Sulle conseguenze, ancora largamente ignorate, del 5G. Dalla questione energetica all'obsolescenza programmata che costringerà all'acquisto di nuovi dispositivi cellulari. Con commento (i.b)
Le ripercussioni del wireless di 5^ generazione potrebbero essere non solo negative per l'ambiente, ma anche per la salute pubblica, come messo ben in evidenza dal 1° meeting nazionale "Emergenza politica di precauzione’ promosso dall’alleanza italiana Stop 5G. A conclusione dei lavori è stata prodotta una risoluzione per mettere in campo delle strategie emergenziali, ispirate al Principio di Precauzione, da adottare a livello nazionale e locale a sostegno dei diritti costituzionali alla tutela della salute pubblica.
Inoltre 180 scienziati e medici provenienti da 36 paesi hanno sottoscritto un appello all'Unione europea, per mettere in guardia sul pericolo del 5G, che porterà ad un massiccio aumento dell'esposizione involontaria alle radiazioni elettromagnetiche. Gli scienziati chiedono all'UE di seguire la 'risoluzione 1815' del Consiglio d'Europa costituendo una task force indipendente per rivedere gli effetti sulla salute di questa tecnologia e raccomandando una moratoria sull'introduzione del 5G per le telecomunicazioni fino a che i potenziali pericoli per la salute umana e per l'ambiente siano stati completamente investigati da scienziati indipendenti dall'industria. (i.b.)
Tecnofilia contro il ritorno al lume di candela? Al di là delle caricature che proliferano sui social network, cerchiamo di fare il punto sulle conseguenze ecologiche del 5G. In primo luogo, in termini di efficienza energetica. Il ricercatore Romain Chevillon ha appena pubblicato una tesi di ricerca su questo argomento. Lui calcola che a perimetro di utilizzo costante, il 5G sarà meno energivoro, grazie in particolare alle antenne direzionali. «Ma, poiché il numero di utenti aumenterà, probabilmente avremo un aumento dei consumi». L'ottimizzazione dei processi per assorbire la crescita senza spendere più energia rimane secondo lui «nel campo della matematica pura che incorpora l'intelligenza artificiale. Siamo ancora nella ricerca di base». Il ricercatore è un esempio perfetto dell’“effetto rimbalzo”: questo si verifica quando i guadagni ambientali derivanti dall'efficienza energetica sono annullati da un maggiore utilizzo. Nel caso del 5G, gli utenti divoreranno più dati e quindi distruggeranno i benefici dei progressi tecnologici.
Gli sperimentatori e gli operatori di telefonia mobile ne sono ben consapevoli. E stanno lavorando su sistemi che permetterebbero di ridurre i costi energetici. Tra le vie percorribili: il trattamento decentralizzato dei dati, per evitare feedback inutili e distribuire la potenza di calcolo in modo intelligente. Sarebbe come installare un sistema “start and stop”, come sulle auto, per risparmiare energia quando il computer è al minimo. Tuttavia, questi progressi rimangono aneddotici di fronte all'entità del problema. E la ricerca rimane confidenziale. «È complicato, perché non è questa la direzione di ricerca che porterà subito dei soldi», nota Guy Pujolle, professore alla Sorbona del laboratorio informatico Paris 6. Egli sottolinea anche che «non è il 5G, che è un mezzo di trasporto di informazioni, che consuma veramente. Ma piuttosto centri dati, che conserveranno i dati trasportati».
Secondo un rapporto pubblicato da Cisco, un'azienda statunitense specializzata in reti e server informatici, nel 2017 sono stati scambiati 7,2 exabyte di dati al mese in tutto il mondo [un exabyte rappresenta 1018 ovvero un miliardo di miliardi di byte; un gigabyte è 109 byte ovvero un miliardo di byte], con un aumento del 63% rispetto al 2016. Un volume che dovrebbe aumentare di sette volte entro il 2022 fino a 49 exabyte mensili. Per fare un confronto, un exabyte rappresenta l'equivalente di 215 milioni di DVD... Tutti questi dati sono stoccati in centri dati super-affamati di energia. Secondo la rete francese di trasmissione dell'elettricità (RTE), il consumo di elettricità in tutti i data center francesi nel 2015 è stato di circa 3 TWh. Cioè più della città di Lione. Alcuni stanno facendo sforzi per essere più “verdi”: elettricità idraulica fornita dalle cascate del Niagara Falls per Yahoo; raffreddamento polare per Facebook e le sue strutture nel lontano nord della Svezia; congelamento dell'acqua dal mare scozzese per i server Microsoft.
«Le persone che acquisteranno uno smartphone nel 2020 vorranno che sia compatibile con il 5G. Ma correranno un rischio, perché la tecnologia non è ancora completamente testata. È probabile che i telefoni arrivino prima delle reti», afferma Jean-Pierre Casana, innovation manager di Orange.
L'impiego del 5G è un ottimo affare per i produttori. «Siamo alla fine del ciclo del 4G. Dal punto di vista dei produttori, dovremo trovare qualcosa che giustifichi il rinnovo dei telefoni. Per questo motivo dobbiamo già iniziare a programmare nella nostra mente la futura obsolescenza dello strumento attuale», dice Dominique Boullier, sociologo e specialista nell'uso delle tecnologie digitali e cognitive. In Francia, cambiamo telefono ogni 20 mesi circa. Dove finiscono i rifiuti? La maggior parte di loro nei nostri cassetti. Secondo un rapporto del Senato, solo il 15 percento passerebbe attraverso un circuito di raccolta.
Per quanto riguarda il riciclaggio, è ben lungi dall'essere una panacea, come spiega Vianney Vaute, co-fondatrice di Back Market, una piattaforma dedicata ai prodotti ricondizionati: «Fino a quando il settore tecnologico non avrà realizzato una profonda rimessa in discussione culturale e le sue aziende cercheranno in tutti i modi di incoraggiare l'acquisto perpetuo di nuovi prodotti, tutti i processi di ecodesign e i programmi di riciclaggio (...) rimarranno alibi con effetti limitati che ostacoleranno anche l'emergere di approcci alternativi e complementari al riciclaggio».
Dovremmo anche ricordare le conseguenze ambientali della progettazione di telefoni cellulari, pieni di metalli noti come «minerali di sangue», estratti da miniere sfruttate da gruppi armati dove spesso lavorano i bambini.
Abbiamo fatto riferimento al telefono, oggetto simbolico del 5G, ma questa logica di obsolescenza programmata si applica a tutti i gadget tecnologici che popoleranno la nostra vita quotidiana di domani. Cosa faremo quando i 75,44 miliardi di oggetti connessi annunciati nel 2025 saranno alla fine della loro vita? Sarà necessario aprire cimiteri di robot, come già esiste in Russia? «La tecnologia digitale rende i rifiuti totalmente invisibili. Un po' come l'energia nucleare» dice la sociologa Dominique Boullier «Quando si getta una plastica a terra, la si vede. Ma per il digitale, è altrove. Non esiste una visione sistemica di tutto questo. Dovremmo rallentare la nostra connettività permanente, ma la sfida è difficile. Lo Stato deve fare leggi, imporre bilanci energetici, aiutare le persone a cambiare comportamento». E infine, integrare la sobrietà digitale nelle nostre pratiche tecnologiche.
[Traduzione a cura di Andrea Mencarelli dell’articolo pubblicato su Reporterre]
Intervento al Convegno di Rifondazione Comunista «La città ai tempi del neoliberismo» che si è tenuto il 6 Aprile 2019 a Bergamo. Dal caso emblematico di Milano a considerazioni sulla deriva dell'urbanistica nazionale. (i.b.)
«Oggi è l’americanismo indigesto che folleggia in grattacieli.
Perché le forze nuove della città si esprimono in modi così alieni, così sciocchi, così dannosi all’utile?
Anche se animato da volontà di far nuovo, di far grande, ogni signore delle ferriere suole affidare la soluzione dei propri problemi a un suo tecnico, necessariamente ubbidiente alla moda che è nell’aria e alla personalità volitiva del padrone.
Costui ha sempre delle idee, raccolte a Londra, a Parigi, oggi soprattutto in America: costui si gloria non di inventare (la parola è disusata fuor del campo tecnico) ma d’imitare ieri un lord Derby, o un banchiere Laffitte, oggi una Corporation famosa pel suo grattacielo.
...poggiando su questo caposaldo raggiunto col ragionamento e coi calcoli, noi scorgiamo un nuovissimo panorama davanti agli occhi della mente: vediamo il centro mercantile di Milano dover risorgere con edifici relativamente bassi, e la città futura assomigliarsi in questa porzione centrale molto più alla città del Rinascimento che non a quella dello “stupido secolo XIX” che la guerra ha distrutta.
...le case non hanno ragione d’essere più basse di quanto lo fossero ieri (limite generale a m. 24), ma neppure di salire più in alto.»
[Tratto da G. de Finetti, Sulle aree più care case alte o case basse ?, (1945-’46 circa), ora in G. de Finetti, op. cit., 2002, Milano, Costruzione di una città, Hoepli, Milano 2002, p. 395.]
«La mania delle grandi altezze rientra nella mania del «Kolossal», così caratteristico negli sviluppi moderni, nella megalomania moderna.
Non la grande altezza dobbiamo desiderare, nel caso di costruzioni in aree urbane più care, ma la giusta altezza; e questa va determinata mediante esperienze preventive di non ardua istituzione.
Solo così si possono evitare quei wastes in planning che ad esempio hanno portato a costruire a New York l'Empire State Building, che misura più di 300 m. in altezza (…)
La stessa tendenza presiedette nelle nostre città a molte iniziative edilizie che per essere di mole assai minore non mancano di costituire col loro complesso una massa di cattivi investimenti assai gravosi per l'economia italiana e che, last but not least, hanno recato immenso danno, spesso anzi definitivo ed irrevocabile insulto al volto delle nostre città”
[Tratto da G. de Finetti, ibidem, p. 397]
Nelle più o meno grandi trasformazioni urbane attuatesi a Milano dal quindicennio scorso (ex Fiera/Citylife, Porta Nuova District) o in corso di definizione (ex scali ferroviari FS/Sistemi Urbani, ex Piazza d’Armi, ex caserme, ecc.) le quantità edificatorie consentite dal Comune sono state “consensualmente contrattate” in base ad accordi con le proprietà fondiarie determinandoli non su preventivi criteri di congruità urbanistica, ma solo sulle aspettative di rendita delle proprietà in base alla necessità di risanare situazioni debitorie pregresse (Fondazione Fiera, con 250 Milioni di € di debito imprevisto per la costruzione del nuovo polo di Rho-Pero) o alle disponibilità economiche degli investitori finanziari (Intesa San Paolo e Generali a Citylife; Hines-Catella prima e Fondo Sovrano Qatar poi a Porta Nuova) che hanno consentito loro di pagare alle proprietà delle aree una rendita fondiaria doppia di quella corrente per le operazioni immobiliari più usuali (1.800 € per metro quadro di superficie commerciale vendibile contro i 900 €/mq correnti nel 2005 per operazioni immobiliari di media dimensione), con una scommessa speculativa sull’effetto monopolistico atteso sull’orizzonte dei successivi 15-20 anni e che solo operatori finanziari di quella dimensione potevano permettersi di affrontare e anche di rischiare di perdere – come in parte sta accadendo – senza con ciò andare in fallimento.
Oltre tutto, ciò è avvenuto senza nemmeno che il Comune riuscisse ad ottenere una consistente quota di compartecipazione economica agli utili che vi si sarebbero potuti stimare attesi, come alcuni propongono debba essere il criterio di valutazione dell’utilità pubblica di tali scelte[1] .
Quanto a quello di ottenere adeguate risorse nella dotazione di spazi pubblici corrispondenti ad una concezione di moderna città europea la partita si è rivelata altrettanto perdente: solo un terzo delle dotazioni di verde e servizi pubblici promessi nelle previsioni iniziali è stato effettivamente realizzato, perché altrimenti non vi sarebbe stato spazio sufficiente dove collocare gli edifici privati o avrebbero dovuto essere alti il triplo delle già incombenti torri da 200 metri di altezza. Ciò che non è divenuto spazio pubblico ed è stato pagato alla proprietà fondiaria originaria 2.000 €/mq è stato indennizzato al Comune a 300 €/mq, cifra con la quale si può espropriare una stessa quantità di aree da destinare ad uso pubblico solo in estrema periferia. Quel criterio di falsa equipartizione mezzadrile (metà al pubblico, metà al privato) - che come vedremo viene surrettiziamente spacciato come equa divisione delle aree, ma non nella definizione dei pesi insediativi – in questo caso non è stato ritenuto criterio valido affinché il Comune venisse remunerato dall’investitore alla pari della rendita fondiaria: 1.000 € ciascuno!
Eppure, quando discuto con persone anche con me d’accordo nella valutazione critica delle impostazioni e degli esiti prodottisi o prevedibili, facendo rilevare coi miei calcoli la scorretta o gravemente insufficiente determinazione dei cosiddetti “standard di spazi pubblici” fissati per legge mi capita spesso di sentirmi obiettare che i possibili effetti migliorativi che si sarebbero realizzati con criteri di legittimità e razionalità urbanistica che avrebbero imposto una maggior quantità di aree pubbliche rischiano di essere difficilmente compresi dall’opinione pubblica a fronte del successo di immagine mediaticamente veicolato e alla folta frequentazione – soprattutto giovanile - che gli interventi realizzati riescono ad attrarre con la loro inusuale novità e che .- quindi – tanto vale affidarsi solo ad un discussione sul gradimento della presuntamente “libera” inventività tipologico-progettuale degli edifici. Assistiamo così a interi servizi giornalistici sulla inusuale novità delle torri di Citylife, solo perché fantasiosamente denominate Il Dritto-Isozaki, o Il Torto-Hadid, o Il Gobbo-Libeskind oppure sulle “insule” ispirate da architetture simil crocieristico-navali (Hadid) o vagamente astronautiche (Libeskind), ma che comunque si distanziano assai poco tra loro e giusto perché ci è stato ficcato in mezzo un po’ di verde pubblico a strisce, altrimenti finirebbero direttamente spiaccicate l’una contro l’altra. A Porta Nuova Il Diamantone-Caputo/Kohn/Pedersen/Fox, la Torre Solaria-Studio Arquitetconica, il Verde Verticale-Boeri e quello fallico di Cucinella per Unipol non ha ancora trovato un’intitolazione, solo perché si rischia di cadere nel pecoreccio: tutte incombono su una striscia di percorso pubblico pedonale in cui ci si rapporta solo con pub, temporary stores, shopping centers di piani terra o sotterranei.
Ho avuto il modo di dimostrare planivolumetricamente[2] che in alcune parti dell’area di Porta Nuova il Comune, se solo lo avesse voluto, avrebbe potuto far sì che i 250.000 metri cubi di edificazione impostigli dall’esito sfortunato di un pluridecennale contenzioso giudiziale si sviluppassero con tipologie a volumi compatti ed altezze non superiori ai 35-40 metri, come sono stati realizzati col Markthall di Rotterdam e col nuovo edificio del Ministero delle Finanze francese a Bercy, anziché per lo più con edifici a torre di grande altezza.
Sia nel caso di Citylife che in quello di Porta Nuova si tratta quindi sostanzialmente di attuazioni orfane di qualunque orientamento urbano, insediativo e tipologico riconoscibilmente guidato e voluto dall’ente pubblico, lasciato invece totalmente alla proprietà privata nella possibilità di stabilire liberamente non solo “dove e come” (spazi ad altezza media di interpiano di 3 metri, ciò che massimizza la superficie commerciale vendibile, liberamente adattabile a residenza o uffici secondo l’andamento delle opportunità di mercato), ma anche “quanto” spazio pubblico e soprattutto quanto spazio pubblico per abitante/utente realizzare effettivamente nell’intervento.
In fondo proprio come si è lasciato negli anni ‘50 e ‘60 con le lottizzazioni privatisticamente autoregolate, solo con un po’ più di agio economico e un po’ più di bizzarria nelle finiture dell’immagine degli edifici ![3]
Proverò allora a ripercorrere la storia della legislazione urbanistica in Italia, cercando di dimostrare perché quelle quantità minime di spazi pubblici e di spazi pubblici per abitante/utente (gli “standard”, appunto) che dovrebbero essere garantite per legge in modo indisponibile dalla cedevole volontà del Comune e dalle fantasiose soluzioni dei progettisti loro ispirate dalle aspettative delle proprietà private siano in realtà un elemento necessario anche se non del tutto sufficiente a garantire l’interesse pubblico collettivo degli esiti urbani di tali interventi.
Le norme sugli standard minimi di spazio pubblico e sulle distanze minime degli edifici tra di loro e dai confini di proprietà furono introdotte nel 1967 (pur con grande difficoltà ed aspre polemiche sulla compressione dei diritti alla libertà d’uso delle proprietà, giunte sino a fomentare tentativi di colpo di Stato) con la Legge “Ponte” (così detta perché doveva essere una modifica di emergenza della legge del ’42, in attesa di una riforma organica che non arriverà mai) e il successivo Decreto Ministeriale del 1968.
Essa ribadì l’obbligo per i Comuni di approvare un Piano Regolatore Generale (PRG) prima di qualunque possibilità di intervento da parte dei privati, i quali potevano farlo solo in base alle localizzazioni e alle quantità edificatorie e di spazi pubblici in esso stabilite. Ciò era già previsto nella Legge Urbanistica approvata nell’agosto del 1942 sotto l’impulso dell’architetto-gerarca Alberto Calza Bini, segretario del Sindacato Nazionale Fascista Architetti e fondatore dell’Istituto Nazionale di Urbanistica-INU.
In questa doppia veste, con questa legge egli mirava a due obiettivi: il primo, impedire che l’assetto urbano fosse determinato prevalentemente dalla struttura della proprietà fondiaria esistente, la quale - pur legittimata alla propria valorizzazione economica - a suo avviso non poteva avere la necessaria visione d’insieme, possibile solo col disegno di un assetto urbano complessivo; la seconda, che con l’affidamento degli incarichi dei progetti dei piani regolatori e piani particolareggiati da parte dei Comuni che dovevano approvarli prima della possibilità dell’intervento edificatorio da parte dei privati, si sarebbe offerta alla sua corporazione professionale un’ampia occasione non solo di sviluppo economico, ma anche di affermazione del ruolo culturale e sociale della nascente figura professionale dei progettisti urbani.
Proprio per questo la legge del ‘42 aveva contenuti esclusivamente procedurali (da chi e come vengono approvati i piani urbanistici, quanto durano, ecc.), mentre – con un’impronta tipicamente “corporativa” - la corretta definizione dei contenuti di piani regolatori e piani particolareggiati (quantità edificabili, altezze e distanze degli e tra gli edifici, quantità di spazi pubblici) era lasciata alla manualistica e all’esperienza professionale dei redattori dei piani urbanistici.
La legge ottenne la distratta promulgazione del re Vittorio Emanuele II mentre stava in vacanza nella tenuta di caccia di San Rossore, ponendo così termine ad una resistenza trascinatasi per oltre un trentennio da parte degli esponenti della proprietà fondiaria. L’Italia era già entrata in guerra da due anni e anche se le sorti del conflitto non avevano ancora preso la piega drammatica che si avrà coi bombardamenti alleati sulle città italiane nel 1943, era evidente che non era proprio il momento adatto a preoccuparsi davvero dei possibili vincoli che la legge avrebbe posto alla libertà di investimento immobiliare sulle proprietà fondiarie: chi ne aveva era impegnato ad occuparsi di borsa nera o di come salvarsi la pelle.
Com’è ovvio, col precipitare degli eventi bellici la legge e il suo regolamento di attuazione finirono rapidamente negli scantinati del Ministero dei Lavori Pubblici[4], e quando poi, nell’immediato dopoguerra, con la caduta del Fascismo e il cambio della forma istituzionale dello Stato da Monarchia a Repubblica, si porrà l’impellente necessità di ricostruzione delle città bombardate, essa verrà affrontata con strumenti d’emergenza, incompatibili coi tempi e le complesse procedure di approvazione previste nel 1942; e infine quando anche l’emergenza verrà superata, quella legge — benché vigente — finirà per apparire come l’eco spenta e ormai desueta di un mondo ormai travolto dagli eventi.
Non deve, quindi, sorprendere se, negli Anni Cinquanta e Sessanta, quando la ripresa economica conseguente all’iniziale ricostruzione del Piano Marshall andrà diffondendo anche un nuovo e più duraturo impulso all’attività edilizia, i Comuni si accinsero ad affrontare i problemi posti dalle trasformazioni urbane in corso come se essa non fosse mai esistita, tornando invece a ricorrere ad una prassi ancor più antica e per essi più usualmente abituale: quella delle “convenzioni”, cioè di accordi di natura privatistica presi di volta in volta con chi pressava per poter edificare, pur in assenza di qualunque progetto pubblico complessivo di assetto della città.
Il Comune, cioè, a partire dalla volontà espressa dalla proprietà di edificare una certa area, stipulava con essa un contratto di diritto privato in cui, a fronte dell’impegno del Comune a rilasciare le licenze edilizie per certe volumetrie concordate, essa si impegnava a realizzare le strade di accesso all’area, quelle di distribuzione interna, i marciapiedi, l’illuminazione stradale e, nei rari casi migliori, anche a cedere le aree per costruire qualche opera pubblica e solo talvolta, ma ancor più raramente, contribuendo in qualche modesta misura al loro costo di realizzazione.
Dove e quanto costruire era perciò in prima istanza decisione della proprietà fondiaria (o del suo potenziale acquirente) in base alle proprie risorse economiche, alle proprie capacità tecnico-costruttive (tipicamente in quel periodo: strutture in cemento armato con edifici di 8-15 piani; i grattacieli in cemento armato quali il Pirelli o la Velasca richiedevano la genialità di Nervi o di Danusso. In precedenza la struttura muraria consentiva edifici di 4-6 piani; oggi con l’acciaio su può arrivare facilmente ai 30-40 piani e oltre) e all’aspettativa di collocazione sul mercato degli immobili realizzati. Con quali contropartite in termini di aree e servizi pubblici era affidato, di volta in volta, alla capacità o volontà di contrattazione degli amministratori pubblici del momento: il rapporto fra quantità edificabili ammesse e attrezzature urbane corrispondenti che ne derivava, l’assetto insediativo della città ne era il risultato occasionale.
I Comuni di maggior dimensione che casualmente si trovavano ad avere un Piano Regolatore già in vigore in base alla Legge del 1865, considerandolo un intralcio alla possibilità di stipulare liberamente quegli accordi convenzionali, escogitarono artifici giuridici per poterne aggirare le indicazioni: Milano fu il caso più emblematico con il proverbiale “rito ambrosiano”, che considerava le quantità edificatorie stabilite nelle convenzioni, ma in contrasto col Piano Regolatore vigente, come “licenze in precario”, cioè consentite provvisoriamente in attesa di una futura modifica del Piano e da demolirsi se in seguito non confermate (cosa in pratica ovviamente impossibile, poiché si sarebbe trattato di demolire interi quartieri ormai abitati). I Comuni minori, in genere nell’hinterland metropolitano dei grandi capoluoghi in via di conurbazione sotto la spinta del flusso migratorio, in assenza di Piano Regolatore si regolavano “a vista”.
L’esito fu - ovviamente - caotico soprattutto nei casi compromessi da comportamenti collusivi (che pure, in moltissimi casi, si verificavano) tra Amministrazioni comunali e iniziative fondiario-immobiliari, ma anche in quelli in cui il pubblico provò a mostrarsi più autonomo e virtuoso.
Quando ancora oggi noi vediamo interi quartieri con case troppo alte attorno a strade troppo strette e invase dalle auto parcheggiate in continuità sui bordi, ebbene questo è l’esito di quella prassi prolungatasi per tutti gli Anni ’50 e ’60.
Non bastarono le numerose e ripetute denunce ed inchieste giornalistiche sul degrado diffusosi nell’assetto urbano e territoriale del Paese (in prima fila Antonio Cederna sul settimanale L’Espresso, che denunciò la collusione tra Amministrazione comunale capitolina e immobiliarismo laico e vaticano, col titolo “Capitale corrotta, nazione infetta” e il regista Rosi col suo film “Le mani sulla città”, ambientato nella Napoli di Lauro) a smuovere l’inerzia delle forze politiche di maggioranza del centro-sinistra (DC, PSI, PSDI, PRI) e le resistenze di quelli di destra e del potere economico-immobiliare.
Occorse, invece, che si verificasse un episodio drammatico e clamoroso come la frana di Agrigento nel 1966 (il crollo di 200.000 metri cubi di edifici malamente accatastati sul fianco di una collina franosa, fortunosamente senza vittime, dati i segni premonitori dell’evento), che divenne simbolo dell’esito generalizzato un uso subalterno delle risorse territoriali rispetto allo sviluppo economico durante il “boom” del dopoguerra, perché il Parlamento — dopo la relazione di una Commissione d’inchiesta ministeriale — varasse un provvedimento d’urgenza per porre fine a quella prassi illegittima e subalterna.
L’esperienza degli Anni ’50-’60, con i privati che facevano presentare in Comune progetti redatti da professionisti da essi incaricati, i quali non si peritavano di firmarli senza alcun minimo ritegno su altezze, distanze e dotazione di spazi pubblici indusse a ritenere di poter non fare più affidamento sulla loro autonoma deontologia tecnico-professionale, ma a prevedere per norma di regolamento alcune prescrizioni inderogabili: e siamo così ai famosi “standard” fissati nel 1968, solo un anno dopo la legge, da un Decreto del Ministro dei Lavori Pubblici.
In sostanza esso prescrive una distanza minima di 5 metri dai confini di proprietà (prima di allora vigeva solo la norma del Codice Civile di 1,5 metri dal confine, con la conseguente distanza di 3 metri tra edifici indipendentemente dall’altezza!), una distanza tra gli edifici pari a quella di altezza maggiore con un minimo assoluto di 10 metri tra pareti finestrate e, infine, che coi Piani Regolatori Generali e coi loro Piani Attuativi i progettisti dovessero garantire la realizzazione di almeno 18 mq per abitante di spazi pubblici di quartiere (circa 9 mq di verde e 9 mq di scuole, asili, centri civici, parcheggi, ecc.; ma in ciò è stata prassi lasciar valutare al progettista di piano in base ad opportunità) + altri 15 mq per abitante di parchi territoriali e 2,5 mq per abitante di grandi funzioni urbane (attrezzature per l'istruzione superiore all'obbligo esclusi gli istituti universitari e attrezzature sanitarie ed ospedaliere), indicando anche come dovessero computarsi gli abitanti delle future realizzazioni edilizie: mediamente 1 per locale, inteso come 30 metri quadri di pavimento muri compresi.
Certo erano criteri “empirici” desunti dalla manualistica e da alcuni rari esempi di buona pratica professionale tradotti in norma di legge da un gruppo di giovani volonterosi ed entusiasti funzionari ministeriali (Vezio De Lucia, Fabrizio Giovenale, Giusa Marcialis, Daria Ripa di Meana, Edoardo Salzano, Giulio Tamburini, Maurizio Di Palma, Camillo Nucci, Gianni Nigro) messi al lavoro dal “mitico” Direttore generale dell’ufficio urbanistica del Ministero Lavori Pubblici, Michele Martuscelli.
Inoltre le aree previste ad uso pubblico nei Piani Regolatori dovevano essere cedute gratuitamente dai privati ai Comuni al momento dell’attuazione dei loro Piani di lottizzazione e dietro pagamento dei costi delle opere pubbliche necessarie che vi erano previste (i cosiddetti “oneri di urbanizzazione”), sostituibili in alternativa dalla loro diretta realizzazione da parte privata, come per lo più si fece con le cosiddette opere di urbanizzazione “primaria”, cioè strade, marciapiedi e parcheggi, fognature, pubblica illuminazione, ritenute più facilmente controllabili in base a prescrizioni tecniche. I Comuni, viceversa, preferirono farsi pagare i costi presunti delle urbanizzazioni “secondarie”, cioè scuole materne, elementari e medie, centri civici, parchi, eccetera, per le quali il progetto su incarico dell’ente pubblico avrebbe dovuto maggiormente caratterizzarsi in consonanza agli obiettivi di orientamento politico e sociale delle amministrazioni locali.
Quando talvolta sento lamentare l’eccessiva rigidità normativa di queste prescrizioni non posso che rispondere che al di là dei “numeri” esse hanno tuttavia sicuramente un valore come indicazione almeno di ordine di grandezza e che l’imposizione dall’esterno come norma la categoria professionale se l’è pur ben meritata con una prassi professionale che per tutti gli Anni ’50 e ’60 (ma sempre più spesso la vedo riemergere ancora di nuovo in questi anni di “liberismo” rimontante) che ha scontato la redazione di progetti ben al di sotto di quei minimi almeno quantitativi di decenza che le norme si propongono di tutelare.
Sta di fatto che sulla base di quelle prescrizioni normative tradotte nelle planimetrie e nelle norme tecniche di attuazione dei PRG, i privati erano poi autorizzati a far presentare ai Comuni dai propri progettisti dei piani di lottizzazione, i quali pur rispettandone le prescrizioni quantitative di cessione gratuita degli spazi pubblici, spesso erano più che altro improntati alla tutela e massima valorizzazione della struttura fondiaria pregressa: edifici di maggior dimensione e altezza in proporzione a quella dei lotti, orientamento determinato dalla forma e distanza dei confini, cessione frammentata pro quota degli spazi pubblici prescritti.
Era proprio ciò che l’impostazione della legge del ’42 si proponeva di evitare prevedendo, invece, l’obbligo anche di una seconda fase di conformazione pubblica, quello del Piano Particolareggiato con indicazione dei comparti edificatori e degli andamenti planivolumetrici. In questo modo, il piano di lottizzazione proposto dalle proprietà private successivamente al Piano Particolareggiato di iniziativa pubblica si riduceva a poco più che un riaccatastamento dei lotti fondiari per adeguarli al disegno di conformazione urbana dei comparti edificatori e del planivolumetrico del Piano Particolareggiato di iniziativa pubblica. Con la Legge Ponte del ’67, invece, il Piano di lottizzazione dei privati direttamente successivo al PRG configura un piano di autonoma effettiva conformazione urbana in cui prevale però la tutela dell’assetto privatistico-fondiario.
Gli esiti spesso farraginosi dal punto di vista dell’esito di conformazione urbana dei Piani di lottizzazione dei privati ha via via portato a considerare irrilevante il miglioramento quantitativo imposto dagli standard minimi di spazi pubblici fissati per norma di legge, anche quando – con leggi urbanistiche regionali tra cui per prima nel 1975 quella della Regione Lombardia[5], seguita poi da quasi tutte le altre – lo standard minimo di spazio pubblico di quartiere previsto a livello nazionale è stato aumentato di circa il 50%, sino a 25-30 mq per abitante.
Oltre tutto, mentre dal 1968 in poi gli standard prescritti per spazi pubblici di quartiere i Comuni sono riusciti a farli attuare, facendoseli cedere gratuitamente nei Piani di lottizzazione via via approvati – anche se, come si è detto, con esiti più o meno buoni dal punto di vista della soddisfacente immagine urbana –, gli standard per i parchi territoriali sono stati, invece, per lo più lasciati disegnati nei Piani Regolatori, senza che venissero tradotti in acquisizioni alla proprietà pubblica, né con espropriazioni, né con cessioni messe a carico degli attuatori di Piani di lottizzazione.
Come sia accaduto è abbastanza intuibile – anche se non giustificabile – perché mentre è ovvio che gli standard “di quartiere” dovessero essere realizzati contestualmente a quella dell’ambito del piano di lottizzazione (salvo piccoli aggiustamenti marginali dell’ordine di frazioni di punti percentuali, se proprio non si fosse riuscito a far tornare la cosiddetta ”ragioneria degli standard”), non è apparso subito altrettanto chiaro che anche gli standard “generali” di PRG dovessero essere anch’essi posti in carico ai piani di lottizzazione o come cessione gratuita diretta se previsti “in situ” dal PRG o come compensazione monetaria per effettuare espropri forzosi altrove o, infine, come cessione di una quota di edificabilità per “perequarli” con la cessione volontaria gratuita da parte delle proprietà dei parchi territoriali previsti altrove dal PRG. Altrimenti, come è accaduto, i Comuni non avrebbero mai potuto farli realizzare autonomamente con espropri da indennizzarsi a carico dei propri magri bilanci.
Il problema sta diventando scottante perché – a seguito di ripetute sentenze nei ricorsi alla Corte Costituzionale succedutesi dal 1968 in poi – le aree sottoposte a vincoli di destinazione ad uso pubblico nel PRG/PGT devono essere acquisite al pubblico entro un determinato termine temporale (che improvvidamente il Parlamento, sempre nel 1968 e sino ad ora, ha fissato nella durata troppo breve 5 anni, per scongiurare ulteriori ricorsi; ma su questo potrebbe anche tornare a decidere diversamente, se solo ce ne fosse volontà e consapevolezza: i vincoli pubblici dei piani urbani di risanamento igienico della legge del 1865 duravano ben 25 anni !) altrimenti il vincolo decade e non è più possibile attribuire loro una nuova destinazione pubblica.
E’ ciò che nel 2014 è accaduto a Milano con l’area dell’ex Trotto S. Siro destinata dal PRG/PGT a verde sportivo pubblico e che – a seguito di un ricorso della proprietà SNAI – è stata trasformata in area privata edificabile, addirittura con una Determina Dirigenziale e all’insaputa dello stesso Consiglio Comunale, il quale avrebbe ben potuto anche optare per una destinazione a verde sportivo privato. Il rischio concreto è che la vicenda possa ripetersi anche per altre ben più vaste aree, quali le attigue piste di galoppo o l’ex Piazza d’Armi o ancora molte altre sparse per l’intera città.
La prima cosa da decidere sarebbe, quindi, se nelle grandi trasformazioni urbane in corso a Milano e che usano gli strumenti “derogatori” al PRG/PGT introdotti dagli Anni ’90 in poi (i Piani di Riqualificazione Urbana o di Riqualificazione Urbana e di Sviluppo Sostenibile del Territorio -PRU o PRUSST, i Programmi Integrati di Interventi-PII, gli Accordi di Programma-AdP) si vogliono far realizzare sia gli standard minimi “di quartiere” (giardini pubblici, parcheggi, scuole, centri civici, ecc.) sia il verde naturalistico-territoriale, oppure confermare l’obiettivo indicato dai precedenti PRG/PGT in cui i parchi territoriali erano indicati doversi realizzare in zone più periferiche e soprattutto sotto forma di penetrazioni radiali (i cosiddetti “raggi verdi”).
Stefano Boeri nell’ambito di una sua visione sui masterplan di indirizzo sul riuso degli ex scali ferroviari ha suggerito di concentrarne qui una parte consistente con la suggestiva denominazione di “Fiume Verde” . Ciò che dobbiamo, però, avere presente è che così quasi certamente dovremo rinunciare ad attuare molte di quelle previsioni del passato non ancora acquisite alla pubblica proprietà, accettando di vederle trasformarsi in aree edificabili.
Inoltre dobbiamo considerare attentamente se le quantità di spazi pubblici realizzabili in queste nuove aree di trasformazione urbane siano sufficientemente adeguate a consentire sia le dotazioni pubbliche “di quartiere” sia quelle di verde naturalistico o “Fiume Verde” che dir si voglia. Infatti, le due tipologie funzionali non sono interscambiabili a piacere né in termini di obblighi normativi, né – soprattutto – in termini di fruizione pratica: se i nuovi abitanti insediabili non avessero sotto mano sufficienti scuole, giardini o campi giochi per i bimbi l’utenza si riverserebbe su quelle spesso già sovraccariche dei quartieri attigui e sarebbe sprezzantemente irrisorio dar loro ad intendere che potrebbero comunque fare jogging nel grande Fiume Verde naturalistico [6].
Spesso per dimostrare l’opportunità dell’approvazione di questi strumenti di “pianificazione contrattata” al di fuori delle regole del PRG/PGT (e c’è da chiedersi se al di là delle innovativamente accattivanti nuove denominazioni non si celi una riedizione 2.0 su più vasta dimensione territoriale e finanziaria delle deprecate “convenzioni non urbanistiche” degli anni ’50 e ’60), si è addotto il criterio ingannevole del 50% dell’area destinata ad uso pubblico, presentata come una sorta di equipartizione mezzadrile. Metà al pubblico, metà al privato: cosa c’è di più equo?
Non è assolutamente così, perché dipende da quanto si vuol lasciare edificare sull’altra metà privata; lo sanno bene gli immobiliaristi che non valutano il valore a cui pagano le aree a metro quadro di suolo, ma a metro quadro di pavimento commerciale vendibile che ci si può realizzare !
Anzi, è possibile dimostrare che con solo il 50% dell’area pubblica, se si vuol davvero poter realizzare lo standard per abitante/utente di legge bisognerebbe sottoutilizzare l’edificabilità del 50% privato, rispetto a quanto sarebbe possibile fare nel rispetto delle norme urbanistiche di legge con la realizzazione del 60-65% ad uso pubblico. A meno che – come spesso capita in questi “fantasiosamente innovativi” strumenti di “pianificazione contrattata” – il 50% pubblico sia ritenuto il massimo insuperabile e, invece, l’edificazione sul 50% residuo sia una variabile senza alcun limite che non siano la disponibilità economico-finanziarie e le tecnico-costruttive della proprietà. Un po’ come – mutatis mutandis – accaduto nelle deprecate “convenzioni” anni ’50 e ’60 e con l’unica novità delle bizzarrie architettonico-progettuali da archistar che fomentano il consumo opulento degli adoratori di facili novità di immagine, trascinati soprattutto dall’esempio di influencer mediatiche/i, rapper, calciatori, starlettes cinetelevisive altre specie del genere.
Infatti a Citylife e Porta Nuova dei 45 mq/abitante di spazi pubblici (25 di verde e servizi di quartiere+20 circa di parco territoriale) previsti e promessi nel programma urbanistico inizialmente approvato, se ne sono riusciti a realizzare solo 15, altrimenti non ci sarebbe stato spazio sufficiente dove collocare gli edifici privati o avrebbero dovuto essere alti il triplo (600 metri e oltre, come a Dubai e negli Emirati Arabi, che però sorgono nel deserto, con temperature esterne di 60°, e non nel centro di una città europea !).[7]
Ma questo forse importa poco a chi il verde vuole e può goderselo privatamente sul terrazzo di casa e non solo all’attico, ma su ciascun piano e pazienza se per mantenerlo occorrono giardinieri-rocciatori! O a chi gli spazi di incontro socializzante se li può permettere nelle palestre e sale musica e spettacolo in-house!
Altrettanto rischia ora di accadere di nuovo sugli ex scali ferroviari di Farini e Romana, dove si concentrerà la maggior parte dell’edificazione prevista, con densità e altezze inevitabilmente molto simili ai due casi precedenti: se si farà Fiume Verde non ci saranno quasi per nulla spazi di quartiere adeguati; per avere sia verde e servizi di quartiere sia Fiume Verde bisognerebbe ridurre a circa la metà la quantità edificatoria prevista, oppure con queste quantità edificatorie, si potrebbe pensare di realizzare sì abbondanti verde e servizi solo di quartiere (25-30 mq abitante come si conviene ad una moderna città europea), ma assegnando “in perequazione” una quota dell’edificabilità a chi farà realizzare il Fiume Verde altrove, dove l’avevano previsto i “raggi verdi” in passato.
Infine occorre considerare che se la quantità edificatoria realizzabile non è determinata in base al rapporto con lo spazio pubblico che si intende opportuno e necessario realizzare (lo standard, appunto), ma viene prefissata “contrattualmente” tra le parti, si possono determinare indici edificatori fondiari molto elevati che impediscono di poter scegliere tra diverse alternative tipologiche di edifici più o meno alti ed obbligano, invece, ad adottare soluzioni a torri molto alte, rispetto a cui le “invenzioni” progettuali di archistar anche molto fantasiosi possono fare ben poco sull’incombenza e la dissonanza dai tessuti edilizi dei quartieri circostanti, sia che i nuovi edifici li si ponga al centro dei nuovi comparti sia, ancor peggio, sui bordi a racchiudere un “cuore verde”, sorprendente tesoro per appassionati cultori di giungle urbane, come testimoniano le stesse “esercitazioni progettuali” delle archistar autocraticamente convocate dalla proprietà degli ex scali ferroviari.
Senza una riflessione consapevole sugli esiti di densità fondiarie incontrollate[8], ci si ritrova nella condizione illustrata dall’immagine qui riportata.
Nella prima riga in alto a sinistra, ogni vicenda urbana che si svolga sulle aree esterne agli edifici si ripercuote quasi immediatamente sulla loro vita interna, nella terza soluzione della seconda riga lo spazio esterno inedificato è totalmente recluso dall’edificato e ciò che vi accade è quasi impermeabile a ciò che accade negli altri spazi inedificati pubblici o privati di aree vicine; nell’ultima soluzione a destra nella terza riga ciò che accade sullo spazio inedificato è quasi completamente non percepito dalla vita interna all’edificio (tranne, forse, che per il piano terra e per quelli più bassi).
Ciò non legittima, tuttavia, che così si possa collocare sull’area una quantità edificatoria a piacere: se, infatti, l'Indice fondiario è molto elevato e,quindi, le altezze si raddoppiano o triplicano, l'unica soluzione praticabile è obbligatoriamente quella in basso a destra e ciò non certamente per scelta tipologico-progettuale di un pur fantasioso progettista !
Tradotto in chiave odierna: se sugli ex scali FS l'indice edificatorio medio di 0,65 mq/mq si concentra sugli ex scali Farini e Romana sino a raggiungere 0,80-0,90 mq/mq (prossimo a quello di Citylife e Porta Nuova) non solo su quelle aree non si possono realizzare contemporaneamente Fiume Verde e adeguati verde e servizi di quartiere (l'uno impedisce l'altro persino con 0,65 mq/mq, se si vogliono almeno 20 mq/ab. di Fiume Verde/alias parco territoriale-naturalistico + 25-30 mq/ab. di verde-servizi di quartiere, altrimenti i nuovi abitanti si riverseranno sui servizi già scarsi dei quartieri attigui), ma si rendono obbligatori edifici-torre di 150-200 m. di altezza, molto dissonanti da quelle dei contesti attigui, sia che li si collochino al centro o sui bordi delle aree come dimostrano gli "esercizi progettuali" degli archistars convocati da Boeri su impulso della proprietà FS.
Anche a voler ammettere l'opportunità di alcuni Down Town District ad altezze e densità eccezionali (e forse li abbiamo già fatti con Citylife e Porta Nuova, anche se probabilmente nei posti e nei modi sbagliati) avrebbe senso ripetere quel modello insediativo diffusamente per tutto il corpo urbano ?
Come ho dimostrato occore da chi sostiene che, purché una quota almeno paritaria del plusvalore torni al Comune (vedi Roberto Camagni, Il mistero del “contributo straordinario, 5 febbraio 2019, Arcipelago Milano), qualunque modalità e conseguente forma urbana derivante da quantità edificatorie e di spazi pubblici proposti dalla proprietà fondiario-immobiliare vada bene. A Milano è andata così (sia pure per via indiretta) con ex Fiera/Citylife (tutto il volume necessario a ripagare i 250 Milioni di € di debito imprevisto sul nuovo polo di Rho/Pero; se poi l'acquirente ti paga il doppio tanto meglio per la proprietà fondiaria, ma il volume non si ridiscute). E' lo stesso criterio usato a Roma da Marino/Caudo per giustificare la volumetrie su ex Fiera/EUR (180 Milioni di debito gestionale su Nuova Fiera) o la scelta del nuovo stadio della Roma a Tor di Valle: ti dò tutta la volumetria accessoria necessaria a pagare i debiti o le opere viabilistico-ambientali in un'area che di per sè sarebbe inadatta, ma che serve a salvare l'Ente Fiera o Parnasi dal fallimento. Ciò che viene sacrificato alla logica del tornaconto economico-finanziario è una visione di indirizzo pubblico da parte del Comune su localizzazioni, quantità, densità e altezze degli edifici, quantità e ruolo dello spazio e dei servizi pubblici. Insomma, mi pare ci sia un rapporto di reciprocità causa/effetti che mi pare taluni insistano a voler negare o sottovalutare...
Bisogna quindi tornare a mettere in campo la priorità di una visione di indirizzo pubblico delle trasformazioni urbane che si annunciano sempre più diffuse nelle nostre città, in modo che sulla base di congrui rapporti tra densità edificatorie e spazi pubblici sia possibile aprire un confronto con la collettività insediata anche su tipologie e forme degli edifici nei rapporti con gli spazi circostanti pubblici e privati e, a partire da ciò, tornare a mettere in campo una discussione sulla possibilità di accesso e fruizione del bene casa e delle sue dotazioni pubbliche anche per i ceti economicamente esclusi dalle tendenze speculative del mercato immobiliare. Insomma il ritorno in campo (in forme quanto si vuole più incisive e adeguate alle mutate condizioni socio-economiche e ambientali) di una rinnovata concezione di urbanistica pubblica.
Note
[1] Vedi: Roberto Camagni, Il mistero del “contributo straordinario, 5 febbraio 2019, Arcipelago Milano: “gli oneri pagati per prestazioni pubbliche in Italia rappresentano una quota quasi irrisoria delle rendite (fra il 3 e il 5% del valore del costruito, contro il 28-30% della Germania), e gli effetti si vedono bene: le trasformazioni arricchiscono le rendite ma lasciano sul terreno solo briciole per la collettività.”
[2] Cfr. S. Brenna, La Strada Lombarda, Gangemi, 2010, p. 116, Schizzi di studio delle possibilità di realizzare le volumetrie concesse dal Comune di Milano sull’area delle ex Varesine con tipologie compatte a sviluppo orizzontale con riferimento a progetti di G. Canella e di P. Chemetov
[3] Non è ovviamente un comportamento solo “milanese”: avendo frequentato i Laboratori partecipativi sul riuso dell’ex Fiera di Roma all’epoca della Giunta Marino/Caudo (proprio per interesse all’analogia con la vicenda a me ben nota di ex Fiera di Milano), quando proposi che se proprio non si voleva ridurre ragionevolmente l’edificabilità (fissata solo per far fronte al deficit gestionale di 180 Mln di € a Nuova Fiera; come a Milano coi i 250 Mln di debito per le pazzie di Fuksas nella costruzione di Nuova Fiera, per altro ripetute con esito analogo al Centro Congressi Nuvola all’EUR!) li si obbligasse almeno a concentrare volumetrie terziarie in altezza verso la Cristoforo Colombo (larga 80 metri) ed edilizia residenziale bassa verso le case preesistenti di via dell’Accademia, la rappresentante di Caudo mi fermò dicendo che “non si può condizionare così tanto la libertà imprenditiva e progettuale del futuro acquirente”. L’assessore Berdini ne aveva fatto dimezzare l’edificabilità; ora con la Giunta Raggi/Montuori/ M5S si è ventilato un Piano Casa da 1.000 abitanti che avrebbe di nuovo raddoppierebbe la volumetria (se ne è sentito parlare anche nelle intercettazioni di De Vico): chiaramente un espediente (condito con l'uzzolo di assurdi campetti sportivi) per vendere poi il mallopo ad altri, essendo ciò completamente fuori dagli obiettivi istituzionali di Ente Fiera.
[4] Il Regolamento di attuazione della Legge, che, pure in quei drammatici frangenti, il Ministero provvederà ad elaborare tra il settembre del 1942 e il marzo del 1943, finirà in un polveroso scantinato dove, a metà degli Anni Novanta, lo ritroverà un sagace ricercatore. Cfr, P.G. Massaretti, 1 marzo 1943: l’ultima ipotesi di articolato del “Regolamento di attuazione” della legge urbanistica, in URBANISTICA Quaderni (a cura di L. Falco), a. I, n. 6, pp. 94-104, INU, Roma 1995
[5] Sorvolo sul fatto che dal 2002 è stata anche la prima e per ora l'unica regione tornata ai 18 mq/ab. del DM 1444/68, dimostrando così che la Lombardia si pretende più ricca della Baviera, ma non sappia pretendersi altrettanto civilmente europea! Si potrebbe ancora comprendere che 18 mq/ab. fossero ritenuti sufficienti in comuni di qualche sperduta valle prealpina o dell’Oltrepò pavese, ma certo non nella conurbazione da Milano a Brescia e oltre, dove si dovrebbe aspirare a 30-50 mq/abitante di spazi pubblici.
[6] E’ un po’ ciò che rischia di accadere nel piano di riuso dell’ex Falck di Sesto S.G. dove i nuovi abitanti non avranno scuole, giardini e parchi giochi sufficienti, ma in caso di gravi malattie oncologiche o neurologiche avranno l’Istituto Neurologico Besta e l’Istituto Nazionale Tumori proprio dietro casa. Auguri !!!!
[7] Vedi M. Giannattasio, Stefano Boeri: «Vi svelo come ho avuto l'idea del Bosco Verticale».L'archistar che ha rivoluzionato la skyline della zona di Porta Nuova racconta di quando fece il primo disegno, tra i grattacieli di Dubai e sotto il sole cocente del deserto, in La Repubblica/Milan o, 7.3.2019, https://milano.corriere.it/19_marzo_07/ossessione-verdeio-archistreetcoi-piedi-terra-d6a36e08-4110-11e9-8d4c-9b3b6b114344.shtml?fbclid=IwAR0FaVudE-iXB8zCkZNlGj9CEaflted4tVHIaOlgZzqRDg3mZ74uLh5F1Is
[8] Cfr. Luigi Falco, L’indice di edificabilità, UTET,Torino,1999, p. 111:“Può essere utile, a partire dall’Indice di edificabilità fondiaria, e cioè da una definita immagine dell’insediamento residenziale e della sua morfologia (pur con quella approssimazione che è rappresentata dal definire l’immagine attraverso il solo Ief), arrivare all’Indice territoriale e alla quantità complessiva di aree pubbliche connesse a quell’Ief.”, anziché partire da una prefissata ed immotivata fissazione della Sp, ad esempio quando va bene al 50% della St, come oggi spesso è immotivatamente d'uso (a Citylife e Porta Nuova è stato realizzato 1/3 di quanto promesso!).
Riflessione sull'esplosione delle mega-city, mega-regioni; forme urbane che stravolgono l'idea stessa di città con drammatiche ripercussioni ecologiche, sociali e in termini di democrazia. E' davvero questo l'unico modello possibile? (i.b.)
europatoday. Liberare la città dal potere dell'automobile e restituirla ai cittadini. Un progetto che richiede una costante volontà politica. O cedere all'automobile e trasformare le città in un inferno. Quattro articoli esemplificativi. (a.b.)
EuropaToday, 18 settembre 2018
“SEI IN MACCHINA? QUI NON ENTRI”.
IL CASO DELLA CITTÀ 'SENZA AUTO' TORNATA A CRESCERE
Mezza città, dal centro storico alla vecchia periferia, completamente "car-free". E negli altri quartieri, limite fissato a 30 km orari. Cosi' l’amministrazione di Pontevedra, comune galiziano di 80mila abitanti, ha attuato a partire dal 1999 una delle maggiori opere di pedonalizzazione urbana in Europa, con l'obiettivo di far fronte al traffico continuo che paralizzava il centro storico. Da allora, il sindaco è stato rieletto tre volte, il piccolo commercio cittadino si è ripreso e il numero di abitanti è cresciuto. Il successo del progetto ambizioso e ambientalista ora fa scuola nel resto del Vecchio Continente.
Riappropriarsi dello spazio pubblico
Prima di guadagnarsi il primo mandato, il sindaco Miguel Anxo Fernández Lores era rimasto per dodici anni all’opposizione. Il suo programma politico è semplice, ma trova poco spazio per i compromessi: possedere un’auto non ti da diritto ad occupare uno spazio pubblico. Nel mese successivo alla vittoria elettorale del ‘99, Lores ha pedonalizzato 300mila metri quadrati nel centro storico.
Piccolo commercio
Anche l’economia locale dei negozietti in centro è risorta grazie alla politica “zero auto”, che ammette ancora il passaggio dei veicoli solo nelle zone periferiche e con un limite di velocità fissato a 30 km/h. Mentre altre città della Galizia perdono residenti, oltre 12mila persone si sono trasferite a Pontevedra negli ultimi anni, attratte anche dalla qualità dell’aria migliorata sensibilmente. Le emissioni di Co2 sono infatti diminuite del 70%, e la gran parte degli spostamenti che avvenivano in auto ora si fanno in bici o a piedi.
A dimensione umana
A rendere praticabile la politica contro le macchine sono anche le dimensioni modeste del centro abitato. Come nota l’architetto e residente di Pontevedra Rogelio Carballo Soler, “si può attraversare l’intera città in 25 minuti. Ci sono alcune cose che si possono criticare, ma non c’è alcun motivo per sbarazzarsi di questo modello (di mobilità ndr)”.
Tratto dalla pagina qui raggiungibile.
EuropaToday, 19 settembre 2018
CRESCE IL NUMERO DEI VEICOLI INQUINANTI
IN EUROPA: OLTRE 5 MILIONI SONO IN ITALIA
Il numero di veicoli diesel inquinanti che emettono fumi tossiche sulle strade europee è ancora in aumento tre anni dopo lo scoppio dello scandalo Dieselgate e oltre 5 milioni di questi veicoli sarebbero in Italia. Sono i risultati di uno studio pubblicato da Transport & Environment (T&E), la federazione europea delle associazioni per la mobilità, nel terzo anniversario dello scandalo che ha scosso l’industria delle automobili. Il report sottolinea che i motori inquinanti sulle strade europee continuano ad aumentare e solo una ridotta porzione dei diesel Euro 6 rispettano davvero i limiti previsti per le emissioni di ossidi di azoto. Per quanto riguarda invece i modelli definitivamente obsoleti, questi anziché essere rottamati, vengono esportati nei paesi dell’Est o in Africa, dove continuano a causare danni alla salute e all’ambiente.
EuropaToday, 18 settembre 2018
AUTO, NUOVO SCANDALO: I BIG TEDESCHI
Avrebbero creato un cartello per impedire lo sviluppo e la diffusione di auto meno inquinanti e con consumi ridotti. E' questa l'accusa che ha spinto la Commissione europea ad aprire un'indagine formale sulla possibile collusione tra Bmw, Daimler e il gruppo Volkswagen sulla tecnologia delle emissioni pulite.
L'indagine Ue
La Commissione ha avviato un'indagine approfondita per valutare se tali società abbiano colluso, in violazione delle norme antitrust dell'Ue, decidendo di non competere l'una con l'altra sullo sviluppo e la diffusione di importanti sistemi per ridurre le emissioni nocive delle autovetture a benzina e diesel. E di conseguenza anche per ridurre i loro consumi.
La commissaria Margrethe Vestager, responsabile della politica di concorrenza, ha sottolineato che"queste tecnologie mirano a rendere le autovetture meno dannose per l'ambiente: se provata, questa collusione potrebbe aver negato ai consumatori l'opportunità di acquistare automobili meno inquinanti, nonostante la tecnologia sia disponibile"
La cerchia dei cinque
Nell'ottobre 2017 la Commissione ha effettuato ispezioni presso le sedi di Bmw, Daimler, Volkswagen e Audi in Germania nell'ambito delle prime indagini in merito a possibili collusioni tra costruttori automobilistici sullo sviluppo tecnologico delle autovetture. L'indagine approfondita si concentra sulle informazioni che indicano che Bmw, Daimler, Volkswagen, Audi e Porsche, anche denominate "cerchia di cinque", avrebbero partecipato a riunioni in cui si sarebbe discusso tra l'altro lo sviluppo e la diffusione di tecnologie per limitare le emissioni nocive delle auto.
L'inquinamento atmosferico non fa male soltanto al corpo, ma anche alla mente, riducendo le sue capacità cognitive. Lo afferma uno studio di ricercatori cinesi e statunitensi che hanno monitorato per quattro anni le capacità matematiche e verbali di 20mila persone in Cina, dai 10 anni in su e di entrambi i sessi.
I livelli di inquinamento cui ciascun partecipante era esposto sono stati misurati in base al suo indirizzo di residenza. I ricercatori hanno tenuto conto di diverse molecole inquinanti e del particolato fine, quello che penetra più facilmente nelle vie respiratorie. Tutto il campione è stato sottoposto a una serie di test per valutarne le abilità matematiche e linguistiche. È emerso che queste abilità erano tanto più inferiori quanto maggiore era l'esposizione ad agenti inquinanti. Inoltre è emerso che l'impatto negativo dello smog aumenta con l'età dell'individuo. "Abbiamo prova che gli effetti dell'inquinamento dell'aria sui test verbali diventano più pronunciati con il passare dell'età, specialmente per gli uomini e quelli con un livello di istruzione più basso", ha spiegato uno degli autori del lavoro, Xi Chen della Yale School of Public Health.“
Potrebbe interessarti: http://europa.today.it/ambiente/pontevedra-auto-pedonalizzazione.html
Micromega, 18 maggio 2018. Lettura comparata dei contributi di due protagonisti di studi urbani, Henry Levebvre e David Harvey, che meglio di altri hanno aiutato a comprendere la condizione urbana, le sofferenze e le speranze che in essa si esprimono
L’utile rilettura dei testi fondamentali di due apostoli del “diritto alla città", Henry Lefebvre e David Harvey effettuata da Giorgio Pagano aiuta a comprendere il significato attuale di quell’antica rivendicazione. Per realizzarla oggi è necessario ribadire la centralità dello spazio pubblico e individuare il soggetto collettivo capace di trasformare la città da “prodotto” cui l’ha ridotta il capitalismo, in “opera" nella quale l’umanità possa riconoscere se stessa e il proprio futuro (e.s)
La città come ultima difesa e ultima speranza
di Giorgio Pagano
Henry Lefebvre, Il diritto alla città, Ombre Corte, Verona, 2014 (ed. or.“Le droit à la ville”, editions Anthropos. Parigi, 1968)
David Harvey, Città ribelli, Il Saggiatore, Milano, 2013 (ed. or. “Rebel cities”, Verso Books the imprint of The New Left Brooks 2012)
Il libro di Henry Lefebvre Il diritto alla città indicava, cinquant’anni fa, le componenti essenziali di una vita urbana diversa e alternativa: il diritto per tutti di appropriarsi della città, di usarla senza esclusioni né preclusioni, di avere incontri, occasioni, avventure; e il diritto di tutti all’autogestione e alla partecipazione alle decisioni sulle trasformazioni e sul governo della città. Lo slogan di Lefebvre ebbe notevole fortuna negli anni immediatamente successivi (il ’68, più o meno “lungo” nei vari Paesi), per poi declinare nel corso degli anni Settanta e definitivamente negli anni Ottanta. Dopo una lunga eclissi, il pensiero di Lefebvre è stato reinterpretato da David Harvey, che nel suo libro Città ribelli (2012) scrive:
«Il diritto alla città… è molto più che un diritto di accesso individuale o di gruppo alle risorse: è il diritto a cambiare e reinventare la città in base alle nostre esigenze. Inoltre, è un diritto più collettivo che individuale, dal momento che ricostruire la città dipende inevitabilmente dall’esercizio di un potere comune sui processi di urbanizzazione». (1)
La lettura dei due testi ci stimola all’analisi di quanto sta accadendo nei movimenti sociali urbani e ci fa capire meglio sintomi e ragioni, negli anni della globalizzazione neoliberista, sia della rinascita dello slogan sul “diritto alla città” sia della frammentazione e della volatilità dei movimenti della protesta democratica e antiliberista. Tema decisivo se, come noi pensiamo, la città è l’ultima difesa e l’ultima speranza.
1. "Il diritto alla città" di Henry Lefevre
Henry Lefebvre (1901-1991), francese, è stato un filosofo e sociologo dell’urbano, la cui elaborazione ha attraversato tutto il dibattito culturale del Novecento. Sulla scia di Karl Marx e Friedrich Engels ha sempre cercato di unire “teoria” e “prassi”. Questa prospettiva consente a Lefebvre di arrivare a una teoria generale della politica passando per la questione urbana e “spaziale” e per la vita quotidiana: la città e lo spazio urbano sono il suo punto di osservazione e di partenza per aggiornare l’analisi marxista della società contemporanea.
Nell’ambito del pensiero marxista, Lefebvre è il primo a occuparsi della questione urbana. Lo fa in numerosi testi, tra i quali il più significativo è probabilmente Il diritto alla città (1968), preceduto dal volume sulla Comune di Parigi (1965) e seguito da La rivoluzione urbana (1970), Dal rurale all’urbano (1970), Spazio e politica (1972), conosciuto anche come il secondo volume di il diritto alla città, Il marxismo e la città (1972) e La produzione dello spazio (1974).
In Il diritto alla città Lefebvre sostiene che il capitalismo industriale ha costruito un progetto unitario per la città e ha migliorato le condizioni igieniche di alcuni quartieri, ma ha fatto perdere alla città tradizionale il suo senso generale, devastandola e portandola all’”implosione-esplosione”. L’avvio del processo di industrializzazione, con il suo orientamento verso il denaro, ha generato un’urbanizzazione che ha subordinato il valore d’uso a quello di scambio e ha rotto l’equilibrio tra l’”opera” e il “prodotto” sottomettendo completamente la prima al secondo.
Leggiamo l’autore:
«L’industria può fare a meno della città antica (preindustriale, precapitalista) ma solo a patto di costruire agglomerati nei quali il carattere urbano si deteriora… laddove continua a esistere una rete di antiche città, l’industria va al suo assalto, se ne impadronisce, riorganizzandola secondo i propri bisogni; essa aggredisce anche la città (ciascuna città), la prende d’assalto, la conquista, la saccheggia. E, impadronendosene, tende a spezzarne i nuclei antichi. Il che non impedisce l’estensione del fenomeno urbano, città e agglomerati, città operaie, sobborghi». (2)
Con l’industrializzazione-urbanizzazione emerge la “crisi della città”, che perde la sua identità e il suo significato. Viene in piena luce la contraddizione tra il valore d’uso (la città e la vita urbana, il tempo urbano, l’opera umana) e il valore di scambio (la mera merce, gli spazi acquistati e venduti, il consumo dei prodotti, dei beni, dei luoghi e dei segni, il prodotto umano). In opposizione alla città capitalista organizzata in base allo scambio, che esclude alla radice i cittadini da ogni processo decisionale, Lefebvre esalta il valore sociale della città, la possibilità di usare lo spazio in maniera libera e condivisa, all’insegna dell’autogestione, dell’incontro e della festa:
«La città e la realtà urbana dipendono dal valore d’uso. Il valore di scambio e la generalizzazione della merce prodotta dall’industrializzazione tendono a distruggere, subordinandole a sé, la città e la realtà urbana, ricettacoli del valore d’uso, germogli di una virtuale predominanza e di una rivalutazione dell’uso». (3)
Per Lefebvre la natura dello spazio urbano ruota non solo attorno al rapporto tra valore d’uso e valore di scambio, ma anche a quello -del tutto connesso- tra “opera” e “prodotto”. L’”opera” è unica e insostituibile, creata da un processo che implica lavoro ma anche arte e creatività; il “prodotto” è invece ripetibile e serializzato, frutto di un processo in cui domina il lavoro. «La città -scrive l’autore- è opera, più simile a quella artistica che al semplice prodotto materiale» (4), è frutto della capacità creativa diffusa nella comunità e della pratica sociale. Contro la città “opera” si è sviluppata la città “prodotto”, standardizzata e serializzata, in cui l’uomo non ha possibilità di incidere.
Il diritto alla città è quindi «diritto alla vita urbana, trasformata e rinnovata» (5), diritto di uso, cioè alla fruizione, e diritto di “opera”, cioè all’attività partecipante, diritto di godere di uno spazio che può essere modificato dall’uomo. Leggiamo l’autore:
«In condizioni difficili, all’interno di una società che non potendo opporsi a essi in maniera esplicita ne ostacola il cammino, si fanno strada diritti che definiscono la civiltà (nella, ma spesso contro la società - per mezzo, ma spesso contro la ‘cultura’). Prima di entrare in un codice formalizzato questi diritti non riconosciuti diventano a poco a poco consuetudinari. Potrebbero cambiare la realtà se diventassero una pratica sociale: diritto al lavoro, all’istruzione, all’educazione, alla salute, all’abitazione, al tempo libero, alla vita. Tra questi diritti in formazione vi è anche il diritto alla città (non alla città antica, ma alla vita urbana, alla centralità rinnovata, ai luoghi d’incontro e di scambio, ai ritmi di vita e ai modi di utilizzare il tempo che consentano un uso pieno e completo di momenti, luoghi, ecc.). La proclamazione e la realizzazione della vita urbana come regno dell’uso (dello scambio e dell’incontro liberati dal valore di scambio) richiedono il pieno controllo della sfera dell’economico (del valore di scambio, del mercato e della merce) e dunque si inscrivono nelle prospettive della rivoluzione sotto l’egemonia della classe operaia». (6)
Il diritto alla città affonda le radici nella riflessione di Lefebvre sul tema della festa, intesa come una sorta di diritto a una vita quotidiana non alienata:
«I vari elementi di un’unità superiore, i frammenti e gli aspetti della ‘cultura’, l’educativo, il formativo e l’informativo si possono unire. Da dove trarre il principio di tale unione e il suo contenuto? Dal ludico. Il termine va qui inteso nella sua accezione più ampia e nel senso più ‘profondo’. Lo sport è ludico, il teatro è ludico, in modo più attivo e coinvolgente del cinema. I giochi dei bambini, ma anche degli adolescenti, non vanno sottovalutati. Le fiere e i giochi collettivi di tutti i tipi persistono negli interstizi della società di consumo governata, nei buchi della società seria, che si vuole strutturata e sistematica, che pretende di essere tecnologica. Quanto agli antichi luoghi di riunione, essi hanno in gran parte perduto il loro senso, come ad esempio la festa, che muore o si allontana. Il fatto che essi ritrovino un senso non impedisce la creazione di luoghi consoni alla festa rinnovata, legata essenzialmente all’invenzione ludica». (7)
Nella “centralità ludica” il “serio” è subordinato al gioco, non viceversa. In questo modo, sostiene Lefebvre, gli elementi “culturali” vengono recuperati restituendoli alla loro verità.
La proposta di Lefebvre è quindi innovativa rispetto alla concezione welfarista in voga negli anni in cui scriveva. Altrettanto innovativa è la sua intuizione di considerare come soggetto della rivoluzione non solo la classe operaia ma anche tutti i lavoratori precari e gli abitanti -immigrati compresi- delle periferie, che patiscono la segregazione sociale dei sobborghi: la più generale “classe urbana”. Questa intuizione è del resto coerente con le antitesi centrali nel pensiero di Lefebvre, quelle tra valore d’uso e valore di scambio e tra “opera” e “prodotto”, e con la tesi del diritto alla città come base della rivoluzione.
2. "Città ribelli" di David Harvey
David Harvey, nato nel 1935, è un geografo, sociologo e politologo inglese. Tra i suoi libri tradotti in italiano Città ribelli è il più noto. Tra i precedenti citiamo L’esperienza urbana (1998); La crisi della modernità (2002); La guerra perpetua (2006); Breve storia del neoliberismo (2007); Neoliberismo e potere di classe (2008); L’enigma del capitalismo (2011); Introduzione al Capitale. 12 lezioni al primo libro (2012); Il capitalismo contro il diritto alla città (2012) e Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo (2014). Anche il pensiero di Harvey si muove nel solco di quello di Karl Marx.
Il richiamo di Harvey a Lefebvre è esplicito fin dall’inizio, a partire dalla questione del soggetto rivoluzionario:
«Lefebvre comprese molto bene, dopo il lavoro sulla Comune di Parigi pubblicato nel 1965 (e ispirato in una certa misura alle tesi situazioniste), che i movimenti rivoluzionari spesso, se non sempre, assumono una dimensione urbana. Ciò lo pose immediatamente in conflitto con il Partito comunista, che riteneva invece il proletariato di fabbrica la vera forza trainante del cambiamento rivoluzionario. Commemorando il centenario della pubblicazione del Capitale di Marx con un pamphlet sul Diritto alla citt’, Lefebvre intendeva chiaramente provocare il pensiero marxista tradizionale, che mai aveva attribuito grande rilievo alla dimensione urbana nella strategia rivoluzionaria, pur mitizzando la Comune di Parigi quale evento centrale della propria storia. Anche quando, in quel testo, Lefebvre invocava la classe operaia come agente del cambiamento rivoluzionario, in realtà lasciava intendere che la classe operaia rivoluzionaria era costituita da lavoratori urbani piuttosto che esclusivamente da operai. Si trattava, osservò più tardi, di una formazione di classe davvero diversa -frammentata e divisa, animata da finalità e bisogni molteplici, più itinerante, disorganizzata e fluida che solidamente centrata». (8)
Città ribelli inizia con una riflessione sul ruolo delle città nel capitalismo. L’urbanizzazione ha sempre avuto la funzione di reinventare modi per assorbire le eccedenze prodotte dalla continua ricerca di plusvalore, al prezzo di violenti processi di distruzione creatrice che hanno espropriato le masse di ogni possibile diritto alla città: dalla Comune di Parigi alla crisi immobiliare e finanziaria del 2007-2008.
Harvey analizza come le città non servano solo a generare surplus ma anche a disporne. L’eccedenza prodotta dalla concorrenza capitalista deve essere assorbita da qualche parte, e gli investimenti nel rinnovamento urbano e nella speculazione edilizia hanno questa funzione. Inoltre questa tipologia di investimenti permette di ottenere rendimenti sul capitale investito modulandoli nel tempo. Il capitalismo, sostiene Harvey, riproduce di continuo il surplus produttivo richiesto dall’urbanizzazione. Ma vale anche il contrario: il capitalismo necessita di processi urbani per assorbire l’eccedenza di capitale che costantemente produce. Tra lo sviluppo del capitalismo e l’urbanizzazione emerge un’intima connessione.
Harvey ne conclude che: «Se l’urbanizzazione capitalista è così profondamente radicata ed essenziale per la riproduzione del capitale, ne consegue che forme alternative di urbanizzazione devono per forza essere altrettanto essenziali per qualsiasi ricerca di un’alternativa anticapitalista». (9)
In Città ribelli vengono poi raccontati diversi episodi di lotta di classe urbana. L’origine di queste lotte è la Comune di Parigi del 1871:
«La classe operaia industriale è stata tradizionalmente concepita come avanguardia del proletariato, suo principale agente rivoluzionario. Eppure, non sono stati gli operai di fabbrica a dare vita alla Comune di Parigi. Esiste per questo un’interpretazione alternativa della Comune che sottolinea come non si sia trattato di una rivolta proletaria o di un movimento di classe, ma di un movimento sociale urbano che rivendicava diritti di cittadinanza, e più in generale un diritto alla città. E quindi non di una lotta anticapitalista. A mio avviso, invece, non esiste alcuna ragione per non interpretare quell’evento come espressione sia di una lotta di classe sia di una lotta per i diritti di cittadinanza nello spazio abitato e vissuto dai lavoratori». (10)
E ancora:
«A tal proposito mi sembra che abbia un certo valore simbolico il fatto che i primi due atti della Comune di Parigi siano stati l’abolizione del lavoro notturno nei forni (una questione lavorativa) e l’imposizione di una moratoria sulle rendite (una questione urbana)». (11)
Gli attori della lotta includono i lavoratori, ma anche molte altre categorie di cittadini urbani emarginati, alienati dai beni comuni, sia dal lavoro che dalla città. L’implicazione strategica è che la lotta di classe deve essere condotta al di là delle mura della fabbrica. Harvey sostiene che la maggior parte delle lotte sindacali sono sempre state condotte fuori dalla fabbrica: «Per portare avanti le lotte dei lavoratori, l’organizzazione di quartiere si è rivelata tanto importante quanto quella sui luoghi di lavoro». (12)
L’autore fa sua la tesi di Bill Fletcher e Fernando Capasin, secondo cui il movimento operaio dovrebbe prestare maggiore attenzione alle forme di organizzazione geografiche piuttosto che a quelle settoriali e dovrebbe dare più forza ai consigli operai radicati nelle città, oltre a organizzarsi nei diversi settori lavorativi. (13)
Inizia in questo modo a dissolversi ogni distinzione tra lotte per il lavoro e lotte per i diritti di cittadinanza. Come del resto già in Lefebvre, per il quale il diritto alla città è anche diritto alla cittadinanza attiva, con la classe urbana, non solo la classe operaia, nel ruolo di soggetto rivoluzionario.
Harvey cita “Occupy Wall Stree“t e la sua capacità, in una fase, di saper costruire un ponte, una coalizione antiliberista tra i luoghi di lavoro e la comunità. Ma rileva che, anche se i movimenti e le esperienze di resistenza locale sono quelli che hanno avuto maggiore successo, è però indispensabile un salto di scala per superare volatilità e frammentazione. Ed è con le domande su come costruire reti di città e coalizioni sociali e politiche su piani diversi fino a quello nazionale e sovranazionale, e su come unire le forze sociali che la crisi e la sua gestione da parte del neoliberismo hanno invece diviso, che il libro si conclude, in modo problematico. La stessa problematicità della domanda chiave espressa da Harvey in un’intervista a Micromega: “Sono molto serio nel porre la domanda: come si mobilita un’intera città? Perché è nella città che sta il futuro politico della sinistra”. (14)
3. Inizio e fine del "diritto alla città" nel nostro paese
Il mio amico Edoardo Salzano, grande urbanista e instancabile attivista per il “diritto alla città”, ha ricordato il ruolo di Lefebvre in Italia negli anni successivi al ’68:
«Furono anni di tumultuosa trasformazione del nostro paese. Anni di cambiamenti della vita sociale, economica, politica, culturale, e anni di grandi riforme: riforme vere, riforme della struttura, e non riformicchie come quelle di cui si parla da qualche decennio. Di quegli anni vorrei ricordare soprattutto due cose: il ruolo delle forze sociali, le conquiste ottenute. Il diritto alla città come rivendicazione, e il diritto alla città come norma» (15)
Poi Salzano entra nel dettaglio:
“Con la “legge ponte” urbanistica del 1967 e con i successivi decreti del 1969 si ottennero in Italia:
- la generalizzazione della pianificazione urbanistica,
- il primato delle decisioni pubbliche nelle trasformazioni del territorio,
- l’obbligo a vincolare determinate quantità di aree per servizi e spazi pubblici.
Con le leggi per la casa del 1962 (piani per l’edilizia economica e popolare), del 1967 (obbligo della pianificazione comunale, disciplina delle lottizzazioni e standard urbanistici), del 1971 (programma decennale per l’edilizia abitativa e avvicinamento delle indennità d’esproprio ai valori agricoli), del 1977 (programmi per il recupero dell’edilizia esistente) e 1978 (limitazioni all’affitto degli alloggi privati)si ottenne la possibilità:
- di controllare tutti i segmenti dello stock abitativo,
- di realizzare quartieri residenziali dotati di tutti gli elementi che rendono civile una città,
- di ridurre il prezzo degli alloggi in una parte molto ampia del patrimonio edilizio.
«E indicherei come coda di questo periodo nei successivi, terribili anni Ottanta, alcune ulteriori importanti conquiste normative, quali le leggi per la tutela del suolo e delle acque e per la tutela del paesaggio. Di fronte alle catastrofi di questo novembre (2012, NdR) vorrei ricordare il principio, implicito in queste ultime due leggi, secondo il quale la definizione normativa delle condizioni necessarie per garantire l’integrità fisica e l’identità culturale del territorio devono avere la priorità sulle scelte di trasformazione, quindi sui piani urbanistici e sulle pratiche edilizie. Principio che fu da subito disatteso e contraddetto». (16)
Molte altre furono le conquiste sociali e democratiche di quegli anni.
Poi ci fu la grande svolta negli anni Ottanta: il neoliberismo, il finanzcapitalismo di cui ha scritto Luciano Gallino. Che comportò un arretramento in tutti i campi, compreso quello delle città. Cominciarono gli anni del privato, del mercato, del trionfo della rendita immobiliare. Quelli così ben descritti e spiegati, su scala più ampia, dal libro di Harvey.
4. Ripartiamo dalla pianificazione
La riflessione sui testi di Lefebvre e di Harvey spinge a tentare di ripristinare il perduto “diritto alla città”. Per farlo non si può che ripartire da ciò che è stato negato in tutti questi anni, cioè dalla pianificazione: “sociale”, diceva Lefebvre, “strategica” e “urbanistica”, aggiungiamo noi. Una pianificazione che si richiami ai tanti esempi che Harvey porta in “Città ribelli” di azioni per il diritto alla città, riformiste o rivoluzionarie (a volte, per sua stessa ammissione, non facilmente distinguibili tra loro): dal bilancio partecipativo di Porto Alegre alla pianificazione strategica nella Londra di Ken Livingstone, dai programmi ecosostenibili di Curitiba alla ribellione di El Alto. Ed è significativo che Harvey affianchi a questi esempi, più volte, le sperimentazioni politiche e sociali della “Bologna rossa” negli anni Sessanta e Settanta.
Pianificazione “strategica” e “urbanistica”, dicevamo. Si tratta di azioni diverse, di carattere discorsivo e procedurale la prima, normativo la seconda, ma complementari tra loro e non alternative. La seconda va considerata strumento utilizzabile all’interno della prima, che ne costituisce la cornice.
Lo sguardo delle due forme di pianificazione deve cogliere oggi l’elemento che più ha caratterizzato la polis nel mondo greco e poi, dal Medioevo, la città europea: lo spazio pubblico. È l’espressione più originale, l’ossatura portante, l’essenza della città come polis. Si pensi al ruolo della piazza nella storia: luogo dell’incontro tra le persone, ma anche spazio sul quale si affacciavano gli edifici principali, destinati allo svolgimento delle funzioni comuni. Poi, nelle città del capitalismo e delle fabbriche, sono stati realizzati i servizi pubblici del welfare. Tra cui la stessa casa, concepita come servizio sociale (la “casa popolare”). Salzano ha ricordato, nel testo citato, che negli anni Settanta si raggiunsero, dal punto di vista della città come spazio pubblico, risultati importanti, e che gli anni Ottanta, invece, furono quelli della svolta neoliberista e del conseguente inizio del declino della città pubblica. Il carattere pubblico della città viene da allora negato in tutti i suoi elementi. Le politiche urbanistiche di tutti questi anni hanno ripudiato l’idea di città come luogo e patrimonio collettivo e hanno spinto per valorizzare la rendita fondiaria e favorire la bolla immobiliare.
Per riconquistare lo spazio pubblico occorre riconquistare la dimensione sociale della pianificazione. Avendo al fianco tutti quei cittadini che più che in passato si organizzano per difendere o ottenere un parco, un servizio di prossimità, uno spazio a uso collettivo, per conservare nel tempo quegli spazi pubblici considerati beni comuni a tutela della qualità della vita delle future generazioni. La sfida per la pianificazione è davvero formidabile. Occorre un suo forte riequilibrio in favore del governo pubblico. Nei Piani strategici e urbanistici devono intervenire nuovi contenuti: controllo dell’espansione metropolitana, spazi pubblici, ambiente, mobilità, risparmio energetico, edilizia sociale e stop al consumo di suolo come obbiettivi compatibili tra loro (grazie al recupero edilizio).
Questi sono i nuovi temi per nuovi Piani strategici e urbanistici che si pongano l’obbiettivo del diritto alla città.
Ma per far vivere questi temi, e questi piani, serve ricercare, fare riemergere e valorizzare quella cultura urbana e dei territori che in Italia ha subito colpi molto duri. E farlo nel segno del “nuovo municipalismo” di cui parla l’alcaldesa di Barcellona Ada Colau. Dipende dalla politica ma anche dalla società civile, che deve battersi per riappropriarsi delle scelte collettive. Come sempre, molto dipende da noi stessi, dal cambiamento personale. David Harvey, in “Città ribelli”, scrive:
“La domanda sul tipo di città che vogliamo non può… essere separata da altre domande, sul tipo di persone che vogliamo essere, sui legami sociali che cerchiamo di stabilire, sui rapporti con l’ambiente naturale che coltiviamo, lo stile di vita che desideriamo e i valori estetici che perseguiamo”.(17)
C’è quindi bisogno di cittadini che si impegnino, non solo di uomini politici che sappiano interpretarli e rappresentarli. Il punto di partenza siamo noi. Dall’alto dei poteri costituiti, in questa fase, non giungono segnali. La possibilità di opporsi, e di cambiare, oggi è legata a un filo molto tenue: quello dei movimenti sociali descritti da Harvey, pur fragili e discontinui che siano. Una miriade di episodi che nascono spontaneamente dalla società e cercano di trasformarsi in luoghi di autorganizzazione e in presidi associativi di protesta e di proposta. La politica dei partiti non si autoriforma da sola. La politica dei partiti si autoriforma solo se nascono forze dentro di essi che vengono aiutate e sospinte da qualcosa che si muove nella società civile, che è un luogo di autoproduzione della politica. I cambiamenti radicali che sono necessari non si possono fare senza un impegno dei cittadini in prima persona.
I libri di Lefebvre e di Harvey ci spiegano che serve un soggetto del cambiamento decisamente più ampio. Lo sappiamo. Ma non sappiamo bene come arrivarci. Sappiamo, però, che la rivendicazione del diritto alla città da parte dei movimenti sociali, dei luoghi di autorganizzazione e dei presidi associativi non è “una” ma “la” stazione del lungo viaggio che deve condurci a questo obbiettivo. È l’ultima difesa e l’ultima speranza.
Note
1) Harvey, David, “Città ribelli”, Il Saggiatore, Milano, 2013 (ed. or. “Rebel cities”, Verso Books the imprint of The New Left Brooks 2012), p. 22
2) Lefebvre, Henry, “Il diritto alla città”, Ombre corte, Verona, 2014 (ed. or. “Le droit à la ville”, editions Anthropos. Parigi, 1968), p. 22
3) Ivi, p. 20. I corsivi sono nel testo.
4) Ivi, p. 54
5) Ivi, p. 113. Il corsivo è nel testo.
6) Ivi, pp. 135-136. I corsivi sono nel testo.
7) Ivi, pp. 126-127. Il corsivo è nel testo.
8) Harvey, David, cit, p. 14
9) Ivi, p. 88
10) Ivi, p. 155
11) Ivi, p. 147
12) Ivi, p. 159
13) Fletcher, Bill, Gapasin, Fernando, “Solidarity Divided: The Crisis in Organised Labor and a New Path Toward Social Justice, University of California Press, Berkeley, 2008
14) “Occupy Wall Street e la nuova rivoluzione urbana”, intervista di Max Rivlin-Nadler a David Harvey, “Micromega”, 3 maggio 2012
15) Salzano, Edoardo, “Diritto alla città, ieri e oggi". Testo della relazione di apertura di un seminario del Dottorato in Pianificazione territoriale e urbana, Università di Roma La Sapienza, 8 marzo 2012,
disponibile in eddyburg.it
16) Ivi
17) Harvey, David, cit, p. 22
Internazionale, 17 aprile 2018. Lima, Una città esemplare nel mondo contemporaneo, in cui i confini, invece di scomparire per testimoniare che ogni persona ha gli stessi diritti, aumentano fino a fare della Terra un luogo impraticabile
“Da questa parte del muro stiamo male, non abbiamo l’acqua, non abbiamo niente. Dall’altra parte invece hanno tutti la piscina”, dice Esteban Arimana. Se potesse camminare fino alla casa dove lavora come collaboratore domestico, Esteban Arimana impiegherebbe cinque minuti. Invece ogni giorno passa ore nel traffico di Lima, a causa della barriera lunga dieci chilometri che serpeggia sulle colline della capitale peruviana.
Il cosiddetto muro della vergogna divide Pamplona Alta – una baraccopoli in cui vivono circa 96mila peruviani, per la maggior parte indigeni – dal distretto La Molina, dove le case arrivano a costare milioni di euro. Secondo le autorità la barriera serve a proteggere la zona dall’avanzamento degli insediamenti abusivi, ma in realtà divide semplicemente i quartieri più ricchi dalle baracche costruite sulle colline della città.
Un mondo di muri è una serie del giornale brasiliano Folha de S. Paulo sulle barriere costruite per chiudere i confini, fermare i migranti o nascondere la povertà. Nel 2001 ne esistevano 17, oggi sono 70.
Da sapere:
L’aumento della popolazione a Lima dipende soprattutto dall’espansione degli “insediamenti giovani”, un tempo chiamati barriadas. Nel 1961 nelle baraccopoli vivevano duecentomila persone, nel 2007 gli abitanti erano 4,1 milioni, circa il 40 per cento della popolazione della città. Negli anni ottanta e novanta migliaia di persone arrivarono nella capitale peruviana per scappare dal conflitto tra l’organizzazione guerrigliera maoista Sendero luminoso, concentrata soprattutto nella zona delle Ande, e il governo. La costruzione del muro seguì il ritmo dell’espansione delle baraccopoli. Il primo tratto fu costruito nel 1985 dal collegio Immacolata concezione, amministrato dai gesuiti, per impedire che le costruzioni si avvicinassero troppo all’istituto.
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile
La Stampa 23 marzo 2018 . un tentativo di dare una risposta al significato dei colori della mappa post-elettorale dell'Ilalia. Ma forse quei colori sono troppo pochi per rappresentare alcunchè di significativo
Me la sono appesa quasi sopra la scrivania dove per lo più leggo, lavoro, scrivo. La mappa dell’Italia dopo le elezioni. Coloratissima. Il blu del centro destra, il giallo del Movimento 5 Stelle, il rosso del centro sinistra. La guardo e mi dico: Adesso è arrivato il momento di studiare. Che qualcuno studi. Che non abbia fretta.
Che cos’è quest’Italia? Che cosa hanno in testa gli italiani? Se quello fosse veramente il nostro ritratto, non potremmo davvero arrivare a una identificazione veritiera. Sono opinioni politiche? Sono scelte fatte da cittadini consapevoli del bene comune? E quei colori hanno a che fare con una sorta di guerra civile interna?
Io non credo. E non perché sia particolarmente ottimista. Semmai il contrario. Sono convinto che siamo, questo sì, davvero al centro di una battaglia culturale perduta, o forse mai realmente combattuta. Quando vedo il puntino rosso di Milano e di Torino, e forse solo di Milano centro e di Torino centro, in mezzo al blu, mi vengono in mente New York e San Francisco (sapevano a New York e a San Francisco che cosa avevano in testa i cittadini di Rock Springs dove ha stravinto Rex Rammell, il Trump del Wyoming? Avevano letto i racconti di Richard Ford ambientati in quella città alla fine degli anni ottanta del Novecento?), e poi mi viene in mente Londra centro del pre-Brexit (anche lì c’era qualcuno che aveva un’idea non contrastiva della città del Nord, di Preston, Lancashire o della stessa Birmingham di cui racconta Jonathan Coe?).
Milano è come New York e come San Francisco, da quel punto di vista: qui accade ciò che altrove non accade, qui si discute di diritti umani, qui c’è un intelligente assessore alle politiche sociali , qui ci sono gli archistar, la moda, l’editoria, qui siamo nella “città creativa Unesco per la letteratura”, qui ci sono la Casa della Carità, le Associazioni, il Volontariato, la Fondazione Feltrinelli, la Fondazione Prada, la Fondazione Mondadori, la collaborazione fra pubblico e privato nell’accoglienza di primo livello, per cui senti che l’inclusione è possibile - sia pur con tutte le contraddizioni del caso - come a New York e come a Londra.
E quel che accade altrove, a Rock Springs, Wyoming, a Preston, Lancashire, a Novi Ligure, a Castelfranco Veneto, Romano di Lombardia, non importa. L’Italia è una sterminata provincia, spesso si tratta di provincia ricca, ancora più spesso questa provincia coincide anche con l’Italia della cultura storica, dei monumenti, delle famiglie aristocratiche e delle tradizioni popolari.
A pensarci bene, la provincia del fascismo. Ma qui il fascismo del ventennio non c’entra. C’entrano invece le trasformazioni sociali, “antropologiche”, nonché (anche qui come nelle città) architettoniche, che hanno creato l’Italia “della villetta” (mono o bifamigliare): quel sublime concentrato di isolamento sociale, di trionfo del particulare, di asfissia ideale, di delirio psicologico e di assuefazione al cattivo gusto , quel diffuso monumento alla paranoia e all’orgoglio cellulare che è stato da una parte un simbolo di prosperità e autonomia ma dall’altra anche terreno di coltura di devianze e delitti interfamigliari.
Paradossalmente, nell’uno e nell’altro caso, siamo ignoranti. La politica di quelli che ci piace chiamare “valori” è ignorante. Non lo è ovviamente la Lega, non lo è il centro destra e non lo è neppure il Movimento 5 Stelle. Io non so se Salvini ha studiato l’humanitas della villetta, ma certamente ha ereditato quel che la Lega storica ha sempre saputo di quel mondo. Che cosa conosca o abbia intenzione di conoscere Di Maio, non saprei.
Nei primissimi anni sessanta Truman Capote andò a Holcomb, Kansas, e mise a fuoco un mondo immenso e immensamente ignoto – a partire da un delitto, è vero, ma venne fuori un ritratto sociale delle High Wheat Plains, del Kansas rurale, ricchissimo di umanità e di sfumature (i democratici si contavano sulle dita di una mano). L’opposizione metropoli/periferie è in realtà opposizione metropoli/provincia, quella provincia lì, sempre meno ricca, sempre più inquieta, sempre più diffusa. Non vuole altra cultura che non sia quella analgesica e televisiva dei tronisti e degli chef, quella virtualmente urlata dei social, quella squisitamente razzista del “fuori il diverso” (nero o non nero non importa) che bivacca davanti alle stazioni – non certo quello che i capomastri bresciani vanno a raccogliere nei luoghi convenuti, quello che si prende cura di nonni e di disabili, quello umiliabile in termini salariali.
Ebbene mi prende la sana curiosità che si possa sapere che cosa hanno in testa quelli che non riconoscono il tratto epocale della deriva dei continenti, la necessità di assumere la povertà del mondo come tema comune, la convivenza come un destino ricco di conseguenze. Sono certissimo che di quella che chiamiamo cultura, le aree blu e gialle della mappa temono una cosa sola: la complessità. Cosa c’è mai da apprendere che non sia già saputo altrove? La tecnologia non è esposta a nessuna forma di critica che non sia quella se funziona o non funziona.
Perfino la scuola è guardata con sospetto. La cultura umanistica contemplata nei programmi del centro destra rientra nella “potenzialità del turismo”. Detto questo, la spocchia di chi ritiene di saperla lunga è finita. Per “capire” è ancora presto. È necessario uscire dalle città per cominciare a guardare. Prendere appunti. Accelerare verifiche. Meglio se in comune. Fra i nemici non ci sono solo nemici e spesso, come diceva il poeta, fra quelli dei nemici c’è anche il nostro nome.
Internazionale, 22 gennaio 2018. Un'altro esempio, meno famoso dell'Ilva, dell'incapacità di tenere insieme lavoro e qualità ambientale. Tra promesse e disattese continua il disprezzo per la difesa dell'ambiente e della salute di lavoratori e cittadini. (i.b)
La montagna offre invece l’accoglienza delle osmice, osmize, piccoli ristori a conduzione familiare dove il proprietario, e solo in certi mesi, offre i prodotti della sua terra, dal vino al formaggio, ai salumi. Niente scontrini e un’atmosfera di frontiera che si percepisce già nel nome sloveno.
L’arrivo in città è un’ennesima sorpresa: ignorando i pochi mostri dell’edilizia più recente e tralasciando quel che si trova dietro i muri che nascondono la ferrovia e il vecchio porto, i primi palazzi otto-novecenteschi del capoluogo guidano il visitatore fino al lungomare, annunciato dalle rive – i canali che portano il mare fin dentro la città – e poi dal molo Audace, una lunga e antica gettata di cemento, costruita sul relitto di una nave affondata nel 1740, che si protende nel golfo come se la città si proiettasse in mare.
Il rovescio della medaglia
Come tutte le cartoline e tutte le medaglie, anche Trieste ha però il suo rovescio. Ma chi capita in città potrebbe non accorgersene, soprattutto se ci resta tre o quattro giorni, abbastanza per vedere musei e palazzi e aggirarsi tra osmize e ristorantini dove fanno pescetti fritti o sardoni in savòr (alici marinate). Tutto è ben nascosto sotto il tappeto del salotto buono di piazza Unità.
Se con l’auto si percorre il lungomare per tornare a prendere l’autostrada verso est, cioè verso Lubiana, fatto qualche chilometro che costeggia il porto nuovo e un esteso polo della logistica che un tempo era appannaggio di Fincantieri, si è proiettati in una sorta di inferno industriale. Mentre il cavalcavia sale all’altezza dei piani più alti degli edifici sulla sinistra, sul lato destro appare una sorta di mostro ferroso male in arnese da cui escono fumi e vapori dall’aria minacciosa.
Complice la posizione e il vento, i fumi prodotti dall’impianto industriale di Servola, un’acciaieria che qui chiamano ferriera, restano tutti ben nascosti dietro la curva, un vero e proprio spartiacque tra una città paradisiaca e un inferno dantesco.
L’acciaieria di Trieste, assai meno nota della sorella tarantina, non ha nemmeno quel piccolo braccio di mare che a Taranto divide l’impianto dalla città. La ferriera qui è circondata da tre piccoli nuclei urbani cresciuti nel tempo fino ad accogliere trentamila persone, quasi un sesto della popolazione della città.
Scarica i suoi fumi e i suoi vapori sulle case piccole e grandi della periferia, sugli asili, sui rari parchetti, su finestre e balconi e, ovviamente, nel sangue e negli alveoli polmonari di chi abita o lavora da quelle parti. Così tanti fumi e veleni che i parchi pubblici sono stati chiusi per un periodo perché troppo inquinati; e 83 operai sarebbero morti a causa di tumori, dal 2000 al 2013.
Storia di un ex gioiello
La ferriera ha una storia antica come antichi sono i tentativi, sia dei cittadini sia delle amministrazioni pubbliche, di affrontare il problema dell’inquinamento. Lo stabilimento si estende su un’area di più di 500mila metri quadri con cokeria, due altiforni, l’impianto di agglomerazione e la macchina a colare per la solidificazione della ghisa.
Nata nel 1896, in origine è il fiore all’occhiello di un’azienda di Lubiana. È di proprietà austroungarica, ma negli anni venti diventa italiana. All’inizio la affitta un gruppo locale, ma poi la assimila l’Ilva. Negli anni ottanta la acquista il gruppo Pittini, poi Lucchini. Ma la ferriera è sempre un problema: rimodernarla costa e la siderurgia perde pezzi in tutto l’occidente.
Agli imprenditori si alternano i commissari, poi nel 2015 arriva Giovanni Arvedi: cremonese, cattolico, imprenditore cresciuto in una famiglia di commercianti di acciaio. Rileva l’impianto e si impegna a mettere le cose a posto. Il primo punto dell’accordo è che l’area a caldo (quella che inquina di più) venga chiusa se non scenderanno i livelli di benzo(a)pirene, un idrocarburo cancerogeno, cosa che Arvedi rivendica di aver fatto.
Le proteste
Tutto a posto? Secondo Legambiente no, perché il benzo(a)pirene non è l’unico inquinante. Le associazioni di cittadini lamentano la scarsa trasparenza: NoSmog, storica organizzazione ambientalista di Servola, denuncia l’assenza di centraline di monitoraggio e stima che chi vive vicino alla ferriera sia esposto a livelli di benzo(a)pirene e polveri Pm10 che superano i limiti massimi sostenibili.
La federazione Gilda-Unams chiede conto di un aumento di patologie oncologiche e spiegazioni sul fatto che agli alunni sia stato impedito l’accesso al giardino della scuola. I più arrabbiati, del comitato 5 dicembre, hanno organizzato un lunghissimo presidio in città.
Sono preoccupati anche gli operai, sebbene tra loro ci sia chi difende l’impianto per paura di perdere il lavoro. In uno studio dell’azienda sanitaria locale, fatto per conto della procura della repubblica di Trieste, risulta che tra il 1995 e il 2007, chi di loro ha lavorato alla ferriera, si è ammalato di tumore molto di più rispetto alla media della popolazione locale.
“Finora è stato trattato e spesso percepito come un problema di polvere sui davanzali. In effetti, potrebbe essere qualcosa di peggio, soprattutto per chi ci lavora”, ha detto il sostituto procuratore di Trieste Federico Frezza durante un’audizione alla camera nel giugno 2016.
Ma la ferriera sembra un muro di gomma. Il piano di copertura del parco minerale (una massa di polvere compatta che si allunga in mare e che svolazza nell’aria) va a rilento, le centraline di monitoraggio sono insufficienti, la trasparenza e la ricerca sui dati dei veleni sono scarse.
Arvedi dal canto suo ha gettato il guanto di sfida minacciando di chiudere la fabbrica. Il suo piano di scalata all’Ilva di Taranto, che gli avrebbe permesso in teoria di chiudere l’area a caldo di Servola, è rimasto un sogno. La ferriera resta un nervo scoperto.
Il sindaco
Tra gli interessi dell’industriale e la salute delle persone c’è di mezzo l’amministrazione pubblica, con un comune e una regione governati rispettivamente da un sindaco di destra, Roberto Dipiazza, e una governatrice di sinistra, Debora Serracchiani.
Dipiazza è un signore dall’aria simpatica e rassicurante: giacca blu e cravatta regimental su pantaloni di vigogna, scarpa Oxford liscia e lucida. Piace alle signore bene di Trieste, ma ha fatto razzia di voti anche nel quartiere operaio di Servola. Il suo asso nella manica è stato proprio la ferriera. Aveva infatti promesso di chiudere in cento giorni l’area a caldo. Promessa per altro ciclica, che ritorna a ogni tornata elettorale. Adesso i cento giorni sono diventati sei mesi.
Ricollocare almeno 300 operai, uno dei grandi temi sindacali che hanno sempre salvato l’impianto che ne impiega circa 600, non è più un problema. “Sono appena tornato da Roma con 18 milioni”, spiega il sindaco, “e altri 65 ne arriveranno dagli austriaci che vogliono investire a Trieste, e poi ci sono i cinesi”.
Già, i cinesi. Vorrebbero fare della città un hub della nuova via della seta e inoltre, dice Dipiazza, “è chiaro che i lavori pesanti di un’acciaieria li faranno loro a prezzi più bassi. Non servirà più produrre ghisa: la compriamo in Cina e la lavoriamo a Trieste”. Cinesi o no, la chiusura dell’area a caldo e la revisione dell’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) sono le richieste che ambientalisti, cittadini e associazioni continuano a fare.
L’area a caldo della ferriera è dunque da sempre anche l’area a caldo della politica triestina, come si sente dire qui. Ma secondo qualcuno è solo un gioco di parole che serve a tener buoni i residenti e a pescare voti. Sia nel cuore della città, ricco e diviso tra conservatori e progressisti; sia in periferia, tra gli operai che questa volta hanno premiato la destra.
“Del resto”, dice una componente di un’associazione ambientalista che preferisce rimanere anonima, “di chi possiamo fidarci? Tutti promettono la chiusura dell’area a caldo ma nessuno lo fa. Dipiazza ha già fatto due mandati e niente. Poi c’è stato un sindaco del Partito democratico, Roberto Cosolini, e niente. Vediamo se stavolta Dipiazza sarà di parola. Al momento non abbiamo altra scelta”.
La regione
Alla regione la pensano diversamente. La scelta c’è, eccome. E riguarda, ancora una volta, la Cina. Il consigliere Giulio Lauri, un geologo prestato alla politica, elenca i segnali positivi che negli ultimi anni hanno cambiato il porto vecchio, una struttura gigantesca affacciata sul mare all’inizio della città.
In completa rovina e ormai inservibile, è un’area di capannoni dismessi e una discarica a cielo aperto di traversine ferroviarie, vecchie pavimentazioni urbane, masserizie e gatti selvatici, tutto nascosto da una fitta palizzata di cemento e rampicanti. Bloccato da una gestione conservatrice – per anni nelle mani di Marina Monassi, allora presidente dell’Autorità portuale – dal 2015 il porto vecchio ha voltato pagina: con il passaggio dal demanio statale al comune di Trieste, una parte è stata assorbita dal porto nuovo, ed è stata resa più efficiente.
“Tanto efficiente”, spiega Lauri, “che i cinesi hanno capito che la nostra città è la punta più a nord dove far arrivare le merci nel cuore del vecchio continente, con un risparmio di almeno tre giorni di viaggio rispetto ai porti dell’Europa occidentale. Il traffico del porto nuovo è già cresciuto, perché abbiamo snellito procedure e cercato alleanze”.
“Questa”, conclude Lauri, “non è più la città del no se pol”, alludendo a un’espressione locale usata per opporsi alle novità. Insomma, da porto fermo a porto franco, con più merci e più lavoro. “Ma c’è altro. Il turismo è in aumento, così come le attività culturali, e la città sta consolidando il suo polo scientifico e tecnologico, il più grande d’Italia”.
Lauri fa riferimento anche a quel che dovrebbe essere la Città della scienza 2020, un progetto che prevede la trasformazione di parte del porto vecchio, la costruzione di cinque auditorium e sale convegni, l’organizzazione di esposizioni, mostre, nuovi uffici, e la nascita di centri di ricerca e istituti nazionali e internazionali. Se ne fa un gran parlare, in città, e molti attendono che la data arrivi per sapere se sarà stata una scommessa vinta o un’altra promessa.
Intanto, lasciandosi alle spalle Servola, un certo senso di malessere rimane nelle ossa. E resta la domanda sul futuro delle persone che ci vivono e su quello di Trieste: industriale, postindustriale, hub logistico, polo tecnologico o meta turistica e culturale? In attesa delle risposte, dei cinesi, dei sei mesi per chiudere l’area a caldo, il vecchio mostro continua a sbuffare i suoi fumi sulla città, adombrando la sua immagine da cartolina.
Testo tratto dal'Internazionale, qui raggiungibile in originale
Unavalutazione fortemente critica del modo in cui la camera dei deputati intendevaaffrontare il problema delle periferie, vitale per la città d'oggi. Che deciderà il Parlamento cheeleggeremo il 4 marzo? con postilla
postilla
Le propostedi intervento per restituire umanità e vivibilità alle periferie, puntualmentecriticate da Sergio Brenna, sono di fatto decadute con lo scioglimento delParlamento e l’indizione delle elezioni del nuovo Parlamento. Ma restano unaeredità “culturale” alla quale sarà difficile sottrarsi se non si avranno leidee chiare sul cosa fare. Per assicurare un’effettiva soluzione del problema drammaticodelle periferie e soprattutto dei loro abitanti, occorrerà seguire un percorsoradicalmente diverso.
Questo percorso dovrà iniziare con le elezioni del 4 marzo, portando inParlamento persone che conoscano dall’interno le condizioni di vita delleperiferie, persone competenti sulle questioni dell’abitazione, della città edel territorio, persone non coinvoltecon le politiche in materia che hanno dominato fino a oggi nel parlamento e nel governo:politiche orientate a difendere e agevolare l’abbandono della pianificazione el’aumento dell’affarismo immobiliare, a promuovere e accrescere “la città dellarendit”a, non a costruire, come è necessario e possibile, “la città deicittadini”.
Non solo una nuova città e neppure solo un nuovo stato, ma l'anticipazione di un mondo così orrendo che nessun mostro avrebbe potuto immaginarlo; se non, appunto, il capitalismo
Il catalogo dei progetti di città “nuove” continua ad ingrossarsi con proposte destinate a specifici gruppi di popolazione. I modelli che più sembrano congruenti con l’organizzazione della società al tempo della globalizzazione capitalistica sono le smart cities, che promettono scenari di vita idilliaci alle élite della finanza e della tecnologia avanzata; le città galleggianti, isole artificiali per i ricchi che intendono rompere, anche fisicamente, ogni forma di contratto sociale; i territori recintati, dove milioni di esseri umani che non possiedono nulla sono concentrati e messi a disposizione degli investitori. Esempi di questi tre tipi di insediamento compaiono di frequente sulla stampa quotidiana e, quando sono firmati da famose archistar, sulle riviste di architettura.
Il recente annuncio del piano per una nuova città in Arabia Saudita, quindi, potrebbe sembrare di scarso interesse, anche in considerazione del fatto che molti progetti avviati negli ultimi anni in quel paese non si sono concretati. Ma Neom, che il principe Mohammed bin Salman al-Saud ha presentato nel corso della Future investment initiative, un evento che ambisce ad essere la “Davos nel deserto”, ha caratteristiche che meritano qualche attenzione, a partire dall’ambizione di non voler essere (solo) un grande progetto immobiliare, ma “un nuovo capitolo… un salto… nella storia della civiltà umana”. E non a caso il nome scelto, che fonde la radice latina, neo, con la lettera M, iniziale di mustaqbal, che in arabo significa futuro, intende evocare un “nuovo futuro”.
Situata nella parte nordoccidentale del paese, al confine con la Giordania e l’Egitto e poco distante da Israele (stato che il principe, amico di Trump e del governo israeliano, vorrebbe riconoscere) Neom è collocata in una posizione strategica, sia come “porta” verso l’Africa, grazie al previsto collegamento con la penisola del Sinai, da realizzare con la costruzione di un nuovo ponte, che come tappa della cosiddetta One belt one road, la sequenza di infrastrutture che la Cina sta costruendo per rafforzare la sua penetrazione nei mercati europei e africani.
Con i suoi ventisei mila cinquecento chilometri quadrati (Israele ne ha poco più di ventimila e il Libano circa diecimila) Neom ha più la dimensione di uno stato che quella di una città. Nel suo enorme territorio saranno in vigore speciali leggi fiscali e sul lavoro, nonché un sistema giudiziario autonomo, come già avviene in altre zone economiche speciali della regione- la prima delle quali, Jebel Ali free zone, è stata creata a Dubai nel 1985. A differenza che in altre zone economiche speciali, però, a Neom saranno ammesse solo produzioni e attività di pregio, concentrate in nove settori di investimento: energia e acqua, trasporti, biotecnologie, cibo, scienze tecnologiche e digitali, manifattura avanzata, mezzi di comunicazione, divertimento. Formalmente, la sovranità territoriale rimarrà a Riyadh, ma Neom non dovrà rispondere alle strutture governative saudite bensì ”agli investitori, alle imprese e agli innovatori” che saranno consultati in ogni fase dello sviluppo, affinché norme e regole siano sempre basate sulle “necessità delle imprese e degli investitori”.
Il disegno di nuovi insediamenti umani è sempre finalizzato alla predisposizione di scenari fisici che facilitino l’affermazione di determinate forme di organizzazione della società. Non è irrilevante, perciò, in un’epoca nella quale il capitale ha scatenato una guerra di sterminio nei confronti del lavoro, chiedersi cosa significherà vivere nella nuova “vibrante comunità che preannuncia il futuro della civiltà umana”. A questo proposito, nel corso di un’intervista a Bloomberg, il principe ha chiarito, innanzitutto, che l’ingresso non sarà consentito a tutti, ma solo a tre categorie di persone. “Questa sarà la prima app-based society, nessuno potrà venire senza avere la neom application e senza dimostrare di essere “un investitore, un impiegato in un progetto o un turista”. Gli investitori stranieri saranno i benvenuti, ma devono sapere che “non c’è posto per investitori qualsiasi o per imprese convenzionali, ma solo per sognatori”.
Alla domanda, poi, circa gli eventuali effetti positivi sull’attuale altissimo livello di disoccupazione giovanile del paese, il principe ha risposto che compito di Neom è di diventare uno hub di investimenti mondiali e di “generare denaro”, non quello di creare posti di lavoro per i sauditi disoccupati. Anche i sauditi potranno venire, ma ovviamente “non potranno dormire per strada” e dovranno o comprar casa o affittare una camera d’albergo, diventando anche loro “o turista o investitore”.
In ogni caso, Neom dovrà attirare solo “risorse umane di alto livello e con competenze uniche” in grado di occuparsi a pieno tempo di innovazione, decisioni e leadership degli affari.
I lavori ripetitivi e pericolosi saranno completamente automatizzati ed eseguiti da robot, il cui numero potrà superare quello della popolazione umana, col risultato che il reddito medio pro capite sarà il più alto del mondo. Dal servizio postale alla raccolta dei rifiuti tutto sarà automatizzato, non ci saranno negozi o supermercati, tutto sarà connesso all’intelligenza artificiale all’”internet delle cose”.
“Vogliamo che il primo robot sia Neom stessa”, ha detto il principe, e che diventi la culla della FIR (fourth industrial revolution) la quarta rivoluzione industriale che “annulla i confini tra la sfera fisica, quella digitale e quella biologica”. Il suo straordinario livello di efficienza e sicurezza, unito ad uno stile di vita lussuoso e ad un certo rilassamento dei costumi reso possibile dalle “riforme” (nel video promozionale si vedono giovani donne che corrono sul lungomare poco vestite) lo renderà “il posto migliore al mondo dove scegliere di vivere”.
La supervisione del progetto è stata affidata ad un’autorità speciale, di cui è stato nominato amministratore delegato Klaus Kleinfeld, già a capo di grandi gruppi multinazionali, tra i quali Siemens e Alcoa Arconic. Prototipo della “città capitalista del futuro”, Neom sarà anche la prima città quotata in borsa. Il suo costo, stimato al momento in 500 miliardi di dollari, sarà sostenuto, oltre che dal fondo sovrano dell’Arabia Saudita, che intende procurarsi il denaro privatizzando e vendendo una quota della compagnia petrolifera di stato Aramco, da investitori internazionali.
Fra i circa quattromila partecipanti convenuti alla Future investment initiative per assistere alla illustrazione della Vision 2030, la strategia con la quale l’Arabia Saudita intende trasformare la propria economia per ridurre la dipendenza dal petrolio, c’erano padroni di grandi fondi di investimento (dagli americani di Blackstone ai giapponesi di SoftBank Vision), uomini d’affari ed esponenti di grandi multinazionali come Alibaba e Amazon, la direttrice del fondo monetario internazionale. Tutti hanno espresso apprezzamento e promesso di partecipare all’operazione. Ad esempio, il rappresentante del fondo di investimento diretto della Russia ha detto che porterà imprese high tech, mentre il padrone della Virgin, Richard Branson, si è dichiarato entusiasta all’idea di costruire alberghi lungo i quattrocento sessantotto chilometri di costa sul mar Rosso, con cinquanta isole, destinati ad attrezzature turistiche.
Nel poco più di un mese trascorso dall’annuncio della nascita di Neom, la propaganda mediatica si è intensificata ed il 29 novembre la compagnia discoverneom.com ha comprato un’intera pagina pubblicitaria del Financial Times.
Nello stesso tempo sono stati anche avanzati dubbi sulle concrete possibilità che il progetto venga realizzato, e in ogni caso non entro il 2025 come annunciato dal principe, pur se tutti convengono sul fatto che Neom sia un tassello importante del complesso processo di rimescolamento del potere in corso in Arabia Saudita, nel quale motivazioni di natura geoeconomica e di politica sovranazionali si intrecciano a faide e regolamenti di conti interni.
Comunque, al di là della realistica possibilità di realizzazione di Neom, il fatto stesso che i concetti che stanno alla base del progetto vengano analizzati, esplorati e discussi ha un indubbio impatto, e giustamente è stato osservato che il dibattito avviato rischia di esercitare uno sconvolgimento dell’urbanistica, come sistema di regole, simile a quello che uber ha provocato nel settore tecnologico.
Qualche anno fa molti urbanisti sono rimasti affascinati dalla metafora della città impresa, nella quale i diritti dei cittadini sono equiparati a quelli degli azionisti. Ora Neom chiarisce una volta per tutte che i cittadini sono azionisti di minoranza, senza diritto di voto, e che compito degli amministratori delegati è liberarsene per far spazio a droni, robot e investitori. “Pensate”, ha detto il principe, “cosa potrebbe fare il governatore di New York se, invece di dover rispondere alle richieste degli abitanti, potesse occuparsi solo delle necessità delle imprese e del settore privato”.
Nessuna cifra è stata fornita circa il numero di abitanti previsto a Neom, che qualcuno ha già definito la Blade runner del Golfo, e forse non è casuale che, in concomitanza con la presentazione del progetto, l’Arabia Saudita abbia concesso la cittadinanza ad un robot di nome Sophia/saggezza. Lei ha visto cose che noi umani non possiamo immaginare!
Nigrizia online, 21 novembre 2017. Una visita, sia pure tardiva, a uno dei tanti slum (Korogocho, nella capitale del Kenia) aiuta a capire meglio la miseria costruita dall'ideologia e dalla prassi dello "sviluppo" che alimenta il nostro benessere.
Con un ritardo di cui mi rammarico, perché venirci prima mi avrebbe aiutato a inquadrare il mondo nella giusta prospettiva, sono andato anch’io a Korogocho, la baraccopoli di Nairobi dove scelse di vivere trent’anni fa, nel febbraio 1988, Alex Zanotelli.
So che Alex non apprezza l’eccesso di personalizzazione intorno alla sua esperienza, ma mi sono davvero emozionato quando il suo confratello comboniano Maurizio Binaghi mi ha mostrato quel suo primo misero alloggio, posto sul bordo dell’immensa discarica di Dandora. Ci siamo avventurati in quella lugubre distesa di rifiuti per incontrare le migliaia di persone che ogni giorno pagano un pizzo di venti scellini pur di contenderne la prima scelta ai cani randagi e ai minacciosi uccellacci chiamati marabu. Abbiamo potuto così filmare i poveretti che si affollano intorno ai camion che rovesciano di continuo ogni genere di scarti, velenosi o commestibili, metallici o di plastica che bruciando sprigiona diossina, e scambiare qualche parola con loro. Per poi visitare la sede del progetto Napenda Kuishi (Voglio vivere), in cui ci si prende cura dei ragazzi di strada ladri e tossicodipendenti che aspirano a una difficile redenzione.
Alla vicina parrocchia di Kariobangi ho riabbracciato l’ex direttore di Nigrizia, Franco Moretti. Mentre un’altra collaboratrice del nostro giornale, Bruna Sironi, mi ha accompagnato a visitare il tugurio senza acqua corrente né servizi igienici dove abita da venticinque anni il falegname Peter insieme alla moglie e agli otto figli, nel mezzo del gigantesco slum di Kibera.
È iniziata così la mia visita in Kenya, e la tardiva scoperta del modello di sviluppo africano che insieme ai punti di Pil ha visto crescere i grattacieli di una metropoli dove l’arricchimento di pochi coincide col dilagare delle baracche, in cui vivono ormai circa due milioni di diseredati. Ho toccato con mano, e spero di essere capace di mostrare in televisione, il meccanismo economico che incentiva la formazione di queste immense riserve di manodopera a basso costo da sfruttare. Lusso e miseria che avanzano di pari passo, delineando un futuro da incubo, che da un momento all’altro potrebbe deflagrare con conseguenze al momento imprevedibili.
A questo punto, mi sono spostato nella colonia italiana di Malindi, dove il futuro del turismo esotico comincia a scricchiolare. Si assottiglia il numero dei vacanzieri dei resort a cinque stelle e dei residenti che con centomila euro si erano comprati la villa con piscina. Aumentano i cartelli “vendesi”, scritti nella nostra lingua. L’inquietudine comincia a serpeggiare tra i pensionati tricolori che grazie all’Inps credevano di avere trovato qui il paese del bengodi, perché il loro reddito gli consente di stipendiare cuoco, domestico, giardiniere e guardiani notturni (li chiamano “ascari”) con stipendi da cento euro al mese. Cedono il passo ai nuovi ricchi africani, detentori di patrimoni spesso accumulati grazie a traffici illeciti e a un sistema politico corrotto.
Internazionale, 10 Novembre 2017. Le accattivanti soluzioni tecnologiche del Google Urbanism mascherano un urbanistica basata su libero mercato e profitto, dove le decisioni sono determinate dalle domande di mercato. (i.b.)
Un’astuta provocazione? Forse. Ma la Alphabet, la società madre di Google, prende sul serio la questione. I suoi dirigenti hanno accarezzato l’idea di prendere alcune città in difficoltà e di reinventarle sulla base dei servizi della Alphabet: mappe, informazioni sul traffico in tempo reale, connessione wifi gratuita, auto che si guidano da sole e così via. Nel 2015 la Alphabet ha creato una divisione dedicata alle città, i Sidewalk Labs, diretti da Daniel Doctorof, ex vicesindaco di New York e veterano di Wall street.
Il passato di Doctorof fa capire le intenzioni di Google Urbanism: usare i dati per allearsi con immobiliaristi e investitori istituzionali. Da questo punto di vista, Google Urbanism ha poco di rivoluzionario. I dati e i sensori hanno un ruolo secondario nel determinare cosa viene costruito, perché e a quale costo.
Potremmo chiamarla urbanistica alla Blackstone, in omaggio a uno dei più grandi protagonisti finanziari del mercato immobiliare statunitense. Visto che Toronto ha scelto la Alphabet per trasformare Quayside, un’area non edificata di 48mila metri quadrati sul lungomare, potremo finalmente vedere all’opera la natura pseudo-rivoluzionaria di Google Urbanism e la sua resa
alle forze finanziarie che modellano le nostre città.
L’obiettivo a lungo termine della Alphabet è sostituire regole e divieti formali con obiettivi flessibili meno rigidi e basati sui feedback. Parlando di città, anche luminari del neoliberismo come Friedrich Hayek e Wilhelm Röpke erano d’accordo con forme di organizzazione sociale slegate dal mercato. Consideravano la pianificazione una necessità pratica: non c’era altro modo per gestire le infrastrutture o costruire le strade in modo economico. Per la Alphabet non ci sono ostacoli simili: i lussi di dati possono sostituire le regole del governo con quelle del mercato.
Google Urbanism presuppone l’impossibilità di ampie trasformazioni del sistema come per esempio la limitazione del possesso straniero delle proprietà immobiliari. Anticipa la fine della politica, promettendo di usare la tecnologia per far adattare i cittadini alle tendenze globali immutabili come la disuguaglianza crescente.
Queste tendenze significano che, per la maggior parte di noi, le cose peggioreranno. Ma la Alphabet è convinta che le tecnologie possono aiutarci a sopravvivere, per esempio un’app può aiutarci a trovare del tempo libero nelle nostre vite di genitori carichi di lavoro. Indebitarci per comprare un’auto, visto che nessuno ne possiederà più una, non avrà più senso. E l’intelligenza artificiale farà abbassare i costi dell’energia.
È qui che sta la promessa populista di Google Urbanism: la Alphabet può democratizzare lo spazio personalizzandolo grazie ai flussi di dati e ai materiali prefabbricati a basso costo. Ma questa democratizzazione delle funzioni non sarà seguita da una democratizzazione delle risorse urbane. È per questo che la democrazia algoritmica della Alphabet si basa sulla “domanda del mercato”. Poco importa se l’urbanistica della Alphabet non piacerà agli abitanti di Toronto. Il suo obiettivo è impressionare i futuri residenti, per esempio i milionari cinesi che si riverseranno sul mercato immobiliare canadese.
L’urbanistica alla Blackstone continuerà a modellare le nostre città anche quando sarà la Alphabet a smaltire i rifiuti. Google Urbanism è un modo accattivante di nascondere questa realtà.
Ciò che segue è un’esplorazione del rapporto tra due figure: quella della città e quella della piattaforma. Esplorazione perché tratta il rapporto tra i due come campo d’indagine aperto e non dato a priori. La metafora, ossia guardare e descrivere l’una attraverso l’altra, mi sembra in questo caso la maniera migliore di definire questo rapporto.
Il punto di partenza è un intervento presentato a Città, spazi abbandonati, auto-gestione [1], giornata di discussione organizzata da Laboratorio Crash a Bologna il 3 ottobre 2017. Da un lato il proposito originale della relazione era quello di proporre alcuni strumenti di pensiero che fossero utili alla discussione e che permettessero di approfondire alcune modalità contemporanee di produzione neoliberale dell’urbano, dall’altro, l’uso della metafora come punto di snodo voleva e vuole ancora essere trasformativo. Prima di tutto perché permette di allargare il quadro spostando il fuoco sulle rappresentazioni della città, cioè sull’inevitabile pluralità di immagini che di essa si percepiscono, si fabbricano e si contestano; in secondo luogo perché permette di chiedersi se esistano possibilità di ribaltamento, di appropriazione o più semplicemente di utilizzo di questo rapporto tra città e piattaforma.
Ma che cosa si intende, nell’uso comune, per piattaforma? Nella maniera più generale possibile, essa è nome generico di strutture piane e resistenti […] che servono di base, di appoggio, di collegamento, o rendono possibile il passaggio, il movimento o determinate manovre. A mio avviso, però, la voce linguistica che meglio incorpora quell’immaginario che il senso comune le attribuisce oggi è quello di piattaforma digitale, ossia un agglomerato di hardware e software che permette di svolgere determinate operazioni.
Si tratta quindi di un dispositivo di facilitazione e di organizzazione, di un set di elementi e norme che regolano flussi, passaggi, spostamenti ed operazioni di diversa natura. Non a caso la figura della piattaforma si utilizza per descrivere le trasformazioni recenti dell’economia neoliberista, ed è facile immaginarne la continuità con l’impennata dell’economia dei servizi, della logistica, dei dati, il cui comune denominatore è, appunto, lo spostamento — sia esso di persone, beni oppure informazioni.
Le piattaforme neoliberiste
Il capitalismo delle piattaforme descrive la maniera in cui aziende come Amazon, Google, Facebook, Uber, Airbnb operano sul mercato. Volendo tracciare una linea che le attraversi: il loro core business è tanto la prestazione (spesso retribuita) di un servizio, quanto l’estrazione di valore dalle interazioni sociali che ne derivano. Per esempio: Uber riceve da un lato una percentuale della transazione user-driver; dall’altro si appropria di tutti i dati che può registrare dalla loro interazione come il percorso, numerose rilevazioni ambientali o persino i gusti musicali dell’utente.
Risulta evidente che, a causa del crescente peso economico e sociale che assumono, le piattaforme, in quanto entità reali, arrivano a ricoprire un ruolo di prim’ordine all’interno dell’assetto politico globale. Come descrive Benjamin Bratton [3], la planetary scale computation, cioè la diffusione planetaria del software e dei sistemi informatici, ha radicalmente trasformato il rapporto tra territorio e sovranità. Per descrivere quest’ultima non è più sufficiente riferirsi alle istituzioni politiche della modernità (Stati, regioni o municipalità), ma bisogna districare la “catasta” stratificata che comprende server e cloud, users e interfacce. Basti pensare ai violenti contrasti occorsi tra Google ed il governo cinese: in fondo si tratta di una lotta per la sovranità, seppur articolata in maniere (ancora) diverse. Il rapporto tra le piattaforme che compongono questa geografia emergente e le istituzioni che hanno governato lo spazio attraverso la modernità è una questione giuridica, politica ed economica di un certo peso [4].
Non volendoci qui occupare di piattaforme strettamente economiche, ma prendendole come spunto di partenza per tratteggiare una metafora, possiamo evidenziarne alcune caratteristiche:
- Quello della piattaforma è un modello economico che permette la costruzione di altri beni, servizi e tecnologie su di esso: è in questo senso un sistema sufficientemente adattabile e flessibile;
- Estraendo profitto dai dati, si pone in quanto intermediario e campo d’azione al tempo stesso, incorporando necessità intrinseche di registrazione e sorveglianza costanti;
- Traendo il proprio valore dalla quantità di dati di cui riesce a farsi portatore (dal punto di vista dell’utente, che li interroga, e dal punto di vista del proprietario, che li rivende) si basa sull’effetto rete, tendendo ad un assetto monopolistico; le grandi acquisizioni che caratterizzano il processo evolutivo delle piattaforme, come ad esempio il recente acquisto di Whole Foods da parte di Amazon, ne sono un esempio significativo;
- Pur presentandosi come forme plate o tabula rasa, ogni piattaforma contiene in sé un’idea decisamente politica, nel senso che permette alcune operazioni e ne vieta altre: è regolata da norme.
La città piattaforma
La città-piattaforma è un meccanismo perfetto, facilmente programmabile, un dispositivo dal funzionamento rapido e dall’uso intuitivo. Ricorrendo ad alcuni stereotipi, essa è l’habitat naturale del lavoratore flessibile e dinamico, strutturalmente precario, armato del suo arsenale di dispositivi e servizi on-demand che intersecano quelli offerti dalla città. La stessa cosa vale per la figura del turista globale. La città-piattaforma è un sistema aperto di opportunità, un agglomerato di hardware e software in cui un passaggio in automobile, un pasto a casa o un pernottamento in appartamento sono costantemente a portata di dito. A questa metafora possiamo collegare, forse, quei filoni ideologici che fanno della città un luogo che prima di tutto abbraccia o addirittura accelera le trasformazioni tecnologiche, sociali, economiche; e di conseguenza si presenta come spazio privilegiato di opportunità di crescita. Forse la città imprenditoriale di David Harvey, quella creativa di Richard Florida, fino alla tanto ripetuta quanto variegata figura della città smart, [6] tutte sono riconducibili alla metafora della piattaforma.
Dunque cosa succede oggi quando i giganti del platform capitalism guardano alla città? Un esempio recente lo propone Amazon, che ha pubblicato quest’anno un bando per selezionare il sito geografico per il suo secondo quartier generale [7]. Vale la pena di esaminare i requisiti minimi che permettono alle municipalità l’accesso alla selezione:
- un’area metropolitana comprendente più di un milione di abitanti;
- una popolazione diversificata;
- un ambiente aziendale.
Risulta peraltro necessario presentare:
- una lista di università locali e statistiche sulle qualifiche dei lavoratori locali;
- prove di facile accesso alla rete di trasporti pubblici, di tempi percorrenza inferiore a 45 minuti per raggiungere un aeroporto internazionale, di accesso alla rete autostradale inferiore a 2 miglia;
- presenza di connessione internet su fibra ottica e mappa di copertura significativa della rete cellulare;
- dati sulla congestione stradale.
Se è vero che questo esempio ci mostra il lupo mentre caccia, la città-piattaforma come agglomerato di opportunità, infrastrutture fisiche e capitale umano riappare con le stesse sfumature in progetti di natura diversa. Il programma di ricerca New Cities della californiana Y Combinator [8], votato a ripensare radicalmente la natura e la pianificazione dell’ambiente urbano, chiede, ad esempio: per quali attività bisogna ottimizzare la città? Come misurarne l’efficienza?
In conclusione, la metafora della città-piattaforma sembra descrivere, oggi, prima di tutto un meccanismo estrattivo. Nella sua dimensione fisica, in cui determinate infrastrutture accelerano la produzione di valore, e nella sua dimensione sociale, in cui ogni interazione diventa produttiva. La domanda che emerge, forse scontata ma in forte contrasto con le narrazioni che ne esaltano l’apertura e la semplicità di utilizzo, è: per chi? Vale la pena riesumare un’altra metafora utilizzata in precedenza, cioè quella del dispositivo. Questa volta però nel senso notoriamente attribuitogli da Foucault e così riassunto da Agamben [9]: “un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche [...]. Il dispositivo è la rete che si stabilisce fra questi elementi”. In quanto tale, il dispositivo ha sempre una funzione strategica concreta e si iscrive sempre in una relazione di potere. Non è difficile, penso, leggere quanto descritto prima e quotidianamente ci cattura attraverso questa definizione.
Oltre la metafora
La risposta più diffusa al rapporto città-piattaforma che oggi possiamo osservare è un’azione di tipo normativo: i governi urbani elaborano leggi che regolano la fornitura di determinati servizi, o addirittura li vietano. Lo testimoniano i numerosi tentativi di regolamentazione di alloggi Airbnb, o ancora meglio i recenti Uber ban diffusi in varie parti d’Europa, l’ultimo quello descritto con toni apocalittici a Londra - il quale apparentemente colpisce 40.000 driver presto disoccupati. Le cifre che caratterizzano questi spostamenti sembrano suggerire le difficoltà di questo tipo di azione, che rimane piuttosto limitata ed emergenziale.
Alcune suggestioni più radicali ci vengono forse dall’emergere del platform cooperativism [10], il cui intento di base è quello di costruire una proprietà democratica dell’internet e dell’economia che ne scaturisce. In posizione radicalmente antitetica rispetto al platform capitalism, il cooperativismo di piattaforma propone di adattare la tradizione cooperativista ai processi economici resi possibili dalle piattaforme digitali. Si conforma quindi come una rete globale di coops specializzate in ambiti diversi, dall’e-commerce solidale (Fairmondo) al lavoro freelance (Loconomics), dalle pratiche decisionali (Loomio) ai dati sulla salute (Midata) [11]. La differenza sostanziale rispetto alle piattaforme di tipo estrattivo è l’assetto proprietario della piattaforma stessa, in questo caso distribuito collettivamente tra i lavoratori. Il cooperativismo di piattaforma si pone apertamente come sfida alla corporate sharing economy.
All’interno di questa prospettiva sono collocate alcune piattaforme che mantengono una connessione evidente con gli spazi fisici e sociali della città, costruendo ad esempio modelli alternativi per affitti a breve termine - o meglio ad Airbnb. La più conosciuta di queste, ancora in fase di sviluppo, è Fairbnb: una cooperativa di residenti possiede e gestisce un software per prenotare affitti turistici brevi, con l’obiettivo di garantire ai viaggiatori un’esperienza più specifica e reinvestire i profitti in progetti di interesse locale, tesi a mitigare gli effetti negativi dell’impatto del turismo sulla comunità [12]. Lo stesso assunto di base sottende ad altre piattaforme, per ora immaginarie: Allbnb, Munibnb e Cobnb [13].
Certo, la trappola costituita dal mito della comunità, della sua utopia pacificata e dei suoi conseguenti meccanismi di chiusura ed esclusione resta in agguato. Eppure questi esperimenti lasciano immaginare una gestione radicalmente diversa delle risorse urbane: non più monopolistica ma distribuita tra i partecipanti, non votata all’accumulazione di risorse ma re-direzionata su politiche di protezione sociale.
Com’è fatta la città osservata attraverso il cooperativismo di piattaforma? È possibile immaginare una fotografia alternativa, una potential politics che emerga dalla città-piattaforma attuale [14] e riscriva questa metafora?
Riferimenti
[1] I materiali relativi alla giornata sono disponibili su infoaut.org.
[2] Il saggio di riferimento sul tema è Nick Srnicek, Platform Capitalism (Cambridge: Polity, 2016); trad. it. Nick Srnicek, Capitalismo Digitale (Roma: LUISS University Press, 2017).
[3] Benjamin Bratton, The Stack. on Software and Sovereignty (Cambridge, MA: MIT Press, 2015).
[4] Una riflessione significativa viene di nuovo da Nick Srnicek, “We Need to Na- tionalise Google, Facebook and Amazon. Here’s Why”, The Guardian, August 2017,
[5] Cfr. Rob Kitchin, Tracey P Lauriault, and Gavin McArdle, Data and the City (London: Routledge, 2017).
[6] Cfr. David Harvey, “From Managerialism to Entrepreneurialism: The Transformation in Urban Governance in Late Capitalism”, Geografiska Annaler. Series B, Human Geography 71, no. 1 (1989): 3–17, http://www.jstor.org/stable/490503, Richard Florida, The Rise of the Creative Class. and How It’s Transforming Work, Leisure and Everyday Life (New York: Basic Books, 2002); per un approccio critico nel vasto mare di pubblicazioni sulla smart city, si veda Alberto Vanolo, “Smartmentality: The Smart City as Disciplinary Strategy”, Urban Studies 51, no. 5 (2014): 883–98.
[7] Amazon ha la sua sede centrale a Seattle da oltre vent’anni. A settembre 2017 l’azienda annunciato pubblicamente di accettare candidature da varie città americane tramite la HQ2 Open Call. I punti seguenti sono tratti dalla HQ2 Request for Proposals.
[8] Cfr. Announcing New Cities.
[9] Giorgio Agamben, Che Cos’è Un Dispositivo? (Milano: Nottetempo, 2006).
[10] Cfr. Trebor Scholz, “Platform Cooperativism” (Rosa Luxemburg Stiftung, 2016); trad. it. Disponibile su alleanzacooperative.it.
[11] Un elenco piuttosto completo è disponibile su platform.coop.
[12] Cfr. fairbnb.coop.
[13] Cfr. Il contributo di Janelle Orsi in Nathan Schneider, “5 Ways to Take Back Tech”, 5 Ways to Take Back Tech, May 27, 2015.
[14] Cfr. Ugo Rossi, “The Variegated Economics and the Potential Politics of the Smart City”, Territory, Politics, Governance 4, no. 3 (2016): 337–53.
Note bibliografiche
Agamben, Giorgio. Che Cos’è Un Dispositivo? Milano: Nottetempo, 2006.
Bratton, Benjamin. The Stack. on Software and Sovereignty. Cambridge, MA: MIT Press, 2015.
Florida, Richard. The Rise of the Creative Class. and How It’s Transforming Work, Leisure and Everyday Life. New York: Basic Books, 2002.
Harvey, David. “From Managerialism to Entrepreneurialism: The Transformation in Urban Governance in Late Capitalism.” Geografiska Annaler. Series B, Human Geography 71, no. 1 (1989): 3–17.
Kitchin, Rob, Tracey P Lauriault, and Gavin McArdle. Data and the City. London: Routledge, 2017.
Rossi, Ugo. “The Variegated Economics and the Potential Politics of the Smart City.” Territory, Politics, Governance 4, no. 3 (2016): 337–53.
Schneider, Nathan. “5 Ways to Take Back Tech.” 5 Ways to Take Back Tech, May 27, 2015.
Scholz, Trebor. “Platform Cooperativism.” Rosa Luxemburg Stiftung, 2016. Srnicek, Nick. Capitalismo Digitale. Roma: LUISS University Press, 2017.
———. Platform Capitalism. Cambridge: Polity, 2016.
———. “We Need to Nationalise Google, Facebook and Amazon. Here’s Why.” The Guardian, August 2017.
Vanolo, Alberto. “Smartmentality: The Smart City as Disciplinary Strategy.” Urban Studies 51, no. 5 (2014): 883–98.
la Nuova Venezia, 28 ottobre 2017. «Al centro della discussione, la crisi degli Stati democratici occidentali e la sempre maggiore richiesta di amministrazione a scapito della rappresentanza». (m.p.r.)
Venezia. «Finalmente cominciamo a parlare di quello che succede nel mondo anche qui in Veneto. Dire che l'indipendentismo è chiudersi significa non aver capito niente. Lo Stato non è come una madre, che non scegli. È più un telefono, se funziona lo usi altrimenti lo cambi. Il centralismo degli Stati sta finendo, e nessuna strada è esclusa, neanche quella dell'indipendenza». Le parole di Antonio Guadagnini, consigliere regionale per SiamoVeneto e firmatario di due progetti di legge sull'indipendenza, hanno aperto la lectio magistralis di Parag Khanna a palazzo Franchetti, a Venezia.
il Fatto quotidiano, 29 settembre 2017 Qualche volta anche i pesci grossi finiscono nella rete. Enel, Ilva e Cementir (Caltagirone, il padrone di Roma) ci rovinano due volte: coprono la terra con le colate di cemento, e per di più il loro cemento inquina.
Rifiuti pericolosi rivenduti per produrre cemento in alcuni casi scadente e soprattutto per risparmiare milioni e milioni di euro evitando gli ingenti costi di smaltimento. Una “triangolazione illecita” che ha coinvolto “tre compagini societarie di primo piano nel panorama industriale ed economico nazionale” come Enel Produzione spa, Ilva spa e Cementir Italia. Quest’ultima acquistava a prezzi irrisori la loppa dell’Ilva (lo scarto della produzione dell’acciaio) e le ceneri recuperate dai filtri dello stabilimento della centrale elettrica Enel di Brindisi. Sulla carta, tutto regolare. Nella realtà loppa e ceneri non potevano essere utilizzate per quello scopo perché contenevano residui che li rendevano praticamente rifiuti e non “sottoprodotti”. Eppure Cementir che secondo l’accusa era pienamente consapevole della natura del materiale che acquistava, li usava per produrre cemento finito nell’edilizia civile e industriale che secondo gli esperti in alcuni casi presenta caratteristi di minore resistenza meccanica. Un sistema estremamente redditizio, soprattutto per chi vendeva gli scarti: solo per Enel, ad esempio, la vendita delle ceneri ha consentito un guadagno di oltre 523 milioni dal 2011 a oggi. Per l’Ilva, invece, la somma non è ancora stata calcolata.
Ma c’è tanto altro negli atti dell’indagine denominata “araba fenice” messa a segno ieri mattina dai finanzieri della sezione Tutela dell’economia della Guardia di finanza di Taranto guidati dal tenente colonnello Marco Antonucci e dal colonnello Gianfranco Lucignano e coordinati dai pubblici ministeri Alessio Coccioli della Direzione investigativa antimafia di Lecce e Lanfranco Marazia della Procura ionica, che ieri mattina hanno notificato un decreto di sequestro che ha riguardato le 3 società e ben 31 persone.
D: Questi qua sono cinque… sono nel loro nucleo di ambiente eh! Non è tributario che non fanno un cazzo che non capiscono un cazzo.
B: No, no (…) ci capiscono si…
D: Sono cinque esperti…
B: Questi ci capiscono abbastanza.
D: Hum …
B: A modo loro ma ci capiscono. Vabbè dai e… tanto lo sapevamo e…
D: Poi mi hanno parlato di principio di precauzione, quindi anche concerti complessi insomma…
B: Sì, sì.
D: No, perché questa roba qua voi anche se poco perché… sai… bisogna adottare il principio di precauzione…
B: Vabbè, oh! E… Fabio che… da come era partita avevamo capito che… è cosi.. II problema vero è capire adesso che ne vogliono fare del pregresso. Perché…
D: Hum!
B: …dice ‘ma hai contaminato tutte le ceneri. Mo aspetta hai contaminato tutte le ceneri” boh! Vediamo. Solo che già mi immagino i titoli sui giornali’.
Il decreto del giudice Antonia Martalò ha sequestrato con facoltà d’uso l’intera centrale di Brindisi, il cementificio di Taranto e una parte dell’Ilva: le società avranno 60 giorni di tempo per mettersi in regola ed evitare il fermo degli impianti. Il giudice inoltre ha disposto il sequestro dei conti e delle quote societarie per Enel fino all’ammontare di 523 milioni di euro, considerato l’ingiusto profitto ottenuto in questi anni. Intanto dalle carte emerge che le violazioni di legge potrebbero aver intaccato anche la qualità del prodotto. Nel caso delle ceneri dell’Enel, infatti, i consulenti dell’accusa hanno rinvenuto “elevate concentrazioni di sostanze alcaline come l’azoto ammoniacale” che porterebbe conseguenze “sulla qualità e sulla composizione del prodotto finale”: in sostanza, per l’accusa, il calcestruzzo prodotto da quel cemento può essere decalcificato e gli effetti si tradurrebbero “con aumento di porosità e soprattutto con una perdita di resistenza meccanica”.
Le tre aziende, intanto si dicono pronte a dimostrare la regolarità del loro operato e fiduciose nell’azione dei giudici. Per i magistrati invece gli indagati delle tre aziende erano perfettamente consapevoli di ciò che facevano e in alcuni casi hanno persino tentato di ostacolare le indagini offrendo agli investigatori dati differenti da quelli reali.<
Internazionale, 22-29 settembre 2017. Le immagini futuristiche del fotografo Richard Allenby-Pratt non sembrano così impossibili se si pensa alle catastrofi ambientali, allo sfruttamento incauto delle risorse e alle trasformazioni folli che imponiamo ai nostri territori. (i.b.)
Se dovessimo credere alle previsioni del fotografo britannico Richard Allenby-Pratt, la fine del mondo è alle porte. Allenby-Pratt presenta le sue foto datandole “dopo il 2017”, un futuro prossimo in cui a Dubai i lavori di costruzione si sono fermati e gli animali sopravvissuti si aggirano tra le rovine di un paese devastato. Sono animali domestici, ma anche quelli di vari zoo della regione che i custodi, prima di fuggire, hanno liberato e abbandonato nella città diventata grigia. Cos’è successo? Un ciclone? Un terremoto? Una guerra, una bomba atomica? La prima cosa a cui pensiamo è la rappresentazione esasperata di un universo distrutto, colpito dai cambiamenti climatici.
Ne è nato un nuovo ecosistema, che Allenby-Pratt illustra con una dose di umorismo venato di surrealismo. Visualizzare il futuro, anche se si tratta di una messa in scena seria e angosciante, è una sfida per la fotografia, la cui tradizione è fondata sulla documentazione, sul rapporto “realistico” o “verista” con il mondo. Il fotomontaggio è uno strumento importante nella storia dell’immagine issa, ma l’arrivo del digitale l’ha reso più accessibile offrendogli nuove possibilità. La ricerca di Allenby-Pratt, che si è formato in una scuola di pubblicità e comunicazione, ne è un buon esempio. Il perfetto controllo della tecnica rende la sua serie riconoscibile e uniforme. L’uso di colori terrosi basati su scale di grigi e blu leggeri, caratterizza i paesaggi urbani in cui gli animali sembrano quasi fondersi all’ambiente. La discrezione nello stile e la violenza solo suggerita danno forza a queste scene inverosimili, che compongono un racconto moderno, un’affabulazione prospettica. Le immagini, basate sulla tensione tra il realismo della rappresentazione fotografica – in cui possiamo riconoscere gli animali, le piante e gli edifici – e l’artificio, ci mettono di fronte alla necessità, militante, di riflettere sul futuro del pianeta.
Il fotografo, che vive tra Dubai e Londra, sceglie un modello estremo, una regione del mondo di cui si conoscono gli eccessi più vari, legati alla ricchezza generata dal petrolio che un tempo sembrava essere illimitata. Le sue immagini, senza voler spaventare, dicono che è il momento di abbandonare l’illusione dello sviluppo illimitato, e che è indispensabile cambiare modello energetico e fare altre scelte.
«Tre ministeri (Beni culturali, Ambiente, Agricoltura) legiferano pestandosi i piedi tra loro, per non dir poi delle Regioni e dei Comuni, che ignorano spesso le norme statali». il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2017 (p.d.)
Ma la molteplicità e contraddizione di sistemi normativi oggi vigenti si spinge anche oltre. Di fatto, il territorio nazionale è governato da quattro insiemi di leggi separati e incoerenti fra loro, che riguardano il paesaggio e il territorio urbanizzato, ma anche l’ambiente e i suoli agricoli, moltiplicando in tal modo l’Italia per quattro. Tre ministeri (Beni culturali, Ambiente, Agricoltura) legiferano pestandosi i piedi tra loro, per non dir poi delle Regioni e dei Comuni, che ignorano spesso le norme statali, né si coordinano tra loro se confinanti. Contrasti che allargano le zone grigie, seminando speculazione edilizia e abusivismi, terreno di coltura dei periodici condoni.
Rimediare a questa gigantesca stortura richiede competenza e intelligenza politica, agendo sull’ordinamento ma anche sulla Costituzione, con un intervento limitato e mirato, e non riforme “a raffica” stile Renzi-Boschi. Un buon punto di partenza sarebbe la proposta di Massimo Severo Giannini (anni Settanta) di introdurre forme di controllo pubblico delle aree fabbricabili. Si può fare, scorporando il diritto di proprietà, che resta intatto, dal diritto di edificazione, e assoggettando quest’ultimo a un rigoroso sistema pubblico di controllo, basato su parametri verificabili. Basterebbe, ad esempio, commisurare le ipotesi di crescita urbana a previsioni di crescita demografica certificate dall’Istat per troncare alla radice una gran parte della cementificazione del territorio (molti Comuni truccano impunemente le statistiche). Altri criteri: la presenza e la frequenza di edifici abbandonati, invenduti o inutilizzati, e di aree de-industrializzate da destinare a uso collettivo; o ancora il tasso di edilizia condonata. Infine, un radicale riesame dei “piani-casa” regionali e degli stessi condoni alla luce della Costituzione (vedi il Fatto Quotidiano del 13 agosto), ma anche di una corretta gestione del rischio sismico e idrogeologico.
Città e paesaggi sono la principale ricchezza d’Italia. Sono il sangue e l’anima della nostra memoria storica e culturale, l’eredità che abbiamo ricevuto e che dobbiamo consegnare alle generazioni future. Lo slogan straccione “padroni in casa propria”, che Renzi ha copiato da Berlusconi, guida un degrado civile che privilegia il miope profitto privato sull’interesse pubblico e sulla legalità. È lecito a un cittadino sperare che la prossima legislatura, chiunque ci governi, segni una svolta? Sono ancora attuali le parole di Aldo Moro (1964): “Dobbiamo por fine alla sostanziale sopraffazione dell’interesse privato sulle esigenze della comunità, all’irrazionalità e alla disumanità degli sviluppi delle nostre città, con la conseguenza di una diffusa e crescente distorsione del vivere civile”. Per rispondere a questa responsabilità storica troppo a lungo disattesa, agire sull’ordinamento è necessario e urgente.
Il comune pagherà le spese per il tram collegherà il centro al nuovo store di Eataly (Fico). Ennesimo esempio della subalternità della pianificazione urbanistica all'interesse privato. Un passetto in più dalla contrattazione al vassallaggio. il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2017 (p.d.)
«Intervista realizzata il 29 giugno a Bologna, dove Harvey era presente per la Summer School "Sovereignty and Social Movements"organizzata dall’Academy of Global Humanities and Critical Theories». connessioniprecarie, 14 luglio 2017 (c.m.c)
Cominciamo dalle origini della tua elaborazione, che parte da Cambridge ‒ dove non ti muovevi all’interno di un approccio marxiano – e a fine anni Sessanta muove sulla sponda opposta dell’Atlantico, a Baltimora. Qui hai modo di osservare la scaturigine o l’affermarsi di un plesso di processi che negli anni a venire e sino a oggi formano i principali vettori di analisi dell’urbano. Baltimora è infatti piuttosto emblematica per quanto riguarda i processi di razzializzazione inscritti nella geografia urbana e le forme di conflitto che a essi si accompagnano, come nei riot dei Sessanta «riapparsi» nel 2015 dopo la morte di Freddie Gray; è una tipica città duramente segnata dalla post-industrializzazione; caso emblematico di gentrification del centro cittadino col rifacimento del porto; nonché esempio iconico di sprawl urbano nella cosiddetta BA-WA, la metropoli diffusa che lega Baltimora a Washington. Sono questi elementi che ti conducono a concentrarti sulla «città» quale lente analitica privilegiata, tanto da arrivare anni dopo a dichiarare che «il mio obiettivo è la comprensione dei processi urbani sotto il capitalismo»?
come mai decidi di dedicarti allo studio di Marx e di usarlo assieme alla città quali framework della tua analisi? C’entra forse l’analisi di Henri Lefebvre?
«Sono andato a Baltimora un po’ perché ero interessato alle lotte sociali che erano in corso nelle zone urbane degli Stati Uniti nel corso degli anni Sessanta, mentre era in pieno svolgimento quella che veniva definita come Urban Crisis. Quella era davvero una crisi, o volendo una serie integrata di crisi, che toccava l’urbano così come i soggetti dimenticati e marginalizzati, la questione razziale… Quindi sono partito con l’idea di curvare il mio lavoro verso la ricerca urbana.
«Quando sono arrivato stavano succedendo anche molte altre cose: il movimento conto la guerra, il movimento per i diritti civili… Erano tempi duri per la storia americana, ed era impossibile non rimanere coinvolti in quel contesto. E io rimasi profondamente coinvolto in quanto stava avvenendo a Baltimora, in particolare nel 1968 dopo l’assassinio di Martin Luther King, quando gran parte della città venne data alle fiamme, venne in pratica cacciato il governo civile dalla città e ci fu un’occupazione militare della città.
Ci fu davvero un’insurrezione della popolazione, non solo a Baltimora ma anche a Los Angeles, Detroit, Chicago, dappertutto. Ho dunque cominciato a sviluppare dei progetti di ricerca per l’università per comprendere le condizioni che avevano portato a questa eruzione. Mi confrontai col problema di come scrivere di quei fenomeni in un modo che avesse un qualche senso, accorgendomi che la maggior parte dei discorsi proposti dalle scienze sociali di fatto non funzionava, parlando sia degli studi sociologici, sia di quelli economici o psicologici.
«Quindi andai alla ricerca di altri framework interpretativi, e assieme ad alcuni studenti decidemmo di leggere Marx per vedere se poteva avere una qualche utilità. Quindi cominciai a leggerlo, scrivendo dei testi sulla questione abitativa della città, adoperando alcuni suoi concetti come quelli di "valore d’uso" e "valore di scambio", e mi accorsi che le categorie che si possono prendere da Marx potevano essere davvero utili per spiegare la situazione. Fu davvero interessante che, iniziando a scrivere numerosi rapporti di ricerca con un linguaggio marxista e presentandoli a banchieri, persone della finanza o delle istituzioni, tutti mi dicevano che erano lavori eccellenti (perché non sapevano che venivano da Marx!).
«Fu lì che capii definitivamente che Marx aveva ragione e dunque proseguii in quella direzione, facendo lentamente emergere il progetto dello sviluppo di un approccio marxista all’urbanizzazione, cosa per nulla comune al tempo se non per qualche sociologo francese come Henri Lefebvre, ma io a quel tempo non l’avevo ancora letto. Conoscevo Manuel Castells e lo incontrai nel 1967, cosa che mi aiutò a conoscere ciò che stava accadendo in Francia a quel tempo. Tutto ciò mi ha portato alla pubblicazione del mio primo libro, Social Justice and the City, che è diviso tra una parte formulata in termini liberali e una marxista. […] Baltimora era una città industriale quando arrivai lì e la classe operaia bianca impiegata nei motori, nell’acciaio, nella costruzione di navi era molto sindacalizzata e stava piuttosto bene, potendosi permettere la casa nei suburb e uno stile di vita piuttosto privilegiato.
«Questa suburbanizzazione era intrecciata a una politica reazionaria legata a doppio filo a una dimensione razzista, implicata in ciò che stava accadendo nel centro città – che veniva letto sostanzialmente come un’insorgenza razziale. In parte ovviamente lo era, ma più che altro quel fenomeno indicava una divisione all’interno della working class tra pezzi di classe operaia bianca privilegiata e tutto il resto, che veniva lasciato davvero molto indietro».
Hai fatto accenno a Castells, e mi pare interessante il fatto che tra voi due ci sia una sorta di parallelismo, anche se segnato da nette e molteplici divergenze. Il primo tuo libro di cui parlavi segue di un anno La questione urbana di Castells (1972). Nel 1989 escono due vostri testi ‒ The Urban Experience (Harvey) e The Informational City (Castells) – mentre più di recente avete affrontato entrambi il tema dei «movimenti urbani» con Rebel Cities (Harvey, 2010) e Networks of Outrage and Hope (Castells, 2012). Avresti voglia di spendere qualche parola rispetto a convergenze e differenze tra il tuo approccio e quello di Castells?
«In qualche modo dovresti chiederlo più a lui che a me, perché io ero molto vicino a lui durante gli anni Settanta, ma con The City and the Grassroots (1983) egli iniziava a ritenere che i movimenti urbani non fossero movimenti di classe, abbandonando quindi la prospettiva marxista. Io invece non vedevo il motivo di tale abbandono, e non ho mai capito cosa lo portò a tale cambio di direzione. Probabilmente ha a che fare col lavoro politico che stava facendo con il Partito Socialista, che aveva il suo istituto di ricerca col quale collaborava, e lavorare all’interno del filone socialdemocratico avrà sicuramente influito sul condurlo verso modelli interpretativi socialdemocratici.
«È un passaggio che ha coinvolto molti comunisti spagnoli, come ad esempio Jordi Borja. Più tardi, ai tempi degli scritti sulla città informazionale, Castells rientra in qualche misura all’interno di una posizione marxista, di quelle che ritengono che sono le forze produttive a guidare la storia. Ma questa non è la mia posizione, e credo che nemmeno Marx abbia mai assunto questa postura teorica. Ritengo dunque che Castells abbia avuto un’interpretazione di Marx piuttosto limitata, relativa appunto alle sole forze produttive e molto legata a quello che si potrebbe definire come il dogma dei Partiti comunisti europei (penso a quello francese, a quello spagnolo, a quello italiano ecc…). Lui è sempre stato molto coinvolto in quei mondi. Io ho invece sempre pensato che ciò che accade nella produzione debba costantemente essere messo in parallelo con l’analisi di classe e con le dinamiche della riproduzione.
«E da questo punto di vista ritengo che l’urbano sia il quadro all’interno del quale questi vettori possono essere meglio interpretati congiuntamente. Ho sempre interpretato Marx in questa direzione: c’è una politica della produzione, e c’è una politica per la realizzazione del valore, che avviene nelle città. E il processo complessivo è importante tanto quanto il momento produttivo. Diciamo che cerco di tenere assieme quella che potremmo definire come la "totalità" marxiana, mentre la posizione di Castells è molto più ristretta, esclusivamente produttivista […] e in questa direzione si capisce come si possa arrivare ad abbandonare Marx. […] Ciò non vuol dire che alcuni concetti di Castells non siano comunque molto rilevanti».
A partire dagli anni Ottanta vieni definendo uno dei temi che contraddistingueranno la tua ricerca, ossia l’analisi critica del neoliberalismo. Potresti mettere questo tema in relazione alle mutazioni dello Stato nel suo rapporto con la città? Quali sono le implicazioni del trasformarsi di questa relazione?
«Quando lo Stato ha iniziato a ritirarsi dalla fornitura di servizi sociali, il progressivo declino del welfare state, si sono aperte una serie di questioni rispetto a chi e come si dovesse sviluppare la distribuzione dei servizi sociali. E uno dei modi coi quali lo Stato si è relazionato a tale problema è stato quello di ributtare tutte queste funzioni addosso ai governi delle città dicendo: "non è un mio problema, risolvetevela voi". E chiaramente a quel punto non è che lo Stato ha inviato maggiori risorse alle città, nonostante queste stessero affrontando un numero crescente di problematiche come il social housing, l’aumento delle povertà ecc… Le municipalità vennero abbandonate, dovendo cominciare a trovare le risorse in maniera autonoma.
«È quello che ho definito come il passaggio da una forma manageriale del governo locale a una governance urbana di tipo imprenditoriale. A quel punto il tema dello sviluppo urbano è divenuto centrale, con un peso sempre più rilevante acquisito dai developer, di fatto gli unici soggetti a garantire un gettito fiscale per il bilancio delle città per poter affrontare i problemi sociali. Purtroppo ciò ha prodotto uno spostamento netto delle risorse, che sono andate sempre meno a coprire i costi necessari per il sociale e sempre più a sussidiare le corporation, proprio mentre i fondi statali diminuivano. E nessuno si oppose a ciò. Qualcuno disse che si poteva costruire una città in cui i bisogni sociali sarebbero stati affrontati col gettito proveniente dallo sviluppo urbano.
«Ad esempio Bloomberg a New York diceva che solo le industrie che versavano contributi alla città sarebbero potute rimanere in città. Ma il retro-pensiero di tutto ciò è che la stessa regola sarebbe dovuta valere anche per le persone… E quel modello si è realizzato, come abbiamo da poco visto rispetto a quel terribile incendio che c’è stato a Londra alla Greenfell Tower. È stato l’emblema di come un municipio ricco tratta e considera i poveri, di come di fatto ci si occupi di disfarsi di loro non preoccupandosi del tema della sicurezza abitativa. È questo il tipo di gestione che si è sviluppato nella città imprenditoriale, un modello contro i poveri che si è diffuso nella maggior parte dell’Europa occidentale e del Nord America».
Colleghiamoci a quest’ultimo tema per porre una domanda sui movimenti sociali, in particolare in relazione alla loro possibilità di incidere su queste dinamiche, dunque rispetto a un nodo che per molti anni è stato rimosso, ossia quello della relazione tra movimenti e la questione del potere. Nello specifico, negli ultimi anni si stanno confrontando diverse esperienze ed elaborazioni teoriche. Giusto per menzionarne alcune, si potrebbe citare una posizione che guarda all’"assemblea" quale forma specifica dei movimenti sociali (penso ai recenti scritti di Judith Butler o a Negri e Hardt), ci si potrebbe riferire a un’esperienza come il Rojava, dove una forma-partito piuttosto tradizionale si è misurata con una dimensione inedita (riassumibile a livello teorico nell’incontro della riflessione di Abdullah Öcalan con le idee municipaliste di Murray Bookchin), passando infine per una spinta a riconsiderare il ruolo dello Stato (soprattutto, ma non solo, all’interno del cosiddetto "populismo di sinistra"). Ti chiederei dunque qualche riflessione in proposito, legandola magari al discorso di prima sullo Stato.
«Io sono stato molto d’accordo con quanto diceva ieri sera Sandro [Mezzadra, all’evento "Critical Dialogue" che ha visto un confronto tra i due, nel contesto della Summer School bolognese "Sovereignty and Social Movements"], ossia che lo Stato ha un ruolo davvero importante in qualsiasi tipo di trasformazione radicale dell’ordine sociale. Ossia non dobbiamo essere Stato-fobici, con ciò intendendo che non vogliamo avere nulla a che fare con lo Stato. Allo stesso tempo, se si assume una postura Stato-centrica ci si allontana dalla possibilità di realizzare effettivamente una trasformazione radicale.
«L’unica possibilità è che si costituiscano una serie di poteri al di fuori dello Stato, che siano però in grado di intrattenere una relazione forte con esso. Ma appunto, senza questo "fuori" dallo Stato, non ci sono possibilità. È quanto abbiamo visto ad esempio con l’esperienza di Syriza e il suo progressivo identificarsi col potere dello Stato, che ha prodotto un drastico esaurirsi dei poteri dal basso. Anche in Spagna credo che Podemos sia in qualche modo di fronte allo stesso dilemma, non che siano nella stessa posizione di Syriza, ma potrebbero arrivarci. Io penso ci siano grandissime potenzialità in questa relazione: lo sviluppo di movimenti sociali indipendenti dall’apparato politico e come questi possono interagire sullo Stato.
«Un’organizzazione politica davvero forte non può che svilupparsi assemblando differenti strutture e molteplici livelli, cosa che in qualche misura si sta determinando in Rojava, nel nord della Siria. In questo senso credo sia necessario trovare un bilanciamento rispetto a questo continuo timore di rapportarsi allo Stato, proprio nel momento in cui gli Stati sono sempre più dominati dal potere finanziario che lavora di continuo contro i movimenti sociali».
Proprio rispetto a questo, tu in passato hai adottato la formula del "Partito di Wall Street" per indicare come lo Stato fosse sempre più colonizzato dalla finanza. Non è un rischio, o una potenziale contraddizione, guardare allo Stato proprio in questo contesto?
Bisogna considerare che il Partito di Wall Street è stato recentemente sfidato dal movimento che si è prodotto attorno alla candidatura di Bernie Sanders, anche se probabilmente da quando lui ha deciso di accettare la politica corrente l’emergenza che si era prodotta attorno alla sua figura è in qualche modo rientrata. Ma il punto è che bisogna chiedersi il perché il Partito di Wall Street controlla il Congresso, di fatto comprandoselo. Poi ci sono chiaramente altri livelli dove le cose possono andare in modo differente.
I municipi possono essere luoghi per una possibile rivalsa di una politica di sinistra, e ciò sta accadendo a Seattle, Los Angeles, e in molte altre città. Anche a livello amministrativo ci sono molti governi urbano estremamente più radicali delle stesse forme a livello nazionale. A questo livello Wall Street non ha lo stesso tipo di presa, anche se ovviamente esistono altri tipi di poteri che contrastano questa possibilità. Penso in primo luogo ai developer e alle loro lobby, in generale al mondo delle costruzioni (anche i sindacati dei costruttori in fondo hanno posizioni pro-development).
È dunque in corso una battaglia in molte città. Per esempio a New York c’è un sindaco molto di sinistra, ma di fatto non è in grado di contenere il potere delle lobby del real estate (che qui sono davvero forti, più che da ogni altra parte), anche perché bisogna considerare che l’attuale piano di sviluppo urbano è stato per lo più disegnato dal precedente sindaco Bloomberg, con una forma tutta protesa verso la speculazione. Quindi c’è anche un problema di tempo, per cui anche una posizione molto di sinistra come quella di De Blasio fatica a incidere per davvero.
Facendo un salto nel discorso per arrivare alle ultime due domande, potresti sviluppare una riflessione rispetto alla proliferazione di teorie che negli ultimi decenni sempre più stanno mettendo in relazione la città e il globale. Dalla rete di città-mondo di Allen J. Scott alla nota città globale di Saskia Sassen, passando per la più recente concettualizzazione sull’urbanizzazione planetaria proposta da Neil Brenner e Christian Schmid, fino ad arrivare alla relazione tra urbano e antropocene sulla quale riflettono Ash Amin e Nigel Thrift in Seeing Like a City o alla Connettografia basata sul ruolo geopolitico delle mega-città proposta da Parag Khanna, la relazione tra urbano e globale pare in qualche modo ormai costitutiva. Cosa ne pensi? Come interagiscono per te queste due dimensioni soprattutto in una prospettiva politica?
Penso che in effetti questa concezione di un’urbanizzazione planetaria sia un fatto indubbio. Siamo di fronte a una configurazione di poteri politici locali che possono essere giocati nei termini di una mobilitazione di massa per incidere nella politica. Credo che l’esempio più recente cui possiamo guardare rispetto a questo tema è relativo a ciò che avvenne nel 2003, il 16 febbraio, quando milioni e milioni di persone scesero in strada contro la possibilità di una guerra.
In milioni per le strade di Roma, Madrid, Londra, New York… E ovviamente senza nessun tipo di organizzazione specifica né tanto meno una sorta di grande mano invisibile cospirazionista alle loro spalle! Si trattava di una rete complessa che aveva generato un movimento globale di massa. E fenomeni del genere hanno luogo anche a livello nazionale, come accaduto in Turchia quando, dopo la sollevazione di Istanbul, moltissime altre città si sono mobilitate. O ancora in Brasile, quando dopo San Paolo in tantissime altre città le persone sono scese per strada.
Quando succedono cose simili non si può far finta di nulla, o pensare che non ci sia una qualche dinamica in atto nel profondo… Sarebbe una pura fantasia sennò. Il punto, ovviamente difficile, ma che andrebbe pensato, è cosa sarebbe successo se tutte quelle persone scese in strada nel 2003 contro la guerra fossero rimaste in strada… Cosa sarebbe successo? Cosa sarebbe successo, politicamente, se si fosse realizzato uno sciopero di massa di quello dimensioni e in tutto il mondo? Se tutte quelle persone avessero detto: "Basta, questa guerra non la farete, noi rimaniamo per strada finché non capitolerete".
Credo davvero ci sia una concreta possibilità in ciò. Al contempo non è che voglio romanticizzare, parlando troppo delle reti di città liberate o cose simili… Ma comunque su questo non bisogna sminuire. Voglio dire: l’insorgenza brasiliana è iniziata una settimana dopo quella di Gezi, e quello che mi ha colpito quando ho parlato con alcuni attivisti coinvolti in quella protesta è mi hanno detto: "Certo, stavamo guardando ciò che stava accadendo a Gezi!". Insomma, l’"effetto contagio" può davvero essere molto forte e veloce. Ora, la domanda difficile è: quale politica è possibile costruire su tutto ciò? Quale politica sta dietro a questi movimenti di sinistra? […]
Ma il punto è che, per me, in questo momento c’è un’enorme alienazione della popolazione urbana, a causa di una sempre minor democrazia, sempre minor potere, il declino della qualità della vita, l’austerità e il taglio dei servizi sociali, un mercato immobiliare divenuto totalmente pazzo, fuori dal controllo e totalmente speculativo, coi prezzi che sono schizzati a livelli ridicoli… Abbiamo tutti questi temi ai quali vanno aggiunti il declino degli investimenti nell’educazione e tanti altri fattori… E i partiti non rispondono a questi temi, i governi sono guidati dai developer e dalla finanza… Ecco, credo davvero ci sia la possibilità che accada qualcosa di molto rapido per una trasformazione urbana.
Ultima domanda. Tu sostieni che il modo nel quale organizziamo le nostre città dev’essere legato al tipo di persone che vorremmo essere e, da un punto di vista in qualche misura analogo, che dobbiamo sempre più chiederci se le città debbano essere spazi per l’investimento o luoghi per l’abitare. A me questa «scissione» riporta in mente l’antica distinzione latina tra urbs e civitas, tra la città intesa come infrastruttura fisica e la città come insieme dei cittadini, elementi che per i romani rappresentavano un campo di tensione e che invece la modernità ha progressivamente separato fino a rendere la città meramente un urbs. Si potrebbe dire che sarebbe oggi necessario riconnettere i due termini?
«Sì, penso che il punto stia esattamente qui. Sarebbe decisivo rivitalizzare l’idea di cittadinanza nei termini della città, un qualcosa che si è assolutamente perso. In qualche modo penso sia possibile ripartire dalle forme di democrazia praticate dai «movimenti delle assemblee» per recuperare quella concezione. Allo stesso tempo sarebbe necessario riuscire a esercitare una qualche forma di influenza sugli investimenti urbani e sui progetti che su di essi vengono elaborati, insistendo sulla direzione di questi investimenti: da dove vengono? A quali interessi rispondono? Stanno funzionando per migliorare l’ambiente nei quartieri e la vita delle persone? Danno una possibilità egualitaria di accesso all’educazione? Consentono una eguale distribuzione delle possibilità di vita nella città? Sono orientati all’integrazione delle popolazioni migranti all’interno della città (mentre le attuali politiche migratorie stanno attualmente distruggendo le città)?
«Invece gli urbanisti stanno per lo più producendo e riproducendo il modello della gated community, e l’isolamento di questa popolazione segregata dentro le loro mura… Ronald Regan disse a Gorbačëv ¨abbatti quel muro!", ma avrebbe dovuto dirlo ai costruttori americani dei suburb, dei veri e propri costruttori di muri. Adesso le mura sono ovunque in America, questi spazi chiusi alla città dove non c’è nessuna possibilità di sviluppare un’idea di appartenenza alla totalità della città, e dunque non si realizza nessun interesse rispetto a ciò che in essa accade, non c’è nessuna attenzione nemmeno a ciò che succede al proprio fianco.
Questo discorso rimanda a quanto scrisse in uno dei suoi ultimi articoli Henri Lefebvre, che nel 1989 in Quand la ville se perd dans la métamorphose planétaire uscito su Le Monde Diplomatique chiudeva, facendo in qualche modo il punto sulla sua intera prestazione intellettuale, dicendo: "Il diritto alla città non implica nulla di più che una concezione rivoluzionaria della cittadinanza politica".Esatto, penso ci sia ancora molto da pensare proprio partendo da lì».
«Il grande progettista si racconta alla vigilia dei novant’anni “Tutto è cambiato. Chiudo lo studio”». la Repubblica, 12 luglio 2017 (c.m.c.)
Il 10 agosto compie novant’anni, ma il motivo non è solo anagrafico.
«L’architettura non interessa più», dice persino sorridendo nel salotto della sua casa milanese – Casa Candiani, un edificio eclettico di fine Ottocento, un po’ neogotico, un po’ neorinascimentale, fra San Vittore e Santa Maria delle Grazie. Fino a qualche mese fa al pianterreno c’era la Gregotti Associati, fondata nel 1974, lavori in Italia e nel mondo, dalla Germania al Portogallo alla Cina. Ora, di là dal vetro, si scorgono scaffali vuoti e la luce spenta. «Abbiamo tre progetti ancora in piedi, ad Algeri, in Cina e poi a Livorno, dove facciamo il piano regolatore. Li cura il mio socio Augusto Cagnardi».
E niente più?
«Niente più. D’altronde compio novant’anni, ma cosa sta succedendo nel nostro mondo? Una società immobiliare decide se, con i soldi dell’Arabia Saudita, investire a Berlino, a Shanghai o a Milano, a seconda delle convenienze. Stabilisce il costo economico, compie un’analisi di mercato, fissa le destinazioni. E alla fine arriva l’architetto, a volte à la mode, al quale si chiede di confezionare l’immagine».
Lei fa questo mestiere dall’inizio degli anni Cinquanta: ne avrà visti di periodi bui. O no?
«Certo. Ma non è un caso che nella mia vita sia stato amico più di letterati, di artisti e di musicisti che di architetti. Da Emilio Tadini a Elio Vittorini, da Umberto Eco a Luciano Berio. E poi ho sempre concepito l’architettura come un prodotto collettivo: un valore che si è perso».
Dove l’ha appreso?
«Lavorando da operaio in uno stabilimento di proprietà della mia famiglia, a Novara ».
Lei si è occupato tanto di letteratura, di filosofia, di musica. Ha fatto il conservatorio. Eppure lamenta che i suoi colleghi oscillano dall’iperspecialismo alla tuttologia.
«Ma mantenere relazioni fra filosofia, letteratura e architettura non è tuttologia. I miei modelli sono il capomastro medievale e il suo sguardo d’insieme. Capii questo a Parigi, nel 1947, dove lavorai nello studio di Auguste Perret. Dovunque girassi incontravo intellettuali che incrociavano le diverse competenze. Tornato a Milano, appena le lezioni del Politecnico me lo consentivano, andavo a sentire Enzo Paci che parlava di filosofia teoretica».
Studiava architettura, ma non le bastava.
«La svolta fu nel 1951, quando partecipai a Hoddesdon al convegno dei Ciam, il Comitato internazionale per l’architettura moderna. C’erano Le Corbusier e Gropius. Si rifletteva sul rapporto con la storia e il contesto. E a chi insisteva che il contenuto del nostro futuro sarebbe stato la tecnologia, si contrapponeva la dialettica con il passato, con i luoghi in cui si realizzava un’architettura. Ciò che preesisteva non andava ignorato, anche nel caso in cui il nuovo fosse un’eccezione».
E i rapporti con gli scrittori?
«Rimasero intensi. Ho anche partecipato al gruppo 63: si ragionava su come vivere il tempo libero senza finire preda del mercato, una questione cruciale per un architetto».
Comunque sempre pochi architetti.
«Gli architetti erano divisi in due categorie. Una prediligeva la natura d’artista e considerava la letteratura o la filosofia discipline distanti. L’altra era quella dei professionisti, che interpretavano il mestiere onorevolmente, ma che non andavano al di là del dato tecnico».
Comunque sia, lei ha sostenuto che allora ci si confrontava con una società in cui prevaleva l’industria. E che oggi, invece, poco ci si rapporta con quella post industriale.
«Oggi non ci si preoccupa di rappresentare una condizione sociale collettiva. È andato smarrendosi il disegno complessivo della città, che viene progettata per pezzi incoerenti, troppo regolata da interessi».
Questo è dovuto all’irruzione del postmoderno?
«Il postmoderno è un’ideologia tramontata. Ma ha avuto effetti significativi. Si è interpretato in modo ingenuo il rapporto con la storia, non ponendosi nei suoi confronti in termini dialettici, ma adottandone lo stile. E l’involucro è stato considerato indipendente dalla funzione di un edificio. Poi il postmoderno ha incrociato il capitalismo globale».
E che cosa è successo?
«Sono saltate le differenze fra culture. Ora ovunque si distribuiscono prodotti uguali. Prevale il riferimento a un contesto globale, che diventa moda, più che a un contesto specifico. Avanzano lo spettacolo, l’esibizione, l’ossessione per la comunicazione».
Mi fa un esempio?
(Sul tavolo davanti al divano pesca una rivista, c’è la foto di un edificio che sembra accartocciato) «Guardi, questo è il centro di ricerca progettato a Las Vegas da Frank Gehry. Gehry è un mio amico, ma ha superato ogni limite nel rapporto fra contenuto e contenitore. È l’ammissione che l’architettura è sfascio».
Le piace la Nuvola di Fuksas?
«Assolutamente no».
E il Maxxi di Zaha Hadid?
«Il suo fine è la trovata, la calligrafia, senza rapporto con la funzione. Queste sono architetture popolari, d’altronde se non fossero popolari non potrebbero esistere. Contengono un messaggio pubblicitario. Anche nel Seicento le facciate barocche delle chiese lo contenevano, ma si riferiva a un universo spirituale. Qui è la moda a dettare le prescrizioni».
Lei ha realizzato il quartiere Bicocca, a Milano, e a Pujang, in Cina una città da centomila abitanti. Ha fatto il piano regolatore di Torino e il Centro culturale Belem a Lisbona. Ha collaborato con Leonardo Benevolo al Progetto Fori a Roma, mai realizzato, purtroppo. Ma le viene spesso rinfacciato il quartiere Zen a Palermo: c’è chi ne invoca la demolizione.
«Lo Zen avrebbe dovuto essere diverso da quel che è stato, una parte di città e non una periferia. Palermo ha il centro storico, le espansioni otto-novecentesche e poi doveva esserci lo Zen, con residenza, zone commerciali, teatri, impianti sportivi. Doveva possedere un’autonomia di vita che non si è realizzata».
È il problema di molte periferie pubbliche italiane. Qualche responsabilità ce l’avete voi progettisti?
«Io non sono per demolire lo Zen o Corviale. Sono per demolire il concetto di periferia, non basta il rammendo. Ci siamo illusi in quegli anni di poterlo realizzare? È vero, ci siamo illusi di costruire quartieri mescolati socialmente, dotati delle attrezzature che ne facevano, appunto, parti di città e non luoghi ai margini. Rispondevamo a un’emergenza abitativa. Ma se noi ci siamo illusi, quello che contemporaneamente si costruiva o quello è venuto dopo cos’è stato se non la coincidenza fra interessi speculativi e l’annullamento di ogni ideale progettuale? Corviale ha un’idea, che andava realizzata. Non è solo un tema d’architettura».
Lei è stato insegnante a Palermo e ad Harvard, a Venezia e a Parigi. Come guarda ai futuri architetti?
«Mi preoccupa il loro disorientamento. Vengono spinti a coltivare una pura professionalità, a saper corrispondere alle esigenze del committente, oppure ad avere una formazione figurativa stravagante e capace di essere attraente. È pericoloso l’abbandono del disegno a mano. Con il computer si è precisi, è vero, ma non si arriva all’essenza delle cose. I materiali dell’architettura non sono solo il cemento o il vetro. Sono anche i bisogni, le speranze e la conoscenza storica».
"Creare comunità" è la nuova "mission" annunciata da Facebook che sta avviando di 1500 appartamenti in una cittadina di sua proprietà. Una volta si chiamavano company town. la Repubblica, 10 luglio 2017 (p.s.) con postilla
Adesso nella Silicon Valley inizieranno presto i lavori di una nuova cittadina. Ci sarà una farmacia, un negozio di alimentari, trasporti efficienti, e 1500 appartamenti. A delimitarne i confini, forse, un cartello con stampato un pollice in su. Perché stiamo parlando di Willow Park, il primo villaggio di proprietà Facebook. A metà strada tra quartiere residenziale e luogo destinato agli uffici. La compagnia ha appena annunciato di aver presentato il piano al consiglio comunale di Menlo Park, sede dell'azienda di Mark Zuckerberg.
Una scelta necessaria, spiega in un post sul blog ufficiale del social network John Tenanes, responsabile degli immobili e delle infrastrutture di Facebook. Le ragioni sono facili da capire. Negli ultimi anni il boom delle aziende hi-tech con radici nella valle del silicio ha moltiplicato la forza lavoro presente nell'area. Con conseguente congestione del mercato immobiliare. I prezzi degli affitti sono schizzati alle stelle. E una delle città più penalizzate è stata Menlo Park. Qui, stando alle stime di una compagnia immobiliare riportate dal Guardian, la somma mensile necessaria per aggiudicarsi un appartamento con due stanze da letto è più che triplicata dal 2011 a oggi, raggiungendo quota 3,349 dollari. Una delle più alte degli Stati Uniti e considerevolmente maggiore di quella necessaria a New York.
postilla
Le "company towns" non sono certo una novità nello sviluppo del capitalismo. Nei soli Usa sono 3.500, e sono numerose in tutte le regioni del mondo. Nella piccola Italia le "città aziendali" sono le seguenti: Metanopoli, sede della ENI, fu creata da Enrico Mattei per i lavoratori dell'azienda e per i laboratori allora all'avanguardia legati allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi della Padania; Crespi d'Adda, costruita per i lavoratori del cotonificio Crespi, è entrata a far parte della Lista del Patrimonio dell'umanità dell'Unesco; così la seteria San Leucio, manifatture reali dei Borboni, sono oggi anch'esse ‘patrimonio dell'umanità dell'Unesco; la “città sociale di Valdagno" fu realizzata ai margini dell’omonima cittadina in relazione all’allargamento e alle razionalizzazione fordista dei lanifici Marzotto. Rosignano Solvay, creata dalla Solvay Group per i lavoratori dello stabilimento, fu costruita a fianco della città stessa; Zingonia, tra Milano e Brescia, fu realizzata dall’imprenditore Renzo Zinconi, in relazione al boom economico della regione. (e.s.)
Una riflessione lucida sui disastri provocati nella Città Metropolitana milanese dalla Delrio, una legge inadeguata, scaturita da obiettivi incongrui e potenzialmente dannosa. arcipelagomilano.org, 4 luglio 2017 (m.c.g.)
Come noto il Decreto Salva Italia all’inizio, e a seguire la Legge Delrio e le Finanziarie degli ultimi anni, hanno fortemente ridimensionato risorse, ruolo e capacità di azione di province e città metropolitane, fino alla situazione critica che si può constatare oggi, ampiamente descritta nei tre interventi citati.
È certo difficile governare in una situazione di così grave carenza di risorse, che è stata voluta per smantellare le strutture provinciali ancora prima di avere portato a compimento la Riforma Costituzionale, ma che è stata ciecamente applicata anche alle città metropolitane, di fatto tarpandone le ali già sul nascere, nonostante la loro istituzione sia stata sbandierata come uno degli obiettivi importanti della legge. La situazione, a parte qualche piccolo e marginale palliativo, continua paradossalmente anche dopo la bocciatura della Riforma.
È certo difficile governare quando la Regione vede la Città metropolitana come un ingombrante concorrente nel controllo del territorio. Già ai tempi della Provincia di Milano, appena si è presentata l’occasione la Regione ne aveva favorito il ridimensionamento affrettando l’istituzione della nuova Provincia di Monza e Brianza. La Città metropolitana è oggi molto più piccola del sistema metropolitano reale (2), e la Regione si oppone a ogni richiesta di allargamento che viene dai comuni confinanti, come mostra il recente caso di Vigevano (3).
È certo difficile governare quando il Sindaco di Milano – e della Città metropolitana – ha intuito i vantaggi operativi e politici del doppio incarico, che per legge gli assegna la disponibilità di un territorio molto più ampio senza dovere rispondere, nella verifica elettorale, ai cittadini dei comuni di cintura, e quindi interpreta questo secondo incarico esclusivamente come ancillare alle finalità del primo. Non è un caso che l’elezione diretta inserita nello Statuto della Città metropolitana venga posposta a data da destinarsi, il più possibile lontana nel futuro.
È certo difficile governare quando ANCI, l’associazione dei comuni, si oppone con tutto il suo peso a ogni tentativo di regolare il consumo del suolo nei piani comunali, che è uno degli argomenti sui quali le province hanno negli anni fondato la propria competenza di pianificazione del territorio. La recentissima (fine maggio) modifica alla Legge Regionale 31/2014 sul consumo di suolo permette ai comuni di attuare direttamente questa legge, autocertificando il rispetto dei generali e generici criteri del PTR (piano territoriale regionale), e allontanando molto in là nel tempo la redazione del PTM (piano territoriale metropolitano), che dovrebbe contenere regole rivolte ai comuni più dettagliate di quelle del PTR.
È certo difficile governare quando la già citata modifica di legge, invece di contenere il consumo di suolo come dichiara nel titolo, finisce in modo paradossale, ma probabilmente voluto, per accelerare l’attuazione di quanto già programmato. In che modo? Regalando un plusvalore ai fortunati proprietari delle aree già programmate nei Piani dei comuni, anteponendo il riequilibrio dei bilanci di società e banche al governo del suolo come bene comune.
È certo difficile governare quando la Regione con il nuovo PTR condiziona il futuro delle aree urbane più rilevanti, compresa buona parte del territorio metropolitano, alla preliminare approvazione di accordi negoziali di interesse regionale (quindi di iniziativa e guidati dalla Regione), limitando in questo modo l’autonomia degli strumenti di pianificazione territoriale della Città metropolitana, delle province, e degli stessi comuni capoluogo (4).
È certo difficile governare quando diventa sempre più sistematica la marginalizzazione della Città metropolitana sui temi strategici del territorio, come già sperimentato per esempio nelle vicende inerenti le aree Expo, o di recente le aree ferroviarie dismesse (i famosi scali), che sono patrimonio pubblico e dovrebbero servire alle esigenze dell’intera comunità metropolitana, non solo di chi vive entro i confini di Milano.
L’elenco potrebbe continuare. Se certo è difficile governare in queste condizioni, tuttavia almeno in quelle poche occasioni in cui ci sono i poteri e qualche risorsa si deve cercare di usarli il meglio possibile. Vedo invece in alcuni interventi recenti ancora citato il Piano strategico approvato un anno fa come buona pratica della Città metropolitana, nonostante le numerose critiche pubblicate, anche su questo sito, che ne hanno evidenziato la pochezza. Basta andare a rileggerne alcune del 2016, sono sempre attuali (5).
Il Piano strategico è stato affidato ad una struttura esterna, quando invece ci sono valide competenze interne, ed è stato tenuto separato dal PTM (Piano territoriale metropolitano), nonostante i due strumenti siano complementari e dovrebbero procedere assieme, il più integrati possibile. Gli uffici di pianificazione territoriale della Città metropolitana, anche se ridotti nei ranghi, possiedono solide competenze tecniche, ed una pluriennale esperienza nel rapporto con gli uffici tecnici dei comuni, quindi una conoscenza approfondita e puntuale dei problemi territoriali, che nessuna struttura esterna può neppure lontanamente eguagliare.
Il Piano strategico è stato attivato e approvato in tempi abbastanza rapidi, mentre il PTM deve ancora partire. Ma le indicazioni del Piano strategico rimangono nel libro dei sogni se non sono accompagnate e integrate con le regole e modalità di governo del territorio che solo il PTM può possedere. Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 2921 del giugno 2016, proprio sul caso di un comune del Milanese, ha riaffermato il ruolo di coordinamento della pianificazione territoriale provinciale e metropolitana, e ne ha ribadito la centralità rispetto alla pianificazione dei comuni. I contenuti di questa sentenza sono lì a disposizione, hanno efficacia immediata, vanno semplicemente usati.
Se andare avanti nelle sfavorevoli condizioni di contorno attuali è difficile, almeno partiamo cercando di fare bene quel poco che norme, risorse, competenze, giurisprudenza e altre condizioni ci consentono oggi di affrontare (6).
(1) Si vedano gli interventi su ArcipelagoMilano di Valentino Ballabio del 7 giugno 2017, di Arianna Censi del 13 giugno e di Ugo Targetti del 20 giugno.
(2) Sulla questione delle dimensioni di città e sistema metropolitano segnalo i miei interventi su ArcipelagoMilano del 16 settembre 2016 e dell’11 maggio 2016. Se l’ampliamento della Città metropolitana fino a coincidere con il Sistema metropolitano reale è troppo complesso e irrealistico, bisogna quantomeno immaginare un sistema di governance che coinvolga nelle decisioni sul sistema metropolitano almeno capoluoghi e polarità urbane delle province confinanti.
(3) Sulla stampa locale il Presidente della Regione ha dichiarato recentemente la propria contrarietà alla domanda del Comune di Vigevano di annessione alla Città metropolitana; si veda per esempio l’articolo sulla Provincia Pavese del 15 giugno 2017.
(5) Alcuni interventi sono stati pubblicati su ArcipelagoMilano il 12 aprile 2016, si vedano per esempio quelli di Giorgio Goggi e di Riccardo Cappellin. Cito anche un mio intervento sempre su ArcipelagoMilano del 24 maggio 2016.
(6) Per un riassunto dei contenuti della sentenza si veda il mio intervento su ArcipelagoMilano del 13 luglio 2016.
Per alleviare la pressione demografica di Pechino si progetta una nuova citta', si prospettano speculazioni immobiliari, sfratti e dismissione delle attività' agricole, Internazionale, 30 Giugno 2017, (i.b.)
La costruzione del nuovo distretto di Xiongan, nello Hebei, che unisce le contee di Xiaxiong, Rong cheng e Anxin: “Insieme alla zona economica speciale di Shenzhen e al distretto di Pudong a Shanghai, Xiongan rappresenta un importante passo in avanti per tutto il paese”. Nei tre giorni successivi all’annuncio, la contea di Anxin è stata invasa da decine di migliaia di persone in cerca di nuove possibilità di investimento nella zona. Da un lato Yuantou è contento perché se da giovane, quand’era lontano da casa, per spiegare da dove veniva doveva dire “vicino al lago Baiyang”, ora basta che risponda “il nuovo distretto di Xiongan”. Dall’altro, però, Yuantou è preoccupato per le sue anatre, che alleva da 33 anni. Tra gli abitanti della cittadina è quello che lo fa da più tempo. Stando alle stime del 2014, il 12 per cento della produzione nazionale di uova d’anatra proviene dallo Hebei, e più del 60 per cento di quelle salate che si mangiano a Pechino è prodotto nella contea di Anxin. Ogni anno le anatre di Yuantou producono decine di migliaia di uova, che da Anxin si vendono in tutta la Cina.
Quando ha cominciato a circolare la voce sulle demolizioni e i trasferimenti, Li Fei, un compaesano di Yuantou, ha pensato di piantare alberi da frutto sul suo terreno così da far aumentare il suo valore. Ma i coltivatori della zona gli hanno consigliato di lasciar perdere: “Non pensarci nemmeno, tempo fa abbiamo aiutato una famiglia a fare lo stesso e il giorno dopo, le piante sono state sradicate”. Gli abitanti preoccupati devono trovare altri modi per cavarsela. Quando hanno sentito che gli indennizzi sarebbero stati assegnati su base individuale, due abitanti di Santai, un villaggio vicino a Daiwang, hanno chiamato i figli: “Sbrigatevi a fare un bambino, non si sa quanto tempo rimane ancora!”. Altrove si è sparsa la notizia che anche i condizionatori e gli scaldabagno alimentati a energia solare sarebbero stati rimborsati, e una famiglia, che aveva già installato un impianto, è corsa a comprarne un altro. Da un po’ Yuantou trascorre più tempo nel cortile o seduto alla finestra a guardare le anatre razzolare. I tanti anni passati all’aperto s’intuiscono dalla sua pelle color rame, come quella dei pescatori. Ormai è anziano, e sapeva che prima o poi sarebbe arrivato il momento di lasciare la sua casa, ma non pensava che sarebbe successo così all’improvviso.