e surrogato della città.
In cosa si identificheranno, ora, gli abitanti di questi cimiteri sociali? Non certo con le città radiose dei grandi blocchi su vasti spazi aperti, che come ben sanno per esperienza sono labirinti puzzolenti dentro, e campi di battaglia fuori. Forse, con quello che rimane del centro storico, fra la boutique dell’insaccato e la factory del gioiello etnico, ma più probabilmente con l’altra periferia, quella che discende perversamente non da Le Corbusier, ma da Raymond Unwin: la città diffusa di villette, lottizzazioni produttive, centri direzionali e quant’altro. Chi può permetterselo, c’è già andato da parecchio. Qui l’architetto non si può sbizzarrire con diavolerie come l’ existenzminimum o il cottage plan and common sense, ma se vuole essere pagato deve fornire il cliente di tutte le cucine abitabili, tavernette, e giardini con nani richiesti. Con buona pace di tutte le ricerche progettuali astruse, e del piano regolatore che pretende anche di entrare in casa tua a dirti quello che devi o non devi fare. E basta.
La storia raccontata sopra, è ovviamente, anche se non completamente, falsa. I nomi propri citati hanno fatto più o meno le cose descritte, le quali cose descritte sono più o meno tutte così, anche se sono molto di più, e in definitiva qualcos’altro.
La cosa difficile, è spiegare queste cose ai poveretti a cui casca il soffitto del cesso in testa, o ai loro parenti che non li vanno più a trovare per paura di giocarsi l’auto parcheggiata in strada. Ditegli che “qui ci vuole la mano pesante”, e vi seppelliranno di voti. Diteglielo da mezza dozzina di reti televisive, con le immagini giuste, e vi porteranno in trionfo.
Il che non toglie, che della questione periferie anche da sinistra si inizi a dire pane al pane e vino al vino, a partire per esempio da uno slogan simil-berlusconiano: LASCIATECI FINIRE IL LAVORO. Come, è un altro discorso, ma questo per esempio è “partire dal programma”. Una frase già sentita. O no?
Posso da profana anche io dire la mia? Magari scriverò una raffica di banalità, ma sento una vaga insofferenza nel leggere gli interventi nel tuo sito, uno dopo l'altro. Facile ora, puntare il dito contro l'architettura comunista, i palazzoni Ina casa e Iacp: ma bisogna ricordare quel che era la condizione abitativa prima degli anni '80. Drammatica. Le lotte per la casa sembrano completamente cancellate dalla memoria, eppure sono state una parte importantissima del movimento operaio e, si direbbe oggi, progressista. Si è costruito in emergenza, forse troppo: vero. Ma senza dimenticare verde e servizi che poi nessuno ha fatto. E non è poco.
Ma ha ragione Vezio De Lucia: quando le case non si gestiscono - oppure: se si gestiscono male, se si mettono ad abitare insieme tutte le famiglie dei carcerati, tutti i tossici nell'altra scala, dall'altra parte tutti i meridionali - non si fa che aggiungere esclusione ad esclusione. Se poi si rinuncia del tutto a mantenere quel minimo di legalità che impedisce ai malavitosi di demolire con il piccone la porta di una casa di un'anziana ricoverata all'ospedale, ecco, in questa situazione neppure Le Corbusier sarebbe in grado di rendere vivibile in quartiere. In più, una certa pigrizia giornalistica che parla di Bronx, e il pasticcio è fatto. Tanto per dire, nel Bronx ci sono zone di qualità urbana più che accettabile. Seconda riflessione. Non sempre la bellezza basta. Ricordate le rapine in villa? E i grandi delitti - più o meno risolti - che vi accadono? Non so perché, ma la paura di chi vive in quelle periferie ricche e opulente, doviziosamente dotate di servizi e verde, è la stessa di chi vive nelle periferie. Allora il problema mi sembra un altro: la criminalità fa paura, sia che venga da fuori, sia che abiti nella porta accanto. Non è questione di urbanistica, né di architettura. Come dimostra la bellissima la villetta di Cogne.
Un altro discorso - inutile aprirlo qui, lo cito solo a margine - sarebbe quello dell'ideale tutto italiano della villetta che ha distrutto agro e campagne. La voglia di far dell'Italia, ricca di tanti centri storici, una finta paperopoli di pretesi ricchi ha prodotto mostri, anche se imbellettettati, e assai scarse possibilità di socialità.
Proviamo a eliminare la questione criminalità. Resta nei quartieri popolari la povertà di servizi e di verde, la povertà di funzioni che rende differente un ragazzo che vive con la piscina comunale a 100 metri a quello che deve prendere il treno per arrivarci, e quindi non ci va. Ma quei quartieri, dalle Vele a Corviale, con i servizi erano stati progettati. Che la qualità urbana sia pessima è anche responsabilità di chi non li ha voluti, o se ne è disinteressato, lasciando che i negozi venissero occupati di notte da disperati senza casa, né ha pensato di offrir loro un'alternativa abitativa. Le Vele? Non sono affatto brutte: pensate se su quelle terrazze ci fossero alberi e rampicanti, pensate se ci si potesse vivere senza paura e senza sbarre, e sfruttare al meglio proprio quel che oggi è la debolezza di quegli edifici: la permeabilità. Se la facilità di accesso diventa il canale con cui la camorra controlla i suoi, sarà un ghetto, e punto. Ma pensate se fosse altro, che so, un residence per studenti fuori sede: la facilità di accesso può diventare facilità di rapporto, e forse persino la nascita di una comunità.
Infine un'ultima disordinata nota. Il patrimonio di edilizia pubblica è privato. E' privato nei fatti, visto che nessuno lo gestisce. Mi piacerebbe sapere quante sono le chiavi che tornano in istituto perché un affittuario è morto. Sospetto pochissime: sia perché c'è un racket che se ne occupa con grande efficienza, sia perché implicitamente non è previsto nemmeno dagli uffici. Nella migliore delle ipotesi capita quindi che l'appartamento di ex periferia ormai diventato semicentrale sia stato affidato cinquant'anni fa alla famiglia di un operaio, e che il figliolo dottore ci faccia il suo studio, ed è solo un esempio. Ancora a margine noterei che molti sono gli esempi di edilizia pubblica più che dignitosa, magari costruiti anche in epoca fascista ma con evidente rispetto per chi ci sarebbe andato ad abitare. Non solo alla Garbatella.
Che ci sia ancora una domanda di case è ovvio, ed è però evidente che ciò non possa essere una buona giustificazione per costruire ancora. Sta di fatto che la domanda più drammatica viene da ceti depauperati di qualsiasi potere, dagli immigrati, dagli emarginati… tanto che persino i Cim faticano a trovare case che ospitino le loro residenze protette. In queste condizioni, ammainare la bandiera dell'edilizia pubblica e lasciare senza alcuna gestione il patrimonio che c'è, come mi pare si faccia nell'indifferenza di tutti, mi sembra una sciocchezza. Una sciocchezza politica, figlia della pochezza dei tempi.
«E´ vero, certi modi di costruire gli edifici favoriscono la criminalità. Mentre l´architettura che consente alle persone di stare per strada e di incontrarsi, di avere tanti luoghi pubblici a disposizione, quella che mette in condizione chi abita di potersi affacciare e di guardare ciò che accade di fronte, è un naturale ostacolo ai fenomeni criminali». Joseph Rykwert è uno dei massimi storici dell´architettura. Adesso vive a Londra, ma originario della Polonia, ha insegnato all´Università della Pennsylvania. Conosce benissimo l´Italia e non si sottrae a una polemica tutta italiana: le periferie dove svettano anonime torri, dove gli spazi pubblici sono inesistenti oppure manomessi e degradati, quelle periferie, insieme alla marginalità sociale, sono accusate di essere esse stesse causa di teppismo e di violenza.
Dopo i quattro omicidi di Rozzano si è sbattuto sul banco degli imputati il modo di costruire degli anni Settanta. Il suo ideale di razionalità, la sua tendenza al gigantismo, una terapia forse troppo drastica per curare una malattia di quegli anni: tante case, ma non per chi aveva pochi mezzi. Corviale, Le Vele, lo Zen, il Laurentino 38: mostri, qualcuno ha detto, che generano altri mostri. Non si è andati per il sottile. Non si è fatta differenza fra periferie realizzate dalla mano pubblica e periferie costruite da privati con finalità speculative. Un urlo - demoliamoli - ha coperto le voci di chi invitava a distinguere, di chi sottolineava gli sforzi compiuti da molte amministrazioni per risanare quei pezzi di città, o di chi valorizzava le iniziative di comitati e gruppi di abitanti.
Ragionarne al Festivaletteratura produce effetti spiazzanti. Ma non tanto. Il rapporto fra scrittori e lettori che qui si realizza è il risultato di un senso civico, di un culto per l´urbanità che Mantova custodisce nei suoi edifici e nelle sue piazze. E Rykwert, studioso di Giulio Romano, ma ancor più di Leon Battista Alberti, esordisce ricordando che uno dei suoi libri più celebri, L´idea di città (ripubblicato un anno fa da Adelphi), sia nato discutendone con Italo Calvino e che nei progetti doveva essere solo il primo capitolo di una storia delle città italiane concepita insieme al sociologo Carlo Doglio.
Letteratura e idea di città, dunque. «Un paio di anni fa ho comprato una casa a Venezia», racconta Rykwert, «nella zona di San Giobbe, vicino a un ospizio per anziani. Sono sempre attratto dalla quantità di tempo che quegli anziani trascorrono alla finestra. Osservano il passeggio, non fanno altro. Ecco, quella di poter guardare fuori è una condizione ideale perché un quartiere abbia una sua vita, una sua autonomia. Questo tipo di realtà comunitaria è un antidoto alla violenza».
Ma lei li abbatterebbe quei grandi edifici che popolano tante periferie?
«Qualcuno sì, soprattutto quando prevale la forma della torre. Ma, per restare agli esempi usati, Palermo non aveva certo bisogno dello Zen perché crescesse la violenza. Qualsiasi eccellente progetto architettonico, se mal realizzato, è una provocazione».
Nel suo libro più recente, La seduzione del luogo (Einaudi), Rykwert insiste sul fatto che per capire la storia e l´essenza di una città non si può ricorrere solo alle ragioni economiche o politiche.
«Si era sempre sostenuto che dietro la città romana ci fosse il castrum, cioè l´accampamento militare. Io sono convinto del contrario, perché nella fondazione di una città entrano con prepotenza elementi simbolici e metaforici. Che poi si trasferiscono anche nel castrum. Una città deve avere elementi che la rendano riconoscibile. Houston, per esempio, che pure è la città dei petrolieri - e si sa quanto i petrolieri contino ora negli Stati Uniti - non diventerà mai una vera metropoli. Perché è cresciuta solo accumulando parti su parti, e nessun nuovo innesto riuscirà a far sentire vivo quel tessuto urbano. Ed è sintomatico che oggi gli elementi monumentali di una città non siano più i palazzi delle istituzioni, ma i musei. Pensi al Guggenheim di Bilbao».
I musei e non i grattacieli, dunque. Rykwert ha una convinzione incrollabile: i grattacieli sono un disastro, non solo perché monopolizzano lo skyline di una città, ma perché commercialmente sono un equivoco.
«Ora stanno progettando due edifici di oltre 600 metri, i più alti del mondo, uno dei quali a Dubai. L´altro in India, in una piccola città del Madhya Pradesh. Dubai vuol dire petrolio, ma fra quaranta o cinquant´anni il greggio di quel paese potrebbe essere estinto. Cosa ci faranno allora con quell´edificio? Non è bastata la lezione londinese delle Docklands, dove i privati hanno fatto bancarotta, dopo aver costruito un immenso grattacielo?». Chi costruisce, insiste Rykwert, compie un atto pubblico. E perfino un eremo «è un atto pubblico». Ma gli architetti, molti architetti contemporanei, violano questo precetto. Le Torri Gemelle, conclude Rykwert, sono state identificate nei terroristi per la loro forza metaforica, perché «rappresentavano il trionfo del potere monetario». Ma nulla, nei 28 anni in cui sono vissute, «hanno aggiunto di positivo al tessuto urbano in cui erano inserite».
Non sono tanto d'accordo su quanto scrive Vezio De Lucia. Domanda: perché in Italia gli architetti e gli amministratori pubblici non abitano negli edifici di edilizia residenziale pubblica, magari sovvenzionata (salvo forse l'assessore alla pianificazione del capoluogo friulano e il vecchio sindaco di Grosseto del quale ha fatto cenno Salzano - ma era una persona speciale quel Sindaco di quella città) ? Solo per una questione di mancanza dei requisiti reddituali e familiari o forse perché non gli piacciono i quartieri (effetti della pianificazione urbanistica) e gli edifici (effetti della progettazione architettonica) essendo che sono dedicati ad altri strati sociali ? In Svezia, in Finlandia, in Danimarca ed in altri paesi più evoluti e civili del nostro in cui maggiore è l'attenzione al sociale ed alla qualità, accade spesso che i progettisti di edifici di edilizia residenziale pubblica ci vadano anche ad abitare nelle case pubbliche da loro progettate, magari a scomputo della prestazione professionale. Perché accade ?
Difendere ad ogni costo scelte culturali di pianificazione urbanistica e di progettazione architettonica (Corviale, Scampìa e lo Zen) non mi convince, seppure lo comprendo.
La realtà è sotto gli occhi di tutti: quei quartieri e quegli edifici sono invivibili, ghetti che producono emarginazione e contribuiscono al degrado sociale, brutture degne solo di essere eliminate fisicamente per rispetto degli abitanti e della città. L'ERP andrebbe spalmata, diluita nell'intera città e non segregata in un quartiere autonomo e separato dalla città.
Non è un caso che sono più apprezzate e vissute dagli abitanti in maniera più sentita quei quartieri di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata che sono frutto di scelte più attente alla qualità insediativa e del vivere. Minori densità fondiarie, unità di abitazione meno alienanti, spazi aperti pubblici più ariosi, più verde, attività complementari all'abitare, servizi sociali di base, rapporti più stretti con le parti della città. A Udine via San Rocco e il Villaggio del Sole, ancorchè vecchi e sicuramente problematici dal punto di vista tecnologico ed impiantistico, ben rappresentano queste caratteristiche qualitative. Bisogna quindi risalire a filoni culturali degli anni cinquanta, forse alle esperienze olivettiane che hanno influenzato l'urbanistica italiana del dopoguerra, per trovare livelli di urbanistica sociale per l'edilizia residenziale pubblica più umanizzante. La domanda abitativa sociale si affronta diversamente in chiave anche culturale altrove. Da noi spesso i quartieri di ERP sovvenzionata sono uguali alle esperienze urbanistiche ed edilizie dei paesi dell'ex blocco sovietico. Senza andare troppo lontano il raffronto con i quartieri periferici di Dubrovnik, Spalato, Fiume, Nova Gorica e Zara è eloquente in proposito, molto più di tanti altri discettamenti. Che poi anche in Francia l'HMLS (l'omologo degli Iacp/Ater) progetti e costruisca casermoni per arabi ed operai identici a quello che accade in Italia, non toglie nulla alle mie osservazioni. Anzi ne rafforza il senso.