loader
menu
© 2024 Eddyburg

Mezzo secolo fa ai grandi eventi distruttivi, conseguenti a e periodi di saccheggio del territorio, generavano nella società e nella politica reazioni positive. Dobbiamo aspettare un ulteriore disastro per ritrovare un analogo slancio?

Gli anniversari servono a fare i ripassi di storia e a capire meglio quello che è successo nel frattempo. Il 19 luglio 1966, cinquant’anni fa, gran parte dell’Agrigento moderna franò sotto il peso della speculazione edilizia provocando il crollo di centinaia di alloggi e migliaia di senzatetto. Da allora il 19 luglio del 1966 è una data fondativa della vicenda urbanistica italiana del secondo dopoguerra. Ma per intendere bene l’importanza dei fatti di Agrigento è necessario un passo indietro di tre anni, al 13 aprile 1993, il giorno in cui la Democrazia cristiana sconfessò il ministro dei Lavori pubblici del quarto governo Fanfani, il democristiano Fiorentino Sullo, stroncando sul nascere la sua risolutiva riforma urbanistica fondata sull’esproprio preventivo e generalizzato delle aree edificabili. Nonostante l’assassinio politico di Sullo, il terrore per la riforma urbanistica fu tale da indurre i vertici delle istituzioni repubblicane – dal presidente della Repubblica Antonio Segni, al ministro Emilio Colombo ad altre autorevoli personalità – a ordire un tentativo di colpo di Stato (il piano Solo del generale Giovanni De Lorenzo) che rientrò quando i socialisti, nella formazione del primo governo organico di centro sinistra presieduto da Aldo Moro, rinunciarono di fatto alla legge urbanistica. E di riforma urbanistica non si parlò più.

Fu l’enorme risonanza sulla stampa e sull’opinione pubblica della frana di Agrigento – come se allora per la prima volta ci si rendesse conto che la speculazione edilizia stava distruggendo le città italiane – che consentirono a Giacomo Mancini, ministro socialista dei Lavori pubblici, di sfruttare sapientemente la circostanza per riprendere, con inconsueta determinazione, il tema proibito della riforma urbanistica. Il primo passo fu l’indagine sulla situazione edilizia di Agrigento coordinata dal direttore generale dell’urbanistica Michele Martuscelli. Un lavoro esemplare – condotto in due soli mesi, agosto e settembre del 1966 – che esamina puntigliosamente centinaia di documenti e di progetti e valuta le responsabilità del Comune, della Regione, dello Stato, con nomi e cognomi. Il dato forse più clamoroso riguarda il dimensionamento del programma di fabbricazione del 1958 che prevedeva per Agrigento una crescita da 40 a 200 mila abitanti. Ma soprattutto l’indagine mise in evidenza che la speculazione edilizia non era una triste prerogativa della città dei Templi, il modello era lo stesso di Napoli, Roma, Rapallo, Milano e Palermo.

All’indagine Martuscelli fece seguito un aspro e serrato dibattito parlamentare (memorabile l’intervento, “d’intransigenza giacobina”, del comunista Mario Alicata, che morì subito dopo averlo pronunciato). L’iniziativa politica di Mancini si concluse con l’approvazione della cosiddetta legge ponte del 1967, ponte perché doveva valere per il tempo necessario all’approvazione della riforma urbanistica propriamente detta. La legge obbligò tutti comuni a dotarsi di strumenti urbanistici e i privati a pagare le urbanizzazioni, moralizzò le attività professionali in materia di urbanistica, mise mano alla repressione dell’abusivismo, ma sono soprattutto due le novità assolute della legge: gli standard urbanistici e le norme di tutela del paesaggio e dei centri storici.

Con gli standard del 1968, la fruizione degli spazi pubblici (per il verde, l’istruzione, le attrezzature d’interesse comune, i parcheggi) è diventata un diritto che la legge garantisce a ogni cittadino italiano. L’accanimento contro gli standard degli energumeni del cemento armato (come l’ex ministro Maurizio Lupi) è un indiscutibile riconoscimento della loro qualità sociale. L’altra novità sono le norme di tutela che per la prima volta entrano a far parte della disciplina urbanistica. E per la prima volta dopo l’art. 9 della Costituzione la tutela del paesaggio compare in una legge ordinaria. Che sostanzialmente riprende anche i principi della Carta di Atene del 1960 per l’inscindibile unitarietà degli insediamenti storici sottoposti a vincolo. Se i centri storici italiani hanno resistito meglio che nel resto d’Europa alle alterazioni, anche questo è merito della legge ponte.

Dei fatti di Agrigento e delle successive vicende abbiamo scritto altre volte anche su queste pagine e a esse rimandiamo, in particolare per il racconto degli eventi scatenati dalla legge ponte (le sentenze del maggio del 1968 della Corte Costituzionale) che riportarono in alto mare la riforma urbanistica. Almeno fino alla fine degli anni Sessanta, quando la spinta per la riforma ripartì grazie al movimento popolare e sindacale che, dall’estate del 1969, si attivò risolutamente sui temi della casa e dell’urbanistica. La mobilitazione culminò nello sciopero generale del 19 novembre 1969, forse la più possente e partecipata manifestazione che abbia attraversato le strade delle nostre città. La risposta fu un cospicuo impegno dello Stato per l’edilizia pubblica e per la riforma urbanistica, che vide finalmente la luce con la legge Bucalossi del 1977. Ma sappiamo come andò a finire, la riforma durò solo tre anni. A partire dal 1980 una susseguirsi di sentenze della Corte Costituzionale rimisero tutto in discussione. E siamo sempre in attesa della riforma che, come Godot, non arriva mai. In effetti con gli anni Ottanta è cambiato il mondo, anche e soprattutto per quanto riguarda l’urbanistica che ormai non compare più nell’agenda politica.

La conclusione di questo ricordo del 19 luglio di cinquant’anni fa è che, alla fine, la legge ponte e gli standard del 1968 sono stati l’unica riforma urbanistica approvata in Italia dopo la legge del 1942. Che il cielo non mi ascolti, ma è difficile non pensare che per ottenere un risultato significativo in materia di politica del territorio – la riforma urbanistica di oggi è in primo luogo lo stop al consumo del suolo – serva un’altra catastrofe, un’altra frana come quella di Agrigento del 19 luglio 1966. E un

Intervista di Francesco Erbani alla sociologa della Columbia University: «Le grandi corporation e le speculazioni immobiliari, la crisi economica e la fine dello spazio urbano pubblico. Se una parte di città è acquistata assecondando logiche finanziarie, l’obiettivo non è di migliorare la qualità urbana, bensì di ottenere profitti». La Repubblica, 13 luglio 2016

Per rendere esemplare il suo ragionamento su chi siano i padroni della città, Saskia Sassen racconta il caso di Atlantic Yards, un’area grande circa nove ettari a New York. Un tempo ospitava uno stabilimento industriale. Al suo posto erano subentrati laboratori artigiani e industriali, studi di artisti, piccoli appartamenti e piccoli negozi. Si era sviluppato un sistema di vicinato, diremmo noi italiani, che aveva favorito diverse attività. Ma questa miscela culturale, sociale ed etnica così rappresentativa della dimensione urbana, aggiunge Sassen, è stata rimpiazzata da 14 formidabili torri con residenze di lusso che hanno «deurbanizzato questo spazio».

Cos’era successo? Semplicemente che l’area di Atlantic Yards è stata acquistata da un gruppo immobiliare e trasformata. Qualcuno direbbe persino: riqualificata. Esempi simili si trovano ormai dovunque in Nord America e in Europa. Nonostante la crisi, anzi forse proprio perché c’è la crisi, aggiunge Sassen, sui grandi centri urbani sono piovuti investimenti che, toccando l’edilizia e solo quella, stravolgono variegati assetti urbanistici.

Da tempo Saskia Sassen, sociologa della Columbia University, autrice di libri celebri (da Le città globali all’ultimo Espulsioni, editi in Italia dal Mulino) tiene sotto osservazione i mutamenti della scena urbana incrociandoli con le riflessioni sulla crisi finanziaria e sugli effetti che questa produce in termini di aumento delle disuguaglianze. Che proprio nelle città si manifestano con virulenza, laddove si sottrae spazio pubblico, si espellono e sostituiscono ceti sociali, imponendo tipologie architettoniche identiche a Parigi, a Chicago e a Shangai. Sassen sta arrivando a Venezia dove partecipa al convegno di Urban Age nella sessione insieme, fra gli altri, ad Ada Colau, sindaca di Barcellona, e all’economista Edward Glaeser, che l’architetto inglese Richard Burdett, promotore dell’iniziativa, ha intitolato «Who owns the city?». Appunto: chi possiede la città?

Sassen, è possibile che una città appartenga a qualcuno?
«È una provocazione. Ma è un invito a guardare al fatto che interi pezzi di città passano di mano in molte parti del mondo. Una città, nella sua forma più genuina, è un insieme di abitazioni private, di uffici, di edifici pubblici e di spazi pubblici, cioè strade, parchi, piazze… Non c’è una proporzione fissa fra questi elementi. Del tutto sproporzionata è invece una città dominata da giganteschi complessi edilizi, che spesso restano vuoti, fortezze protette da muri sorte una volta eliminati quartieri, strade e parchi».

A chi appartengono alcune grandi città del mondo?
«Appartengono a grandi corporation immobiliari e finanziarie. Che siano nazionali o che abbiano sede in altri paesi è secondario. Fra il 2013 e il 2014 i loro investimenti sono cresciuti dal 300 al 400 per cento».

Quali città sono interessate da questi investimenti?
«Più che le fonti ufficiali, parlano gli stessi operatori. Fra le prime 25 città troviamo, nell’ordine, New York, subito dopo Londra, più staccate Tokyo e Los Angeles, poi San Francisco e Parigi, quindi Chicago, Dallas, Hong Kong, Houston, Berlino, fino a Pechino, San Diego e Toronto».

Nessuna italiana?
«Nelle prime 25 no».

Lei cita Londra: che cosa cambierà con la Brexit?
«A Londra hanno una sede gran parte delle corporation immobiliari globali. Per un certo periodo nella capitale inglese gli investimenti in edilizia si fermeranno. Poi torneranno».

Che cosa ha favorito queste acquisizioni, i meccanismi dell’economia finanziaria globale o anche norme urbanistiche molto permissive?
«Se una parte di città è acquistata assecondando logiche finanziarie, l’obiettivo non è di migliorare la qualità urbana, bensì di ottenere profitti. Il territorio urbano ha un valore in sé a prescindere dal valore degli edifici che vi sorgono. Questi possono essere anche di scarso pregio, ma il territorio urbano che li ospita ha un pregio potenziale che può essere sfruttato trasformandolo».

E a questo scopo intervengono norme urbanistiche ad hoc?
«Dagli anni Novanta del Novecento si è assistito a una forte deregolamentazione ».

Quali parti di una città vengono stravolte da queste acquisizioni?
«Un primo aspetto riguarda singoli ma rilevanti edifici. Edifici storici, edifici simbolo. Molte di queste compravendite sono invisibili a occhio nudo. Le facciate restano intatte. Cambiano le funzioni e quindi cambia la relazione con il contesto della città. Un secondo aspetto è invece relativo ad aree un tempo industriali, con un’edilizia più modesta, ma che si tende a valorizzare».

Si interviene quindi sia nelle zone centrali che in quelle più periferiche?«Fino ad ora si è investito soprattutto nelle aree centrali, o in quelle più vicine al centro. Ma si tende, come dicevo, a estendere gli investimenti laddove è possibile realizzare megaprogetti…».

Megaprogetti che hanno un enorme impatto urbanistico.
«Si realizzano edifici ad alta densità, che impongono la monotonia alla complessità di un assetto urbano, senza sufficiente cura per gli aspetti architettonici o, appunto, urbanistici. L’effetto che si procura è la deurbanizzazione. Si svuota di senso la dimensione urbana. Il risultato è che gli spazi accessibili al pubblico diventano molto più deboli. Dove prima i territori erano governati da amministrazioni pubbliche ora lo sono dalle corporation».

È come se si rovesciasse il significato storico della città.
«Sì. La città è sempre stata un luogo complesso ma incompleto, nel senso di non perfetto, un luogo di frontiera dove gli attori più diversi, provenienti dai mondi più diversi, possono entrare in relazione. Come in rapporto possono entrare coloro che hanno potere e coloro che non ce l’hanno».

Crescono in questo modo i fattori di disuguaglianza?
«La disuguaglianza è in crescita da tempo. Se ne discuteva già quando scrivevo Le città globali, era il 1994 (l’edizione italiana è successiva di dieci anni, ndr). In una città diventiamo tutti soggetti urbani e non siamo solo appartenenti a una comunità religiosa, etnica o sociale. Anche i più poveri sono riconosciuti come soggetti urbani, hanno voce, sono parte della complessità. Ma piuttosto che prevedere luoghi che includono, le nostre città globali tendono a espellere. I nuovi abitanti sono abitanti part-time, sono internazionali ma non perché rappresentino diverse culture o diverse tradizioni, bensì sono esponenti di una nuova, omogenea cultura globale».

A Venezia si discute di come architettura e urbanistica possono proporre soluzioni socialmente orientate. La Biennale di Alejandro Aravena ha questo indirizzo. Crede che queste proposte siano attuabili?«Io sottolineo l’insopprimibile forza che possiede una città, se essa è mescolanza e complessità. A Venezia è presente il sindaco di Bogotà, Enrique Peñalosa. Nella capitale colombiana, come a Medellin, si sono intraprese la via della cultura e di un’architettura che include, che migliora la condizione dei più poveri, per fronteggiare i signori della droga. Sono soluzioni migliori della militarizzazione».

IL CONVEGNO


Saskia Sassen interviene a Urban Age, il convegno che si apre domani a Venezia, ospite della Biennale Architettura. Il titolo è “ Shaping Cities”. Urban Age è organizzato dalla London School of Economics Cities, dalla Alfred Herrhausen Gesellschaft della Deutsche Bank con United Nations Habitat III. ( In foto: Summer Slums di Jonathan Wisner). Qui è scaricabile il programms completo del convegno. tra gli oratori del secondo giorno anche Ilaria Boniburini, della redazione di
eddyburg.it

«Dal tramonto delle archistar ai progetti innovativi per le periferie sudamericane Il grande storico Joseph Rykwert parla del futuro del nostro spazio urbano». La Repubblica, 6 maggio 2016 (c.m.c.)

«Un architetto per essere un vero architetto dev’essere un po’ boy scout, diceva Aldo van Eyck, grande progettista olandese. Vuol dire, secondo me, che non può che essere ottimista. Ma io, di motivi per essere ottimista, non ne vedo tanti». Joseph Rykwert ha compiuto pochi giorni fa novant’anni (nato a Varsavia, vive a Londra, ha insegnato negli Stati Uniti). È a Bologna per ricevere, oggi, una laurea ad honorem, che premia una formidabile carriera di storico dell’architettura e di storico della città, in particolare. È una laurea in pedagogia, un riconoscimento alle sue qualità di didatta.

L’idea di città e La seduzione del luogo sono due fra i suoi titoli (editi in Italia da Adelphi ed Einaudi): entrambi propongono l’organismo urbano, dalla Roma antica alle metropoli contemporanee, siano esse Shanghai o New York, Kinshasa o Mumbai, come forma simbolica e non solo come aggregato edilizio, più o meno pianificato. «Per quanto volga in giro lo sguardo», aggiunge, «non scorgo politiche orientate a rendere la città più giusta. Soprattutto nel mondo occidentale».

Ci arriviamo. Intanto mi dica se la città esprime ancora valori simbolici, se rappresenta la visione del mondo di chi la abita?
«In un certo senso è così. Aggiungerei: deve essere così, deve esserlo sempre. Noi vediamo la città come un corpo, come un’entità civile. Questa verità rimane immutata».

Però qualcosa cambia. O no?
«È evidente. È cambiata con la rivoluzione industriale o con il trasporto pubblico non più a cavallo. Io ricordo ancora la Varsavia in cui sono nato: lo sterco dei cavalli per terra era un elemento fondamentale del paesaggio urbano. Poi sono arrivati l’ascensore e l’automobile...».

Ma ora è cambiato qualcosa di più sostanziale, la città ha perso il senso del limite, ha invaso il territorio, non è più distinguibile da esso.
«Non sappiamo come andrà a finire. Però anche in mezzo ai grattacieli di Manhattan o in una baraccopoli sudamericana ognuno ha in mente la pianta del luogo che abita. Non parlo solo di valori simbolici. Ma è presente in tutti una carta geografica del proprio habitat, degli spazi collettivi, dei nodi di scambio. Si riconosce una forma».

La tendenza di certa urbanistica e di certa architettura è di realizzare quartieri ed edifici che vadano bene in Asia come nel Nord America. Vince un linguaggio universale. Qui viene meno il valore simbolico?
«Un mio collega messicano ebbe l’incarico da un governo africano di realizzare un insediamento nella capitale. Ma il progetto fu respinto. Sa perché? Non aveva previsto una selva di grattacieli. Si era ispirato al contesto, ma loro volevano un pezzo di città come a Chicago».

I grattacieli, lei dice, sono il simbolo della potenza finanziaria e immobiliare. E aggiunge: fino agli anni Venti del Novecento erano costruiti lasciando vuoto il pianterreno perché fosse uno spazio pubblico, poi non più. Il grattacielo resta il veicolo di un’immagine?
«Senza dubbio. I grattacieli realizzati di recente a Londra hanno uno spazio aperto, una connessione con la città. Ma quanto effettivamente questi spazi siano pubblici è da vedere. Spesso sono luoghi che aggiungono prestigio al committente, ne offrono un profilo più benevolo».

Quanto è importante per una città garantire spazio pubblico, spazio di convivenza?
«È essenziale. Anche per ridurre le disuguaglianze. Bisogna stare però attenti ai camuffamenti: certo capitalismo finanziario ci tiene a far bella figura ».

Ridurre le disuguaglianze. Quali altri dispositivi possono realizzare l’architettura e l’urbanistica a questo scopo?
«L’architetto può fornire gli strumenti tecnici. Ma questo compito spetta alla politica. Negli Stati Uniti e in Europa non accade. Spesso è dominante un’architettura tendente all’oggetto vistoso. Osservando questi fenomeni matura il mio pessimismo».

Non ci sono eccezioni?
«Le esperienze da molti anni maturate in alcuni paesi del Sud America sono un’eccezione. È un’eccezione il caso di Curitiba, in Brasile, dove ha operato il sindaco-architetto Jaime Lerner, il quale ha progettato un sistema di trasporti che ha avvantaggiato le classi popolari. Lo stesso è accaduto in diverse città della Colombia. Ancora un’eccezione è il sindaco di San Paolo, che ha proibito di tappezzare con la pubblicità le facciate dei palazzi».

Sono esperienze di rilievo.
«Se si apre una breccia nel mio pessimismo è perché rivolgo l’attenzione ai tanti architetti, soprattutto giovani, che s’impegnano nelle periferie del mondo».

Mi fa qualche esempio?
«Si tratta di esperienze anche modeste, che però fronteggiano problemi elementari, il disagio abitativo, le drammatiche forme di disuguaglianza. In diverso modo si risponde a quei bisogni che erano al centro delle riflessioni già negli anni Venti del Novecento o, andando indietro nel tempo, erano presenti nel pensiero utopico».

Volge al declino la stagione delle archistar?
«Mi chiede un vaticinio. Il fatto è che la gran parte delle archistar non realizza architetture di qualità, ma oggetti per lo spettacolo visivo e per l’intrattenimento. E soprattutto non fa pezzi di città».

Oggi alle 17.30 all’Università di Bologna si terrà la cerimonia di conferimento della laurea ad honorem in pedagogia per Joseph Rykwert. La Laudatio sarà tenuta da Raffaele Milani Rykwert è nato a Varsavia nel 1926. Tra i suoi saggi sull’architettura e l’urbanistica: L’idea di città ( Adelphi) e La seduzione del luogo ( Einaudi)

L’ILVA di Taranto è un malato intorno a cui si aggirano tanti medici come intorno al letto di Pinocchio nella casa della Fata ...(continua a leggere)

L’ILVA di Taranto è un malato intorno a cui si aggirano tanti medici come intorno al letto di Pinocchio nella casa della Fata dai capelli turchini. E, purtroppo, ogni medico ha una ricetta diversa e difende la sua con intemerata convinzione. L’ILVA è una fabbrica che produce una merce, l’acciaio, una lega di ferro e altri elementi, partendo da minerali nei quali il ferro è, in qualche forma, legato all’elemento ossigeno. Tutta l’operazione consiste nel “portare via” l’ossigeno (si chiama “riduzione”) degli ossidi di ferro del minerale e nel “liberare” ferro da adattare poi ai vari usi tecnici e commerciali. Ciò avviene usando come agente “riducente” il carbone; altrove l’acciaio viene prodotto con forni elettrici rifondendo il rottame. La produzione mondiale annua di acciaio ammonta a circa 1600 milioni di tonnellate; quella italiana a circa 25 milioni di tonnellate, circa la metà fabbricata a Taranto. Purtroppo il processo per la produzione dell’acciaio è lungo e inquinante ed è dannoso per la salute dei lavoratori dentro la fabbrica, e dei loro familiari che abitano i quartieri vicini.

Il carbone è il principale responsabile della crisi ambientale a causa delle sostanze nocive che si formano nei processi di trasformazione del carbone fossile in carbone coke, nell’agglomerazione del carbone coke con il minerale di ferro e con calcare e nella trasformazione, negli altiforni, col calore ottenuto anch’esso dal carbone, dell’agglomerato in ghisa. La ghisa viene poi trasformata, insieme al rottame, in acciaio nei convertitori mediante ossigeno.

Alcuni dei medici che cercano di risanare l’ILVA si sono chiesti se non sia possibile ottenere acciaio, di cui c’è crescente bisogno nel mondo, con un processo, già sperimentato altrove, che usa il metano del gas naturale come agente riducente del minerale. Il metano è costituito da un atomo di carbonio e quattro atomi di idrogeno, tutti adatti per “portare via” l’ossigeno dal minerale; si ottiene così un ferro preridotto che, trattato insieme a rottami, può essere trasformato nelle varie qualità e nei vari tipi di acciaio richiesti dal mercato. Il processo consentirebbe di liberare Taranto dalla schiavitù del carbone, comporterebbe un minore consumo di energia per tonnellata di acciaio prodotto e un minore inquinamento e sarebbe certamente molto più “verde” ed ecologicamente accettabile di quello attuale, anche se nessun processo è esente da polveri e fumi e scorie.

La produzione di acciaio col metano richiederebbe una radicale trasformazione dell’acciaieria, forse la localizzazione in un’altra zona vicina, e la soluzione di molti problemi tecnico-scientifici. L’economia e la termodinamica sembrano favorevoli e nel mondo già circa 75 milioni di tonnellate di acciaio sono prodotti ogni anno con ferro preridotto. Come tutte le transizioni tecnologiche la trasformazione dell’attuale acciaieria con l’introduzione del ciclo basato sul metano incontra decise opposizioni. Innanzitutto in coloro che dovrebbero affrontare nuovi investimenti finanziari. Contro l’acciaio al metano sono prevedili opposizioni da parte delle potenti organizzazioni dell’estrazione, del commercio e del trasporto del carbone. Nel mondo circa 1000 milioni di tonnellate di carbone ogni anno sono assorbite dalla siderurgia mondiale e gli ingenti profitti di queste attività verrebbero ridotti a favore dei produttori, esportatori e trasportatori del metano.

I vantaggi sembrano peraltro riconoscibili; innanzitutto sul piano umano, sociale e ambientale, grazie alla diminuzione dell’inquinamento; verrebbe così data una risposta alla giusta protesta popolare contro l’attuale “acciaio”, e si avrebbero positive ricadute di occupazione nelle fasi di innovazione e ricerca e di costruzione e installazione dei nuovi impianti.

Per ora il discorso è soltanto iniziato, ma è ragionevole credere che la sopravvivenza della siderurgia italiana e dell’acciaieria di Taranto possano passare da una trasformazione tecnologica basata sul metano. E’ perciò comunque auspicabile che si passi dalla fase di idea e proposta ad una seria analisi interdisciplinare delle attuali conoscenze sulla preriduzione, anche nei loro aspetti geopolitici: da dove acquistare minerali di ferro e di quale qualità e dove approvvigionarsi del metano, tenendo conto che finora la preriduzione è stata vista come un processo da utilizzare nelle vicinanze delle miniere, con esportazione di ferro preridotto, per cui al paese importatore resterebbe la fase finale della produzione di acciaio. Si tratta di scelte influenzate anche dalla futura disponibilità di rottami, prevedibilmente in aumento.

La transizione potrebbe incentivare quella innovazione tecnologica di cui tanto si parla, anche con il coinvolgimento delle Università, e comunque non potrebbe avvenire per bacchetta magica. Si tratta di fare una attenta previsione e programmazione del ruolo dell’Italia nella produzione dell’acciaio identificando la richiesta futura, la qualità dell’acciaio richiesto e i settori di impiego, dall’edilizia alla meccanica, interni e internazionali. Non so come finirà; si tratta di una occasione per coinvolgere, come mai è stato fatto in passato, la popolazione nei dettagli del processo, delle quantità e dei caratteri delle materie che verrebbero ad attraversare Taranto; una occasione per effettuare una “valutazione dell’impatto ambientale” preventiva, con la partecipazione della popolazione, ben diversa dalle valutazioni finora fatte a disastri avvenuti. Comunque, a mio modesto parere, anche solo l’aver formulato l’idea di un cambiamento, sta stimolando un dibattito e destando un briciolo di speranza per un futuro in cui Taranto conservi la sua tradizione industriale e operaia, l’occupazione e in cui si muoia di meno di mali ambientali.


L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

«Il grande economista Anthony Atkinson indica "che cosa si può fare". Le risposte arrivano dal passato». Se l'errore del capitalismo è nella sua stessa struttura, come si può uscire dalla crisi che ha prodotto rimanendovi dentro? un tentativo. Il manifesto, 6 gennaio 2016

Come testimoniano le gravi turbolenze che dai mercati azionari asiatici si stanno estendendo a quelli occidentali, l’anno nuovo eredita uno scenario gravido di incognite che i sintomi positivi non bastano a fugare. La decelerazione della Cina (al decimo decremento consecutivo del Pil e in cui si sono accumulate immense bolle nei settori immobiliare, bancario, finanziario) e dei paesi emergenti (con mercati che valgono il 60% del Pil mondiale e che assorbono metà delle esportazioni europee) si sta traducendo in pesante rallentamento dell’incremento del commercio mondiale.

In Europa continua ad aleggiare lo spettro della deflazione e rimane elevato il gap tra i livelli produttivi effettivi e quelli che si sarebbero raggiunti in assenza di crisi. La significativa ripresa che si registra negli Usa non è tuttavia tale da imprimere un netto impulso alle retribuzioni interne, la cui compressione è, invece, alla base di un paradossale incremento dei profitti e dei guadagni dei possessori di azioni, i quali — in mercati azionari mantenuti molto effervescenti dalle politiche monetarie “non convenzionali”, volte a creare liquidità, adottate dalle Banche centrali di tutto il mondo — hanno conosciuto il livello più alto degli ultimi due decenni.

Ma l’indicatore più eloquente della persistente drammaticità della situazione sociale è quello occupazionale: in tutto il mondo l’inoccupazione giovanile e femminile si è allargata paurosamente, la disoccupazione di lunga durata supera l’antecedente storico delle crisi petrolifere degli anni ’70, la precarietà è cresciuta esponenzialmente, in Italia raggiungendo il picco storico del 15%. La questione del lavoro è davvero la linea di faglia su cui tornano a passare discriminanti fondamentali, perché attorno ad essa si configura una vera e propria rottura nelle traiettorie di sviluppo.

In questo contesto opera un nesso strettissimo tra creazione di lavoro e rilancio degli investimenti pubblici diretti (assai più importanti della semplice riduzione delle imposte). Questa è la convinzione del grande economista Anthony Atkinson che, con singolare congiunzione di “spirito di ottimismo” e di determinazione, nel suo recente, bellissimo Diseguaglianza. Che cosa si può fare (Cortina Editore), deplora lo «stato del pensiero economico contemporaneo» tutto concentrato sul mercato del lavoro e assai disattento al mercato dei capitali, denuncia l’insufficienza quando non la fallacia delle misure standard (quali tagli delle tasse, intensificazione della concorrenza, maggiore flessibilità del lavoro, privatizzazioni), invoca «proposte più radicali» (more radical proposals) della semplice insistenza sull’elevamento dell’istruzione della forza lavoro, proposte «che ci richiedono di ripensare aspetti fondamentali delle nostre moderne società, di interrogarci sulla profondità e l’estensione delle nostre ambizioni, di respingere (to cast off) le idee politiche che hanno dominato i decenni più recenti».

Atkinson — padre spirituale di una generazione di ricercatori sulle diseguaglianze, compreso Piketty che, infatti, gli tributa grandi riconoscimenti — prende di petto il problema della diseguaglianza, interrogandosi sull’intreccio tra questioni di eguaglianza e questioni strutturali, tra problemi di redistribuzione e problemi di allocazione. In questo è più avanzato dello stesso Piketty, il quale si concentra su una considerazione delle diseguaglianze come problema prevalentemente distributivo e redistributivo da trattare ex post, non anche problema allocativo da trattare ex ante perché attinente al funzionamento delle strutture, dell’accumulazione, della produzione. Atkinson non nega certo che la redistribuzione sia questione gravissima. Ma ha profonda consapevolezza della strutturalità degli aspetti problematici del capitalismo che essa mette in gioco: ad esempio, posto che la “genialità”, se così vogliamo chiamarla, del neoliberismo è stata di inventare, per sopperire alla caduta del tenore di vita conseguente alla compressione dei salari, un nuovo elemento autonomo di domanda — il consumo finanziato con debito -, oggi il problema cruciale è intervenire politicamente su quell’intreccio tra assetti produttivi, finanza e redistribuzione che ha creato un elemento autonomo di domanda sfociato in sovraconsumo e in alterazione della dinamica dell’investimento a vantaggio della finanza e a svantaggio dell’economia reale. E questo è un problema di allocazione e di struttura.

Con il neoliberismo, dunque, Atkinson si misura fino in fondo. Se le diseguaglianze non sono un destino naturale, se esse sono incapsulate in economie e società «costruite socialmente», sono il frutto di scelte politiche. Per affrontarle con proposte valide per il presente e per il futuro dobbiamo «apprendere dal passato», ponendoci due domande: 1) perché la diseguaglianza è caduta nel secondo dopoguerra in Europa? 2) Perché il trend egualitario è stato rovesciato in uno disegualitario a partire dal 1980?

Le risposte di Atkinson sono nette. I fattori maggiormente esplicativi del periodo di riduzione delle diseguaglianze sono tutti politici: «il welfare state e l’espansione dei trasferimenti pubblici, la crescita della quota dei salari sul valore aggiunto dovuta alla forza dei sindacati, la ridotta concentrazione della ricchezza personale, la contrazione della dispersione salariale come risultato di interventi legislativi dei governi e della contrattazione collettiva sindacale». E altrettanto politiche (anche se di segno opposto) sono «le ragioni che hanno condotto a un termine il processo di equalizzazione, rovesciando nel loro contrario i fattori equalizzanti»: tagli del welfare state, declino della quota dei salari sul valore aggiunto (con una responsabilità specifica dell’incremento della disoccupazione, che dalla fine degli anni ‘70 fu vertiginoso), crescente ampliamento dei differenziali salariali, minore forza sindacale, minore capacità redistributiva del welfare e del sistema di tassazione.

La radicalità dell’analisi conduce Atkinson a un’analoga radicalità delle proposte per combattere le diseguaglianze. Per esempio la proposta che «la direzione del cambiamento tecnologico» sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte dell’operatore pubblico, volto ad accrescere l’occupazione, e non a ridurla come avviene con l’automazione, e ad enfatizzare la dimensione umana della fornitura di servizi specie se pubblici, nella convinzione che le scelte delle imprese, degli individui e dei governi possano influenzare l’indirizzo della tecnologia (a sua volta influente sulla distribuzione del reddito). O quella — memore di quando nel 1961 nel Regno Unito vigeva per i giocatori di calcio una retribuzione massima di 20 sterline alla settimana, pari alla retribuzione media nazionale — che le imprese adottino, oltre che un «codice etico», un «codice retributivo» con cui fissare anche tetti massimi alle retribuzioni dei manager pure nel settore privato. O quella di tornare a prendere nuovamente molto sul serio l’obiettivo della piena occupazione — eluso dalla maggior parte dei paesi Ocse dagli anni ’70 — facendo sì che i governi operino come employer of last resort offrendo «lavoro pubblico garantito».

Si tratta di embrioni di un «nuovo modello di sviluppo» che fanno perno sul rilancio del lavoro e della «piena e buona occupazione», non in termini irenici però, o indifferenti alle grandi trasformazioni in corso, ma nella acuta consapevolezza che la loro intrusività — la loro «rivoluzionarietà» — rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society, lasciare libero spazio alla quale, però, equivarrebbe a non frapporre alcun argine alla catastrofe, anche e soprattutto in termini disegualitali.

«La fotografia di Eurostat. Nei 28 Paesi dell’Unione il 17% degli alloggi è vuoto A Copenaghen i palazzi più vecchi, a Bucarest i più giovani. E il 3% è senza bagni». La Repubblica, 12 dicembre 2015 (m.p.r.)

Londra. L’Europa vive in una casa di proprietà, costruita prima della seconda guerra mondiale, con uno o nessun inquilino dentro e in qualche caso senza gabinetto. È la fotografia, non troppo rassicurante, scattata da Eurostat, l’agenzia di statistiche della Ue, sulle abitazioni nel vecchio continente, basata su un sondaggio del 2011. Un’immagine che non dice necessariamente come” viviamo”, ma illustra “dove” e già questo fornisce dati su cui riflettere. La maggior parte dei cittadini dell’Unione sono proprietari della residenza in cui abitano, e questo è un segnale positivo. Ma molti alloggi sono disabitati, molti europei vivono soli, la maggioranza delle case ha più di settant’anni e forse bisogno di un restauro - per non parlare della necessità dei servizi igienici per la minoranza, esigua ma pur sempre allarmante, che non li ha.

Un’abitazione su sei, in Europa, è disabitata. Il record va al Sud: spesso sono alloggi per le vacanze, dunque “seconde case”. L’emergenza abitativa, verrebbe da dire, si potrebbe risolvere più in fretta se le case non occupate venissero date a chi non ne ha. E in tema di alloggi sfitti l’Italia è sul podio. Secondo gli ultimi dati Istat, basate sul censimento del 2011, le case vuote sono oltre 7 milioni, il 22,7%, con picchi del 40% in Calabria e del 50 in Val d’Aosta. Di queste, più di metà sono case vacanza; le altre (2,7 milioni, stima l’Istituto di statistica) sono semplicemente disabitate.
Complessivamente, lo stivale è diviso a metà tra chi abita in appartamento (il 50%, contro una media europea del 41,1%) e chi ha scelto una soluzione indipendente o semi-indipendente. Ma non mancano le ombre: il 27,3% degli italiani vive in alloggi sovraffollati, e quasi una persona su 10 sperimenta il disagio abitativo.
Guardando ai 28 Paesi dell’Unione, il 70% dei cittadini è proprietario della casa in cui vive, percentuale che sale al 90% o quasi in Romania, Ungheria, Lituania e Slovacchia. L’Italia si colloca poco sopra la media, al 73%. La nazione con più case in affitto è invece la Germania, motore economico della Ue, con il 47 %, seguita dall’Austria (43%). Altro dato illuminante: più di 4 europei su dieci vivono in una casa di proprietà senza mutuo da pagare, cioè l’hanno comprata già tutta (o l’hanno ereditata). Il quinto Paese europeo per numero di case di proprietà è la Gran Bretagna: non a caso qui si dice che «la casa di un inglese è il suo castello».
Altro fenomeno di rilievo: quasi un terzo delle case dell’Unione ha un solo inquilino, una fenomeno che cresce al ritmo del 2% all’anno. La capitale della Norvegia, Oslo, è anche la capitale europea di chi vive solo: il 53% degli abitanti. E in Danimarca la percentuale è appena più bassa, il 47%, per scendere al 40 nel resto della Scandinavia e in Germania. La maggioranza di questi europei che abitano in solitudine sono donne. D’altra parte, Londra è la città europea con più case in coabitazione (per forza, con quello che costano); ed è anche la città dove convivono più coppie dello stesso sesso, il 13 per cento.
Il primato delle case più vecchie spetta a Copenhagen: il 68 per cento è stato costruito prima del 1946. Risale a prima della guerra anche un terzo delle abitazioni in Danimarca, Belgio e Regno Unito, mentre in Irlanda, Grecia, Spagna, Portogallo e Cipro il 43 per cento è stato eretto dopo il 1980. I più nuovi in assoluto sono i sobborghi di Bucarest, dove il 37% degli alloggi è venuto su dopo il 2000. Ma la Romania ha anche un record meno confortante: il 38% delle abitazioni non ha il bagno. E la toilette manca, in tutta la Ue, in 3 case su cento, una minoranza neanche tanto piccola per il mondo del 2015.

Dov'è il governo pubblico delle trasformazioni della città? Non cercatelo nella pianificazione nel dibattito pubblico, nelle regole uguali per tutti. Contano solo gli interessi immobiliari dell'età della globalizzazione Il Sole 24ore, 26 novembre 2015

Dopo un lungo periodo di incognite finalmente si trova l'accordo per il palazzo del Poligrafico e della Zecca dello Stato di Piazza Verdi a Roma.
Il progetto di farlo diventare un hotel di lusso si concretizza grazie alla firma tra Residenziale Immobiliare 2004 (controllata da Cdp Immobiliare al 75% e partecipata da Finprema del gruppo Fratini con il 25%) e il gruppo cinese Rosewood Hotels and Resorts International Limited (controllato dal gruppo New World China Land quotato ad Hong Kong e che fa capo alla famiglia Cheng) di una lettera di intenti per la futura gestione sia dell'hotel sia delle residenze previste nell'edifico di Piazza Verdi in Roma.
A svettare sul complesso sarà quindi il marchio del gruppo Rosewood (in passato era stato fatto più volte il nome di Four Seasons) che in giro per il mondo vanta hotel del calibro del Carlyle di New York, Las Ventanas al Paraíso a Los Cabos in Messico, il Jumby Bay ad Antigua, ma anche l'Hotel de Crillion a Parigi e così via.
Il progetto di valorizzazione della sede storica del Poligrafico e Zecca dello Stato prevede la realizzazione di un hotel di extra lusso per complessive 200 camere circa, centro congressi, ristoranti, piscina, Spa, oltre a circa 50 residenze private gestite dallo stesso operatore alberghiero. La riqualificazione di questa parte sarà a cura di Rosewood, mentre a Residenziale Immobiliare 2004 restano ulteriori 28mila metri quadrati da sviluppare con residenze di lusso e uffici.
Sul mercato si sono rincorse anche molte voci in passato su una possibile vendita del complesso sul mercato. Il termine dei lavori è previsto per il 2018, mentre tutte le autorizzazioni per procedere sarebbero già a posto.

Il nostro futuro è già lì, ed è peggio del presente raccontato da James Ballard. «John Banville recensisce il nuovo romanzo di Joseph O’Neill ambientato negli Emirati Arabi fra grottesche pacchianerie e trappole finanziarie». La Repubblica, 28 ottobre 2015

Joseph O’Neill, L’uomo di Dubai (Codice, trad. di T. Pincio pagg. 288, euro 18,90)

L’ossessione degli anni ‘50 per la fantascienza, alimentata dalla paranoia da guerra fredda, il terrore della bomba e il sogno di un mondo nuovo, sgargiante, pulito e senza limiti, produsse una serie di riviste meravigliosamente strampalate. I racconti che c’erano dentro erano quasi sempre trascurabili (o forse eravamo troppo giovani per apprezzarli?), ma chi può dimenticare le illustrazioni in copertina, che raffiguravano le città fantastiche di un futuro lontano, con grattacieli alti un chilometro e mezzo, viadotti che si libravano tra le nuvole, automobili volanti e treni che solcavano i cieli. Oggi, vedendo le fotografie di Dubai, noi della vecchia generazione ci stropicciamo gli occhi per essere sicuri di non sognare. In questa città nel deserto, il futuro, che ai tempi della nostra gioventù sembrava impossibilmente lontano, o semplicemente impossibile, è già arrivato: ed è un futuro (chi lo avrebbe immaginato?) grottescamente pacchiano.

Joseph O’Neill, per un lampo di ispirazione, ha ambientato il suo nuovo romanzo, L’uomo di Dubai , a Dubai, appunto. I libri per cui è più famoso, il pluripremiato La città invincibile e quello precedente Blood-Dark Track , sono incentrati sui luoghi e l’assenza di luogo. Niente di strano, considerando che le sue origini, come Blood-Dark Track illustra doviziosamente, sono un groviglio inestricabile: uno dei suoi nonni era un uomo d’affari turco un po’ losco, l’altro era un nazionalista irlandese e militante dell’Ira.

O’Neill è nato a Cork, ma da bambino ha vissuto con i suoi genitori in tanti Paesi diversi, fra cui il Mozambico, la Turchia, l’Iran, e da quando aveva sei anni in Olanda, dove ha frequentato scuole francesi e inglesi. Poi ha studiato legge al Girton College di Cambridge e per dieci anni ha fatto l’avvocato a Londra, prima di trasferirsi a New York e stabilirsi lì, nel 1998.

L’anonimo avvocato svizzero- americano originario di Zurigo che fa da narratore in L’uomo di Dubai (è lui The Dog del titolo inglese), ha un nome che inizia per X, e per comodità lo chiameremo così. Ha lasciato New York e si è stabilito, se stabilito è la parola giusta, fra le discutibili meraviglie di Dubai, dopo la fine disastrosa e umiliante di una storia di nove anni con Jenn, anche lei avvocatessa esperta di diritto societario. Uno dei problemi insolubili della coppia, anche se non esplicitamente dichiarato, è che fra i due Jenn è quella che ha più successo sul lavoro, e di sicuro è più determinata, per non dire spietata. In realtà la sua durezza Jenn la espleta non soltanto nella vita professionale, ma anche nei rapporti con il nostro sventurato eroe. Quando la loro storia finisce, dopo che X decide, in stile Bartleby, che donare un campione di sperma non fa per lui (una splendida scena comica a cui O’Neill avrebbe potuto dare maggior rilievo), lei svuota il loro conto, lasciandolo senza un soldo.

Per sua fortuna, almeno in apparenza, X incappa in un vecchio amico dei tempi in cui era studente in Irlanda, tale Eddie Batros, rampollo di una ricchissima famiglia libanese; questo Eddie poco dopo gli offre un lavoro come «amministratore fiduciario della famiglia Batros». Per svolgere questo lavoro X deve trasferirsi a Dubai.

O’Neill tira fuori una cosa che assomiglia molto, anche in questa fase prematura della sua esistenza, a un capolavoro di comicità. Lo stile che ha congegnato per il suo racconto semidistopico è uno splendido amalgama fra il demotico e il leccatino. Si avvertono echi di Ballard e Martin Amis (che bieco divertimento avrebbe Amis a Dubai!), di Bellow e Nabokov, di Woody Allen e Don DeLillo, e di Philip Roth quando era comico, di Wittgenstein – sì, Wittgenstein – e di William Butler Yeats.

O’Neill è uno di quei rari scrittori che non si lasciano innervosire dalla ricchezza e dalle infinite potenzialità del linguaggio letterario. Qui ci sono frasi di tale tortuosa complessità, anima di versioni degne del Proust più verboso, che a due terzi del cammino la mente dà forfait: ma la pancia ride. L’uomo di Dubai è causticamente spiritoso come il miglior cabaret. È anche beatamente disinteressato alla trama (la vita ha forse una trama?), come in una delle immense opere dell’ultimo Henry James.

La cosa divertente (amaramente divertente) è che Dubai, come il resto del mondo, dopo il Grande Crac del 2008 aveva frenato di brutto, e forse sarebbe sprofondata senza lasciar traccia nelle sabbie dell’Arabia se i suoi vicini degli Emirati Arabi Uniti, meno smodati e più ricchi, non avessero messo mano alla loro larga dotazione di petrodollari per salvarla dai suoi stessi eccessi. X, però, è fedele al suo luogo di rifugio, che si rivelerà, anche se lui non lo sa, fin troppo temporaneo. «Non mi schiero con i denigratori», dichiara.

Questo non gli impedisce di vedere la sconfortante iperbolicità del luogo: «La missione non dichiarata di Dubai è rendersi indistinguibile dal suo aeroporto». O’Neill si trastulla largamente con le peculiarità delle usanze e costumanze locali. Alla fine X finirà dritto in una, o anche più d’una, trappola legale, quando la famiglia Batros sarà sorpresa con le mani nel sacco e lui sarà il capro espiatorio.

L’uomo di Dubai, come scopriamo pian piano, è una sorta di trappola per gli sprovveduti. In superficie sembra una commedia, brillantemente lavorata ma ordinaria, sulla mascolinità post-femminista, dove un homme moyen sensuel , inoffensivo, benintenzionato ma impacciato, più Candido che Caligola, va a cozzare con i costumi, o la mancanza di costumi, dei tempi moderni.

Ma la superficie nasconde oscure profondità. Nelle pagine di apertura del libro, X racconta delle sue visite (alla disperata ricerca di qualcuno che gli spieghi perché è Jenn a sentirsi umiliata dalla fine della loro relazione) a siti «dedicati ai progressi moderni della psicologia» e in particolare forum dove giungere alla saggezza attraverso le esperienze condivise di altri. Ma quello che trova è una Babele infuocata di accuse, recriminazioni e veri e propri abusi, che, confessa, fa paura a guardarla.

Il mondo, insomma, si è trasformato in un’enorme Dubai, una città di false meraviglie al largo di un mare di sabbia, dove il sogno della vita moderna si è trasformato in un incubo futuristico in cui tutto è più grande, più alto, più largo, più profondo, più ricco di tutto il resto in tutti gli altri posti, un luogo la cui «assenza di passato rappresenta una grande opportunità per raccontare storie», come dice Ted Wilson, studioso di storia convertito in pierre. X – che alla fine si accorgerà di non avere nessuna storia da raccontare che valga la pena di essere ascoltata, o che convinca chicchessia che lui è autentico, che lui vale – è sconvolto dalla piega che hanno preso le cose. Contemplando la natura essenzialmente sintetica della città in cui si trova esiliato, rimane meravigliato e sgomento dalla proprio ingenuità.

«Se il nocciolo della questione è sempre la rigida separazione funzionale delle città, che ha penalizzato le donne in virtù del tributo che esse pagano alle necessità della specie non saranno certo gli edifici disegnati da donne a fare la differenza».

In molti paesi le donne hanno assunto un ruolo determinante nelle economie nazionali, ma il tema di come la forma della città ed il paesaggio urbano tengano conto dell’universo femminile difficilmente viene affrontato. Se l’organizzazione spaziale delle città tende ad assumere le stesse caratteristiche che si riscontrano nella struttura sociale, se essa è stata modellata a misura del genere dominante, se il modo in cui le donne vivono e si muovono al suo interno si differenzia in relazione al diverso ruolo che esse ricoprono nella società, se quindi, almeno a livello simbolico, essa continua ad essere lo spazio degli uomini e implicitamente, la casa quello delle donne, ci si potrebbe domandare come possa diventare più attenta ai bisogni dei suoi abitanti semplicemente favorendo l’opera di architette, ingegnere e urbaniste.

La domanda è stata recentemente posta da articolo del Guardian a proposito della mostra Urbanistas: women innovators in architecture, urban and landscape design, e la risposta che se ne trae è tutto sommato positiva. L’esposizione riguarda l’opera di cinque professioniste selezionate, la cui appartenenza al genere femminile sembra essere rappresentata ancora una volta dalla dimensione della cura. Fare dello spazio pubblico un valore sociale, non sprecare prezioso suolo urbano, dare importanza alle questioni climatiche ed ecologiche che riguardano il modo in cui mutano le città, avere insomma un approccio soft (e conservativo) alla pianificazione sarebbe ciò che le differenzia dalla visione hard (e distruttiva) dei loro colleghi maschi, ritenuta implicitamente responsabile di molti dei problemi che riguardano le trasformazioni urbane.

Se da un lato l’esperienza delle Urbanistas, nell’ambito della pratica professionale corrente, si differenzia perché farebbe della connotazione di genere uno strumento con il quale pensare in maniera differente allo spazio urbano, dall’altro si deve però constatare che una approccio così parziale, solo legato alla dimensione del progetto, non riesce a diventare un programma per condizionare i processi di trasformazione urbana da una prospettiva di genere. Cosa che non si limita affatto alle professioniste dell’ambiente costruito, più o meno in grado di imporre nell’esercizio della loro professione la centralità di temi che si da per scontato i loro colleghi maschi ignorino.

Kate Henderson, la direttrice della Town and Country Planning Association, ha dichiarato qualche tempo fa di avere spesso modo di sentirsi isolata, in quanto ad appartenenza di genere, nel contesto professionale in cui opera. D’altra parte a decidere sul corpo delle città sono principalmente gli uomini, dato che la politica è un ambito ancora fortemente dominato dal genere maschile, malgrado il crescente numero di donne in posti di comando. Nella polis, così come nella città, il pensiero e l’opera delle donne continuano ad essere poco influenti, anche se da tempo le professioni dell’ambiente costruito attingono dal genere femminile.

Nello spazio pubblico i corpi femminili sono purtroppo ancora relegati nell’immaginario della domesticità o ancorati al desiderio sessuale maschile e tutto ciò è considerato normale, basta percorrere le strade di una città qualsiasi. Non è certo una novità che il corpo femminile sia utilizzato per finalità commerciali, ma che sia possibile evitare questa interferenza con il paesaggio urbano, soprattutto se essa finisce per rafforzare i peggiori stereotipi di genere, lo prova la decisione della città di Grenoble di rinunciare ai proventi derivanti dalla cartellonistica pubblicitaria.

La recente proposta di regolamentare la prostituzione di strada nel quartiere dell’EUR a Roma - non a caso un ambito della città a forte specializzazione funzionale che sta facendo i conti con la fallimentare gestione urbanistica delle sindacature di Veltroni e Alemanno - rappresenta molto bene quanto il vecchio immaginario maschile, che associa prostituzione a degrado, sia diventato l’argomento che consente di non prendere in considerazione i veri problemi di quell’area. C’è una evidente ipocrisia nel far credere all’opinione pubblica che la priorità sia mettere ordine nella situazione attuale, già dominata dalla forte presenza di prostitute, e non affrontare le conseguenze di scelte urbanistiche che hanno lasciato in eredità una serie di contenitori non finiti, come la Nuvola sede del Nuovo Centro Congressi, o abbandonati, come nel caso del vecchio parco di divertimenti Luneur.

La questione centrale che ancora va posta a chi decide sulle città, è quella a cui rimanda la vicenda del cosiddetto “quartiere a luci rosse”, con il suo connubio di fallimenti urbanistici e di degrado generato dalla città pensata per funzioni separate. Il tema, che è stato affrontato da Dolores Hayden nel 1980 in What Would a Non sexist City Be Like?, è quello dell’integrazione, rispetto al quale le domande da porsi restano la differenze funzionali e percettive della sua struttura e come essa riesca a rappresentare i suoi differenti abitanti. Hayden, da urbanista, riconduce la questione del sessismo insito nell’organizzazione urbana ai suoi aspetti spaziali, riconoscendo tuttavia che il problema è politico, nel senso più pieno del termine. Il saggio, che ha evidenziato la necessità di considerare lo spazio costruito non più secondo le categorie rigide, contiene una serie di soluzioni progettuali in grado di superare la separazione tra abitazioni e luoghi di lavoro. L’intento è di scardinare le basi dello sviluppo urbano contemporaneo al di là di un diverso progetto spaziale: sono le basi sociali ed economiche, che affidano alle donne il lavoro domestico non retribuito, a dover essere radicalmente trasformate.

In sintesi, se il nocciolo della questione è sempre la rigida separazione funzionale delle città, che ha penalizzato le donne in virtù del tributo che esse pagano alle necessità della specie - per dirla con Simone de Beauvoir – non saranno certo gli edifici disegnati da donne a fare la differenza, nemmeno se essi ricordano parti del corpo femminile come nel caso del progetto di Zaha Hadid per lo stadio dei mondiali di calcio in Qatar. Il punto centrale resta il diverso progetto spaziale a patto che il suo ordinamento sociale sia radicalmente trasformato a partire dal ribaltamento della visione che l’ha fin qui dominato. Senza ipocrisie e moralismi.

Riferimenti
L. Bullivant, How are women changing our cities?, The Guardian, 5 marzo 2015.

La città autoritaria dell’automobile coatta, degli schermi televisivi familiari e dei tempi di lavoro e riposo programmati. "The Pedestrian", un inquietante racconto dello scrittore appena scomparso, nella bella traduzione di Carlo Fruttero

Entrare in quel silenzio che era la città alle otto di un'opaca sera di novembre, sentire sotto le suole quei riquadri di cemento raggrinzito, calpestare l'erba cresciuta fra gli interstizi e aprirsi un varco, con le mani in tasca, in mezzo ai silenzi: era questo che il signor Leonard Mead amava fare sopra ogni altra cosa. Si fermava al primo crocicchio e scrutava i lunari corridoi dei marciapiedi nelle quattro direzioni, come se sceglierne una piuttosto che un'altra facesse qualche differenza. Poi, presa la decisione e stabilito l'itinerario, tornava ad avviarsi, spingendo davanti a sé, come fumo di sigaro, volute d'aria gelida.

A volte continuava a camminare per ore e ore, per miglia e miglia, e tornava a casa dopo mezzanotte. E lungo tutta la strada, lungo case e villini dalle finestre buie, era come camminare in un cimitero: con fiochi barlumi di lucciole che baluginavano di quando in quando dietro un vetro; con improvvisi fantasmi grigi che sembravano talvolta manifestarsi sui muri interni delle stanze, là dove una tenda non era stata tirata contro la notte; o con sussurri e mormorii che talvolta giungevano fino a lui, là dove una finestra, in uno dei tanti funerei edifici, era rimasta aperta.

Il signor Leonard Mead si fermava, piegava il capo, ascoltava, guardava, e si rimetteva in cammino. Il suo passo, sulle lastre di cemento incrinate e sconnesse, era perfettamente silenzioso; perché, saggiamente, già da molto tempo s'era deciso a portare scarpe con la suola di gomma, per le sue passeggiate notturne: altrimenti i cani avrebbero abbaiato parallelamente a tutto il suo viaggio, e luci si sarebbero accese di colpo, facce sarebbero apparse alle finestre, finché tutta la strada si sarebbe ridestata al passaggio di una figura solitaria, lui, in una sera di novembre.

Quella sera Leonard Mead si avviò verso la parte occidentale della città, verso il mare invisibile. C'era nell'aria il presagio cristallino del gelo; pungeva la pelle e, dentro, incendiava i polmoni come un albero di Natale; a ogni respiro, si sentiva la luce fredda accendersi e spegnersi, tutti i rami carichi d'invisibile neve. Rallegrato dai tonfi lievi delle scarpe sulle foglie d'autunno, Leonard Mead prese a fischiettare tra i denti un motivo sommesso, liscio, curvandosi ogni tanto a raccogliere una foglia, esaminando, ripresa la marcia, la sua trama scheletrica alla luce degli infrequenti lampioni, fiutandone l'odore rugginoso.

— Vi saluto, — sussurrava davanti a ogni casa, a destra e a sinistra. — Che c'è di bello stasera sul Quarto Canale, sul Settimo Canale, sul Nono Canale? Dove galoppano i cow boys? È forse la cavalleria degli Stati Uniti che viene alla riscossa, quella nube di polvere sull'altra collina?
La via era silenziosa e lunga e deserta, la sua ombra era l'unica cosa che si muovesse, come l'ombra di un falco sulla pianura. Se chiudeva gli occhi tenendosi perfettamente immobile, impietrito, riusciva a immaginarsi al centro di un'immensa distesa piatta, un arido deserto senza vento e senza una casa nel raggio di mille miglia, con l'unica compagnia di tortuosi fiumi disseccati: le strade.

— Che programma c'è a quest'ora? — chiese alle case, guardando l'orologio. — Le otto e mezzo. È l'ora di mezza dozzina di delitti assortiti? O dei quiz? O di un varietà musicale? O di una scenetta comica?
Era un mormorio di risate quello che usciva da una delle casette bianche di luna? Esitò un istante, ma poi riprese il cammino quando vide che nulla accadeva. Inciampò in un tratto di marciapiedi particolarmente sconnesso. Il cemento spariva, invaso dai fiori e dall'erba. In dieci anni di passeggiate, di giorno e di notte, per migliaia di chilometri, non gli era mai capitato di incontrare un altro essere umano che camminasse come lui per la città; nemmeno uno.

Giunse a un incrocio a quadrifoglio, imponente e silenzioso, dove due grandi arterie tagliavano la città. Durante il giorno un vortice assordante di veicoli lo trasformava in un immenso insetto frenetico, velato dai vapori degli scarichi, continuamente dissanguato, dilatato, e poi di nuovo congestionato, soffocato, dall'incessante fluire e defluire del traffico. Ma ora queste grandi strade erano anch'esse corsi d'acqua inariditi, null'altro che asfalto e pietra e chiaro di luna.
Imboccò una via laterale per tornare verso casa. Era ormai a un isolato dalla sua porta quando un'automobile solitaria girò di colpo l'angolo e lo centrò con un violento cono di luce. Al primo momento egli rimase immobile; poi, non diversamente da una falena accecata dal bagliore, si sentì attratto verso la fonte.

Una voce metallica suonò nel silenzio:
— Si fermi. Resti dov'è! Non si muova!
Si fermò.
— Mani in alto!
— Ma... — disse.
— Mani in alto! O spariamo!
La polizia, naturalmente. Ma era un caso rarissimo, quasi incredibile: in una città di 3 milioni di abitanti, era rimasta, se ricordava bene, un'unica auto della polizia. Già da un anno ormai, dal 2052, l'anno delle elezioni, le auto in dotazione della polizia erano state ridotte da tre a una sola. La delinquenza era quasi completamente scomparsa; non c'era più bisogno della polizia, quest'ultima auto solitaria che errava senza posa per le vie deserte era più che sufficiente.

— Nome e cognome, — disse l'auto della polizia in un ronzio metallico.
Non gli riuscì di vedere gli uomini dentro la macchina, accecato com'era dalla luce bianca.
— Leonard Mead, - rispose.
— Parli più forte!
— Leonard Mead!
— Impiego o occupazione?
— Diciamo, scrittore.
— Senza occupazione, — disse l'auto della polizia, come parlando tra sé. Il fascio di luce lo teneva inchiodato come un esemplare da museo, un insetto col corpo trapassato da uno spillo.
— Non avete torto, — disse Leonard Mead. Da anni aveva smesso di scrivere: Libri e riviste non si vendevano più. Tutto - pensò, tornando alle sue meditazioni d'ogni sera, - tutto ormai si svolgeva di sera, dentro quei sepolcri di case appena illuminati dal tenue riflesso dello schermo televisivo, in cui gli uomini, simili a defunti, sedevano davanti alle luci grigie o multicolori che sfioravano i loro volti ma senza mai toccarli dentro.

— Senza occupazione, — disse la voce di fonografo, sibilando.
— Perché è uscito di casa?
— Per camminare, — disse Leonard Mead.
— Camminare!
— Solo camminare, — disse con naturalezza, ma mentre un gelo gli saliva lungo la schiena.
— Camminare, solo camminare, camminare?
— Sissignore.
— Camminare dove? A che scopo?
— Camminare per prendere aria. Camminare per vedere.
— Il suo indirizzo, prego?
— Saint James Street, numero 11.
— E lei ha dell'aria, in casa sua, signor Mead? Ha un condizionatore d'aria?
— Sì.
— E ha uno schermo televisivo in casa? Uno schermo da guardare?
— No.
— No? — Vi fu un silenzio crepitante che era di per sé un'accusa.

— Lei è sposato, signor Mead?
— No.
— Celibe, — disse la voce della polizia dietro il raggio accecante.
La luna era alta e chiara fra le stelle e le case grigie e silenziose.
— Nessuno mi ha voluto, — disse Leonard Mead con un sorriso.
— Non parli se non è interrogato.
Leonard Mead rimase in attesa nella notte fredda.
— E uscito da solo, per camminare, signor Mead?
— Sì.
— Ma non ci ha detto per quale scopo.
— Ve l'ho detto: per prendere aria, per vedere, e per il piacere di camminare.
— Lo fa spesso?
— L'ho fatto per anni, tutte le sere.

L'auto della polizia era acquattata al centro della strada con la sua gola radiofonica che ronzava fiocamente.
— Bene, signor Mead, — disse.
— Non c'è altro? — chiese educatamente Mead.
— No, — disse la voce. — È tutto —. Vi fu uno scatto metallico e come un lungo sospiro.
Lo sportello posteriore della macchina della polizia si aprì lentamente. — Salga.
— Un momento, io non ho fatto niente!
— Salga.
— Io protesto. Non avete il diritto di...
— Signor Mead.
Leonard Mead avanzò rassegnato, vacillando appena, ma con le spalle improvvisamente curve. Mentre passava davanti al parabrezza guardò nell'interno dell'auto. Come si aspettava, non c'era nessuno seduto sul sedile anteriore; non c'era nessuno nella macchina.
— Salga.

Posò una mano sullo sportello e scrutò nel sedile posteriore, che era una piccola cella, una piccola prigione nera, con le sbarre. Odorava di acciaio. Odorava di pungente antisettico. Odorava di gelida pulizia, di duro metallo. Non c'era nulla di soffice là dentro.
— Se lei fosse sposato, e sua moglie potesse testimoniare, — disse la voce di ferro. — Ma così come stanno le cose...
— Dove mi portate?

La macchina esitò, o piuttosto emise un leggero, brevissimo ronzio, e uno scatto, come se un braccio meccanico, nel suo interno, chissà dove, facesse scorrere una serie di schede sotto un occhio elettrico. — Al Centro di Ricerca Psichiatrica sulle Tendenze Regressive.
Leonard Mead salì. Lo sportello si richiuse con un tonfo morbido. L'auto scivolò via tra i viali notturni, preceduta dai suoi fari fiochi.
Un istante dopo passarono davanti a una certa casa, in una certa via, l'unica casa in una città di case buie, che avesse tutte le sue luci accese, ogni finestra viva e rutilante, ogni rettangolo caldo e chiaro nel buio di novembre.
— Quella è casa mia, — disse Leonard Mead.
Nessuno gli rispose.
L'auto continuò la corsa lungo i fiumi inariditi, lasciandosi dietro strade deserte e deserti marciapiedi, dove non un suono, non un movimento turbavano più la fredda notte d'autunno.

Da: Sergio Solmi, Carlo Fruttero (a cura di) Il secondo libro di fantascienza, Einaudi, Torino 1961

© 2024 Eddyburg