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«Il mito della Barcellona risorta con le Olimpiadi del ’92 ha indicato la strada per la rinascita alle altre città europee post industriali. Ma Barcellona è davvero un esempio da seguire?». Sbilanciamoci-info, 29 maggio 2017 (c.m.c.)

Nel capoluogo della Catalogna c’è chi, da anni, mette in discussione il suo modello di sviluppo urbano, assurto a dogma da amministratori e media mainstream e preso a riferimento anche da molte città italiane. Tra le voci critiche più interessanti, ci sono i sociologi e antropologi Giuseppe Aricò e Marc Dalmau i Torvà: il primo è membro dell’Osservatorio di Antropologia del Conflitto Urbano (OACU), il secondo, socio della cooperativa La Ciutat invisible, ha partecipato all’esperienza di Can Battló, caso esemplare di recupero del patrimonio industriale da parte della cittadinanza. E’ per conoscere il loro punto di vista che sono venuto qui. E perché la questione urbana è una delle grandi questioni del nostro tempo.

Ogni volta che torno a Barcellona sono preda di sentimenti contrastanti. Da una parte la città sembra avere tutto ciò che si possa desiderare: mare, clima, bellezza e dolce vita. Dall’altra, continua a perdere pezzi della sua identità e assomiglia sempre più ad altre città globali. Cammini a Sant Antoni, un tempo quartiere popolare, e ti sembra di stare a Shoreditch o a Williamsburg, i quartieri hipster più famosi di Londra e New York: ristoranti dalla cucina ricercata, café veg, cibi organici, succhi estratti a freddo, negozi vintage e mobili retrò. E gli affitti in zona sono schizzati alle stelle.

Trasformazioni non meno radicali hanno interessato il poco distante Poble Sec, l’ex quartiere operaio ubicato tra il centralissimo Raval e la collina del Montjuic: oggi, tra bar e ristoranti, si contano ben 45 attività commerciali lungo i circa 620 metri della sua “rambla” pedonalizzata. Processi simili, poi, sono in atto anche nel vecchio pueblo di Gracia e nel quartiere del Poblenou, simbolo del passato industriale della città. Per non parlare del quartiere marinaro della Barceloneta, dove invece degli economici chiringuitos di una volta si trovano più ambiziosi gastro-chiringuitos e si sorseggiano cocktail all’ombra di un hotel a vela che fa tanto Dubai.

Emergenza casa

Nessun quartiere viene risparmiato. Si chiama gentrification: chi più, chi meno, chi prima, chi dopo, tutti subiscono una metamorfosi identitaria, che comincia con l’impennata degli affitti e si conclude con la sostituzione di classi medio-basse e basse con classi medio-alte e alte. Idealista, portale online leader nell’ambito dell’ospitalità, sostiene che in alcuni quartieri gli affitti sono saliti addirittura del 15% rispetto ai picchi del 2007, quando si era ancora in piena bolla immobiliare. Un aumento vertiginoso, favorito anche dal proliferare di appartamenti turistici, che, secondo uno studio del comune, sfiorano le 16000 unità, di cui il 40% senza licenza. In una città come Barcellona, ormai una delle principali mete del turismo internazionale, gli affitti brevi rendono molto di più degli affitti a lungo termine e molti proprietari non si sono lasciati scappare l’occasione. Per questo, la sindaca Ada Colau ha intrapreso una battaglia legale contro Airbnb e Homeway, veri e propri colossi di internet nel settore degli affitti a breve termine.

Non è questa l’unica iniziativa dell’attuale giunta per affrontare l’emergenza abitativa, priorità assoluta per Ada Colau, che nel decennio passato è stata protagonista delle lotte per la casa, prima con il collettivo “V de Vivienda” e poi guidando la piattaforma contro gli sfratti (PAH). L’azione della sindaca si sta sviluppando in due direzioni: da una parte, ha predisposto la costruzione di oltre 2000 alloggi da destinare all’edilizia pubblica, oggi ferma all’1,5% contro il 15% della media europea; dall’altra, sta studiando come limitare i prezzi degli affitti. Inoltre, è notizia di questi ultimi giorni, l’amministrazione comunale starebbe preparando in segreto un piano contro la gentrificazione.

A ogni città i suoi palazzinari

Basterà? Secondo Giuseppe Aricò le cose non potranno cambiare in profondità senza puntare il dito contro i veri responsabili: «Un vero cambiamento non può che toccare i poteri forti della città, che hanno nome e cognome: Jose Luiz Navarro, la famiglia Sanahuja, quella Koplowitz e altri grandi grandi investitori immobiliari. Perché tutto inizia e finisce con il settore immobiliare in una città come questa».

Pensando alla grande speculazione in atto a Roma con lo stadio di Tor di Valle, verrebbe da dire: a ogni città i suoi palazzinari. Palazzinari che a Roma hanno esercitato enormi pressioni per la candidatura dell’Urbe alle Olimpiadi del 2024, sbandierandole come volano economico dai benefici universali: guardate – dicevano – le Olimpiadi di Barcellona come hanno cambiato pelle alla città e guardate Torino che ha seguito quel modello e si è rilanciata con i giochi olimpici invernali del 2006 (dimenticano però di dire che il capoluogo piemontese è così diventato la città più indebitata d’Italia, con una eredità di strutture costruite per l’occasione e costate decine di milioni di euro, oggi in stato di abbandono). I grandi eventi, quindi, vengono universalmente presentati come propulsori della trasformazione, o, come viene chiamata spesso, rigenerazione. In nome di una logica che, in tempi di crisi – soprattutto di idee – è rimasta uno dei pochi appigli a cui aggrapparsi.

Le Olimpiadi come tassello mancante di un lungo processo

Per capirne dinamiche e conseguenze, occorre ripercorrere brevemente la storia di Barcellona. A guardarla bene, emerge un quadro diverso da quello diffuso nell’opinione pubblica: le tanto celebrate Olimpiadi sono state solo un importante tassello di un processo che veniva da lontano e che rispondeva a un’ideologia precisa. «L’origine del modello Barcellona – spiega Marc Dalmau i Torvà – possiamo datarlo con la prima esposizione universale (1888), quando si decise di seguire un modello urbanistico di crescita illimitata, nonostante i limiti geografici».

Ma è circa 60 anni fa che si gettano le fondamenta dell’impianto che conosciamo oggi. Si era allora in pieno franchismo e sullo scranno più alto del governo cittadino sedeva il notaio Josep Maria de Porcioles, longa manus del regime e collante con il catalanismo. Nei suoi ben 16 anni di amministrazione, dal ’57 al ’73, Porcioles avviò uno sviluppo urbanistico senza precedenti, per fare di Barcellona una meta turistico-commerciale di fama internazionale. Come recitava uno slogan del tempo, “Barcellona, città del turismo e dei congressi”.

E’ in quest’epoca che si affermano quelle collaborazioni pubblico-private che guideranno la trasformazione olimpica della città. L’era Porcioles, infatti, sdogana la privatizzazione delle politiche comunali e arricchisce alcuni gruppi immobiliari della città attraverso grandi opere speculative e continue riqualificazioni del suolo urbano. Ritrovare i nomi delle stesse imprese nella maggior parte degli interventi cittadini degli ultimi 50 anni pone qualche dubbio sulla vulgata comune, che suddivide la storia urbanistica di Barcellona in tappe e, soprattutto, in tre fasi distinte: il periodo franchista, la transizione e, infine, l’eldorado felice dell’urbanismo democratico, condiviso per il bene di tutti e simboleggiato dalle Olimpiadi.

«Si è soliti pensare – mi racconta Giuseppe Aricò – che abbiamo vissuto un urbanismo del prima, dove non si permetteva la partecipazione cittadina, e un urbanismo del dopo, ispirato dal principio di una città aperta, una città partecipativa. Nonostante gli slogan di allora, le Olimpiadi, però, ci hanno mostrato che non è così: la collaborazione pubblico-privata è stato un trionfo non tanto del pubblico, quanto del privato, ossia degli interessi privati del mercato immobiliare».

E che un filo accomuni i diversi periodi storici lo si capisce anche dalla continuità dei piani urbanistici. Nel 1976, tre anni dopo la fine dell’amministrazione di Porcioles, fu approvato il piano tutt’ora vigente: alla sua base, l’idea di una città terziaria, fondata sul consumo e abitata in particolare da classi medie e medio alte, che non necessitino di molti servizi. Con buona pace delle classi più basse. Per trasformare i desideri in realtà serviva, però, un grande evento. Porcioles, per il suo piano Pla Barcelona 2000, presentato nel 1967 e poi naufragato in un mare di proteste, lo aveva individuato nell’Esposizione Universale del 1982. Toccherà invece alle Olimpiadi realizzare i sogni di rigenerazione urbana del sindaco franchista e dei grandi gruppi immobiliari.

Che la “riqualificazione” abbia inizio!

Sin dalla prima metà degli anni ’80, in concomitanza con il processo di candidatura di Barcellona alle Olimpiadi, fioriscono i primi interventi di “agopuntura urbana”. «Si tratta – continua Giuseppe Aricò – di micro e piccole operazioni, distribuite a pioggia. E’ nel centro che si è concentrata la maggior parte degli interventi, ma hanno subito trasformazioni anche quartieri considerati periferici, convertiti in nuove centralità». All’agopuntura urbana si affiancarono, poi, i progetti per aprire Barcellona al mare, recuperando il litorale dalla Barceloneta alla Mar Bella. «L’apertura verso il mare cancellò la storia delle popolazioni che vivevano nei quartieri lungo il litorale».

L’azione più radicale riguardò il quartiere di Icaria, che venne raso al suolo per far spazio alla Vila Olimpica (Città Olimpica), un quartiere residenziale per ceti abbienti, a due passi dal mare. «E’ il quartiere dei premi Fad, premi d’architettura e interior design, istituiti da Oriol Bohigas, il principale ideologo dei criteri di trasformazione urbanistica della Barcellona democratica».

L’impatto delle archistar si rivela spesso devastante per gli equilibri sociali delle aree in cui operano. E la Vila Olimpica non fa eccezione, incarnando ancora, a decenni di distanza, l’immagine di un “non-quartiere”: composta da blocchi di edifici, progettati da famosi architetti e cinti da giardini privati, ospita vite indipendenti, senza punti d’incontro e relazione e senza attività commerciali. Un “non-quartiere” che esprime una concezione di città esclusiva ed escludente, a scapito dei tessuti sociali pre-esistenti. Un esempio lampante di come rigenerazione non costituisca di per sé una parola positiva, ma possa rivelarsi portatrice di effetti negativi, quando non tiene in considerazione il rispetto della storia di un luogo e dei suoi abitanti.

Città imprenditoriali per un necrourbanismo

Il geografo e urbanista David Harvey, uno dei massimi studiosi di Marx, sostiene che l’urbanizzazione capitalista svolge «un ruolo particolarmente attivo (insieme ad altri fenomeni come le spese militari) nell’assorbire le eccedenze che i capitalisti producono costantemente nella loro ricerca di plusvalore». Come nota lo stesso autore, questo ruolo pare notevolmente aumentato da quando la crisi degli anni ’70 ha spinto le città a passare da una funzione manageriale, in cui gestivano le risorse fornitegli da Stati keynesiani, a una funzione imprenditoriale, in cui perseguono obiettivi di crescita e si pongono in competizione tra loro.

Il risultato di quest’ultima fase, quella neoliberista, è ciò che Marc Dalmau i Torvà definisce “necrourbanismo”. «Lo chiamo così perché è specialista nel generare spazi vivi per il capitale e per la circolazione delle merci e in cambio uccide, depreda tutti gli spazi pubblici, di convivialità, di reciprocità, di socialità, che è quello che in definitiva dovrebbe caratterizzare qualsiasi spazio pubblico». La morte della città nella sua vera essenza.

«Il capitalismo neoliberista sta uccidendo la dimensione umana delle città e sta costruendo un’altra cosa: metropoli, conurbazioni, spazi totalmente segregati, disciplinati dal perseguimento del plusvalore». Con impatti tremendi sulla vita delle persone. «La nostra vita va a rotoli. A causa di questo modello, che durante molti anni è stato premiato e preso a riferimento da altre città, veniamo espulsi dai nostri quartieri, dove coltiviamo relazioni, ci aiutiamo e ci procuriamo i mezzi di sostentamento. Per gli urbanisti e i politici responsabili di questo sviluppo può essere un gioco, ma per noi, che siamo di carne e ossa e viviamo tra le pietre del nostro quartiere, è una questione vitale importantissima, perché perdiamo i nostri riferimenti, i nostri spazi comuni e i luoghi di cui ci appropriamo quotidianamente».

C’è chi dice no

Ma Barcellona è una città tutt’altro che remissiva. Qui, le lotte non sono mai mancate. «Si è soliti pensare – spiega Giuseppe Aricò – che la protesta cittadina sia qualcosa di molto recente, relazionato, non solo qui ma in tutta la Spagna, con i movimenti del 15 maggio 2011 (giorno d’inizio delle proteste degli Indignados, che darà il nome al Movimento 15-M). Questo è un falso mito, perché le lotte hanno caratterizzato questa città sin dal principio del secolo scorso e non sono mai entrate in letargo. Piuttosto, sono state occultate». Durante le Olimpiadi, ad esempio. «Una protesta nota come l’intifada del Besos (quartiere che deve il suo nome all’omonimo fiume, n.d.r.) riuscì a paralizzare un piano di costruzione di case in vista della celebrazione olimpica».

E da lotte più recenti, alla Barceloneta, usciranno le persone che fonderanno la PAH di Ada Colau. Lotte che, nonostante qualche importante vittoria, non sono però riuscite a fermare l’onda della trasformazione neoliberista e della conseguente gentrificazione. Con qualche eccezione, come, per esempio, Can Battlò, ex fabbrica tessile ubicata a Santz, quartiere di grande tradizione operaia. Una storia che vale la pena di essere raccontata

Cosa è e cosa non dovrebbe mai essere. Illuminante puntualizzazione sulla rigenerazione urbana che dovrebbe essere tenuta a mente nelle revisioni delle attuali leggi urbanistiche regionali. La città conquistatrice, 11 aprile 2017 (p. d.)

Si sottolinea spesso che se il terzo millennio presenta la sfida dell’urbanizzazione planetaria, al suo interno esistono tante altre sfide per nulla minori, prima fra tutte quel che si intende dire quando se ne parla. È il famigerato gioco delle «parole della città», su cui si impegnano folte schiere di azzeccagarbugli più o meno prezzolati (a volte solo altezzosamente ignoranti), per rigirare concetti come frittate, di solito azzerando o quasi gli sforzi di chi si impegna a studiare fenomeni ed escogitare politiche. Non sfugge al rischio ideologico e speculativo anche la «rigenerazione urbana», termine che nasce in sostanza nel quadro della deindustrializzazione delle città britanniche nella seconda metà del ‘900, e che apparentemente si caratterizzava in modo saldo e univoco. Che avrebbe dovuto significare, coerentemente? Facile: linee di intervento pubblico per riattivare la vitalità socioeconomica di aree cittadine fortemente colpite dalla disoccupazione, dalla dismissione, dal degrado complessivo da mancanza di investimenti, restituendo almeno in parte fiducia e prospettive agli abitanti. Questo doveva essere, la rigenerazione urbana, che in sé e per sé poteva anche comporsi di quote molto variabili, di quegli interventi a «riattivare la vitalità», ovvero certamente in qualche modo intrecciandosi con la riqualificazione edilizia e urbanistica, ma non per forza consistendo prevalentemente di quello.

Rigenerazione, riqualificazione, ricostruzione …
Del resto, perché mai qualcuno avrebbe dovuto prendersi la briga di coniare un termine nuovo, per descrivere una cosa vecchia e banale come le manutenzioni straordinarie, o nei casi più gravi la demolizione e ricostruzione edilizia? Per quello c’erano già consolidate denominazioni, dal restauro, al cosiddetto diradamento, fino al radicale urban renewal inventato dagli americani. Invece il termine nuovo stava nelle intenzioni a dire che nessuno voleva far passare necessariamente ruspe o imbianchini, idraulici e serramentisti nei quartieri, salvo all’interno di un programma nel quale la loro opera contribuisse al raggiungimento di quegli obiettivi: restituire vitalità locale, e magari innescare virtuosi processi di sviluppo. Ma non si erano fatti i conti con l’antica fede nell’edilizia come volano onnicomprensivo, nonché con l’idea piuttosto reazionaria (quella sì derivata dallo urban renewal pratico) che in fondo quelli non erano investimenti, ma spese di contenimento per una pressione sociale che si voleva in via di esaurimento. Chiudere la gente dentro qualche casetta un po’ risistemata, aspettando che la smettesse di pretendere altro, e magari lasciar speculare un po’ i privati interessati all’affare. È così che via via la «rigenerazione» ha cominciato a non rigenerare alcunché, riversando tutte le proprie risorse nelle trasformazioni edilizie e urbane, a volte addirittura nella sostituzione sociale detta propriamente gentrification. Che fare? Qui rispunta una idea «di sinistra» piuttosto ovvia, che però pareva essere sfuggita: ribadire i termini iniziali, manco fossimo in un Dizionario.

Tema, svolgimento
Ovvero che parlando di «rigenerazione» bisogna far riferimento a un marchio registrato, e che questa registrazione deve essere garantita, per esempio da chi eroga fondi e concede deroghe o facilitazioni. Cosa c’è di meglio, se non un vero e proprio «Manuale per avvicinarsi alla Rigenerazione dei Quartieri mettendo al centro i loro Abitanti»? Ci ha pensato l’amministrazione progressista della Grande Londra, specificando da subito che il vero processo Doc è quello applicato in modo circoscritto ai complessi di edilizia sovvenzionata per famiglie bisognose (ergo da rivitalizzare o garantire): lì dentro anche una relativa centralità dell’intervento edilizio, spesso giustificatissima per pregressa mancanza di investimenti in manutenzioni e adeguamenti, pare abbastanza ovvio metta al centro gli abitanti, le loro relazioni, e probabilmente anche la società urbana nel suo complesso. Gli obiettivi, molto tecnicamente parlando, sono qui riassumibili in tre grandi categorie: garantire abitazioni di qualità decorosa, magari anche sperimentando soluzioni innovative da vari punti di vista; rispondere alle nuove e vecchie domande residenziali e di composizione funzionale-sociale dei quartieri, dei servizi, degli equilibri con il contesto; migliorare complessivamente intere zone dal punto di vista socioeconomico e fisico, in modo diverso dal processo di valorizzazione immobiliare classico della «riqualificazione» privata. E fare tutto questo con più di un occhio di riguardo a grandi strategie di evoluzione metropolitana (per esempio dal punto di vista della mobilità sostenibile attraverso gli standard) e degli strumenti di programmazione del territorio. Con buona pace delle «visioni» di qualche riqualificatore a senso unico, in realtà mandato da chi vede un solo futuro per la città: farci molti soldi. Una visione poco progressista quest’ultima, no?

Spazi pubblici e gentrification. Piccola testimonianza dell'effetto High Line di New York. La riprendiamo un articolo del Chicago Tribune, nella traduzione (e dal sito) di Fabrizio Bottini. La Città Conquistatrice online, 1 aprile 2017

Premessa – La breve storiella che segue non è nulla di particolare: cronaca soggettiva di un processo di sostituzione sociale del tipo piuttosto classicamente «pianificato» da una municipalità con l’idea di migliorare un quartiere, di fatto impoverendone la composizione sociale e la vitalità complessiva. La cosa particolare è che si tratta di una lettera a un giornale locale, infilata nella rubrica, un vero e proprio trafiletto tra i tanti, che però è unico nella sua triste banalità (n.d.t.)

Nel 1991, mia nonna e le mie due zie — lavoratrici da poco immigrate dal Messico alla ricerca del Sogno Americano — decisero di comprarsi casa in un edificio ad appartamenti un po’ mal messo. Nulla di particolare a prima vista, tra i viali di Central Park e Armitage, ma a distanza di parecchi anni, di alti e bassi, l’appartamento significa molto ma molto di più. Nel raggio di tre isolati c’erano un negozio di liquori, un mercato, un tratto ferroviario abbandonato, e dopo vent’anni e più il negozio ha cambiato nome, nelle scuole si tengono seminari di aggiornamento multitematici, e la ferrovia abbandonata è stata oggetto di un progetto di riuso sul modello della High Line di New York. Un percorso dove passano a centinaia, a piedi, in bicicletta, sereni e tranquilli là dove io da ragazzina avevo assoluta proibizione di andare, nonostante fosse lì sotto casa. Dove le bande si ritrovavano a fumare, bere, e spararsi e ammazzarsi.

Con la realizzazione del nuovo percorso ciclabile e pedonale, il mio appartamento vale quattro volte quanto è stato pagato. Parrebbe una gran fortuna, salvo che ovviamente sono anche aumentate le tasse immobiliari. Lentamente le persone con cui sono cresciuta hanno cominciato ad andarsene, il flusso continua, e il mio quartiere si popola di estranei continua. Sparite tutte le case economiche nella zona di Logan Square, e lungo la strada 606 si tirano su nuovi condomini buttando giù man mano tutte le vecchie case: certo quella via non è in sé la causa o l’inizio della gentrification, ma è un punto in cui si catalizza. Passeggi per strada e vedi tutti questi uomini con la barba e i capelli lunghi. O quelle donne tutte vestite in modo culturalmente corretto. Entrano ed escono dalle caffetterie o dai ristoranti vegani, à dove c’erano negozi di liquori o botteghe messicane. Sugli angoli dove un tempo bighellonavano le bande di strada, adesso stanno cagnolini col cappotto e le babbucce.

Per tutta l’estate, l’autunno e l’inverno 2016 ho bussato alle porte a raccogliere firme per chiedere una delibera che impedisca l’espulsione delle famiglie, che mantenga abitazioni economiche. In genere tendo ad essere piuttosto fiduciosa, mi aspetto che la gente capisca, che condivida. Ma trovo anche parecchi ignoranti, fra gente piena di titoli di studio, che paga anche tremila dollari d’affitto al mese, ma non riesce proprio a cogliere le conseguenze della gentrification. Senti spessissimo frasi come «Beh, il quartiere adesso è più sicuro», oppure «Certamente le cose stanno molto migliorando», quando giri, ma sono cose che non significano nulla per una famiglia di quattro persone cacciata dalla casa dove ha abitato per vent’anni. Da quello che è già accaduto nell’area di Logan Square non si può certo tornare indietro, ma credo che contribuire a mantenere qui quelle famiglie, a mantenere diversificato il quartiere, debba essere una priorità anche per i nuovi che arrivano. Tutte le trasformazioni sulla strada 606 sono scelte del sindaco Rahm Emanuel, pensate senza badar molto a certe conseguenze, e quindi dobbiamo pensarci noi cittadini a opporci, a far qualcosa per chi ha costruito tutta questa vitalità, che deve essere mantenuta.

Dal Chicago Tribune, 1 aprile 2017 – Titolo originale: «An old train track» – traduzione di Fabrizio Bottini» – traduzione di Fabrizio Bottini

«Il vivere urbano è cambiato. Ma resta luogo di pratiche autoritarie e inique dovute al controllo dei dati. Un saggio adesso ci dice: è ora di riprenderceli». lettera43, 19 marzo 2017 (c.m.c.)

Come si abita oggi una città? Per orientarci ricorriamo a Google Maps; per avere suggerimenti su dove mangiare consultiamo TripAdvisor o Yelp; per cercare un posto dove dormire, AirBnb o Hostels.com; e così via. Basta riflettere un istante per riconoscere l’elusività di una linea che separi lo spazio materiale e quello digitale. In apparenza queste applicazioni sembrano del tutto innocue, meri servizi; ma nascondono delle dinamiche di controllo con pesanti ricadute sulla città “in carne e ossa”. Per valutare correttamente questo lato oscuro dell’informazione urbana, però, occorre un atteggiamento diverso nei suoi confronti.

La lezione di Lefebvre.

Nel 1968 Henri Lefebvre pubblicò un testo seminale al riguardo, Il diritto alla città (oggi edito in Italia da Ombre Corte). Secondo il sociologo francese si trattava di rivendicare una maniera di abitare ispirata all’autogestione e alle comunità cresciute dal basso. Invece di demandare sempre il controllo degli spazi alle autorità – che molto spesso si limitano a cercare accordi con le élite economiche – occorre riappropriarsene in prima persona, di quartiere in quartiere. Ora, è fuori discussione che ci sia bisogno di politiche inclusive e un approccio più egualitario. Il crescere delle diseguaglianze, la segregazione delle zone periferiche e la progressiva riduzione di spazi pubblici a favore di enti privati conferma tutta l’attualità di queste tesi. Ma come abbiamo visto e come verifichiamo ogni giorno estraendo uno smartphone per strada, il nostro modo di vivere la città è cambiato a un livello più profondo. Il che suggerisce un aggiornamento dell’intuizione di Lefebvre.

I nuovi diritti digitali legati al vivere urbano.

È quanto propone un gruppo di ricercatori americani nel recentissimo pamphlet Our digital rights to the city (Meatspace Press), curato da Joe Shaw e Mark Graham. Il breve volume, scaricabile gratuitamente online, raccoglie una serie di contributi ispirati al rapporto fra potere delle tecnologie e forme dell’abitare metropolitano. Se Lefebvre difendeva il «diritto alla libertà, all’individualizzazione nella socializzazione, all’habitat e all’abitare, il diritto all’opera (all’attività partecipante) e il diritto alla fruizione», questi studiosi ne aggiungono un altro ancora. Il diritto digitale, appunto: la possibilità di gestire i propri dati relativi al vivere urbano, invece di darli in pasto a Google & Co.; e ribadire la politicità di queste informazioni.

Il pregio principale del saggio è quello di affrontare questi temi con grande chiarezza e incisività. Un buon esempio è il paper di Valentina Carraro e Bart Wissink (The Jerusalems on the map). Secondo gli accordi di Oslo (1993), Gerusalemme è ancora sotto gestione internazionale e non appartiene né a Israele né a un futuro Stato palestinese. Ma se cercate “Gerusalemme” su Google, l’infobox a destra dice che è la «capitale di Israele»: consolidando la descrizione proposta da Wikipedia e ratificando così un potere non riconosciuto in teoria, ma esercitato nella pratica. Per Carraro e Wissink è una dimostrazione della politicità delle mappe, che vanno molto al di là di una rappresentazione neutra di come stanno le cose. A questo si può opporre un tipo alternativo di cartografia, certo. Il progetto collaborativo e open source OpenStreetMap fornisce un campo aperto di discussione, dove gli utenti possono ridefinire costantemente la mappa stessa. E tuttavia, anche OpenStreetMap risente delle diseguaglianze: il fatto che si possa discutere non significa che tutte le opinioni siano equamente considerate. Tant’è che la comunità di questo progetto è largamente a favore di Israele.

La logica del controllo colonizza la vita quotidiana.

Passando dalla geopolitica all’abitare, il saggio di Jathan Sadowski propone un interessante esperimento mentale. Il palazzo dove vive il sociologo ha installato un tornello elettronico a ogni ingresso: purtroppo la chiave non funziona bene e lui è rimasto più volte chiuso fuori casa. Questa pratica, secondo Sadowski, illustra la «logica del controllo che colonizza la vita quotidiana, riempiendola di posti di blocco che regolano l’accesso e rafforzano l’esclusione»: il problema è che ce ne accorgiamo solo quando questi sistemi si ritorcono contro di noi; quando le password smettono di funzionare.

Ci aspetta un futuro dispotico?

Pensate all’idea stessa di smart city: un luogo dove le infrastrutture sono connesse alla rete, e degli algoritmi su vasta scala lo rendono più efficiente in termini di mobilità e servizi. Tutto molto bello, ma sotto la narrazione pacificata e cool si nasconde altro: la raccolta di dati relativi ai cittadini esprime anche un forte bisogno di monitoraggio. A tal proposito, Sadowski propone due scenari per il futuro. Forse un domani sarà impossibile accedere in un negozio se non si hanno soldi sufficienti sulla carta di credito; o non potremo entrare in una certa zona se il nostro “punteggio di sicurezza” non è abbastanza alto e veniamo classificati come minacce. I fan di Black Mirror, la serie tivù di Charlie Brooker, avranno riconosciuto una variazione sul tema: e proprio come in Black Mirror, non si tratta di remota fantascienza. Ma di un’ipotesi molto realistica. Che fare, dunque?

Non si tratta di allinearsi agli sforzi di Snowden o WikiLeaks, bensì dichiarare che l’informazione verrà organizzata autonomamente dagli abitanti .
Una proposta è offerta da Mark Purcell nel suo contributo. Invece di limitarsi a una percezione liberale del diritto digitale alla città, è necessario considerarlo come parte di un progetto politico più vasto e di matrice antagonista. Non si tratta di allinearsi agli sforzi di Snowden o WikiLeaks, bensì dichiarare che l’informazione verrà organizzata autonomamente dagli abitanti.

Un esempio concreto sono gli attivisti che riscrivono dati e mappe nelle città indiane per garantire a tutti – anche agli strati della popolazione ignorati dallo Stato – un autentico accesso ai servizi. Oppure la comunità Lacan di Los Angeles, che documenta gli abusi polizieschi nei quartieri in modo da fornire prove per chi desidera fare ricorso. Come riassume Taylor Shelton, si tratta di gestire i dati in modo da «aiutare a produrre letture dei problemi urbani che non stigmatizzino ulteriormente i quartieri già emarginati, ma che invece ne situino i problemi all’interno di un più ampio contesto storico, geografico e politico-economico».

Ogni nostro dato può generare profitto.

Come sempre, la frattura è tra chi accumula potere e numeri e chi invece ne è deprivato, spesso in maniera silenziosa o surrettizia. Del resto, anche gli strumenti più banali ricordati in apertura – Maps, TripAdvisor, Yelp – non sono certo opera di benefattori per agevolare la vita quotidiana. Come sottolinea Kurt Iveson in Digital labourers of the city, unite!, queste applicazioni gratuite richiedono da parte nostra un lavoro altrettanto gratuito che viene sfruttato su base quotidiana. I nostri movimenti, i nostri like, le nostre ricerche: ogni singolo dato è assorbito per generare profitto.

In conclusione, il diritto digitale alla città si compone di tante diverse richieste: una migliore conoscenza delle rappresentazioni urbane; la libertà nel gestirle senza deleghe; un’eguaglianza che sia materiale e digitale allo stesso tempo; la possibilità di agire sul territorio al di là della governance istituzionale. Per chi vede gli spazi comuni della metropoli come una semplice serie di servizi – la rete di trasporti, le strade, le piazze – non è nulla di troppo importante. Ma per chi ritiene che l’abitare sia qualcosa d’altro e di più prezioso si tratta di un tema particolarmente urgente.
(Questo articolo è tratto dal nuovo numero di pagina99, '"quante tasse pagano in Italia Google & co", in edicola, in digitale e in abbonamento dall'18 al 24 marzo 20).

Benedetto Vecchi intervista Saskia Sassen. Nella sua analisi la sociologa sottolinea le nuove rapaci iniziative di sfruttamento messe in atto dal capitalismo della globalizzazione, soprattutto nel dominio della finanza. il manifesto, 18 marzo 2017, con riferimenti


L’esclusione di parti rilevanti della popolazione mondiale dalla vita attiva è la triste realtà del presente e degli anni a venire. È la tesi di Saskia Sassen, sociologa della globalizzazione e delle città globali, distillata nei suoi ultimi due libri – Territorio, autorità, diritti (Bruno Mondadori) e Espulsioni (Il Mulino) -. E se il primo offre una riflessione sul rapporto dinamico tra globale e locale, il secondo analizza le caratteristiche del capitalismo estrattivo, categoria o figura delle tendenze emergenti dell’economia mondiale, dove l’espulsione di popolazioni dai luoghi dove hanno sempre vissuto e il land-grabbing sono elementi di una pratica diffusa di appropriazione privata di ricchezze naturali, conoscenza.

L’espropriazioni di regioni africane, asiatiche e anche europee per darle alle imprese multinazionali dell’agro-alimentare, il saccheggio delle risorse naturali sono elementi ricorrenti nelle cronache del capitalismo estrattivo. Qui è la finanza il protagonista di una espropriazione di ricchezza che non ha antecedenti nella storia. Una analisi, quella di Saskia Sassen, che delinea un futuro dove la tendenza all’espulsione della popolazione ha il contorno di una apocalisse sociale.

La lettura dei saggi usciti recentemente vedono invece Saskia Sassen impegnata nel contrastare una lettura riduzionista della globalizzazione – una parentesi destinata a chiudersi – per affinare la critica appunto del capitalismo estrattivo che non ama l’isolazionismo e contrasta il nazionalismo economico. Intervistarla è un’avventura che alterna incontri vis-à-vis (a Roma durante un suo passaggio) e numerosi scambi di mail per registrare precisazioni al fine di sgomberare il campo da possibili equivoci.

Uno dei refrain dei media recita che la globalizzazione è arrivata al capolinea con il ritorno al centro della scena dello stato nazione. Come interpreta questa fase dell’economia globale?
«Siamo nel pieno di un sommovimento globale, dovuto alla crisi economica e al rafforzamento del capitalismo che qualifico come estrattivo che sta plasmando una nuova geografia del potere mondiale. In questa nuova geografia del potere si sono formate zone intermedie tra globale e locale che hanno costituito lo spazio dove globale e locale hanno perso l’opacità che li contraddistingueva per diventare momenti distinti ma interdipendenti l’uno con l’altro. Sono «spazi di frontiera» che non hanno nulla a che fare con la geografia, ma sono i luoghi, le dinamiche che portano a prendere decisioni che travolgono l’operato tanto delle istituzioni sovranazionali che di quelle nazionali e locali.

«Nel tempo, sono saltate le vecchie divisione tra Nord e Sud del pianeta, tra Est e Ovest, tra paesi centrali e paesi periferici del capitalismo. Sia ben chiaro non sono scomparse, bensì saltate nel senso che non sono più centrali. Non è quindi rilevante stabilire se ritorna o no lo stato-nazionale, che ha già subito trasformazioni negli assetti costituzionali, negli equilibri tra potere giudiziario, legislativo, esecutivo per essere in linea con le necessità dell’economia mondiale. Ha ceduto cioè parte della propria sovranità su un determinato territorio.

«Nell’esercizio della governance mondiale sono semmai centrali gli "spazi di frontiera" ai quali ho fatto riferimento. Piegano ai loro voleri la sovranità nazionale e le regole definite internazionalmente per quanto riguarda i flussi finanziari, i diritti umani, la tutela ambientale. Contribuiscono inoltre a plasmare una nuova e tuttavia mutevole divisione internazionale del lavoro».

Donald Trump ha vinto le elezioni facendo leva sul patriottismo. Indica la Cina e l’Europa come ostacoli dell’economia statunitense. Ha promesso di far tornare in patria il lavoro decentrato al di fori degli Stati Uniti dalle imprese americane. Possiamo considerare Trump un presidente che vuole la deglobalizzazione? O più realisticamente come il presidente del declino degli Stati Uniti come unica superpotenza mondiale?
«Per il momento, non posso dire se Donald Trump sarà il presidente del declino americano. È presto per dirlo. So però che ha preso decisioni pericolose dal punto di vita del loro contenuto razzista. Non ho mai immaginato che questo potesse accadere, ma invece è accaduto. Negli Usa viviamo una situazione di smarrimento, incredulità che forse anche voi in Italia avete avuto con Berlusconi: soltanto che quel che ha fatto il leader di Forza Italia è un gioco da ragazzi rispetto a quanto promette di fare Trump.

«Le sue posizioni non sono amate dalle élite liberali. È cosa nota, ma non possiamo però ignorare il fatto nel recente passato i liberal non si sono opposti efficacemente alla crescita della povertà e che non hanno fatto molto per affermare politiche a sostegno della classe operaia e del ceto medio: tutti elementi che Trump dice invece di voler fare».

Nel libro Espulsioni, il capitalismo estrattivo si caratterizza per depredare le ricchezze di una nazione e poi abbandonare il paese. Questo potrebbe andare bene per quanto riguarda alcune risorse naturali – il petrolio e altre risorse naturali. Il discorso diventa più complicato per quanto riguarda il land-grapping, la biodiversità, la proprietà intellettuale. Ma se ci si sofferma sui Big data, la tesi del capitalismo estrattivo come brutale pratica predatoria diventa problematica. Facebook, Google, Amazon non abbandonano mai il campo perché i dati sono prodotti dall’attività on line di uomini e donne….
«Il land-grapping, la biodiversità, la proprietà intellettuale, le piattaforme digitali possono certo essere considerati esempi di capitalismo estrattivo, ma è la finanza il modello emergente di capitalismo estrattivo sia rappresentato dalla finanza.

«Le attività bancarie offrono servizi, ma sopratutto prestano danaro e per questo si fanno pagare degli interessi. Fin qui tutto normale. Diverso è invece il caso dei nuovi servizi finanziari finalizzati ad estrarre valore da ogni attività economica, sia che riguarda la produzione, la distribuzione che la vendita di merci e servizi.

«Il cuore dello stile economico occidentale ha visto uno spostamento da un paradigma dove erano centrali la produzione e il consumo di massa a una realtà dove la capacità di spesa dei singoli o delle famiglie è oggetto di attenzione da parte delle imprese finanziarie, che puntano a sfruttare proprio questa capacità di spesa per produrre redditi e profitti. In anni recenti si è molto scritto e letto della privatizzazione dei servizi sociali, del credito al consumo. Bene, la finanza estrae valore dal consumo, dall’accesso monetario all’acquisto di servizi sociali, ma anche dal finanziamento delle imprese, dalla borsa, dal debito pubblico degli stati. Le imprese finanziarie hanno sviluppato sofisticati strumenti per ognuno di questi aspetti e quando la vena del valore si sta esaurendo, lasciano il campo, indifferenti alla povertà, all’implosione del legame sociale, financo al fallimento degli stati nazionali. E’ un cambiamento radicale rispetto il passato».

Questa rapacità della finanza ha caratteristiche nichiliste, non crede?
«Mi interessa sottolineare il cambiamento di prospettiva. Il consumo è stato sempre parte integrante del capitalismo, ma siamo di fronte a una radicalizzazione del suo ruolo. Lo stesso vale per la finanziarizzazione del welfare state, che in passato era prerogativa dello Stato nazionale. Ora sono i singoli e le famiglie che devono comprarsi, indebitandosi con le imprese finanziarie. Gli stati nazionali hanno visto tuttavia crescere il loro deficit e per evitare il collasso e il fallimento hanno fatto ricorso alle imprese finanzarie. Questo significa che gran parte dell’entrate fiscali vanno a pagare gli interessi sul debito. Siamo cioè di fronte a una forma estrema di capitalismo estrattivo.

«Gli strumenti sviluppati, il software usato, i dispositivi messi in campo riguardano infatti tutte le forme di capitale. Questa è la dinamica che sta cambiando la globalizzazione degli ultimi venti anni. Non credo quindi che stiamo entrando in una fase di deglobalizzazione, ma di un suo mutamento. Il problema è come immaginare delle risposte a tutto ciò. E su questo il ritardo è immenso. Ma non dico che è impossibile colmarlo».

Dalle Città globali alle Espulsioni .

Docente alla Columbia University, Saskia Sassen è la teorica delle Città globali, come recita il volume che l’ha resa nota a livello mondiale. Ha pubblicato anche Fuori controllo (Il Saggiatore), Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza Europa (Feltrinelli), Le città nell’economia globale (Il Mulino), Globalizzati e scontenti (Il Saggiatore), Una sociologia della globalizzazione (Einaudi), Territorio, autorità, diritti» (Bruno Mondadori), Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale (Il Mulino)

Riferimenti

Numerosi articoli di Saskia Sassen sono raccolti, in eddyburg, li trovate digitando il suo nome e cognome nella finestra sensibile in cima a ogni pagina, a sinistra della piccola lente

«Proteste e reazioni negative alla proposta di sottoscrivere un contratto per 99 anni dell'atollo di Faafu per investimenti turistici. Una "città" per le élite mondiali. India fortemente contraria». la Repubblica online, 10 marzo 2017. con postilla.

L'annuncio di una possibile vendita all'Arabia Saudita di un grande atollo delle Maldive ha già provocato molte reazione negative, non solo nell'arcipelago ma anche sul fronte delle relazioni politiche internazionali. L'idea del re saudita, Salman, è quella di sottoscrivere un contratto di affitto per 99 anni dell'atollo di Faafu, composto da 18 isole, per investimenti turistici.

Nei progetti i sauditi, che hanno già ottenuto un pre-accordo con il presidente maldiviano Yameen, vorrebbero costruire sull'atollo "una città di prima classe" per le élite mondiali con servizi all'avanguardia, università, e ospedali. Le indiscrezioni su una possibile vendita di Faafu, dove abitano circa 6mila persone, sono bastate per scatenare le proteste dell'opposizione. "In altri tempi - ha affermato Ahmed Naseem, esponente del partito democratico maldiviano - vendere terra delle Maldive agli stranieri sarebbe stato considerato alto tradimento e punito con la pena di morte".

Ma quello che più preoccupa sull'arcipelago è il pericolo che Riad voglia usare i suoi investimenti per diffondere ancora di più alle Maldive la sua dottrina religiosa wahhabita, interpretazione molto conservatrice dell'Islam. Alle Maldive i sauditi già finanziano borse di studio e vorrebbero esportare insegnanti per le scuole islamiche locali. Il presidente maldiviano, che due anni fa ha fatto approvare un emendamento alla Costituzione per permettere agli stranieri di possedere terre sugli atolli, risponde che si tratta di esagerazioni. Per il presidente Yameen, l'Arabia Saudita sta solo cercando di diversificare i suoi investimenti per ridurre la dipendenza dal petrolio.

Ma nel nome di questa nuova alleanza con Riad, il governo delle Maldive è visto con sempre maggiore diffidenza dall'India e ha praticamente rotto le relazioni diplomatiche con l'Iran. Quest'ultimo è stato un favore a Riad che subito dopo la rottura dell'arcipelago con Teheran, nell'estate del 2016, ha concesso alle Maldive un prestito da 150 milioni di dollari per realizzare nuove infrastrutture, tra le quali c'è anche l'ammodernamento del principale aeroporto della capitale Malè. Alle Maldive l'Islam è religione di Stato ma lo scivolamento verso la versione più fondamentalista promossa dai sauditi preoccupa non soltanto i suoi vicini.

postilla

Lì, alle Maldive, protestano. Se invece i sauditi cambiassero idea e volessero impadronirsi delle isole veneziane dell'Idroscalo, Sant'Andrea e Vignole, che si stanno vendendo al miglior offerente, magari nel regno di Brugnaro troverebbero qualche mugugno e
molti applausi.

«Spazi urbani. Un’intervista a Neil Brenner, autore del volume "Stato, spazio, urbanizzazione". Il nazionalismo economico nutrito da xenofobia e populismo come risposta allo tsunami della crisi. Oggi l'intervento del teorico statunitense all'Università di Roma 3». il manifesto, 8 marzo 2017 (p.d.)

Metropoli ridotte a una triste e desolata successione di case abbandonate e fabbriche ormai color ruggine. Piccoli paesi di campagna diventati nel giro di qualche lustro metropoli illuminate a giorno anche di notte, dove fabbriche scintillanti si alternano a quartieri abitati da «creativi» e punteggiati da centri di design e atelier di moda. E poi città dove il centro e alcune enclave protette da guardie armate sono circondate da immensi slums, regno dell’economia informale.
Sono queste le rappresentazioni dominanti della città. Oggetto di discussioni e di elaborazioni da parte di una schiera di urbanisti, sociologi, geografi e filosofi che provano a definire le traiettorie del possibile futuro delle metropoli.
Tra di loro Neil Brenner occupa un posto a sé. Docente di «Teoria urbana a Harvard» ha condotto inchieste e ricerche sul campo, ma è anche autore di importanti studi sulle metropoli emerse durante il lungo inverno del neoliberismo. Finalmente la casa editrice Guerini&Associati ha tradotto le parti più teoriche del suo libro Stato, spazio urbanizzazione (pp. 190, euro 18.50) che ha come introduzione un saggio di Teresa Pullano che contestualizza l’elaborazione di Neil Brenner all’interno della teoria critica statunitense.
Un saggio, quello dell’autore, dalle molteplici chiavi di lettura. C’è l’uso disincantato e innovatore della filosofia della Scuola di Francoforte sulla totalità, ma anche le tesi del filosofo francese Henry Lefebvre sul «diritto alla città», miniera di argomenti da usare nella critica al neoliberismo. Interessante è, a questo proposito, la parte del volume dove Brenner vede le città come nodi preposti a rimuovere ogni barriera e «punti di resistenza» al flusso di dati, capitali, merci, uomini e donne che caratterizza il capitalismo. Le città dunque come nodi di una rete che ha come «server» lo stato nazione e gli organismi politici sovranazionali – dal Wto all’Unione europea -: istituzioni cioè funzionali al regime di accumulazione. La parola d’ordine del «diritto alla città» – alla mobilità, alla casa, alla formazione all’assistenza sanitaria, alla pensione – va dunque intesa come la traduzione giuridica di forme di autovalorizzazione del lavoro vivo che rende sfumate – se non nulle – le divisioni, care al pensiero liberale e populista «di sinistra», tra diritti civili e diritti sociali. L’«urbano» diventa lo scenario per immaginare, pensare le pratiche sociali e politiche propedeutica al superamento del regime di accumulazione capitalista.

Il libro sarà presentato oggi al Dipartimento di architettura – Ex Mattatoio – Aula Libera dell’Università Roma 3 (ore 16, Largo Giovanni Battista Marzi 10). L’intervista che segue si è costruita con diversi momenti e incontri. Dallo scambio estemporaneo su Internet alle pazienti spiegazioni e chiarimenti dell’autore.

Con la svolta neoliberale, le metropoli diventano le piattaforme produttiva che non distingue più tra vita e lavoro. È nelle città che sono governati i flussi di capitale, conoscenza, uomini e donne. La finanza diviene inoltre centrale nella ristrutturazione urbana. Non come rendita, ma come momento di governo del regime di accumulazione. Alcuni studiosi hanno scritto espressamente che, con il neoliberismo, l’uso capitalistico del territorio raggiunge il suo acme. Cosa pensa di questa tendenza?

È ormai diffusa la consapevolezza che il progetto neoliberale di società abbia radicalizzato le disuguaglianze sociali, il crollo e degrado delle infrastrutture pubbliche, la frammentazione sociale, la crisi della sanità pubblica. Questo non significa che il neoliberismo sia una unica forma politica omogenea. Ne esistono diverse forme politiche. Questo fino al 2007. Con la crisi, abbiamo visto però una intensificazione di processi autoritari nel governo delle società. La Brexit e l’elezione di Donald Trump sono stati gli ultimi, in ordine di tempo, momenti topici di questa tendenza autoritaria del neoliberismo che promuove aggressive politiche di nazionalismo economico, un comunitarismo nutrito da un violento lessico xenofobo, razzista e misogino. Un mutamento che non ha certo messo in discussione, anzi ha intensificato i dispositivi istituzionali funzionali all’accumulazione capitalistica, favorendo le norme per consolidare la disciplina di mercato sulla società. La questione più urgente è «come» sviluppare un processo democratico di riappropriazione del controllo sullo sviluppo delle città, intese come un bene comune, cioè una risorsa prodotta e condivisa dalla collettività.
La parola d’ordine del «diritto alla città» dei movimenti sociali ha svolto e svolge un ruolo importante nelle pratiche di resistenza al neoliberismo. Come giudica questa rinascita e ripresa delle tesi del filosofo francese Henry Lefebvre?
Le sue tesi costituiscono, assieme al concetto di autogestione, un punto di riferimento essenziale dei progetti di riappropriazione degli spazi urbani intesi come commons. Lefebvre, va ricordato, fu fortemente critico verso la cultura politica del partito comunista francese e, allo stesso tempo, fu scettico verso le esperienze di autogestione sviluppate negli anni Settanta in Jugoslavia. Individuava una contraddizione tra il diritto alla città e l’autogestione: il diritto alla città ha un orizzonte non localistico, circoscritto come accade invece nell’autogestione. Ma al pari dell’autogestione vede un protagonismo dei movimenti sociali situati spazialmente in un determinano luogo. Entrambi cioè sono incardinati in processi politici «dal basso». Possiamo dire che tanto il diritto alla città che l’autogestione hanno bisogno di frameworks, di cornici istituzionali che regolano la relazione tra locale e globale, tra autonomia delle sperimentazioni e gestioni delle risorse economiche. L’autogestione, infatti, non può esistere senza una cornice istituzionale che ne garantisca e rafforzi le condizioni di sostenibilità urbana e territoriale. Non c’è quindi contraddizione insanabile tra diritto alla città e autogestione. Entrambe fanno leva sulle politiche sviluppate dal «basso», entrambe hanno bisogno dello stato nazionale per essere tutelate. Inoltre, il diritto alla città e l’autogestione sono pratiche sociali e politiche che attivano trasformazioni della forma stato. Con realismo, sono due movimenti che potrebbero rendere meno misteriosa e indeterminata la suggestione della «estinzione dello Stato». Sono cioè due momenti interconnessi di quell’Aneigung teorizzato dal giovane Karl Marx, nel quale l’essere sociale trasforma il mondo attraverso una prassi e, nel fare questo, trasforma se stesso, le forme di vita e i dispositivi istituzionali esistenti.

Con la crisi del 2007, assistiamo a uno tsunami a livello globale. La città, nuovamente, è il luogo dove si manifesta. E se ci sono studiosi che parlano dell’esistenza di metropoli globali come piattaforme dell’economia mondiale, altri focalizzano l’attenzione sul «pianeta degli slums». Più prosaicamente assistiamo alla crescita di nuove metropoli e al declino di altre…. ?

Nel mio lavoro, colloco la discussione sul futuro della città nel contesto di un processo di urbanizzazione planetaria che vede venir meno la divisione tra città e zone rurali. Le ricerche e le inchieste che ho condotto suggeriscono l’idea che i territori non cittadini siano fondamentali nel garantire una molteplicità di risorse, materiali e immateriali, alla vita urbana. Questo non riguarda solo le tradizionali spazi dell’hinterland, che sono serviti in epoca industriale alla produzione di merci come carbone, alimenti, ma anche luoghi lontani, remoti rispetto i «centri» dell’economia mondiale. Mi riferisco agli spazi dove si concentra la logistica, lo smaltimento e il riciclaggio dei rifiuti, le enclave del turismo. Ho chiamato questi luoghi ecosystem service, siti preposti alla tenuta e riproduzione dell’ecosistema urbano. Questo non significa negare il fatto che stiamo assistendo a una epocale migrazione di persone verso la città che tendono a diventare megalopoli. La questione teorica rilevante riguarda semmai i processi di urbanizzazione che investono le zone rurali. È quanto avviene in America Latina, Asia e Africa. Prendiamo ad esempio lo sviluppo del settore agro-alimentare e il land-grabbing, cioè la privatizzazione violenta di ampie zone del territorio da parte delle imprese. È il territorio che viene investito da processi di urbanizzazione, attraverso la crescita di siti per lo stoccaggio e la distruzione delle merci. La logistica, così come lo sviluppo di linee di trasporto – autostrade, aeroporti e ferrovie – sono essenziali. E questo mondo interamente urbanizzato che ci viene consegnato. È qui che si gioca il futuro delle città. Sta a noi capire quali strategie usare per non essere sconfitti.
La presentazione a Roma 3
Il volume di Neil Brenner «Stato, spazio, urbanizzazione» (Guerini&Associati) sarà presentato oggi a Roma nel Dipartimento di Architettura dell’Università Roma 3 (ore 16, Aula Libera, Largo Giovanni Battista Marzi 10). All’incontro sarà presente l’autore. Sempre nello stesso luogo, dalla mattina, saranno proposti i risultati del progetto di ricerca sugli spazi postmetropolitani.

«Questo processo di distruzione dello spazio pubblico sono fenomeni strettamente connessi alla riduzione generalizzata del lavoro a "servitù automatizzata", dell’istruzione ad "addestramento tecnologico", della democrazia a "partecipazione controllata"». La Città invisibile, 4 marzo 2017 (c.m.c.)

«Ogni cinque giorni la popolazione urbana nelle città del mondo aumenta di un milione», ci avvertono i tecno-ecolocrati, con la gravità di chi sta pronunciando una sentenza di condanna e con la sicurezza di chi sta riconoscendo un’inesorabile legge della storia.

Sullo sfondo di questa neutra minaccia, come uno scenario naturale, c’è la compiuta attualizzazione di ciò che J.C. Michéa ha chiamato la distruzione delle città in tempo di pace: l’ipertrofia globale del sistema suburbano, la trasformazione dello spazio cittadino in un’alternanza delirante di tristi periferie, quartieri residenziali «senza misura», capannoni e centri commerciali come templi per la terapia del consumo al dettaglio, snodi e svincoli stradali per movimentare l’irrinunciabile traffico automobilistico, con l’opzionale coreografia di centri storici trasformati in vetrine hi-tech e “parchi giochi” per turisti, videosorvegliati come prigioni a cielo aperto.

In tutto ciò si mettono in opera inedite contrazioni e convergenze, così che non è più possibile distinguere tra i tanti termini in circolazione: tecnopoli, megalopoli, conurbazione, etc. La “città globale” cresce con il “pianeta urbano”, la metà dell’umanità che consuma oltre l’ottanta per cento delle risorse energetiche e che abita agglomerati tenuti insieme per mezzo di dispositivi di mobilità e interconnessione, delocalizzazione e rilocalizzazione, decomposizione dei quartieri e riorganizzazione delle relazioni spaziali dietro le spinte dello “sviluppo” economico e del mercato della “sicurezza”.

Questo processo di distruzione dello spazio pubblico e la conseguente giustapposizione cumulativa di ambienti privatizzati e flussi sorvegliati, sono fenomeni strettamente connessi alla riduzione generalizzata del lavoro a «servitù automatizzata», dell’istruzione ad «addestramento tecnologico», della democrazia a «partecipazione controllata», dei servizi pubblici a «servizi d’interesse generale», insomma a tutte le componenti attive della guerra condotta dal modo di produzione dell’economia politica contro l’uomo, le sue attività pratiche, la sua ragione socializzata, il suo “mondo comune” come spazio di permanenza e di azione, che nasce proprio nella culla della città e che vi trova la sua naturale protezione.

Ma se questa guerra ha trovato fino a tempi recenti una sua espressione primaria nella ricorrente modificazione strategica dell’ambiente architettonico urbano, negli smembramenti e nelle compartimentazioni che organizzavano e delimitavano le aree di pertinenza e di appartenenza delle diverse classi sociali, oggi, sotto il vessillo della scarsità delle risorse e dell’emergenza ambientale, la Banca mondiale e i connessi “organismi internazionali” sperimentano nuovi modi d’intervento centrati in modo privilegiato sulle metropoli cosiddette “emergenti”, per farne dei modelli operativi a vocazione universale.

Com’è attestato con chiarezza dalla “crisi” in corso, l’effettivo movimento socio-tecno-economico – di persone, cose, dati, denaro, petrolio, acqua, elettroni, etc. – sul quale si basa il meccanismo d’incessante modificazione-perpetuazione del modo di produzione, si avvale oggi di una massa di popolazione largamente inferiore a quella che abita l’intero pianeta.

Ci sono dunque città “utili”, e città che non lo sono. Le prime sono quelle maggiormente suscettibili di “attirare gli investitori”, innanzitutto perché offrono infrastrutture come strade scorrevoli, aeroporti, servizi di “interesse generale” e di “alta qualità” (alias con elevato grado di automazione e interconnessione digitale); hanno almeno un’università in grado di mettere a disposizione esperti nei settori chiave delle tecnologie integrate al modo di produzione, in particolare nel campo dei “big data”, dei “sistemi distribuiti”, del “data intelligence”, dell’erogazione di “servizi smart”, e via innovando; inoltre garantiscono produttività, mobilità e adattabilità al cambiamento della mano d’opera; sono in grado di migliorare la “raccolta di risorse” interrompendo i “cicli di dipendenza”, ad esempio smettendo di sovvenzionare l’abitazione e i servizi urbani per abbandonarli eventualmente al mercato privato; assicurano garanzie di “pace sociale” dando prova di una governance efficace nella gestione della messa in scena della partecipazione; infine, ma è un aspetto primario, sono provviste di un grado sufficiente di “eco-sostenibilità”, soprattutto sul piano energetico.

I conglomerati urbani o suburbani in grado di garantire in misura sufficiente tali caratteristiche sono detti «città intelligenti» o, nell’imperante gergo anglico, smart cities (dove l’aggettivo smart risuona anche di altri significati tra cui “alla moda”, “abile”, “malizioso”). Le dieci grandi città attualmente classificate le più “intelligenti” del pianeta sono Copenaghen, Tel Aviv, Singapore, New York, Barcellona, Oslo, Londra, San Francisco, Berlino, Vancouver. Ma molte altre ambiscono a questo marchio. E così Seul prepara un piano di “crescita verde”. Abu Dhabi ha avviato da alcuni anni un progetto di città satellite sostenibile ad emissioni zero, Masdar City, in grado di accogliere cinquantamila residenti e altrettanti pendolari le cui condizioni di vita, logistiche e ambientali, siano monitorate e regolate nei minimi dettagli. Al momento appare però un deserto in mezzo al deserto, animato solo dall’onnipresente ronzio di un’enorme torre del vento per il condizionamento dell’aria, un nonluogo già costato quasi venti miliardi di dollari ma frequentato solo dagli addetti alla sicurezza e alle pulizie.

Già da qualche anno, la proverbiale filantropia internazionale dell’Ibm (nota ad esempio per la fornitura di macchinari e assistenza tecnica necessari ad “automatizzare” la gestione dei campi di sterminio nazisti) ha avviato la Smarter Cities Challenge, una selezione tra varie città in tutto il mondo, sulla base della solerzia dei loro amministratori nel volersi consegnare alla tecnocrazia di “ultima generazione”, per irrorarle di esperti, innovazione tecnologica e sovvenzioni al fine di renderle, appunto, smarter.

Tra queste, Birmingham, che sta cercando di riconvertire il proprio centro storico in un paradiso del commercio digitale a banda larga ultraveloce; e Siracusa, che dovrebbe cercare di «conciliare tecnicamente le diverse anime del territorio»: industria petrolchimica e turismo di qualità. E, curiosamente, anche Accra, la città del Ghana nota per un suo suburbio che “accoglie” ogni anno milioni di tonnellate di rifiuti tecnologici dall’occidente, che poi vengono bruciati dagli abitanti per ricavarne metalli rivendibili. Si dà il caso che recentemente vi sia stato scoperto anche un consistente giacimento di petrolio.

Così, solo le “città intelligenti” – adattabili ai sempre nuovi scenari globali perché “messe in forma” con i principi dello “sviluppo sostenibile” – potranno restare “competitive” ed eventualmente sopravvivere alle diverse catastrofi che la crescita incessante della popolazione mondiale urbanizzata insieme alla crescente scarsità o deperibilità delle risorse (acqua, energia, etc.) ci promettono. E parrebbe precisamente questo il loro scopo. In tutto ciò s’intravede poi anche un elemento di circolarità, un mulinello che si avvita su se stesso, e che esprime eloquentemente il tipo di “dinamica” che sostiene oggi il sistema socio-tecnoeconomico.

È evidente, infatti, che la possibilità di accedere allo status “smart” sarà tanto maggiore quanto più le condizioni di partenza sono “vergini”, cioè quanto più radicalmente la tradizionale dimensione urbana – che in questo contesto non può rappresentare altro se non un inutile ostacolo alla “modernizzazione” – sarà stata smembrata e annientata, e la maniera più efficace per raggiungere in tempi brevi condizioni di questo tipo, a meno di non progettare una “città” da zero, è evidentemente quella di passare attraverso una “catastrofe”, ad esempio un disastro naturale come un forte terremoto o una devastate inondazione, oppure un disastro di natura tecnologica, ad esempio nucleare, o ancora un bombardamento o una guerra civile, con le connesse condizioni di paralisi e di trauma psichico collettivo che in questi casi investono la popolazione sopravvissuta per lungo tempo, mettendola nelle condizioni “ottimali” di poter accettare l’inaccettabile.

Gli esempi si moltiplicano. Gli abitanti di New Orleans, sparpagliati e deportati anche in Stati lontani, dopo che alcuni anni fa l’uragano Katrina aveva colpito la loro città, hanno scoperto che le loro case, le loro strutture pubbliche, gli ospedali e le scuole, non sarebbero mai state riaperte o ricostruite. A loro posto, si sta ri-pianificando una nuova città intelligente, un paesaggio “verde” e “neutro”, in cui l’ingegneria sociale, coadiuvata dagli esperti dell’Ibm, si cimenta nella gestione controllata di tutti i “parametri vitali”: la circolazione, il consumo energetico, l’inquinamento, la “comunicazione”, la “salute dei cittadini”, etc. Un destino simile è ampiamente prevedibile per la regione di Fukushima, in Giappone, dove, tra le altre cose, la bioingegneria è già al lavoro per mettere a punto nuove specie di riso in grado di crescere in terreni impregnati di radioattività.

Più vicino a noi, l’occasione per fare “prove di smart city” arriva dalla città-non-più-città dell’Aquila, dopo la completa disgregazione del tessuto sociale e lo spopolamento del territorio che hanno seguito il devastante terremoto del 6 aprile 2009. Il progetto, avviato nel 2012 dall’Ocse e sostenuto dallo Stato italiano, prevede la trasformazione dell’Aquila in un «laboratorio vivente», dove «sistemi energetici intelligenti», «moderne tecnologie edilizie» e «nuovi materiali» possano essere usati per «la progettazione di nuovi luoghi di vita» e per «celebrare e valorizzare la storia della città»; in cui «possono essere creati luoghi di lavoro moderni, creativi e flessibili, che siano adatti a nuovi modelli di business», così che «tutti gli spazi e i luoghi nuovamente progettati e ricostruiti diventerebbero delle vetrine volte a dimostrare l’applicazione inequivocabile di queste innovazioni, e, in quanto tali, diventerebbero parte integrante dell’offerta turistica, parallelamente ai beni ambientali, culturali e storici già esistenti».

Società come Ibm, TechnoLab e Telecom sono operativamente coinvolte nell’esperimento, che tra l’altro ha già trovato due gemellaggi “intelligenti” nelle città di Lorca in Spagna, anch’essa vittima di un violento terremoto nel maggio del 2011, e di Mostar in Bosnia, simbolo della guerra civile nella ex-Jugoslavia. Le amministrazioni delle tre città hanno sottoscritto «un patto di amicizia volto a condividere un programma di ricostruzione basato su modelli ecocompatibili, all’insegna del risparmio energetico, della mobilità sostenibile e della sicurezza». Gli esiti a medio termine dell’esperimento aquilano sono per altro tristemente immaginabili: una vetrina di facciate pseudo-antiche, falsificate e rese “sensibili” dal maquillage nanotecnologico, dietro le quali c’è solo la città invisibile del turismo affaristico e del controllo sociale. I “cittadini”, ovunque risiedano, restano altrove, dissolti in uno spazio senza storia.

Peraltro, laddove ve ne siano le condizioni e le risorse, questi esperimenti a cielo aperto per testare le “nuove tecnologie” nella gestione della sopravvivenza possono essere fatti anche su un terreno integralmente vergine, in cui gli abitanti umani sono solo virtuali. E anche qui la storia si ripete, seppure con mutevoli sembianze: il 5 maggio 1955, una bomba atomica da 31 chilotoni (circa il doppio di quella sganciata dieci anni prima sulla città vivente di Hiroshima) fu fatta esplodere su Survival City, una città fantasma costruita appositamente dall’esercito degli Stati Uniti nel deserto del Nevada e completamente equipaggiata di abitanti-manichini, derrate alimentari, acqua corrente ed elettricità, e con telecamere installate in posizioni strategiche per registrare i dettagli dell’esplosione. Tra gli obiettivi dell’esperimento, la messa a punto dei parametri di costruzione dei rifugi antiatomici.

Oggi, la società privata Pegasus Global Holdings, sta progettando un’altra città fantasma nello stato del New Mexico, chiamata The Center for Innovation, Testing and Evaluation, allo scopo di testare il grado di penetrazione e di efficacia dell’innovazione tecnologica integrata – la convergenza di nanotecnologie, biotecnologie, tecnologie dell’informazione e scienze cognitive – nella gestione di una “città ideale”, inserita in un contesto di emergenza socio-ambientale permanente e totalmente depurata dalle scorie della storia. La presenza di abitanti in carne ed ossa, in questo caso, non è prevista, non perché verrebbero inceneriti da un’esplosione, ma perché non sono, letteralmente, necessari a definire il “contesto urbano”.

In una “città ideale” come questa, infatti, e in misura progressiva anche nelle città dove è in corso un processo di riconversione come quelli sopra descritti, la “gestione sociale” non avverrebbe più per mezzo dei dispositivi “classici” di inclusione-esclusione (partecipazione rappresentativa, organizzazione architettonica, polizie pubbliche e private, videosorveglianza, etc.) ma giungerebbe soprattutto dalla completa smaterializzazione dello spazio pubblico: un luogo esiste solo in quanto è provvisto di coordinate geografiche e di un’identità anagrafica digitale, divenendo così una location (le coordinate geografiche creano la connessione tra lo spazio fisico e il suo corrispondente digitale anagrafico) e così l’intero spazio fisico esiste solo in quanto è posto in corrispondenza con un’infrastruttura invisibile che ne determina in modo univoco le caratteristiche e l’agibilità controllata.

Chi è privato della possibilità di stabilire una “connessione” con tale infrastruttura, non “esiste” e, viceversa, tutto quanto lo circonda si riduce a una spettrale città fantasma.

Per riprendere il luminoso pensiero degli impiegati del progresso e sacerdoti della servitù volontaria citati in apertura:

«questi meccanismi di base aprono scenari di innovazione e creatività immensi», visto che «stabilita la connessione, lo smartphone mette a portata di un clic, o meglio di un touch, il “contesto” che riguarda il luogo in cui ci troviamo, lo spessore dell’identità anagrafica di quel luogo, fatto di informazioni, foto, video, recensioni, commenti, dati e creando la possibilità di interazione sociale “connessa” a quel luogo. Questo grazie ai metadati di georeferenziazione delle informazioni […] geolocalizzarsi è la chiave di accesso al contesto che ti circonda».

La fine della città e dello spazio pubblico che essa protegge porta con sé anche la fine della ragione, mettendo a nudo una volta di più che, come ha scritto Hannah Arendt in una lettera a Karl Jaspers nel 1946: «si tenta in modo organizzato di sterminare la nozione di essere umano».

«Più cemento, meno centro è l’era della post-metropoli. Gli ultimi studi e un convegno internazionale“ Oltre la metropoli”rilanciano il tema dei nuovi assetti urbanistici». la repubblica, 7 marzo 2017 (c.m.c.)

L’urbanizzazione del pianeta procede e avanza a ritmo incessante. Un’immagine satellitare che abbraccia l’intero globo e che registra l’intensità delle luci accese documenta quanta superficie terrestre occupi l’espansione urbana. Un tappeto luminoso si distende fra la California e la penisola della Kamchatka, con isole nette e nebulose sfumate, copre l’India, molta Cina, l’Africa meridionale e le coste sudamericane. Ma sono città tutti gli spazi dai quali provengono i bagliori?

La domanda rimbalza da anni nel settore degli studi urbani e interpella architetti e urbanisti, sociologi, geografi ed economisti. E l’abituale identificazione fra l’urbano e la città vacilla, fino a cadere fiaccata: possono diffondersi nel territorio case, anche palazzi, centri commerciali e centri logistici, stabilimenti industriali e paradisi del divertimento, possono distribuirsi (quando va bene) infrastrutture, strade e linee ferroviarie. Ma non è detto che questo faccia città — e città distinta nettamente dalla non-città.

Il fenomeno va avanti da qualche decennio. Ma faticano le sistemazioni teoriche e, soprattutto, è incerto come si possa fronteggiare un processo che genera affanno, spreco, alimenta individualismi e solitudine. Insorge l’espressione post- metropoli, coniata dal geografo Edward Soja, scomparso nel 2015. Un analista coinvolto su questo fronte d’indagine è il sociologo Neil Brenner, docente ad Harvard, fra i più innovativi e anche radicali analisti delle trasformazioni urbane, alle quali oppone l’idea che «un’altra urbanizzazione è possibile, alternativa a quella imposta dall’ideologia neoliberista». Di Brenner, che spesso si richiama alla Scuola di Francoforte, è uscita in Italia una raccolta di saggi ( Stato, spazio, urbanizzazione, introduzione di Teresa Pullano, Guerini associati, pagg. 190, euro 18,50) e Brenner stesso è atteso a un convegno domani a Roma.

Brenner punta a dimostrare come l’urbanizzazione investa l’intero globo e sia figlia di un capitalismo fortemente finanziarizzato. Ma non basta ad attestarlo la migrazione di popolazione verso i centri urbani, che una stima Onu colloca oltre il 75 del totale nel 2050. No, insiste Brenner, a parte l’attendibilità dei dati, occorre cambiare prospettiva «perché è la città che è esplosa. Ed è anzi azzardato parlare di città riferendosi a quelle forme di urbanizzazione che un po’ si concentrano, un po’ si diradano, si spalmano in maniera non pianificata o secondo logiche economiche, tutte private, ma che non è più possibile ripartire fra urbano, rurale e persino periferico».

Centro e periferia, per esempio, è una coppia di concetti che perde peso. Questa urbanizzazione avviene mescolando funzioni diverse «residenziali, ma non solo, ci sono reti infrastrutturali e di trasporto, stabilimenti industriali inquinanti, discariche», spiega Brenner. «Non esiste un modello unico», aggiunge il sociologo, «la mia intenzione è di provocare una riflessione generale su quali forme assume l’urbanizzazione planetaria».

E in Italia? Alessandro Balducci, urbanista del Politecnico di Milano, per un anno assessore nella giunta Pisapia, ha avviato una ricerca insieme ad altre università (Piemonte orientale, Iuav di Venezia, Firenze, La Sapienza a Roma, Alghero, Federico II di Napoli, Palermo). Ne è nato un Atlante (www.postmetropoli.it) che mostra come, in maniera differente che altrove e con marcate diversità al suo interno, anche in Italia si assiste a un’espansione dell’urbano che non fa città (già dagli anni Novanta si parla di “città diffusa”, grazie agli studi di Francesco Indovina e Bernardo Secchi). «È però preoccupante», lamenta Balducci, «che una delle forme di governo più recenti di queste realtà, le aree metropolitane, sia completamente inadeguata. Pensiamo nel XXI secolo di governare con strumenti del XX secolo entro confini del XIX».

Ma quali indicazioni fornisce l’Atlante? «Una condizione post- metropolitana caratterizza le regioni che hanno conosciuto una fase metropolitana in passato », spiega Balducci. «Penso a Milano e, in misura diversa, a Napoli. Qui l’urbanizzazione non si dirada a mano a mano che si esce dal centro e anche dalla periferia novecentesca, andando verso i nuovi insediamenti. Proliferano nuove centralità in luoghi periferici, e la popolazione è anziana, si riducono i componenti del nucleo familiare e c’è un forte incremento di immigrati, tutti fenomeni che fino a ieri avevano caratterizzato solo le aree centrali dei contesti metropolitani».

Diversa è la situazione in Veneto o in Toscana, dove, sostiene Balducci, «non c’è mai stata una fase metropolitana e prevale una forma “polinucleare”». Il Veneto è uno dei primi laboratori della “città diffusa”, con una crescita dissennata dell’edificato che ha saturato molti spazi, ora intasati di capannoni vuoti. Qui, ma anche in Toscana, le urbanizzazioni «attraversano i confini delle vecchie province», dice Balducci, «e non sono né Firenze né Venezia il fulcro intorno al quale ruotano le dinamiche territoriali».

Altra storia ancora è quella di Roma, messa a fuoco in un volume di saggi curato da Carlo Cellamare, docente alla Sapienza ( Fuori raccordo, Donzelli, pagg. 357, euro 34) che applica alla capitale il tema della post-metropoli. Una capitale in cui intorno al Grande raccordo anulare, il Sacro Gra indagato da Niccolò Bassetti e portato al cinema da Gianfranco Rosi, è cresciuta un’urbanizzazione che conta un milione di abitanti.

All’inverso di Milano o di Napoli, più ci si allontana dal centro più i nuovi insediamenti si diradano fino a toccare densità talmente basse da non essere più pertinenti a una dimensione di città. Una densità che non consente un decente livello dei servizi, in particolare del trasporto pubblico. Fallimentare è stato il tentativo di costruire nuovi centri direzionali. Mentre, ricorda Giovanni Caudo, urbanista di Roma 3 ed ex assessore con Marino, «in tutti i comuni della provincia di Roma e in quelle di Viterbo, Terni e L’Aquila, si sono trasferiti centinaia di migliaia di romani, creando un insediamento fatto di cerchi concentrici, attraversati da un pendolarismo quotidiano».

Non c’è città meno città di Roma, dove più di un terzo delle persone vive in una sommatoria di brandelli. E dove si registra un’altra delle condizioni analizzate da Brenner: l’aumento del disagio e delle diseguaglianze che producono conflitti e, appunto, insiste il sociologo, «la richiesta di un “diritto alla città” — una città come spazio comune, prodotta e condivisa da tutti, tendenzialmente più egualitaria e democratica. Per questo penso che il progetto di subordinare l’assetto urbano a una logica di puro profitto è sempre controverso e contraddittorio e incontra una crescente resistenza ».

Il Convegno“Oltre la metropoli” s’intitola il convegno di domani ( Aula Magna di Roma Tre, ore 9.30) al quale partecipa Neil Brenner.

«Palestina. L’albergo voluto dall’artista denuncia una barriera ormai dimenticata dalla comunità internazionale. Tra gli strumenti dell’occupazione israeliana c’è la distruzione dell’economia palestinese».il manifesto, 5 marzo 2017 (c.m.c.)

Una signora porta una pianta, suo marito saluta cordialmente il manager dell’hotel, Wassim Salsaa, che dispensa il benvenuto agli invitati che accedono al “The Walled Off Hotel”, l’hotel dello street artist britannico Banksy. Tutti sorridono lasciandosi alle spalle i lastroni di cemento armato, decorati con slogan politici, manifesti, imprecazioni e frasi di speranza, che compongono questa sezione del Muro israeliano che circonda Betlemme.

Proprio all’ingresso, una nicchia ricorda Lord Balfour mentre nel 1917 promette la Palestina al popolo ebraico. Nella hall di stile vario, con alle pareti riproduzioni e originali di opere di Banksy, tra le decine di persone presenti gira una domanda: mescolato tra di noi c’è anche il famoso graffitaro? La lente di ingrandimento è su un paio di uomini, alti e con uno spiccato accento british. Ma il mistero resterà irrisolto per tutta la sera. Banksy sa custodire il suo anonimato e i suoi collaboratori palestinesi hanno lavorato per oltre un anno all’hotel lontano dagli occhi dei media.

Al secondo piano, in una sala ampia e ben illuminata, sono esposti i lavori di pittori palestinesi: Tayseer Barakat, Khaled Hourani, Slyman Mansour e altri ancora. Alcuni di loro sono giù nella hall. Poi comincia un breve intrattenimento artistico, utile a spiegare il “The Walled off Hotel”. Ad un certo punto, su di uno schermo, appare Elton John live da Los Angeles. Wassim Salsaa sostiene che il cantante britannico si esibisce anche in onore di questo piccolo albergo in Palestina. Scattano gli applausi.

Eppure le attrazioni della serata restano la stanza decorata dallo stesso Banksy e il murales che ritrae un palestinese e un poliziotto israeliano che si prendono a cuscinate. Si provano sentimenti contrastanti girando per questo hotel che, come ha ripetuto Wassim Salsaa in questi giorni, «ha la vista più brutta del mondo». Come dargli torto. I lastroni del Muro sono a pochi metri dalle finestre del “The Walled Off Hotel”.

Inevitabile porsi degli interrogativi. Questo albergo è una iniziativa artistica o commerciale? Ha un significato politico o è figlio di quella superficialità occidentale che sempre più spesso avvolge la questione palestinese? È una denuncia sincera della barriera israeliana o proprio quei lastroni di cemento finiscono per renderlo trendy?

Probabilmente è tutto questo e anche altro, con gli amministratori palestinesi che appaiono un po’ meno interessati ai contenuti rispetto allo stesso Banksy che a Betlemme ha donato la sua guerrilla art per condannare l’orrore del Muro.

Lo street artist un paio d’anni fa è stato anche a Gaza, per lasciare i suoi graffiti sui ruderi delle case abbattute dai raid israeliani. E non passa inosservato, accanto all’hotel, il negozio dove è possibile acquistare magliette, poster, souvenir con le immagini dei lavori del graffitaro iconoclasta. Si dice che l’hotel voglia favorire il dialogo fra israeliani e palestinesi e riportare i riflettori su Betlemme, la città della Natività che, soffocata dal Muro, non riesce a sfruttare il suo potenziale turistico e le capacità dei suoi noti artigiani del legno d’olivo.

Sarebbe già tanto se riuscisse a persuadere i giornalisti italiani a non definire il Muro che divide Betlemme da Gerusalemme e dalle campagne circostanti, sempre e soltanto come una «barriera anti-terroristi» e a considerare quanta terra questa “opera” ha sottratto alla Cisgiordania per annetterla di fatto a Israele e i danni che ha causato a decine di migliaia di palestinesi, specie gli agricoltori, spesso riducendoli alla fame.

Gli abitanti di Betlemme non hanno un giudizio unico del “The Walled Off Hotel”. Molti lo apprezzano, altri alzano le spalle, altri ancora lo ignorano. A Banksy comunque tutti i palestinesi dovranno dire grazie per aver riportato attenzione sul Muro.

Quei 700 km di cemento e reticolati che dal 2002, come un serpente, si incuneano nella Cisgiordania restano per i palestinesi il jidar al fasl al unsuri, il muro della separazione razziale. Ormai non se ne parla più, non fanno più notizia le manifestazioni settimanali che a Bi’lin e in altri villaggi contro quel mostro di cemento. Negli anni passati, oltre a Banksy, altri artisti, come Roger Waters dei Pink Floyd, hanno denunciato il Muro. Poi più nulla o quasi.

Ed è caduto nell’oblio il parere emesso il 9 luglio 2004 dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia: «L’edificazione del Muro che Israele, potenza occupante, è in procinto di costruire nel territorio palestinese occupato, ivi compreso l’interno e intorno a Gerusalemme Est, e il regime che gli è associato, sono contrari al diritto internazionale». Nel 2017 un piccolo hotel e un artista di strada riaprono il caso.

Ampia rassegna di ricerche e articoli, prevalentemente statunitensi, sul ruolo delle città, della rendita immobiliare e delle politiche urbane nel capitalismo dei nostri anni. Intervento introduttivo al seminario "Le piattaforme delcapitale", Milano, 3-4 marzo. EuroNomade, 3 marzo 2017

Vorrei partire da un libro di recente uscita intitolato The Complacent Class: The Self-Defeating Quest for the American Dream (New York, 2017) scritto da Tyler Cowen, un economista mainstream di orientamento conservatore (nel libro simpatizza apertamente con l’amministrazione Reagan degli anni Ottanta), noto per animare uno dei blog di economia più letti negli Stati Uniti. Nel libro l’autore sostiene che la società statunitense, e in particolare il suo ceto medio, ha perduto il dinamismo e la smania per il cambiamento (la restlessness) che la ha animata fin dalla fondazione della nazione americana.

Gli statunitensi non si muovono più come un tempo da uno stato all’altro in cerca di migliori opportunità di realizzazione personale, come hanno fatto fino agli anni Settanta del Novecento, a differenza degli europei visceralmente legati alla propria città natale; non cambiano lavoro come un tempo e hanno smarrito lo spirito imprenditoriale che li caratterizzava: a dispetto della retorica sul tema, il numero di imprese start-up – fa notare Cowen – è in costante diminuzione negli Stati Uniti, perfino nel decantato tech sector, il settore tecnologico che ha fatto parlare del tech boom 2.0 negli anni successivi alla “grande recessione”, dal 2010 a oggi.

L’autore manca di offrire un’analisi di perché ciò sia avvenuto. Il suo saggio, in linea con la tradizionale vena moraleggiante degli economisti conservatori, non offre soluzioni di public policy ai problemi di immobilità sociale che mette in evidenza, ma finisce per l’appunto con lanciare una strigliata morale alla nazione americana, colpevole di crogiolarsi in un apparente benessere dove in realtà sotto le ceneri covano sentimenti di frustrazione e risentimento sociale portati alla luce dall’elezione di Donald Trump.

In un articolo apparso in The Atlantic nel novembre 2015 (in era pre-Trump dunque) intitolato “Why the Economic Fates of America’s Cities Diverged” (Perché i destini delle città americane hanno iniziato a divergere) Phillip Longmann ha offerto un’accurata riflessione sulle cause dei crescenti divari regionali, in termini di distribuzione della ricchezza e del reddito, negli Stati Uniti: secondo lui, tali divari sono da attribuire alla mancanza di una politica di riequilibrio territoriale come quella che aveva orientato la politica economica federale nei decenni post-bellici, nell’era pre-neoliberale. I divari regionali sono ben evidenziati dai differenziali nei prezzi delle case tra le varie città.

L’elite di città che si sono poste alla testa del technology boom post-recessione hanno visto un’impennata dei prezzi (San Francisco, New York, Boston, Washington, Seattle, in parte Chicago e Los Angeles), mentre quelle che sono rimaste ai margini o del tutto escluse da tale fenomeno (ossia la stragrande maggioranza dei centri urbani americani) hanno avuto mercati immobiliari stagnanti. Queste ultime oggi attirano coloro che non possono più permettersi di vivere nelle città investite dal boom tecnologico. Per la prima volta – Longmann fa notare – gli americani si muovono non più alla ricerca di migliori opportunità di lavoro (cioè di più elevati salari) ma di un luogo più a buon mercato, con più bassi costi della vita, anche se ciò comporta mettere da parte le proprie aspirazioni di mobilità sociale.

Tale fenomeno riflette la dinamica ben illustrata da Michael Hardt e Antonio Negri in Commonwealth: i real estate values, ossia i prezzi immobiliari, sono direttamente proporzionali all’attrattività dei luoghi, in termini di esternalità positive (concentrazione di imprese e università innovative, governi dinamici, servizi efficienti etc.) come le chiamano gli economisti. È quel che abbiamo sotto gli occhi anche qui a Milano, la città italiana dove si osserva meglio il fenomeno della gentrification: l’ad di Starbucks ne ha tessuto nei giorni scorsi le lodi come “città modello”, nel motivare la scelta di aprire la prima sede in Italia della famosa catena di caffetterie.

In queste città d’elite si concentrano le imprese tecnologiche start-up, le comunità di pratiche innovative (i cosiddetti “imprenditori urbani” di nuova generazione: dai citymakers ai fablab), oltreché i servizi rari per le imprese, come avevano mostrato i primi analisti delle città globali già negli anni Novanta (da Saskia Sassen a Peter Taylor).

Nel resto dei centri urbani, si tira avanti, si raccolgono le briciole, covando quella “politica del risentimento” che vediamo esemplificata nell’esplosione del fenomeno del nazional-populismo nelle sue diverse manifestazioni: dai 5 Stelle a Brexit e a Trump. Alcuni teorici della sinistra, come Jodi Dean, autrice di The Communist Horizon, giungono a sostenere l’idea che la sinistra debba smettere di guardare alle grandi città trendy, dove la politica alternativa si è ridotta a pratiche fondamentalmente borghesi come la cura degli orti urbani e la filosofia del cibo a km zero, e debba concentrarsi invece sui piccoli centri, quelli rimasti ai margini dello sviluppo economico, dove appunto si alimenta il rancore sociale.

Ma a livello politico è realistica l’indicazione di Dean? Sempre a proposito degli Stati Uniti c’è un bel libro della politologa Katherine Cramer The Politics of Resentment: Rural Consciousness in Wisconsin and the Rise of Scott Walker (Chicago, 2016) che esplora la cultura del risentimento sociale nelle aree rurali e suburbane del Wisconsin, alla base dell’ascesa del governatore ultra conservatore Scott Walker, dove i repubblicani hanno tradizionalmente una presenza egemonica. È realistico pensare che la sinistra ricominci da questi territori? La spettacolare Women’s March del gennaio scorso ha in realtà mostrato la potenza delle città per quella che Andy Merrifield ha chiamato “politics of encounter”, la crowd politics, la politica della moltitudine diciamo noi che ha avuto nel 2011 il suo momento più alto e che la marcia delle donne ha riportato all’attualità.

Detto questo, vorrei tornare sul punto principale: perché una ristretta elite di città e grandi centri urbani svolge tale ruolo di catalizzatore del progetto di “imprenditorializzazione della società e del sé”, già intuito da Michel Foucault, rappresentato dal fenomeno del tech boom di imprese start-up di cui si diceva e dal connesso fenomeno della sharing economy ufficiale per cui tutti diventiamo un po’ imprenditori di noi stessi (anche se non lo siamo ufficialmente)?

Certamente esistono i fattori immateriali di cui si diceva prima: l’attrattività della location, per dirla in breve. Ma se vogliamo sfuggire a un’analisi meramente socio-culturale del fenomeno, vale a dire basata sui comportamenti e sulle preferenze individuali del consumatore o del lavoratore, che si avvita su se stessa e alla fine asseconda la politica neoliberale dominante, come quella offerta da Richard Florida nel famoso The Rise of the Creative Class (secondo il quale la classe creativa sceglie di vivere nei centri urbani più tolleranti e culturalmente predisposti verso minoranze, talenti e tecnologia), allora dobbiamo volgere il nostro sguardo per l’appunto al platform capitalism di cui si parla nel convegno.

Come ha ben illustrato Nick Srniceck nel suo libro recente sul tema (Cambridge, 2016), il movente essenziale delle imprese capitalistiche di piattaforma è la raccolta di ingenti masse di dati. Le grandi città e aree metropolitane, e in particolare i centri urbani divenuti egemoni nell’immaginario collettivo, funzionano da “laboratori viventi” (living labs) per le imprese chiave della nostra economia: per “i nuovi profeti del capitale”, come li ha chiamati Nicole Aschoff, che parlano da filantropi mentre fanno affari nel nome del “bene comune”.

Per questa ragione, Microsoft e Google approdano nelle favelas di Rio de Janeiro, affermando di voler far emergere il talento imprenditoriale oggi soffocato dalla povertà, distribuendo smartphone agli abitanti e digitalizzando la vita urbana. Per la stessa ragione, Amazon oggi utilizza Seattle per testare i gusti dei consumatori in previsione di una sua esplorazione di nuovi sbocchi di mercato, nel campo del cibo e dell’abbigliamento. Ma lo stesso fanno le imprese start-up.

Ne ho avuto conferma recentemente intervistando il rappresentante italiano di un’impresa start-up francese operante nel campo della mobilità urbana, impegnata ormai da vari anni nell’internet of things, ossia nel rendere connessi gli oggetti alle persone per monitorare i loro spostamenti e le loro forme di vita: «non ci interessano i piccoli centri, ci interessano le grandi città, le metropoli affollate di persone», ha dichiarato. È nelle grandi città che i “profeti del capitale” così come le start up emergenti ritrovano le forme di vita in comune da cui traggono linfa essenziale per il proprio business, oltreché in molti casi l’ambiente istituzionale, sociale e culturale che consente loro di svilupparsi e costruire la propria narrazione di “felicità”.

Il platform capitalism e i collegati fenomeni della smart city e della start-up city in tal senso offrono potente dimostrazione del passaggio, segnalato da Gilles Deleuze poco prima della sua morte, alla scala urbana da una società disciplinare, fondata su meccanismi centralizzati come i “grandi eventi” e i “grandi progetti” (la recente crisi economica e politica brasiliana, all’indomani di Olimpiadi e Mondiali, è una prova della crisi del “mega-evento” come propulsore di sviluppo economico), a una società del controllo fondata sulla dispersione dei meccanismi di coinvolgimento sociale e valorizzazione, ma oggi tenuta insieme dalla rendita del comando capitalistico, in particolare da quello che qui chiamiamo “capitalismo delle piattaforme”.

Podemos ha fallito nell' obiettivo per mezzo delle elezioni generali. Tuttavia, da Barcellona a Madrid, passando per Valencia e Saragozza, le forze progressiste critiche hanno conquistato molti municipi strategici. Ma cambiare il sindaco permette di cambiare il mondo? il manifesto, "Le Monde diplomatique", 25 febbraio 2017 (c.m.c.)

Nella piazza del Pilar si erge una montagna di fiori e di crocifissi; è metà ottobre, periodo in cui si svolge l’annuale festa di Saragozza. Le strade sono invase da turisti e i grandi magazzini sono pieni: non ci troviamo di fronte ai soviet o alla presa di un Palazzo d’inverno iberico. Qui, come a Madrid, Barcellona o ancora Valencia, le elezioni municipali del maggio 2015 sono state vinte da una «coalizione di unità popolare» formata da militanti dei movimenti sociali e da diversi partiti di sinistra. Malgrado le grida di terrore lanciate dai conservatori, angustiati da questi successi, la rivoluzione mantiene un basso profilo. «Non si può cambiare una città in un anno e mezzo», dichiara Guillermo Lázaro, coordinatore del gruppo municipale della coalizione Zaragoza en Común (Zec) (1).

Prima di aggiungere che, malgrado le promesse di progresso sociale assicurate dai programmi elettorali, la popolazione sembra aspirare più all’allontanamento della «casta» che all’abolizione della proprietà privata: «La gente non si aspettava un reale cambiamento delle condizioni di vita, ma piuttosto l’accesso al governo di persone normali, simili a sé».

A Santiago di Compostela, la piattaforma vincente Compostela Aberta («Compostela aperta») è nata da «un disgusto», ci spiegano Marilar Jiménez Aleixandre e Antonio Pérez Casas, rispettivamente portavoce e militante della coalizione. «Appena un anno dopo la sua elezione, il precedente sindaco, il conservatore Gerardo Conde Roa, è stato condannato per frode fiscale». Altri due amministratori si sono susseguiti nel corso di un mandato scandito dai processi giudiziari; da qui il soprannome attribuito alla città di «Santiago de Corruptela».

Questa crisi della rappresentanza politica, motore del movimento 15-M (sorto il 15 maggio 2011 a Madrid), ha favorito la nascita di coalizioni eteroclite, che rinnovavano il profilo dei tradizionali esecutivi: «Compostela Aberta è in parte composta da ex militanti dei grandi partiti, ma non solo, affermano Jiménez Aleixandre ePérez Casas. Molti dei suoi membri non avevano mai fatto politica prima o provenivano dalle associazioni di vicini (2), dal movimento femminista o sindacale, dai collettivi di lotta contro la speculazione immobiliare, ecc. Vi si trovano anche personalità, scrittori, rappresentanti del mondodella cultura, oltre a persone coinvolte nel 15-M». E non tutti si definiscono «di sinistra».

La denominazione «comuni Podemos» (dal nome del partito costituito nell’ottobre 2014), utilizzata dagli avversari e da una parte della stampa, non tiene conto dei rapporti complicati, spesso conflittuali, che queste squadre intrattengono con la giovane formazione. Del resto, «al di là delle differenze tra noi e le altre coalizioni municipali, abbiamo un presupposto comune, osserva Jiménez Aleixandre: non ci concepiamo come dei partiti. La maggior parte dei tradizionali partiti di sinistra dà la priorità agli interessi dei propri nuclei dirigenti: mantenere il posto, senza il minimo dialogo con i militanti. Anche all’interno di Podemos si osserva un’evoluzione simile. Noi sperimentiamo diverse forme di organizzazione per dare la priorità al nostro programma».

Mano nella mano o faccia a faccia?

Quale? Da una città all’altra, strategie specifiche si affiancano a diversi propositi comuni: democrazia, ripartizione della ricchezza, riduzione del peso della Chiesa, riappropriazione dei servizi pubblici, diritti delle donne, ecc. A pochi minuti dall’inizio del nostro incontro, il sindaco di Santiago di Compostela, Martiño Noriega Sánchez, si alza: «Scendo in cortile, ci avvisa. Osserviamo un minuto di silenzio ogni volta che una donna muore per le percosse di un uomo». In questa città di quasi centomila abitanti, parallelamente a iniziative del genere, assistiamo al ripristino di un centro d’accoglienza per le donne vittime di aggressioni, ma anche a campagne di sensibilizzazione per dare visibilità alla loro lotta. Il 25 novembre, data che le Nazioni unite hanno individuato come Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, la città si è tinta di nero e, su autobus e vetrine, è comparsa la scritta «Contra a violencia».

Al suo ritorno, il sindaco ci espone il piano per le prestazioni sociali entrato in vigore a ottobre e a cui spera si ispirino altri governi. «“Compostela Suma” è il programma più ambizioso che a oggi sia stato presentato. Abbiamo firmato degli accordi con alberghi, associazioni, come la Croce rossa, e sbloccato i fondi per dare riparo ai senza fissa dimora, utilizzando edifici del comune mai destinati prima a questo scopo». Il programma prevede di aiutare gli abitanti considerati «troppo ricchi» per accedere ai sussidi di inclusione sociale della Galizia (Risga). Noriega Sánchez non nasconde, inoltre, il proprio sostegno ai lavoratori in sciopero che hanno preso parte alle grandi giornate di mobilitazione dei lavoratori precari e in subappalto presso Telefónica, il principale operatore di telecomunicazioni spagnolo.

Tra i bersagli delle nuove squadre municipali ci sono alcuni simboli. A Barcellona, la ricomparsa di una statua decapitata del generale Francisco Franco ha turbato i conservatori.

Per l’Epifania, il 6 gennaio 2016, il sindaco di Valencia ha fatto gridare allo scandalo per la sostituzione di alcuni Re magi con delle regine. Provocazioni gratuite? Si tratta piuttosto di una critica alle eredità franchiste e cattoliche, eco dell’ideale repubblicano del 15-M, che continua ad aleggiare sulle manifestazioni spagnole, per mezzo della bandiera viola, gialla e rossa (i colori della seconda repubblica spagnola, 1931-1939).

Dopo aver definito il programma e vinto le elezioni, bisogna governare. L’ingresso nell’istituzione di ex militanti associativi abituati, per averli spesso subiti, a rapporti conflittuali con le squadre municipali ha provocato un cambio di atteggiamento del nuovo potere locale verso il settore associativo. «Constatiamo la volontà di includerci nei processi decisionali, afferma compiaciuto Enrique «Quique» Villalobos, presidente della Federazione regionale delle associazioni di vicini di Madrid (Fravm). Ottenere le informazioni è diventato più facile. Può sembrare poca cosa, ma è un passo enorme, perché quando si entra in possesso delle informazioni, è possibile formulare delle rivendicazioni. I conflitti che attualmente ci oppongono al comune sono stati favoriti dal comune stesso!»

Lavorare mano nella mano, ma senza rinunciare al faccia a faccia: per i collettivi militanti, la collaborazione con i propri ex compagni impone la preservazione della propria indipendenza, per «mantenere alta la pressione». Perché il miglioramento dei rapporti tra gli attori delle sfere pubbliche e politiche non garantisce progressi sociali, così come la cordialità non è sinonimo di collaborazione. «Il nostro sguardo sulla prima fase del governo di Barcelona en Comú è contrastante, dichiara Daniel Pardo, membro dell’Assemblea dei quartieri per un turismo sostenibile (Abts). Si sono aperti degli spazi di dialogo, mentre prima le questioni legate al turismo erano competenza esclusiva dell’istituzione, in stretto rapporto con i professionisti del settore: i secondi decidevano e la prima firmava. Ma siamo decisamente sorpresi nel vedere che lanostravoce, a difesa dell’interesse pubblico, è messa sullo stesso piano del parere di un qualsiasi albergatore».

Nell’ottobre 2016, in un giorno di consiglio municipale, Carlos Macías, portavoce della Piattaforma delle vittime del credito ipotecario (Pah) di Barcellona, in compagnia di una ventina di militanti riconoscibili per le magliette verdi e gli slogan allegri, manifesta davanti alcomune. È appena stata adottata una mozione che sostengono da lunghi mesi. Denuncia una clausola per l’indicizzazione degli interessi di alcuni prestiti immobiliari su un indice il cui metodo di calcolo è stato rivisto in maniera molto favorevole alle banche da una legge di settembre 2013. La vicenda riguarderebbe più di un milione di prestiti e molte famiglie si troverebbero nell’impossibilità di pagare la rate a causa del gravoso costo aggiuntivo frutto di questa disposizione, regolarmente giudicata illegale dai tribunali.

Ormai, a Barcellona, il comune si impegna a non lavorare più con le banche che la utilizzano e a fornire un aiuto amministrativo alle vittime. Tuttavia, su scala nazionale, il ruolo dei comuni è limitato: nel migliore dei casi, possono chiedere al governo spagnolo di modificare la legge, di adottare un sistema di prestiti a tasso zero e di rimborsare tutti gli interessi illecitamente riscossi dalle banche. Di che far tremare i grandi gruppi finanziari. «So che è altamente improbabile che il comune smetta di lavorare con questi istituti finanziari, confessa Macías. Rimarrebbero solo due banche, tutt’al più, e nessuna che possa concedere prestiti.

Ma sono convinto che si debba continuare a fare pressioni affinché la squadra municipale non si arrenda».

Non abbandonare la lotta, questa sarebbe la priorità. «Barcelona en Comú o Podemos hanno una responsabilità: quella di un discorso coerente, prosegue Macías. Se il messaggio che viene mandato ai propri elettori è: “Va tutto bene, calmiamoci, siamo arrivati al potere e sistemeremo ogni cosa”, vuol dire che nel corso degli ultimi quarant’anni non abbiamo imparato nulla». Le nuove squadre sostengono di essere consapevoli del rischio: «Non vogliamo assolutamente ripetere l’errore del 1982, quando la vittoria del Psoe [Partito socialista operaio spagnolo] ha portato allo sgretolamento del movimento sociale, rassicura Luisa Capel, membro della squadra di comunicatori di Ahora Madrid («Madrid ora»). Allora, la sinistra aveva scelto la logica della democrazia rappresentativa, e noi abbiamo perso potere nelle piazze. Questa situazione si è protratta durante gli anni 1990, con effetti devastanti. Ci auguriamo che il movimento sociale mantenga il proprio ruolo per aiutarci a portare avanti la nostra politica.Dall’altra parte, non smettono certo di eserciare pressioni».

«Tecnica di profanazione delle istituzioni»

Tuttavia, quest’invito provoca alcune tensioni. A Barcellona, si concentrano sulla lotta contro il turismo di massa, punto forte del program- ma di Barcelona en Comú. Nell’estate 2015, il sindaco Ada Colau, ha adottato una moratoria di un anno (prorogata fino al giugno 2017) sulle licenze per l’apertura di nuovi spazi ricettivi, in attesa di mettere a punto una politica di lungo termine in una città in cui tutti i quartieri subiscono le conseguenze del turismo di massa. Se la moratoria – a scapito dei rappresentanti del settore – offre una risposta alla prima delle esigenze dell’Abts, il Piano speciale urbanistico per gli alloggi turistici (Peuat) che la accompagna ha provocato forti critiche da parte dell’associazione.

Questa normativa, di cui si sta ancora discutendo per via del susseguirsi di un centinaio di emendamenti, prevede la definizione di quattro zone urbane. Nel centro, zona detta di «decrescita naturale», non verrebbe autorizzata alcuna nuova costruzione alberghiera, e le strutture esistenti non potrebbero essere ingrandite o sostituite qualora l’attività dovesse cessare; nella seconda zona, verrebbe mantenuto lo status quo; invece, si permetterebbe l’attribuzione «sostenibile» di licenze nei quartieri periferici della terza e della quarta cintura, con delle restrizioni in funzione della superficie e del numero di posti delle strutture. «Sappiamo che questo progetto è quanto di più coraggioso sia stato proposto per Barcellona, ma sappiamo anche che è insufficiente, spiega Pardo.|

Il comune ci chiede di sostenerlo, ma non possiamo firmargli un assegno in bianco. La “decrescita naturale” è un abile raggiro di retorica. Allo stato attuale, alcuni quartieri rappresentati nelle nostre assemblee si ritroverebbero immediatamente in balia della speculazione. La nostra esigenza? Una moratoria indifferenziata. Politicamente, forse, è un suicidio, ma non possiamo chiedere niente di meno». Ogni giorno, i «comuni del cambiamento» devono affrontare le difficoltà che insorgono con il passaggio dalla piazza alle istituzioni.Quest’evoluzione priva il movimento sociale di una parte significativa delle proprie forze.

Seduta nel dehors di un bar, Ana Menéndez, recentemente catapultata a capo della Federazione delle associazioni di vicini di Barcellona Favb), conta i suoi ex compagni che ora lavorano per i servizi municipali. Questo fenomeno siergià presentato all’epoca in cui Podemos si era accaparrata molti militanti attivi nel movimento sociale. Jiménez Aleixandre, dalle file di Compostela Aberta, non riesce a mascherare il proprio sconforto quando analizza l’impatto sull’azione militante dell’anno e mezzo di presenza nelle istituzioni: «Negli ultimi tempi, il funzionamento di Compostela Aberta, come quello di altri “comuni del cambiamento”, ha subito i gravi effetti dei processi elettorali. In un anno e mezzo, abbiamo attraversato un’elezione municipale, due generali e una regionale! Ci siamo buttati a capo fitto in questi appuntamenti, che hanno assorbito una parte enorme dell’energia che avremmo potuto dedicare alla città. Senza contare le tensioni interne che questo processo ha provocato, perché le coalizioni cambiavano a seconda del tipo di elezione».

VALENCIA. Manifestazione degli indignados. Queste tensioni non derivano solo da visioni divergenti. Mettono in luce anche la difficoltà di riprodurre le pratiche e le parole d’ordine del movimento sociale nelle istituzioni politiche. I nuovi comuni, fedeli all’empowerment, rielaborato e sviluppato da Podemos, si approcciano alla sfera istituzionale come a un campo di sperimentazione politica. Investono nella creazione di piattaforme digitali civiche (3) – una riproposizione dei metodi attuati durante il 15-M, quando alla fine di un dibattito, in un angolo della piazza, chiunque poteva scrivere le proprie proposte su un cartellone bianco. «L’obiettivo è spezzare la burocratizzazione della partecipazione per fare qualcosa di più dinamico, in linea con lo spirito del 15-M, in cui gli accordi si raggiungano attraverso il consenso e in cui non sia necessario appartenere a una determinata associazione per poter partecipare», spiega Capel a Madrid.

ASTURIE, OVIEDO. Manifestazione in appoggio al movimento 15-M Ma quest’inventiva digitale – che il giornalista Ludovic Lamant definisce «tecnica di profanazione delle istituzioni (4)» – e la buona volontà che la accompagna si scontrano, a volte, con le consuetudini degli abitanti. «Molti hanno finalmente capito che l’istituzione non è Twitter», constata il direttore della Fravm. A Santiago di Compostela, il voto dei bilanci par- tecipativi ha coinvolto un migliaio di persone, ossia un po’ meno di un abitante su cento. A Madrid, nel 2016, durante la grande campagna di riabilitazione della piazza di Spagna, 31.761 persone hanno votato on line per i diversi progetti: circa l’1% della popolazione totale della capitale. La scelta della ripartizione dei 60 milioni di euro del bilancio partecipativo, invece, ha suscitato l’interesse di 45.522 abitanti. Illu- sionismo o «democrazia reale»? Per il sindaco di Santiago di Compostela, Noriega, questi metodi dimostrerebbero la propria efficacia in maniera retroattiva, «non appena gli abitanti si accorgeranno che le proposte, di cui loro stessi sono gli autori, sono state adottate e messe in pratica».

Diventare semplici esecutori locali?

Tuttavia, la condizione necessaria è che queste misure siano portate avanti e adottate dal con- siglio municipale. Nessuna delle coalizioni di sinistra giunte al potere nel maggio 2015 gode della maggioranza assoluta. «Governiamo la città, ma non abbiamo il potere», riassume Pablo Hijar, consigliere municipale per le politiche abitative di Zec. Quindi, il sostegno di altri gruppi – spesso il Psoe, o partiti regionali come Chunta aragonesista (Unione aragonese, Cha), movimento nazionalista ed ecosocialista, in Aragona – diventa indispensabile. A Saragozza, «i socialisti ci impediscono di applicare dei criteri di progressività fiscale», afferma con irritazione Pedro Santisteve. «Il Psoe ostacola sistematicamente le grandi decisioni, quelle che mettono in discussione il sistema capitalistico», aggiunge Guillermo Lázaro, di Zec.

Senza contare che alcune misure presenti nei programmi elettorali sono prerogative regionali o nazionali. «Se il cambiamento si fosse verificato simultaneamente anche a questi livelli, sarebbe stato più facile, sospira Villalobos. La regione di Madrid gestisce gli ospedali, la pubblica istruzione, la legge del suolo. Molte decisioni del comune sono quindi accessorie: invita
la regione a prendere questa o quella misura... per lo più senza successo».
I mezzi non bastano per mettere in pratica le disposizioni radicali promesse contro gli sfratti. Soprattutto perché i comuni subiscono la pressione finanziaria di Madrid: «A loro arriva solo il 12,8% del bilancio nazionale, riprende Santisteve. Eppure, devono rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini per quanto riguarda trasporti, gestione dell’acqua e dei rifiuti».

La strategia di «cambiamento dall’interno» promossa dai nuovi esecutivi municipali si arena sulla definizione delle competenze, ereditata dalla transizione democratica e dalle leggi nazionali. In particolare la legge di razionalizzazione e sostenibilità dell’amministrazione locale, detta legge Montoro, dal nome del ministro delle finanze di Mariano Rajoy, Cristóbal Mon- toro, al quale si deve la sua adozione nel 2013. La prima fase del suo preambolo non lascia margini di dubbio sulle sue mire: «La riforma dell’articolo 135 della Costituzione spagnola (...) consacra la stabilità di bilancio come il principio fondante alla base dell’azione di tutte le amministrazioni pubbliche».

Questa legge, dettata dal «rispetto degli impegni europei in materia di consolidamento fiscale», e arrivata sulla scia delle politiche di austerità, impone, oltre alla riduzione del deficit, anche la destinazione di un eventuale attivo di bilancio al rimborso del debito. Al di là delle esigenze della propria politica, i sindaci devono portare avanti una battaglia sul concetto stesso di azione municipale: bisogna accontentarsi di diventare gli esecutori locali in un ambito definito dallo Stato, oppure tentare di rafforzarsi come entità politiche a pieno titolo, sulla scia della tradizione «municipalista» radicata nella storia del paese dal XIX secolo?

Questa situazione impone alle coalizioni progressiste strane acrobazie in materia di comunicazione. Nonostante possano tutte vantare il risanamento dei conti pubblici e la creazione di un favorevole attivo di bilancio dal loro arrivo al potere (5), hanno dovuto, in virtù della legge Montoro, versare quest’ultimo alle banche (2,3 miliardi di euro accumulati [6]). Tuttavia, alcune decidono di fare buon viso a cattivo gioco: non potendo investire i soldi recuperati, scelgono di presentare questi rimborsi come prova della buona gestione.

Una simile strategia non impedisce agli uomini e alle donne di punta del movimento di battersi per una modifica della legge. Nell’ottobre 2016, con il sostegno dei «comuni del cambiamento», il gruppo parlamentare Podemos ha presentato una proposta di legge in questo senso. Alla fine di novembre, una cinquantina di rappresentanti municipali si è riunita a Oviedo allo scopo di lanciare un ciclo di incontri per denunciare il debito illegittimo e i tagli di bilancio. La riunione di Oviedo, che non è sola nel suo genere, rispecchia una pratica classica dei «comuni ribelli»: far fronte. Il 4 e il 5 settembre 2015, a Barcellona si è tenuto il summit «Città per il bene comune. Condividere le esperienze del cambiamento», continuato il mese successivo a La Coruña. In entrambi i casi si sono dibattuti i soggetti più conflittuali: la rimunicipalizzazione dei servizi pubblici, i centri di identificazione ed espulsione, i rifugiati, la memoria.

Vincolati alle decisioni dei predecessori Per alcuni, tuttavia, dodici mesi sono basta- ti per far nascere un sentimento di delusione. Macías, successore di Colau nel ruolo di portavoce della Pah della capitale catalana, si rammarica per la lentezza dei cambiamenti promessi: «Si prenda ad esempio la questione della sanzione delle banche proprietarie di alloggi tenuti sfitti: il sindaco non ha tenuto fede alla propria missione. Ha inflitto tra le cinquanta e le sessanta sanzioni, invece delle duemila dovute. O non sta andando nella giusta direzione, oppure è troppo lenta. E, a riguardo, non c’è dubbio sulle sue prerogative: è proprio competenza sua».

All’inizio del 2016, la squadra municipale è stata scossa da un conflitto sulla gestione dello sciopero dei lavoratori nei trasporti pubblici. A fine febbraio, durante il Mobile World Congress, vetrina internazionale del settore della telefonia, sono state organizzate delle mobilitazioni che chiedevano la fine dei contratti precari, lo sblocco degli stipendi e la pubblicazione dei redditi dei quadri dirigenti. Quando i sindacati hanno respinto le soluzioni proposte dal «comune ribelle» per l’interruzione dello sciopero, Colau ha definito il movimento «sproporzionato», e la sua consigliera ai trasporti, Mercedes Vidal,ha rivolto ai lavoratori in sciopero un appello alla «responsabilità».

«Questa posizione totalmente ostile allo sciopero, più feroce forse di quella di altre squadre municipali, ha stupito molto, riferisce José Ángel Ciércoles, delegato Cgt Metro, il sindacato maggioritario in questa branca dei trasporti. Naturalmente quanti avevano votato per Ada Colau si sono sentiti traditi».

Albert Ruba Cañardo, presidente di Ateus de Catalunya («Atei di Catalogna»), un’associazione nazionale che denuncia il peso della religione cattolica nella società spagnola, si chiede quando sarà portato a termine il censimento delle proprietà immobiliari della Chiesa – e dei relativi privilegi –, reclamato al comune di Barcellona e considerato un dato fondamentale nella questione della casa. «Il concordato, che vogliamo abolire, esonera dalle imposte le pro- prietà della Chiesa accatastate come luoghi di culto. Ma è un’ipocrisia. Un edificio immenso di proprietà della Chiesa, con una facciata lunga più di cento metri, affacciato sulla piazza centrale della città, con all’interno uffici di avvocati, negozi, tutti in affitto. Su questo immobile, la Chiesa non paga alcuna imposta. Perché? Perché in un angolo ha messo la statua di un santo».

Prendendo il posto della destra, come a Madrid, dove Manuela Carmena è stata eletta dopo ventiquattro anni di governo del Partito popolare (Pp), le coalizioni ereditano accordi e progetti precedenti. Così, i nuovi arrivati subiscono delle critiche che dovrebbero per lo più essere rivolte alle amministrazioni passate. La capitale spagnola ha appena avallato la costruzione del quartiere Los Berrocales, progettato dalla precedente squadra municipale. Più di 22.000 alloggi da costruire entro il 2018. «Il Pp ha lasciato dietro di sé un’eredità di contratti di trent’anni o più, con questa o quell’impresa, commenta Villalobos.

Per annullarli bisognerebbe pagare enormi indennizzi. Los Berrocales, per esempio, è una follia. Oggi, la città dispone di un numero di alloggi sufficiente per i prossimi trenta o quaranta anni. Se costruiamo un nuovo quartiere, altri si svuoteranno». Carmena aveva promesso che non avrebbe autorizzato nuovi cantieri urbani di questa entità; tuttavia, ha considerato di non poter revocare questo progetto concepito dai suoi avversari politici.

Nell’aprile 1931, la vittoria delle forze progressiste in molte grandi città del paese, tra cui Madrid, aveva posto le basi per la II Repubblica. Alcuni sembrano scorgere nei «comuni del cambiamento» un’eco di questo precedente. Ma si sta diffondendo una forma di delusione, pari all’entusiasmo suscitato dalle vittorie del 2015, seppure in un contesto diverso. Allora, nuove formazioni politiche, Podemos in testa, avevano dalla loro un forte dinamismo. Speravano di trionfare alle ultime elezioni legislative. I loro dirigenti teorizzavano l’idea di un «assalto istituzionale»: la conquista rapida del potere a tutti i livelli attraverso una consapevole strategia elettoralista, poco conflittuale (il discorso del «né destra né sinistra») e apertamente rivendicata come «populista».

In attesa di un nuovo assalto, e al di là delle contraddizioni interne, i «comuni del cambiamento» devono affrontare esecutivi nazionali e regionali strutturalmente più potenti, e ben decisi a tenerli in scacco.

(1) Formata da Podemos, Izquierda Unida (unione del Par- tito comunista spagnolo e altri partiti della sinistra radicale), Equo (ecologisti), Puyálon (sovranisti aragonesi anticapita-listi), Somos (repubblicani di sinistra), Demos Plus (nato dal movimento sociale di difesa della sanità e dell’educazione pubbliche) e Piratas de Aragón (Partito pirata).

(2) Il movimento delle associazioni di vicini ha un ruolo particolare in Spagna dall’epocadella dittatura franchista.

Queste ultime, presenti in tutto il paese, sono raggruppate in federazioni nelle comunità autonome e partecipano in maniera attiva al dibattito pubblico.

(3) Il comune di Madrid, per esempio, ha creato la piattaforma https://decide.madrid.es

(4) Ludovic Lamant, Squatter le pouvoir. Les mairies rebelles d’Espagne, Montréal, Lux, 2016.

(5) Madrid, in particolare, passa per l’«alunna modello», dopo aver ridotto il debito pubblico del 19,7% in un anno.

(6) Eduardo Bayona, «La deuda en los ayuntamientos del cambio se reduce 160.000 euros cada hora», Público, 26 novembre 2016.

(Traduzione di Alice Campetti)

Con meno clamore rispetto a Roma, anche a Firenze si decide del nuovo stadio. In questo caso, il comune sceglie l'area e assume l'iniziativa dell'operazione. Tutto bene, quindi? Decisamente no, spiega l'ex sindaco di Sesto Fiorentino sulla sua pagine facebook (m.b.)

In questi giorni tutti i tg sparlano della querelle sul nuovo stadio della Roma e ci dicono di cosa pensa Grillo e delle dimissioni di Berdini, senza dirci di cosa si tratta.
 Io ho capito questo:

- L’Associazione Sportiva Roma spa (valutata da Forbes con un valore di 307 milioni di dollari) chiede di aver un impianto proprio per evitare e di collegare al calcio nuove e redditizie attività quali centri commerciali, show room, ristoranti,ecc. il tutto immerso in un ambiente gradevole con cosiddette “attività di pregio”, viabilità adatta e gli immancabili enormi parcheggi;

- l’ex sindaco Marino rivendica di avere dichiarato il progetto di pubblica utilità e di averlo subordinato ad un tale numero di opere pubbliche di carattere ambientale e viario da rendere la zona degradata di Tor di Valle un nuovo e ridente quartiere di Roma a spese del privato;

- giungono notizie dalla sovraintendenza di aver, ex post, bloccato la demolizione della tribuna dell’ippodromo di Tor di Valle, quello della mitica “mandrakata” di Gigi Proietti;

- la Giunta Raggi come al solito non sa cosa fare e si affida alla Casaleggio ed eredi.

Finite le favole, alla beneficienza dei privati oramai non ci credono più neanche i bambini. La storia ci insegna che l’urbanistica contrattata, dopo aver raccontato una bella novella, dieci, venti anni dopo “fatta la festa, gabbato lo santo, lascia ai posteri traffico, inquinamento, concorrenza commerciale, consumi energivori, congestione urbana e spesso qualche fallimento. È la storia dell’urbanistica di questi ultimi 60 anni. La sinistra in alcuni casi ha creduto di essere più furba del mercato per poi accorgersi, nella migliore delle ipotesi, di non avercela fatta.

Veniamo a Firenze. Domenici a fine mandato, consentì ai Della Valle di annunciare la volontà, tramite un progetto fatto per altre società, di realizzare un nuovo impianto per il gioco del calcio diverso dal monumentale Artemio Franchi. La famosa “nuvola” dell’archistar Fuksas. Tutto ciò in piena redazione del regolamento urbanistico, con i lavori della Stazione Foster e della tramvia in corso e con ancora aperta la questione del Pue di Castello. Senza un’idea delle funzioni della Firenze Grande intesa come area vasta più complessa della Grande Firenze asfittica e chiusa nelle mura.

All’epoca, ero sindaco di Sesto Fiorentino, convinto che l’idea di un nuovo, più piccolo ma più moderno impianto fosse positiva suggerii alla Fiorentina e all’inesistente Città Metropolitana di individuare un’area in località Osmannoro dove il piano strutturale prevedeva già insediamenti commerciali e direzionali, attività per lo svago e dove insistevano una serie di attività economiche in palese affanno.
 La proposta che avrebbe visto la realizzazione di un nuovo casello autostradale a servizio di una delle aree produttive più vivaci della Toscana, la riconversione di un’area degradata e la risistemazione idrogeologica dell’intero quadrante trovò l’opposizione del comune di Firenze (Renzi sindaco) perché afflitta dalla maledizione del 50019 (il cap di Sesto Fiorentino): nessuna funzione pregiata doveva essere fatto al di fuori dell’asfittico e congestionato confine del capoluogo. 
La Piana, nei desideri di Renzi, ma anche di Rossi, doveva essere il contenitore delle cose brutte: impianti per i rifiuti, grande viabilità, centri commerciali, ecc. Tant’è che si è preferito far sviluppare con risorse pubbliche un aeroporto privato a spese dell’espansione del Polo Scientifico dell’Università di Firenze. 
Dimenticavo: la famiglia Della Valle da gran signori quali sono manco rispose “no grazie”.

La cronaca di questi anni ci racconta della volontà di insediare il nuovo stadio in uno dei quartieri più popolosi di Firenze, con una viabilità congestionata e un antico problema nella ricerca della sosta di superficie. Per fare il nuovo stadio dunque si devono trasferire i Mercati Ortofrutticoli di Firenze. Vi domanderete dove, pensando sicuramente che quell’attività che non richiama televisione e trasmissioni via satellite dei sindaci in tribuna, potesse essere decentrata in un’area produttiva limitrofa a Firenze, un’area industriale dismessa dello sprawl urbano fiorentino. Giammai! Perdere l’ICI di questa grande impresa sarebbe un problema, poco importa se ci saranno problemi di viabilità e d’ambiente, l’importante è che tutto rimanga nella firenzina bella e dorata. Quella con il cap 50100.


Quale sarà dunque l’incastro? 
E qui viene il bello. Qualche lettore più anziano si ricorderà la querelle “Fiat-Fondiaria” della fine degli anni '80 con la famosa frase “sentivo puzza di bruciato” di Achille Occhetto. Dopo il completo fallimento del Piano urbanistico di Castello, dopo lo sfregio della nuova Scuola Marescialli dei Carabinieri, l’area, funestata da numerose inchieste giudiziarie è recentemente passata di mano da Fondiaria al gruppo Unipol. 
L’area libera più grande di Firenze quindi, nell’intenzione dei nuovi urbanisti fiorentini (quelli del cemento zero) vedrà una parte occupata da una nuova ed inutile pista aeroportuale per la delizia dei banchieri e dei turisti danarosi e poi il trasferimento (c’è uno scontro tra comune di Firenze e Unipol sul prezzo) delle attività di logistica distributiva di frutta e verdura. Sicuramente nessuna crescita “smart”.
 Il comune di Firenze dovrà comprare e trasferire le attività delle aziende che operano attualmente dentro l’attuale mercato ortofrutticolo mentre il gande Diego comprerà (suppongo) l’area di Novoli per farci stadio, centro commerciale e quant’altro necessario per tenere in piedi economicamente un’operazione di puro lucro privato.

Tutto al contrario di come si dovrebbe fare.
 Vuoi fare lo stadio? Trovati e compra un’area compatibile con il Piano Strutturale, trasferisci le attività, compra l’area e costruisci. Il tutto a spese tue. Il tutto dentro un progetto di sviluppo del quadrante Nord Ovest di Firenze insieme ai comuni confinanti (Sesto Fiorentino e Campi Bisenzio) ma anche con la vicina Prato. Ma di piani strutturali di area o di piani di sviluppo regionale degni di questo nome neppure l’ombra.Ho richiamato tutto questo per riportare sulla terra il dibattito sulla scissione del Pd e sulla costruzione di una sinistra nuova, sia essa di Fratoianni, di Pisapia o di Emiliano.Il mondo è cambiato. Crisi economica e demografica, riscaldamento globale, finanziarizzaione del capitalismo, falsa austerità hanno messo in ginocchio l’occidente ed in particolare i paesi più deboli come l’Italia.Sarà possibile anche solo pensare ad una sinistra nuova, moderna, popolare che abbia compreso la lezione?Sarà possibile rompere con il renzismo senza invertire nessuna delle politiche che ce l’hanno regalato? 
Di questo mi piacerebbe parlare.

Riferimenti

Sullo stadio di Firenze, vedi in eddyburg, l'articolo di Ilaria Agostini Prima lo stadio poi l'urbanistica. Numerosi articoli sullo stadio a Roma vedi nella cartella Roma

Un'intelligente sintesi del pensiero di David Harvey, premessa a una stimolante visione poliedrica della condizione urbana nel capitalismo del XXI secolo. casadellacultura online, ciclo "città bene comune, febbraio, 2017 (c.m.c.)

L'agile volume di David Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città, riedito per tipi di Ombre corte nel 2016 (I ed. 2012), raccoglie in centoventiquattro pagine tre articoli e un'intervista all'autore già pubblicati in inglese su altrettante riviste. Nel primo, Il diritto alla città, è chiarito e analizzato il senso di tale diritto in quanto "collettivo". Il secondo, La visione di Henri Lefebvre, è un breve saggio sull'ormai classico testo, Il diritto alla città, del filosofo marxista francese, uscito per la prima volta a Parigi nel 1969 e rieditato in italiano nel 2014 da Ombre corte. Il terzo, Le radici urbane delle crisi finanziarie. Restituire la città alla lotta anticapitalista, è un saggio dove l'autore ripropone in breve, e in relazione alle crisi finanziarie come quella recente, le tesi, strutturate e sviluppate in altri suoi libri, sulla relazione tra la necessità di assorbimento della sovraccumulazione di capitale e l'urbanizzazione, che pone la "città" - la parola è usata da Harvey per il suo valore iconico - come luogo centrale delle lotte anticapitaliste (dunque non più solo la fabbrica come nelle teorie marxiste tradizionali). Chiude il libro l'intervista, che verte, appunto, sulle possibilità di una Rivoluzione urbana.

Le tesi di Harvey

Il primo articolo funge da introduzione. È utile soffermarvisi perché fornisce, in modo abbastanza semplice e chiaro, la chiave interpretativa dell'intero sviluppo discorsivo. Constatata la centralità del tema dei diritti umani nell'attuale dibattito etico e politico, Harvey distingue quelli - dominanti nel nostro tempo - basati sull'individualismo, proprietà privata e ricerca del profitto, da quelli "collettivi" (lavoratori, donne, gay, minoranze etniche e così via), per porre al centro dell'attenzione tra questi ultimi il diritto alla città, che in qualche modo sembra implicitamente unificare gli altri.

È così già lasciata emergere una delle contraddizioni del capitalismo, ossia un'opposizione cosciente di diritti e di conseguenza una lotta, perché solo lo scontro pratico può deciderne la gerarchia. Si tratta - come ricorda Harvey - di un concetto centrale nel pensiero di Marx in vari luoghi della sua pubblicistica. Ma anche, possiamo aggiungere, riassunto con più rigorosa coerenza in questo aforisma di Nietzsche: «il diritto è la volontà di rendere eterno un rapporto di potenza momentaneo», ossia qualsiasi diritto ottenga da un determinato scontro di potere una qualche supremazia, questa sarà sempre contingente.

Rivendicare il diritto alla città «significa rivendicare una forma di potere decisionale sui processi di urbanizzazione e sul modo in cui le nostre città sono costruite e ricostruite» [pp. 9-10]. Fin dalle origini le città sono concentrazione geografica e sociale "di un surplus produttivo". Perciò, ne deduce Harvey, «l'urbanizzazione è sempre stata in qualche modo un fenomeno di classe, dal momento che tale surplus si è sempre dovuto ricavare da qualche parte e da qualcuno, mentre il controllo del suo uso è sempre rimasto nelle mani di pochi» [p. 10].

E anche oggi è così, ma con una differenza peculiare. Il capitalismo è continua ricerca del profitto. I capitalisti, realizzatolo, si trovano di fronte a un "dilemma faustiano": "reinvestire" il profitto "per guadagnare ancora più denaro" o impiegarlo "in spese voluttuarie".

«Le dure leggi della concorrenza - dice Harvey - li obbligano a reinvestire, perché, se qualcuno decide di non farlo, ci sarà sicuramente qualcun altro che lo farà al suo post» [p. 10]. Di qui una crescita tendenzialmente esponenziale di plusvalore e la conseguente «perenne ricerca di territori favorevoli alla produzione e all'assorbimento delle eccedenze di capitale» [p. 11]. Il processo continuo di accumulazione è così descritto nella sua essenza. Il capitalista deve affrontare una serie di ostacoli: trovare "nuovi mezzi di produzione" e "nuove risorse naturali", incrementando la pressione sull'ambiente.

La concorrenza tra capitalisti fa sì «che vengano continuamente messe in azione nuove tecnologie e forme organizzative»; perché solo coloro che possiedono "una produttività più elevata" riescono a prevalere. Ma, eccoci al punto. Quando uno di questi "ostacoli alla circolazione e all'espansione del capitale" si rivela insuperabile, "l'accumulazione stagnerà o cesserà, il capitale si svaluterà (o andrà perso)" [p. 11] e il capitalismo dovrà affrontare una crisi. «In che modo dunque - scrive Harvey - l'urbanizzazione permette al capitale di superare tali ostacoli e di allargare il terreno per svolgere un'attività remunerativa? La mia ipotesi - afferma - è che l'urbanizzazione svolga un ruolo particolarmente attivo (insieme ad altri fenomeni, come le spese militari) nell'assorbire l'eccedenza prodotta dalla continua ricerca di plusvalore» [p. 12]. Segue una interessante serie di esempi storicamente determinati di processi di crisi e di impiego delle eccedenze di capitale nell'urbanizzazione a partire dal caso della Parigi di Haussmann fino all'enorme crescita urbana nei paesi emergenti del nostro tempo.

Ed ecco infine quel che Harvey ne deduce: «l'urbanizzazione ha svolto un ruolo cruciale nell'assorbimento delle eccedenze di capitale, agendo su una scala geografica sempre più ampia, ma al prezzo di processi di distruzione creativa che hanno espropriato le masse urbane di qualunque diritto alla città. Questo meccanismo - prosegue l'autore - sfocia periodicamente in rivolte, come quella degli espropriati di Parigi del 1871 che cercavano di riprendersi la città che avevano perso. I movimenti sociali urbani del 1968, da Parigi a Bangkok, a Città del Messico e Chicago, hanno analogamente cercato di definire un sistema di vita urbano diverso da quello imposto dai costruttori capitalisti e dallo Stato» [p. 34].

A seconda di come è interpretato il pensiero di Marx, si può ritenere che il capitalismo sia destinato a perire sotto il peso delle sue intime contraddizioni e a dar luogo, in senso deterministico, a una società senza classi. Oppure ritenere che ciò non è detto che accada, se non c'è un intervento rivoluzionario che faccia leva sulle contraddizioni, dando loro la soluzione voluta dagli sfruttati. Queste sono appunto opposizioni coscienti di classe, da intendersi oggi non più solo nella visione ristretta di un tempo, lavoratori di fabbrica e capitale, ma nel senso più ampio che investe ogni forma di produzione e riproduzione del capitale e dunque di spoliazione di sempre più vasti strati sociali urbani.

Harvey propende esplicitamente per quest'ultima interpretazione come viene in chiaro in tutti i suoi scritti, tra questi a esempio Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo (2014), dove ribadisce (autocitandosi da L'enigma del capitale): «Il capitalismo non cadrà mai da solo: dovrà essere spintonato […]. La classe capitalista non cederà mai volontariamente il potere; dovrà essere espropriata […]. Ci vorranno ovviamente un forte movimento politico e moltissimo impegno individuale».

Si pone tuttavia l'annoso problema di come condurre a unità le ribellioni che gli effetti negativi del capitalismo continuamente provocano nei diversi luoghi e nei diversi momenti dei suoi cicli di espansione e crisi. I numerosi e vari movimenti urbani esplodono, separati gli uni dagli altri, e si spengono.

Ed ecco l'ipotesi di Harvey variamente espressa anche in altri luoghi e nell'articolo in esame ribadita: «Ma se questi vari movimenti di opposizione dovessero in qualche modo incontrarsi e coalizzandosi, ad esempio, sulla parola d'ordine del diritto alla città, che cosa dovrebbero chiedere? La risposta è piuttosto semplice: un maggiore controllo democratico sulla produzione e sull'uso dell'eccedenza.Dal momento che il processo urbano ne rappresenta un importante canale di assorbimento, il diritto alla città si costituisce con l'instaurazione di un controllo democratico sulla distribuzione di tale eccedenza attraverso l'urbanizzazione. Avere un surplus di produzione non è un male: anzi, in molte situazioni è decisivo per una sopravvivenza accettabile […]. L'aumento della quota di surplus sotto il controllo dell'apparato statale funziona solo qualora lo Stato verrà riformato e riportato sotto il controllo democratico popolare» [pp. 35-36].

Harvey, nel capitolo successivo, vede nel pensiero di Lefebvre interessanti anticipazioni: «Il nostro compito politico, suggerisce Lefebvre, è immaginare e ricostruire un tipo completamente diverso di città, lontano da questo immondo bazar creato da un capitale che globalizza e urbanizza in modo sfrenato. Ma ciò non potrà accadere senza la creazione di un vigoroso movimento anticapitalista che abbia come proprio obiettivo la trasformazione della vita quotidiana nella città» [p. 50]. La teoria di un movimento rivoluzionario di Lefebvre consiste nel «convergere spontaneo in un movimento di "irruzione", quando gruppi eterotopici vedono all'improvviso, anche solo per un attimo, la possibilità di una azione collettiva per creare qualcosa di radicalmente diverso» [p. 51].

Ma «Lefebvre - mette in evidenza Harvey - era fin troppo consapevole della forza e del potere delle pratiche dominanti per non riconoscere che il compito ultimo richiedesse di sradicare tali pratiche attraverso un più ampio movimento rivoluzionario. […]. Rivendicare il diritto alla città è una tappa verso questo obiettivo. Non può mai essere un fine in sé, anche se appare in modo sempre più crescente come uno dei percorsi più propizi da seguire» [p. 52].

L'analisi che segue nel terzo capitolo sfrutta e aggiorna, per porla al centro della forma odierna del capitalismo, quella di Marx sul "capitale fittizio", avendo di fronte, tra l'altro, la crisi attuale scatenata dalla "bolla immobiliare". L'intento è di chiarire «come circolazione di capitale produttivo e fittizio si combinino all'interno del sistema del credito dei mercati immobiliari» [p. 74].

La sopravvivenza del settore edilizio «presuppone […] che possa non solo essere prodotto ma anche realizzato sul mercato. È qui che entra in gioco il capitale fittizio. Il denaro è prestato ad acquirenti che si presume abbiano la capacità di restituirlo con le loro entrate (salari e profitti). In questo modo il sistema finanziario disciplina in misura considerevole sia l'offerta che la domanda di abitazioni […].La stessa società finanziaria spesso può fornire finanziamenti sia per costruire sia per comprare ciò che era stato costruito» [p. 75].

«Ma […] mentre banchieri, immobiliaristi e imprese di costruzione si uniscono facilmente per stringere un'alleanza di classe […], i mutui dei consumatori sono individuali e divisi […]» [p. 75]. «I marxisti hanno tradizionalmente relegato queste forme di sfruttamento, e le lotte di classe […] che inevitabilmente ne nascono, ai margini della loro riflessione teorica e delle loro scelte politiche […]. Quel che voglio qui sostenere - afferma Harvey - è che invece tali forme costituiscono, almeno nelle società a capitalismo avanzato, un vasto terreno di accumulazione ottenuto con l'esproprio [più appropriato è il termine "spoliazione" n.d.r.], attraverso il quale il denaro è risucchiato nel flusso di capitale fittizio per sostenere le grandi fortune create all'interno del sistema finanziario» [p. 82].

Una delle affermazioni significative di Harvey nell'intervista che chiude il volume è la seguente: «L'urbanizzazione è essa stessa un prodotto» [p. 98] e «Il diritto alla città non è un diritto esclusivo, ma un diritto mirato. Include non solo i lavoratori edili ma anche tutti coloro che facilitano il riprodursi della vita quotidiana: badanti, insegnanti, addetti alle fognature e alla metropolitana, idraulici ed elettricisti, lavoratori ospedalieri e conduttori di camion, autobus e taxi, lavoratori dei ristoranti e intrattenitori, impiegati di banca e amministratori pubblici. È una ricerca di unità all'interno di un'incredibile varietà di spazi sociali frammentati […]. Questa è - secondo Harvey - la forza proletaria che deve essere organizzata se si vuole cambiare il mondo […]. I produttori urbani devono sollevarsi e rivendicare il loro diritto alla città che collettivamente producono» [p. 106].

Alcune considerazioni

Da almeno due secoli si confrontano riflessioni sul capitalismo e sui suoi esiti. Le principali sono raggruppabili in due poli dell'economia politica: le teorie liberali e quelle socialiste più o meno marxiste. La dimensione filosofica resta sullo sfondo e per lo più in ombra. Ma, in specie Karl Marx, è innanzitutto filosofo. Non solo, senza aver presente il senso dello strutturarsi e coerentizzarsi del pensiero filosofico è difficile venir a capo dello spazio concettuale in cui si muovono e da cui sono condizionati pensiero e agire del nostro tempo.

Lo scontro teorico e pratico tra le varie forme di liberalesimo più o meno a sostegno del capitalismo e le varie forme di socialismo più o meno contro il capitalismo è tra due opposte basi etiche sulle quali poggiare la società. Scontro che peraltro vede ancora in campo grandi etiche di più antica formazione, quali Cristianesimo e Islam. E nel clima di liberazione dalle tradizioni, oltre alle varie declinazioni della democrazia, si è creato lo spazio per il proliferare di proposte etiche differenti anche da quelle più recenti. Ciò è indizio che il coerentizzarsi del pensiero filosofico ha condotto negli ultimi due secoli alla consapevolezza che nessuna etica ha fondamento incontrovertibile: nessuna ha verità nel senso forte della tradizione.

Il pensiero di Marx è uno dei contributi significativi - ma non definitivo - in questa direzione. Quando a esempio - come cita più volte Harvey - afferma che "fra diritti uguali decide la forza". Nella forma più generale il concetto è espresso nella seconda Tesi su Feuerbach: «La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teoretica, ma pratica. È nella prassi che l'uomo deve dimostrare la verità […]». In base a questo principio - si noti per inciso - il "socialismo reale", stando all'esito della sua più grandiosa sperimentazione, quella sovietica, risulta storicamente una verità smentita, avendo perso lo scontro pratico col suo nemico mortale. E, a un tempo, quello stesso principio ci dice che la (apparente) vittoria del capitalismo non è verità, se non nella più assoluta contingenza storica.

Ecco, la verità nel nostro tempo è il divenire delle cose quale totalità della realtà e la conseguente impossibilità di qualsiasi immutabile a suo dominio. Il che implica la completa disponibilità delle cose alla costruzione e distruzione: l'assoluta libertà di creare e distruggere, dunque anche di rifare da capo il mondo, come, a esempio, vogliono le rivoluzioni o le utopie; e come pure opera, a scopo di profitto, la "distruzione creativa" del capitale.

Indizi se ne trovano nello stesso pensiero di Harvey laddove, a esempio, afferma «Non esiste […] una risposta non contraddittoria a una contraddizione» (Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo). Questo l'esito, in forma succinta, della coerentizzazione del pensiero filosofico greco emersa negli ultimi due secoli di speculazione. Tuttavia è ancora raro incontrare chi ne trae fino in fondo le conseguenze. Forse perché, oltre che irritanti sul piano etico e politico, possono risultare anche psicologicamente spaventose.

Guadagnata una relativa consapevolezza che nessuna etica può aver fondamento non smentibile, si è di fronte a una pluralità di etiche in conflitto, ciascuna determinata dal proprio scopo primario: salvezza dell'anima nelle diverse religioni, profitto, molteplici sensi del "bene comune" (democrazie, socialismi, liberalesimi e così via). A differenza del passato, vi è consapevolezza che determinante nello sconto non è la supposta verità dell'etica, da farsi valere solo in forza dell'argomentazione tesa a mostrarne incontrovertibilmente il fondamento, ma la capacità pratica di prevalere sulle avversarie, in modo tale che lo scopo primario dell'una domini i fini delle altre.

Il dominio si realizza riducendo i fini delle altre a mezzi di perseguimento dello scopo vincente. Ma stante tale logica, è impossibile che la contesa abbia fine, se non contingente. Nella nostra contingenza è per lo più dominante il capitalismo, ossia quell'agire individuale e sociale il cui scopo primario è il profitto. Di qui la riduzione a denaro, a valore venale, di ogni altro valore d'uso e godimento di qualsiasi bene materiale e immateriale. Ogni altro valore è subordinato a quello di scambio. Ogni altro fine è mezzo di perseguimento dell'accumulazione di denaro.

Ma è proprio il caso del capitalismo a rivelare, in modo ben poco equivocabile, quale sia la logica del rapporto mezzo fine. Il denaro è un potente mezzo di scambio delle merci, ossia la più rilevante tecnica economica. Il capitalismo è il rovesciamento del mezzo in scopo. Un rovesciamento, logicamente necessario, proprio perché è potenza di realizzazione di quello scopo costituito dalla volontà di scambiare le merci. Marx nel Capitale rappresenta tale rovesciamento contrapponendo due formule, dove M sta per merce e D per denaro: M-D-M, la merce è venduta in cambio di denaro allo scopo di acquistare un'altra merce, e D-M-D, la merce è acquistata col denaro allo scopo di rivenderla in cambio di una maggior somma di denaro. In tal modo il capitalista acquista potenza sul mercato rispetto a chi ha solo scambiato merci a mezzo di denaro e non denaro a mezzo di merci.

La storia, letta in questa chiave, potrebbe mostrare una lunga serie di rovesciamenti del mezzo in scopo, ben al di là del caso del denaro. In generale, posto uno scopo, che in quanto è ciò che si ha in mente di realizzare è sempre ideologico, si ha necessità di individuare, possedere e ordinare i mezzi per perseguirlo. La connessione calcolata, secondo differenti razionalità, dei mezzi al fine si chiama "tecnica". Nelle diverse epoche e culture la tecnica ha assunto varie configurazioni a seconda del senso del mondo e del tipo di razionalità che guidava l'esistenza individuale e sociale: mitologica, metafisico teologica e, nel nostro tempo, scientifico tecnologica. La tecnica è, tradizionalmente e tuttora, posta quale mezzo per perseguire scopi.

Ma così come (e lo si è visto anche leggendo Harvey) la concorrenza tra capitalisti costringe ciascuno a reinvestire il profitto (declassandolo tendenzialmente da scopo a mezzo) nell'accrescimento della produttività (potenziamento dei mezzi di produzione e realizzazione del profitto: nuove tecnologie, nuove organizzazioni del lavoro, nuove configurazioni delle leggi e delle politiche economiche, nuovi modi di governo e così via), il conflitto tra i differenti scopi posti come primari dalle diverse etiche - e tra queste e il capitalismo stesso - costringono ognuna di esse ad assumere quale scopo il potenziamento del mezzo per prevalere nello scontro pratico con le altre. È questo l'autentico "dilemma faustiano", come lo chiama Harvey, ma che non sta in relazione solo alla concorrenza tra capitalisti.

È così che si spiega il crollo, a esempio, dell'Unione Sovietica. Lo scontro pratico tra i due paesi egemoni, gli USA del capitalismo e l'URSS del comunismo, li ha condotti a potenziare, in linea di principio indefinitamente, i loro rispettivi armamenti nucleari, insieme alla scienza e la tecnologia necessarie. I Sovietici a un certo punto (in specie dopo il lancio da parte di Reagan del progetto di "scudo spaziale" o "guerre stellari") si sono resi conto che tener fermo lo scopo del comunismo avrebbe indebolito il mezzo: l'uso logora il mezzo e lo scopo è un limite al potenziamento che lo scontro pratico con lo scopo avverso continuamente richiede.

Mantenere fermo lo scopo del comunismo significava essere perdenti, continuare a potenziare il mezzo implicava lasciar tramontare lo scopo. Il dilemma faustiano, cui è destinata qualsiasi volontà etica, è stato sciolto a favore del potenziamento del mezzo.

La Russia, non più comunista, è tuttora la seconda potenza militare del mondo. Insieme agli USA detiene circa il 95% degli armamenti nucleari coi quali è possibile distruggere il mondo, rendendo improbabile una terza guerra mondiale.

Se si volge lo sguardo all'insieme dell'apparato scientifico tecnologico del nostro tempo, tenendo presente la logica del rapporto mezzo scopo sopra succintamente esposta, allora ci si può rendere conto che la tendenza che viene a determinarsi, per effetto dell'azione delle differenti etiche in conflitto, è il continuo potenziamento della capacità della tecnica nel suo complesso di realizzare scopi: qualsiasi scopo di qualsiasi orientamento etico. Il che implica che questa crescita della potenza toglie a ogni scopo etico posto come primario la pretesa di escludere gli altri e dunque la sua supposta primarietà.

In altri termini e per concludere, ciò che Harvey sembra non considerare è che spesso più che le differenti etiche a cui comunemente guardiamo e con cui spieghiamo la realtà che ci circonda è la potenza della tecnica a dominare (1). Anche lo spazio urbano. È con questo che dovremmo misurarci, qualsiasi sia la nostra idea di città e di società.

Note

(1) Rigorose speculazioni, tra le più profonde e coerenti, intorno alla tecnica, in specie alla logica del rapporto mezzo scopo, si trovano in alcuni dei numerosi scritti di Emanuele Severino, quali a esempio: Gli abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica (1978); Téchne. Le radici della violenza (1979); La tendenza fondamentale del nostro tempo (1988); Il declino del capitalismo (1993); Il destino della tecnica (1998); Tecnica e architettura (2003); Capitalismo senza futuro (2012); e (con Natalino Irti) Dialogo su diritto e tecnica (2001).

Ogni periodo della vita delle città nel capitalismo ha l'evento che traina la devastazione della città. Nei nostri anni tocca agli stadi. Anche a Firenze. Chi organizzerà un giro d'Italia? il Fatto Quotidiano, blog "Alle porte coi sassi", 14 febbraio 2017

Un nuovo stadio. E a fianco una Cittadella Viola che fa gonfiare volumetrie e proventi. Metri cubi da costruire in project financing nei pressi dell’aeroporto in espansione (quello di Carrai e Eurnekian) che, a sua volta, scalza una vecchia lottizzazione oggi in mano alla Unipol. In un clima di land grabbing all’argentina. Tutto, o quasi, fuori dalla pianificazione generale.

Vediamo meglio.Un nuovo stadio. E a fianco una Cittadella Viola che fa gonfiare volumetrie e proventi. Metri cubi da costruire in project financing nei pressi dell’aeroporto in espansione (quello di Carrai e Eurnekian) che, a sua volta, scalza una vecchia lottizzazione oggi in mano alla Unipol. In un clima di land grabbing all’argentina. Tutto, o quasi, fuori dalla pianificazione generale.

Vediamo meglio.

Il nuovo stadio è una trottola che gira tra cantieri e progetti evanescenti alla periferia occidentale del capoluogo toscano. Nel 2008 si diceva della sua costruzione nel “parco di Castello”, ottanta ettari di verde quale compensazione al progettato milione e 200.000 metri cubi di nuove costruzioni, allora intestato a Ligresti. Lo stesso parco che così, senza giri di parole, il sindaco Domenici chiosava: «mi fa cacare da sempre». Traduzione: in quell’area (paludosa) non ci vuole andare nessuno. Cosa di meglio allora di uno stadio con una corona di edifici speculativi? Spunta l’idea della Cittadella Viola: parcheggi, centro commerciale, hotel, museo dello sport. Più un parco a tema, tutto con firma d’autore. Un’altra nuvola di Fuksas.

Con la Magistratura in azione a Castello, sul progetto dello stadio è reputato opportuno mettere la sordina. Ma solo per poco.

La giunta Renzi, in Palazzo Vecchio dal 2009, non rinuncia ai metri cubi dello stadio e del suo corredo, che, nelle parole del sindaco, continua a rappresentare una «ghiotta opportunità per il territorio». Lo stesso sindaco che abbagliò l’Italia con un PRG “a volumi zero”, nei quali volumi zero, a mo’ di magico cilindro, si nascondeva (anche) la «Disneyland del calcio» di Della Valle, patròn viola.

La trottola continua a girare. Il Piano Strutturale Comunale (PS) arranca nel cartografarne i movimenti, registrati ex post da una variante (2012) al vecchio, ma vigente, PRG. Anziché dettare regole certe, il successivo Regolamento Urbanistico Comunale (2014) conterrà indicazioni flessibili alle occasioni di mercato, che si susseguono.

Quando si staglia sulla scena, nitido, il “pasticciaccio brutto” del nuovo aeroporto di Firenze, la limitrofa lottizzazione di Castello – quella di Ligresti, poi Unipol – è in parte sacrificata all’aviazione. Saltano metri cubi ed ettari edificabili. (Oggi, dalla stampa trapela che ai bolognesi di via Stalingrado, proprietari dei futuri volumi, potrebbe succedere Eurnekian, imprenditore dei due mondi. Che, in tal modo, sbancherebbe.)

La progettata pista dell’aeroporto richiede spazio: lo stadio deve spostarsi. Si pensa subito alla vicina area della Mercafir (cfr. variante al PRG 2012). Colpito dal giro di trottola, il Mercato Ortofrutticolo relegato dalla variante in un cantuccio dello stesso comparto, ora schizza a ovest, fuori dalle previsioni di PS e RU: la scelta oscilla tra Quaracchi e l’Osmannoro, poi – per ristabilire un opportuno equilibrio con quanto tolto – si orienta su Castello. Tutto a spese del pubblico, mentre il Comune, nel bilancio preventivo appena approvato, elemosina spiccioli con la vendita di ville rinascimentali e case popolari. Si dice che (in cambio dell’area Mercafir, tutta intera) Della Valle paghi il terreno del nuovo mercato ortofrutticolo.

Nel marzo 2016 Nardella, da Londra, parlava di un «investimento privato di interesse pubblico» ancora comprensivo di cittadella. A fine dicembre il progetto della Fiorentina Calcio ne ridimensiona i volumi accessori. La Cittadella viola, ancorché ridotta, non perde il carattere di core business, come avvertono anche i tifosi.

Se il quadro resta quello descritto, Firenze avrà uno stadio «modello Bordeaux», un potente edificio alto circa 40 metri, visivamente interposto tra le ville medicee di collina e la cupola del Duomo. Per conferire conformità urbanistica al progetto, è allo studio una variante al Piano Strutturale. Prima lo stadio, poi l’urbanistica. Come a Roma.

I tre firmatari di questo documento hanno colto l’occasione dell’ampio dibattito provocato dalla querelle relativa allo stadio della Roma per affrontare un argomenti di portata più vasta. Lo pubblichiamo nella speranza che sia utile a sviluppare un dibattito sul modo migliore per combattere il modello neoliberistico di governo del territorio

NOI URBANISTI CI IMPEGNIAMO…

Quanto sta accadendo a Roma - il caso della realizzazione del nuovo stadio – evidenzia in modo eclatante come l’urbanistica sia ormai relegata, dall’ideologia neoliberista dominante da tempo, a un ruolo subalterno e quindi miseramente perdente, rispetto alla centralità che un tempo possedeva nella progettualità riformista.

Basti pensare ad Adriano Olivetti presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, a Carlo Doglio che sperimenta in prima persona in Sicilia la ‘pianificazione della libertà’, alle conquiste sociali degli anni ’60 e ’70 in tema di standard collettivi, alla lunga marcia per separare diritto di proprietà e diritto di edificazione, al dibattito sul ruolo dell’urbanistica e della pianificazione del territorio rispetto ai mezzi e ai fini della programmazione economica, alla più recente acquisizione di come le scelte urbanistiche debbano necessariamente far propri i limiti ambientali del contesto in cui intervengono.

Di questa nobile tradizione disciplinare oggi restano soltanto poche tracce nei generosi quanto politicamente marginali appelli lanciati in rete da gruppi di intellettuali sempre più minoritari.

Ciò chiama in causa i partiti e i “movimenti”, che hanno allegramente ridotto, quando non liquidato, le questioni urbanistiche dai propri programmi, ma anche l’intera comunità degli urbanisti, troppo spesso proni a legittimare questa deriva e a rovesciare il loro ruolo a facilitatori degli interessi immobiliari.

Al centro della questione – emblematico il caso di Roma - l’interpretazione di ciò che è “pubblico interesse”. Lo stadio, se visto dal punto di vista della tradizione romana panem et circenses, potrebbe essere considerato opera di pubblico interesse, e in quanto tale è previsto dalla legge 147/2013. Ciò che viene legittimato dal Comune di Roma con la delibera 132/2014 è invece la qualifica di "pubblico interesse" per un progetto che comprende un milione di metri cubi con destinazione prevalente a uffici per ospitare multinazionali e attività commerciali, secondo il progetto presentato dai proprietari/costruttori, alla realizzazione del quale viene subordinata la costruzione compensatoria di alcune opere pubbliche per la città.

L’interpretazione del “pubblico interesse” vede quindi il “pubblico” affidato agli “interessi” finanziari dei proprietari fondiari, dei costruttori, delle banche creditrici, pronti a mettere in campo tutte le relazioni e i poteri di cui dispongono per assicurarsi la legittimazione “pubblica” dei loro profitti. E’ un copione che tende a ripetersi in molti luoghi, indipendentemente da chi governa le città e le regioni. Pratiche in controtendenza, da parte di singoli assessori, sono estremamente faticose e non riescono comunque a cambiare il contesto delle decisioni, rispetto alle quali prevalgono le mediazioni dei sindaci, dei presidenti e dei consiglieri eletti. Né il tentativo generoso di limitare i danni, con un corpo a corpo negoziale sui singoli progetti, riesce a restituire priorità effettiva agli interessi collettivi nelle trasformazioni della città e del territorio.

L’abbandono di ogni prospettiva seriamente riformatrice in materia di governo del territorio da parte delle maggioranze elette che governano le nostre città e i nostri territori contribuisce a rendere ancora più esasperata la disuguaglianza tra chi riesce tuttora a privatizzare i benefici delle decisioni pubbliche e chi – il popolo delle periferie -, assiste impotente a trasformazioni che non modificano affatto le sue condizioni di indigenza, privazione e marginalità. Una città può accrescere la propria ricchezza contemporaneamente al crescere della povertà e miseria di gran parte dei suoi abitanti.

Le politiche europee da un lato costringono le amministrazioni a svolgere un puro ruolo di ragioneria contabile, privatizzando anche le aziende municipalizzate sane e tagliando le spese per i servizi collettivi, esito di tante lotte e conquiste sociali, dall’altro sostengono la ricerca verso obiettivi effimeri come le smart city, l’uso di tecnologie che deresponsabilizzano gli abitanti, la ricerca di “successo” competitivo, piegando a ciò la stessa ricerca universitaria.

Mentre masse di cittadini già impoveriti vedono peggiorare le loro condizioni di vita giorno dopo giorno, tutti (o quasi) i governi locali subiscono il fascino delle grandi opere e dei grandi eventi, cavalli di troia per speculazioni, tangenti e scambi di favori proposti come ricetta magica.

Anna Marson, Enzo Scandurra, Edoardo Salzano


P.S
Questo articolo è stato ripreso dai siti Officina dei saperi e Società dei territoriliste/i, dove si possono inviare adesioni

Un bel passo verso l'apartheid sociale: i poveri (profughi e migranti, mendicanti, straccioni, ubriachi senza portafoglio, "indecorosi") possono essere trattati come i forsennati delle tifoserie sportive. Articoli di Nicoletta Cottone, Adriana Pollice, Mariolina Iossa, da Il Sole24ore, il manifesto, corriere della sera, 11 febbraio 2017

Il Sole24ore
MINNITI: «DASPO URBANO
PER CHI VIOLA LE REGOLE DEI TERRITORI»
di Nicoletta Cottone

«Non ci sono nuovi reati né aggravanti di pena ma misure come la possibilità di applicare in modo più ampio quello che si applica nelle manifestazioni sportive: davanti a reiterate violenze sportive c'è il daspo, di fronte a reiterati elementi di violazione di alcune regole sul controllo del territorio le autorità possono proporre il divieto di frequentare il territorio in cui sono state violate le regole». Lo ha detto il ministro Marco Minniti illustrando il decreto sicurezza approvato in cdm. Sulla sicurezza delle città oggi «abbiamo preso decisioni di un certo rilievo», ha sottolineato il premier Paolo Gentiloni, dopo il consiglio dei ministri, spiegando che il provvedimento sulla sicurezza è stato preso d’intesa con l’Anci.

Rafforzati i poteri di ordinanza dei sindaci

Il decreto mira a realizzare un modello trasversale e integrato tra i diversi livelli di governo mediante la sottoscrizione di appositi accordi tra Stato e Regioni e l’introduzione di patti con gli enti locali. Il ministro Minniti ha ricordato che «la sicurezza urbana va intesa come un grande bene pubblico. La vivibilità, il decoro urbano e il contrasto alle illegalità sono elementi che riguardo il bene pubblico». E ha spiegato che il decreto «prevede il rafforzamento dei poteri di ordinanza dei sindaci: avranno potere autonomi e la possibilità di patti tra territori e ministero degli Interni che prima non avevano una cornice legislativa». Previste uove modalità di prevenzione e di contrasto all’insorgere di fenomeni di illegalità quali, ad esempio, lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, il commercio abusivo e l’illecita occupazione di aree pubbliche.

Più servizi di controllo sul territorio

Il decreto prevede forme di cooperazione rafforzata tra i prefetti e i Comuni con l’obiettivo di incrementare i servizi di controllo del territorio e promuovere la sua valorizzazione. Il nuovo decreto «è stato ampiamente discusso, meditato, voluto» dall'Anci e dalla conferenza delle Regioni con l'idea di «un grande patto strategico di alleanza tra Stato e poteri locali». In Italia, ha detto il ministro, il modello sicurezza funziona, «non c’è emergenza ma bisogna stabilire che se il centro è modello nazionale si può pensare ad un modello che guardi meglio il territorio da Bolzano a da Agrigento».

Per i vandali obbligo di ripulitura dei luoghi

Con il decreto legge scatterà per i vandali l’obbligo di ripulitura e ripristino dei luoghi danneggiati, con obbligo di sostenere le spese o rimborsarle. Prevista anche una prestazione di lavoro non retribuita in favore della collettività per un tempo non superiore alla durata della pena sospesa. L’articolo 639 del codice penale già prevede che chi deturpa o imbratta cose altrui sia punito, con la multa fino a euro 103. Se il fatto è commesso su beni immobili o su mezzi di trasporto pubblici o privati, si applica la pena della reclusione da uno a sei mesi o della multa da 300 a 1.000 euro. Se il fatto è commesso su cose di interesse storico o artistico, si applica la pena della reclusione da tre mesi a un anno e della multa da 1.000 a 3.000 euro.

Nei casi di recidiva per le ipotesi di cui al secondo comma si applica la pena della reclusione da tre mesi a due anni e della multa fino a 10.000 euro.

Condanna a pulire per chi sporca la città

Nel decreto sulla sicurezza urbana c’è una «norma che prevede la pulizia e il ripristino per violazioni al decoro urbano. Il giudice, cioè, se qualcuno sporca, può condannarlo a ripristinare quello che ha sporcato: è una sfida di civiltà», ha detto il ministro Minniti.

Divieto di frequentare esercizi pubblici e aree urbane

Arriva anche la possibilità di imporre il divieto di frequentazione di determinati pubblici esercizi e aree urbane ai soggetti condannati per reati di particolare allarme sociale.

Misure per prevenire l’occupazione di immobili

Il provvedimento prevede anche misure per prevenire l’occupazione arbitrarie di immobili. Compito del prefetto impartire prescrizioni per prevenire il pericolo di turbative per l’ordine e la sicurezza pubblica e per assicurare il concorso della forza pubblica all’esecuzione di provvedimenti dell’autorità giudiziaria . (N.Co.)

il manifesto
STRETTA SULLASICUREZZA,
PIÙ POTERI AI SINDACI.
OK AL DASPO URBANO

di Adriana Pollice

Il decreto legge. Previste «misure amministrative: non ci sono nuovi reati né aggravanti di pena»Approvato ieri in Consiglio dei ministri anche il decreto legge «Misure sulla sicurezza urbana» (a firma Marco Minniti e Andrea Orlando) che dà ai sindaci più poteri in materia. La misura mostra la nuova strategia messa in campo dal ministro dell’Interno: «In Italia il modello Sicurezza funziona – ha spiegato -, non c’è emergenza ma bisogna stabilire che se il centro è modello nazionale si può pensare a un modello che guardi meglio il territorio da Bolzano ad Agrigento».

Decoro urbano, spaccio, prostituzione, commercio abusivo, occupazione di aree pubbliche, sono i punti intorno a cui ruotano gli articoli. Per i sindaci ci sarà maggiore autonomia e un rafforzamento del potere di ordinanza, forme di cooperazione maggiori tra i prefetti e i comuni, la possibilità di patti tra territori e ministero degli Interni. Il contenuto del decreto, ha spiegato Minniti, «è stato discusso, meditato, voluto dall’Anci e dalla Conferenza delle regioni con l’idea di un grande patto strategico di alleanza tra stato e poteri locali».

I comuni continuano a sopportare tagli, al Sud la disoccupazione aumenta, il governo dà più poteri in tema di sicurezza. Minniti si affretta a sottolineare che non si tratta di avere sindaci sceriffi «ma di cooperazione tra territorio e stato. Il decreto legge prevede misure di carattere amministrativo: non ci sono nuovi reati e non ci sono aggravanti di pena».

Nel dettaglio, però, il decreto legge stabilisce ad esempio multe tra 300 e 900 euro ma anche il daspo da determinate aree (non superiore a 48 ore ma può essere reiterato) per chi ha una condanna confermata in appello, ma anche per chi compie atti lesivi del decoro urbano, della libera accessibilità e fruizione a infrastrutture del trasporto pubblico, per chi violi i divieti di stazionamento o di occupazione di spazi o assuma alcol e droghe, eserciti la prostituzione «con modalità ostentate». Allontanamento anche per chi svolge commercio abusivo e accattonaggio. Per i «vandali» scatterà l’obbligo di ripulitura e ripristino dei luoghi danneggiati, con obbligo di sostenere le spese o rimborsarle.

Chi viola le ordinanze del sindaco su vendita e somministrazione di alcolici può subire una sospensione dell’attività, per gli ambulanti sono previsti sequestro di merci e attrezzature più la confisca amministrativa. A chi è stato condannato per spaccio, anche senza sentenza passato in giudicato, può essere vietato da uno a 5 anni lo stazionamento nelle vicinanze di locali.

Con una condanna definitiva possono scattare varie sanzioni: l’obbligo di presentarsi almeno due volte a settimana alla polizia o ai carabinieri; rientrare a casa entro una determinata ora e di non uscirne prima di un’ora prefissata; divieto di allontanarsi dal comune di residenza; obbligo di comparire in un comando di polizia negli orari di entrata e uscita dalle scuole. Si tratta di disposizioni previste dai quattordici anni in su. Le multe vanno dai 10 ai 40 mila euro.

È affidato al prefetto il compito di eseguire i provvedimenti del giudice su «occupazioni arbitrarie di immobili» per prevenire il pericolo di possibili turbative per l’ordine e la sicurezza pubblica».

corriere della sera
SICUREZZA, PIÙ POTERI AI SINDACI

UN«DASPO URBANO» CONTRO I VANDALI

di Mariolina Iossa

«Sì al decreto legge. Migranti, accelera l’iter per rimpatri e richieste d’asilo. Possibile un divieto di 12 mesi che può salire fino a cinque anni per chi spaccia nei locali».

Più poteri ai sindaci per la sicurezza delle città. Il consiglio dei ministri di ieri, su proposta del ministro dell’Interno Marco Minniti, ha approvato un decreto che realizza un patto tra prefetto e sindaci per dare loro più strumenti, come i poteri di ordinanza.

In particolare è previsto che chi deturpa zone di pregio delle città non potrà più frequentarle per un periodo di 12 mesi. Un provvedimento simile al «Daspo» in vigore oggi negli stadi. Ma prima di arrivare a questo vengono introdotte sanzioni amministrative da 300 a 900 euro con l’allontanamento fino a 48 ore per chi lede il decoro urbano o la libera accessibilità o la fruizione di infrastrutture, luoghi di pregio artistico, storico e turistico, anche abusando di alcolici o droghe, esercitando la prostituzione «in modo ostentato», facendo commercio abusivo o accattonaggio molesto.

Il Daspo urbano interviene quando tali lesioni siano ripetute. Il periodo di allontanamento è di 12 mesi mentre diventa più lungo, da uno a 5 anni, per chi spaccia droga nelle discoteche e locali di intrattenimento. Al giudice invece la possibilità di disporre il ripristino o la ripulitura dei luoghi pubblici (o il risarcimento), per chi deturpa o imbratta beni immobili o mezzi di trasporto pubblici o privati. «Non diventiamo come il sindaco di New York ma almeno abbiamo una norma che ci dà poteri concreti» commenta con soddisfazione il sindaco di Bari Antonio Decaro, presidente dell’Anci, l’associazione dei Comuni.

Su rifugiati e immigrazione clandestina, il governo ha esaminato anche un altro decreto del ministro Minniti. Si prevede la riduzione dei tempi per ottenere lo status di rifugiato, attualmente di due anni, l’accelerazione dei rimpatri per chi non è in regola, il raddoppio dei fondi per i rimpatri volontari, la sostituzione dei Cie con i Cpr, centri permanenti per il rimpatrio, che dovranno essere al massimo uno per Regione e non potranno accogliere più di 1.600 persone. Infine, sì ai lavori socialmente utili non retribuiti per favorire l’integrazione. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha anche annunciato l’istituzione in 14 tribunali di sezioni specializzate sull’immigrazione.

Un disegno di legge delega della ministra Roberta Pinotti riorganizzerà le Forze Armate. Riguarderà i vertici del ministero e le relative strutture e il modello operativo. Due gli obiettivi: ridurre le risorse umane e finanziarie senza incidere sulle capacità operative e risparmiare. E integrare le varie componenti, eliminando duplicazioni, riducendo i livelli gerarchici e semplificando le procedure.

Diventa «universale», aperto a tutti i giovani che potranno anche andare all’estero e ridotto a 25 ore settimanali con programmazione triennale. Si potrà svolgere in vari settori, dall’assistenza alla protezione civile, dall’ambiente alla riquali-ficazione urbana, dal patrimo-nio artistico e culturale allo sport, all’agricoltura.

«Cosmopoli multietnica e multireligiosa, città-mondo ed economia-mondo sono i termini che usiamo per indicare ieri Venezia, oggi New York, Hong Kong o Mumbai». Doppiozero online, 19 dicembre 2016 (c.m.c.)

Da Weber e Simmel a Saskia Sassen, la città è cosmopoli, riunisce e ‘ordina’ (kosmos) individui diversi per estrazione sociale e provenienza geografica, non tutti cittadini però – la città da sempre ospita molte figure intermedie e provvisorie, spurie. Molto più degli Stati che confinano ed espellono, le città sono luoghi di mescolanze e ibridi, con tutti i significati e i valori che ciò porta al processo di civilizzazione. Come quest’ antico lascito sia tuttora vitale è un aspetto non trascurabile della nostra visione del mondo.

1. Ieri

Venezia, come dimostra il materiale iconografico raccolto in “Venezia, gli Ebrei e l’Europa 1516-2016” a cura di Donatella Calabi ed esposto in mostra al Palazzo Ducale di Venezia, è il luogo simbolico di una sorprendente pagina di storia del cosmopolitismo europeo. Ci si aspetterebbe che la formazione nel 1516 del primo ghetto d’Europa fosse processo di chiusura, persecuzione di minoranze religiose e prototipo di ogni futura segregazione. E invece la città ha lì sperimentato, in un’epoca di espulsioni e forzate conversioni, di crociate e di stermini a sfondo religioso guidati dall’Occidente, un mix di convivenza etnica e religiosa che prepara la moderna cosmopoli: forse unica Utopia del nostro tempo segnato da nuove linee di frattura.

La ragnatela delle persecuzioni antiebraiche nei due secoli che precedettero il ghetto veneziano, dalla Spagna e Portogallo alla Francia agli staterelli di ciò che restava del Sacro Romano Impero germanico, rende ancora più forte ed ‘eccentrica’ la scelta della Repubblica veneziana di ospitare, certo circoscrivendoli in uno spazio controllato, gli Ebrei in città.

Già essi erano internamente articolati (italiani tedeschi levantini portoghesi) e parlavano lingue e praticavano riti diversi, come testimoniano le diverse sinagoghe (italiana, spagnola, levantina). Ma l’intera città era un mosaico di comunità straniere, ospitate e circoscritte: albanesi, greci ortodossi, turchi, arabi, persiani, tedeschi. Ne rintracciamo ancora i segni nel tessuto urbano.
‘Zone naturali’, simili a quelle che a Chicago saranno create nell’immigrazione del Novecento colorandosi di italiani, polacchi, irlandesi, ebrei (cui il sociologo Louis Wirth dedica nel 1928 “The Ghetto”, storia della comunità ebraica che nella metropoli si auto-seclude e quando la seconda generazione di immigrati cercherà di abbandonare quello spazio, fatalmente li riattrarrà ‘costringendoli’ a tornare volontariamente sui propri passi).

A Venezia la chiusura del ghetto, la sorveglianza notturna lungo il canale perimetrale imposta agli (e pagata dagli) stessi Ebrei a opera di custodi cristiani, gli insulti che accompagnavano le imbarcazioni che portavano i feretri al cimitero ebraico del Lido: sono tutti aspetti ben documentati, compresi gli effetti imprevisti eppure benefici come l’apertura ad opera degli Ebrei di un nuovo canale (il canale degli Ebrei a Castello) per far transitare quei feretri, che porterà vantaggi a tutta l’economia urbana.

Ma colpisce la porosità urbanistica e culturale del confine imposto, il dialogo tra veneziani ed Ebrei anche lungo e nonostante quel bordo, e soprattutto l’apertura diurna che permette agli Ebrei di alimentare tutte le attività e i traffici della città commerciale. Il dialogo è raffigurato dall’incantevole Carpaccio nella predica di santo Stefano, in cui si affollano turbanti e lunghe barbe ad ascoltare il santo in un paesaggio urbano che è Venezia e insieme Gerusalemme. Perfetta rifrazione urbanistica del dialogo tra due mondi culturali. Innovazioni urbane e dialogo filosofico che si svolgono al più alto livello intellettuale tra Ebrei e cristiani.

La mancanza di spazio poi produce quella rilevante innovazione della crescita verticale delle abitazioni del ghetto Nuovo e Nuovissimo, quella piccola Manhattan che ancora si visita con sorpresa alzando gli occhi verso l’alto nel sestiere di Cannaregio. E poi colpisce la forte integrazione dell’élite ebraica nell’élite veneziana, documentata intorno a figure che tra Sei e Settecento rallentano la lunga braudeliana decadenza della Repubblica. La ricchezza degli Ebrei, che non poteva tradursi in rendita urbana per mancanza di titolo alla proprietà immobiliare, si traduceva in flussi finanziari, in moneta circolante: inaugurando nei banchi degli Ebrei la filosofia del denaro di Simmel e forse la finanziarizzazione del capitalismo contemporaneo.

Quando nel 1797 Napoleone abbatte le porte del ghetto la città festeggia, è cosmopolitismo anche politico e non solo economico quello degli Ebrei veneziani che inneggiano ai princìpi della rivoluzione francese, iniziando un’epoca di assimilazione che continua nell’Otto e Novecento. Il ritorno al ghetto degli Ebrei veneziani sopravvissuti alla Shoah chiude con una foto sobria il percorso della mostra.

2. Oggi

Cosmopoli multietnica e multireligiosa, città-mondo ed economia-mondo sono i termini che usiamo per indicare ieri Venezia, oggi New York, Hong Kong o Mumbai. A New York il 35,8 % della popolazione è nata fuori ed è immigrata, a Hong Kong il 40 %, mentre a Mumbai l’altissima percentuale di immigrazione viene dal subcontinente indiano. Le logiche spaziali di ghetto (o di slum a Mumbai) hanno a lungo segnato queste città-mondo.

Oggi la segregazione, o auto-segregazione, si declina come mescolanza incessante e porosità dei confini. La diversità etnica è cresciuta negli ultimi tre decenni creando mescolanze e accentuando segregazioni: a New York vivono oggi due milioni di Asiatici (sono raddoppiati in 20 anni), molto segregati spazialmente e socialmente anche se non sempre in aree svantaggiate come gli Afro-americani. Oggi a New York più della metà delle famiglie è concentrato nelle aree più povere oppure in quelle più ricche, mentre le aree a medio reddito della middle class si sono ridotte scendendo dal 65 al 44 % nelle metropoli americane.

A Hong Kong invece, dove la middle class sta crescendo in modo fortissimo, la crescita urbana ad alta densità si concentra nei nuovi quartieri di edilizia pubblica (che raggiunge il 50% dell’intero stock edilizio, la percentuale più alta al mondo di public housing) e la mescolanza sociale ed etnica si esprime in forme nuove: la recente e tuttora in corso mobilitazione politica di Hong Kong è anche il frutto di questa crescita. A Hong Kong ci sono attivisti, associazioni di welfare e movimenti sociali molto simili a quelli occidentali.

A Mumbai metà della popolazione, cioè sei milioni di persone, vive in slums che crescono a fianco delle aree più ricche ed esclusive: nello slum semplicemente abitano i domestici, lavoranti, custodi e autisti delle case in cui vivono i ricchi Global Indians, mentre nello stesso tempo si sviluppano città satelliti e new towns come Navi Mumbai, dove si concentra la nuova classe media in aree a bassa densità (tre volte meno dense della incredibile densità media di Mumbai) e servizi urbani avanzati.

Rispetto alle relazioni ‘centrale-locale’ di chiara origine imperiale (vecchia e nuova), il mondo si sta ridefinendo come glocale. Il globale e il locale non sono due piani o pianeti posti uno sopra l’altro, uno alto l’altro basso, essi sono lo stesso piano: nastri e circuiti entro cui fluisce la società globale. Alta e bassa, insieme: anche se nuove segregazioni spaziali e abissali distanze di ricchezza si sono moltiplicate negli ultimi tre decenni. Ogni discorso sulla glocal city, sulla città smart etc. dovrebbe andare in questa direzione: identificarne i crocevia, le intersezioni, i nodi del mondo e gli incroci.

Occorrerebbe ridisegnarne la geografia sociale. Sul piano dell’informazione, a formare un recente strato virtuale che si sovrappone agli altri strati formatisi nel tempo lungo ci sono: le reti, le imprese, gli users, gli Internet exchange, i linguaggi funzionali, l’Internet fisico della logistica delle merci, ecc. Sul piano dell’urbano (la dimensione planetaria dell’umanità globale, con diverse piegature e ispessimenti localizzati) essi sono le città, i flussi, le agenzie funzionali, i think-tank, le comunità trans-nazionali e diasporiche, ecc.
Per questo l’urbanizzazione planetaria non ha più alcun ‘interno’ ed ‘esterno’ ma tutto succede allo stesso tempo e nello stesso spazio, come scriveva Lefebvre. Possiamo riconoscere i nodi di un intelletto metropolitano espanso, non più confinato in alcuna amministrazione locale né dipendente da alcun centro nazionale. Le nostre reti, agenzie, funzioni, politecnici, piattaforme sono le basi di nuovi raggruppamenti, cluster, assemblaggi di cui è fatta la società globale; in attesa che altre istituzioni a scala planetaria possano emergere dalla crisi attuale.

Filone di Alessandria coniò il termine megalopoli in un’altra grande crisi, quella ellenistica; per il filosofo ebraico alessandrino megalopoli era un ‘mondo di idee’ che predetermina e dirige il mondo materiale in cui viviamo. Quel cosmopolitismo ellenistico, sostiene Sloterdijk, fu il tentativo di rendere l’anima capace di sopportare l’esilio attraverso l’ascesi; quello moderno è invece l’impresa di fornire ai corpi dei turisti lo stesso comfort dovunque essi vadano. Nella prima Ecumene il mondo della mescolanza, il Mediterraneo, si disfece senza più ricomporsi. Sta succedendo ancora oggi nella seconda Ecumene, negli spazi globalizzati in cui l’ultima Utopia cosmopolitica potrebbe tramontare.

Come Venezia ieri, l’Europa oggi può costruire il suo cosmopolitismo non tanto sulla dimensione delle sovranità territoriali delle nazioni o sul numero delle persone che esse ricevono e ospitano, quanto sulla capacità di trascendere questa espansione visibile e nell’allargare il proprio orizzonte geopolitico in un’area di gran lunga più vasta.

Intanto altri ibridi geopolitici si stanno formando, in altre parti del mondo, che spingono nelle più diverse direzioni: a Hong Kong, a Taiwan, a New York, ad Abu Dhabi sullo sfondo di passate e recenti colonizzazioni si mescolano popolazioni, tecnologie ed ecologie producendo utopie e distopie, razionalità tecniche ed esternalità negative, conflitti e nuove schiavitù di cui il nostro secolo sarà a lungo testimone.

Non tutti gli abitanti vivono in quelle che chiamiamo città. Le recenti elezioni Usa hanno reso evidenti le differenze. Non è solo questione da "urbanisti". O almeno, non dovrebbe. Se i mass media e la politicafossero un po' più attenti.... Millenniourbano, online,16 novembre 2016

Nei giorni immediatamente successivi alla elezione di Donald Trump le mappe che visualizzavano la distribuzione del voto per stati e contee mettevano in evidenza la profonda divisione elettorale tra aree urbane, suburbane e rurali. La transizione tra le alte percentuali di voto per Clinton nelle aree centrali delle grandi citta che si ribaltano nel massiccio consenso per Trump nelle contee rurali passa attraverso la densità insediativa. Nei cinque distretti urbani di New York City, ad esempio, solo a Staten Island – il più suburbano per caratteristiche insediative, con una densità di abitanti per chilometro quadrato che è meno di un terzo di quella media della metropoli – ha prevalso il voto per Trump.

La popolazione americana per circa due terzi vive in aree urbane, ma oltre la metà di essa abita gli sterminati suburbi che definiscono le Metro Areas, dove al centro c’è appunto la città vera e propria. Per Sarah Palin, già candidata alla vice presidenza e fondatrice del Tea Party, la “vera America” è rappresentata dalle piccole cittadine attorniate da vasti territori rurali. L’avversione per le città e per la pianificazione urbanistica, che ad esempio emergeva dalla piattaforma elettorale del Partito Repubblicano nel 2012 , riguarda lo stile di vita americano – basato sulla proprietà privata della terra, sulla casa unifamiliare, sull’auto e sulla mobilità individuale – messo in discussione dalla regolazione dell’uso del suolo di cui le città hanno più bisogno. Secondo questa visione gli investimenti pubblici nelle infrastrutture urbane sono un attacco diretto all’individualismo tipico dell’American Way of Life.

Tuttavia la visione negativa delle grandi città negli USA ha una storia bipartisan: se i conservatori hanno descritto le città come focolai del vizio e del crimine, con un livello eccessivo di diversità etnico-culturale e di regolamentazione governativa, molti liberals si sono schierati a favore dei centri di piccole dimensioni, sostenendo il decentramento della popolazione urbana in insediamenti in cui le persone avrebbero potuto formare ciò che era visto come una forma più autentica di comunità. Il New Deal di Franklin Delano Roosevelt, attraverso la sua agenzia Resettlement Administration, ha promosso la realizzazione di insediamenti decentrati – sul modello delle comunità cooperative autosufficienti ispirato alle Garden City britanniche – che avevano l’obiettivo di far fronte alla carenza di alloggi popolari nei grandi centri urbani e di impiegare la mano d’opera disoccupata per la loro realizzazione.

Le tre Greenbelt community effettivamente realizzate nelle aree metropolitane di Washington D.C. (Greenbelt), Cincinnati (Greenhills) e Milwaukee (Greendale), pur realizzate da una agenzia governativa, hanno anticipato il successivo sviluppo suburbano attuato dal settore immobiliare provato nel quale si è riversata la classe media e bianca nel secondo dopoguerra e che ha incarnato l’individualismo della casa unifamiliare e dell’auto privata.

La linea di demarcazione tra città e sobborghi ha così finito per coincidere con la questione razziale che oggi è alla base delle affermazioni di Trump contro le inner city. Quando egli afferma che le aree centrali delle metropoli americane sono un disastro il rimando alla estrema diversità etnica come problema non può non essere colto. Se qualcuno avesse dubbi in proposito provi a dare una occhiata al sito di informazione Breitbart.com, già diretto dall’attuale consigliere politico di Trump Stephen Bannon, e vi troverà numerosi articoli in cui le grandi città americane sono associate all’aumento degli omicidi, del crimine e delle rivolte razziali (Black Lives Matter).

Eppure – afferma Steven Conn che due anni fa ha pubblicato Americans Against the City: Anti-Urbanism in the Twentieth Century (Oxford University Press) – non si può non notare che si è innescato un processo di controtendenza rispetto alla fuga dalla città degli anni 50 e 60. Al di là dell’Urban Renaissance che sta riguardando le aree centrali delle grandi città americane – oggi molto desiderabili e sempre più inaccessibili ai redditi medio-bassi – numerosi sobborghi stanno in realtà diventando progressivamente più urbani. Costruiti in origine come antitesi alla città, questi insediamenti vogliono ora dotarsi di strade percorribili a piedi, di mezzi pubblici e di quelle funzioni che caratterizzano le città. Si tratta di un processo di riconoscimento dei vantaggi della vita urbana trai quali vi è anche la diversità sociale e etnica. Ciò spiega la loro crescente diversificazione in quanto a composizione demografica.

Sarà in grado questo processo di rimodellare, nel lungo periodo, l’attitudine dell’americano (bianco) medio verso le grandi città? Il contro esodo nelle inner city di coloro che hanno tra i 20 e i 30 anni e in maggioranza non hanno votato Trump sembra indicare che l’America urbana e multietnica, che ha in larga parte contribuito ad eleggere il primo presidente di colore, potrà in futuro essere decisiva per evitare l’esacerbarsi delle differenze basate su appartenenza etnica, censo e luogo di residenza. Con l’elezione di Trump ha vinto l’America che odia le città ma quella che invece le apprezza potrebbe forse diventare decisiva alla prossima tornata elettorale, ammesso che vivere lì non diventi un privilegio di coloro che riescono a far fronte a valori immobiliari in forte crescita. A questo riguardo il ruolo dei sindaci – per lo più democratici nelle grandi città americane – sarà decisivo nel confronto con un governo federale marcatamente anti-urbano.

«Contrassegnando il suo piano con la bandiera del rinnovamento urbano, Trump ritorna al passato, ad un periodo della storia urbana statunitense che ha avuto impatti devastanti sui quartieri dove erano insediate le minoranze etniche, come ci ha raccontato Jane Jacobs in Vita e morte delle grandi città». Millenniourbano, 8 novembre 2016 (c.m.c.)

Ciò che il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti pensa in materia di politiche urbane è molto semplice e si può riassumere con quel inner cities are a disater che ha dato molto da scrivere ai periodici statunitensi. Forbes, ad esempio, smentisce l’affermazione citando i prezzi degli immobili in crescita del 52 per cento negli ultimi 6 anni nelle aree centrali delle 31 maggiori aree metropolitane e precisando quale significato abbia attribuito all’espressione inner city, ovvero l’area definita da un raggio di cinque chilometri dal centro geometrico di una certa città.

Qui emerge il primo problema della semplificazione di Trump: quando si parla di aree centrali delle metropoli statunitensi non è chiaro a cosa ci si riferisca. Inner city, a differenza di metro area, non è un’entità statistica. Più che altro è un luogo comune dell’immaginario collettivo statunitense e bianco che fa riferimento ai quartieri a maggioranza non bianca dei settori centrali delle grandi aree metropolitane.

Da lì ha tratto origine il grande flusso verso i sobborghi residenziali che ha caratterizzato la storia urbana del Nord America dal secondo dopoguerra in poi, ma è proprio nei quartieri centrali delle metropoli americane che si sta verificando l’inversione di tendenza di cui scrive Forbes. A Boston, ad esempio, le case del centro costano il doppio di quelle delle zone residenziali limitrofe: se dobbiamo attenerci alla sola legge della domanda e dell’offerta vivere in centro a Boston è due volte più desiderabile che abitare in qualche sobborgo della sua area metropolitana.

Il newyorchese Trump di quartieri centrali delle grandi metropoli se ne intende: la società immobiliare di famiglia è stata un attore importante dell’offerta abitativa a New York City dove ha realizzato complessi residenziali nei quali l’accesso delle persone di colore è stato molto ostacolato (le richieste provenienti da famiglie non bianche venivano contrassegnate con l’iniziale C della parola colored e quasi sempre rigettate).

Come molti altri imprenditori del settore immobiliare anche Trump ha contribuito alla segregazione delle minoranze etniche nei complessi di edilizia residenziale pubblica, poi stigmatizzati per le loro condizioni “infernali”. Eppure tutto ciò non gli impedisce di scrivere in “New Deal for Black America: With a Plan for Urban Renewal” che «anno dopo anno la condizione dei neri in America peggiora. Le condizioni nelle nostre città sono oggi inaccettabili». Il piano propone esenzioni fiscali per gli investimenti nei settori centrali delle città e l’utilizzo del denaro risparmiato con la sospensione dei programmi di accoglienza dei rifugiati in investimenti «nei nostri centri urbani» e in programmi «per far rispettare le nostre leggi». La retorica populista della «nostra gente» riguarda evidentemente le due sponde dell’Atlantico.

Le strategie del piano di Trump omettono una realtà importante: non tutti gli afroamericani vivono nelle inner cities. L’evidenza invece mostra che anche gli afro-americani, come ogni altro gruppo etnico degli Stati Uniti, sono una realtà troppo diversificata per generalizzazioni di questo tipo.

Il termine inner city, che ha guadagnato popolarità attraverso il lavoro di teorici urbani e di sociologi tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso ed è ampiamente servito per indicare le comunità non bianche delle aree più centrali dei sistemi metropolitani, non fa giustizia di una realtà in profondo cambiamento.

L’Urban Institute ad esempio evidenzia come ad Atlanta – una delle aree metropolitane a più rapida crescita – gli afro-americani vivano ben oltre la città centrale e i quartieri prevalentemente neri siano dispersi in tutto il paesaggio metropolitano. Solo il 12 per cento dei residenti neri della città metropolitana di Atlanta vive all’interno del perimetro municipale della città di Atlanta.

Contrassegnando il suo piano con la bandiera del rinnovamento urbano, Trump ritorna quindi al passato, ad un periodo della storia urbana statunitense che ha avuto impatti devastanti sui quartieri dove erano insediate le minoranze etniche, come ci ha raccontato Jane Jacobs in Vita e morte delle grandi città.

L’Urban Institute denuncia, dati alla mano, quanto la narrazione di Trump degli afroamericani e delle altre minoranze come gli unici abitanti delle inner cities sia falsa, obsoleta, e tesa a perpetuare le condizioni che hanno consolidato le condizioni di povertà nei quartieri a maggioranza non bianca.

Da una parte egli invoca politiche pubbliche per risolvere i problemi urbani e dall’altra minimizza la storia problematica delle città americane grazie alla confusione tra inner cities e minoranze etniche. Il suo discorso finisce per far coincidere le ancora irrisolte questioni urbane degli Stati Uniti d’America e con i persistenti problemi razziali. Nella semplificazione a fini elettorali ciò significa contrapporre i bianchi dei sobborghi alle minoranze etniche delle zone urbane centrali, anche se ormai è ampiamente noto che questa distinzione abbia smesso di essere applicabile alle aree metropolitane americane.

Cosa dice a noi della sponda europea dell’Atlantico la retorica di Trump sulle grandi città? Che la questione della diversità delle popolazioni insediate al centro delle aree metropolitane più che una debolezza va considerata come un elemento di forza, cosa che viene indicata proprio dal cosiddetto Rinascimento urbano d’oltre oceano dove le differenze etniche dei quartieri centrali non hanno affatto ostacolato il processo di valorizzazione segnalato dal mercato immobiliare.

Da noi si fa ancora fatica ad andare oltre la narrativa della città centrale come unica espressione possibile della nostra cultura urbana ma è proprio cogliendo tutte le differenze che anche qui hanno trovato spazio nei sistemi metropolitani che la politica potrà forse capire e dire qualcosa di più sulle trasformazioni non sempre negative delle nostre grandi città.

Una calda descrizione della città d'oggi; non solo Roma. «Le grandi città sono diventate in-accoglienti per tutti coloro che non possono permettersi di andare in vacanza e neppure raggiungere il mare così vicino. Quel mare, comunque, che poco più al largo è diventato una gigantesca bara per tanti immigrati».

In questi mesi di caldo e di esodo (per chi può permetterselo) legrandi città si trasformano in un inferno per anziani, disabili, poveri, personecomunque sole, migranti in cerca di asilo e per chi abita in periferie lontane.Chi è in ospedale, chi cerca assistenza medica conosce bene quanto l’esistenzaquotidiana diventi particolarmente dura in questo periodo dell’anno. Mai comein questi mesi d’estate Roma diventa una città con due velocità e due realtà.Da una parte gli anziani, i malati, i disabili che cercano di sopravvivere allecrescenti difficoltà di reperire cure, assistenza, medicine e perfino cibo;dall'altra il flusso consumistico e ordalico di turisti che si snoda supercorsi prefissati, lontani dai primi. E Roma, in questi giorni, può diventarespietata con chi non ce la fa, con chi non riesce a procurarsi un riparo dalcaldo soffocante, per l’attesa infinita nei pronto soccorsi degli ospedali doveil personale è sempre carente.

Qua e là in città ci sono, la sera, luoghi dove fare qualche incontro,vedere all’aperto qualche film, passeggiare sulle banchine del Tevere, visitareil Maxxi, ascoltare concerti all’Auditorium. Ma sono luoghi esclusivi, per pochi; lamoltitudine attende in casa, come può, l’arrivo della sera, sperando che questanotte si possa dormire, che domani non ci sia fila alla ASL che ci sia qualcherisposta alla domanda di assistenza. E chi ha un genitore anziano e malato saquanto il lavoro delle badanti sia assolutamente insostituibile, a fronte deldiscorso pubblico contro gli immigrati che “tolgono il lavoro agli italiani”.

Le grandi città sono diventate in-accoglienti per tutti coloro (e sono la maggior parte) che non possono permettersi di andare in vacanza e neppure raggiungere il mare così vicino. Quel mare, comunque, che poco più a largo è diventato una gigantesca bara per tanti immigrati che fuggono da paesi sconvolti da cambiamenti climatici provocati dalle guerre e dalla crescita insensata dell’Occidente.

Fin dalle sue origini – afferma Cacciari – la città è investita da una duplice corrente di “desideri”. La vogliamo oikos, grembo materno, madre premurosa e accogliente, luogo di pace e di sicurezza e la vogliamo, al tempo stesso, “macchina efficiente”. Nelle cosiddette città globali - sistemi urbani che tendono all’espulsione degli abitanti più poveri sostituiti da spazi esclusivi riservati ai ricchi e ai cittadini part-time internazionali, per dirla con Saskia Sassen - come Roma, il secondo aspetto ha di gran lunga soverchiato il primo, tanto che si invocano fantasmagorie come le smart city, città furbette, qualcuno le ha definite, per abitanti idioti. Così che il dibattito sulla città è diventato un dibattito su come accaparrare risorse, come incrementare il turismo, o conferire incarichi favolosi ad archistar in grado di produrre brand. Le città diventano i luoghi dove si manifestano logiche finanziarie il cui obiettivo non è migliorare le città, ma aumentare i profitti d’impresa. Così gli abitanti diventano comparse, semplici residenti se non spettatori passivi di grandi eventi, espropriati del loro bene comune, tanto da sentirsi estranei, stranieri nella propria terra.

E’, invece, il discorso sull’accoglienza, sulla diversità culturale, sulla povertà, sullo stare insieme (antico fascino della città moderna) che si impoverisce e perfino appare fuori moda rispetto ai tempi dell’austerity, della prevalenza del capitale finanziario, del fare cassa, dell’avere successo, del collocarsi ai vertici della classifica planetaria, della competizione senza contenuti (vedi il caso nostrano del conflitto tra Torino e Milano per la detenzione della fiera dell’editoria).

Così si distruggono legami sociali, si sviliscono (o si contrastano) esperienze isolate di piccole comunità locali per creare mondi più accoglienti, si consuma suolo, si alzano muri, si accentua la solitudine urbana, si producono ulteriori conflitti, separazioni, esclusioni dolorose che si caricano di vendetta. Eppure la città rappresenta l’occasione più grande per trasformare la nostra realtà quotidiana, per perseguire l’utopia di una comunità in pace, di uno stare insieme solidale, per fare progetti su come vivere. Ma a Roma il dibattito sulla questione urbana rischia di avvitarsi intorno alle due (effimere) questioni dello stadio e della partecipazione ai giochi olimpici. Due grandi occasioni di rinnovamento, modernizzazione, guadagni, affermano i loro sostenitori; due grandi opportunità per la città che sarebbe suicida non favorire e realizzare. Teoricamente è vero, come è vero che perfino un terremoto rappresenta un’opportunità (e per alcuni lo è davvero) per una nuovo risorgimento urbano; bisognerebbe poi raccontarlo agli abitanti di L’Aquila che ancora non se ne sono resi conto.

«Un'intervista con Paulo Mendes Da Rocha, celebre esponente della scuola paulista, cui la Biennale di Venezia ha conferito il Leone d'oro alla carriera. "Le olimpiadi in Brasile? Rispondo con Borges: mi sento come quell’ospite che è ricevuto con cortesia ma si accorge di essere prigioniero"». Il manifesto, 30 luglio 2016 (p.d.)

L’incontro con Paulo Mendes da Rocha (Vitória, 1928) a Venezia è di quelli sempre attesi. Il Brasile è dagli anni ’50 il laboratorio dell’«Altra modernità», come direbbe Frampton, che occorre conoscere e seguire con attenzione e Da Rocha ne è il principale interprete e testimone. Dalla palestra del Clube Atlético Paulistano (1957) al Museo della Scultura Brasiliana fino la Copertura per Piazza del Patriarca (2009), tutte a San Paulo, si comprende con precisione qual sia la sua idea di architettura: semplicità formale e costruttiva, funzione sociale dello spazio, rigore etico e sensibilità estetica. Tutti argomenti che intendiamo meglio approfondire con lui nella biblioteca della Biennale che ci ospita.

Intanto, una domanda d’obbligo: cosa pensa delle prossime Olimpiadi a Rio?

Le rispondo citando una delle storie di Jorge Luis Borges nella raccolta Il manoscritto di Brodie, dove si racconta la finzionem, il dire ciò che si vuole, come facevano quei viaggiatori del XIX secolo che riportavano la descrizione di cose che nessuno conosceva. La novella racconta di quell’ospite che è contento di essere ben ricevuto, ma capisce di essere prigioniero. Sono terrorizzato per aver scoperto che abbiamo a che fare con il degenerato. Il nostro castigo sta in questa degenerazione che usa la creatività per pensare l’espansione della vita umana nell’universo. In questo momento l’architettura è formalista e delirante ma sempre preoccupata della «casa popolare» (ride, ndr). Il Brasile dimostra in modo chiaro questo corso degenerato.
Tuttavia non ci vorrebbe molto per realizzare un progetto nazionale di pianificazione davvero importante e necessaria: un sistema di navigazione fluviale nel bacino idraulico che è il più importante del mondo e una ferrovia in rete con altri paesi. Occorre immaginare la costruzione di una nuova pagina per l’America Latina. Siamo ancora impegnati in questo. Credo che la grande rivoluzione stia nella trasformazione democratica che può avvenire attraverso l’istruzione e il progetto, ma occorre fare di tutto per evitare altri disastri.

La Biennale Architettura di Venezia le ha conferito il Leone d’oro alla carriera. Tra le motivazioni c’è che la sua architettura dura alla prova del tempo. Come può resistere ai cambiamenti?

Per rispondere, vorrei partire dall’esperienza del movimento popolare «Ocupação» che agisce per trasformare gli edifici già esistenti. Intendo ribadirlo: ciò che riguarda l’urbanistica e l’architettura contemporanea è una questione politica. Infatti, al di là di ogni progresso tecnologico la qualità di ciò che chiamiamo casa interessa la grande prospettiva ideale della città come utopia e le possibilità che abbiamo di trasformare la nostra realtà. Faccio una sintesi. La chiave di tutto sta nell’idea della trasformazione. Il mio pensiero è stato quello di prendere coscienza del fatto che l’habitat umano è conseguenza della trasformazione della natura perché questa non può essere abitata. Ciò è particolarmente vero per il continente americano.

Fatta questa premessa, le chiedo: cos’è rimasto della scuola paulista?

Non mi piace l’idea di scuola paulista. Anzi, non esiste una scuola paulista. Ciò che occorre dire è che a San Paulo all’interno della sua Università, si strutturò una facoltà con un indirizzo particolare e distinto di intendere l’architettura. Un contributo importante fu dato dal filosofo Flávio Motta e dall’architetto marxista João Batista Vilanova Artigas. L’insieme, all’interno della stessa Università, sia dell’insegnamento delle lettere e della filosofia sia di una scuola politecnica ha permesso di esprimere una maniera assai particolare di architettura poiché fondata da un insieme di conoscenze. In questa scuola dove si concentrano tanti saperi come linguistica, filosofia, tecnologia, scienza delle costruzioni, meccanica, è impossibile che l’architettura non sia saggia. Che cosa dire sennonché l’architettura è di per sé una forma particolare di conoscenza. Viviamo, purtroppo, non beneficiando del contesto universitario. La conoscenza – l’architettura n’è una forma – richiede saggezza: tutto ciò che serve per il nostro obiettivo che è quello di costruire l’habitat umano che non c’è. Per ritornare alla domanda riguardo alla scuola paulista dico, quindi, che è una semplificazione.

Eppure ce ne hanno sempre parlato…

Non è proprio necessario classificare. Cosa vuole dire architettura funzionalista, costruttivista o addirittura moderna? Venezia, a me, appare modernissima.
Qual è, secondo lei, la relazione tra l’architettura e lo spazio pubblico. Lei ha affermato che «tutto è pubblico e che di privato c’è solo la nostra mente».
Sì, ho espresso molte volte il concetto che è necessario aumentare per tutti lo spazio pubblico: non esiste per me lo spazio privato. Una riflessione che possiamo fare è che è un’idea stupida quella di ragionare sulla «casa popolare». Come si può parlare di acqua potabile «popolare», come si può parlare di un chilowatt «popolare». Ora la questione della «casa popolare» rimanda alla definizione dei primi format, ai linguaggi che stigmatizzano il concetto di casa. La casa contemporanea non può essere «popolare». La grande virtù della casa è vedere dove questa è collocata, ha significato il contesto.

Un altro tema da approfondire è la questione della tecnica, in particolare quella del cemento armato, che ha un ruolo importante nella sua opera e che oggi è impiegato per banali megastrutture, come ad esempio a San Paulo il progetto previsto per il parco Ibirapuera…

Purtroppo, non lo conosco, non ho mai visto questo progetto…. Penso però che il materiale a rigore non interessi l’architettura, o meglio per costruire un determinato spazio va ricercata la tecnica più adeguata. Per difendere la natura in futuro si dovranno impiegare soluzioni tecnologiche sempre più innovative, ma non è per me una buona cosa contraddistinguere un’architettura attraverso la tecnica o il materiale.
La verità è che per qualità architettonica si deve intendere la disposizione spaziale di un edificio con il materiale più conveniente, in questo senso si può immaginare che in futuro l’uso del cemento armato possa anche essere abolito e sarebbe bello arrivarci. Il nostro dovere, quindi, è quello di essere attenti all’esecuzione tecnica con i materiali già esistenti. Si può immaginare una costruzione interamente in metallo o in legno con elementi prefabbricati e così abolire a poco a poco quella materialità dell’architettura che eviterà di distruggere il nostro pianeta. Ad esempio è interessante riflettere – riguarda noi brasiliani – sulla quantità di granito impiegato in Europa e dovunque per pavimentare. Si può essere indignati per quest’uso sconsiderato di smantellare montagne per consumare del materiale che si è formato in milioni di anni e usarlo per decorare bagni oppure, come si fa del granito brasiliano ridotto in sottili lastre, per rivestire la facciata di un edificio. Penso, quindi, che la cosa migliore che la tecnologia può offrire all’architettura sia tradurre la nostra fantasia nel costruire lo spazio della città contemporanea. In questa visione di ampia apertura voglio proporre una riflessione. Ciò che viviamo non è nuovo ma nel passato non era possibile vivere con la stessa serenità dell’oggi. Pensiamo all’espansione della vita umana nell’universo, ora abbandonata in un minuscolo sasso che è chiamato pianeta Terra. Un piccolo strumento su Marte invia notizie che danno lì una possibilità di vita. Già si considera questa una prospettiva realizzabile ma ci deve essere un’altra possibilità. Questo ci porta ancora all’espediente grottesco di possedere altre risorse, ma la questione più importante della nostra esistenza è fermare ora questo spreco.

(Con la collaborazione di Mirco Battistella e Ginevra Masiello)

«Dietro un’espressione ricorrente si cela molta retorica che stride con la realtà delle città oggi. L’India annuncia la fondazione di nuovi agglomerati urbani ad altissimo utilizzo di tecnologie digitali, ma i quartieri sono recintati da sbarre, frutto di un’ossessione da sicurezza». La Repubblica, 24 luglio 2016 (c.m.c.)

Il governo indiano ha di recente comunicato la lista delle prime venti città destinate a fornire un «modello replicabile che funzioni come una casa illuminata» per le altre città che aspirano a entrare in un ambizioso piano di 100 smart cities: in prevalenza città satelliti collocate in vicinanza di grandi aree metropolitane.

Una pianificazione affascinante soprattutto per una civiltà come quella occidentale, ancora ammaccata dall’aver troppo creduto alle virtù taumaturgiche della mano invisibile del mercato. Una pianificazione che aiuta anche a far emergere gli usi retorici del sintagma smart cities in Europa e negli Stati Uniti (le città intelligenti, le città che fanno grande uso di tecnologie della comunicazione, le tecnologie digitali, affidando a queste la possibile soluzione di molti dei problemi che le affliggono). Ma da quali considerazioni nasce la Smart Cities Mission indiana e cosa prevede?

Nasce dal riconoscimento della crisi di un’urbanizzazione senza piani, che ha portato all’edificazione di aree metropolitane invivibili. È cioè la parola city, nel sintagma, a dettare il punto di partenza e a definire le aspirazioni del progetto. Leggendo i programmi, scorrendo i venti progetti selezionati, colpisce come siano la qualità della vita e l’inclusione sociale i due obbiettivi fondamentali. «Dare un’identità alle città», renderle più friendly, anche attraverso scelte urbanistiche che poco appartengono alle culture indiane, come la cura nella progettazione degli spazi pubblici o l’identificazione di Urban Local Body, una contaminazione tutta da verificare tra centro storico europeo e civic center statunitense.

D’altronde le città satelliti hanno una lunga storia anch’essa tutta occidentale: dalle ottocentesche città giardino inglesi, alle Sunnyside Gardens e Redburn statunitensi negli anni venti, sino alle villes nouvelles francesi la cui edificazione inizia a metà degli anni sessanta del Novecento.

E la prima contraddizione che traspare in questa nuova accelerazione della modernizzazione indiana è la permanenza del modello culturale occidentale nelle forme di contrasto alla città diffusa, la città che si disperde nel territorio. La smart city come veicolo di una nuova forma di colonizzazione? Sarebbe un bel paradosso.

Su cosa sia smart le linee guida del governo e le scelte delle prime venti città, vanno in realtà con i piedi di piombo. Non esiste un’unica definizione di smart. Non solo: viene ricercata una via indiana alla smart city e una via federale dentro la via indiana! Mettendo così in crisi uno dei pilastri delle retoriche della smart city: la sua possibile e quasi ovvia interconnessione globale.

E il confronto ad esempio tra i progetti selezionati di Ahmedabad, Jaipur e Delhi almeno in parte conferma differenze tutt’altro che marginali. Così quando si osserva da vicino in cosa si materializzerebbero le città smart indiane, si scorgono la mobilità urbana, l’efficienza e il risparmio energetico, la gestione dell’acqua e dei rifiuti, e soprattutto la digitalizzazione dei servizi. Anche in questo caso il modello è europeo, le politiche infrastrutturali del Great London Council degli anni cinquanta.

Tre indizi ulteriori emergono da questo ambizioso e, per certi versi, straordinario progetto. In primis la banalità delle soluzioni architettoniche. I rendering ci restituiscono un universo architettonico omologo e banale: ennesime e ripetitive downtown. La difficoltà di passare dal piano al progetto architettonico è ancor più evidente, proprio per la scala dell’intervento: un’ennesima e davvero non auspicata conferma che oggi la cultura architettonica soffre di coazione a ripetere. Il secondo è la pericolosa vicinanza di queste città satellite alle gated communi-ties, gli insediamenti recintati e protetti da sbarre che dalla California oggi si sono diffuse in Brasile, Argentina, Cina e persino nella stessa India!

Uno degli obbiettivi dichiarati di queste smart city è la sicurezza e la ricomparsa delle mura cui stiamo assistendo in tutto il mondo, qui potrebbe trovare una declinazione smart: mura che si oltrepasserebbero, si varcherebbero con badges, naturalmente!

Certo appaiono lontani Georg Simmel e una delle più belle definizioni dell’intelligenza nelle città: la serendipity, l’incontro inatteso e creativo tra diversi. Una sfida che forse si ritroverebbe ben più frequentemente nelle vicine metropoli indiane che si vogliono risanare.

Il terzo indizio è quanto la sempre invocata partecipazione dei cittadini al progetto — modello anche questo anglo-americano — trovi proprio nella risposta tecnica — le reti — resistenza in una società, come quella indiana, segnata da diseguaglianze sociali ancora fortissime. Può essere difficile non solo per Pericle importare la democrazia a Thuri, colonia della Magna Grecia, durante le guerre elleniche, ma anche disseminarla all’interno di un paese ancora così diseguale come l’India.

Certo questo progetto fa quasi impallidire discussioni e sforzi europei e dà la dimensione, se si vuole anche solo brutalmente quantitativa, della distanza che esiste oggi tra parole e cose nel vecchio continente e, in parte almeno, anche negli Usa. E la fa ancor più impallidire se si misura la produzione di parole, che anche solo l’evocazione della dimensione smart oggi genera.

Se si accede attraverso Google Scholar alle pubblicazioni dedicate alle smart city, si può misurare la fortuna editoriale e mediatica di questo sintagma: articoli, saggi, libri con centinaia di citazioni e di testi correlati disegnano una ragnatela quasi inestricabile, spesso autoreferenziale, che parla quasi una sola lingua: l’inglese.

In realtà basta andare un minimo in profondità e si scorgono fenomeni inquietanti. Il primo è una semplificazione assai diffusa: dei rapporti tra territori e società che li abitano, delle relazioni tra accesso all’informazione e conoscenza, di concetti essenziali come innovazione o comunità. La metafora forse più emblematica di questa semplificazione è internet of things, l’internet delle cose, l’internet che mette in relazione non solo informazioni, anche oggetti.
Ma forse ancor più inquietante è il processo che tocca la scala territoriale dei fenomeni.

Smart city nasce come espressione fisica della società globale, sincronica e interconnessa: e la sua metafora, ancor più abusata, è la piazza informatica. Oggi invece le esperienze più sostenute dello smart legato a un territorio sono quelle che, giocando su un’altra grande retorica, la sostenibilità, e su una concezione di democrazia del vicinato, stanno lavorando per passare dalle smart cities agli smart villages, da una dimensione metropolitana a una molto più ridotta.

In realtà smart city rappresenta un esempio fra i più convincenti di un processo di naming without necessity (il nominare qualcosa senza che vi sia una necessità, dare un nome a cose che non esistono). Forse, come insegna la prudenza e la ricerca di declinazioni diverse nell’esperienza indiana, la parola smart evoca, non definisce, promuove (anche, ma non solo marketing, ma imprese, professioni, tecnologie), soprattutto sostituisce la necessità di raccontare fatti e persone. E la narrazione è, come hanno insegnato in modi tanto suggestivi Paul Ricouer e Jason Bruner, la forma che la mente umana ha per rielaborare e appropriarsi anche di cambiamenti traumatici, come indubbiamente è fronteggiare una credenza tanto forte e condivisa che la memoria possa quasi essere lasciata a una nuvola, a un cloud, che incrementerebbe quasi automaticamente un’intelligenza a questo punto ovviamente collettiva.

Forse uno smart che richiama troppo da vicino le battute finali del colloquio di Monos e Una nel celebre racconto di Edgar Allan Poe, in cui Monos solo una volta calato nella tomba si sente davvero rinato, vicino alla sua adorata Una. Speriamo il nostro destino informatico non necessiti di un amore necrofilo!

Ampia e documentata illustrazione del processo di distruzione di un popolo, una nazione, una città e un immenso patrimonio storico che sta avvenendo in quello stato tiranno e omicida cui l'Europa, gli Usa e la Nato hanno affidato il ruolo di "bastione della civiltà occidentale." Insieme, una richiesta di sostegno a chi tenacemente resiste

URBICIDIO A SUR- DIYARBAKIR
di Mireille Senn


Qui è scaricabile il testo integrale

Dall'inizio del 2015, la Turchia conosce una recrudescenza della violenza in tutto il paese. Atti di terrorismo e repressione poliziesca e militare si sono moltiplicati e hanno interrotto le fragili trattative di pace con i rappresentanti curdi. Queste erano state avviate nell’ autunno 2012 dal governo islamo-conservatore turco per tentare di porre fine ad una ribellione persistente nel sud-est del paese.

La guerra in Siria e la fuga dei rifugiati, i successi dei combattenti curdi in Iraq e nel Rojava alla frontiera siriana con la Turchia, l'accordo sul programma nucleare iraniano e l'autoritarismo del presidente Recep Tayyip Erdoğan fanno parte delle spiegazione alla crescita delle tensioni fino ad oggi.

Il clima delle elezioni legislative di giugno e di quelle anticipate di novembre 2015 è stato segnato da attacchi alla stampa dell'opposizione da parte del governo AKP[1], e alle sede del partito filocurdo HDP[2] da partigiani del presidente o dai nazionalisti del MHP[3] di estrema destra.

Nell'estate 2015, attentati commessi in Turchia dal gruppo Stato islamico, e altri commessi dal PKK[4] contro poliziotti e militari in ritorsione all'attitude al meno tollerante del governo turco verso i jihadisti islamici di Daech e dell'ISIS si sono susseguiti. In risposta, alla fine di luglio, l'aviazione militare turca ha iniziato dei bombardamenti sulle basi dei jihadisti in Siria, ma anche su quelle del PKK nel nord dell'Irak, rompendo la tregua che durava dal 2013.

"L'aumento delle misure di sicurezze al confine siriano" - come dichiarato dall'allora Primo Ministro Ahmet Davutoğl - ha incluso anche l'imposizione di coprifuochi in diverse città curde: Cizre, Silopi, e nel quartiere di Sur a Diyarbakır già dall'inizio di settembre 2015.

L'attentato di Ankara del 10 ottobre 2015, che ha colpito i partecipanti a una marcia per la pace organizzata dai sindacati di sinistra e dal HDP ha cristalizzato ancora di più le posizioni degli oppositori al governo. Da allora, veri e propri atti di guerra fra le forze di sicurezza turche e i gruppi armati che operano nella regione si sono svolti a porte chiuse : nell’ambito delle cosidette operazioni di sicurezza, sono stati officialmente confermati 65 coprifuochi "24 ore su 24" per una durata senza scadenza che ha variato da alcuni giorni a diverse settimane e persino a vari mesi.

Le conseguenze sulle popolazioni locali sono state particolarmente pesanti : secondo i dati raccolti dalla Fondazione per i Diritti Umani di Turchia, da gennaio alla metà di aprile 2016, sono stati uccisi dalle forze dello stato turco nella regione curda 353 civili e feriti 246 (senza contare le centinaie di militanti armati e di soldati caduti nei combattimenti). Attacate con armi pesanti, numerose città del Kurdistan sono state severamente danneggiate. L’ampiezza delle destruzione delle città si sono rivelate quando i coprifuochi sono stati revocati.

Ma la fine degli scontri armati non significa il ritorno alla pace per gli abitanti dei quartieri danneggiati : è cominciata oramai la lotta contro la gentrificazione e l'urbicidio voluti dal governo del onnipotente Erdoğan.

Diyarbakır, città millenaria
sulla lista del Patrimonio mondiale dell'Unesco

Diyarbakır (chiamata anche Amed dai curdi) è una città del sud-est della Turchia con una populazione di più di un millione e mezzo di abitanti. È considerata dai Curdi la capitale del Kurdistan turco. Il distretto di Sur, situato su un altopiano basaltico al di sopra il fiume Tigri, è la parte di città storica intra-muros di Diyarbakır. Alcuni storici fanno risalire la prima colonia sul Monte Amida a 5000 anni avanti Cristo, e attribuiscono la prima struttura di fortezza agli Hurriti circa 3000 a.C. Chiamata Amida nell'Antichità, fu capitale del regno arameo di Bet-Zamani nel XIII secolo a.C. Data la sua posizione geostrategica all'intersezione de l'Ovest e dell'Est, era già la principale piazzaforte della Mesopotamia nel IV secolo a.C. Dal II secolo a.C. al II secolo dopo Cristo fu una delle città maggiore del Regno d'Armenia. La regione diventò in seguito una provincia dell'Impero Romano e nel IV secolo fu una fortezza frontaliera nella valle superiore del Tigri, posta sotto assedio e presa della forze dell'Impero persiano dei Sassanidi. Dal XI al XII secolo fu sottomessa alla dinastia curda dei Marwanidi per poi passare sotto l'autorità dei Turchi Oghuz. Diyarbakır fu integrata all'Impero Ottomano nel 1534 e dopo un'annessione temporanea dall'Impero persiano Safavide, torno sotto la Sublime Porta e diventò capoluogo del vilayet di Diyabakir nel 1864.
La storia di Amida è anche un susseguirsi di influenze religiose: centro religioso legato al patriarcato siriaco-ortodosso di Antiochia, fu in seguito sede del partriacato della Chiesa cattolica caldea dalla fine del XVII secolo all'inizio del XIX secolo, e fino ai massacri che iniziarono alla fine del XIX secolo e che culminarono nel 1915, la regione era densamente popolata da Armeni e da diverse altre minoranze cristiane.

Se l'antica Amida prese la forma di una cittadella, dopo la Prima Guerra Mondiale e l'avvenimento della giovane Repubblica turca, la combinazione fra il bisogno di spazi dove costruire i nuovi edifici pubblici, la creazione della rete ferroviaria (che portava in se la speranza di uno sviluppo economica per la città), e l'edificazione di case e di caserme per l'esercito e il personale dell'amministrazione spinsero l'insediamento degli abitanti al di fuori della mura. In 1930, il Governatore Nizamettin Efendi mandò giù pezzi di muraglie nelle parte nord e sud della fortezza per dare aria alla città storica : nuove strade furono create che prolungarono l'asse di scambio tradizionale interno. Il quartiere interno alle mura fu chiamato Suriçi (sur = mura e iç = dentro), detto anche Sur. Con l'apertura e l'espansione della città, i proprietari delle case della parte storica cambiarono : i nuovi migranti delle zone rurali sostituirono gli abitanti più abbienti che andarono ad abitare nei nuovi quartieri. Un'altra parte della popolazione rurale si installò in baraccopoli con piccoli giardini nell'area compresa tra le case tradizionali e le mura della città. Dagli anni 1960, lo sviluppo urbano proseguò e si estendò al nord-est della città, sulla pianura. La città si costruì sur la trama di un piano orthogonale, ritmato da viale che prolongarono le breccie della città intramuros; strade secondarie servono di limiti a grandi isolotti dove grande torri sorgessero.

Negli anni 1980-90, la città conobbe una vera e propria esplosione urbana. Il conflitto armato, opponendo lo Stato turco al PKK nelle montagne dell'est e del sud-ovest della Turchia, diventò molto forte, constringendo la popolazione rurale ad un esodo verso le grandi città del paese. Diyarbakır tornò ad essere città di rifugio e i quartieri di Bağlar (all'ovest di Yenişehir), di Fiskaya e di Ben-U-Sen emergessero ai confini del tessuto urbano. La forma urbana rimase la stessa di quella iniziata negli anni 1960 e la forma architettonica declinò all'infinito degli ettari di torri alte dagli 8 ai 15 piani, interrotti da isolotti di gated communities per le classi sociali più ricche.

Sur si ritrovò a dover accogliere una parte di questi arrivi massicci e venne densificato al massimo: le case tradizionali di basalto furono consolidate e sopraelevate, nuove case aggiunte al tessuto già denso.

Dall'inizio degli anni 2000, la maggior parte delle famiglie solvibili o abbienti lasciarono Sur e andarono ad abitare nei condomini e nelle residenze chiuse degli quartieri più in vista della città in continua espensione.

Queste traiettorie residenziali hanno reso Sur un distretto uniformemente povero. Diyarbakır continua ad estendersi al di fuori delle muraglie antiche, spinta verso nord-ovest dalla valle del Tigri e dall'aeroporto militare che chiudono ogni possibilità di estensione altrove.

La straordinaria storia di questa città multiconfessionale ha lasciato un patrimonio architettonico molto ricco - muro di cinta quasi intero, chiese e moschee, caravanserragli, antiche case - che venne riconosciuto di interesse mondiale col l'iscrizione sulla Lista del Patrimonio Mondiale dell'Unesco il 4 luglio 2015 come Paesaggio culturale della fortezza di Diyarbakır e dei Giardini dell'Hevsel. Le muraglie e le sue torre storiche vengono ormai protette in quanto classificate "sito urbano", l'Içkale (la fortezza) di Amida in quanto "sito archeologico di prima classe" e due zone tampone vengono delineate, una esterna alle mura, l'altra essendo costituita dal distretto di Sur.

Il contesto politico

L'HDP è alla testa della municipalità metropolitana di Diyarbakır dal 2009. Da allora, è riuscita a menare un'azione politica volontaristica con l'apertura di centri sociali o culturali per gli abitanti, insistando sul passato multiconfessionale e multiculturale, ma anche sul carattere profondamente curdo della città. Pezzi del patrimonio non-musulmano (come la chiesa di San Ciriaco) sono stati rinnovati, anche se le communità contano ormai solo alcune famiglie. Una nuova generazione di uomini politici e di responsabili di associazioni e organizzazioni non-statali, che non hanno vissuto la lotta armata, ha vivacizzato una società civile diventata intraprendente. L'iscrizione della città al patrimonio dell'Unesco in 2015 è stata una tappa importante di questo percorso.

All'inizio del 2014, i tre cantoni di Rojava (Afrine, Kobane e Jazire, nel Kurdistan siriano) annunciarono la creazione di una regione federale nelle zone sotto il loro controllo nel nord della Siria. La federazione in comuni autonomi e l'adozione di un contratto sociale che stabilì una democrazia diretta e una gestione egalitaria delle risorse sulla base di assemblee popolari costituì una speranza per i Curdi della Turchia che seguono con attenzione la situazione dall'altra parte della frontiera. Il progetto politico del PYD[5] è quello di un confederalismo democratico con strutture federative e auto-organizativi per permettere l'organizzarsi di una società plurale in maniera più equa a tutti i livelli. Cioè l'antitesi dei principì fondatori della Stato turco nazionalista e patriarcale incarnato oggi dal l'AKP del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Anzi, il governo turco è stato accusato a diverse riprese di sostenere i jihadisti contro i combattenti curdi del YPG[6] - il braccio armato del PYD - al fine di indebollire l’autonomia curda in Siria: anche quando l'esercito turco ebbe in linea di mira diretta i combattenti dello Stato islamico, non fece nulla per respingerli.

Durante l'occupazione di Kobane da parte dell'ISIS, il presidente Erdoğan aveva posto le condizioni per il suo sostegno ai resistenti curdi: creare una zona cuscinetto nel nord della Siria (sostanzialmente un’occupazione turca); l'unione dei curdi con l’opposizione araba siriana, e la presa di distanza del PYD dal PKK. Termini che sono stati respinti dai curdi del Rojava in quanto inaccettabili.

Nell’ ottobre 2014, manifestazioni di sostegno a Kobane e di protesta contro l'inazione turca si sono tenute in tutto il paese e hanno dovuto far fronte agli interventi violenti delle forze dell'ordine turche. A mettere olio sul fuoco, le dichiarazioni dei rappresentanti dello Stato che presentarono l'YPG come un'organizzazione più pericolosa che l'ISIS. Le ripresaglie contro la polizia e i militari da parte di militanti pro-curdi si molteplicarono, a cui le forze di sicurezza turche risposero a loro volta. L'ingranaggio della violenza era di nuovo in atto, ma la speranza di trovare delle soluzioni pacifiche non era ancora svanita.

Il 26 gennaio 2015, arrivò l'annuncio della liberazione di Kobane. Le forze curde, con l'aiuto della coalizione sotto commando americano, hanno ripreso la città sotto assedio da più da 4 mesi dai jihadisti dello Stato islamico. Lo stesso giorno, la Turchia ha aperto il più grande campo per i profughi siriani a Suruç, a pochi chilometri di Kobane da dove sono arrivati circa 200 mila rifugiati. Come in altre città curde, migliaia di persone si sono radunate nella città di frontiera per festeggiare la vittoria su Daech ma anche per tentare di raggiungere la città siriana ormai liberata. Vengono fermate dalle forze di sicurezza turche che disperdono la folla.

Il 28 febbraio 2015, la stampa nazionale e internazionale annunciò la rilancia dei negoziati con i ribelli curdi del PKK. "La Turchia è più vicina che mai dalla pace" - rilasciarono, ottimisti, i deputati del partito HDP all'uscita dell'incontro col vice-Primo ministro, Yalçın Akdoğan, al palazzo di Dolmabahçe. La riunione diede luogo ad una dichiarazione congiunta storica e alla lettura di un messaggio del capo del PKK, Abdullah Öcalan, che lancia alle sue truppe, dalla sua prigione, un appello a deporre le armi. Se, in un primo tempo, il presidente Erdoğan qualificò l'appello di "molto importante", appena alcuni giorni dopo prese le sue distanze da l'iniziativa. L'avvicinamento delle elezioni di giugno non fu estraneo a questo fatto : per non perdere voti, Erdoğan non vuole mettere la questione curda al centro del dibattito politico. Al contrario, il presidente turco si lanciò nella campagna elettorale - malgrado la neutralità richiesta dalla sua funzione - enfantizzando una polarizzazione della società sul modo del bene contro il male: laici contro religiosi, alevi contro sunniti, Curdi contre Turchi. Violenza di discorso che finì per tradursi sul terreno. Gli attacchi agli candidati e alle sede del partito filo-curdo HDP si ripeterono. Malgrado le intimidazioni, i risultati delle elezioni vedono l'entrata storica in parlamento del'HDP che oltrepassa la soglia dei 10% imposta ai partiti per entrare in camera, e la fine della maggioranza assoluta per l'AKP. Il 22 agosto, passato il termine di 45 giorni previsto dalla legge, l'AKP non avendo trovato nessuna coalizione con gli altri partiti, Erdoğan convocò elezioni anticipate per l'inizio di novembre 2015.

Nel frattempo, la violenza era esplosa sopratutto nel sud et nel sud-est del paese. Il 20 luglio 2015, 32 volontari della Federazione delle associazioni dei giovani socialisti venuti a Suruç per partecipare alla ricostruzione di Kobane sono uccisi in un attentato attribuito all'ISIS. Il giorno dopo, in tutte le città del paese, manifestazioni furono organizzate dalle organizzazioni di sinistra. Ovunque si sentirono le grida di accusa al governo turco per complicità con i combattenti islamici radicali. Il 22 luglio, il PKK rivendicò la morte a Ceylanpinar di due poliziotti in rappresaglia alla morte dei giovani di Suruç. Il 24 luglio, la polizia turca lanciò una vasta operazione antiterrorista in 13 provincie, e l'aviazione militare turca colpì le posizioni dell'ISIS nel nord della Siria, approfitando dell'occasione per effettuare anche dei raid contro il Kurdistan irakeno e i campi del PKK. Quest'ultimo dichiarò allora la fine del cessate il fuoco in vigore da due anni. Così, nel momento in cui l'HDP guadagnava legitimità col suo risultato alle elezioni di giugno, la ribellione curda cadeva nella trappola tesa dall'AKP, quella del ricorso alla violenza. La retorica usata da Erdoğan e dal suo Primo ministro che presentò l'HDP come succursale del PKK fece strada.

L'AKP vinse le elezioni di novembre 2015 col 49,3% dei voti: abbastanza per governare da solo ma non per modificare la Costituzione. Dichiarando "la guerra fino in fondo" contro i ribelli curdi e bombardando le loro posizioni in Turchia e nel nord dell'Irak, Erdoğan aveva trovato la simpatia della destra nazionalista, fortemente opposta a ogni concessione verso la minorità curda. Fra il 7 giugno e il 1 novembre 2015, l'HDP perse un milione di voti ma riuscì comunque a mantenersi al Parlamento con il 10,4% dei voti e 56 deputati.

Tra l'autunno e l'inverno 2015, la ripresa della repressione da parte delle truppe turche incitò gruppi di giovani curdi alla guerigla urbana. Le vittorie dei combattenti curdi nel Rojava in Siria hanno ispirato questa generazione che vive nel mito della guerilla e del sacrificio dei suoi genitori e hanno aumentato le loro aspirazioni all'autonomia e all'autogestione del Kurdistan. Aggiunta la mancanza di prospettive di futuro, si capisce che sono stati spinti ha vivere il "loro" Kobane, fosse lanciandosi in combattimenti nelle città con discutibile pertinenza strategica, a meno che sia stata sacrificiale. Un centinaio di giovani guerriglieri curdi scavarono trincee e proclamarono l'indipendenza del quartiere, ma non ottennero il sostegno della popolazione. Se gli abitanti di Sur avevano votato in modo massiccio per l'HDP (più del 70%) la loro aspirazione a vivere in pace non li resero pronti alla rivolta popolare sperata dai giovani guerriglieri, anche dopo il succedersi dei coprifuochi dettate dalle forze di sicurezza turche nelle zone all'Est del distretto. Le forze armate di Stato che avevano di fronte a loro piccoli gruppi di combattenti per la maggior parte dilettanti che avrebberò pottuto vincere in poco tempo. Ma sembra che abbiano fatto durare gli interventi a bella posta: si può ipotizzare che a Sur, il bersaglio dello Stato turco era la città storica in se stessa.

L'impatto dei combattimenti su Sur

Dopo la sua visita di alcuni giorni in Turchia in aprile 2016, Nils Muižnieks, Commissario ai Diritti Umani del Consiglio dell'Europa, dichiarò che la caratteristica la più saliente delle operazioni antiterroriste - riprendendo la denominazione ufficiale del governo turco - in atto da agosto 2015, fu l'instaurazione di coprifuochi sempre più lunghi, 24 ore su 24, e illimitati nel tempo, in quartieri o città intere del sud-est della Turchia Il Commissario si pose anche la questione della proporzionalità delle operazioni delle forze di sicurezza : "Durante la mia visita sul sito dell'assassinio di Tahir Elçi a Sur, ho potuto avere un quadro della proporzione molto sconvolgente della distruzione in certe zone. Il governo mi ha informato che 50 terroristi sono stati uccisi durante le operazioni a Sur; tuttavia, almeno 20 mila persone sono state spostate, inumerevoli edifici sono stati distrutti, e numerosi civili hanno indubbiamente molto sofferto a causa dei terroristi e dei danni collaterali."

Un rapporto di fine marzo 2016 della Municipalità Metropolitana di Diyarbak fa un breve elenco dei guasti e delle distruzioni causati dai combattimenti: la moschea di Kurşunlu di Fatih Paşa, la moschea Sheikh Muhattar e il suo famoso minareto a quatro pilastri, i negozi storici classificati situati nella strada Yeni Kapı vicino alla chiesa di San Ciriaco (la più grande chiesa armena della regione) e della chiesa caldea Sant'Antonio, l'Hamam Paşa, ma anche esempi di architetture civili tradizionali come la Casa e Museo Mehmed Uzun o la strada coperta Kabaltı, un raro esempio del tessuto urbano tradizionale.
Nello stesso periodo, poco dopo la revoca del coprifuoco, un decreto del Consiglio dei ministri firmato dal presidente Erdoğan prevette l'esproprio urgente del 82% delle particelle di Sur. Il decreto porta la data del 21 marzo 2016, il giorno di Newroz, la festa del nuovo anno curdo. Tuttavia, diversi giuristi e associazioni civili constestano la sua legalità, sollevando il fatto che il governo può emettere espropriazioni urgenti solo in caso di catastrofe naturale o di guerra, termine che si rifiuta di usare nel caso delle operazioni nel sud-est del paese (che qualifica invece di "antiterrorismo"). A seguito di questa decisione, la Camera degli Architetti di Turchia, instituzione riconosciuta d'interesse pubblico dalla Costituzione turca (Art. 135) e interlocutore degli esperti del patrimonio mondiale, ma anche numerosi cittadini hanno avviato una procedura contro le espropriazioni.

Si può dire che il governo islamista dell'AKP sta approffitando delle distruzioni per smantellare la parte storica e popolare della città di Diyarbakır, favorevole al movimento di liberazione curdo. Il proggetto di trasformazione urbana, negoziata da una decina di anni e suscitando forte divergenze tra le autorità municipali e quello dello Stato turco sembra ormai definitivamente piegare a favore di quest'ultimo. E allora, la nozione di urbanicidio - se si intende come destruzione intenzionale di quello che fonda l'urbanità di una città - sembra appropriata a quello che sta accadendo a Sur. I combattimenti hanno provocato lo spostamento di almeno 30 mila abitanti. E vista l'ampiezza delle distruzioni (70% degli edifici nell'Est della città storica) è chiaro che tutti non potranno tornare ad abitare nelle loro case. In aggiunta, oltre ai danni sulle strutture architetturali, le violenze hanno anche provocato la rottura della vita sociale nel quartiere : interruzione delle attività artigianale e chiusura dei commerci di prossimità, spaccatura delle rete tradizionali di aiuto reciproco e di mutualizzazione delle rissorse (com'era il caso per i tandır - forni comuni per il pane).

In una dichiarazione ripresa dal New York Times del 23 aprile 2016, l'ufficio del governatore locale difende la decisione di espropriazione dicendo che il bersaglio principale è quello di portare il potenziale di Sur come quartiere storico alla luce, restaurando gli edifici e sostituendo le strutture irregolari con delle nuove, che corrisponderanno al tessuto storico della città, aggiungendo che le proprietà verrebbero restituite una volta retaurate. Ma l'esperienza dei quartieri di Sulukule, Tarlabaşı e Okmeydani a Istanbul, che hanno vissuto un brutale stravolgimento della loro popolazione residente e una gentrificazione sotto una pressione economia forte, non lascia grande speranza agli abitanti di Sur.

La politica eseguita dalla TOKI (l'Amministrazione Pubblica dell'Alloggio Collettivo) in partenariato con appaltatori e imprenditori privati è chiaramente dettata dal profitto che si può trarre dalla speculazione immobiliare e finanziaria. Sotto il governo dell'AKP, i dirigenti della TOKI si sono felicitati della promolgazione della rivitalizzazione urbana come tecnica di emancipazione per i poveri, e per le communità e le popolazioni marginalizate. A questo scopo la TOKI offre ipoteche fino a 25 anni che permettono (o che così fa sembrare) a una popolazione con redditti bassi di diventare proprietari. Ma di fatto, il partenariato privato-pubblico ha generato più ineguaglianza : sotto la volontà di risolvere la crisi dell'alloggio nei centri delle città turche, il governo a distrutto i gecekondu e altre forme di abitazioni informali, gettando per strada molti ormai senza tetto e trasformando le zone liberate in siti prospizi alla speculazione e alla rendita immobiliare. Inoltre, le ipoteche a lungo termine operano come una tecnologia governativa: gli agenti della TOKI possono esercitare un vero potere sugli ipotecati, attraverso i tassi di interesse, mettendoli sotto il controllo della benevolenza della regia di Stato che può esercitare in questo modo una pressione sulla loro vita quotidiana e sulle loro decisioni politiche in periodo di elezioni.

In un'intervista rilasciata al giornale The Guardian a febbraio 2016, il direttore del Dipartimento del Patrimonio Culturale e del Turismo della Municipalità di Diyarbakır, Nevin Soyukaya anticipava :

- È ridicolo dire a queste persone "Possiamo portarvi una nuovo economia e più commerci con questi proggetti"; questa è una città che rissale a 7.000 anni, un centro di cultura e di commercio. La gente qui ha la memoria di questo. Se gli forzate a lasciare la zona, o di cambiare il loro stile di vita e la loro ambiente, distruggete la loro memoria storica, la loro cultura e il loro modo di vivere. Questo non è più una questione solo di Curdi e della popolazione di Diyarbakır. Sur è una parte della Mesopotamia, la culla della civilizzazione, così è un problema di livello mondiale; è importante per la storia dell'umanità e la sua destruzione sarebbe un crimine internazionale."

Dal 10 al 20 luglio 2016 è in corso a Istanbul la quarantesima sessione del Comitato del Patrimonio Mondiale dell'Unesco durante la quale è esaminato se i beni iscritti sono - o no - sotto protezione, e se strategie di salvaguardia debbono essere definite per i beni in situazione di pericolo. Nel caso di Diyarbakır, il rapporto specifica che lo Stato contraente ha creato un gruppo di lavoro per valutare i danni, il quale ha concluso che non esiste nessun deterioramento maggiore del bene nelle zone tra cui la fortezza di Diyarbakır, l'Içkale e i giardini dell'Hevsel. Misure di conservazione temporanee hanno dovuto essere prese per proteggere il bene per ragioni di sicurezza a causa di incidenti terroristici. Delle situazioni di degrado sono state segnalate nella zona tampone in particolare nel quartiere di Suriçi. Il Primo ministro turco si è ingaggiato ad applicare un piano di riabilitazione per Suriçi, compresa la sua conservazione. La racomandazione di decisione si limita a chiedere allo Stato contraente di fare una valutazione dello stato di conservazione del bene "non appena le condizione di sicurezza lo permettano" e di produrre un rapporto per il 1 febbraio 2017.

L'urbicidio di Sur, nel frattempo, è proseguito a colpi di bulldozer che hanno raso al suolo tanti edifici nelle zone colpite dai combattimenti e portato in discarica decine di tonnelate di detriti mescolati. Le operazioni di sgombero dei materiali si svolgono su un sito urbano protetto e dovrebbero rispettare misure specifiche di protezione, che non sono state prese. La perdita di alcuni materiali è ormai definitiva. Ormai, anche se lo Stato turco rinunciasse alle sue velleità di trasformazione della città storica, la ricostruzione di Sur non potrà più essere fedele a quello che era prima dell'estate 2015. Numerose abitazioni non saranno mai più ricostruite e anche se lo fossero, le famiglie che hanno dovuto trovare una sistemazione altrove non è sicuro che tornino.

Il tentato colpo di stato del 15 luglio 2016 e le misure di ritorsione del governo di Erdoğan rendono il futuro ancora più incerto, ma non devono far dimenticare che l'epurazione è cominciata da anni e non fa che proseguire. Oggi, le priorità sono moltiple. Fra queste, la possibilità per la società civile di presentare un piano urbanistico alternativo di ricostruzione di Sur, un progetto che tenga conto della realtà sociale che fù prima dell'estate 2015, cercando di ridarle vita. A questo scopo, l'aiuto e la solidarietà di professionisti - urbanisti e architetti - da l'Italia e d'altrove non sarà certo un peso, ma al contrario un sollievo e un segno di speranza in questo periodo buio per la Turchia.

NOTE
Riportiamo solo le note che chiariscono le sigle delle formazioni politiche ripetutamente citate nel testo. Tutte le note e le illustrazioni sono nel testo integrale, scaricabile qui nel formato .pdf

[1] AKP : Adalet ve Kalkınma Partisi - Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, al potere dal 2002.
[2] HDP : Halkların Demokratik Partisi - Partito democratico dei Popoli, sinistra progressista, emerso dai movimenti di indipendenza curda.
[3] MHP : Milliyetçi Hareket Partisi - Partito del Movimento Nazionalista.

[4] PKK : Partîya Karkerén Kurdîstan - Partito dei Lavoratori del Kurdistan di Abdullah Öcalan, detto Apo, in prigione dal 1999.
[5] PYD : Partiya Yekîtiya Demokrat - Partito dell'Unione Democratica
[6] YPG : Yekîneyên Parastina Gel - Forze di Difesa del Popolo

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