loader
menu
© 2025 Eddyburg

1. Premessa: le ragioni di interesse del caso di Rozzano

Rozzano è comune di prima fascia della cintura metropolitana milanese, in direzione di Pavia e cioè nella “Bassa” tradizionalmente agricola. Le singolarità della vicenda della sua urbanizzazione sono motivate da alcune circostanze che, a posteriori, possiamo anche considerare “fortunate”, e cioè:

- la collocazione nella fascia meridionale del milanese, ciò che significa aver subito l’impatto dell’espansione metropolitana solo a partire dalla fine degli anni 50 e dunque quando cominciava a maturare qualche capacità diffusa di apprezzare i problemi politici e urbanistici del controllo delle trasformazioni territoriali, sia da parte dei tecnici che degli amministratori;

- la struttura proprietaria, caratteristica di quest’area di produzione agricola intensiva, e cioè formata soltanto da nove grandi proprietà, ciò che ha reso possibile una gestione dei rapporti tra ente pubblico e proprietà dei suoli estremamente controllata;

- la continuità del governo, rappresentata dall’amministrazione di sinistra dal dopoguerra ad oggi, dalla permanenza dello stesso sindaco dal 1960 al 1985, dalla permanenza dello stesso consulente urbanista dal 1956 al 1977.

Oltre a queste circostanze oggettive ne vanno enumerate almeno altre due, di carattere soggettivo, e cioè:

- la qualità degli amministratori, e in particolare del sindaco, ai quali si devono riconoscere non comuni doti di coerenza, di perseveranza, di onestà;

- la disponibilità di alcuni proprietari, in particolare i primi contattati, che ha consentito di inaugurare una politica di trattative capace di condizionare poi tutti gli altri rapporti in senso positivo.

Queste circostanze hanno formato il quadro favorevole per una vicenda di pianificazione che si è svolta con i caratteri specifici della realizzazione sistematica, concordata e programmata, di politiche predeterminate per il territorio.

Queste politiche, e le singole scelte che le hanno tradotte in pratica, sono senza dubbio valutabili da diversi punti di vista con esiti e giudizi di valore anche diversi e non sempre positivi, ma non vi può essere dubbio sul fatto che si è realizzato sul territorio con notevole approssimazione proprio ciò che si è voluto e scelto. Questa affermazione è tutt’altro che banale, non solo perché avviene raramente nell’esperienza italiana della pianificazione del dopoguerra che vi sia coincidenza sostanziale tra intenzioni dichiarate ed esiti, ma anche perché si è soliti attribuire, nel dibattito teorico, alle politiche di “concertazione” e ai piani convenzionati proprio il limite e il difetto intrinseco di portare ad esiti non controllabili e a processi che si svolgono “a rimorchio” degli interessi privati più estemporanei.

Il caso di Rozzano sta viceversa a testimoniare la possibilità, in condizioni particolari di volontà politica e di disponibilità del campo, di conseguire risultati significativi sotto il profilo della coerenza delle politiche territoriali e urbane. Gli esiti sono stati senza dubbio condizionati dal “contratto”, sia nel dimensionamento che in alcune scelte di merito, talvolta a causa di puri incidenti di percorso, più spesso nella trattativa sul convenzionamento, ma le grandi scelte qualificanti sono state impostate autonomamente dall’ente pubblico e sono state conseguite, come vedremo nel seguito, in modo sostanziale.

2. 1945-1955: il riassetto della conduzione agricola

Il primo decennio del dopoguerra si configura, dal punto di vista dell’evoluzione del territorio, come un periodo di assestamento e di riassetto delle forme di conduzione dell’agricoltura.

A Rozzano non si sono avuti danni nel conflitto, e dunque non vi sono problemi di ricostruzione, ne si registrano fenomeni migratori che provochino domanda di nuove costruzioni, se non a partire dal 1953 e per modeste entità che tuttavia segnalano l’avvio di un fenomeno in rapida progressione e poi dirompente.

La modificazione più rilevante è dunque quella che si registra nella conduzione dell’agricoltura, e che consiste nell’accorpamento aziendale e nella riduzione degli addetti: le aziende più piccole chiudono a causa delle difficoltà economiche e della impossibilità ad affrontare da meccanizzazione spinta che si impone per garantire la produttività, e dalle 213 aziende del 1930 si passa alle 17 del 1955 con una superficie coltivata pressoché identica (1115 ha sui 1230 ha totali del comune).

A Rozzano esistevano dall’inizio del secolo due aziende manifatturiere, ambedue di trasformazione dei prodotti agricoli, e cioè il Risificio e la Filatura (originariamente dei cascami di seta), ambedue collocate lungo il Naviglio per sfruttarne la corrente come fonte di energia.

La Filatura, installata dal 1865, chiude tuttavia la propria attività nel 1953. Ma già nel 1951 si contavano complessivamente 30 aziende con 353 addetti, in seguito in continuo aumento: nel 1953 si costruiscono tre nuovi fabbricati industriali e a partire dal 1955 i nuovi insediamenti produttivi saranno in progressione continua per diversi anni.

Nel 1954 registriamo la triplicazione dei nuovi edifici di abitazione rispetto alla media dei tre anni precedenti (14 contro 5) , anche questi in seguito in continuo e vertiginoso aumento.

Sono le avvisaglie del fenomeno di ripercussione dell’attrazione del capoluogo milanese, e in partico1are delle difficoltà di reperimento di aree edificabili e dall’incremento del loro prezzo a seguito dell’approvazione ed entrata in vigore (1953) del nuovo Piano regolatore generale di Milano. Le attività marginali (l’artigianato, le piccole industrie, magazzini, depositi, alcune attività di servizio) e la residenza più povera (soprattutto l’autocostruzione dei nuovi immigrati) o escono dalla città per fuggire al ricatto dei prezzi, o meglio ancora evitano di entrarvi fermandosi ai suoi confini.

Il “fermarsi ai confini” è da intendere in senso letterale, perché i primi insediamenti del “vorrei ma non posso” si localizzano proprio sul confine dei comuni contermini, che per Rozzano significa Valleambrosia e Quinto Stampi in corrispondenza delle due arterie di uscita (o di entrata) di Milano, la statale dei Giovi e la via dei Missaglia.

Negli anni 1954 e 1955 sorgono qui trenta fabbricati di abitazione e tre industriali.

Il comune, a questa data, non ha ancora adottato alcuna misura di disciplina edilizia ed urbanistica, e le licenze di costruzione vengono rilasciate in base alle domande senza alcun criterio restrittivo. La proprietà di Valleambrosia è della famiglia Visconti di Modrone (Castello di Cassino Scanasio) che non ha, al momento, particolari interessi nel campo immobiliare, ma ritiene di fare cosa socialmente utile cedendo aree a lotti lungo la strada statale a quanti insistentemente li chiedono per costruirsi l’abitazione: degli stessi criteri di insediamento (di urbanizzazione e di lottizzazione) la proprietà si disinteressa. Diversa è la situazione di Quinto Stampi, piccola frazione in riva al Lambro, dove un tempo sorgeva una zecca (donde il toponimo), le cui aree circostanti sono state acquistate dalla società immobiliare Franchi Maggi che promuove commercialmente la vendita a lotti per residenze e industrie propagandandola in Milano, sulla base di una elementare progetto di lottizzazione predisposto a solo uso interno. Ciò comporta che qui almeno si riservano strade di lottizzazione che non misurano mai meno di m. 6 di larghezza (mentre a Valleambrosia le servitù di accesso ai lotti sono quasi sempre di tre o quattro metri).

3. 1956-1963: il primo programma di fabbricazione

L’amministrazione comunale non tarda a rendersi conto che questo modo di procedere rischia di provocare problemi di difficile soluzione a posteriori, e che pertanto si rende necessario disciplinare i nuovi insediamenti con maggiore previdenza e seguendo criteri tecnicamente verificati.

Nel 1956 vengono avviati i primi contatti esplorativi per scegliere la strada più adatta, che sboccano nel 1957 in un incarico per la formazione di un nuovo regolamento edilizio e per la redazione del piano regolatore generale.

La scelta del Prg, rispetto al più economico Programma di fabbricazione, è motivata da due ordini di considerazioni: una strategica, consistente nella più ampia e indiscutibile potestà operativa su tutto il territorio comunale, molto rilevante in un caso in cui i punti critici del territorio erano proprio quelli più periferici; l’altra tattica, consistente nella maggiore autorevolezza ed efficacia derivante anche dalla recente introduzione della normativa di salvaguardia, e quindi nel maggior potere contrattuale che il comune immediatamente acquisiva nei confronti dei privati con la forza di un’elaborazione di Prg in corso. La consapevolezza circa il percorso che si sarebbe dovuto e voluto seguire era dunque ben presente fin dall’inizio dell’operazione.

La scelta di questo percorso, sinteticamente definibile forse col termine “contrattazione guidata”, era a quell’epoca motivata dalla particolare situazione di debolezza della strumentazione urbanistica sul terreno giuridico, a causa della sperimentata inefficacia degli strumenti attuativi in carenza di norme specifiche per l’espropriazione; i tentativi di applicazione dei piani particolareggiati di attuazione a Milano non potevano essere considerati incoraggianti, visto l’estenuante contenzioso che mettevano in moto.

L’obiettivo di una riforma della legislazione urbanistica non era neppure all’orizzonte, anzi non era ancora proposto dato che appena ci si muoveva con impaccio nelle prime esperienze di applicazione della L. 1150/1942, rimasta inapplicata a causa della guerra fino al 1945, e poi sciaguratamente sospesa dalle procedure straordinarie dei piani di ricostruzione per diversi anni.

Per gli urbanisti impegnati nella commissione tecnica della Lega dei comuni democratici della Provincia di Milano, il problema prioritario era quello di rafforzare e aumentare il potere contrattuale dell’ente pubblico rispetto ad una aggressività degli interessi immobiliari che già cominciava a manifestarsi ed era sicuramente destinata ad aumentare. La minaccia del ricorso a un Prg molto vincolante e dotato di misure di salvaguardia è l’arma forte e l’unica, nelle mani della pubblica amministrazione, e viene tenuta in serbo, pronta per l’uso in caso di necessità: nel frattempo si pongono le basi delle scelte territoriali con uno schema-guida per il piano, che subisce gradualmente le specificazioni (ed eventualmente le modifiche compatibili) derivanti dal progressivo perfezionamento di convenzioni con le proprietà intenzionate alla trasformazione urbanistica.

Questo criterio di comportamento è adottato contemporaneamente e uniformemente da tutti i comuni aderenti alla Lega, ma solo a Rozzano perviene a risultati così globali per le ragioni oggettive e soggettive citate al paragrafo precedente.

Quando nel 1957 viene approvato l’incarico per il Prg e l’operazione viene avviata, Rozzano conta 3659 abitanti, dunque ha già subito un incremento del 35% rispetto ai 2712 del 1951, e tra il 1954 (primo anno di attività edilizia sostenuta) e il 1957 si sono costituiti 60 edifici di abitazione e 18 industriali. Oltre a Valleambrosia e Quinto Stampi l’incremento interessa ora anche Cassino Scanasio, primo nucleo preesistente sulla statale dei Giovi uscendo da Milano.

Col sindaco Ambrogio Vidè e con la giunta vengono rapidamente definite le linee strategiche del piano, riassumibili nei seguenti punti:

- sviluppo policentrico, al fine di riassorbire e riorganizzare quanto è stato già costruito nelle frazioni e nei nuovi nuclei, e anche per conseguire l’obiettivo dello scostamento dello sviluppo dalla statale dei Giovi.

- freno allo sviluppo continuo lungo la statale dei Giovi, impedendo il congiungimento dei nuclei di Valleambrosia, Cassino Scanasio, Rozzano capoluogo, e valorizzando un nuovo collegamento con Milano via dei Missaglia;

-verifica delle disponibilità intercomunali alla creazione di un collegamento trasversale, in ipotesi da San Giuliano a Corsico, per incentivare relazioni non esclusivamente col capoluogo e comporre un sistema non appoggiato solo sulle radiali;

- salvaguardia del Naviglio Pavese, delle manifatture storiche, del Castello di Cassino Scanasio;

- salvaguardia delle cascine e delle conduzioni agricole per le proprietà che non manifestino la precisa intenzione di abbandono.

Non viene stabilito alcun limite quantitativo allo sviluppo, l’unica vera preoccupazione in questa fase è quella di riuscire realmente a piegare le tendenze spontanee a un disegno alternativo che riguarda la collocazione dei pesi insediativi e la creazione di nuove direttrici di relazione col centro di Milano, tra i comuni della cintura sud, e tra i nuclei di Rozzano.

La decisione politica intorno a queste linee strategiche incontra un solo punto di difficoltà, peraltro determinante e globale, e riguarda il fatto che la scelta policentrica e di spostamento del baricentro dalla Statale dei Giovi comporta una sicura perdita di primato per il capoluogo originario, collocato appunto sulla statale. La preoccupazione non è infondata, tanto è vero che i fatti successivi si incaricheranno di confermare che addirittura la sede comunale dovrà essere trasferita, e al momento della decisione del trasferimento non si incontrerà alcuna difficoltà tanto la cosa è ovvia. Tuttavia la consapevolezza a priori di questa sorte si può capire che determini perplessità, riserve, e addirittura incredulità.

Queste incertezze vengono comunque superate, mentre rimane invece un grosso ostacolo pratico da superare per mettere in moto il disegno alternativo, rappresentato dal fatto che l’allacciamento del territorio comunale all’asse della via dei Missaglia è condizionato, se si prescinde dalla frazione di Quinto Stampi, alla realizzazione di un ponte sul Lambro, opera costosa, assolutamente al di fuori delle capacità di spesa del piccolo comune agricolo.

La via dei Missaglia, in Milano, è tutto quanto resta di un asse nord-sud (Milano-Pavia) perfettamente orientato, probabile prosecuzione esterna del Cardo romano e tracciato originario della strada per Pavia: sul Lambro sono (erano) ancora visibili le tracce dei piedritti dell’arcata di un ponte di mattoni, mentre le divisioni catastali più a sud denunciano la preesistenza di un elemento fisicamente determinato.

Non si conosce il motivo dell’abbandono di questo tracciato, senza dubbio il più breve e rettilineo tra Milano e Pavia, né se ne conosce traccia nella cartografia storica. A prescindere dal vantaggio locale di questo collegamento ai fini dello spostamento delle direttrici di sviluppo, resta il fatto che lo sgravio della statale dei Giovi, già congestionata, dal traffico locale, è provvedimento che comunque si impone. La Provincia di Milano sta procedendo proprio in questo periodo all’inalveamento e alla rettifica del corso del Lambro meridionale, dunque il momento è propizio per la definizione del posizionamento del ponte.

L’opportunità di risolvere questo problema-chiave per tutto l’impianto del piano è offerta dall’iniziativa della proprietà della Cascina Villalta di Pontesesto. Come spesso accade, la successione ereditaria in comproprietà fra numerosi fratelli mette in crisi la gestione aziendale, e la separazione dei diversi interessi si vede conseguibile solo attraverso una vantaggiosa vendita del terreno come area edificabile. Tuttavia in questo caso la posizione non è certo fortunata: è una delle più marginali del territorio comunale, esclusa da ogni via di comunicazione importante; la vicinanza con la frazione Quinto Stampi è puramente geografica, dato che il Lambro rappresenta un valico insuperabile anche per il singolo privato.

Saranno proprio queste condizioni di marginalità a indurre la proprietà a chiedere l’aiuto del comune: si faccia il comune promotore di un progetto per il ponte e relativa strada, e del coinvolgimento dell’altra proprietà, che potrebbe essere interessata anche se non ha manifestato finora alcun interesse immobiliare, cioè la proprietà Gambarone e Cascina Ferrabue. Unendo le forze e le capacità di investimento delle due proprietà si potrebbe coprire la spesa del ponte e della strada, fino al congiungimento col capoluogo di Rozzano, costruendo così l’asse portante del previsto sviluppo alternativo alla strada dei Giovi.

Non esistono sostanziali difficoltà a riconoscere alle due proprietà una quota di edificabilità, dato che ciò coincide con la previsione dello schema-guida, ma naturalmente il problema sarà quello di mettersi d’accordo sulle quantità e sugli oneri di urbanizzazione.

L’introduzione del concetto degli oneri di urbanizzazione a carico dei privati è naturalmente un elemento di grande rilievo, con ripercussioni di livello nazionale su tutto il modo di concepire la gestione urbanistica e sulla legislazione (L 765/67): rappresenta il primo e più concreto e fertile tentativo di spostare una parte della rendita immobiliare dal privato al pubblico, e di consentire ai dissanguati bilanci dei piccoli comuni dell’area metropolitana di far fronte agli oneri sproporzionati della marea migratoria.

Non è Rozzano il primo comune che applica questi principi, ma San Giuliano milanese nel 1954, sempre nell’ambito dell’attività coordinata dalla Lega dei comuni democratici. Rozzano sarà viceversa il comune dove questa applicazione avrà il carattere più generalizzato e dove il miglioramento progressivo delle condizioni contrattuali realizzerà i risultati più interessanti negli anni tra il 1957 e il 1977, data di adozione del Prg.

La misura degli oneri da mettere a carico dei privati rappresenta logicamente un punto molto delicato e di ardua definizione: siamo ancora lontano dai primi studi validi e convincenti sugli standard urbanistici.

La prima convenzione, relativa come sidiceva ad un area posizionalmente marginale e quindi la meno favorita, si è conclusa con l’attribuzione alla proprietà di tutta l’urbanizzazione primaria (ivi compreso un consistente onere a copertura della metà della spesa del ponte sul Lambro), e con la cessione gratuita al comune di mq. 6 per abitante insediabile per l’urbanizzazione secondaria. Ciò avveniva nel 1958.

Poiché la realizzazione della prima convenzione era subordinata al coinvolgimento dell’altra proprietà interessata al ponte sul Lambro, ben presto veniva conclusa anche questa seconda convenzione con oneri analoghi.

Queste due prime lottizzazioni convenzionate prevedono una capacità insediativa di 18.500 abitanti con mq. 750.000 di area industriale. Con questi accordi alle spalle il comune acquisiva maggiore forza contrattuale anche con le altre proprietà, poiché si profilava con maggiore concretezza l’eventualità dell’adozione di un piano che avrebbe sancito l’urbanizzazione e la lottizzazione a scopo edificatorio di sole aree convenzionate. L’area di Quinto Stampi, per di più, si veniva a trovare in una situazione di mercato modificata dall’apertura del ponte sul Lambro e dalla conseguente offerta di aree edificabili sulla stessa direttrice, di poco più lontano da Milano, e a prezzi ovviamente concorrenziali. In quel momento si era già realizzato più di un terzo delle previsioni sia residenziali che industriali rispetto al programma della società immobiliare, ma senza alcuna previsione di spazi e servizi pubblici.

Non è stato facile costringere questa proprietà a concludere una convenzione, ma alla fine ci si è riusciti nel 1959. Significativamente, in questo caso più difficile e ormai ampiamente compromesso, le cessioni di aree per servizi pubblici ammontavano a soli mq. 3/ab.

A questo punto l’operazione doveva spostarsi e interessare le aree più pregiate lungo la statale dei Giovi (Valleambrosia e Cassino Scanasio), cioè la proprietà Visconti di Modrone, anche queste in buona parte compromesse ma con pessime condizioni di urbanizzazione e pertanto con urgente necessità di recupero urbanistico.

La difficoltà di pervenire a soluzioni accettabili con questa proprietà induceva l’amministrazione comunale ad una manovra di aggiramento e di pressione consistente nell’intavolare trattative con una proprietà confinante (Agricola Alma, tra Valleambrosia e Quinto stampi) senza reali intenzioni di concludere, poiché l’urbanizzazione di quest’area esulava dallo schema di piano, ma solo per ragioni tattiche.

Effettivamente questa manovra otteneva l’effetto di portare a conclusione soddisfacente la trattativa con la proprietà Visconti (aree cedute per urbanizzazione secondaria mq. 2/ab.), ma contro ogni intenzione, a causa di un malinteso con gli uffici del Provveditorato Oo.pp. che avrebbe dovuto respingere la proposta di convenzione con la società Agricola Alma, al termine delle trattative, nel 1960, anche questa convenzione non desiderata si trovava approvata. Questo incidente comportava due effetti negativi, quello di un insediamento in una posizione che espressamente lo schema non prevedeva allo scopo di salvaguardare una penetrazione continua di verde in direzione nord-sud tra l’urbanizzato gravitante sulla statale dei Giovi e quello gravitante sulla direttrice di via dei Missaglia, e quello di rompere l’omogeneità dei criteri di convenzionamento con un contratto nettamente inferiore alla media degli altri.

L’insegnamento che se ne doveva trarre era naturalmente quello di contenere la tendenza ad eccessivi tatticismi nella gestione della concertazione.

Nel 1961 si concludeva anche la convenzione con la proprietà Zanoletti (Rozzano capoluogo e Cascina S. Alberto) portando così a compimento l’intera operazione prevista

Le quantità messe in gioco erano rappresentate da una superficie urbanizzabile di mq. 3.643.900 (30% del territorio comunale) di cui il 50% residenziale e il 50% industriale, da una volumetria residenziale complessiva di mc. 5.838.000 corrispondenti a 58.400 abitanti (valutati allora invece in 45.000 con riferimento ad uno standard di 130 mc./ab.), e da una superficie per usi pubblici (standard urbanistici) ceduta gratuitamente all’amministrazione comunale di mq. 153 mila e 700 pari a mq. 3,4/ab. prev. (mq. 3/ab. per la previsione di 58.400).

Poteva dirsi completamente realizzato l’obiettivo dello spostamento del peso delle nuove espansioni dalla statale dei Giovi verso l’interno del territorio comunale, con realizzazione a carico dei privati di tutti i collegamenti stradali di livello comunale e intercomunale necessari all’intelaiatura dello schema alternativo. Era stato anche conseguito in modo soddisfacente il criterio della salvaguardia delle aziende agricole intenzionate a proseguire l’attività (Ponte Sesto, Bandeggiata, Torriggio e Persichetto interamente; Ferrabue, Cassino Scanasio, S. Alberto in parte sufficiente a garantire la sopravvivenza delle conduzioni).

La salvaguardia del Castello di Cassino Scanasio era pure garantita. Meno integralmente quella del Naviglio pavese e della fascia agricola ad ovest del Naviglio, in parte compromessa da previsioni di insediamento industriale che non si erano potute evitare nella contrattazione. Anche sull’impedimento alla continuità dell’urbanizzazione lungo la statale dei Giovi si era dovuto pagare un pesante scotto (per l’estensione delle lottizzazioni in Valleambrosia, Cassino Soanasio, Rozzano capoluogo), pur riuscendo a salvaguardare alcune importanti pause tra Valleambrosia e Cassino e in corrispondenza della filatura.

L’importanza di questo programma di fabbricazione consiste tuttavia soprattutto nell’aver messo l’amministrazione comunale in una posizione di totale sicurezza nei rapporti con i privati per tutta la fase successiva di realizzazione e di miglioramento del piano. Da tale posizione, da tale base contrattuale consolidata, l’ente pubblico è infatti potuto partire per modificare i patti in senso migliorativo ogni volta che una deliberazione del piano intercomunale o una nuova legge nazionale o regionale hanno potuto creare un motivo o un pretesto per imporre adeguamenti (diminuzione delle capacità insediative, riduzione delle superfici destinate all’industria, aumento delle superfici per usi pubblici, ecc.). Una sola volta si è dovuto in seguito consentire un incremento delle capacità residenziali, ed è avvenuto quando l’intera lottizzazione Ferrabue è stata acquistata dallo Iacp milanese per realizzare un quartiere di edilizia pubblica.

Una singolarità di questo Pdf che vale la pena di segnalare è rappresentata dalla scelta distributiva delle funzioni: se si prescinde dalle localizzazioni industriali a ovest del Naviglio, più subite che volute (e del resto successivamente in gran parte cancellate), il grosso della previsione industriale è tutto concentrato nella fascia verticale centrale del comune in fregio al nuovo asse in prosecuzione della via dei Missaglia e sui due lati di questo asse. Rispetto a questo cuore produttivo, i nuovi quartieri residenziali si distribuiscono al suo contorno con una logica che si può dire rovesciata rispetto all’assetto tradizionale che vede le attività produttive spinte alla periferia (e nei piani dei piccoli comuni quasi sempre ai confini del territorio comunale creando problemi ai comuni confinanti). Tale scelta è conseguenza in parte della necessità di prevedere quartieri residenziali separati (in funzione degli accordi conclusi con diverse proprietà, della necessità di recuperare le iniziative spontanee del dopoguerra, della scelta di spostamento del peso insediativo dalla statale dei Giovi verso l’interno del territorio comunale), in parte della preoccupazione di compattare per quanto possibile le attività produttive per meglio controllare l’impatto morfologico e ambientale, comunque infine conseguenza di un criterio di valutazione delle attività produttive che non le considera più necessariamente come elementi infimi nella costruzione del passaggio urbano.

L’occupazione di territorio è molto alta rispetto allo stato dell’edificazione, nel senso che le previsioni di capacità residenziale e produttiva non hanno alcun riferimento con la dimensione demografica e industriale del comune nel 1963. È ovvio che la logica consiste nel rendersi disponibili per accogliere quote di sviluppo metropolitano e funzioni rilasciate dal capoluogo milanese, e d’altra parte occorre ricordare che la rinuncia da parte di molte aziende agricole alla continuazione dell’attività aveva localmente anche altre motivazioni, diverse da quelle della seducente scelta immobiliare: la redditività negli anni critici tra la fine dei 50 e i primi 60 si era molto ridotta, difficili i rapporti e il reperimento della mano d’opera, costosa la meccanizzazione, ma soprattutto sempre più rara l’acqua utilizzabile per l’irrigazione e l’alimentazione delle marcite, sia per l’abbassamento della falda dovuta agli emungimenti della fittissima urbanizzazione a monte, sia per l’inquinamento dei corsi d’acqua provenienti da nord. Infine, saranno le clausole degli accordi Cee a mettere in crisi la produzione lattiera e gli allevamenti.

È comunque del tutto evidente, alla lettura di oggi, il dimensionamento enfatizzato e l’inadeguatezza degli standard urbanistici previsti nel primo strumento; ma sarebbe ingiusto non rapportarci alla situazione dell’epoca, rispetto alla quale i risultati registrati con quel piano, e ancor più la metodologia intrapresa, rappresentavano una assoluta novità, e una eccezione senza alcun riscontro non solo nell’area milanese ma in tutta 1a nazione.

Occorre infatti ricordare che le preoccupazioni relative al dimensionamento dei piani e all’accorciamento dell’orizzonte di previsione cominciano ad affermarsi solo in seguito ai lavori del Pim (1964) e del Piano intercomunale bolognese (pratica dei piani di minima previsione, 1965), mentre le prime definizioni formalizzate relative agli standard urbanistici sono quelle deliberate dal Pim nel 1967 e quelle del D.l. 2 aprile 1968.

La prima edizione del programma di fabbricazione del Comune di Rozzano corrispondeva viceversa al tentativo, perseguito fino alle estreme conseguenze, di sperimentare e applicare un metodo nuovo di gestione della pianificazione comunale, che facesse i conti fin dall’inizio e in modo aperto e dichiarato con gli interessi privati, affrontandoli sullo stesso terreno delle convenienze e contrapponendovi sistematicamente i conti incontrovertibili delle esigenze della collettività.

4. 1963-1977: dal programma di fabbricazione al piano regolatore

Dal 1960 è subentrato nelle funzioni di sindaco Giovanni Foglia, che manterrà 1a carica fino al 1985 e sarà pertanto il protagonista principale delle trasformazioni e dello sviluppo di Rozzano, peraltro validamente coadiuvato dagli assessori dell’urbanistica (prima Salvatore Anile, poi Francesco Blora) e da un ufficio tecnico che accresce il numero e la qualità dell’organico proporzionalmente all’aumento delle responsabilità.

Le responsabilità sono rilevanti, nonostante la relativa sicurezza rappresentata come sè detto dal piano convenzionato. I principali problemi che si propongono nella fase di gestione del programma di fabbricazione sono i seguenti:

- l’intervento Iacp su tutta la lottizzazione Ferrario di Ferrabue;

- la qualità dei piani esecutivi e della progettazione edilizia;

- il rapporto tra incremento delta popolazione e dell’occupazione.

L’inserimento di un grosso quartiere di edilizia pubblica nel contesto delle trasformazioni urbanistiche di Rozzano ha creato non pochi problemi, ma ha anche rappresentato un banco di prova dal quale le capacità politiche e gestionali dell’amministrazione comunale sono uscite complessivamente confermate attraverso alcuni risultati assolutamente eccezionali.

I problemi sono stati determinati: dall’aumento della popolazione prevista (si è passati dalla capacità iniziale della convenzione di circa 10.000 abitanti ad una popolazione doppia, al termine dell’operazione, sia attraverso ampliamenti dell’area edificabile, sia attraverso le minori altezze di interpiano consentite dall’edilizia pubblica, sia attraverso il maggior tasso di affollamento realizzatosi spontaneamente negli alloggi attribuiti in prevalenza a giovani famiglie immigrate); dalla prolificità nettamente superiore alla media e quindi alle previsioni, a causa della giovane età delle coppie insediate, con conseguenti problemi sulle dotazioni di asili-nido e scuole elementari; dalla rapidità dell’intera operazione (realizzata con prefabbricazione pesante), che non ha lasciato il tempo di registrare i problemi, di adottare le necessarie contromisure, e di metterle in esecuzione prima che i fenomeni si manifestassero in termini acuti e patologici; dal livello sociale ed economico delle famiglie insediate, prevalentemente esonerate dall’imposta di famiglia o addirittura bisognose di assistenza economica, con conseguente indebolimento delle già misere capacità finanziarie del comune.

Questi problemi erano stati almeno in parte previsti o intuiti dall’amministrazione comunale fin da quando (1961) la proprietà Ferrario aveva manifestato l’intenzione di cedere una parte prevalente delle proprie aree edificabili allo Iacp di Milano, e infatti attraverso fitte trattative, prima con la proprietà, poi con lo Iacp, poi con lo stesso comune di Milano, si sono chiesti e ottenuti impegni, assicurazioni e garanzie intorno ai seguenti temi: contemporaneità della esecuzione della parte privata, prevalentemente commerciale, rispetto a quella pubblica; reperimento di aree aggiuntive, rispetto a quelle previste da convenzione, per servizi pubblici, e loro acquisizione da parte dello Iacp; esecuzione a parziale (almeno) carico di Iacp e/o comune di Milano delle opere di urbanizzazione secondaria, e in particolare dell’edilizia scolastica.

Questi impegni sono stati poi, per vari motivi, quasi tutti disattesi, e il comune di Rozzano ha dovuto surrogare col proprio diretto intervento alle carenze sostanziali delle istituzioni responsabili. Ciò ha comportato necessariamente inconvenienti e disagi, soprattutto nella collocazione di alcuni edifici scolastici che hanno dovuto essere sistemati nelle strette maglie del tessuto residenziale, e nel ritardo di approntare delle scuole materne ed elementari rispetto all’impetuoso manifestarsi dei fabbisogni. Ciononostante, lo sforzo compiuto dall’amministrazione comunale per integrare nella comunità locale e nel tessuto urbano questo quartiere monoclasse è stato gigantesco, l’intervento residenziale Iacp è stato letteralmente circondato e integrato al suo interno di interventi pubblici (un parco urbano, un centro polisportivo, la sede comunale collocata al centro del quartiere, per citare solo gli interventi più eccezionali), e alla fine ne è uscito un quartiere certo non privo dei classici caratteri problematici dei quartieri di edilizia pubblica, ma sicuramente il meno ghettizzato tra quelli realizzati nell’area milanese, il più integrato nel contesto urbanistico e sociale.

Il secondo problema, quello della qualità del paesaggio edificato realizzata attraverso la progettazione urbanistica esecutiva ed edilizia, è forse quello che denuncia i risultati più insoddisfacenti. Scontando la pessima qualità degli episodi già compromessi prima dell’intervento di disciplina urbanistica del comune (Valleambrosia e Quinto Stampi), e i limiti oggettivi di un’operazione pur unitariamente progettata come quella del quartiere Iacp (limiti in gran parte insuperabili dati dalla tipologia bloccata del sistema di prefabbricazione adottato), sulle parti restanti l’effetto della pur richiesta progettazione urbanistica a livello di dettaglio (planivolumetrico) è stato sicuramente assai scarso e parziale. Una parte dell’edificazione ha seguito la logica dell’intervento privato sul singolo lotto, gli stessi piani di dettaglio approvati sono stati spesso realizzati solo in parte e poi assoggettati a modificazioni che li hanno privati del necessario senso di organicità dell’insieme, e in definitiva gli episodi di corretta costruzione dell’immagine urbana e di una identità riconoscibile sono dimensionalmente assai limitati tanto da apparire quasi casuali.

Il terzo problema ha rappresentato a lungo una grossa preoccupazione per l’amministrazione comunale, poiché si è potuto ben presto verificare, nel corso dell’attuazione del piano, che all’abbondanza di disponibilità di aree per l’industria e l’artigianato (destinata a contenere il fenomeno della pendolarità nei confronti di Milano) non corrispondeva un adeguata offerta di posti di lavoro, e ciò perché una parte consistente delle superfici disponibili veniva occupata da volumi non direttamente produttivi (magazzini, depositi, stoccaggio di prodotti e merci di provenienza esterna). Nel periodo che stiamo considerando, cioè fino alla fine degli anni ‘70, l’occupazione nell’industria aveva nettamente la prevalenza, l’esplosione del terziario avverrà sostanzialmente negli anni dal 1978 in poi, dunque le preoccupazioni di politica economica locale riguardavano prevalentemente il settore manifatturiero.

Gli addetti all’industria in Rozzano, che erano 374 nel 1951, diventavano 1968 nel 1961 e 4256 nel 1971; con incrementi notevoli che tuttavia rimangono sproporzionati all’incremento degli attivi (rispettivamente a 1007, 2337, 8672). Lo scarto tra addetti e attivi se si considerano insieme tutti i rami occupazionali è di 1088 unità nel 1951, scende a 770 nel 1961, e aumenta a 7690 nel 1971, e di queste ultime 4416 sono unità relative al settore industriale.

Ciò che si verifica a scala metropolitana e nazionale è che ormai la dislocazione delle attività produttive (anche quelle costrette ad abbandonare l’insediamento dentro alle città principali) non segue più la logica del passo più certo possibile (l’uscita dalle città verso la cintura, o la collocazione più vicina possibile alla città), ma si distribuisce indifferentemente nel territorio con preferenza per le zone meno dense e più isolate. Viceversa continuano ad avere interesse alla collocazione esterna, ma vicina, i depositi relativi ad attività commerciali e terziarie che nella città già rappresentano i settori di più intenso sviluppo.

Le possibilità di manovra dell’amministrazione comunale riguardano le eventuali restrizioni nelle destinazioni d’uso della normativa urbanistica del regolamento edilizio, peraltro difficilmente controllabili oltre che giuridicamente fragili a livello di programma di fabbricazione. Qualche risultato si ottiene caso per caso con la trattativa diretta con le proprietà, ancora una volta, mentre si profila nella seconda metà degli anni 70 l’incremento dell’occupazione locale nel terziario, che non risolve il problema della pendolarità passiva ma arricchisce il quadro occupazionale e introduce una valenza di pendolarità attiva che comunque riduce la subordinazione e fa rientrare anche Rozzano (anche i comuni del sud-Milano) nel sistema policentrico metropolitano.

Tutto il periodo che stiamo considerando (1963-1977) è contrassegnato da un continuo, operoso lavorio di miglioramento e di adeguamento della strumentazione urbanistica alle nuove condizioni socioeconomiche e legislative, portando avanti con coerenza la pratica della concertazione.

Che si trattasse di una prassi gestionale e non di una definizione una tantum è dimostrato dall’andamento degli anni successivi all’adozione del Pdf: dal 1963 al 1973, in dieci anni, sono state approvate quattro varianti al Pdf, ognuna delle quali ha portato un sensibile miglioramento al quadro precedente, ognuna rispecchiando sempre non un insieme di intenzioni o di vincoli deliberati dal comune, ma al contrario il risultato già consolidato di accordi perfezionati con le proprietà convenzionate.

L’applicazione sistematica e rigorosa di questa prassi e la progressiva imposizione agli stessi privati convenzionati di convenzioni integrative per il miglioramento dei parametri e l’adeguamento alle nuove disposizioni di legge, hanno permesso di affrontare a Rozzano un incremento di popolazione di undici volte in vent’anni (da 3260 a 36.000 abitanti circa) con pieno controllo delle fasi di urbanizzazione e con permanente soddisfacimento, in tutte le fasi, delle esigenze di incremento dei servizi e delle attrezzature pubbliche essenziali.

Qualche difficoltà si è registrata in alcune fasi nel settore dell’edilizia scolastica, dovuta esclusivamente al fatto che non poteva essere previsto un tasso di popolazione in età scolare così alto come quello che si è registrato negli anni successivi al massiccio insediamento di giovani coppie nel quartiere Iacp, e a questa anomalia si è dovuto far fronte anche con soluzioni di emergenza come l’istituzione di aule in locali d’affitto, e con aule ricavate adattando spazi destinati ad usi speciali nei nuovi edifici scolastici.

[...]

La prima variante (1967) aveva sostanzialmente lo scopo di adeguare lo strumento agli standard urbanistici proposti dal Pim, di inserire l’area commerciale relativa al Centro assistenza Fiat, di inserire il tracciato della tangenziale ovest, e di incrementare l’area residenziale a disposizione dello Iacp.

La seconda variante (1969) aveva lo scopo di adeguare lo strumento alle norme e agli standard della L.765/67 e del D.l. 2 aprile 1968, ottenendo contemporaneamente una riduzione della capacità residenziale e un incremento delle dotazioni di aree pubbliche. Tutte le aree così vincolate, ripetiamo, venivano gratuitamente cedute al comune progressivamente e parallelamente all’incremento insediativo, sulla base di atti di adeguamento delle convenzioni originarie.

Una terza variante (1972) aveva lo scopo di reperire aree adeguate per l’insediamento degli asili-nido in corrispondenza con un piano regionale di finanziamenti destinati a questo tipo di attrezzature. La quarta variante (1973) aveva lo scopo di reperire nuove aree per l’edilizia scolastica per far fronte a necessità imprevedibili, derivanti dall’altissimo tasso di natalità della popolazione insediata nel quartiere Iacp, e per destinare gli spazi necessari al centro scolastico superiore deliberato dall’amministrazione provinciale.

Una quinta variante (1974) aveva lo scopo di declassare dalla destinazione industriale a quella per attrezzature di allevamento intensivo una vasta fascia compresa tra la statale dei Giovi e l’autostrada dei Fiori conformemente ad una raccomandazione Pim relativa all’eccesso di superfici destinate all’industria in tutta la sub-area 7.

Nel 1976 è stato adottato il primo programma pluriennale di attuazione (Ppa).

Una sesta variante è stata proposta nel luglio del 1977 esclusivamente per alcune modificazioni normative, mentre contemporaneamente veniva adottato un piano di applicazione della L. 167/62 e una variante del Ppa.

La coerenza e la chiarezza di obiettivi della politica urbanistica condotta dall’amministrazione comunale di Rozzano, della quale le varianti al Pdf rappresentano solo le tappe formalizzate, ha consentito di controllare un ritmo di urbanizzazione impetuoso con risultati eccezionali per quanto riguarda la struttura urbana e il livello delle dotazioni pubbliche, realizzate e non solo previste nei piani.

Ciò non significa che non vi siano state difficoltà, problemi, sfasamenti tra manifestazione dei bisogni e loro soddisfazione: significa solo che non vi è mai stata carenza di iniziativa da parte dell’amministrazione comunale, né incertezza di comportamento.

5. 1977-1985: la gestione del piano regolatore generale

L’adozione del 1977 del piano regolatore generale rappresenta, come si vede, il coronamento di un lungo periodo di impetuose trasformazioni socio-economiche e di aggiustamento dellla strumentazione urbanistica e dei contratti con le proprietà, ed anche la conclusione di questa fase che raggiunge un grado di assestamento e di consolidamento dei risultati che per l’appunto consente di essere rappresentato e istituzionalizzato in uno strumento di maggiore autorità. Il Prg viene elaborato alla scala 1:2000 (per la prima volta a Rozzano), quindi con un grado di dettaglio e di precisione che non poteva essere raggiunto da precedenti Pdf, tuttavia non rappresenta solo la bella copia e la versione definitiva dei precedenti strumenti, perché contiene anche importanti elementi di novità.

Rispetto alla situazione regolata dal Pdf, ciò che si è voluto ottenere con l’elaborazione del Prg è riassumibile nei seguenti termini:

a. formulazione integralmente nuova della normativa, sia per adeguarla alle nuove disposizioni della legislazione regionale e nazionale, sia per renderla più chiara, più semplice, e più adatta alle mutate esigenze locali, per riflettere cioè una situazione nella quale diviene prevalente il già edificato rispetto alla nuova edificazione;

b. indagine puntuale su tutte le aree e su tutta l’edificazione compresa nelle zone A in modo da pervenire a prescrizioni specifiche per la pianificazione esecutiva e per gli interventi diretti;

c. miglioramento e riorganizzazione urbanistica delle zone edificabili residenziali di espansione onde conseguire un miglioramento complessivo della qualità dell’ambiente urbanizzato;

d. revisione, verifica e riclassificazione di tutte le aree a destinazione pubblica, e recupero di nuove aree pubbliche nell’ambito dell’edificato per una più capillare e articolata distribuzione degli spazi pubblici;

e. revisione del disegno e del calibro delle principali comunicazioni stradali, per renderle funzionali ai principali collegamenti e spostamenti pendolari e capaci di ospitare linee di trasporto pubblico adeguate;

f. revisione delle destinazioni specifiche per quanto attiene il rapporto tra attività produttive e terziarie, adeguandolo alle raccomandazioni Pim e alle verificate esigenze di espansione locale del terziario;

g. riduzione delle capacità insediative per quanto possibile, attraverso l’abbassamento degli indici di edificabilità più alti.

Emerge in particolare in questa fase, e con questo strumento, la preoccupazione per la qualità dell’ambiente, non solo come riflesso della contestuale evoluzione del dibattito culturale, ma anche come comprensibile risultato di un periodo in cui i maggiori sforzi sono stati collocati nel controllo dei fenomeni quantitativi che al momento invece cominciano a lasciare maggiore respiro e spazio per la riflessione.

Il Prg produce a questo proposito una disciplina particolareggiata per le zone A, quasi una normativa da piano esecutivo anticipata, che consentirà agevole applicazione degli interventi di recupero. Oltre a ciò, importanti effetti si otterranno con la progressiva realizzazione e attrezzatura delle aree pubbliche, e in particolare delle grandi superfici per il verde attrezzato, mentre occorre segnalare le modificazioni operate nella configurazione dell’azzonamento dell’area di espansione di Valleambrosia (convenzione Alma) che hanno lo scopo preciso di apportare un sensibile effetto di ricomposizione nell’ambiente e nel tessuto urbano della frazione che sono tra i più deteriorati: la compattazione delle zone destinate agli insediamenti produttivi e alla residenza lungo due fasce contigue all’abitato, e la continuità del verde così ottenuto verso il percorso del Lambro, non possono che determinare una configurazione più ordinata e funzionale.

Si è ormai configurata, negli anni di gestione del Prg, una situazione socioeconomica e urbanistica radicalmente diversa non solo da quella che abbiamo descritto per l’immediato dopoguerra, ma anche da quella degli anni 50 e 60. Non è tanto l’elemento quantitativo (l’edificato, l’occupazione del suolo ormai avviata alla saturazione delle pur abbondanti previsioni, la popolazione stabilizzata intorno alle 38.000 unità) che segna l’entità della trasformazione, quanto quello qualitativo: la rilevanza ormai raggiunta dal settore terziario nel quadro economico-occupazionale (dal 1971 al 1981 l’attività nel terziario passa dal 30% al 50% della popolazione attiva), il passaggio ormai definitivamente compiuto di Rozzano dal ruolo di fornitura di servizi elementari per l’area rurale al ruolo di polo in un sistema metropolitano policentrico, un impianto urbanistico nel quale nuclei già principali sono divenuti periferici e parti già marginali sono divenute centrali, una qualità urbana caratterizzata da una dotazione straordinariamente elevata (rispetto alla media provinciale e nazionale) di servizi e di spazi pubblici, e per la quale i residui problemi sono sostanzialmente rappresentati dalla necessità di continuare a migliorare le qualità ambientali attraverso operazioni progettuali e di recupero edilizio ed urbanistico.

In questo quadro registriamo l’adozione nel 1982 dei piani di recupero di Ponte Sesto, Cassino Scanasio, Rozzano ex capoluogo, il primo con prevalente destinazione pubblica, gli altri due con prevalente destinazione residenziale.

Ancora nel 1982 viene adottata una variante al Prg intesa a correggere alcune operazioni d’ufficio della regione in sede di approvazione risultate infondate, mentre nel 1985 viene introdotta infine una variante alla normativa delle zone industriali al fine di consentire insediamenti commerciali.

Qui sembra conveniente concludere questo capitolo relativo al governo delle trasformazioni territoriali inteso come storia del recente passato, poiché ciò che segue è piuttosto attualità e quindi oggetto di diverse considerazioni che attengono alle prospettive di evoluzione.

Gli spari di Rozzano fanno da innesco, sui giornali, a una faticosa e circospetta discussione sulle condizioni di vita nelle periferie urbane. È una discussione che ci coglie alle spalle, come certe rimozioni di dolori e disagi passati e irrisolti che riemergono da uno strato (inutile) di dimenticanza.

Già "periferia" è un termine anacronistico, da evo dell’industria, da padri e nonni inurbati a affastellati ormai mezzo secolo fa, come pezzi da immagazzinare, in tragici palazzoni che erano e sono grattacieli senza vanità, tristi parodie involontarie del lucente orgoglio dei centri direzionali e delle sedi del potere aziendale. Ma anche «condizioni di vita», o peggio ancora «qualità della vita», è un concetto che ci suona decrepito, e che maneggiamo con imbarazzo: perché ci rimanda diritti a un evo scomparso, quello nel quale i modi del vivere, dell’abitare, del lavorare, vennero tutti radicalmente messi in forse, e rivoltati alla luce critica dell’ideologia e delle utopie sociali.

Finita malamente e amaramente quella stagione, è come se le risposte sbagliate (perché brusche, e presuntuose) avessero condannato all’oblio anche le domande giuste. Tra esse, quella fondamentale era se fosse non solo accettabile, ma perfino possibile vivere nello squallore smemorato degli alveari periferici, deportati dai propri luoghi d’origine, scissi dalle proprie radici e impossibilitati - fuori dalla fabbrica e dalla politica: entrambe quasi estinte - a farsene delle nuove. In quel brutto istituzionalizzato galleggia oramai la seconda o terza generazione postoperaia, che neppure in lustri e lustri di panni appesi, e tanto meno grazie all’addobbo delle antenne paraboliche, è riuscita a trasformare quei depositi umani, quelle rotonde d’asfalto, quegli affacci sul nulla in identità sociale, in spirito di comunità, insomma in solida vita collettiva e in prospettiva di futuro.

C’è una domanda semplice semplice che ogni persona di questo paese, se in regola con la propria coscienza o almeno con la propria intelligenza, dovrebbe porsi: ma io vivrei lì, in quel clima sociale, con quel paesaggio davanti alle finestre? Attenzione: pur essendo una domanda morale, oltre che logica, non è quasi più posta, perché in quanto morale (e in quanto logica) puzza di altruismo, di preoccupazione sociale e di altri vizi oggi molto malvisti, e radunati a mazzo nella malapianta del "buonismo" ipocrita. Cioè: chiedersi se siano tollerabili le condizioni di vita di milioni di italiani, e chiederselo a partire da una strage insieme occasionale e endemica, è diventato un esercizio retorico degno di spregio. Indicare la bruttezza massificata, e la massificazione abbruttita (nelle città, in televisione, nelle vacanze ingorgate, ovunque) come matrice, o almeno una delle matrici, dell’infelicità e della violenza, è diventato un esercizio snobistico, da pensatore satollo e viziato, con casa in Umbria o in Maremma. Viceversa il classismo definitivo e feroce di chi depone la questione tra quelle insolubili (si sa, la società di massa è questa, non tutti possono abitare in Umbria o in Maremma) passa per realistico, e non ipocrita, e politicamente sapiente.

Più sapiente (per fortuna e per disgrazia) è però la realtà delle cose. Che costringe a infilare le telecamere, come in un viaggio a ritroso nella sostanza originaria del nostro vivere, nel dedalo informe dei suburbi della inutilmente ricca Lombardia, che vista dall’alto, dal cielo sopra Milano, è una immensa gettata di stradoni e case, capannoni e villette che si arrampica fino alle Prealpi, con la stessa precaria e misera ostinazione di uno sterminato insediamento post-terremoto.

Il terremoto è quello dell’industrializzazione, che in cambio di un benessere minimo ha devastato l’anima dei luoghi e delle persone. Siamo ancora lì, dopotutto e nonostante tutto, siamo al paese contadino che ha dovuto concentrare in pochi decenni quasi due secoli di trasformazione industriale deportando mezzo Meridione (l’industrializzazione forzata è stato il nostro stalinismo), e lo ha fatto in fretta e malamente, stravolgendo il senso di un abitare antico e coeso, fatto di borghi, di piazze, di trattorie e caffè.

Gli stranieri stanno comperando gli ultimi lembi di Italia centrale, i più intatti e vivibili, perché il censo e la cultura fanno loro da bussola. Da noi è accaduto che il censo, e l’ansia di conquistarlo a passi veloci, abbia reso la cultura (e le radici, e la coscienza di vivere in un paese che fu il più bello del mondo) una zavorra. Piccole élites nazionali condividono con il ceto medio europeo colto e abbiente la ricerca della sobria bellezza italiana, arroccata nelle piccole città e nelle splendide campagne. Per le masse, che pure da quei borghi e da quelle campagne hanno preso l’abbrivio, ci sono, ieri e oggi e sempre, le periferie delle metropoli, quelle che già Pasolini (quarant’anni fa) batteva cercandone inutilmente il cuore, e il nerbo umano.

Ma il discorso su bellezza e bruttezza, in un paese come l’Italia, non dovrebbe essere pane quotidiano, anche in politica, perfino in politica? Anche adesso che la televisione ha finito di demolire per bene il discrimine tra i due concetti, non basta Rozzano, povera Rozzano, a farci capire che, quando ci si arrende al brutto, si smette di ragionare sulla propria vita quotidiana? Mica su Giotto o su Svevo: sulla propria vita quotidiana.

Ho letto il testo di Paolo Desideri sulle periferie urbane pubblicato il 18 settembre su Repubblica e vorrei modestamente esporre qualche motivazione a completamento della mia parziale spiegazione dei problemi del quartiere ZEN a Palermo. Le motivazioni che ho addotto delle difficoltà di quel quartiere da me attribuite alla sua realizzazione parziale e senza i servizi previsti non sono poco. Vorrei qui aggiungere anzitutto che a conti fatti, credo, varrebbe ancora la pena di completare il quartiere ZEN, che potrebbe offrire così una condizione abitativa migliore dell´80% di ciò che è stato costruito a Palermo nel dopoguerra.

Belle o brutte poi, le costruzioni delle nostre periferie, nelle attuali condizioni di nessuna politica per le case a basso costo, sono tutte da utilizzare. Personalmente sono contro gli apparenti radicalismi delle demolizioni.

Desideri afferma però che la questione è più « strutturale» (come abbiamo imparato a dire da Karl Marx) e che esiste uno scollamento irreversibile tra i modelli offerti dal moderno per lo sviluppo della città e la cultura abitativa contemporanea. Giusto anzitutto il plurale perché i «modelli» sono molti e diversificati; dalla città giardino all´«unité d´habitation de grandeur conforme» e quindi diversi tra loro come lo ZEN e il Corviale di cui ho il massimo rispetto sia come qualità architettonica che come utopia. Mi pare invece che Desideri individui l´autentico nemico conservatore e passatista, nella pianificazione (flessibile o meno che essa sia) cioè nella costituzione di ipotesi di sviluppo compatibili e di regole da mettere in atto.

Quella che Desideri giustamente definisce «la mediocre utopia liberista» della deregolazione è invece ciò che presiede gli omogenei ed eterodiretti desideri della vastissima classe media. Giusto: anzi forse non ci sono più classi: solo ricchi e poveri, anche se questi ultimi aumentano sempre di più. Forse non si chiamano più proletari ma solo diseredati ma non per questo non necessitano di alloggi, di lavoro, di educazione, di sanità e, per far questo, uno sforzo collettivo, civile va fatto.

No, a me le questioni strutturali non sfuggono affatto; quello che mi sfugge sono le proposte alternative alle tradizioni del moderno; ciò che mi dispiace è che la cultura di architetti ed urbanisti non abbia saputo trovare nuove risposte credibili e durevoli dal punto di vista dell´architettura come da quello del vivere civile.

A meno di considerare una soluzione, una volta rivolto lo sguardo alla città diffusa, la sociologia e l´estetica della constatazione, del dilagare senza regole del costruito, della distruzione del bene finito territorio e della costruzione di un intrico costosissimo di infrastrutture all´inseguimento delle villette.

Dietro gli ideali del movimento moderno vi sono certamente illusioni, utopie e persino ingenuità, ma dietro alla città delle villette vi è solo la resa all´ideologia del soggettivismo postsociale: ci si può sempre arrendere ma penso che sia anche legittimo lottare per la ricostituzione proprio di quella «civitas» che viene invocata alla fine del suo testo.

Liberazione 8 agosto 2003

Cassonetti bruciati e rottami gettati in strada. Famiglie intere che bloccano il traffico. Una rabbia sociale che non si contiene. Sono le nuove barricate di periferia. Nuove trincee contro il degrado in cui versano i quartieri "dormitorio" di alcune metropoli italiane. Il tam tam silenzioso della rivolta contagia gli alloggi dello Iacp di Ostia, del Laurentino 38 di Roma o del S. Paolo di Bari. Da quindici giorni gli undici "ponti" del Laurentino 38 a Roma sono messi a ferro e fuoco. Gli abitanti sono scesi in strada, hanno formato barricate per manifestare contro le condizioni precarie nelle quali sono costretti a vivere. Si protesta per gli ascensori fuori uso da anni, per i rifiuti ammassati lungo le strade e nei giardini, per le infiltrazioni dell'acqua causate dagli scarichi a cielo aperto. Ed i cittadini denunciano una situazione sociale diventata insostenibile. Nella realtà i ballatoi dei "ponti" sono stati murati per farne alloggi abusivi. I nuovi poveri che bussano alla porta dell'Occidente ricco vengono a trascorrere qui le loro nottate dopo una giornata di fatica dedicata ad ingrassare qualche "padrone" dalla pelle più bianca della loro. E allora la protesta potrebbe innescare violenze a non finire. «Stiamo contenendo l'occupazione quotidiana di tanti extra-comunitari - ha dichiarato Salvatore Grilletto, residente al X ponte del Laurentino e rappresentante delle Rdb - Finora abbiamo dato un esempio di tolleranza, ma non vorrei che la situazione peggiorasse. Chiediamo maggiore vigilanza a tutela di tutti». E tre giorni, fa proprio al Laurentino, i residenti del IV e V ponte hanno incendiato i cassonetti e bloccato il traffico. I manifestanti chiedono la riparazione di un ascensore, maggiore pulizia, tutele contro la microcriminalità dilagante, la presenza della polizia. Il Laurentino, come lo Zen di Palermo o il S. Paolo di Bari sembra una polveriera sempre pronta ad esplodere. Analogamente a quanto avvenuto a Scampia a Napoli nel mese di giugno, la rivolta investe anche gli "occupanti della notte". La convivenza con gli extra-comunitari avviene in condizioni di completo abbandono da parte delle istituzioni. E la rivolta del Laurentino ha avuto un suo epilogo. Alle 3 del mattino, proprio al X ponte, si è verificato l'ultimo sgombero forzato. Benzina per dare fuoco ai giacigli della disperazione, ed è stato il fuggi-fuggi. Questi sono i quartieri delle nuove periferie. Enormi, densamente popolati, privi di servizi, nell'insieme paurosi. Che fare allora? C'è chi pensa alla demolizione e chi alla riqualificazione. E la mente va alle "Vele" di Napoli che saltano in aria oppure a "Sorridi città", operazione di capitalizzazione delle facciate del patrimonio immobiliare dello Iacp a Bari. A Roma con il piano regolatore del marzo 2003 si è proposto l'abbattimento degli ultimi tre ponti del Laurentino. Un'operazione limitata che non investe il quartiere nel suo complesso. Meglio allora, come sostiene Rifondazione comunista, dare impulso ai progetti di recupero e di integrazione sociale. Lavoro, istruzione e dignità, anzitutto. Il tam tam della rivolta invoca pari diritti nell'accesso alla vita. Per tutti.

Indagine: caro-abitazione al primo posto tra le spese degli italiani

Casa dolce casa. Corsa all'acquisto dell'abitazione nel centro Italia, e nel nord consumi soprattutto per prodotti non alimentari, mentre cresce la spesa alimentare nel Mezzogiorno anche se cala il consumo di olii e grassi. Tiene la carne anche dopo la paura di mucca pazza ma aumenta il consumo di pesce. Spendono così, gli italiani, secondo l'ultima indagine diffusa da Confcommercio che fotografa gli usi delle famiglie italiane nel quinquennio 1997-2002, evidenziandone le differenze geografiche. Dal borsellino delle famiglie italiane escono ogni mese soldi impegnati per il 24% in spese per la casa, 19,4% in alimenti e bevande, 14,3% in trasporti, 11,1% in altri beni e servizi, 6,8% abbigliamento e calzature, 6,4% mobili ed elettrodomestici, 4,9% tempo libero, cultura e giochi, 3,8% sanità. In questi anni la spesa media delle famiglie è cresciuta dell'8,3% con punte del 15% per le regioni del centro. Inferiore, invece, nelle regioni del sud (6,3%) che peggiorano di oltre un punto percentuale il gap che le separa dal livello medio di spesa familiare degli italiani. E se le famiglie del nord hanno incrementato in maniera significativa (7%) la spesa per i consumi non alimentari, nelle regioni meridionali il comportamento delle famiglie resta di tipo tradizionale ed evidenzia una maggiore attenzione alla spesa per la tavola (10%).

Dentro il dibattito autoreferenziale degli addetti ai lavori, irrompe talvolta il punto di vista di chi specialista non è, e forse proprio per questo finisce per vedere quello che sfugge agli esperti. È il caso, mi pare, dell´articolo di Michele Serra («Le periferie dimenticate dalla società dei sapienti» uscito su Repubblica il 26 agosto) a commento dei fatti di Rozzano.

Sul tema delle "periferie", dell´assenza di qualità dello spazio fisico e sociale che le caratterizza, Serra propone una elementare domanda che sembra fare piazza pulita dei tanti dibattiti degli addetti ai lavori: «Ma io vivrei lì, in quel clima sociale, con quel paesaggio davanti alle finestre?».

Una domanda a lungo elusa da noi architetti, che sembra porsi tuttavia persino la gente comune. Meglio sarebbe dire che da almeno trent´anni si è posta la gente comune mentre quella che Serra definisce la "società dei sapienti" - cioè gli architetti, gli urbanisti, gli amministratori - continuava a progettare, in cieca buona fede, i Corviale, gli Zen, i Tor Bella Monaca, i Laurentino 38. Uno iato ormai quasi incolmabile, quello tra le attese della gente comune e la cultura architettonica, che è possibile far risalire almeno agli anni Settanta. È a partire dalla seconda metà di quel decennio, infatti, che si segnala una svolta nel fenomeno dell´abusivismo edilizio. La casa abusiva diviene strumento di una società che non è più in grado di condividere i valori e la cultura abitativa proposta nella città pianificata. «Il rifiuto di un quartiere costituito da case multipiano è espressione di un giudizio negativo sulla incongruenza dell´impianto urbanistico con tipologie ad alta densità, che determinano una sindrome da ghetto appartenente alla tradizione dei quartieri popolari di periferia (...). L´indiscussa vincitrice del referendum sulla casa desiderata è risultata la piccola dimensione: il 56,9% degli intervistati ha indicato nella casa di borgata il luogo preferito dove vivere».

Era il 1983 e il Censis (nella Indagine conoscitiva sul fenomeno dell´abusivismo edilizio, realizzata su incarico del Comune di Roma) proponeva un´interpretazione dell´abusivismo edilizio come risposta alla deludente qualità della vita che gli ambienti urbani della città pianificata moderna sapevano garantire ai loro abitanti: «Il trasferimento nell´alloggio costruito illegalmente solo in pochi casi si configura come un evento dettato da una stringente necessità. Nella generalità esso appare invece come l´occasione di un miglioramento voluto e consapevolmente pianificato dagli standards abitativi. L´alloggio abusivo rappresenta quindi, per la maggioranza degli intervistati, la conquista di un miglioramento sostanziale del comfort abitativo. Accanto all´incremento della superficie abitabile e del numero medio di stanze si può rilevare un pronunciatissimo incremento delle superfici accessorie dell´alloggio e delle superfici scoperte di pertinenza dell´abitazione, specialmente costituite dai giardini e dalle aree libere».

Una bella lezione per gli architetti: a fronte della nostra incapacità di garantire qualità all´ambiente urbano, la gente comune cominciava ad autocostruirsi la sua villettopoli. Cominciava a percorrere quella strada che oggi consegna i nostri territori metropolitani a un oggettivo paradosso: da un lato ettari di aree suburbane informi (nelle quali, tuttavia, la gente vive volentieri); dall´altro interventi pianificati per mano pubblica (dove ogni persona in regola con la propria intelligenza non vorrebbe vivere).

Fin da allora dunque ce ne sarebbe stato a sufficienza per allertare "la società dei sapienti", che però ed al contrario, proprio in quegli anni metteva a segno alcuni tra i meno amati interventi edilizi di mano pubblica. Un "fiasco", a cogliere il giudizio pressoché unanime dei non addetti, che non ha nulla a che vedere, si badi bene, con la speculazione edilizia e con i cosiddetti "palazzinari", se è vero che le forze messe in campo per la progettazione provengono in buona parte dalle file giuste. Proprio in quegli anni e di fronte a quelle attese, Vittorio Gregotti e Franco Purini realizzano il quartiere Zen a Palermo (1970); Mario Fiorentino il Corviale a Roma (1974). Mi limito a citare questi due esempi perché in questi due casi, forse più che per i tantissimi altri esempi che si potrebbero citare, la divaricazione tra quello che in campo cinematografico chiameremmo il giudizio della critica ed il giudizio del pubblico, misura la maggiore distanza.

Perché dunque noi architetti abbiamo tanto apprezzato il Corviale e lo Zen che al contrario ogni persona "in regola con la propria intelligenza" ha individuato come manifestazione evidente dell´invivibilità dello spazio urbano contemporaneo?

Mi convince solo parzialmente la spiegazione che fornisce Vittorio Gregotti (Repubblica del 30 agosto): lo Zen non ha funzionato perché mai furono realizzati i servizi previsti, perché il progetto fu compiuto in modo frammentario, perché da subito l´amministrazione Ciancimino tentò di sottrarre ai progettisti ogni possibilità di controllo della realizzazione. Non è poco, certo. Anzi ce n´è a sufficienza per assicurare il fallimento di qualsiasi buon progetto. Ma tutto questo non coglie quello che a me pare il dato essenziale, e cioè lo scollamento irreversibile che con il Corviale e lo Zen noi possiamo misurare tra i modelli urbanistici messi a punto dal Movimento Moderno nel corso del Novecento, ed i modi e le attese e la cultura (o la sub-cultura) abitativa contemporanea nelle società post-capitaliste. Lo Zen e il Corviale rappresentano il punto di arrivo di una ricerca che in campo architettonico parte dal lavoro delle avanguardie degli anni Venti e Trenta, e si alimenta del pensiero dei grandi maestri del Movimento Moderno come Gropius e Le Corbusier. Un modello fondato in quegli "eroici" decenni della prima metà del Novecento, a partire dalle tumultuose esigenze di una società e di un´economia fondata sulla produzione industriale, sulle fabbriche, sulla manodopera, sulle lotte operaie, su un pensiero ancora di stampo modernista-determinista che garantiva un futuro inscindibilmente legato al progresso. Lo Zen e il Corviale sono il punto di arrivo di tutto questo: il che spiega l´apprezzamento degli architetti.

Ma proprio per questo essi rappresentano allo stesso tempo quanto di più distante possa essere percepito dalla società contemporanea. Dentro la quale sembrano scomparsi tutti gli attori che popolavano sino a ieri la società moderna: non più operai con le chiavi a stella; non più fabbriche; non più classe operaia ed anzi definitivamente non più classi sociali in assoluto; non più politica; niente più determinismo; e un futuro che appare non più irreversibilmente legato al progresso ed allo sviluppo.

Più consone alle attese e alla cultura abitativa dell´uomo contemporaneo, le tipologie autocostruite della città non pianificata, le casette della città diffusa, rappresentano la mediocre utopia liberista di un soggetto che in quelle architetture senza architetti realizza il suo contraddittorio paradiso individualista. Basterebbe guardarle con meno disgusto per rileggere, in filigrana, il soggetto metropolitano che le abita, le sue attese, la sua cultura abitativa. Un uomo metropolitano contemporaneo che a differenza di quello moderno si caratterizza subito per il suo fortissimo individualismo. È un soggetto che sembra l´opposto esatto di quello per il quale il moderno aveva efficacemente costruito una precisa cultura abitativa attraverso altrettanto precise tipologie edilizie. Sui Corviale, sugli Zen, sui Tor Bella Monaca, allora, si addensa il confronto, irreale, tra due culture dell´abitare: l´uomo e la cultura urbana moderna per il quale quelle tipologie furono messe a punto nel corso del secolo ormai passato; e l´uomo e la cultura che dovrebbe abitarle oggi, senza avere più nulla da spartire con i valori che quello spazio metteva in figura. Le motivazioni di Gregotti non percepiscono la crisi "strutturale" delle periferie di stampo modernista dentro la metropoli contemporanea. Una crisi che proviene dall´inadeguatezza del modello di città proposto e che ben poco ha a che vedere con la sua completezza.

Ma allora tutto questo mi sembra converga verso un limite: la cultura urbana espressa dal moderno, che è alla base della formazione di noi architetti, che è tuttora la struttura principale dell´insegnamento di architettura, è ampiamente superata nei fatti e dalla cultura materiale della gente comune. Solo partendo da questa definitiva consapevolezza potremo, e dobbiamo con urgenza e con passione, rifondare un rapporto accettabile tra urbs (cioè città fisica) e civitas (cioè società civile).

Erano i marginidella città

Ricordo com’erano le periferie delle nostre città, mezzo secolo fa. Erano luoghi lontani dalla città. Le periferie erano oltre le mura, oltre i sobborghi legati alla città vecchia dalla crescita di poche case, allineate lungo una strada. Erano, prevalentemente, in campagna: la interrompevano con i quartieri popolari di casermoni a molti piani, abitati prevalentemente dagli operai e dai contadini immigrati, o con le casette dei vari stili impiegati dagli architetti del regime (fascista) o da quelli della democrazia, oppure ancora (soprattutto a Roma) nei tuguri e nelle baracche di legno, lamiera e carrozzerie sfasciate.

Del resto l’Italia, fino allora, era ancora prevalentemente costituita da paesi e piccole città. Il fascismo aveva tentato, non senza successi, di frenare quello che veniva definito (e deprecato) come “urbanesimo”, considerato un pericolo anche socialmente: qualcuno si sarà ricordato, allora, il detto “l’aria della città rende liberi”? Nelle stesse terre che aveva bonificato, le Paludi Pontine, non aveva costruito metropoli, ma poche cittadine e una miriade di piccoli borghi.

Gli italiani vivevano ancora prevalentemente dell’agricoltura. Ogni palmo di terra era coltivato: nell’economia, la regola dell’autarchia aveva cancellato tutte le altre: la produttività non contava, contava solo la produzione. Le campagne, le colline, e anche le pendici e le valli delle montagne erano abitate da paesi, borghi, gruppi di case, casolari. Avevano magari la dimensione (ma non la struttura, non la vita) delle città i grandi paesi nelle terre del latifondo, in Calabria, Sicilia, Puglia, Lucania, dove i contadini vivevano a ore di distanza (a piedi o a dorso di mulo) dalla terra che coltivavano.

I quartieri e le borgate, che costituivano la periferia della città, ospitavano abitanti espulsi dai centri (come a Roma, a causa delle operazioni di bonifica edilizia nel centro), oppure contadini immigrati, respinti dalla povertà e attirati dal lavoro nelle fabbriche. Spesso erano paesi trapiantati in città, oppure ne avevano l’aspetto. I loro abitanti erano segregati dalla vita urbana: conoscevano la città attraverso i luoghi di lavoro: le case dei borghesi dove andavano a servizio, le fabbriche dove si inserivano nella catena di montaggio. Quasi come contropartita, le periferie avevano una identità precisa. Erano dei “luoghi”, ciascuno caratterizzato da un evento, da un comune destino, da un nucleo elementare di servizi (è bene ricordare che in quegli anni anche la fontana era un servizio: non serviva per abbellire, ma per gli usi domestici).

La “modernizzazione” del Belpaese

Le cose sono cambiate, violentemente e drammaticamente, proprio a cavallo del 1950. Per una serie di ragioni che sarebbe lungo raccontare, la decisione politica che fu assunta fu quella di affidare lo sviluppo economico e sociale ad alcuni settori portanti, tra cui svolgevano un ruolo di primo piano l’edilizia e la produzione di beni di consumo durevoli, e di inserire questo sviluppo in una cornice in cui, alle regole e alla libertà di una democrazia sempre più dispiegata, si accompagnava la difesa, ideologicamente motivata, della proprietà privata: anzi, la sua promozione, con l’assistenza dell’intervento pubblico.

Fu su queste basi che si raggiunse l’obiettivo di inserire l’economia italiana nel mercato mondiale, di spostare l’asse della vita economica dall’agricoltura all’industria manifatturiera, di accrescere il benessere e di ridurre le sacche di malcontento. Il prezzo più visibile che fu pagato dalle generazioni che sono succedute fu la distruzione della città e del territorio. La modernizzazione del paese fu raggiunta con quello che, dalle denuncie di Antonio Cederna, ricordiamo come lo scempio del Belpaese.

Lo scempio non fu solo costituito dalla distruzione di paesaggi, dalla devastazione di architetture, dalla dispersione di testimonianze della storia, dal saccheggio e dalla degradazione di preziose risorse naturali. Fu costituito anche dalla degradazione della città nel suo insieme. Gli antichi nuclei formati nei secoli che precedettero la cultura del cemento armato e del dominio del privatismo proprietario, accresciute con misura, e in una sostanziale continuità di disegno, nel secolo che precedette la seconda guerra mondiale, sono stati affogati da un’espansione indifferenziate di case e strade, in un caotico insieme di aggregati di alloggi uniti soltanto dalla rete del traffico automobilistico, dove la società si è tendenzialmente dissolta in una massa di individualismi, la complessità si è annullata in monofunzione, la comunicazione si è rovesciata in solitudine. La tendenza è stata insomma quella della distruzione della città da parte della periferia: anzi, delle periferie.

Molte periferie

Esistono in effetti molti tipi di periferie. Come ogni altra parte della città, le caratteristiche sono determinate soprattutto dalla loro nascita. Le periferie della “città pubblica”, nate per un programma socialmente orientato, su aree preventivamente acquisite dalla mano pubblica, secondo un progetto urbanistico definito e chiaro (a volte vittorioso alla prova dei fatti, altre volte sconfitto). Le periferie della speculazione tipica degli anni Sessanta, su un impianto urbanistico simile a quello della città dei decenni precedenti ma con un’estensione cento volte maggiore e densità edilizie decuplicate. Le periferie della speculazione fondiaria più moderna, condizionata dalla regole della lottizzazione convenzionata introdotta dalla “legge ponte”, meno povere di qualità edilizia e urbanistica ma nettamente separate dal resto della città. Le periferie dell’abusivismo urbanistico (attorno a Roma e le città del Mezzogiorno), manifestazione al tempo stesso proterva e miserabile dell’assenza, o del disprezzo, delle regole comuni della civitas. E le periferie della “città diffusa”, pulviscolo periurbano di case, casette, ville, villette e villettine, prevalentemente figlie del permissivismo delle legislazioni regionali, o delle loro applicazioni comunali nell’interpretare e nel piegare a fini di “sviluppo” le normative delle zone agricole.

Queste diverse tipologie si articolano poi e si declinano a seconda del luogo e del tempo. Così, i “quartieri” della città pubblica nati prima della legge 167 del 1962 scontano la segregazione provocata dai provvedimenti di finanziamento, destinati ora a quella categoria sociale, e le difficoltà nell’acquisizione di aree a prezzo sopportabile dai bilanci pubblici: in quelli successivi invece, almeno nelle regioni dove si è affermata una prassi di pianificazione urbanistica e di governo del territorio, l’integrazione tra i diversi ceti sociali, il livello di dotazione di servizi, l’efficienza degli impianti e della gestione urbani, l’integrazione con la città ne fanno degli esempi a livello dei migliori casi europei. E così, ancora, l’abusivismo straccione delle centinaia di casette tirate su dal tramonto all‘alba su lotti di 500 o 1000 mq uguali l’uno all’altro nella periferia romana degli anni Cinquanta è ben diverso da quello che ha impiegato i modelli edilizi e il i target di consumo del mercato legale.

Voglia di città

Un fatto è certo. Le periferie rappresentano oggi la città: è qui che si gioca la scommessa sul futuro della civiltà urbana. Ciò che è stato urbanizzato e costruito fino alla fine della seconda guerra mondiale ha seguito, in un modo o nell’altro, le regole che fino allora avevano determinato le trasformazioni urbane: dopo, le regole sono state travolte. La quantità (si calcola che il territorio urbanizzato è aumentato, nel cinquantennio, di cento volte) è diventata negazione della qualità. Nelle periferie, èla città stessa che si è degradata.

Così come sono state configurate nella grande maggioranza dei casi le periferie sono infatti la non città. Se la città è comunicazione, incontro, condivisione, identità (piazza, viale, passeggiata, centro, municipio, fontana, giardino), la periferia è divenuta “dormire e mangiare”, televisione, parcheggio e automobile, solitudine, anomia e anonimia.

Il fatto è che - come ho accennato - fino ai primi anni del dopoguerra le periferie erano parti della città: vivevano dei suoi servizi, del suo centro, e possedevano esse stesse (i quartieri e le borgate delle periferie) nuclei elementari di vita sociale. Oggi, gli antichi centri, le antiche città sono ricordi affogati nell’indistinta ameba del continuum urbano. La sete di relazioni, di vita sociale, di incontri rimane inappagata. Quanto essa sia intensa lo dimostrano gli episodi di vitalizzazione del centro storico, che richiamano nel luogo della centralità e degli incontri la parte più mobile della popolazione: i giovani.

Il primo episodio fu quello promosso da Renato Nicolini, assessore alla cultura a Roma, Sindaco Giulio Carlo Argan, negli anni Ottanta. Con una serie di iniziative culturali aperte si invitarono i giovani a venire, la sera, nelle piazze del centro. I locali rimanevano aperti fino a tardi, le strade e le vetrine illuminate. Fu un trionfo. In autobus e in motoretta, in automobile e a piedi, centinaia di migliaia di abitanti delle lontane borgate e dei quartieri intensivi delle periferie venivano nel centro, si impossessavano della città che non avevano mai conosciuta. Era voglia di evasione dai luoghi senza vita dove la maggior parte della popolazione era costretta a vivere, ed era voglia d’incontro, di scambio, di condivisione: era voglia di città.

Urbanizzare le periferie,ricostruire la città

È possibile soddisfare questa aspirazione, rispondere in termini non episodici ed eccezionali alla voglia di città? È possibile “urbanizzare” le periferie, renderle città? Questa è la grande scommessa dei prossimi decenni. Vincerla non sarà facile. Occorrerebbe in primo luogo avere chiare le direttrici dell’azione, gli obiettivi da raggiungere, i percorsi da seguire. Bisognerebbe comprendere, in primo luogo, che le periferie non si rinnovano se non si rinnova la città. Occorre una visione strategica, un progetto d’insieme della città, un “piano”: se non c’è , oppure se non è adeguato all‘obiettivo di riqualificare le periferie, occorre farlo. La città è un organismo unitario: non si salva a pezzi se i pezzi non sono tessere d’un mosaico chiaramente definito e condiviso. È solo a livello dell’intero sistema urbano e territoriale, del resto, che si possono risolvere due dei più gravi problemi che affliggono la vita delle periferie: quello del traffico e quello dell’organizzazione dei servizi e dei “luoghi centrali”.

Bisognerebbe poi assumere consapevolezza piena, nelle regioni devastate dall’abusivismo, che il ripristino della legalità violata è la premessa necessaria per qualsiasi operazione di riqualificazione della città e delle sue parti. Il recupero dei quartieri abusivi non può essere la premessa della sanatoria: esso deve essere possibile, invece, solo là dove le condizioni (urbanistiche, amministrative, patrimoniali) hanno consentito la sanatoria e questa è già avvenuta.

Bisognerebbe poi stabilire priorità precise, per rendere attendibile l’esito della riqualificazione. Due mi sembrano i parametri da prendere in considerazione per individuare le situazioni dove maggiori sono i margini di manovra e migliori le possibilità di riuscita: la densità territoriale e la situazione patrimoniale. È evidente, infatti, che il ridisegno dei quartieri, l’arricchimento delle funzioni (la “complessificazione” funzionale), la progettazione degli spazi pubblici sono operazioni praticabili dove la densità è ragionevolmente bassa e dove una configurazione vivibile può essere raggiunta senza riduzione del numero degli abitanti. Ed è altrettanto chiaro che la proprietà indivisa dell’area costituisce un requisito di base difficilmente sostituibile dalle improbabili alchimie delle contrattazioni tra proprietà suddivise.

In molte aree urbane, soprattutto dell’Italia del sud e del centro, i quartieri pubblici sono stati additati come il simbolo del degrado urbano: basta evocare lo Zen a Palermo o le Vele di Scampia a Napoli o Corviale e Laurentino 38 a Roma. Un’analisi attenta farebbe comprendere come le colpe siano più nell’assenza di gestione sociale che negli errori dei progetti. Ma mi sembra che proprio da quei quartieri potrebbe partire una sperimentazione nella quale la bassa densità territoriale e il controllo pubblico degli immobili potrebbero consentire l’introduzione di servizi e di funzioni urbane qualificate (e quindi la “complessificazione”), il miglioramento dell’accessibilità (e quindi dell’appetibilità per le utilizzazioni rare), e dunque la trasformazione dei quartieri dormitorio in parti della città.

Molto più difficile una riqualificazione delle vaste plaghe della periferia a bassa densità dove il modello sociale e urbanistico della casa unifamiliare su lotto recintato. In esse, la bassa densità territoriale consentirebbe, dal punto di vista tecnico, di definire soluzioni soddisfacenti e praticabili. Ma quando l’assetto fisico e sociale è profondamente segnato dall’individualismo proprietario il riscatto urbano apre contraddizioni difficilmente gestibili: occorreranno molto tempo e molta pazienza per far maturare le condizioni (innanzitutto sociali e culturali) che consentano di riqualificare porzioni significative delle fasce perturbane.

Ancora più complessa, e addirittura improbabile, una riqualificazione profonda dei quartieri ad alta densità. Lì ci si dovrà limitare a promuovere la “complessificazione” funzionale, attraverso un impiego rigoroso del controllo pubblico delle destinazioni d’uso, e a ridisegnare l’assetto degli spazi pubblici utilizzando le disponibilità delle abbondanti reti stradali dopo avervi “banalizzato” il traffico, e unificando in un unico disegno i brandelli di aree destinate al consumo sociale.

Recuperare mezzo secolo di errori

La difficoltà che si incontreranno, se si vorrà assumere sul serio l’obiettivo della trasformazione delle periferie in città, danno la misura degli errori che si sono compiuti nel mezzo secolo trascorso. Non è questa la sede in cui interrogarsi sulle responsabilità di quegli errori, nà sulle loro matrici. Vale però la pena di sottolineare un rischio nel quale si può cadere di nuovo, in questi tempi nei quali l’allentamento delle regole, la valorizzazione del “privato”, il consenso dei ceti sociali più forti sembrano gli obiettivi centrali degli amministratori delle città. Il rischio di dimenticare che la città, per la sua stessa natura, richiede l’esercizio di un potere pubblico forte, autorevole, determinato, dotato di una visione lungimirante e capace di far prevalere gli interessi della collettività su quelli dei singoli individui e gruppi, di tutelare gli interessi delle generazioni future a fianco di quelli del presente.

Nelle aree e nelle città in cui si è saputo comportarsi così nel cinquantennio che sta alle nostre spalle, oggi le periferie sono città, non pongono i problemi gravi che inquietano altrove. Non sarebbe male ricordarlo. Altrimenti, l‘impresa di riqualificare le periferie correggendo mezzo secolo di errori non meriterebbe neppure d’essere avviata, perché sarebbe condannata al fallimento.

Ho letto qualche intervento sulle periferie sul tuo sito. Ho letto anche le sciocchezze sui giornali, di chi, alla ricerca (inconsapevole, naturalmente) di una sorpassata "ecologia sociale", tenta grottescamente di correlare certo sviluppo urbano con la devianza dei cittadini: un semplicismo bigotto che raggela l'animo ma non stupisce, perché cosi va questo mondo "real tv", e questa "politica tg4". Ho pensato, appena ho visto il ritorno del tema "periferia", che si trattasse del solito "tormentone" estivo, ed in parte, credo, lo è stato.

Ma c'è di più. La memoria, per esempio. Che è diventata un problema mantenere ("manutenere") nonostante le capacità archiviative e consultative di cui oggi disponiamo. Quanta ignoranza ruspante c'è nelle righe di chi scrive articoli (anche strumentali) su fatti e luoghi che hanno una storia, profonda e (tra l'altro) assai studiata, e vengono raccontati con argomentazioni funamboliche e anacronistiche? Come se 150 anni di filosofi, sociologi, architetti, urbanisti (ecc.) e quintali di carta stampata - sul tema "periferie" e "cittadini periferici" - non fossero mai esistiti, i moderni "informatori" ci "aggiornano" sulle loro scoperte: come antropologi in una nuova foresta, a contatto con tribù remote e incontaminate, lavorano a reportage strepitosi, per lettori vergini; conviti d'essere originali! Forse questi "peones" dell'informazione sono il veicolo più (pericolosamente) audace per riscrivere la storia. Perché, com'è noto, la storia l'hanno scritta i comunisti.

Ma c'è ancora dell’altro. Che dire della "periferia" che sta in alcuni centri storici, o in alcuni centri e basta, di alcune città italiane. Troviamo bellissimi edifici e paesaggi costruiti da lasciar il fiato sospeso, nei centri storici. Non c'è (molto spesso) l'ombra di casermoni né la mano di architetti post moderni (e vetero comunisti). Eppure, vivendo o passando, in qualche centro storico, mi sembra di vedere "sporcizia", "degrado", "incuria", "assenza di servizi alle famiglie", "insicurezza"; che sono, mi pare, gli attribuiti delle neglette periferie. È vero, c'è la "bellezza" del centro che compensa. Ma può l'uomo vivere di solo pane?

E ancora. Ho rivisto qualche notte fa il film "I piccoli maestri" (di Daniele Lucchetti), dove si tenta (con buon esito) di raccontare la storia (una parte) dell'ultima guerra mondiale dopo l'8 settembre (?); dove i protagonisti (i piccoli maestri) si danno regole per bandire la retorica della loro azioni. La punizione, per chi non rispetta la regola, è "pane e acqua per una settimana". Non mi astengo allora dall'augurare "pane e acqua per una settimana", a chi si spinge sulla fune dell'informazione saldamente legato alla retorica. Molti giornalisti (e politici, e pensatori, e opinionisti, e...) sparirebbero, credo, per la magrezza provocata da questo austero pasto.

Mi ha colpito una originale interpretazione musicale della nuova periferia milanese. Il ricorso alla musica nei discorsi sull’architettura e sull’arte che vanta non pochi autorevoli precedenti del Novecento (Ginzburg, Taut, Le Corbusier, Badovici, Ozenfant, Kandinsky…) è sempre più abituale fra architetti e urbanisti. Mi devo adeguare. “Lo spazio periferico e della dispersione” sarebbe ”qualcosa di più importante, di più coerente alla nostra società, al nostro sistema di valori, anche alle nostre aspirazioni, solo che lo si sappia cogliere. […] la periferia è come il passaggio dalla grande musica che tra Rinascimento e secolo scorso [XIX) si assesta nelle grandi forme dello ‘stile classico’ alla musica di Shönberg, Berg, Debussy […]. Dall’abbandono delle grandi forme compositive sono derivati alcuni fondamentali problemi” [1]. L’autore sta scrivendo del “dilagare metropolitano” [2], circa il quale fenomeno altrove mette in guardia da esprimere un giudizio, talora diveniente “esplicito rifiuto” infine impedimento “a cogliere il nuovo che è in marcia” [3]. Allora l’autore giudica, questo “nuovo” è un avanzamento, direi una rivoluzione se lo si paragona alla musica dei due viennesi (Debussy sembra appiccicato lì). Quanto ai problemi: non risolti, si direbbe. Il “passaggio”, mi pare, avviene altrimenti: sull’onda del Romanticismo, accensione del pieno sentimento sulla base della ratio nei secoli verificata. Schönberg secondo la critica condivisibile di Adorno appartiene al filone romantico, in lui la ragione dodecafonica vive nel permanere di quello spirito [4]. Proviene da Wagner e da Brahms; la vocazione rivoluzionaria risale a Bach. La dodecafonia, una piena rifondazione delle strutture musicali, da un lato è costruzione di un nuovo ordinamento, la mirabile rete di sostegno costituita dalla funzione prioritaria delle serie di dodici note; dall’altro, proprio grazie alla chiarezza dei vincoli, è invito, se colti nel loro cuore già pulsante di creatività, a libertà forse sconosciute sia alla musica esclusivamente tonale, sia alle forme dell’espressionismo più coraggiose (egli stesso, qui, precedente protagonista). Vincoli e libertà che riconducono alla potenza della revisione bachiana (l’equabilità nelle ventiquattro paritarie tonalità del Clavicembalo ben temperato). D’altronde i quartetti di Schönberg antecedenti o successivi al manifesto della dodecafonia stanno alla pari dei quartetti di Beethoven. Se per “grandi forme compiute” si intendono le sinfoniche, nemmeno queste mancano, sebbene non possa essere questo il solo punto dirimente.

Cosa c’entrano con tutto ciò quelle periferie se non al contrario quanto a simbiosis fra ragione e sentimento? Chi sa ascoltare l’architettura, lo spazio umanizzato, la composizione urbana, il paesaggio, quando ha cercato di ascoltare anche quei pezzi di “città esplosa […] brutta” [5], non ha udito, sentito (recepito con tutti i sensi) musica. Svagavano nell’aria suoni fessi o muti, cosa ben diversa dal silenzio delle pause, indispensabile deuteragonista della composizione musicale. La musica è forse la suprema delle arti dal momento che raduna a sé tutte le altre, compresa l’architettura [6]. Come accostarvi tale periferia? Né reggerebbe un paragone fra spontaneismo di certi assetti residenziali neo-coreani, all’apparenza, e la musica popolare o la musica improvvisata. La prima è piena di convenzioni molto serie. Le improvvisazioni, sia la più frequente espressione nell’età barocca fino a metà del Settecento, sia un Mozart al clavicembalo (che poi le trascriveva), sia le cadenze (tutte tramandate in scrittura), sia la forma più significativa, il jazz dei due periodi d’oro, non avrebbero potuto sussistere senza le strutture, architettoniche direi, di riferimento. Peraltro questa città esplosa potrebbe essere così “perché qualcuno l’ha pensata” [7]. Quanto ai nuovi mostri del terziario finanziario e/o commerciale sparpagliati nella metropoli, non dovrebbe restare a noi architetti , non alla musica, che un rumoroso silenzio di protesta per tanta protervia. Sempre altrove l’autore attribuisce alle “lottizzazioni della città diffusa” caratteri di “discontinuità, eterogeneità, apertura, assenza di narratività, di una logica narrativa e dispositiva” [8]: un mondo opposto a quello del progettista Schönberg, rigore ed espressione in uno, ma anche a quello di tutti gli altri grandi compositori. Sicché solo per benevolenza, penso, altri concede che la necessaria “educazione [degli studenti] alla dimensione sinfonica, alla complessità del progetto possa corrispondere “l’ascolto della musica schönberghiana che forse si può rintracciare nella periferia” [9]. Diverso dall’impossibile rintracciamento per inesistenza della cosa nella realtà è la possibile scoperta di un incitamento al progetto attraverso difficili percorsi mentali spirituali corporei nell’ascolto. Si dà il caso, davvero interessante sul piano della trasmissione per vie misteriose di messaggi non inviati per vie normali, che parecchi anni prima facessi ascoltare agli studenti il terzo quartetto di Schönberg (1927, dodecafonico) mentre ci si accingeva a progettare “nuovi spazi locali” in comuni dell’hinterland. Cosa ne venne, da Schönberg? Non so nulla di risultati diretti. So di un piccolo deposito di sensazioni in alcuni studenti, so delle discussioni non banali con loro: giovani che forse avrebbero conquistato in seguito la maturità degli allievi del maestro viennese, ai quali egli si rivolge con grande rispetto nella prefazione al corposissimo Manuale di armonia, poche pagine di un grande insegnante ed educatore [10].

Città “diffusa”… Aggettivo insufficiente per indicare sia negatività sia positività. Se si aggiungono le definizioni citate e altre note, per esempio “confusa”, tutte convergono verso l’immagine di uno spappolamento, letteralmente, come in medicina, un processo di alterazione delle strutture di un tessuto prodotto da gravi lesioni, una perdita di consistenza riducentesi a poltiglia, come “il tessuto perduto della coscienza” [11] di urbanisti e architetti. Emerge la realtà del circondario milanese nella mezza corona settentrionale, e di altre agglomerazioni ravvicinate quali la Brianza, Busto Arsizio con Legnano e Gallarate, ecc. [12].Ma una metropoli diffusa potrebbe consistere in tutt’altra organizzazione e forma del territorio. Definendole policentriche vi si attribuisce un titolo di assoluta positività. Esse persistono, dure a morire, anche nel milanese, rappresentate grosso modo dalla semi-corona opposta alla precedente: eredità residuale, modesto e vacillante lascito da un ben più grande patrimonio non gravemente intaccato fino al secondo dopoguerra. Troppi urbanisti italiani, usando l’aggettivo “diffusa” puro e semplice in senso positivo riguardo al “dilagare metropolitano” e nascondendone i risvolti affatto preoccupanti, esprimono la portata della svolta culturale: perdita di ogni legame con la storia sia del territorio lombardo e milanese sia delle teorie e sperimentazioni corse in un secolo e mezzo di sviluppo del pensiero sociale e urbanistico. Quando essi un po’ piegati a sociologi avvisano del pericolo insito in prese di posizioni culturali ritenute elitarie (osare giudicare persino il bello e il brutto) a fronte di fenomeni insediativi metropolitani tipo le lottizzazioni residenziali piccolo-borghesi o i Monte Bianco del terziario e i centri commerciali dell’ultima generazione (i finti paesetti), e dei relativi comportamenti, sanno bene qual è l’oggetto in discussione: quella poltiglia invasiva e pervasiva a flussi e a salti come una lava o come i baccelloni del vecchio film di fantascienza Una cosa dall’altro mondo. Può darsi che le popolazioni residenti o frequentanti siano soddisfatte o, meglio, credano di esserlo. Quanto si sa, fuori da sociologismi e badando ai fatti, di cultura, sentimento e scelte socio-politiche degli attuali ceti maggioritari, quanto soprattutto riguardo ad ambiente, natura, architettura, arte e così via, non ammette inganni. In tanti casi di penosità, vista da fuori, dello stare, lavorare, muoversi, consumare, svagarsi ci sarebbero state rivolte se non si fosse verificato una sorta di mutamento antropologico: adatto ad accondiscendere a un modello sociale e territoriale conveniente non a quei ceti, né ad atri meno favoriti, ma alla classe occupante l’intero fronte della mancata contesa sociale: produzione, distribuzione, consumo, territorio, cultura. Che poi ai meteci vengano sparse appaganti briciole non è una contraddizione, è l’ultimo tornar di conto. Sarebbe dunque sorprendente che l’abitante medio di territori privi delle dotazioni e delle qualità che non troppo tempo fa l’urbanistica e l’architettura italiane ritenevano loro compito progettare e ambivano realizzare (l’esempio proveniva da altri paesi), persona inoltre tutta diversa da “l’uomo della metropoli” del terzo decennio del XX secolo secondo Willy Hellpach [13], non fosse o non pensasse di essere contento della sua debolezza. Fra l’altro gli si è insegnato l’odio contro la città compatta, il cuore a cui è pur costretto a rivolgersi continuamente. Gli abitanti delle Lewittowns, certamente campioni di americano conformismo, secondo il sociologo Herbert Gans, ricercatore né troppo grave né troppo indulgente, espressero consenso, come certi inglesi, allo “stile suburbano” [14]. Lo fecero però dopo aver verificato le dotazioni, la congruenza dell’offerta rispetto non solo o non tanto alle risorse familiari bensì a una serie di istanze, inusuali agli italiani, corrispondenti a linee-desiderio da giudicare sapendo il diverso rapporto fra la città esistente e i nuovi insediamenti nello spazio regionale vuoto. William Lewitt e i suoi specialisti li progettavano con qualche cura, tipi di case a uno a due piani soltanto, giardinetto, servizi della comunità civili e commerciali (non troppo generosi…) [15]. Così l’habitat dei Lewittowners che noi “gente di gusto” [16] non possiamo non criticare se non denigrare (i tre “stili” di case poi… [17]) è migliore dell’habitat dell’hinterland milanese. Dove , incredibile dictu, per trovare un quartiere realizzato in base a un progetto urbanistico e architettonico di qualità si va all’arcaico quartiere Ina-casa di Cesate, non per caso presentato al Ciam di Aix-en-Provence nel 1952: quartiere che i cantori del nuovo che avanza riterranno patetico [18].

Una parte consistente, penso maggioritaria, della cultura urbanistica nazionale considera doverosamente liberista l’accantonare Come in altri campi, ai signori Lewitt nostrani, ai nostri imprenditori di urbanistica e di edilizia non importa nulla dell’urbanistica, dell’architettura, del paesaggio, degli uomini. Si affidano alla comune insipienza o costrizione della domanda. È di nuovo la “ Cacotopia: la dissipazione privatistica” di cui in Patrick Geddes [19] poco meno che un secolo fa. Una parte consistente della cultura urbanistica nazionale considera doverosamente liberista l'accantonare non solo qualsiasi piano ma ogni idea di città. Come in una guardinga tautologia l’urbanistica è la stessa realtà fisica della città e del territorio, quali sono e mutano grazie al mercato e alle forze economiche più dinamiche. È “la mera cultura dell’esistente” [20]. Gli imprenditori privati, ben poco simili agli inassistiti omologhi americani, sono essi gli urbanisti autentici del fare sostenuti dagli urbanisti del dire (tale per esempio la sostanza del documento programmatico fornito alla giunta comunale di Milano l’anno scorso). Gli uni e gli altri ora hanno disponibile un nuovo perfetto manuale, il libro di Massimiliano Fuksas, Caos sublime: una laudatio della deregulation, del magma informe quale unico contesto territoriale ammissibile, delle baraccopoli abusive, della Tokio cresciuta senza piano [21]. Tali atteggiamenti sono del tutto diversi dalla oggettività e serietà della ricerca scientifica. Caratteri che riconosco allo studio citato Il territorio che cambia. Ambienti…, tra l’altro dotato di efficaci foto aeree. Tuttavia s’impone una critica di fondo: è talmente malthusiano nell’evitare valutazioni di merito, consistendo essenzialmente in una “descrizione” benché apprezzata dal commentatore come creativa se la definisce “ricerca fertile del ‘nuovo’ che investe lo spazio urbano dell’area milanese” [22], da sfiorare talvolta soglie pericolose, a mio parere, circa la destinazione alla formazione scientifica e artistica degli studenti: vedo per esempio la pubblicazione di fotografie di quei mostri edilizi, come il Procaccini Center di via Messina o la sede della Bnl in via Lorenteggio, a Milano, senza alcun commento sull’architettura [23]. Se anche quest’ultima la si ritiene sempre oggettiva, fenomeno naturale indiscusso, un “nuovo” derivante inevitabilmente da nuovi processi, rapporti e procedure economici sociali politici (nella sfera del pensiero filosofico una miscellanea di necessità e casualità, una specie di determinismo necessaristico, cioè Stalin che dà la mano al capitale e alla chiesa), si dovrebbe abolire nella scuola ogni ragionamento dialettico sulla costituzione dello spazio e sull’architettura anche nella sua interiorità, oltre che sulle questioni strutturali che la sottendono e le sovrastrutturali che la sovrintendono.

Tanto vale chiuderla, la scuola.

Note

[1] B. Secchi, Progettarela periferia e la città diffusa, in C. Macchi Cassia (a cura di), Il progetto del territorio urbano, Politecnico di Milano, 1993, 1996, Angeli, Milano 1998, p. 194.

2 Ivi.

3 B. Secchi, Un commento ai risultati dello studio, in S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, Il territorio che cambia. Ambienti, paesaggi e immagini della regione milanese, Abitare Segesta Cataloghi, Milano 1993, p.269.

4 Cfr. T. W. Adorno, Filosofia della musica moderna ( Philosophie der neuen Musik, 1949), Einaudi, Torino 1979 (1959), p.24. “Oggi la musica della scuola di Schönberg è il contrario di quella ‘vuotezza di pensiero e di sentimento’ che Hegel temeva”. Vuotezza di pensiero e di sentimento, è questo la nuova periferia.

5 G. Consonni, Urbanistica come medicina e come musica, in C. Macchi Cassia (a cura di), cit., p.196.

6 “La musica prima di tutto”, “tutte le arti tendono alla musica”, così B. Barilli a proposito del pensiero di Kandinsky, in Kandinsky e la smaterializzazione dell’arte, in Aa.Vv., Wassily Kandnisky. Tradizione e astrazione in Russia 1896-1921, catalogo della mostra alla Fondazione Mazzotta , Milano febbraio-giugno 2001, pp.41 e 42.

7 G. Consonni, cit.

8 B. Secchi, cit., p.267.

9 G. Consonni, cit.

10 Cfr. A. Schönberg, Manuale di armonia ( Harmonielehre, 1922), a cura di L. Rognoni, Il Saggiatore, Milano 1963, Prefazione, pp.1-5.

Ho dato rilievo alla musica nel libro Architettura e paesaggio. Memoria e pensieri, Unicopli, Milano 2000, capitolo Intermezzo (così detto anche a causa di non brevi incursioni musicali) sulle sensazioni, in particolar nel sottocapitolo Paesaggi sonori. Architettura musica / Musica architettura, pp. 65-70.

11 H. James, La tigre nella giungla ( The Beast in the Jungle, 1903), Cederna, Milano 1947, p.89, anche in Romanzi brevi, II, Mondadori, Milano 1990, p.986.

12 Circa l’individuazione e descrizione delle aree più fortemente urbanizzare della “regione milanese” vedi la ricerca citata Il territorio che cambia. Ambienti…Sulla conurbazione a nord di Milano e il diverso tipo di espansione nella pianura irrigua a sud vedi anche C. Bianchetti e B. Secchi, Milano, ad esempio, in “Casabella”, n.596, dicembre 1992, pp.44-47. Fra i miei interventi di anni fa si possono consultare: Ambiente e forme del suburbio urbano milanese, in Aa.Vv, Morfologia e progetto per le trasformazioni urbane, (a cura di A. Bazzi e C. Morandi), Clup, Milano 1986, pp.144-149; Introduzione a Aa.Vv., Progetto e contesto: il ruolo della storia, in Aa.Vv. Complessità e progetto: quali politiche per il territorio, (a cura di L. Diappi e S. Tintori), Clup, Milano 1987; Paesaggio agrario e periferia metropolitana (con O. Valli), in Aa.Vv., L’origine, le trasformazioni e l’uso del territorio. Un approccio didattico interdisciplinare: il caso di Rozzano (a cura di C. Capurso), Cieds, Rozzano 1987, pp. 75-83; Ricerca e progetto nella periferia della metropoli, in “qa16. Quaderni del Dipartimento di progettazione dell’architettura del Politecnico di Milano”, n.16, marzo 1994, pp. 154-164.

13 Vedi W. Hellpach, L’uomo della metropoli ( Mensch und Volk der Grosstadt, 1938, 1952) Comunità, Milano 1960.

14 J. M. Richards, in L. Rodwin, Le città nuove inglesi ( The British New Town Policy, 1956), Marsilio, Padova 1964, p. 239.

15 Cfr. H. J. Gans, Indagine su una città satellite Usa., ( The Lewittowners, 1967), Il Saggiatore, Milano 1970, pp. 303-309.

16 J. M. Richards, in L. Rodwin, cit.

17 Cfr. Herbert J.Gans, cit., p.34.

18 Progettisti F. Albini, G. Albricci, Bbpr, E. Castiglioni, I. Gardella. La pubblicazione più esauriente è in “Casabella continuità”, n.216, giugno 1957, pp.452-457.

19 P. Geddes, Città in evoluzione ( Cities in evolution, 1915), Il Saggiatore, Milano 1970, p.93.

20 Documento del Dipartimento di progettazione dell’architettura Quaderni di architettura 23. La nuova periferia, 6 luglio 2001, p. 1.

21 Vedi M. Fuksas con P. Conti, Caos sublime, Rizzoli, Milano 2001. Confesso di non aver letto il libro. Mi fido dei commenti sui quotidiani del 29 e 30 luglio 2001.

22 B. Secchi, Un commento…, cit., p.265.

23 Cfr. S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, cit., figg. a pp. 91 e 90. Quasi tre lustri fa lamentavamo i fenomeni nuovi relativi alla lacerazione del territorio nella fascia meridionale della metropoli: “passaggio diretto e immediato da un’agricoltura altamente qualificata, seminativo irriguo di forte produttività, per esempio ai pretenziosi torvi estranei edifici di Assago”, L. Meneghetti e O.Valli, L’origine…, cit., p.81: Milano fiori, in provocazione botanica; a cui avrei potuto aggiungere fra l’altro, perché altrettanto botanico oltre che berlusconiano anziché cabassiano, Girasole di Lacchiarella. Oggi nella metropoli i manufatti a cui mi riferisco rappresentano una violenza anche maggiore a causa della loro imponenza altezza obesità e del loro “stile”.

[1] B. Secchi, Progettarele periferie la città diffusa, in C. Macchi Cassia (a cura di), Il progetto del territorio urbano, Politecnico di Milano, 1993, 1996, Angeli, Milano 1998, p. 194.

[2] Ivi.

[3] B. Secchi, Un commento ai risultati dello studio, in S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, Il territorio che cambia. Ambienti, paesaggi e immagini della regione milanese, Abitare Segesta Cataloghi, Milano 1993, p.269.

[4] Cfr. T. W. Adorno, Filosofia della musica moderna (Philosophie der neuen Musik, 1949), Einaudi, Torino 1979 (1959), p.24. “Oggi la musica della scuola di Schönberg è il contrario di quella ‘vuotezza di pensiero e di sentimento’ che Hegel temeva”. Vuotezza di pensiero e di sentimento, è questo la nuova periferia.

[5] G. Consonni, Urbanistica come medicina e come musica, in C. Macchi Cassia (a cura di), cit., p.196.

[6] “La musica prima di tutto”, “tutte le arti tendono alla musica”, così B. Barilli a proposito del pensiero di Kandinsky, in Kandinsky e la smaterializzazione dell’arte, in Aa.Vv., Wassily Kandnisky. Tradizione e astrazione in Russia 1896-1921, catalogo della mostra alla Fondazione Mazzotta , Milano febbraio-giugno 2001, pp.41 e 42.

[7] G. Consonni, cit.

[8] B. Secchi, cit., p.267.

[9] G. Consonni, cit.

[10] Cfr. A. Schönberg, Manuale di armonia (Harmonielehre, 1922), a cura di L. Rognoni, Il Saggiatore, Milano 1963, Prefazione, pp.1-5.

Ho dato rilievo alla musica nel libro Architettura e paesaggio. Memoria e pensieri, Unicopli, Milano 2000, capitolo Intermezzo (così detto anche a causa di non brevi incursioni musicali) sulle sensazioni, in particolar nel sottocapitolo Paesaggi sonori. Architettura musica / Musica architettura, pp. 65-70.

[11] H. James, La tigre nella giungla (The Beast in the Jungle, 1903), Cederna, Milano 1947, p.89, anche in Romanzi brevi, II, Mondadori, Milano 1990, p.986.

[12] Circa l’individuazione e descrizione delle aree più fortemente urbanizzare della “regione milanese” vedi la ricerca citata Il territorio che cambia. Ambienti…Sulla conurbazione a nord di Milano e il diverso tipo di espansione nella pianura irrigua a sud vedi anche C. Bianchetti e B. Secchi, Milano, ad esempio, in “Casabella”, n.596, dicembre 1992, pp.44-47. Fra i miei interventi di anni fa si possono consultare: Ambiente e forme del suburbio urbano milanese, in Aa.Vv, Morfologia e progetto per le trasformazioni urbane, (a cura di A. Bazzi e C. Morandi), Clup, Milano 1986, pp.144-149; Introduzione a Aa.Vv., Progetto e contesto: il ruolo della storia, in Aa.Vv. Complessità e progetto: quali politiche per il territorio, (a cura di L. Diappi e S. Tintori), Clup, Milano 1987; Paesaggio agrario e periferia metropolitana (con O. Valli), in Aa.Vv., L’origine, le trasformazioni e l’uso del territorio. Un approccio didattico interdisciplinare: il caso di Rozzano (a cura di C. Capurso), Cieds, Rozzano 1987, pp. 75-83; Ricerca e progetto nellaperiferia della metropoli, in “qa16. Quaderni del Dipartimento di progettazione dell’architettura del Politecnico di Milano”, n.16, marzo 1994, pp. 154-164.

[13] Vedi W. Hellpach, L’uomo della metropoli (Mensch und Volk der Grosstadt, 1938, 1952) Comunità, Milano 1960.

[14] J. M. Richards, in L. Rodwin, Le città nuove inglesi (The British New Town Policy, 1956), Marsilio, Padova 1964, p. 239.

[15] Cfr. H. J. Gans, Indagine su una città satellite Usa., (The Lewittowners, 1967), Il Saggiatore, Milano 1970,pp. 303-309.

[16]J. M. Richards, in L. Rodwin, cit.

[17] Cfr. Herbert J.Gans, cit., p.34.

[18] Progettisti F. Albini, G. Albricci, Bbpr, E. Castiglioni, I. Gardella. La pubblicazione più esauriente è in “Casabella continuità”, n.216, giugno 1957, pp.452-457.

[19] P. Geddes, Città in evoluzione (Cities in evolution, 1915), Il Saggiatore, Milano 1970, p.93.

[20] Documento del Dipartimento di progettazione dell’architettura Quaderni di architettura 23. La nuova periferia, 6 luglio 2001, p. 1.

[21] Vedi M. Fuksas con P. Conti, Caos sublime, Rizzoli, Milano 2001. Confesso di non aver letto il libro. Mi fido dei commenti sui quotidiani del 29 e 30 luglio 2001.

[22] B. Secchi, Un commento…, cit., p.265.

[23] Cfr. S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, cit., figg. a pp. 91 e 90. Quasi tre lustri fa lamentavamo i fenomeni nuovi relativi alla lacerazione del territorio nella fascia meridionale della metropoli: “passaggio diretto e immediato da un’agricoltura altamente qualificata, seminativo irriguo di forte produttività, per esempio ai pretenziosi torvi estranei edifici di Assago”, L. Meneghetti e O.Valli, L’origine…, cit., p.81: Milano fiori, in provocazione botanica; a cui avrei potuto aggiungere fra l’altro, perché altrettanto botanico oltre che berlusconiano anziché cabassiano, Girasole di Lacchiarella. Oggi nella metropoli i manufatti a cui mi riferisco rappresentano una violenza anche maggiore a causa della loro imponenza altezza obesità e del loro “stile”.

Piaga, bubbone, verruca, metastasi. Non sono lusinghiere le immagini che usiamo per parlare delle nostre periferie. Quando ne parliamo: moltissimo sull’onda emotiva del massacro di Rozzano; pochissimo invece negli ultimi anni e decenni, dopo l’abbuffata ideologica dei Sessanta e dei Settanta, e prevedibilmente anche in quelli che verranno, sparatorie permettendo. È davvero una terra di nessuno quella dei quartieri-dormitorio, espulsa dal dibattito, dimenticata da giornali, libri e cinema, spesso sconosciuta anche ai cittadini delle medesime metropoli che contorna e soffoca. "Non conosco quasi nessuno che c’è stato a Corviale", dice Franco Cordelli che al serpentone romano, monumento all’utopia urbanistica prima e al degrado poi, ha dedicato un romanzo, ‘Un inchino a terra’.

Già. Si può vivere a Roma, a Milano, a Palermo, a Napoli, a Bari, senza neppure vederli, i ‘mostri’: Corviale, Rozzano, lo Zen, le Vele (finché c’erano), San Paolo. Ma dalla ‘zona rimozione’ i malanni urbanistici ineluttabilmente riaffiorano, più insanguinati e febbricitanti, più repellenti e incattiviti di prima. E allora, in attesa del prossimo insabbiamento collettivo, ecco la domanda: che fare? Ed ecco le risposte, paradossali o ragionevoli, opportunistiche o sconsolate, dalla proposta di Renzo Piano di far adottare dall’Unesco le periferie del mondo come patrimonio dell’umanità, a quelle due righette nella bozza del prossimo Dpef, il documento di programmazione economico-finanziaria per il 2004-2007: riqualificare "attraverso interventi di demolizione e ricostruzione sui tessuti urbani degradati".

Tutto giù per terra? E un diluvio di calcinacci che sommerga, infine, la sventata Babele orizzontale dei quartieri-dormitorio? Il germe radicale del distruzionismo si fa vivo in giro per l’Europa (200 mila alloggi popolari saranno demoliti nei prossimi cinque anni in Francia, a Milano destra e sinistra concordano sugli abbattimenti a San Siro, Stadera, Lorenteggio, Ponte Lambro). E riaccende la discussione sulle periferie urbane, sulla metastasi socio-economica prodotta, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, dall’inurbamento di massa di milioni di immigrati, prima interni e poi stranieri.

Ma la tentazione distruzionista incontra i favori degli urbanisti e degli architetti, che si schierano, con i distinguo e le sfumature del caso, per un ‘migliorismo’ che tenga in debito conto le ‘tre ecologie’ (sociale, culturale, materiale) indispensabili secondo il maestro belga Lucien Kroll a uno sviluppo urbano a misura umana e non inquinato "dall’ostinazione modernista". Ovvero da quelle "finestre messe di sghimbescio" che secondo Pier Luigi Cervellati, architetto bolognese e docente di Urbanistica a Venezia, sono il segnale altrettanto distorto e malsano di periferie sgangherate dall’incultura, dal degrado, dal luogo comune.

"I distruzionisti sono degli imbecilli", ride Vittorio Gregotti: "Il bisogno di abitazioni è in crescita, i poveri aumentano, occorre semmai costruire di più, rimettere a posto quello che c’è. Demolire è senza senso. È grave, piuttosto, che non ci sia più una lira per le case popolari, che non ci sia più una politica per le case a basso costo". Secondo Gae Aulenti, "è un modo per fare confusione, per continuare a non fare niente. Che gli amministratori facciano il loro dovere, amministrino. Anche se vengono incaricati dei buoni tecnici, con i tempi abnormi imposti dagli enti pubblici tutto si sfascia. All’estero esistono tre fasi: programma, progetto, manutenzione. Da noi il concetto di manutenzione non esiste, e il progetto veleggia sospeso in tempi vaghissimi".

A Parigi, spiega Aulenti, del rifacimento delle vecchie case popolari (le Hlm, habitations à loyer modéré, quattro milioni, costruite fra il 1945 e il 1965) "vengono incaricati i giovani architetti, appena laureati. A Barcellona le periferie sono pensate urbanisticamente come zone dove non si va solo a dormire. Qui no, niente di tutto questo. L’errore delle periferie italiane è strutturale, quartieri-dormitorio è un’espressione che ne fotografa perfettamente i difetti, e non vedo alcun segno di nuove espansioni pensate in un altro modo".

In altre parole, stavolta di Pier Luigi Cervellati, "stiamo allargando la periferia invece di progettare la città del presente". La metafora tumorale si colorisce ulteriormente: crosta cementizia, malattia infettiva. "Per noi urbanisti", dice Cervellati, "il problema dovrebbe essere quello di evitare la crescita della periferia. Il contrario esatto dello spreco edilizio attuale, degli indici di inquinamento sempre più alti, della devastante impermeabilizzazione del territorio con l’asfalto, dello scadimento qualitativo". E il recupero, la riqualificazione? "Bisognerebbe cambiare mentalità, ripensare l’edilizia pubblica. Invece si vende il patrimonio immobiliare pubblico. E continua a esserci, anzi aumenta, la speculazione edilizia". Meglio demolire, allora? "Certo. Le case abusive, però. Altrimenti il distruzionismo è puro, furbesco usa-e-getta: costruisci e poi demolisci per ricostruire. Cioè per continuare a vendere".

Il "volgarissimo mercato", secondo Gregotti, serve però a volte a "rimettere in circolo" energie nel corpaccione bolso e infermo dell’edilizia popolare e periferica. Le case dei ferrovieri d’inizio Novecento oggi sono considerate bellissime (e carissime). Quartieri come Roehampton o Golden Lane, a Londra, sono stati esemplari. A Rozzano c’è la Fondazione Arnaldo Pomodoro, e ci sono magari più balordi intorno alla centralissima Stazione Centrale di Milano. E la Bicocca ridisegnata da Gregotti & associati (slogan: ‘Un centro storico per la periferia’) "non avrà mai un destino di degrado perché oltre ai servizi fondamentali include tante funzioni diverse, non soltanto il dormitorio. È questo che dà vitalità, ed è così che sono fatte le città: non monofunzionali, non monosociali".

Le città, non le periferie. Almeno non quelle di cui si ventila la demolizione, sola igiene del mondo irrecuperabile di hinterland, cinture, sobborghi. Se nella ‘Belle Équipe’ (era il 1936) Jean Gabin prendeva la fisarmonica e scendeva in strada a festeggiare la gioia di vivere nella periferia, la ricetta attuale non è poi così diversa. Che i quartieri emarginati diventino "un luogo pieno, dove si lavora, si vive, si sogna, si lotta" (Alain Bertho, autore di ‘Banlieue, banlieue, banlieue’). Che si studino dei sistemi, anche mediante incentivi fiscali, "che favoriscano l’insediamento nelle periferie di attività vere, lavorative, che mescolino la vita" (Gregotti). Che si recuperi "il senso della città, della comunità, della partecipazione alle vicende del territorio. E non costruendo stadi per olimpiadi demenziali, ma palestre, giardini, spazi pubblici" (Cervellati). C’è un sacrosanto elemento di nostalgia, di confronto con il passato. "Prima avevamo case brutte e città belle, adesso abbiamo case belle e città brutte", sintetizza Cervellati. Appartamenti tirati a lucido e pattume fuori dalla porta, "l’Italia era una meraviglia, la proprietà pubblica era straordinariamente bella: oggi siamo tutti proprietari in città pessime". Nei condomini, popolari o di lusso in stile Milano 2, ma anche in quella che l’architetto e urbanista chiama villettopoli, l’Italia scempiata dalle mono, bi e pluri-familiari, una periferia di nuovo genere, immensa, dilagante, in una parola brutta.

Brutto, bello. Tornano parole semplici e antiche, che nessuno sembra maneggiare più. E invece: "La bellezza è una componente della centralità", dice ancora Cervellati: l’opposto della periferia. "La periferia si produce sempre per incultura e per mercato". E al contrario, Gregotti: "Del lato estetico non me ne frega niente, se non è connesso alla funzionalità".

Bello, brutto. Periferie brutte e quindi anche cattive, sarà per questo che si parla di lifting, di bisturi, di microchirurgia negli interventi di risanamento? La repressione della bellezza è la causa "dei maggiori problemi sociali, politici ed economici del nostro tempo", come predicava James Hillman? Gli architetti concordano che gli architetti servono a poco, almeno a garantire l’etica e l’estetica delle nostre periferie. Per Gregotti "l’architettura non è determinante per il sistema sociale", contano di più le istituzioni, quelle stesse che per vent’anni non hanno costruito fogne e scuole nel suo Zen. Per Cervellati "bisognerebbe chiudere un po’ di facoltà di architettura, ci sono oltre 100 mila iscritti. Che sanno a malapena raccapezzarsi in una mappa topografica, che non sanno disegnare né misurare". È l’estinzione di una specie, di un mestiere? Dall’estero, quell’estero che sempre inseguiamo, proviene il requiescat di Rem Koolhaas: "Dieci anni fa deploravamo l’autoritarismo degli architetti, oggi rimpiangiamo la loro scomparsa". Chissà se le periferie hanno altre lacrime da versare, stavolta per loro.

Mai più casermoni Massimiliano Fuksas spiega come la città può diventare un luogo di felicità

E intanto lui abitava in via Giulia. ‘Lui’ è Mario Fiorentino, l’autore di quel chilometrico emblema delle periferie che è il Corviale a Roma, "bravissimo architetto", secondo Vittorio Gregotti; "cattivello", invece, per Massimiliano Fuksas. Il giudizio parte da elementi concreti, tecnici. "Al Corviale i muri sono di cemento, non era neanche possibile unire due appartamenti. È invece la flessibilità, che permette di impossessarsi di una casa costruita magari in termini anonimi, badando solo alla quantità. Come a Port de Bouc, banlieue difficilissima di Marsiglia: lì era tutto rivolto a nord, per risanarla abbiamo demolito e ricostruito, interrompendo quella inospitale, rigidissima barriera di torri".

Demolirebbe anche in Italia, e che cosa?

"Bisogna fare una graduatoria. I luoghi di vera e propria disperazione vanno abbattuti; sono tanti, forse il 30 per cento delle periferie. Va salvaguardato il patrimonio di qualità: il Tiburtino di Ridolfi e la Garbatella a Roma. Per il resto bisogna studiare, studiare, studiare: valutando caso per caso".

La demolizione suona a volte come un repulisti, una soluzione sommaria per sbarazzarsi di magagne non soltanto architettoniche.

"C’è chi vorrebbe buttar via le case con tutti gli abitanti, certo. È arduo risanare se non esiste un parco abitativo pubblico che faccia da calmiere e da compensazione, mentre demolisci. E questo governo, cosa gravissima, sta vendendo il patrimonio abitativo sociale".

Quale origine hanno i disastri delle nostre periferie?

"Un combinato di cause, dall’industrializzazione al neo-illuminismo che negli anni Sessanta immaginava utopie urbane poi rivelatesi fallimentari. L’architetto-demiurgo ha forti responsabilità. Il quartiere Zen di Palermo è tutto uguale, le ‘insulae’ sembrano campi di deportati. È una visione militare dei problemi umani: una città che rende felici è invece il contrario della rigidità".

Parecchie volte, negli ultimi giorni, leggendo le litanie di proclami e scempiaggini con cui il centrodestra si è gettato a capofitto sulla “emergenza periferie”, mi è tornata in mente un’immagine dimenticata. Un’immagine solo letta, per ovvi motivi anagrafici: il borgomastro di Bruxelles Charles Buls, che all’alba del Novecento, passeggiando nei giardinetti sottobraccio al ministro Luigi Luzzatti, perorava la causa della bellezza anche nelle abitazioni da realizzarsi da parte dei neonati Istituti Case Popolari. Buls, paladino dell’arte di costruire le città, e a modo suo (via Gustavo Giovannoni) fra i “padri” dell’urbanistica italiana, intuiva vagamente come non potesse esistere “città pubblica” senza tutte le caratteristiche della città, incluse riconoscibilità, identità, insomma tutte le cose che poco più tardi iniziarono a sparire, spazzate via soprattutto da un’idea: la macchina per abitare.

In sé l’idea non era male, anche e soprattutto perché si inseriva in pieno nella logica “meccanica” dello sviluppo industriale, e soprattutto all’inizio poteva contare su un notevole slancio di ricerca, riflessione, innovazione. Nell’Italia fascista, però, non poteva nemmeno iniziare a svilupparsi l’apporto critico delle discipline sociali che per esempio, in Inghilterra, avrebbero di lì a poco definito certe idee urbanistiche “un modo per portare la gente da dove non sta a dove non vuole andare”. Gli allora presidenti degli ICP erano certamente più propensi a sottoscrivere il commento del collega Giuseppe Gorla a proposito dell’uso della polizia nell’imporre abitudini igieniche e moderne agli inquilini: “una volta abituati, non c’è più bisogno di costringerli”. Perché, come osservano il più delle volte inascoltati i critici di questo modello di città pubblica, gli oggetti principali della faccenda non sono le più o meno aggraziate scatole di cemento, ma il loro contenuto, che ha la brutta abitudine di camminare, e di farsi opinioni (di solito pessime) sullo spazio che occupa.

Dopo la seconda guerra mondiale, all’inizio della grande modernizzazione e urbanizzazione italiana, una piccola e discutibile eccezione alla regola è quello che Rinascita bolla come “l’incredibile parto della fantasia del professor Fanfani”. Un incredibile parto che, se non altro, dal punto di vista della progettazione fisica degli spazi si pone almeno due obiettivi: ricostruire una atmosfera da villaggio, e usare gli operatori sociali per “alfabetizzare” i contadini neoinurbati alla vita di città e di relazioni umane. Detto terra terra, è un po’ la replica democratica dei metodi spicci di Giuseppe Gorla; qui non si usa la milizia, ma comunque si spiega agli ex contadini che in città non ci si accoltella, al massimo ci si denuncia, che non si usa il bidet per piantare il basilico, e via di questo passo. Ma le critiche della sinistra, come specifica Giuseppe Di Vittorio (relatore di minoranza del progetto di legge Fanfani), vanno un po’ più in là dell’idea di villaggio o di modernizzazione “guidata”, e implicano una diversa idea di società e investimenti per lo sviluppo.

Un’idea diversa che, guarda un po’, sembra poter trovare spazio ancora nelle grandi “macchine per abitare”, tanto gradite agli architetti di sinistra che Piero Bottoni anche nell’ambito dell’INA-Casa ha progettato un enorme candido monolite, che affacciato sul Corso Sempione (un po’ lontano, in effetti, dalle “periferie”), racconta che anche con l’edilizia popolare si fa città moderna a tutti gli effetti. Ma per ogni Bottoni versato alla ricerca e alla riflessione sul piano e il progetto, ci sono (come ovvio e prevedibile), schiere di progettisti che stanno a le Corbusier più o meno come Teo Teocoli sta a Elvis Presley. E saranno soprattutto loro, insieme ai pochi soldi, alla disorganizzazione, alla malafede, a progettare gran parte delle periferie che ora il centrodestra chiama “frutti del comunismo”, o altre sciocchezze del genere.

Frutti del comunismo che, tra l’altro, vengono a maturazione, cioè cominciano a rimpolparsi di contenuto umano, proprio mentre con le prime avvisaglie di crisi del modello di sviluppo la grande fabbrica non è più centro di riferimento, aggregazione, simulacro e surrogato della città.

In cosa si identificheranno, ora, gli abitanti di questi cimiteri sociali? Non certo con le città radiose dei grandi blocchi su vasti spazi aperti, che come ben sanno per esperienza sono labirinti puzzolenti dentro, e campi di battaglia fuori. Forse, con quello che rimane del centro storico, fra la boutique dell’insaccato e la factory del gioiello etnico, ma più probabilmente con l’altra periferia, quella che discende perversamente non da Le Corbusier, ma da Raymond Unwin: la città diffusa di villette, lottizzazioni produttive, centri direzionali e quant’altro. Chi può permetterselo, c’è già andato da parecchio. Qui l’architetto non si può sbizzarrire con diavolerie come l’ existenzminimum o il cottage plan and common sense, ma se vuole essere pagato deve fornire il cliente di tutte le cucine abitabili, tavernette, e giardini con nani richiesti. Con buona pace di tutte le ricerche progettuali astruse, e del piano regolatore che pretende anche di entrare in casa tua a dirti quello che devi o non devi fare. E basta.

La storia raccontata sopra, è ovviamente, anche se non completamente, falsa. I nomi propri citati hanno fatto più o meno le cose descritte, le quali cose descritte sono più o meno tutte così, anche se sono molto di più, e in definitiva qualcos’altro.

La cosa difficile, è spiegare queste cose ai poveretti a cui casca il soffitto del cesso in testa, o ai loro parenti che non li vanno più a trovare per paura di giocarsi l’auto parcheggiata in strada. Ditegli che “qui ci vuole la mano pesante”, e vi seppelliranno di voti. Diteglielo da mezza dozzina di reti televisive, con le immagini giuste, e vi porteranno in trionfo.

Il che non toglie, che della questione periferie anche da sinistra si inizi a dire pane al pane e vino al vino, a partire per esempio da uno slogan simil-berlusconiano: LASCIATECI FINIRE IL LAVORO. Come, è un altro discorso, ma questo per esempio è “partire dal programma”. Una frase già sentita. O no?

Posso da profana anche io dire la mia? Magari scriverò una raffica di banalità, ma sento una vaga insofferenza nel leggere gli interventi nel tuo sito, uno dopo l'altro. Facile ora, puntare il dito contro l'architettura comunista, i palazzoni Ina casa e Iacp: ma bisogna ricordare quel che era la condizione abitativa prima degli anni '80. Drammatica. Le lotte per la casa sembrano completamente cancellate dalla memoria, eppure sono state una parte importantissima del movimento operaio e, si direbbe oggi, progressista. Si è costruito in emergenza, forse troppo: vero. Ma senza dimenticare verde e servizi che poi nessuno ha fatto. E non è poco.

Ma ha ragione Vezio De Lucia: quando le case non si gestiscono - oppure: se si gestiscono male, se si mettono ad abitare insieme tutte le famiglie dei carcerati, tutti i tossici nell'altra scala, dall'altra parte tutti i meridionali - non si fa che aggiungere esclusione ad esclusione. Se poi si rinuncia del tutto a mantenere quel minimo di legalità che impedisce ai malavitosi di demolire con il piccone la porta di una casa di un'anziana ricoverata all'ospedale, ecco, in questa situazione neppure Le Corbusier sarebbe in grado di rendere vivibile in quartiere. In più, una certa pigrizia giornalistica che parla di Bronx, e il pasticcio è fatto. Tanto per dire, nel Bronx ci sono zone di qualità urbana più che accettabile. Seconda riflessione. Non sempre la bellezza basta. Ricordate le rapine in villa? E i grandi delitti - più o meno risolti - che vi accadono? Non so perché, ma la paura di chi vive in quelle periferie ricche e opulente, doviziosamente dotate di servizi e verde, è la stessa di chi vive nelle periferie. Allora il problema mi sembra un altro: la criminalità fa paura, sia che venga da fuori, sia che abiti nella porta accanto. Non è questione di urbanistica, né di architettura. Come dimostra la bellissima la villetta di Cogne.

Un altro discorso - inutile aprirlo qui, lo cito solo a margine - sarebbe quello dell'ideale tutto italiano della villetta che ha distrutto agro e campagne. La voglia di far dell'Italia, ricca di tanti centri storici, una finta paperopoli di pretesi ricchi ha prodotto mostri, anche se imbellettettati, e assai scarse possibilità di socialità.

Proviamo a eliminare la questione criminalità. Resta nei quartieri popolari la povertà di servizi e di verde, la povertà di funzioni che rende differente un ragazzo che vive con la piscina comunale a 100 metri a quello che deve prendere il treno per arrivarci, e quindi non ci va. Ma quei quartieri, dalle Vele a Corviale, con i servizi erano stati progettati. Che la qualità urbana sia pessima è anche responsabilità di chi non li ha voluti, o se ne è disinteressato, lasciando che i negozi venissero occupati di notte da disperati senza casa, né ha pensato di offrir loro un'alternativa abitativa. Le Vele? Non sono affatto brutte: pensate se su quelle terrazze ci fossero alberi e rampicanti, pensate se ci si potesse vivere senza paura e senza sbarre, e sfruttare al meglio proprio quel che oggi è la debolezza di quegli edifici: la permeabilità. Se la facilità di accesso diventa il canale con cui la camorra controlla i suoi, sarà un ghetto, e punto. Ma pensate se fosse altro, che so, un residence per studenti fuori sede: la facilità di accesso può diventare facilità di rapporto, e forse persino la nascita di una comunità.

Infine un'ultima disordinata nota. Il patrimonio di edilizia pubblica è privato. E' privato nei fatti, visto che nessuno lo gestisce. Mi piacerebbe sapere quante sono le chiavi che tornano in istituto perché un affittuario è morto. Sospetto pochissime: sia perché c'è un racket che se ne occupa con grande efficienza, sia perché implicitamente non è previsto nemmeno dagli uffici. Nella migliore delle ipotesi capita quindi che l'appartamento di ex periferia ormai diventato semicentrale sia stato affidato cinquant'anni fa alla famiglia di un operaio, e che il figliolo dottore ci faccia il suo studio, ed è solo un esempio. Ancora a margine noterei che molti sono gli esempi di edilizia pubblica più che dignitosa, magari costruiti anche in epoca fascista ma con evidente rispetto per chi ci sarebbe andato ad abitare. Non solo alla Garbatella.

Che ci sia ancora una domanda di case è ovvio, ed è però evidente che ciò non possa essere una buona giustificazione per costruire ancora. Sta di fatto che la domanda più drammatica viene da ceti depauperati di qualsiasi potere, dagli immigrati, dagli emarginati… tanto che persino i Cim faticano a trovare case che ospitino le loro residenze protette. In queste condizioni, ammainare la bandiera dell'edilizia pubblica e lasciare senza alcuna gestione il patrimonio che c'è, come mi pare si faccia nell'indifferenza di tutti, mi sembra una sciocchezza. Una sciocchezza politica, figlia della pochezza dei tempi.

© 2025 Eddyburg