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TITOLO I

Norme Generali

Art. 1 - Direttive programmatiche

L’indirizzo e il coordinamento nazionale della pianificazione urbanistica si attuano nel quadro della programmazione economica nazionale e in riferimento agli obiettivi fissati da questa, anche per quanto riguarda i programmi generali e di settore, dei servizi e delle opere pubbliche di interesse nazionale, interregionale e regionale.

Fino a quando non saranno in funzione gli organi di programmazione, al perseguimento delle finalità indicate nel comma precedente provvede un Comitato di Ministri, presieduto dal Presidente del Consiglio dei Ministri, e composto dai Ministri per i lavori pubblici, che ne ha la vice presidenza, dell’interno, della difesa, del bilancio, dei trasporti, della pubblica istruzione, dell’agricoltura e foreste, dell’industria e commercio, del turismo e lo spettacolo e delle partecipazioni statali.

Il Comitato, a seconda delle materie da trattare, può essere integrato da altri Ministri. Ad esso, inoltre, possono essere invitati a partecipare i rappresentanti delle Regioni o di gruppi di Provincie o di Comuni.

Il Comitato, ai fini della priorità, con sua determinazione, stabilisce quali programmi di servizi o di opere pubbliche, o loro progetti di massima, debbano essere sottoposti al suo esame.

Per assicurare il funzionamento del Comitato, è costituito presso il Ministero dei LL.PP. un Segretariato Generale al quale possono essere addetti funzionari dell’Amministrazione statale e regionale, nonché esperti nelle materie attinenti all’indirizzo ed al coordinamento urbanistico, anche estranei all’Amministrazione statale.



Art. 2 - Zone di preminente interesse pubblico

Le autorità competenti all’adozione dei piani regionali o comprensoriali possono proporre al Comitato dei Ministri previsto dall’articolo precedente che zone le quali dai piani medesimi abbiano ricevuto una destinazione specifica, siano dichiarate di preminente interesse pubblico in ordine alla destinazione indicata.

Quando per una zona un interesse pubblico è dichiarato preminente le decisioni delle varie Autorità Amministrative si subordinano a quelle dell’Autorità competente a provvedere in ordine ad esso.

La determinazione del Comitato dei Ministri è vincolante ed è valida per l’intera durata del piano.



Art. 3 - Norme tecniche generali

Il Comitato dei Ministri può emanare direttive tecniche generali per la formazione dei piani e delle opere di urbanizzazione.

TITOLO II

Principi fondamentali della legislazione regionale

CAPO I



Art. 4 - Disposizioni generali

La Regione disciplina con propria legge i piani urbani. stici e l’attività edilizia secondo i principi della presente legge.

CAPO II

NORME CONCERNENTI L’ ATTIVITÀ URBANISTICA



Art. 5 - Piano regionale

Le Regioni sono tenute ad adottare il piano regolatore generale del proprio territorio.

Il piano è formato con la partecipazione dei rappresentanti delle Amministrazioni statali dei lavori pubblici, della pubblica istruzione, della difesa, dell’agricoltura e foreste, dell’industria e commercio, del lavoro e previdenza sociale e delle partecipazioni statali, delle Amministrazioni provinciali e comunali, nonché di esperti in materia di indirizzo e coordinamento urbanistico ed è adottato con atto amministrativo della Regione.

Nella fase preliminare del procedimento di formazione del piano regionale il progetto deve essere reso pubblico e sono ammesse osservazioni nel pubblico interesse.

Ai fini del coordinamento con i programmi economici nazionali e della tutela degli interessi dello Stato, il piano regionale è approvato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro per i Lavori Pubblici, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro.

Art. 6 - Contenuto del piano regionale

Il piano regionale indica le grandi linee dell’assetto e della valorizzazione del territorio, in rapporto alla programmazione economica, ed in particolare deve:

a) indicare le zone di insediamento urbano, di sviluppo industriale, di valorizzazione turistica e paesistica e di specializzazione agraria;

b) indicare le comunicazioni e le altre infrastrutture principali ;

c) determinare la gradualità dei principali interventi pubblici ed il coordinamento delle fasi di attuazione anche in rapporto ai programmi di attuazione dei piani economici generali e di settore;

d) ripartire il territorio regionale in comprensori, indicando quelli per i quali è obbligatoria la formazione dei piani comprensoriali in relazione alle esigenze di sviluppo di determinate zone ed alle caratteristiche geografiche, ambientali ed urbanistiche in genere;

e) precisare l’ubicazione, l’estensione ed i caratteri dei principali interventi per lo sviluppo agricolo.

Il piano regionale ha vigore a tempo indeterminato. Esso è sottoposto a revisione ogni 10 anni; può essere modificato o integrato anche nel corso di un decennio per sopravvenuti rilevanti motivi di pubblico interesse.

Il piano regionale deve conformarsi ai piani ed ai pro- grammi nazionali ed è vincolante per tutte le pubbliche Amministrazioni.



Art. 7 - Piano comprensoriale

Per ogni comprensorio individuato in sede di piane regionale è redatto un piano comprensoriale.

La legge regionale deve prevedere la creazione di appositi Enti a carattere consorziale per la formazione, per l’adozione e per l’esecuzione del piano con la partecipazione delle Amministrazioni provinciali, di quelle comunali e degli enti pubblici interessati.

La legge regionale può stabilire particolari modalità per la delega ai consorzi delle attribuzioni spettanti ai Comuni che ne fanno parte.

Si applicano le disposizioni di cui all’art. 5, secondo e terzo comma.



Art. 8 - Contenuto del piano comprensoriale

Il piano comprensoriale prevede:

a) la destinazione di uso del territorio;

b) gli interventi per le principali localizzazioni residenziali turistiche, sportive, termali e balneari;

c) gli interventi di bonifica, di ricomposizione delle proprietà rurali, dei rimboschimenti;

d) gli interventi nelle aree di sviluppo industriale;

e) la viabilità, le ferrovie, i porti, i canali navigabili e gli aeroporti;

f) le altre importanti opere pubbliche;

g) le zone da assoggettare ai piani di rinnovamento;

h) gli interventi necessari nei Comuni che non sono tenuti al piano regolatore generale.

Il piano provvede ad assicurare la effettiva tutela delle zone assoggettate o da assoggettare a vincolo paesistico e delle cose disciplinate dalla legge 10 giugno 1939, n. 1089. Il piano prescrive le eventuali misure necessarie per attuare le dichiarazioni di zone di preminente interesse pubblico indicate dall’art. 2.

Il piano comprensoriale determina i Comuni di maggiore o di particolare importanza tenuti ad adottare il piano regolatore generale. Esso vale come piano regolatore generale per gli altri Comuni e stabilisce per quali tra loro sia necessaria l’adozione di piani regolatori particolareggiati.



Art. 9 - Durata ed effetti del piano comprensoriale

Il piano comprensoriale ha vigore a tempo indeterminato.

La legge regionale stabilisce i casi ed i limiti entro i quali si procede alla sua revisione.

Gli enti pubblici ed i privati sono tenuti ad osservare le prescrizioni ed i vincoli del piano stesso.



Art. 10 - Piano regolatore generale

Per i Comuni obbligati all’adozione del piano regolatore generale, la legge regionale stabilisce i termini per adottare il piano medesimo, o per sottoporlo a revisione generale.

I relativi provvedimenti sono pubblicati nel Bollettino Ufficiale della Regione e per estratto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

Decorso inutilmente il termine assegnato a norma del primo comma, è nominato, secondo le disposizioni della legge regionale, un progettista al quale è fissato il termine per la presentazione al Comune del progetto di piano.

Qualora il Comune non provveda entro sei mesi dalla data di ricevimento del progetto, è nominato un Commissario con l’incarico di provvedere alla adozione ed alla presentazione del piano all’Organo competente per l’approvazione.

Ogni intervento mediante concorso o contributo dello Stato e di altri enti pubblici per la esecuzione di opere pubbliche comunali è subordinato alla presentazione del piano regolatore generale nel termine fissato ai sensi del presente articolo.



Art. 11 - Contenuto del piano regolatore generale

Il piano regolatore generale deve considerare la totalità del territorio comunale.

Esso deve contenere in ogni caso:

l) la divisione in zone del territorio in rapporto alle varie destinazioni di uso, con la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona;

2) la rete delle principali vie di comunicazioni stradali, ferroviarie, navigabili ed i relativi impianti;

3) la ubicazione dei porti, degli aeroporti e delle autostazioni;

4) le aree destinate a formare spazi di uso pubblico o sottoposti a speciali servitù;

5) le aree da riservare ad edifici pubblici o di uso pubblico nonché ad opere ed impianti di interesse collettivo o sociale ovvero la loro ubicazione;

6) i vincoli da osservare nelle zone a carattere storico ambientale o paesistico;

7) le aree nelle quali è vietata qualsiasi costruzione e nelle quali devono essere rispettate particolari limitazioni;

8) la ripartizione del territorio avente destinazione urbana e industriale per la formazione di piani particolareggiati;

9) la assegnazione di termini distinti per la formazione dei piani particolareggiati, per il compimento delle espropriazioni e per la esecuzione delle opere di urbanizzazione nelle singole zone di ciascun piano particolareggiato;

10) le parti nelle quali si deve provvedere alla formazione di comprensori aventi speciali funzioni di interesse pubblico;

11) le norme per l’attuazione del piano. Per le parti del territorio destinato a zone agricole non è obbligatoria la formazione del piano particolareggiato e il piano regolatore generale deve indicare l’indice di fabbricabilità e la tipologia dei fabbricati.



Art. 12 - Direttive fondamentali del piano regolatore generale

Le direttive fondamentali del piano regolato re generale sono predisposte dal Comune e sono sottoposte all’esame dell’Organo che sarà stabilito dalla legge regionale.

Ai fini del coordinamento con le previsioni del piano regionale e degli altri piani, e con le sistemazioni dei beni e di impianti di altre aIl1ministrazioni pubbliche, la legge regionale stabilisce, altresì, le modalità per una conferenza dei servizi, della quale debbono far parte i rappresentanti delle amministrazioni pubbliche interessate.



Art. 13 - Adozione del piano regolatore generale

La legge regionale stabilisce le modalità di adozione del piano da parte del Comune, nonché quelle necessarie ad assicurare la pubblicità del piano e la facoltà di enti o privati di presentare osservazioni nel pubblico interesse, e del Comune di contro dedurre.



Art. 14 - Approvazione del piano regolatore generale

Il progetto del piano regolatore generale è trasmesso per l’approvazione all’Organo che sarà stabilito dalla legge regionale, il quale, accertata la sua rispondenza alle direttive generali e alle decisioni della conferenza dei servizi, apporta ad esso le modificazioni e le integrazioni necessarie all’osservanza di leggi, di regolamenti, del piano regionale e dei piani comprensoriali nonché quelle derivanti dall’accoglimento delle osservazioni che non incidano su aspetti sostanziali del piano stesso.

Qualora le osservazioni incidano su aspetti sostanziali l’Organo regionale rinvia il progetto di piano al Comune per il riesame, con le proprie osservazioni.

Il provvedimento di approvazione è pubblicato per estratto nel Bollettino Ufficiale della Regione e nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica; il piano è depositato presso gli uffici comunali.

La Commissione di controllo, in caso di illegittimità o di contrasto con gli interessi dello Stato, può chiedere chiarimenti o elementi integrativi di giudizio all’Organo regionale.

In tal caso resta sospesa l’esecutività del provvedimento. Questo diviene esecutivo se la Commissione non ne pronuncia l’annullamento entro venti giorni dal ricevimento delle contro deduzioni dell’Organo regionale.

Il provvedimento di annullamento è definitivo.



Art. 15 - Valore del piano regolatore generale

Il piano regolatore generale del Comune ha valore a tempo indeterminato.

Gli enti pubblici ed i privati, sono tenuti ad osservare le prescrizioni ed i vincoli del piano stesso.



Art. 16 - Varianti al piano regolatore generale

Le varianti al piano regolatore generale sono approvate con la stessa procedura prescritta per il piano originario.

L’iniziativa delle varianti può essere assunta anche dalle Amministrazioni dello Stato, ove esse siano necessarie per la tutela dei loro interessi.



Art. 17 - Espropriazione e utilizzazione di aree

Il Comune obbligato a redigere il piano regolatore generale può espropriare aree non edificate e sulle quali insistano costruzioni a carattere provvisorio ed utilizzarle secondo le previsioni della presente legge.

La stessa facoltà può essere esercitata dopo l’approvazione del piano regolatore generale e fino all’approvazione dei piani particolareggiati.

Art. 18 - Piano regolatore particolareggiato

Il piano regolatore generale o il piano comprensoriale, nei casi in cui ha valore di piano regolatore generale o in cui prescriva l’adozione di piani particolareggiati, è obbligatoriamente attuato a mezzo di piani particolareggiati comprendenti un’area definita e continua e, nelle zone di espansione, adeguatamente ampia.

Il piano particolareggiato è compilato dal Comune in relazione al programma di graduale sviluppo del piano generale. Nel caso di inosservanza del termine indicato nell’art. 11 n. 9 viene fissato un ulteriore termine, decorso il quale si provvede a norma dell’art. 10, 4° comma.



Art. 19 - Adozione del piano particolareggiato

La legge regionale disciplina la procedura di adozione del piano particolareggiato da parte del Comune, nonché quelle necessarie ad assicurare la facoltà di enti o privati di presentare osservazioni e del Comune di controdedurre.



Art. 20 - Approvazione del piano particolareggiato

Il progetto di piano particolareggiato è trasmesso per l’approvazione all’Organo stabilito dalla legge regionale, il quale, al fine di assicurare la legittimità e la rispondenza al piano regolatore generale ed agli altri provvedimenti amministrativi vincolanti, apporta al piano le modificazioni e le integrazioni necessarie e decide sulle osservazioni.

In ogni caso può rinviare il progetto di piano particolareggiato al Comune per il riesame, con le proprie osservazioni. In caso di inerzia del Comune, si fa luogo alla nomina di Commissario.

Il provvedimento di approvazione è pubblicato per estratto nel Bollettino Ufficiale della Regione e nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica. Il piano è depositato presso gli uffici comunali.



Art. 21 - Contenuto del piano particolareggiato

Il piano regolatore particolareggiato sviluppa le diretti ve ed i criteri tecnici stabiliti dal piano regolatore generale.

Esso contiene essenzialmente i seguenti elementi:

a) la rete stradale della zona, con la indicazione de- gli allineamenti e dei principali dati altimetrici esistenti e di progetto;

b) la destinazione degli isolati con la indicazione della tipologia edilizia e la suddivisione in lotti fabbricabili, nonché, se ritenuto opportuno, la ubicazione, la volumetria e l’uso dei singoli edifici;

c) la delimitazione degli spazi riservati ad opere ed impianti di interesse pubblico nonché a giardini pubblici, a parcheggi, a campi di gioco;

d) gli edifici destinati a demolizione, a ricostruzione, a risanamento, a restauro od a bonifica edilizia; in tal caso potrà essere prevista la costituzione di comparti fissando le opportune prescrizioni tecniche;

e) la massa e le altezze delle costruzioni lungo le più importanti o caratteristiche strade o piazze, coll’eventuale indicazione, per particolari ambienti, dei tipi architettonici da adottare;

f) la caratterizzazione plano-volumetrica delle zone direzionali e le modalità per la utilizzazione di aree edificatorie da trasformare per tale destinazione;

g) la profondità delle zone adiacenti ad opere pubbliche, la cui occupazione serva ad integrare le finalità delle opere stesse ed a soddisfare prevedibili esigenze future;

h) la indicazione delle opere di urbanizzazione primaria;

i) relazione illustrativa enorme urbanistico-edilizie per la esecuzione del piano;

l) programma di attuazione, con la indicazione sommaria delle spese occorrenti per le opere previste e dei modi per provvedervi.



Art. 22 - Valore dei piani particolareggiati

Le prescrizioni del piano particolareggiato hanno valore a tempo indeterminato.

Le opere, le attrezzature, gli impianti ed ogni altro intervento previsto per l’attuazione del piano regolatore generale e per il piano particolareggiato sono dichiarate di pubblica utilità ed indifferibili ed urgenti ad ogni effetto di legge.

Art. 23 – Espropriazioni

Nell'ambito del piano particolareggiato il Comune promuove l'espropriazione, anche per zone, secondo i tempi determinati dalle necessità delle fasi di attuazione:

a) di tutte le aree inedificate, comprese quelle facenti parte del patrimonio dello Stato e degli altri enti pubblici;

b) delle aree già utilizzate per costruzioni se l'utilizzazione in atto sia sensibilmente difforme rispetto a quella prevista dal piano particolareggiato.

Il Comune espropria anche quelle aree inespropriate che successivamente alla approvazione del piano particolareggiato vengono a rendersi edificabili per qualsiasi causa.

Art. 24 - Indennità di espropriazione

Per le aree che prima dell'approvazione del piano regolatore generale non avevano destinazione urbana secondo i piani approvati, l’indennità di espropriazione è determinata considerando il terreno come agricolo e libero da vincoli di contratti agrari.

Per le aree inedificate già comprese in zona urbanizzata, la indennità di espropriazione è stabilita in base al prezzo di cessione dei più vicini terreni di nuova urbanizzazione aumentato della rendita differenziale di posizione in misura non superiore ad un coefficiente massimo stabilito dal Comitato dei Ministri di cui all'art. 1.

Per le aree che prima dell'approvazione del piano regolatore generale avevano destinazione urbana ed erano coperte da costruzioni, l'indennità di espropriazione è ragguagliata al valore venale della costruzione. Si applica, tuttavia, il comma precedente qualora l'indennità in base ad esso calcolato risulti più favorevole al proprietario.

In ogni caso l'indennità è fissata prescindendo da qualsiasi incremento di valore che si sia verificato o possa verificarsi direttamente o indirettamente per effetto della progettazione, dell'adozione e dell'attuazione del piano regolatore generale.

Il Sindaco o il Presidente del Consorzio, nei casi di cui all'art. 7, terzo comma, pubblica l'elenco dei beni da espropriare indicando il prezzo offerto per ciascun bene.

Decorsi trenta giorni dalla pubblicazione, il Prefetto, su richiesta del Sindaco o del Presidente del Consorzio, ordina il pagamento o il deposito della somma offerta nel termine di cui al comma successivo e pronuncia l'espropriazione.

L'indennità di espropriazione, in caso di accordo tra le parti, deve essere pagata e, in caso di contestazione, deve essere depositata entro un termine da stabilirsi dalla legge regionale, decorrente dalla data di rilascio o di consegna del bene. L'espropriante, per il periodo intercorrente tra la data di rilascio o di consegna e quella del pagamento o del deposito dell'indennità, è tenuto a. corrispondere gli interessi legali sulle somme dovute.

Per quanto non diversamente previsto, si applicano le disposizioni della legge 25 giugno 1865, n. 2359, e successive modificazioni.

Art. 25 - Consegna dei beni espropriati

I beni espropriati possono essere lasciati in comodato precario al precedente proprietario col suo consenso. Il Comune può conseguire la disponibilità del bene e l'espropriato può chiedere di effettuare la consegna nei termini stabiliti con legge regionale.

Art. 26 - Utilizzazione delle aree

Il Comune, acquisite le aree espropriate a norma degli artt. 17 e 23, provvede alle opere di urbanizzazione primaria.

Il Comune cede in proprietà allo Stato e agli altri enti territoriali, le aree destinate ad utilizzazione pubblica.

Il diritto di superficie sulle aree destinate a edilizia residenziale viene ceduto a mezzo di asta pubblica, salvo che le aree non vengano richieste per il perseguimento dei loro fini istituzionali, entro termine da stabilire con legge regionale, da enti pubblici che operano nel settore della edilizia e da società cooperative che abbiano per scopo la costruzione di alloggi economici o popolari per i propri soci e salvo che esse siano richieste per utilizzazione industriale.

Ai fini della determinazione del prezzo di cessione si sommano, per ogni zona preveduta dall'art. 23, 1° comma: le indennità di espropriazione dell'intera zona egli interessi relativi, il costo delle opere di urbanizzazione e di quelle per lo sviluppo dei servizi pubblici, da effettuarsi nel perimetro della zona, nonché una quota per spese generali. Il totale è ripartito sulla superficie delle aree destinate all'edificazione e il quoziente costituisce il prezzo della cessione o, in caso di asta, la base di questa.

CAPO III

NORME ATTINENTI ALL’ATTIVITÀ EDILIZIA

Art. 27 - Regolamenti edilizi

Tutti i Comuni devono essere dotati di regolamento edilizio.

In ogni caso le norme del regolamento edilizio difformi dalle prescrizioni dei piani regolatori sono sostituite di diritto dalle prescrizioni stesse.

Art. 28 - Divieto di utilizzazione edilizia

A partire dalla data di adozione del piano regolatore generale e fino all'approvazione dei piani particolareggiati la formazione dei quali sia obbligatoria, non è consentita utilizzazione edilizia.

Nelle zone a destinazione urbana e industriale è vietata ogni utilizzazione edilizia fino alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria.

Sono considerate opere di urbanizzazione primaria le strade occorrenti per assicurare l'accesso agli edifici ed i relativi parcheggi, le strade ed i passaggi pedonali, la rete di distribuzione idrica, le fognature e la illuminazione pubblica.

Art. 29 - Disposizione generale sulle costruzioni

Per costruire, modificare costruzioni, apportare ad esse ampliamenti o varianti, eseguire opere di trasformazione del terreno, è necessaria l'approvazione del progetto di costruzione prevista dall'articolo successivo, ovvero la licenza di costruzione prevista dall'art. 31.

Art. 30 - Progetti di costruzioni

Il cessionario delle aree di cui all'art. 26 deve presentare al Comune, per l'approvazione, il progetto di costruzione secondo le modalità ed i termini stabiliti dalla legge regionale.

La legge regionale stabilisce i termini entro i quali il Comune deve adottare le sue decisioni. Qualora le decisioni intervengano oltre tali termini il Comune è tenuto a pagare al cessionario, a titolo di risarcimento dei danni, gli interessi legali sulle somme pagate per la cessione dell'area.

I lavori devono essere iniziati e completati, a pena di decadenza, entro i termini stabiliti dal provvedimento di approvazione.

L'approvazione è data quando il progetto sia conforme alle leggi ed ai regolamenti, alle prescrizioni dei piani regolatori ed ai provvedimenti amministrativi vincolanti nonché alle clausole contenute negli atti relativi alla cessione dell'area. Accertata dal Comune la conformità del progetto al disposto di ogni provvedimento amministrativo che disciplini l'edificazione della zona, l'approvazione preclude qualsiasi altro intervento di organi di amministrazione attiva ai fini della costruzione.

Copia dell'approvazione è affissa nell'albo comunale per la durata di 15 giorni. Altra copia deve essere tenuta nel cantiere a libera visione del pubblico. Avverso il provvedimento di approvazione del progetto, chiunque può ricorrere al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale.



Art. 31 - Licenza di costruzione

Nei casi nei quali in base alla presente legge l'area rimane oggetto di diritto di proprietà, la licenza di costruzione è richiesta al Sindaco del Comune competente per territorio, con domanda corredata da progetto redatto da tecnico abilitato a norma degli ordinamenti professionali.

La licenza è necessaria anche per le costruzioni, le opere e le trasformazioni da eseguire nelle aree demaniali, comprese quelle del demanio marittimo.

Si applicano i commi 2° e seguenti del precedente articolo.

Art. 32 - Licenza d'uso

Gli edifici di nuova costruzione o trasformati non possono essere comunque utilizzati prima che il Sindaco abbia rilasciato una licenza d 'uso, previo accertamento della rispondenza dei lavori eseguiti al progetto approvato o, per gli edifici isolati siti in zone rurali, prima che siano stati garantiti la provvista dell'acqua potabile e lo smaltimento igienico delle acque luride.

Il rilascio della licenza d'uso è in ogni caso subordinato agli accertamenti affidati all'ufficio comunale di igiene della legge sanitaria.

Art. 33 - Misure di salvaguardia

La legge regionale prescrive norme di salvaguardia per la esecuzione di opere che siano in contrasto con le previsioni dei piani regolatori o che possano pregiudicarne la futura attuazione.

Art. 34 - Salvaguardia di edifici

La legge regionale prescrive norme per la salvaguardia delle caratteristiche degli edifici esistenti in zone urbanizzate, per le quali manchino prescrizioni nei piani regolatori.



TITOLO III

Norme statali sull'attività urbanistica

CAPO I

DISCIPLINA DELL’ATTIVITÀ URBANISTICA

Art. 35 - Disposizioni generali

Fino a quando ciascuna regione non avrà emanato norme legislative sull'urbanistica in conformità dei principi stabiliti nel titolo n della presente legge e salva, in ogni caso, l'applicazione delle norme di cui ai titoli I e IV, si applicano nella Regione stessa le disposizioni del presente titolo.

Art. 36 - Comitato urbanistico regionale

Il progetto di piano regionale è redatto in conformità dell'art. 6 da un Comitato urbanistico regionale, nominato con decreto del Ministro per i lavori pubblici costituito presso il Provveditorato regionale alle OO.PP. e composto:

a) dal Provveditore regionale alle OO.PP. che presiede;

b) da due rappresentanti della Regione;

c) dai Presidenti delle Amministrazioni Provinciali;

d) dai Sindaci dei Comuni capoluoghi di Provincia;

e) dai Sovraintendenti ai monumenti;

f) dal capo del Compartimento dell'ANAS;

g) da un rappresentante per ciascuno dei Ministeri che compongono il Comitato dei Ministri di cui all'art. l;

h) da 3 rappresentanti dei datori di lavoro, 3 dei lavoratori e 2 dei lavoratori autonomi;

i) da 5 esperti.

Il Vice Presidente del Comitato è eletto tra i rappresentanti della Regione o, in mancanza, delle Amministrazioni provinciali.

Il Comitato urbanistico regionale si avvale, per la predisposizione del progetto, di una giunta la cui composizione sarà determinata dal regolamento.

Qualora gli studi debbano essere estesi a territori appartenenti ad altre regioni, il Comitato urbanistico regionale è integrato con i rappresentati di tali territori.

Il Comitato urbanistico regionale provvede agli studi per il periodico aggiornamento del piano.

Art. 37 - Procedura del piano regionale

Il progetto del piano regionale è depositato, per la durata di 30 giorni consecutivi, presso il Provveditorato regionale alle opere pubbliche e del deposito è data notizia nel foglio annunzi legali delle Provincie interessate. Gli enti pubblici ed ogni altro ente aventi fini culturali, scientifici o tecnici possono prendere visione del progetto e presentare, nei 30 giorni successivi alla scadenza del periodo di deposito, osservazioni nel pubblico interesse.

Il piano regionale è approvato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro per i lavori pubblici previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro. Con lo stesso decreto sono decise le osservazioni presentate a norma del precedente comma e sono apportate al piano le modifiche occorrenti per renderlo conforme ai piani ed ai programmi nazionali.

Il decreto di approvazione è pubblicato per estratto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

Il piano regionale è vincolante per le Amministrazioni pubbliche.



Art. 38 - Piano comprensoriale

Per ogni comprensorio individuato in sede di piano regionale è redatto un piano comprensoriale al quale si applicano le disposizioni dell'art. 8.

Il progetto di piano è depositato per la durata di 30 giorni consecutivi presso il Provveditorato regionale alle opere pubbliche e del deposito è data notizia mediante pubblicazione nei fogli annunzi legali delle provincie interessate.

Entro i 30 giorni successivi alla scadenza del deposito le Amministrazioni pubbliche egli enti interessati possono presentare osservazioni.

Il piano è approvato con decreto del Ministro per i lavori pubblici, sentito il Consiglio Superiore dei lavori pubblici.

Con lo stesso decreto sono decise le osservazioni presentate a norma del precedente 3° comma.

Il decreto di approvazione è pubblicato per estratto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

Il piano comprensoriale ha vigore a tempo indeterminato.

Il piano comprensoriale è sottoposto a revisione in conseguenza degli aggiornamenti apportati al piano regionale ed in ogni altro caso nel quale se ne ravvisi l'opportunità. Si applica l'ultimo comma dell'art. 9.

Art. 39 - Consorzio per il piano comprensoriale

I Comuni compresi nel territorio del piano comprensoriale devono costituirsi in Consorzio per la formazione, l'adozione e l'esecuzione del piano stesso secondo le disposizioni della legge comunale e provinciale. Del Consorzio possono far parte le Amministrazioni provinciali ed altri enti pubblici.

Il Comitato urbanistico regionale può prendere l'iniziativa per la istituzione del Consorzio.

La maggiorana assoluta dei Comuni partecipanti al Consorzio può stabilire che siano devolute a quest'ultimo le attribuzioni spettanti ai Comuni.

Art. 40 - Attuazione del piano regionale e del piano comprensoriale

Il Comitato urbanistico regionale coordina l'azione delle pubbliche Amministrazioni nell'ambito del comprensorio, vigila sulla esecuzione dei piani regionali e comprensoriali e riferisce al Comitato dei Ministri, tramite il Ministro per i lavori pubblici, nei casi nei quali accerti che gli interventi e le opere di competenza delle predette Amministrazioni siano difformi dal piano.

Art. 41 - Piano regolatore generale

I Comuni obbligati ad adottare il piano regolatore generale devono presentare il piano stesso, per l'approvazione, all'autorità competente a norma dell'art. 47 entro due anni dalla data fissata dal piano comprensoriale, salvo proroga da concedersi dalla stessa autorità in caso di accertata necessità e per un periodo non superiore, comunque, a due anni.

Trascorso il termine indicato nel comma precedente, il Ministro per i lavori pubblici, di concerto con il Ministro dell'interno, nomina i progettisti per la compilazione del piano fissando loro il termine per la presentazione del progetto al Comune. In tal caso, salvo il disposto dell'articolo successivo, l'autorità tutoria provvede alla iscrizione di ufficio della relativa spesa nel bilancio del Comune.

Qualora il Comune non provveda, entro 6 mesi dalla data di ricevimento del progetto, agli adempimenti di sua competenza ed alla presentazione del piano, il Prefetto nomina un commissario incaricato di provvedere alla adozione ed alla presentazione del piano.

Si applica l'ultimo comma dell'art. 10.

Art. 42 - Spese

Salvo il disposto delle leggi regionali, lo Stato può contribuire alla spesa per la redazione del piano regolatore generale a favore dei Comuni per i quali la redazione stesea è obbligatoria, eccettuati i Comuni capoluoghi di provincia.

La misura del contributo viene determinata, in relazione agli stanziamenti di bilancio, con decreto del Ministro per i lavori pubblici sentito il Consiglio Superiore dei lavori pubblici.

Art. 43 - Contenuto del piano regolatore generale

Il piano regolatore generale considera la totalità del territorio comunale, comprende tutti gli elementi indicati nell'articolo 11 ed è costituito anche dai seguenti elaborati:

a) una o più planimetrie in scala non inferiore a 1: 10.000 per l'intero territorio;

b) una o più planimetrie in scala non inferiore a l: 5.000 per le previsioni relative all'abitato esistente ed alle zone di immediato sviluppo;

c) una relazione illustrativa dei criteri informatori del piano.

Art. 44 - Direttive fondamentali del piano regolatore generale

Le direttive fondamentali del progetto di piano regolatore generale sono predisposte dalla Giunta municipale.

Le direttive, corredate da uno schema grafico contenente l'indicazione sommaria della rete delle principali vie di comunicazione, della zonizzazione e dei principali impianti pubblici, sono sottoposte all'esame del Comitato urbanistico regionale, che ne cura il coordinamento con le previsioni o con gli studi del piano regionale e del piano comprensoriale nonché con i programmi di attività e con le sistemazioni di beni e di impianti delle Amministrazioni statali nell'ambito regionale o comunale.

Per i Comuni obbligati a redigere il piano regolatore generale la trasmissione delle direttive al Comitato urbanistico regionale deve avvenire entro sei mesi dalla data fissata dal piano comprensoriale.

Art. 45 - Conferenza dei servizi

Ai fini del coordinamento di cui al secondo comma dell'articolo precedente, il Comitato urbanistico regionale indice una conferenza dei servizi alla quale partecipano:

a) il Provveditore regionale alle OO.PP. che la presiede;

b) il Vice Presidente del Comitato urbanistico regionale;

c) il Sindaco del Comune interessato o un suo delegato;

d) il progettista incaricato di redigere il piano;

e) il capo dell'ufficio tecnico comunale;

f) il capo dell’ufficio urbanistico del provveditorato alle OO.PP.;

g) il Sovraintendente ai monumenti;

h) il capo del Compartimento dell'ANAS;

i) il capo del Compartimento FF.SS.;

l) un rappresentante del Prefetto;

m) un rappresentante della Regione, della Provincia e del Consorzio;

n) un rappresentante dell’Istituto Nazionale di Urbanistica.

Possono essere chiamati a partecipare alla conferenza dei servizi i rappresentanti delle altre Amministrazioni interessate e possono essere invitati a parteciparvi, con voto consultivo, anche esperti.

Le pronuncie delle conferenze dei servizi sono vincolanti per le Amministrazioni pubbliche in essa rappresentate.

Art. 46 - Pubblicazione del progetto del piano regolatore generale

Il progetto di piano regolatore generale è adottato dal Comune con deliberazione consiliare, ed è depositato negli Uffici comunali per la durata di 30 giorni consecutivi, decorrenti dalla data di inserzione nel foglio annunzi legali dell'avviso previsto dal comma successivo e durante i quali chiunque può prendere visione del progetto. Nel termine di 30 giorni successivi alla scadenza del periodo di deposito chiunque ha facoltà di presentare al Comune osservazioni nel pubblico interesse.

L'effettuato deposito è reso noto al pubblico mediante avviso che viene affisso all'albo pretorio e contemporanea. mente inserito nel foglio degli annunzi legali della provincia. Del deposito si può inoltre dare notizia mediante comunicazione attraverso la stampa o altri mezzi di diffusione.

Art. 47 - Approvazione del piano regolatore generale. Valore e varianti

Il piano regolatore generale dei Comuni capoluoghi di provincia è approvato con decreto del Ministro per i lavori pubblici, sentiti i pareri del Consiglio Superiore dei lavori pubblici e del Consiglio di Stato.

Il piano regolatore generale degli altri Comuni è approvato con decreto del competente Provveditore Regionale alle OO.PP. sentito il Comitato tecnico-amministrativo. Il Ministro per i lavori pubblici ha facoltà di avocare a sé l'approvazione dei piani regolatori generali dei Comuni aventi particolare rilevanza.

Con il decreto di approvazione sono decise le osservazioni e possono essere apportate al piano le modificazioni e le integrazioni necessarie in conseguenza delle decisioni sulle osservazioni nonché quelle che siano riconosciute indispensabili per assicurare:

a) l'osservanza delle leggi e dei regolamenti nonché il rispetto delle direttive del piano regionale e del piano comprensoriale;

b) la razionale e coordinata sistemazione delle opere e degli impianti di interesse esclusivo o prevalente dello Stato o di altri enti pubblici;

c) la tutela del patrimonio storico ed artistico nonché la protezione delle bellezze naturali, ai sensi delle leggi vigenti.

Un estratto del decreto è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Il piano, insieme con una copia del decreto, è depositato negli uffici comunali a libera visione del pubblico. Il deposito è reso noto nei modi stabiliti dal 2° comma dell'articolo precedente.

Chiunque ha diritto di ottenere, a pagamento, copia del piano e dei suoi elaborati.

Si applicano le disposizioni degli artt. 15 e 16.

Art. 48 - Espropriazione e utilizzazione di aree

Il Comune obbligato a redigere il piano regolatore ge. nerale può procedere ad espropriazioni in conformità all'art.17.

Art. 49 - Piano regolatore particolareggiato

Per l'attuazione del piano regolatore generale si applicano le disposizioni dell'art. 18.

In caso di inosservanza del termine indicato nell'articolo 11, n. 9, il Prefetto, su richiesta del Provveditore regionale alle opere pubbliche, nomina un commissario.

Art. 50 - Elaborati del piano particolareggiato

Il piano regolatore particolareggiato sviluppa le direttive ed i criteri tecnici stabiliti dal piano regolatore generale, comprende tutti gli elementi indicati nell'art. 21 ed è costituito anche dai seguenti elaborati:

1) planimetria di insieme in scala non inferiore ad 1: 2000 disegnata su mappa catastale quotata altimetricamente;

2) grafici ed altri atti tecnici contenenti gli elementi indicati nell'art. 21;

3) gli elenchi catastali dei beni vincolati oda espropriare in base al piano e di quelli vincolati dal Ministero della pubblica istruzione ai fini della tutela dell'ambiente o del paesaggio.

Art. 51 - Pubblicazione di progetto di piano particolareggiato

Il progetto di piano regolatore particolareggiato è adottato con deliberazione del Consiglio comunale ed è depositato negli uffici comunali per un periodo di 30 giorni consecutivi decorrenti dalla data di inserzione nel foglio annunzi legali di un avviso ai sensi dell'art. 46, 2° comma, e durante i quali chiunque può prenderne visione. Nei 30 giorni successivi alla scadenza del periodo di deposito, chiunque può presentare al Comune osservazioni.

Art. 52 - Approvazione del piano particolareggiato

Il piano regolatore particolareggiato dei Comuni capoluoghi di provincia è approvato con decreto del Ministro dei LL.PP. sentiti il Consiglio Superiore dei LL.PP. e il Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti.

Il piano regolatore particolareggiato degli altri Comuni è approvato con decreto del competente Provveditore regionale alle opere pubbliche, previo parere del Sovrintendente ai Monumenti e del Comitato urbanistico regionale.

Il Ministro per i lavori pubblici può avo care a sé l'approvazione dei piani particolareggiati che abbiano speciale rilevanza.

Con il decreto di approvazione sono decise le osservazioni e possono essere apportate al piano le modificazioni e le integrazioni necessarie in conseguenza delle decisioni sulle osservazioni nonché quelle che siano indispensabili per assicurare l'osservanza del piano regolatore generale.

Il piano, insieme con una copia del decreto, è depositato negli uffici comunali a libera visione del pubblico.

Chiunque ha diritto di ottenere, a pagamento, copia del piano e dei suoi elaborati.

Si applicano le disposizioni contenute nell'art. 22. Le varianti sono approvate con la stessa procedura del piano originario.

Art. 53 - Espropriazione ed utilizzazione dei beni

Approvato il piano particolareggiato, si applicano gli artt. 23, 24 e 25, con le seguenti integrazioni.

L'indennità di espropriazione, in caso di accordo tra le parti, deve essere pagata o, in caso di contestazione, deve essere depositata dal Comune entro un anno dalla data di rilascio o di consegna del bene. Il Comune per il periodo intercorrente tra la data di rilascio e di consegna e quella del pagamento o del deposito dell'indennità, è tenuto a corrispondere gli interessi legali sulle somme dovute.

Il Comune, per conseguire il rilascio del bene, e l'espropriato, per effettuarne la consegna, debbono dare un preavviso di 120 giorni.

Per l’utilizzazione delle aree si applica l'art. 26.

CAPO II

NORME ATTINENTI ALL'ATTIVITÀ EDILIZIA

Art. 54 - Regolamenti edilizi

I Comuni debbono, con regolamento edilizio deliberato dal Consiglio comunale, provvedere, in conformità alle leggi ed ai piani regolatori, a dettare norme sulle seguenti materie:

l) formazione, attribuzione e funzionamento della commissione comunale di urbanistica ed edilizia; essa deve essere composta da non meno di 5 membri, rappresentativi degli interessi pubblici, particolarmente rilevanti nel Comune, ed è presieduta dal Sindaco oda un suo delegato. Più Comuni possono costituire una sola commissione urbanistico-edilizia; in tal caso fanno parte della commissione tutti i Sindaci dei Comuni interessati che ne assumano la presidenza in ordine agli affari di rispettiva competenza;

2) procedura per il rilascio delle licenze di costruzione e d'uso e per l'approvazione dei progetti;

3) compilazione e caratteristiche tecniche dei progetti di costruzione;

4) volumetria, tipologia, forma, altezze, distacchi degli edifici da progettare sulle aree di proprietà privata e su quelle in cessione;

5) caratteri esterni degli edifici e materiali da costruzione;

6) norme igieniche da osservare;

7) direzione dei lavori e regole da osservare nella costruzione e per garantire la pubblica incolumità;

8) vigilanza sulla esecuzione dei lavori;

9) disciplina sull'uso e sulla manutenzione degli edifici e delle aree scoperte;

10) ogni altra disposizione attinente alla materia edilizia e comunque opportuna per l'attuazione dei piani.

Il regolamento edilizio è approvato dalla Giunta Provinciale Amministrativa su conforme parere del Provveditore regionale alle opere pubbliche.

Art. 55 - Disposizione generale sulle costruzioni

Per costruire, demolire costruzioni, apportare ad esse modificazioni o ampliamenti, eseguire opere di trasformazione del terreno è necessaria l'approvazione del progetto di costruzione prevista dall’articolo successivo ovvero la licenza di costruzione preveduta dall'art. 57.

Si applica la disposizione contenuta nell'art. 28.



Art. 56 - Progetti di costruzione

Il cessionario delle aree di cui all'art. 26, entro sei mesi dalla cessione, deve presentare al Comune, per l'approvazione, il progetto di costruzione conforme alle prescrizioni del piano particolareggiato, del regolamento edilizio e del bando d'asta.

Il Sindaco adotta la decisione entro 90 giorni dalla presentazione delle domande, stabilendo i termini per l'inizio e per il completamento dei lavori.

Il provvedimento negativo è motivato e fissa un nuovo termine non inferiore a 90 giorni per la presentazione di un nuovo progetto.

I termini dettati per i cessionari possono essere pro- rogati per una sola volta per giustificati motivi. La loro inosservanza comporta la decadenza dalla cessione di pieno diritto.

Qualora le determinazioni del Comune siano adottate oltre i termini stabiliti dal comma 2° il Comune è tenuto a pagare al concessionario, a titolo di risarcimento dei danni, gli interessi legali sulle somme pagate per la cessione dell'area.

Si applicano le disposizioni contenute nell'art. 30, comma 4° e successivi.

Art. 57 - Licenza di costruzione

Per la licenza di costruzione si applicano le disposizioni dell'art. 31.

La licenza è rilasciata dal Sindaco, su parere conforme della commissione urbanistico-edilizia comunale, entro 90 giorni dalla data di ricevimento della domanda. Trascorso detto termine il silenzio dell’Amministrazione equivale a tutti gli effetti a rifiuto.



Art. 58 - Licenza d'uso

Agli edifici di nuova costruzione o trasformati si applica il disposto dell'art. 32.

Art. 59 - Misure di salvaguardia

Dalla data della deliberazione comunale di adozione del piano regolatore generale e particolareggiato e fino alla emanazione del relativo provvedimento di approvazione, il Sindaco non può rilasciare licenze per le opere sia di amministrazioni pubbliche sia di privati che, pur non comportando utilizzazione edilizia, siano in contrasto con le previsioni del piano adottato o che, comunque, possano pregiudicarne la futura attuazione.

Nello stesso periodo indicato nel primo comma, il Sindaco su parere conforme della commissione urbanistica ed edilizia comunale, può ordinare la sospensione di costruzioni o di lavori di trasformazione in corso che siano tali da compromettere o rendere più onerosa l'attuazione del piano. La sospensione può essere protratta fino alla data di pubblicazione del provvedimento di approvazione del piano.

In caso di inerzia del Sindaco. i provvedimenti preveduti dal 2° comma sono adottati dal Prefetto a richiesta delle Amministrazioni interessate.

Art. 60 - Salvaguardia di edifici

Gli edifici esistenti nelle zone già urbanizzate e per le quali manchino prescrizioni nel piano regolatore generale e nel piano particolareggiato devono essere mantenuti con i loro caratteri.



Art. 61 - Vigilanza sulle costruzioni

Il Sindaco esercita la vigilanza sulle costruzioni che .i eseguono nel territorio del Comune per assicurarne la rispondenza alle norme della presente legge e del relativo regolamento nonché del regolamento edilizio, alle prescrizioni di piano regolatore ed alle modalità esecutive fissate nella licenza di costruzione o nel provvedimento di approvazione del progetto a termini dell'art. 56.

Qualora sia constatata l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità indicate nel comma precedente, il Sindaco ordina l'immediata sospensione dei lavori, con riserva dei provvedimenti che risulteranno necessari per la modifica delle costruzioni o per la restituzione in pristino. L'ordine di sospensione cessa di avere efficacia se entro 90 giorni dalla sua notificazione il Sindaco non abbia adottato e notificato i provvedimenti definitivi.

In caso di costruzione abusiva o di proseguimento dei lavori dopo l'ordinanza di sospensione, il Sindaco ordina la demolizione a spese della parte, senza pregiudizio delle sanzioni penali.

Al pagamento delle spese relative alla esecuzione in danno sono solidalmente obbligati il committente, il direttore dei lavori e chi ha eseguito i lavori.

L'appaltatore può essere cancellato dagli elenchi delle ditte ammesse agli appalti delle opere pubbliche.

In caso di inerzia del Sindaco il Ministro per i lavori pubblici lo invita a provvedere fissandogli un termine non superiore a 60 giorni, decorso inutilmente il quale egli si sostituisce per quanto necessario.



Art. 62 - Annullamento di ufficio.

I provvedimenti comunali che autorizzino opere non conformi alle norme della presente legge e del relativo regolamento, alle prescrizioni dei piani regolatori, ovvero alle norme del regolamento edilizio e che in qualsiasi modo costituiscano violazione delle norme e prescrizioni predette, possono essere in qualunque tempo annullati con decreto del Ministro per i lavori pubblici, sentito il Consiglio di Stato.

In pendenza della procedura di annullamento, il Ministro per i lavori pubblici può ordinare la sospensione dei lavori.

Art. 63 - Costruzioni di Amministrazioni Statali

Per le costruzioni dello Stato, il Comune, nei casi indicati nel 2° comma dell'art. 61, rimette gli atti al Ministro per i lavori pubblici, il quale provvede.

I progetti di costruzione delle opere indicate nel precedente comma devono essere preventivamente comunicati al Ministro per i lavori pubblici per il relativo nulla-osta.

TITOLO IV

Disposizioni comuni

CAPO I

DISPOSIZIONi GENERALI



Art. 64 - Progetti di opere pubbliche

I progetti delle costruzioni dello Stato e degli altri enti pubblici devono essere muniti di una esplicita dichiarazione con la quale il capo del servizio competente attesti che i progetti stessi sono stati redatti in conformità al piano regolatore.



Art. 65 - Oneri e vincoli non indennizzabili

Per i vincoli di zona, per le limitazioni, per gli oneri gravanti sulle costruzioni, per le destinazioni di uso comunque attribuite agli immobili dai piani regolatori non è dovuta alcuna indennità.



Art. 66 - Divieto di utilizzazione edilizia in deroga

I piani regolatori e i regolamenti comunali non possono consentire utilizzazioni edilizie in deroga alle relative norme e prescrizioni.

È abrogata ogni norma statale e comunale che disponga diversamente.

CAPO II

COMPARTI ED OPERE DI RISANAMENTO



Art. 67 - Delimitazione di centri

Nei piani regionali devono essere indicati i centri storico-artistici ed ambientali che devono essere mantenuti nella loro integrità, quelli che devono essere conservati previo risanamento, nonché i quartieri e nuclei abitati per i quali deve procedersi a risanamento igienico-sanitario.

Nel perimetro dei centri storico-artistici ed ambientali è vietata ogni trasformazione o mutamento dello stato dei luoghi fino all'approvazione dei piani particolareggiati, salva la facoltà del Sindaco, nei casi di accertata urgente necessità, di autorizzare l'esecuzione di opere straordinarie di manutenzione negli edifici, purché non diano luogo a trasformazioni pregiudizievoli.

Per l'attuazione del risanamento conservativo dei centri storico-artistici ed ambientali i Comuni procederanno mediante la costituzione di comparti obbligatori.



Art. 68 – Comparti

Il comparto comprende costruzioni da trasformare oda risanare secondo speciali prescrizioni ed aree inedificate. Esso costituisce una unità inscindibile, definita sia planimetricamente sia volumetricamente nei singoli elementi urbanistici ed edilizi e comprende anche le relative aree occorrenti per le strade, le piazze ed altri spazi di uso pubblico.

Il Comune procede alla formazione dei comparti in sede di piano particolareggiato.

La formazione dei comparti è disposta con deliberazione consiliare.

Per la procedura di formazione si applicano le disposizioni dell'art. 51. Il piano è approvato dal Provveditore regionale alle OO.PP. ed è depositato negli Uffici comunali ai sensi dell'art. 52, 5° comma.



Art. 69 - Partecipazione dei proprietari al comparto

I proprietari partecipano al comparto con una quota percentuale al valore dell'immobile conferito rispetto al valore dell'intero comparto secondo le destinazioni anteriori alle previsioni del piano regolatore generale.

Le quote sono stabilite mediante accordo fra gli interessati.



Art. 70 - Consorzi e opere del comparto

Formato il comparto, il Sindaco fissa ai proprietari un termine, non inferiore a 90 giorni e non superiore ai 180, entro il quale essi devono dichiarare se intendano procedere riuniti in consorzio alle opere per le quali il comparto è stato costituito.

Per la costituzione del consorzio è sufficiente il consenso dei proprietari rappresentanti i sei decimi del valore dei beni dell'intero comparto.

I consorzi conseguono la piena disponibilità del comparto mediante l'espropriazione dei beni e delle costruzioni appartenenti ai non aderenti.

Decorso inutilmente il termine stabilito dal Comune, questo promuove direttamente la espropriazione.

I lavori per la realizzazione del comparto sono dichiarati indifferibili ed urgenti.

L'indennità di espropriazione è calcolata a norma dell'articolo 24.



Art. 71 - Assegnazione del comparto

Il Comune indice, per l'assegnazione in tutto o in parte del comparto, una gara ai sensi dell'art. 26.

Gli acquirenti devono iniziare e ultimare i lavori per i quali il comparto è stato costituito, nei termini stabiliti dal Comune nel bando di gara.

Art. 72 - Progetto di comparto di risanamento

Il progetto di comparto di risanamento dei centri storico-artistici ed ambientali deve essere redatto sulla base di un rilievo particolareggiato di ogni singolo edificio e di ogni elemento di pregio architettonico o artistico contenuto nel comparto ed indica le opere di restauro e di risanamento, la destinazione degli edifici, l'eventuale rifusione particellare e la sistemazione degli spazi inedificati.

Negli interventi su edifici storico-artistici od ambientali saranno, di norma, ammesse trasformazioni che garantiscano l'integrità e l'inalterabilità dei prospetti e degli elementi architettonici autentici e non saranno consentiti aumenti di volume o di altezza.

CAPO III

DISPOSIZIONI FINANZIARIE E TRIBUTARIE



Art. 73 -Mutui

Per l'attuazione dei piani regolatori generali, particolareggiati e dei comparti, la Cassa DD.PP. è autorizzata a concedere mutui ai Comuni, anche in deroga ai limiti di cui all'art. 300 del T. U. 3 marzo 1934, n. 383.

Art. 74 - Gestione urbanistica

Presso ogni Comune è costituita una amministrazione separata per la gestione urbanistica. Sono imputati ad essa i proventi per la cessione delle aree e i contributi che il Comune riceve per fini di conservazione del patrimonio artistico, di risanamento edilizio, di edilizia popolare e per ogni altro fine connesso con l'aspetto urbanistico.

Il fondo della gestione di cui al precedente comma costituisce garanzia comune delle indennità di espropriazione dovute per l'attuazione dei piani indicati nell'articolo precedente.

Gli atti di cessione delle aree ai sensi dell'art. 53, ultimo comma, sono rogati dal segretario comunale.



Art. 75 - Agevolazioni tributarie

Salve le maggiori agevolazioni tributarie previste da speciali disposizioni di legge, gli atti di espropriazione e di cessione delle aree in applicazione della presente legge e delle leggi urbanistiche regionali sono sottoposti a registrazione a tassa fissa; le imposte ipotecarie a garanzia dei mutui contratti per l'acquisizione delle aree stesse, sono ridotte al quarto.

Gli immobili espropriati dai Comuni sono esenti da ogni imposta loro a/Ferente. Restano a carico dei comodatari precari dei beni espropriati le imposte inerenti alla attività agricola o industriale di cui venga continuato l'esercizio sui beni stessi.

I vincoli previsti dall'art. 65 comportano l'immediata revisione delle imposte afferenti agli immobili sui quali gravano.



Art. 76 -Finanziamenti

Nel bilancio del Ministero dei lavori pubblici sono annualmente stanziati i fondi occorrenti per concedere sovvenzioni ai Comuni che non siano in grado di provvedere alle opere di risanamento e restauro dei centri storico- artistici ed ambientali.

CAPO IV

SANZIONI



Art. 77 - Lavori ed utilizzazioni non autorizzati

Chiunque intraprende lavori di costruzione di nuovi edifici o di ricostruzione, di modifica o di ampliamento di edifici esistenti senza l'approvazione dei progetti di cui agli artt. 30 e 56 o senza la licenza di costruzione di cui agli artt. 31 e 57, ovvero li prosegue nonostante l'ordine di sospensione, è punito con la reclusione fino a tre mesi e con la multa fino a L. 1.000.000.

Chiunque utilizza gli edifici di nuova costruzione e trasformazione senza la licenza d'uso è punito con la multa fino a L. 1.000.000.



Art. 78 - Violazione delle prescrizioni di altezza e distanza

Chiunque, nella costruzione di nuovi edifici o nella ricostruzione, modifica o ampliamento di edifici esistenti, ecceda i vincoli di altezza o di distanza stabiliti nel piano regolatore generale o particolareggiato, o a questo equiparato, è punito con la reclusione fino a tre mesi e con la multa fino a L. 1.000.000.

La condanna importa confisca delle parti costruite in eccedenza.



Art. 79 - Decadenza da benefici tributari

Chiunque intraprende lavori preveduti nell'art. 77, primo comma, ovvero li prosegue nonostante l'ordine di sospensione, decade da ogni agevolazione tributaria inerente alla costruzione.



TITOLO V

Disposizioni transitorie e finali



Art. 80 -Obbligo di adozione del piano regolatore

Fino a quando non saranno stati approvati i piani comprensoriali restano fermi gli elenchi dei Comuni tenuti ad adottare il piano regolato re generale ai sensi dell'articolo 8 della legge 17 agosto 1942, n. 1150. La procedura per l'adozione e l'approvazione dei piani è disciplinata dalla presente legge.

Art. 81 - Piani regolatori in corso

I piani regolatori generali e particolareggiati già adottati prima dell'entrata in vigore della presente legge sono resi conformi alla nuova legge e successivamente approvati secondo le norme della legge stessa.



Art. 82 – Revisione dei piani vigenti

I piani regolatori vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge saranno revisionati entro due anni dalla approvazione dei piani comprensoriali.

Qualora il piano comprensoriale non sia stato approvato entro due anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, i piani indicati nel comma precedente sa. ranno revisionati allo scopo di essere messi in armonia con le disposizioni della legge stessa.

Art. 83 - Efficacia dei piani particolareggiati e di ricostruzione vigenti

I piani particolareggiati e i piani di ricostruzione vi- genti alla data di approvazione del piano comprensoriale o del piano regolatore generale successivo alla entrata in vigore della presente legge continuano ad avere vigore fino al momento della loro attuazione per le parti in cui non hanno ricevuto esecuzione semprechè non contrastino con le linee del nuovo piano.



Art. 84 - Lottizzazione di aree

Per le aree lottizzate a norma di legge e già edificate alla data di pubblicazione della presente legge, ma Don comprese in un piano particolareggiato approvato, l'onere relativo alle opere di urbanizzazione primaria, salvo che sia diversamente disposto da preesistenti convenzioni, è a carico dei proprietari, sempreché la destinazione delle aree sia confermata dal piano regolatore.

In caso di inadempienza da parte di questi, il Comune, previa diffida, provvede direttamente, recuperando le quote a carico di ciascun proprietario.

Le aree lottizzate ed inedificate alla data di pubblicazione della presente legge sono regolate dalle norme in questa contenute.



Art. 85 - Deroga al divieto di utilizzazione edilizia

I Comuni in possesso di piano regolatore generale già approvato alla data di entrata in vigore della presente legge hanno l'obbligo di adottare i relativi piani particolareggiati previsti per le zone di immediata espansione entro un anno dalla data stessa.

Durante tale periodo non si applica il disposto degli artt. 28 e 55, ferme restando le disposizioni della legge 17 agosto 1942, n. 1150.



Art. 86 - Piani per acquisizione di aree fabbricabili per l' edilizia economica e popolare

Nota de Il Popolo, 13 aprile 1963.

In relazione alle polemiche circa io schema di legislazione urbanistica, negli ambienti responsabili della Democrazia Cristiana, si fa rilevare che il documento, il quale ha fornito occasione a vari rilievi, è il frutto del lavoro di una commissione di studio costituita presso il ministero dei Lavori Pubblici. Lo schema così formulato è stato inviato direttamente dal ministro competente per l'esame al Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, prima di sottoporlo all'approvazione del Consiglio dei ministri. Pertanto, per quanto siano apprezzabili talune disposizioni, è chiaro che nello schema non è in alcun modo impegnata la responsabilità della Democrazia cristiana. Questo partito, come è detto chiaramente nel suo programma, persegue l'obbiettivo di dare la casa in proprietà a tutti gli italiani senza limitazione alcuna nella tradizionale configurazione di questo diritto. Anche nella legislazione urbanistica saranno pienamente rispettati per quanto riguarda la DC i principi costituzionali e i diritti dei cittadini.

Una nota pubblicata ieri dall'agenzia «Italia», ha reso noto, inoltre, che in merito alle conclusioni della commissione di studio dei piani urbanistici, il governo si è comportato con estrema cautela, subordinando ogni inizio di discussione collegiale alla conoscenza del richiesto parere del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro. Di solito la procedura è quella inversa: si procede, cioè, all'esame consiliare ed in questa sede si delibera la richiesta del parere del CNEL. Questa volta il ministro, prima di sottoporre l'esito degli studi dell'apposita commissione urbanistica alla discussione collegiale del Consiglio dei ministri, ha voluto sentire il CNEL per averne un orientamento. Il fatto che il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro stia da mesi approfondendo la questione, dimostra con quale senso di prudenza nelle sfere responsabili si sia voluto premettere un tale esame a qualsiasi iniziale discussione di quei progetti.

Nota de Il Popolo, 13 aprile 1963.

L’ Avanti! si impegna sempre più, mano amano che ci si avvicina al traguardo elettorale, nella polemica nei confronti della DC. Tra l'altro si sofferma sui tenebrosi retroscena delle cosiddette inadempienze programmatiche della Democrazia cristiana. Il nucleo del discorso è naturalmente nella denuncia dell'ipoteca di destra gravante sulla DC, della incapacità di questo partito di operare efficacemente e coerentemente sul terreno della libertà e del progresso. È la solita artificiosa visione di una DC divisa internamente, frenata dagli uni, spinta dagli altri, suscettibile di essere adoperata come strumento di difesa di interessi conservatori o di essere utilizzata per fini di progresso sotto il pungolo di un forte partito socialista.

La DC ha la sua più libera ed intensa dialettica interna (la quale peraltro non può essere schematizzata in posizioni conservatrici e posizioni progressiste), ma trova sempre nella sua libertà e responsabilità, una giusta via unitaria che corrisponde alle richieste del suo vastissimo elettorato popolare ed agli interessi del paese. Essa non può essere piegata da temo partecipa con ricco apporto di idee. Riserve, pur nell'apprezzamento di taluni principi e disposizioni, sullo schema di legislazione urbanistica, elaborato da una Commissione di studio, sono state fatte presenti da tempo in forma discreta, contribuendo ad avviare l'utilissimo esame sollecitato dal presidente del Consiglio e dal ministro dei Lavori Pubblici, di un organismo altamente qualificato, quale è il CNEL, sulla delicata materia. E non è mancata, di fronte a rilievi mossi con amichevole e scrupolosa obiettività, la volonterosa ed attenta considerazione del ministro.

Non c'è bisogno di dire poi, che noi deploriamo la grossolana speculazione politica e non politica, su questo tema. La responsabilità politica dei partiti è fondata su decisioni statutarie collegiali le quali, soprattutto nel momento elettorale, si concentrano sul programma presentato agli elettori. E su questo programma, elaborato e reso noto prima delle recenti polemiche, si è attirata l'attenzione degli elettori anche in materia urbanistica, riconfermando le direttive di fondo della DC su questa materia. Per queste linee essenziali, enunciate nel programma, può essere assunta oggi la piena responsabilità della DC. Dai principi poi la DC trarrà una linea di azione equilibrata e costruttiva che i suoi organi direttivi, politici e parlamentari, con approfondito e sereno dibattito, sapranno definire.

Nota dell'Agenzia Radar (15 aprile 1963) sul discorso dell'on. Sullo a Bagnoli Irpino.

Il ministro Sullo, parlando a Bagnoli Irpino alla festa della «Matricola del Voto», organizzata dalla DC di Avellino, ha dichiarato di assumere tutte le responsabilità che gli competono per aver promosso, nel pieno rispetto delle procedure costituzionali ed in conformità degli impegni assunti dal presidente del Consiglio alle Camere in occasione della presentazione del governo di centro sinistra, la redazione di uno schema di moderna legge urbanistica atta anche a stroncare la speculazione sulle aree fabbricabili.

Una campagna di stampa ben orchestrata vuole incutere spavento dappertutto diffondendo preoccupazioni assolutamente fuori posto.

Si sono posti in allarme gli attuali proprietari di case - ha proseguito l'on. Sullo - mentre dovrebbe essere noto che gli attuali proprietari non sono affatto toccati dal progetto elaborato.

Si è inventato che il progetto di legge impedirebbe ad altri milioni di cittadini di diventare in futuro proprietari di case, quando invece - ha osservato l'oratore - solo rendendo più basso il costo delle aree nei comuni più importanti d'Italia un maggior numero di persone potranno diventare proprietari di casa a basso costo.

Si è voluta continuare una polemica inutile sul diritto di superficie quando sarebbe bastato prendere lealmente atto che fino da sei mesi fa il ministro Sullo aveva alla Camera dichiarato che era disposto ad eliminare dal progetto il diritto di superficie.

E anche su questo particolare del progetto si è voluto capovolgerne la portata e le finalità, dal momento che doveva essere chiaro che esso avrebbe sempre avuto carattere di concessione perpetua e irrevocabile, subordinata soltanto alle prescrizioni dei piani regolatori, al fine di evitare che, ad onta dei medesimi, pullulassero sostanzialmente impunite costruzioni abusive.

Attraverso la polemica e la distorsione della verità non si è avuto scrupolo di fomentare il panico di milioni di cittadini italiani, che hanno tutto da guadagnare da una nuova legge urbanistica. Questo si è fatto solo per tutelare gli interessi fondiari - sproporzionatamente aumentati per effetto dello sviluppo economico del Paese - di poche migliaia di persone.

Il ministro Sullo ha formulato il voto che si possa trovare il modo, prima o dopo il 28 aprile, di organizzare un dibattito televisivo che consenta al grande pubblico di rendersi conto di tutti gli aspetti del complesso problema.

Quanto a me - ha detto Sullo - non ho certo mancato di agevolare la più ampia e libera discussione del progetto, che non voleva essere, e non è, un modello di perfezione esente da critiche, ma solo una onesta base di esame.

Ed ho ampiamente informato il Parlamento illustrando il progetto al Senato sommariamente il 28 giugno 1962 e più analiticamente alla Camera il 23 ottobre 1962.

Perché gli oppositori non si servirono della tribuna parlamentare? Perché hanno atteso la campagna elettorale per diffondere notizie fantasiose e per distorcere il significato delle parole?

Ho aderito alla richiesta della presidenza del Consiglio di inviare al CNEL il disegno di legge (e al presidente Campilli ho dichiarato che non avrei insistito sull'introduzione del diritto di superficie) proprio perché sono persuaso che leggi fondamentali come l'urbanistica devono essere profondamente meditate e che perciò il parere di un organismo nel quale sono ad alto livello rappresentate le categorie del mondo del lavoro e della produzione sarebbe stato assai proficuo.

Qual che sia il ruolo che mi riserveranno le vicende politiche - ha dichiarato Sullo - io continuerò a battermi nei miei modesti limiti, perché una moderna legge urbanistica elimini o riduca il caos costruttivo delle grandi città, elimini o riduca la speculazione delle aree.

Le battaglie politiche sono lunghe ed hanno bisogno di anni; ma se sono giuste si vincono, alla fine.

Nel 1956, al Congresso di Trento, fummo derisi per aver chiesto che si prendesse in serio esame l'ipotesi di un governo di centro-sinistra. Anzi coniarono per noi il termine di «comunistelli». Il tempo ci ha dato ragione.

Nel 1963, abbiamo la sola preoccupazione di voler combattere la speculazione di centinaia di miliardi sui suoli e si inventa la bugia che vogliamo espropriare i proprietari di case.

Anche per questo il tempo darà ragione alle persone in buona fede alle quali crediamo di appartenere.

Premessa[1]

Le ipotesi e le proposte qui illustrate sono il risultato della verifica del Primo Schema del Piano Intercomunale Milanese presentato il 25 luglio 1963. Rappresentano, nel loro complesso, un Secondo Schema che deriva dall’approfondimento del Primo, come era stato richiesto dalla XIII Assemblea dei Sindaci con la deliberazione del 1° dicembre 1963. […].

I chiarimenti preliminari alla «verifica»

[…]

Nel concludere le relazioni del 25 luglio 63, il Comitato Tecnico stesso aveva segnalato una serie di questioni alle quali attribuiva un significato di tentativo ed aveva insistito sulla necessità di sottoporle ad un profondo riesame. Tra le questioni più importanti era stata indicata quella che si riferiva alle previsioni di sviluppo economico dell’area. Si era lavorato infatti su una ipotesi di incremento demografico di cui era nota l’estrema fragilità, dal momento che non era stata derivata né da un quadro di riferimento più generale - di livello regionale o nazionale - né da uno studio sufficientemente fondato che precisasse il ruolo dell’area milanese nelle nuove soluzioni «programmate» per lo sviluppo nazionale.

Ma oltre questa questione di fondo si richiedeva di sottoporre a “verifica” - nel senso di controllarne l’attendibilità e gli effetti - tutte le ipotesi di carattere specificamente territoriale avanzate per i diversi campi dell’area; e - nel senso di precisarne i meccanismi, i modi di funzionamento e le loro conseguenze - le linee strategiche dell’attuazione del Piano, che nello Schema, in mancanza di informazioni esaurienti sugli indirizzi e sulle volontà politiche, erano state appena accennate.

Alcuni importanti avvenimenti accaduti durante questo secondo periodo di lavoro hanno contribuito oggettivamente a chiarire il campo della pianificazione entro cui il P.I.M. avrebbe dovuto collocarsi. Prima di tutto, il dibattito sulla Programmazione Nazionale e i vari documenti prodotti dai diversi Ministeri del Bilancio che si sono succeduti. Se ne accetti o meno l’impostazione, si concordi o meno con le deduzioni che i diversi gruppi politici ne hanno tratto, quei documenti rappresentano infatti un principio di razionalizzazione della politica economica della nazione e forniscono, se non un quadro, almeno la logica di un quadro al quale è possibile ormai riferirsi nel definire una previsione di sviluppo e quindi un attendibile ruolo per l’area in cui si intende operare. In secondo luogo, il dibattito sulla Legge Urbanistica, che non è certo approdato a soluzioni particolarmente avanzate, e tuttavia ha reso esplicito - si potrebbe quasi dire acquisito - il rapporto di necessità esistente tra pianificazione urbanistica e disponibilità del territorio alle scelte di piano, con tutte le conseguenze di rinnovamento degli indirizzi politici e della strumentazione tecnica che questo comporta.

Altri chiarimenti molto importanti sono venuti dal notevole volume di osservazioni, di consensi e di critiche al Primo Schema […] [2].

Infine chiarimenti sostanziali sono venuti dagli studi che l’Ufficio Tecnico del P.I.M. ha potuto nel frattempo condurre per arrivare ad una visione più precisa del reale stato dell’area e dei suoi contorni e per confrontare la validità di situazioni e di giudizi che nella prima fase del lavoro erano stati assunti per via prevalentemente intuitiva ed in linea di pura ipotesi. […] [3]

Con l’integrazione dei risultati della ricerca pervenuta dall’ILSES sui Caratteri dell’urbanizzazione nell’area milanese, si è arrivati dunque a sapere molto di più di quanto non si sapesse all’inizio dei lavori […].

L’insieme dei vari chiarimenti e l’elaborazione di nuovi temi affrontati nel dibattito - dispersivo e sfocato, ma pur sempre utile - del Comitato Tecnico Direttivo, hanno consentito di mettere a fuoco le molteplici questioni che erano state poste sullo sfondo del Primo Schema. Su questa messa a fuoco la «verifica» ha potuto assumere una proiezione più ampia ed applicarsi non solo a confrontare la attendibilità delle osservazioni e delle linee di azione che erano state prospettate, ma anche ad estenderle e ad inquadrarle in una concezione culturale e operativa più ampia. In questa concezione emergono tre diversi argomenti che debbono essere considerati cardini del nuovo sistema di proposte che qui si presenta: il sistema di relazioni tra i diversi livelli di pianificazione del territorio, il piano come processo, l’organizzazione per distretti del sistema di osservazione e di intervento comprensoriali.

[…]

La verifica e gli assunti di base

Rinviando alle relazioni del 25 luglio 63, alle altre comunicazioni sul tema [4] e ai successivi capitoli di questa Relazione per tutti gli argomenti che qui ci si limita ad accennare, si può cominciare col dire che del Primo Schema si sono conservate le tre fondamentali assunzioni di base:

la prima assume che l’area milanese attraversa attualmente una fase di trasformazione ed evolve naturalmente - per certi aspetti anche contraddittori - verso quel tipo di organizzazione territoriale che è stato definito di “città-regione”. […]

La seconda assunzione di base si fonda sul presupposto che la trasformazione che ci si propone di correggere, accelerare e dirigere può approdare ai fini perseguiti dal Piano se si colloca in un quadro di evoluzione più generale della struttura socioeconomica ed urbanistica nazionale. Le linee fondamentali di questo quadro di evoluzione debbono risultare da una serie di concreti indirizzi istituzionali che perseguano l’eliminazione degli squilibri socioeconomici della nazione attraverso una razionale distribuzione degli investimenti, una composizione di nuovi rapporti tra i diversi settori della produzione e tra spesa pubblica e consumi privati, una equa ridistribuzione del reddito tra le diverse categorie sociali. È chiaro che questi indirizzi non potranno attuarsi se non verranno impiegati gli strumenti per la organizzazione e il controllo del territorio previsti dalla Costituzione e dalla Programmazione. […]

La terza assunzione di base che si ritenuto di dover conservare si riferisce alla necessità di adottare un comportamento realistico nei confronti dei vincoli territoriali, amministrativi e politici presenti attualmente nell’area. […]

[…]

[…] Nell’area milanese essi sono numerosi e multiformi, ma sinteticamente se ne può stabilire una classificazione in tre specie fondamentali: politico amministrativa, normativa, morfologica.

Appartengono alla specie politico amministrativa i vincoli che derivano dalla travagliata genesi del P.I.M. L’attuale dimensione del comprensorio è il risultato di lunghe controversie e di tenaci contrattazioni rivolte a colmare le lacune introdotte dai criteri discriminatori e settoriali ai quali si ispirava il primo decreto di costituzione del P.I.M. Lo sforzo compiuto rappresenta indubbiamente uno dei risultati più positivi e democratici raggiunti nell’urbanistica italiana, ma il risultato risente ancora in modo pesante del peccato originale.

[…]

Alla seconda specie, quella normativa, appartengono i vincoli che derivano dalla disparità degli apparati normativi locali. Non sembra necessario dare particolari ragguagli su questa situazione dal momento che è “visibile” come i numerosi piani regolatori, programmi di fabbricazione, norme, ecc., che agiscono nelle varie amministrazioni dell’area, siano privi non solo di principi di coordinamento, ma anche di ogni base logica comune. Nessun quadro di riferimento, neppure indicativo, è stato mai formulato e proposto per normalizzare le previsioni di intervento degli enti locali o settoriali. D’altra parte è pure “visibile” nelle configurazioni territoriali di ciascun Comune - comprese quelle del Comune di Milano - come indipendentemente dalla mancanza di una normalizzazione, la qualità stessa di ciascun apparato normativo sia scadente e antiquata, commisurata a ritmi e modi di espansione e sviluppo decisamente travolti dalle tendenza attuali [5]. Alla terza specie - quella morfologica - appartengono i vincoli che derivano dal sistema di distribuzione delle attività e dagli standards di insediamento delle funzioni che si rilevano nell’area.

[…]

La verifica e l’analisi positiva del territorio

Il Primo Schema aveva fondato il sistema delle valutazioni territoriali su una descrittiva che è stata notevolmente perfezionata nella seconda fase dei lavori dai risultati delle ricerche condotte sull’area. La sostanza dei giudizi sui fenomeni osservati non risulta però sensibilmente mutata e si può perciò rinviare a quello che era stato detto nelle relazioni del 25 luglio e nei successivi interventi su quanto si riferiva alla analisi dei caratteri degli insediamenti nei diversi settori dell’area, alla distribuzione delle attività e degli interessi, alla localizzazione e alla qualità delle strutture per la mobilità territoriale e delle reti infrastrutturali di attrezzature e servizi.

A proposito di queste ultime gli approfondimenti venuti dalle nuove ricerche hanno confermato l’esistenza di livelli scadenti che già erano stati rilevati ma hanno anche fornito una più precisa valutazione dei vari fenomeni di inefficienza che essi determinano. Questi fenomeni di inefficienza si estendono a tutta l’area, che è da ritenere congestionata in ogni fascia e in ogni settore, indipendentemente dai “quanta” di popolazione che vi sono insediati. Nei settori nord est, nord, nord ovest, la congestione si verifica infatti in presenza di forti densità di popolazione, mentre nei settori sud est, sud, sud ovest, si verifica in presenza di insediamenti a bassa densità. In entrambi i casi però il rapporto tra le quantità di strutture e attrezzature è estremamente basso. Poiché è questo “rapporto” il vero indice rivelatore della congestione, si può dire che il problema della congestione si pone per “ovunque nel territorio” [6]. Non è escluso da questo giudizio il capoluogo dove la spinta alla terziarizzazione è stata compiuta a scapito di una equa distribuzione dei servizi di base: (la città, che era famosa nell’800 per il comfort e la suggestione del suo ambiente urbano, è stata trasformata in un arido agglomerato edilizio privo di attrezzature e di immagine).

L’influenza di questo squilibrio oltrepassa i confini comunali e si riflette sull’intero territorio con un’incidenza che cresce col progredire dei fenomeni di terziarizzazione delle zone centrali. Per cui il problema dell’innalzamento dei livelli comprensoriali non può prescindere da una preliminare inversione di questi fenomeni e quindi dalla rottura della struttura radiocentrica che li determina e li esalta.

Tenendo conto delle varie configurazioni degli insediamenti e delle loro reciproche gravitazioni, il Primo Schema aveva identificato nell’area tre stati territoriali distinti: il primo comprendeva i poli principali che svolgono un ruolo attuale o potenziale nel sistema metropolitano e cioè i territori di Como, Lecco, Bergamo, Brescia, Cremona, Piacenza, Pavia, Vigevano, Novara, Gallarate - Busto - Legnano; il secondo comprendeva il vero corpo “galattico” dello sviluppo dell’area, tutte le aggregazioni più o meno determinate ed eterogenee comprese tra i territori dei poli esterni e l’immediato intorno del capoluogo; il terzo comprendeva il capoluogo e l’area ad esso adiacente e soggetta all’effetto diretto della sua pressione espansiva.

[…]

Nelle linee generali le conclusioni tratte dall’analisi positiva degli stati di fatto sono risultate confermate; ma un esame più accurato delle situazioni interne a ciascuno dei tre stati ha permesso di distinguere una serie di caratteri più specifici di cui si è tenuto conto nel momento normativo dello studio.

[…]

Le proposte normative del secondo schema - Assunti generali e particolari

Le conclusioni dell’analisi positiva del territorio contengono già le premesse delle proposte normative sviluppate nei successivi capitoli di questa relazione e negli elaborati grafici ad essa allegati. Le proposte si articolano però ad una serie di assunti urbanistici generali e particolari che per chiarezza conviene riassumere.

- Più per la sua posizione strategica nel triangolo industriale che per il suo grado di evoluzione intrinseca, l’area ha raggiunto il livello di infrastrutturazione viaria che provoca l’indifferenza territoriale: le grandi arterie di traffico che alimentano il bacino padano costituiscono una rete capace e diffusa che propaga sollecitazioni localizzative in tutto il territorio. Si dissolve nel concreto la tradizionale opposizione tra città e campagna e non per una evoluzione della struttura economica di quest’ultima, ma per il semplice fatto che ogni sua parte tende ad essere luogo di potenziale localizzazione. La città e la campagna si identificano, come si è detto, in un “continuo urbanizzato” che è caratterizzato dalla diffusione omogenea delle occasioni di sviluppo e perciò richiede una omogenea tensione di controllo urbanistico.

- La graduale diffusione di condizioni di indifferenza territoriale nell’area ha un notevole valore positivo nel fatto che generalizza le opportunità di localizzazione e di conseguenza, moltiplica le scelte; ha però un aspetto negativo nel fatto che demolisce alcuni vincoli naturali che potevano essere usati da argini alla espansione indiscriminata. Gli aspetti positivi e negativi possono essere rispettivamente incrementati e ridotti soltanto se si agisce alla radice dei fenomeni che hanno determinato l’indifferenza stessa e cioè sul modo di distribuzione delle linee viarie che intersecano l’area; sui collegamenti dell’area col territorio nazionale e con i poli regionali; su questi stessi poli, per indurvi modificazioni che si riflettano sull’equilibrio generale nel senso voluto. Si possono incrementare gli aspetti positivi e ridurre gli aspetti negativi dei fenomeni provocati dall’indifferenza territoriale solo estendendo l’azione «riflessa» del piano intercomunale fino ai limiti della regione e al di là di essi.

[…]

- Nella situazione di omogenea distribuzione delle possibilità insediate a cui tende il continuo urbanizzato la ricerca di rapporti lineari tra valori socioeconomici e posizione territoriale perde ogni capacità operativa. La distribuzione nell’area di interessi socioeconomici tende infatti ad assumere andamenti complessi, influenzati più dalla qualità delle relazioni tra i punti nodali delle strutture e delle attrezzature che dai tradizionali fattori di localizzazione. Gli interscambi o comunque le corrispondenze funzionali o strutturali o perfino formali tra i nodi delle maglie di infrastrutture (servizi, attrezzature, strade) sono ormai i veri fattori di localizzazione: tanto più attivi ed efficienti quanto più sono complessi ed integrati. […]

- Ancora a proposito di ristrutturazione del territorio e tenendo conto di quanto si è detto sui fattori che maggiormente sollecitano la localizzazione si può aggiungere che l’identica inutilità dei procedimenti fondati sulla presunta linearità dei rapporti tra valori e posizione territoriale la si ritrova nei procedimenti fondati sul principio dello “zoning”. Infatti l’organizzazione dell’area in distinte zone ad attività predestinata, oltre a ridurre i vantaggi della “indifferenza”, rende assai difficile di eliminarne i pericoli: l’organizzazione zonale si irrigidisce negli schemi distributivi delle destinazioni e perde ogni capacità reattiva ed ogni possibilità di assorbimento degli sviluppi che sfuggono alle previsioni. Lo stesso può dirsi per ogni operazione fondata sul principio della “dimensione conforme”, che dal punto di vista concettuale rappresenta in definitiva una generalizzazione del principio dello “zoning” [7] La riunione o la frammentazione del territorio in sistemi di grandezza ottimale […] ripropone ancora una volta la città come fenomeno emergente e isolato in un contesto agricolo col quale ha rapporti di assoluta contrapposizione. Nel comprensorio del PIM né il principio dello zoning né il principio della dimensione conforme possono trovare applicazioni ragionevoli. L’uno e l’altro, a diversa scala e con diverse conseguenze, sono espedienti per perseguire l’ordine attraverso la disaggregazione: il contrario di quanto sembra necessario per l’area milanese dove l’ordine deve derivare dalla preliminare rottura dei compartimenti gerarchici tradizionali e dalla successiva ricomposizione delle parti in una nuova entità enucleata ma omogenea, senza confini.

- In una concezione aderente alla realtà dello sviluppo dell’area e coerente con gli obiettivi perseguiti, il rapporto tradizionale tra mobilità territoriale e localizzazione assume nuovi significati. In primo luogo non sussiste il principio della dipendenza della mobilità alle localizzazioni, inoltre non sussiste la “necessità” di rendere minima la mobilità per raggiungere la massima efficienza degli assetti territoriali. Il continuo urbanizzato è riconducibile ad un sistema costituito di attrezzature non distribuibili, attrezzature distribuibili e trasporti [8].

Col crescere dello sviluppo tecnologico e con l’innalzarsi del grado di infrastrutturazione, le attrezzature distribuibili tendono ad aumentare e le attrezzature non distribuibili tendono a diminuire. Si può dire che in un’area evoluta come quella milanese continuano ad essere non distribuibili solo alcune attrezzature strettamente legate a permanenti vincoli geografici - i laghi, i parchi, i fiumi, ecc. - o a condizioni che ancora determinano economie interne ed esterne rilevanti - industrie di base solidamente impiantate, aggregati produttivi complementari, ecc. La gran parte delle attrezzature sono invece distribuibili e col crescere dell’infrastrutturazione lo divengono sempre più; acquistano cioè un sempre maggiore margine di dislocabilità. Ne risulta che il problema di raggiungere la loro massima fruizione, che è centrale rispetto agli obiettivi di efficienza territoriale, si può risolvere agendo sui loro collegamenti come sulla loro reciproca posizione. Questo significa che le relazioni tra mobilità e localizzazione divengono più complesse di quanto non fossero quando erano concepite in un rapporto di dipendenza e che in questa maggiore complessità ciascuna delle due variabili assume ampie funzioni. […]

[…]

- Il sistema di mobilità nel comprensorio ha una struttura essenzialmente radiale convergente sul capoluogo. […] Il sistema si estende al di là dell’area intercomunale ed è parte preponderante del tessuto di comunicazioni del triangolo industriale; nel quale si collega ai sistemi, anch’essi radiali ma meno cospicui, degli altri due vertici. All’interno dell’area dà luogo ad altri minori sistemi analoghi in corrispondenza dei poli e sottopoli che si assestano sui suoi raggi principali.

Uno dei fondamentali problemi della riorganizzazione del territorio è quello della rottura del sistema radiale delle comunicazioni, perché lo si riconosce vincolativo della trasformazione che si vuole ottenere. Nella decisione dei provvedimenti per attuare questo fine le scelte metodologiche e operative sono state influenzate da tre posizioni principali.

La prima assumeva che una modificazione del sistema radiale non poteva essere intrapresa solo attraverso interventi limitati all’area e non correlati a proposte di largo raggio incidenti sul tessuto di comunicazioni della regione, del triangolo industriale, della pianura padana, ed oltre. Per questo le proposte sono state estese a tutto il territorio dell’Italia settentrionale per il quale è stato progettato un nuovo schema a reticolo, fondato sul principio di collegare i fuochi di interesse territoriale (i valichi, i porti, i bacini industriali, i poli urbani principali) con un sistema distributivo il più neutrale possibile nei confronti delle localizzazioni preesistenti.

La seconda proposizione assumeva che la trasformazione del tessuto delle comunicazioni dovesse tener conto nella maggior misura possibile degli impianti esistenti, nel senso di utilizzarli al massimo nella nuova configurazione. Sembrava assurdo infatti di dover concepire un radicale rinnovo della rete viaria che implicasse una cospicua perdita degli investimenti effettuati in passato, anche se giudicati errati; né si poteva immaginare che la riorganizzazione dovesse convogliare verso questo settore risorse troppo cospicue, soprattutto tenendo conto che quelle già destinate nell’immediato passato sono da considerare eccessive, anche secondo un giudizio del Programma Nazionale del tutto condiviso. […]

La terza assunzione si riferisce ai limiti di integrità dello schema adottato. La distribuzione reticolare sembra la migliore nella situazione generale in cui si deve intervenire ed in relazione agli obiettivi di decentramento che ci si propone di raggiungere; questo però non significa che essa rappresenti il tipo distributivo ottimo per ogni situazione particolare del territorio. Si hanno infatti nell’area zone che conviene alleggerire e zone che occorre invece incentivare perché sono al di sotto dei livelli ammissibili e perché la loro incentivazione consente l’alleggerimento delle altre. La radiocentricità, o comunque la convergenza, dell’impianto viario può dunque essere assunta come un mezzo efficace per indirizzare gli interessi nelle zone dove è utile concentrarli.

Questo non significa che lo schema reticolare adottato debba essere contraddetto nelle parti del comprensorio dove risulta utile ricorrere all’espediente della concentrazione. Significa invece che esso deve essere rigorosamente applicato nelle grandi linee organizzative della mobilità territoriale a largo raggio, dove il problema si pone in termini di ottimo scorrimento e quindi di differenziazione gerarchica degli obiettivi e delle funzioni che caratterizzano i flussi; mentre nel passaggio dalle grandi linee alle linee organizzative più particolari e interne al comprensorio, dove gli stati attuali e le trasformazioni impongono una più complessa strumentazione degli interventi e dove la selezione dei flussi non richiede o non ammette una drastica separazione delle funzioni, lo schema reticolare deve articolarsi in configurazioni più ramificate e commiste. In questo passaggio lo schema iniziale deve poter confluire in altri schemi se risultano più appropriati alle esigenze dell’area che alimentano, siano essi radiocentrici o di altro tipo. Si è ricercata dunque la massima aderenza delle soluzioni viarie ai reali scopi del traffico visti in funzione della complessiva organizzazione del territorio, rifiutando gli atteggiamenti univoci che derivano dalla considerazione prioritaria di uno degli elementi organizzativi in gioco - i trasporti o gli insediamenti o i servizi, ecc. - e che portano inevitabilmente a proposizioni astratte e ineffettuali, come è ampiamente dimostrato da una ormai lunga esperienza urbanistica [9].

- Gli stessi principi adottati per la riorganizzazione del sistema viario sono stati adottati per la riorganizzazione del sistema ferroviario. Per le soluzioni scelte in entrambi i casi si rimanda ai successivi capitoli di questa relazione, ma si deve ancora aggiungere però che, per quanto riguarda le ferrovie, il problema dell’adattamento a quanto è precostituito, ha inciso con un peso ancora maggiore. È chiaro infatti che il concetto della flessibilità e della commistione delle linee di flusso trova in questo settore vincoli particolarmente incisivi, dovuti non solo alla intrinseca rigidità degli impianti esistenti e al loro costo, ma anche alle particolarità che ciascun impianto presenta.

[…] Questi vincoli insieme alla considerazione dei costi imposti da modificazioni radicali e del tempo che esse richiederebbero per essere attuate, hanno costretto a delineare soluzioni più rigide di quanto sarebbe stato possibile immaginare, in astratto, per una situazione meno vincolata di quella in cui si deve operare.

- Le conclusioni cui si è pervenuti a proposito delle comunicazioni vanno viste in relazione alle conclusioni raggiunte a proposito della riorganizzazione della struttura e della distribuzione degli insediamenti. Si tratta infatti di un unico gruppo di conclusioni correlate, derivate da un avvicinamento globale al problema del territorio, considerato come un unico urbanizzato in cui i fattori di mobilità e di localizzazione si pongono come variabili interdipendenti.

L’obiettivo di sostituire il sistema radiocentrico con un sistema articolato ed equipotenziale è stato perseguito rompendo la configurazione viaria e ferroviaria che attualmente converge il flusso degli interessi verso il polo centrale, ma è stato perseguito allo stesso tempo proponendo una nuova distribuzione degli insediamenti che agisca sui loro attuali schemi organizzativi e sul complesso delle loro relazioni esterne. […]

[…]

Nell’impostare lo studio degli interventi sulle localizzazioni ci si è riferiti alle distinzioni rilevate in sede di osservazione sui tre stati territoriali dell’area; si è tenuto conto però delle differenziazioni interne ad ogni “stato”, colte attraverso le analisi condotte dopo la presentazione del Primo Schema, ed anche di quanto è stato possibile precisare a proposito della struttura territoriale dei Poli esterni e dei tessuti agricoli che si estendono a sud del capoluogo. Questo insieme più omogeneo e più raffinato di informazioni ha consentito di mettere meglio a punto i nuovi presupposti organizzativi del sistema regionale nonché i processi di ristrutturazione previsti per l’area centrale, ed ha portato a revisionare radicalmente la serie di proposizioni relative ai cosiddetti tessuti intermedi, che il Primo Schema stesso aveva indicato come punto debole delle sue previsioni.

Il nuovo disegno territoriale delineato dal Secondo Schema propone in sintesi di realizzare un unico sistema che sia in grado di assorbire il decentramento non solo da Milano, ma da tutto il triangolo, ed imposta lo sviluppo di questa operazione su alcune linee di azione che investono con diverso metodo e con diversa incidenza operativa le varie parti dell’area.

I Poli esterni del Nord sono riconosciuti congestionati dal punto di vista spaziale, in molti casi incapaci di sopportare ulteriori convergenze di attività se non a patto di interventi di razionalizzazione che dovranno compiersi all’interno delle loro aree di influenza con criteri dello stesso tipo di quelli proposti per l’area centrale del comprensorio milanese. I Poli del Sud, pure congestionati per il difetto di attrezzature adeguate alle strutture che contengono e tuttavia troppo debilitati per produrle, richiedono interventi che indirizzino su di loro cospicui rafforzamenti di attività - solo a queste condizioni essi potranno sostenere un ruolo nella nuova configurazione regionale ed agire nello stesso tempo per l’equilibrio del sistema e per il rafforzamento dell’agricoltura. Il fuso che comprende i poli di Alessandria, Pavia, Piacenza e Cremona costituisce un complesso territoriale in cui la rete delle comunicazioni e la localizzazione puntuale dei centri urbani sono previsti in modo da conseguire la robustezza necessaria ad assumere una funzione alternativa per tutta l’area. La sua presenza diaframma l’agricoltura in due distinte zone - che filtrano l’una nell’altra attraverso i larghi interstizi tra le localizzazioni - e tuttavia si distinguono identificandosi nel sud con l’area agricola padana ed assumendo verso nord una funzione costiera influenzata dalla aree di consumo adiacenti. Ne consegue una chiarificazione organizzativa fondamentale nella quale il fuso agisce nei confronti dell’attività primaria limitando le sue tendenze al dissesto, in un’area dotata di precisi confini entro la quale si debbono compiere interventi di riconversione.

L’azione sui poli periferici è esterna al campo di diretta influenza del Piano; d’altra parte non può prescindere da questa azione alla quale deve riferire tutti gli interventi che esso prevede per l’area sottoposta al suo diretto controllo. La soluzione di questa apparente contraddizione rappresenta il punto critico di tutta l’operazione intercomunale, un nodo che condiziona non solo la scelta degli strumenti di intervento ma tutta l’impostazione istituzionale e metodologica del processo di pianificazione. Per questo oltre a fornire indicazioni circa il destino dei Poli del Nord e la riqualificazione dei Poli del Sud nel Fuso, sono state avanzate precise proposte per il territorio che a Nord e a Sud è compreso tra i poli e l’area comprensoriale. Queste proposte definiscono la formazione e la funzione di una serie di centri di urbanizzazione - chiamati “poli aggregativi” - che agiscono come epicentri consolidati in tutto il territorio intermedio tra l’area milanese e i poli regionali.

La definizione della fascia agricola del Sud chiarisce anche i diversi modi in cui si deve intervenire nelle zone intermedie del comprensorio, nei settori settentrionali, meridionali e delle spalle. È stato detto che a Nord l’area sembra dotata di una precisa vocazione metropolitana mentre nel Sud e nei settori orientale e occidentale si presenta oscillante tra una debole resistenza dell’attività primaria e una pressione intensa ma sporadica delle forze di urbanizzazione. Nel sud, riequilibrati questi tessuti oscillanti con la formazione della fascia agricola - che allo stesso tempo ristabilisce e difende la continuità delle aree agricole - il problema si pone in termini di struttura e morfologia degli insediamenti destinati, in questa parte dell’area, ad assorbire la massa demografica disponibile, che non può localizzarsi nei tessuti del Nord né del capoluogo oltre la misura ammissibile per non accrescerne la congestione. Calcolata la massa di manovra, risulta che la sua localizzazione deve essere concentrata, perché è questo il solo mezzo per portare anche nel Sud e alle spalle quel patrimonio di attrezzature necessario ad elevare i livelli di insediamento realizzando l’obiettivo di diffondere anche nelle zone più depresse le condizioni insediative desiderate per l’intero territorio. Da questo principio è derivato il sistema di “nuclei aggregati distrettuali” con attribuzioni diverse nei vari settori del comprensorio. Nelle aree del sud, dove l’urbanizzazione è ancora rada, esercitano una funzione di polarizzazione delle attività sparse che si diffondono tra il fuso A.P.P.C., i poli aggregati e il capoluogo.

Nelle aree del nord, per le quali è stata riconosciuta una elevata tendenza alla metropolizzazione, il problema di fondo è invece quello di mettere a punto nuovi principi organizzativi che possano districare un equilibrio territoriale nella esplosione delle aggregazioni originarie. Qui in ogni caso l’azione deve tendere a decomprimere l’area riducendo la pressione insediativa che si esercita naturalmente.

Il che si vuole ottenere non solo attraverso le alternative create nel sud e nelle spalle meridionali, ma anche per effetto dell’azione selettiva - non diffusiva - del nuovo impianto viario. Il nuovo andamento delle linee di comunicazione viaria e ferroviaria, la loro nuova classificazione ed il nuovo modo in cui esse organizzano le divergenze e le coincidenze dei flussi principali danno luogo a vuoti o ad addensamenti di attrezzature a largo raggio che divengono altrettante occasioni di repulsione o attrazione nei continui urbani esistenti. Intorno alle massime condensazioni di attrezzature sono stati previsti infatti i nuclei aggregativi distrettuali dell’arco settentrionale.

Per lo stato territoriale corrispondente al capoluogo e all’intorno direttamente investito dalla sua forza espansiva, il principio degli interventi non è sostanzialmente cambiato rispetto alle precedenti proposte, anche se le allusioni morfologiche cui si era allora riferiti hanno lasciato posto a definizioni più precise e, forse, meno disponibili ad equivoci di interpretazione. La maggiore conoscenza dei tessuti urbani delle zone di sviluppo della città ha permesso di acquisire l’esatta misura in cui si manifestano i fenomeni di deterioramento della sua seconda corona. Si è detto come questa area cieca debba essere considerata il supporto più solido della organizzazione egemonica del territorio e si è detto anche come la sua ricostituzione sia essenziale per un efficace intervento di ristrutturazione del comprensorio che rovesci i supporti dell’egemonia, coerentemente con gli obiettivi stabiliti. L’appiglio per operare il rovesciamento è rintracciabile in alcune tendenze che già si manifestano sotto forma di contraddizione al sistema esistente. Si verifica infatti per via naturale che alcune iniziative spontaneamente scavalchino la seconda corona per ritrovare al di là di essa migliori condizioni per la costituzione di più alti livelli insediativi. Queste iniziative, sporadiche e casuali, in linea generale incrementano il deterioramento della seconda corona ma in alcuni casi particolari - lungo le linee del loro sviluppo - finiscono col provocare azioni di rinnovamento poiché stabiliscono nuovi flussi di relazioni col vero centro, rimuovono le attività e i servizi dalle loro localizzazioni tradizionali, modificano i valori delle aree e degli immobili, ecc. [10].

Il sistema di interventi che si propone prende partito da questa tendenza naturale, per ora casuale e indeterminata, e la trasforma in un obiettivo tecnico deliberato. Creando insediamenti di alto livello nella terza corona, localizzati attorno ai nodi di attrezzature a largo raggio che debbono essere accesi dalle corrispondenze delle maglie infrastrutturali, ci si propone di scatenare nuovi archi di interessi col vero centro urbano che si riflettano sulla seconda corona provocandovi una forte azione di rinnovo. Questa azione provoca una sostanziale rettifica della politica urbanistica del Comune di Milano ed in particolare la rinuncia alle tendenze accentratrici e colonialiste che ha dimostrato finora di voler perseguire, mirando ad accrescere la funzione terziaria direzionale del suo centro e ad espellere all’esterno le localizzazioni destituite di interesse per questa funzione o incapaci di competere con essa. Per cui la rettifica della politica urbanistica significa in concreto riduzione - o in molti casi sospensione - degli investimenti pubblici e disincentivazione degli investimenti privati diretti alla prima corona, loro convogliamento nella terza corona per la creazione di nuove strutture urbane ad alto livello di attrezzatura, sollecitazione al rinnovo dei tessuti della seconda corona man mano che gli effetti dello scavalcamento cominciano a modificare i presupposti della sua attuale configurazione.

[…]

Il piano come processo

[…]

Il vero significato della città-regione, come interpretazione dei fenomeni di sviluppo urbanistico e come metodologia di controllo dello sviluppo stesso, sta nell’aver sostituito all’idea statica e prefigurata della città tradizionale, l’idea di una città che si compie e si configura in un sistema continuo di relazioni dinamiche; per cui ad ogni fase di sviluppo le configurazioni raggiunte nella fase precedente si ricompongono in configurazioni nuove, coerenti con gli aspetti della realtà che in quel preciso momento emergono dalla continua mutazione dei fattori che concorrono allo sviluppo. La città-regione è dunque un processo di organizzazione territoriale che deriva le sue ragioni concettuali e operative dal riconoscimento della necessità di dilatare il problema del controllo del territorio fino ad assumere tutte le componenti che concorrono a modificarlo […].

Si è già detto come nell’ottica di questa interpretazione perdano senso alcune proposizioni che erano tipiche di una concezione tradizionale della realtà urbana; per esempio la dicotomia esplorativa e operativa tra città e campagna, l’organizzazione urbana per zone a funzione predestinata ( zoning), la dimensione conforme e la su conseguenza - che è anche suo presupposto - dell’osservare e progettare una configurazione urbana in termini di quantità di popolazione anziché in termini di relazioni tra strutture e attrezzature presenti in un’area, qualunque sia la sua dimensione e la sua posizione. Quest’ultima proposizione e l’alternativa che si è appena enunciata permettono di chiarire un’altra novità di interpretazione tra le più tipiche ed essenziali del nuovo modo di avvicinamento al problema urbano. Svincolando l’idea di efficienza territoriale dal numero degli abitanti presenti in un’area e legandola invece al raggiungimento di uno stabilito livello del rapporto tra strutture e attrezzature, si deve assumere automaticamente il taglio dell’orizzonte temporale degli interventi come “dato” del processo di pianificazione che si vuol attuare. Il problema infatti non è più quello di predisporre l’organizzazione del territorio per il numero x, y, z, degli abitanti che si prevede di dover ospitare entro il periodo h, y, j, di anni, ma invece quello di raggiungere entro un periodo a, b, c, i livelli di insediamento ritenuti necessari ad un dato grado di sviluppo economico, sociale e tecnologico del territorio. E mentre x, y, z, sono legate ad h, y, j, da una previsione derivata dall’analisi delle tendenze e delle forze che tendono a modificarle; a, b, c, rappresentano il tempo entro il quale si vuole realizzare l’operazione di modificazione dei livelli; sono l’indice di una decisione e non l’ipotesi derivata da una valutazione (che il più delle volte ha forti immagini di azzardo) [11].

L’orizzonte temporale posto come “dato” è dunque strettamente connesso con gli obiettivi; è parte integrante dell’enunciazione degli obiettivi stessi poiché esprime il tempo in cui una nuova “qualità” del sistema organizzativo deve essere raggiunta: oltre il quale la “qualità” è superata, perché si modificano le condizioni che l’hanno richiesta e con esse la scala di valori degli standards cui ci si è riferiti.

La definizione dell’orizzonte temporale, vista in questa prospettiva, deve necessariamente collocarsi entro i limiti di due fondamentali condizioni: essere fondata su una larghissima base di informazioni ed essere il più accorciata possibile. Si intende per informazioni, non solo quelle che possono essere derivate dall’analisi tecnica e interdisciplinare degli stati di fatto e delle tendenze in atto, ma anche quelle che debbono pervenire dalla trasmissione diretta di giudizi ed aspirazioni da parte del maggior numero di forze direttamente interessate allo sviluppo del territorio.

Queste forze debbono essere «nel Piano», e non «fuori dal Piano» come sono sempre state, non solo perché il processo di pianificazione possa assumere reale sostanza democratica, ma soprattutto perché possa svolgersi in un contesto di effettiva razionalità. Il presupposto della razionalità è infatti nella più ampia disponibilità di informazioni e questa non può essere conseguita se non accade che tutte le forze impegnate a trasformare direttamente o indirettamente il territorio […] possano confrontarsi entro il campo di osservazione del piano. Solo così sarà possibile valutare esattamente le tensioni e, su questa valutazione, di costruire la scala di valori alla quale si riferiscono gli obiettivi della pianificazione.

I quali obiettivi, proprio perché si articolano ad una scala di valori che si modifica col variare dialettico delle tensioni tra le forze in gioco, sono anch’essi soggetti a modificazioni; che debbono avvenire nell’esatto momento in cui se ne manifesta la necessità e che possono avvenire con prontezza tanto più sensibile quanto più è scorrevole la trasmissione dalla periferia al centro organizzativo del piano e viceversa. L’esigenza di una ampia partecipazione introduce dunque la concezione del piano come processo di fini e mezzi e riconduce la sua azione ad una alternanza illimitata di proposte e verifiche entro la quale continuamente si aggiustano non solo i mezzi, in relazione alla precisione dei fini, ma i fini stessi in relazione al rinnovamento dei mezzi. Questa concezione esclude la possibilità che il Piano si configuri in una decisione unica e permanente, valida una volta per tutte; ma anche presuppone che l’orizzonte temporale venga accorciato il più possibile, in modo da lasciare adito alle modificazioni che si proporranno nel suo divenire come processo. Non si tratta, è chiaro, di ridurlo ad una serie di interventi a breve termine ma di collocare ogni periodo, lungo o breve che sia, entro tempi esattamente commisurati alle necessità delle azioni che si debbono compiere. Allo stesso tempo, si tratta di prevedere per il “lungo periodo” lo stretto necessario, e di attuarlo con i mezzi più flessibili per ridurre al massimo le occasioni di irrigidimento del processo: al limite di conseguire gli obiettivi lontani, dati come traguardi, attraverso la concatenazione di interventi a tempi raccorciati, che possano trovare i loro reciproci aggiustamenti nei momenti della loro saldatura. La rotta del processo deve essere garantita dalla continuità delle azioni del piano; dall’istituto del Piano, inteso come organo permanente di osservazione e di controllo del territorio. […]

La concezione del Piano come processo esclude automaticamente tutte le soluzioni urbanistiche che nascono da preconcette figurazioni morfologiche o strutturali.

Queste soluzioni che ancora esercitano suggestioni, per il fatto che sembrano poter risolvere in modo unitario e definitivo tutti i problemi territoriali, nel concreto della realtà non solo risultano ineffettuali ma anche limitative della partecipazione e quindi dell’allargamento della base di razionalità del piano. […]

Il piano come processo non può evidentemente conciliarsi con questo tipo di soluzione. Per il piano come processo la figurazione morfologica e strutturale è una delle componenti dell’azione, anche se nei risultati finali essa assume significati conclusivi e rivelatori della qualità delle situazioni raggiunte. Il fuoco dell’interesse è nelle relazioni che si stabiliscono tra le volontà politiche, le scelte economiche, i comportamenti sociali, i livelli delle strutture e delle attrezzature territoriali, i caratteri formali ed espressivi dell’ambiente fisico. Gli interventi sono rivolti alla modificazione di queste relazioni e agiscono sulle diverse componenti nell’ottica delle loro reciproche influenze.

Il consenso non è un vincolo ma una variabile, che si risolve nel divenire del piano, man mano che il libero esercizio della contestazione chiarisce, nel quadro degli obiettivi generali stabiliti, gli obiettivi particolari verso cui occorre dirigersi, e identifica i metodi e gli strumenti necessari per aggiungerla. Le decisioni del piano non sono il risultato di una delega di potere, ma l’espressione di volontà in movimento che si confrontano e si organizzano in forme pluralistiche di governo.

La forma prefigurata è sostituita da impianti fluidi e interpenetrali che crescono e si configurano nei successivi tempi del processo di piano, coerenti con ogni fase del suo sviluppo.

L’organizzazione per distretti del sistema di osservazione e di intervento comprensoriale

[…]

Si è detto come in sede di intervento l’intero campo comprensoriale sia stato ricondotto ad una unità operativa, si è detto d’altra parte come all’interno di questa unità si manifesti una mancata differenziazione degli stati di fatto e come le azioni particolari previste dal piano siano state caratterizzate da specificazioni e gradualità commisurate alle differenze esistenti. Questa contraddizione, tra il carattere specifico delle diverse proposte e l’unità del sistema generale entro cui esse si inquadrano può essere risolta entro campi di intervento dimensionati in modo da attuare una effettiva mediazione tra decisioni locali e centrali, e delimitati in modo da aderire il più possibile alle convergenze ecologiche delle diverse parti del territorio. Si è perciò suddiviso il comprensorio in subcomprensori - che sono stati chiamati “distretti” - i cui limiti concludono aree nelle quali i problemi di sviluppo del piano possano essere ritenuti omogenei. Lo stesso territorio del capoluogo è stato incluso in queste aree dopo essere stato suddiviso in settori assimilabili a ciascuna di esse. I distretti sono da considerare dunque una derivazione del concetto di «piano come processo»; perciò essi sono destinati in primo luogo ad agire da supporto al sistema di decentramento del piano stesso. La dimensione comunale è, nella generalità dei casi del comprensorio, troppo piccola e troppo poco attrezzata di strumenti per poter svolgere un ruolo incisivo nel processo delle decisioni; d’altra parte la presenza delle autorità locali deve essere nel piano il più possibile autentica e sostanziale per garantire la democraticità delle scelte. Il distretto sembra il “luogo” più appropriato per assicurare una partecipazione paritetica e attiva, dal momento che la sua dimensione riconduce concretamente alla portata locale i problemi che si manifestano nello svolgersi della pianificazione comprensoriale.

[…]

Il sistema di relazioni tra i diversi livelli di pianificazione del territorio

[…]

Uno dei problemi più scottanti della vita politica, economica e sociale del nostro paese è costituito dalla definizione degli ambiti e dei rapporti intercorrenti tra i diversi livelli di programmazione.

I gravi squilibri territoriali e settoriali, l’entità della spesa pubblica, la necessità di superare l’ambito angusto dei bilanci annuali, hanno fatto sì che in modo quasi spontaneo e non coordinato, venissero alla luce piani pluriennali di amministrazioni locali, piani comprensoriali, piani provinciali, piani regionali (nelle regioni a statuto speciale) e, oggi, un piano nazionale.

Se peraltro non è difficile spiegare storicamente le ragioni del mancato coordinamento ed inquadramento di queste esperienze, è certo che questo stato di cose oggi appare causa di conflitti, di sovrapposizioni, di iati.

Il piano nazionale si limita per il momento a fissare gli obiettivi ed a adottare strumenti soltanto a livello macroeconomico per grandi aree e grandi settori dell’economia nazionale, ristrutturando e sintetizzando i livelli di intervento in questo ambito, senza recepire, verificare, coordinare quanto programmato a scala più bassa. Manca il quadro regionale, che trova il proprio naturale ambito nella programmazione a “medio raggio”, offrendo un punto d’incontro indispensabile tra la programmazione nazionale e quella provinciale o meglio comprensoriale. […]

Neppure è stata definita finora la natura e gli ambiti della programmazione comprensoriale: coesistono a tutt’oggi piani puramente urbanistici accanto ad altri con obiettivi più vasti fino ad arrivare a piani di vero e proprio sviluppo sociale, che si propongono di intervenire tanto nelle strutture urbanistiche, quanto - seppure in misura non organica - in quelle economiche e sociali della propria area di competenza. E non vi è dubbio che “Le linee programmatiche e gli obiettivi del Piano Intercomunale Milanese” adottate dall’Assemblea dei Sindaci il 17 febbraio 1963 collocano il PIM tra questi ultimi e in una posizione di avanguardia. Piano di sviluppo sociale, abbiamo scritto. E tuttavia intendiamo sottolineare come questa definizione sia intenzionalmente vaga e limitativa. Infatti anche le esperienze più avanzate, come appunto quella del PIM, hanno indubbiamente sofferto, per l’impossibilità di trovare nel quadro delle istituzioni vigenti, una collocazione ed una definizione tale da comprendere oltre agli aspetti urbanistici anche quelli economici della programmazione. […]

[…]

Se la programmazione nazionale può essere definita come piano globale e quella regionale come piano a medio raggio, quella comprensoriale appare per propria natura come programmazione a breve raggio investente un’area nella quale lo sviluppo può essere ricondotto ad un livello di omogeneità tale da permettere il controllo dei fenomeni che intervengono nello sviluppo stesso e che da questo derivano.

Nella definizione di rapporti tra piani comprensoriali e piani a livello più elevato sono evidenti due pericoli relativi alla considerazione:

a)dei piani comprensoriali come gerarchicamente e burocraticamente subordinati a quelli superiori, e quindi come mera attuazione ed estrinsecazione di questi ultimi;

b)delle aree comprensoriali come “isole” all’interno delle quali i piani possano essere preparati, definiti, attuati in assoluta autonomia rispetto al più ampio contesto regionale e nazionale.

Il piano comprensoriale nasce dalla constatazione che gli ambiti puramente municipali non sono più sufficienti a far fronte ad una serie di fenomeni a livello economico, sociale ed urbanistico (congestionamento, degrado, speculazione fondiari a vasto raggio, ecc.); che la settorializzazione degli interventi rappresenta in realtà un ostacolo al controllo complessivo sul territorio; che di conseguenza la battaglia per la difesa e lo sviluppo dell’autonomia comunale vanno combattute ad un livello più elevato dai Comuni associati. In tale prospettiva il problema cardine per l’Ente Locale non è più quello di essere “formalmente” autonomo nel proprio ambito giurisdizionale e territoriale, quanto quello di poter esercitare in modo effettivo le proprie funzioni, anche attraverso la creazione di nuovi strumenti e di nuovi istituti. […]

Sotto questo profilo, appare evidente che i Comuni associandosi a livello di comprensorio, e permanendo come organi insostituibili di potere democratico, possono esprimere istanze valide anche nei riguardi della programmazione a livello superiore non soltanto nel campo urbanistico ed amministrativo, ma anche in quello economico e sociale. Il pericolo insito nella generalizzazione dei piani consiste proprio nel rendere i livelli inferiori responsabili esclusivamente verso quelli superiori, togliendo ad essi ogni autonomia, e rendendo peraltro tutto il processo di programmazione autoritario, burocratico e riducendolo, nel migliore dei casi, a pura operazione tecnocratica.

Questo principio non sta a significare che i piani a livelli superiori debbano essere intesi come pura sommatoria dei piani a livello inferiore. In modo schematico dunque il processo della programmazione democratica dovrebbe comprendere le seguenti fasi:

1)di elaborazione degli obiettivi generali del piano compiuta dagli organi nazionali in collaborazione con i livelli inferiori di piano con specificazioni territoriali di grande scala e con l’approntamento delle scelte di quadro;

2)di preparazione e definizione dei piani a livello inferiore inquadrati nei livelli di coerenza di cui sopra. La programmazione regionale nei riguardi della programmazione comprensoriale dovrebbe funzionare in limiti più ristretti nella prospettiva accennata per quanto riguarda i rapporti tra piano nazionale e livelli inferiori;

3)di sintesi, razionalizzazione e verifica dei piani a livello più basso, ormai definiti, a scala più elevata (programmi comprensoriali su scala regionale; programmi regionali su scala nazionale);

4)di specificazione degli obiettivi a livello più elevato ed adozione degli strumenti e delle politiche di attuazione.

Un processo questo all’interno del quale i rapporti tra il vertice e la base non sono mai configurati come univoci ma tali da sostanziare una dialettica continua tra i diversi livelli nelle fasi di preparazione, definizione, attuazione. Un processo quindi nel quale, al limite, non esistono neppure i livelli diversi di piano, ma una concatenazione senza soluzioni di continuità di momenti e di atti di pianificazione [12].

Come è stato sottolineato, la situazione delinea soltanto i primi passi in tale direzione e prefigura un lungo periodo di transizione e di esperienze. Per tutto questo periodo dunque i piani comprensoriali, come manifestazioni della volontà degli Enti Locali, dovranno essere ritenuti innanzitutto responsabili verso le forze che li hanno espressi. Nulla ipotecando per il futuro, anzi sollecitando una più matura dialettica tra i vari livelli di programmazione, i comprensori dovranno preparare, definire, attuare i propri piani in condizioni di piena autonomia. In questa prospettiva sarà fin d’ora necessario per l’azione comprensoriale far risaltare tutti gli elementi di concordanza e di incontro con il piano nazionale, ponendo in atto direttamente nel proprio territorio ed indirettamente anche al di fuori del proprio ambito tutti quegli strumenti che possono concorrere alla pronta attuazione del piano stesso.

Già oggi al Piano Comprensoriale Milanese si presenta una vasta area di intervento in tale direzione: il piano Pieraccini come già le linee del rapporto Giolitti, indicano per il triangolo industriale un’azione di contenimento della spesa a scopi infrastrutturali, una politica di disincentivazione del flusso migratorio, una politica di riequilibrio degli investimenti industriali a favore delle zone depresse del territorio nazionale. In modo autonomo e fin dall’inizio, il piano comprensoriale ha già fatto propri tali obiettivi e su di essi ha fondato le proprie scelte operative.

Nei riguardi di tutta una serie di scelte di quadro politiche, economiche, istituzionali - come Legge Urbanistica, politica di perequazione tra le diverse zone ed i diversi settori dell’economia nazionale, attuazione dell’Ente Regione - il piano comprensoriale deve proporsi come elemento di pressione, sollecitando innanzitutto prese di posizione da parte degli Enti Locali, portando attraverso ai propri elaborati elementi di discussione e di presa di coscienza presso l’opinione pubblica, intervenendo al massimo livello parte dei problemi irrisolti per la massa dei propri amministrati.

È certo infatti che scelte di questa natura che possono essere compiute solo in sede di programmazione e di competenza legislativa nazionale e tutt’al più regionale condizionano ed incidono fortemente sull’avvenire del piano comprensoriale. Sarebbe tuttavia un grave errore pensare che soltanto dopo il varo di tali strumenti possa essere avviata la programmazione comprensoriale, o che comunque a tali scelte debbano essere demandate le soluzioni delle alternative fondamentali del piano comprensoriale stesso. Ad una impostazione siffatta è facile rispondere che tali deliberazioni di quadro, qualsiasi incidenza possa ad esse attribuirsi, non determinano la natura del piano comprensoriale, né soprattutto possono giungere a definire il piano stesso. Anzi, la programmazione comprensoriale, rendendo espliciti gli iati e le contraddizioni esistenti, portandoli a livello di coscienza e di cultura sociale, attuando scelte che sollecitino iniziative in sede politica nel senso sopra ricordato, appare elemento di stimolo, certo non secondario, per affrettare e facilitare l’attuazione di questi indirizzi, di questi strumenti politici e di questi Istituti.

Nota: il testo di Giancarlo De Carlo riportato sopra è stato tagliato per motivi di spazio; la versione originale completa è scaricabile in calce all'articolo "guida" di questa Pagina di Storia sul PIM, insieme ad altri materiali (f.b.)

[1] Si riporta qui l’introduzione alla relazione che accompagnava il Secondo Schema per il Piano Intercomunale Milanese, redatto dagli architetti Giancarlo De Carlo, Silvano Tintori, Alessandro Tutino.

[2] Tra i numerosi interventi dall’esterno si possono segnalare quelli della stampa della DC, del PSI, del PCI; i Convegni di corrente dei partiti di maggioranza; il Seminario dell’ILSES sulla Pianificazione Intercomunale; il Seminario della Facoltà di Architettura di Venezia sulla Pianificazione Territoriale Urbanistica nell’area milanese.

[3] Si rimanda alla relazione dell’Ufficio Tecnico per i particolari sulle ricerche e sugli studi affrontati nell’anno trascorso.

[4] Cfr.: P.I.M. - Relazione illustrativa sullo schema proposto. Seminario sulla pianificazione urbanistica intercomunale in Italia con particolare riferimento ai primi risultati del Piano Intercomunale Milanese, tenuto all’ILSES il 10-10-63. Seminario sulla pianificazione territoriale urbanistica nell’area milanese, tenuto all’Ist. di Arch. di Venezia il 14 e 15 maggio ’64. Casabella n. 282, dicembre ’63.

[5] Una rappresentazione lampante di questa situazione è data dall’assemblaggio delle previsioni dei piani regolatori locali, della rappresentazione dello stato di compromissione dei vari territori comunali, dall’analisi dei tessuti fornita dalla ricerca ILSES sui Caratteri dell’urbanizzazione nell’area milanese.

[6] È importante notare che il superamento della densità di popolazione come indice rivelatore dei fenomeni di congestione è coerente con il principio del «continuo urbanizzato» della città regione. L’idea, connessa a questo principio, dell’estensione del controllo urbanistico a tutto il territorio concepito come un unico pianificato, implica di dover giudicare le condizioni territoriali secondo una scala di valori dipendenti da una serie di relazioni tra standards. Poiché gli standards sono per loro stesa definizione variabili con le condizioni di sviluppo, con le aspirazioni dei gruppi sociali, con i livelli tecnologici, ecc., si introducono attraverso le loro serie di relazioni criteri di giudizio comprensivi dei molteplici aspetti che concorrono all’efficienza di un territorio e perciò più significativi del rapporto statico che si stabilisce tra quantità di popolazione e superficie di area occupata. Il fatto che una forte densità insediativa coesista con una strozzatura urbanistica rappresenta soltanto una frequente coincidenza: questo può consentire di servirsi della densità solo come indice di prima approssimazione.

[7] Più correttamente, se non altro da un punto di vista storico, si dovrebbe dire che lo zoning è un caso particolare del principio della dimensione conforme.

[8] A sostegno di questa schematizzazione cfr. A.Z.Guttemberg «Urban Structure and Urban Growth» (AIP n.2, maggio 1960). Nella categoria delle «attrezzature» sono compresi in questo caso anche quei fattori che vengono normalmente chiamati «strutture» e cioè le materializzazioni fisiche nel territorio delle attività produttive e residenziali.

[9] Tipico di una concezione urbanistica, fondata sul mito della funzione prioritaria dei trasporti, è il ben noto schema della “città lineare”. Inventato da Soria y Mata nel 1852, esso assume il principio di sviluppare lungo un sistema assiale di linee di comunicazione una catena continua di insediamenti e specializzazione alternata.

La struttura organizzativa già rivela in se stessa i suoi principali limiti ed in primo luogo quelli connessi con gli inevitabili fenomeni di specializzazione e di segregazione che derivano dall’espediente della segmentazione a catena. Bisogna però soprattutto considerare come tale struttura, a parte le sue intrinseche disfunzioni, non possa ammettere eccezioni né al suo interno né al suo contorno: una città lineare deviata dalla sua linea assiale oppure innestata a una struttura territoriale ramificata perderebbe ogni senso, dal momento che verrebbe ad essere contraddetto nei fatti il principio del suo funzionamento.

Per questo tutte le città lineari realizzate sono state collocate nei deserti - degli Urali, della Siberia, del Sud America o dell’India - dove hanno potuto trovare ragioni sufficienti per la loro generazione nella reale preminenza della linea di comunicazione alla quale si attestavano e ragioni sufficienti per il loro sviluppo nella totale assenza di alternative territoriali al loro intorno. In un’area già sviluppata come quella milanese la città lineare non avrebbe alcun senso perché il livello di infrastrutturazione è già troppo elevato per ammettere semplificazioni radicali e perché la distribuzione degli insediamenti è troppo articolata per consentire alla segmentazione dello schema di conservarsi integra.

[10] I fenomeni di deterioramento della seconda corona che si verificano nei poli delle aree metropolitane sono stati analizzati diffusamente da Homer Hoyt negli studi per il piano di Chicago. In queste analisi egli stesso ha rilevato come molte iniziative mosse dall’esigenza di insediarsi con livelli elevati tendano a scavalcare le aree deteriorate e ad insediarsi nella terza corona provocando alle loro spalle ulteriore deterioramento ma anche episodi di rinnovo edilizio.

Nell’area milanese un esempio evidente dell’attualità di questa tendenza è dato dall’episodio di San Donato e di quanto ha provocato nell’intorno di piazza Corvetto e corso Lodi.

Cfr. Homer Hoyt, The structure and Growth of Residential Neighbourhood in American Cities, 1939.

Chicago Plan Commission, Master Plan of Residential Land Use of Chicago, 1943.

[11] Si può osservare che anche procedendo per via tradizionale è possibile scegliere un orizzonte temporale, tra i tanti ipotizzabili, ponendolo in rapporto con i livelli di insediamento della popolazione che si prevede per il tempo fissato. In questo caso però la scelta deve essere riferita in primo luogo ai livelli ed essere aggiustata in rapporto al numero degli abitanti fino al punto in cui anche questa variabile diviene costante, fino al punto cioè in cui la soluzione è unica e l’orizzonte temporale diviene «dato».

[12] È peraltro evidente come la «circolarità» della programmazione sopra delineata, non esaurisca il contenuto di una pianificazione democratica, che si sostanzia soprattutto nelle scelte, e neppure il processo di partecipazione e di controllo dal basso che deve comprendere l’intervento di altre istanze come ad esempio quelle sindacali, a tutti i livelli.

La geografia del comprensorio e la pianificazione comunale

Fin dagli inizi del XIX secolo le nuove attività industriali che sorsero in Lombardia, costituite allora prevalentemente da filature e tessiture, si localizzarono di preferenza nel bacino settentrionale della regione.

Nella parte collinosa della Provincia di Milano, che copre i due terzi del territorio, il processo di privatizzazione delle terre pubbliche e lo smembramento della proprietà feudale, seguiti all'abolizione, nel 1797, dei vincoli giuridici che ostacolavano il frazionamento dei possessi nobiliari, comportò il rafforzamento della piccola proprietà contadina, mentre la diffusione del contratto misto, di affitto per i cereali e di mezzadria per i frutti delle colture arboree, contribu1 ad estendere la coltura del gelso e ad incrementare la produzione di seta grezza.

Nella pianura umida invece si riscontra contemporaneamente un processo di consolidamento della grande proprietà terriera borghese, frammista ai latifondi dei benefici pubblici, che diede luogo ad una conduzione rivelatasi col tempo sempre più assenteistica.

Queste condizioni avviarono, nella parte settentrionale della provincia, lo sviluppo di una fiorente industria serica che sfruttava sul posto l'abbondante produzione di seta grezza, e contribuirono contemporaneamente alla formazione di un certo grado di capacità imprenditoriali nei ceti piccolo borghesi e contadini, che costitu1 il fertile terreno di una successiva evoluzione.

L’abbondanza poi di legna e di corsi d’acqua rappresentò una ulteriore circostanza particolarmente favorevole alla lavorazione della seta grezza, e alla successiva estensione delle iniziative imprenditoriali ai settori della lana e del cotone.

Non va infine sottovalutata, fra le circostanze che contribuirono allo sviluppo della parte settentrionale del territorio, la generale tendenza per cui le frontiere di regola «separano le regioni relativamente più povere del più ricco di due paesi dalle regioni relativamente più ricche del paese più povero», tendenza che, nell’assetto geografico europeo, ha fatto nel tempo si che i termini di “nord” e “sud” diventassero rispettivamente sinonimi di sviluppo e di relativa arretratezza.

Del resto questo rapporto di dominanza si rivelerà frequentemente nel concreto intervento di operatori nordeuropei nelle prime iniziative industriali della regione Lombarda.

Nella seconda metà del secolo XIX, questa differente vocazione delle due parti del territorio, in realtà fino ad allora appena avvertita per la sostanziale modestia delle iniziative imprenditoriali, trovò conferma nella localizzazione delle prime attività siderurgiche, ovviamente legate alle zone più montagnose, ed insieme motivi di accentuazione nella configurazione della rete ferroviaria, che nel 1857 già comprendeva le linee di Torino, di Genova, di Venezia e di Como, cui dovevano aggiungersi negli anni successivi le ferrovie Nord (1879), la linea del Gottardo (1882) e il traforo del Sempione (1906): l’unica linea che attraversasse la “bassa” fu quella di Piacenza (1861), che rispondeva peraltro non tanto ad esigenze locali quanto al più vasto disegno politico di consolidamento della appena raggiunta unità attraverso la formazione di una spina ferroviaria longitudinale.

Si andò così delineando una configurazione regionale nella quale i centri settentrionali (Lecco, Como, Varese, Novara), quasi capolinea delle direttrici nord di Milano, cui furono fin da allora legati da un rapporto di tributarietà, tendevano ad acquistare il ruolo di poli sviluppati in contrapposizione con i centri relativamente arretrati della fascia sud (Mantova, Cremona, Piacenza, Pavia).

Gli assi di comunicazione radiale del capoluogo verso settentrione divennero rapidamente i bacini preferenziali di localizzazione industriale: già ai primi anni del ‘900 le industrie di maggiore rilievo come la Breda, si trasferirono all’estremo del Comune di Milano lungo le direttrici nord, e molto spesso anche gli insediamenti di nuovo impianto preferirono, come la Falck, orientarsi fin dall’inizio verso una localizzazione nella fascia piuttosto che nella città.

Il sistema degli insediamenti residenziali si appoggiò naturalmente sulla medesima struttura della rete di comunicazioni, ma, ovviamente, con una morfologia più diffusa: mentre infatti nei confronti delle localizzazioni industriali agivano i consueti fattori aggregativi che comportavano la formazione di grosse concentrazioni, la localizzazione della residenza rispondeva spesso alla necessità di assicurare un reddito misto.

Gli abitanti della fascia si inserirono infatti facilmente nel mondo produttivo dell’industria, ma mantenendo per lungo tempo inalterati i costumi di vita e i cespiti più tradizionali di reddito agricolo: lungo le direttrici di comunicazione ferroviaria si avviarono così consistenti fenomeni di pendolarità, già fin dagli inizi del secolo, estesi anche, sia pure in misura ridotta, ai comuni della “bassa”, che comportarono una diffusione più uniforme della residenza, agevolata inoltre da una rete viaria minore già allora di notevole estensione.

Durante gli ultimi cinquant’anni questo assetto geografico si è andato progressivamei1te consolidando, sia con qualche arricchimento della rete infrastrutturale che confermava le tendenze precedenti, come il sistema delle autostrade nord costruito dal 1925 al 1932, sia con il progressivo accumularsi degli insediamenti produttivi nella fascia settentrionale.

Sono andate nel frattempo emergendo altre caratteristiche secondarie, sia connesse con la progressiva specializzazione di alcune parti del territorio, sia dovute alla diversità delle morfologie insediative lungo ogni singola direttrice.

La specializzazione funzionale, la concentrazione cioè in aree relativamente ristrette di processi di lavorazione omogenei, come l’industria tessile nel sistema Busto Arsizio-Gallarate, ha arricchito notevolmente lo schema distributivo della popolazione regionale, inizialmente appoggiato sui soli centri tradizionali, articolandolo su altri e diversi livelli: nel caso citato, si è venuta nel tempo formando una conurbazione secondaria che ha acquistato il peso e l’attrazione di una vera e propria città, fino a possedere un proprio bacino d’influenza molto caratterizzato ed abbastanza esteso.

Nella Brianza la tradizione dell’artigianato del mobile si è diffusa in una vasta regione, costituendone l’efficace supporto economico, ma senza tuttavia dar luogo ad estesi fenomeni di conurbazione.

Vistosi fenomeni di questo genere si ebbero invece, già prima della seconda guerra mondiale, lungo la direttrice Milano-Monza: verso Varese e Como l’incremento naturale della popolazione e le migrazioni interne avevano infatti dato luogo ad una serie di insediamenti “a rosario” lungo le vie di comunicazione, mentre verso Monza l’elevata concentrazione portò quasi subito alla saldatura degli abitati e alla loro espansione laterale.

Gli altri centri regionali, che costituivano i vertici delle direttrici nord di Milano, erano infatti troppo distanti dal capoluogo per esser essi stessi coinvolti nel processo di sviluppo del Milanese, mentre Monza, centro di rilevante tradizione storica e fulcro del sistema brianteo, era un polo regionale di peso paragonabile agli altri, ma ben più prossimo a Milano. La ferrovia Milano-Monza, che entrò in funzione tra le prime d’Italia nel 1840, non era soltanto destinata a collegare la Villa Reale, ma corrispondeva alla necessità di realizzare una comunicazione diretta tra due centri di commensurabile importanza: nel 1861 Monza contava 26.000 abitanti, contro i 200.000 di Milano.

Lungo la direttrice corrispondente, quindi, tutti gli insediamenti industriali di nuovo impianto tendevano a localizzarsi tra Monza e Milano, e nonostante la tendenza alla diffusione della residenza, le stesse iniziative delle aziende per fornire una casa ai propri operai delinearono in quell’area una vera e propria conurbazione.

In tutti gli altri casi la morfologia degli insediamenti tradizionali non subì in questo periodo alterazioni sostanziali, sia perche gli incrementi di popolazione erano in cifra assoluta abbastanza modesti, sia perché le strutture edilizie già esistenti, costituite per la maggior parte dalle “corti” agricole, subivano delle trasformazioni interne che consentivano di ospitare un maggior numero di abitanti senza apprezzabili modificazioni nell’aspetto esterno.

In valori assoluti, tuttavia, l’incremento demografico nell’area Milanese fino al 1951 non presenta scarti eccessivi rispetto all’andamento nell’identico periodo, della popolazione in Lombardia e nell’intero Paese.

Uno solo dei gruppi di Comuni individuabili lungo le varie direttrici presenta infatti un trend notevolmente diverso da quello regionale e da quello nazionale: per gli altri si notano degli scarti modesti, anzi, addirittura incrementi inferiori alla media della Lombardia, denunciando ovviamente particolari condizioni di relativa arretratezza.

Qualche ulteriore considerazione può essere tratta dall’esame dei dati relativi alla struttura occupazionale nella Lombardia e nel Comune di Milano: si rileva in sostanza che la terziarizzazione del capoluogo è un fenomeno già delineatosi verso il 1920, mentre iniziava contemporaneamente il trasferimento alla attività industriale di una parte della popolazione agricola. Ci troviamo in sostanza di fronte a un processo di lenta trasformazione, che esploderà con l’intensificarsi dei fenomeni di migrazione interna sviluppatisi durante gli anni ‘50.

Va rilevato che questo fenomeno è assai più complesso ed articolato di quanto non si possa a prima vista ritenere: dal 1951 al 1961, nell’area del Piano Intercomunale, il saldo migratorio globale di 215.000 unità risulta da una immigrazione di 445.000. unità e da una contemporanea emigrazione di 241.000 abitanti, mentre nel Comune di Milano, dal 1951 al 1958, il rapporto tra immigrati ed emigrati è di 216.000 contro 73.000 unità, provenienti per la maggior parte (66%) dall’Italia Settentrionale, ed in misura assai meno rilevante dall’Italia Meridionale (18,8%), dall’Italia Centrale (6,5%), dalle isole o dall’estero (8,7%) 6.

Durante lo stesso periodo si riscontra un incremento più che proporzionale, tra i comuni del Piano Intercomunale, degli addetti alle attività secondarie e terziarie, cosi che sembra possibile individuare un doppio ed interrelato processo di migrazione, dal resto dell’Italia a tutto il milanese, e nell’interno del milanese e di tutta la Lombardia verso Milano.

Questi flussi caratterizzano in modo peculiare lo sviluppo dell ’hinterland di Milano, caratterizzandosi variamente nei diversi periodi che seguono la fine della seconda guerra mondiale. In un primo momento gli immigrati provengono prevalente mente dall’Italia settentrionale, e tendono a sostituire la manodopera agricola che si sta trasferendo al settore secondario e terziario, sia emigrando concretamente che rimanendo in luogo. Il trasferimento da un settore occupazionale all’altro non comporta infatti sempre l’abbandono dell’abitazione precedente, sia per motivi economici sia per il perdurare, ormai in misura ridotta e del tutto marginale, delle condizioni di economia mista localmente tradizionali: cosi i nuovi immigrati, specialmente veneti, tendono a costruirsi nuove abitazioni.

Il fenomeno non è soltanto condizionato dalla permanenza nell’abitazione precedente del contadino-operaio in termini di occupazione fisica, ma anche sotto forma di indisponibilità psicologica dell’ambiente esistente ad offrire una integrazione sociale agli estranei.

Le differenze di cultura e gli squilibri di reddito non facilita.no certo l’integrazione degli immigrati, i quali tendono a costituire cosi delle nuove comunità su base fortemente caratterizzata dalla regione di provenienza, formate per aggregazione successiva di unità unifamiliari in forma disordinata, e lontane dagli abitati esistenti: nuclei che per la loro distanza dai centri tradizionali e per le ridotte disponibilità finanziarie delle Amministrazioni fruiscono di un livello di servizi molto modesto. Queste “coree”, come verranno chiamate, sorgono sia nei comuni della fascia sia in quelli ad una maggior distanza da Milano nei quali sono tuttavia in atto le trasformazioni sopradescritte.

Contemporaneamente si delinea il fenomeno, caratteristico dei primi anni del decennio 1950-1960, di impossibilità, per i minori reddituari, di insediarsi nel capoluogo, accentuatosi specialmente con l’incremento di valore delle aree urbane seguito all’approvazione del Piano Regolatore di Milano (1953): costoro ritrovano nelle campagne circostanti, e sia pure al prezzo di massacranti pendolarità, la possibilità di reperire aree a basso costo, perché prive di servizi e al di fuori per il momento di qualsiasi prospettiva di urbanizzazione, e di indirizzare verso il più tradizionale dei beni, la casa, i primi risparmi che i modestissimi costumi di vita consentono di ritagliare nei pur magri salari industriali.

L’operazione, che nella prima fase era in parte accidentale, in questo secondo periodo diviene programmata: il proprietario del suolo agricolo confina il proprio intervento nella primordiale operazione di suddividerlo in lotti, senza urbanizzarlo e limitandosi ad inserire negli atti di cessione servitù che consentano la formazione di qualche metro di strada. Nella successiva fase di rapida espansione del nucleo l’operatore realizza il massimo profitto, facendo salire i prezzi unitari di lotti minuscoli al massimo consentito dalle modeste disponibilità degli acquirenti: in questo periodo anche i lotti più grandi vengono ulteriormente suddivisi, e serviti da una rete sempre più complessa di passaggi privati e di strade cieche che caratterizzano la morfologia delle coree.

Le densità edilizie, nonostante la frantumazione del terreno, . sono in realtà relativamente modeste perché le tipologie sono in genere di villette unifamiliari ad uno o al massimo a due piani fuori terra, più uno scantinato, e le condizioni igieniche delle abitazioni di solito soddisfacenti: l’effetto desolante è dato in parte dalla povertà dei materiali usati e, più generalmente, dall’architettura, e in parte dall’angustia delle strade e dei lotti che l’abitudine a recingere ogni modesta proprietà finisce per sottolineare.

L’inconveniente più marcato consiste in realtà nella carenza di attrezzature: le amministrazioni comunali ricevono da questi insediamenti, di livello economico molto modesto, contributi finanziari esigui, e poiché essi sono localizzati, come abbiamo visto, molto distanti dagli abitati tradizionali diventa impossibile dotarli di infrastrutture adeguate, così che il termine “corea” diventa quasi sinonimo di insediamento residenziale sottoattrezzato. Ma l’approvazione del Piano Regolatore Generale del Comune di Milano comportò, avviando un processo di rivalutazione delle aree urbane, altri e più importanti fenomeni che, innestati verso la fine del decennio sulla dinamica del “miracolo economico”, crearono le condizioni della metropolizzazione della fascia.

In un primo tempo sono gli insediamenti industriali a risentire dell’elevato costo delle aree all’interno del Comune di Milano: sia gli impianti di nuova formazione che quelli già esistenti, localizzati nel Comune ma con notevoli prospettive di espansione preferiscono insediarsi o trasferirsi nei comuni della corona, spesso addirittura in quelli contermini, dove sono disponibili vaste riserve di terreno a prezzi agricoli, e dove ancora non operano strumenti urbanistici.

Di riflesso, le aree così lasciate libere all’interno del Comune di Milano, danno occasione di attuare operazioni immobiliari su larghissima scala e di entità, anche grazie agli elevati indici di fabbricazione concessi di fatto dalle norme del Piano Regolatore Generale, talmente notevole da consentire la copertura dei costi dei nuovi impianti.

Le direttrici lungo le quali si localizzano questi nuovi impianti sono ancora quelle tradizionali: tuttavia, man mano che i prezzi delle aree in tutta la fascia il1cominceranno a salire, ed i comuni più vicini a Milano si doteranno di strumenti urbanistici, il sempre maggior livello di infrastrutturazione del territorio consentirà alle industrie più grandi di orientarsi verso comuni più lontani e situati a volte non più lungo le direttrici fondamentali, ma negli spazi intermedi, realizzando un modello spaziale caratterizzato da una sempre maggior diffusione delle attività produttive.

La capillarità della maglia infrastrutturale ha condizionato in maniera forse ancor più profonda la distribuzione spaziale delle localizzazioni residenziali: se infatti, analizzando i fenomeni di pendolarità si possono distinguere comuni prevalentemente residenziali, comuni che offrono anche possibilità di lavoro, e comuni prevalentemente industriali, tale suddivisione assume più che altro l’aspetto di una spontanea specializzazione funzionale per distretti nel quadro morfologico di una vera e propria conurbazione.

La condizione per la saldatura degli insediamenti è naturalmente costituita dalla rilevante ondata migratoria della seconda metà degli anni ‘50: si tratta ora di manodopera che entra immediatamente nel ciclo della produzione industriale, e che è quindi in parte maggiormente disponibile ad una superficiale assimilazione dei modelli culturali dell’ambiente, nonostante la notevole prevalenza dei meridionali. Anche questo conferma la sostanziale differenza con il periodo precedente, durante il quale le provenienze dell’immigrazione erano diverse.

Il fatto è che il contatto con l’ambiente industrializzato non fa diminuire la preferenza per l’investimento di rifugio tradizionale, e si assiste ad una vera e propria esplosione edilizia, connessa con una levitazione fuor di norma del mercato dei terreni.

L’operatore tipo “corea”, in questo nuovo modello di sviluppo, perde rilievo, mentre assume un nuovo ruolo l’imprenditore edile e, parallelamente, maturano nuove forme di controllo urbanistico del territorio.

I partiti delle sinistre, che amministravano la maggior parte dei Comuni della fascia, iniziarono infatti un processo di pianificazione che sembrava, allora, dotato di una sostanziale originalità.

L’avvio fu dato da un gruppo di urbanisti, militanti nei partiti della sinistra, che si proposero di fornire alle Amministrazioni una assistenza continuativa, profilando quasi una inedita figura di “urbanista condotto”: il tradizionale rapporto tra il professionista che consegna il progetto di piano abbandonandolo all’Amministrazione assume una forma più integrata, nella quale la pianificazione si configura come un processo articolato nel quale intervengono continuamente tecnici, amministratori ed operatori economici, e che sul piano concettuale tende a far coincidere la fase progettuale con quella attuativa.

Questo atteggiamento si inquadrava nella prospettiva politica di una progressiva articolazione attuata attraverso il rafforzamento delle capacità decisionali degli Enti locali, di una democrazia di base, che rappresentava allora una delle istanze di fondo della sinistra italiana.

Il procedimento, che rendeva partecipi gli Amministratori, sia pure con gravi difficoltà e reciproche incomprensioni iniziali, del processo di pianificazione, comportava la formulazione di un “piano aperto”, costituito in sostanza da una serie di alternative tra le quali si potevano di volta in volta scegliere quelle finanziariamente più convenienti per il comune.

La comparsa di grandi operatori edilizi aveva portato alla ribalta una nuova possibilità di recuperare, operando tuttavia nell’ambito delle leggi vigenti, una parte dei costi di urbanizzazione diretti ed indiretti, e di costituire un modesto demanio per le necessità più urgenti.

Con questi operatori fu possibile aprire un dialogo, fondato sulla trattativa del diritto di edificabilità, che fece della “convenzione” lo strumento principe della pianificazione nell’area milanese: attraverso di essa l’amministrazione comunale concedeva una determinata fabbricabilità, ottenendone in cambio aree, dotazioni infrastrutturali o contributi diretti. Questo procedimento consenti di attribuire una parte almeno dei costi di urbanizzazione all’operatore fondiario, e di mantenere contemporaneamente un certo controllo sulle attività edilizie, selezionando le iniziative ammissibili nella prospettiva di un piano organico, ancorché molto spesso informale. Tuttavia, esso portava dentro di se i germi di una iterazione non controllata, sia per la difficoltà dei tecnici a contenere l’ondata di richieste che la possibilità di acquisire il diritto di edificabilità, cosi delineata, comportava, sia a causa della vera e propria avidità delineatasi tra gli amministratori, che consideravano la convenzione uno strumento capace di risolvere alcune contingenti difficoltà, perdendo di vista il quadro globale: così, accanto ad alcuni piani largamente soddisfacenti, troviamo situazioni abbastanza modeste o addirittura completamente negative.

Nella volontà del gruppo di urbanisti impegnati in questa attività di assistenza, la pianificazione di base avrebbe dovuto chiudere un cerchio attorno al Comune di Milano, obbligandolo ad aprire un discorso di coordinamento con i comuni della fascia: questa prospettiva naufragò in parte per le stesse difficoltà interne della sinistra, che non riuscì mai ad operare la saldatura includendo anche Sesto S. Giovanni in questa operazione di coordinamento, né ad articolare la propria presenza nel Consiglio Comunale di Milano in maniera da consentire un più qualificato intervento in materia urbanistica.

Si potrebbe forse ritenere che in realtà questa operazione si chiuse solamente con l’avvio del Piano Intercomunale Milanese, Nei Comuni della fascia più distanti da Milano, amministrati in genere da vecchie giunte centriste che localmente assumevano molto spesso le tinte della conservazione agraria, la pianificazione urbanistica non venne neppure avviata, oppure si risolse in programmi di fabbricazione adottati più che altro per salvare la forma, e che ammettevano in pratica a consistenti edificabilità l’intero territorio comunale.

Dopo il 1961 la prospettiva di un confronto che si andava profilando nel Piano Intercomunale, e la naturale evoluzione , dei tempi. consigliò di rendere meno informali le caratteristiche dei piani convenzionati, mettendo a volte in luce preoccupanti situazioni di compromissione giuridica ma rivelando d’altra parte anche situazioni controllate con rigore, mentre contemporaneamente veniva avviato, sia pure con incertezze e attraverso numerose difficoltà, un qualche più consistente processo di pianificazione anche nei comuni fino ad allora privi di efficaci strumenti urbanistici: e forse in questo, anche se una reale politica di coordinamento è in effetti mancata, sta il principale effetto indiretto dell’istituzione del Piano Intercomunale Milanese.

Tuttavia è difficile cogliere nel territorio, alla scala microurbanistica, delle leggibili differenze morfologiche tra i comuni sottoposti a regimi urbanistici apparentemente così diversi: una qualche classificazione può essere tentata peraltro individuando alcune tipologie ricorrenti nelle diverse zone.

Nella fascia nord gli abitati preesistenti, caratterizzati da una spiccata prevalenza di strutture edilizie agricole, hanno in genere subito soltanto modifiche interne, e solo sporadicamente sono stati sottoposti ad interventi massicci che, promossi al di fuori di organici piani di rinnovamento, hanno dato luogo ad immagini grottesche.

Le zone di espansione sono in genere caratterizzate da un certo grado di commistione funzionale, specialmente nei casi di unità produttive di dimensioni modeste, che si allocano spesso in lotti situati in un contesto residenziale: le grandi industrie riescono invece a caratterizzare delle aree molto estese, che . possono essere di per se considerate delle zone industriali.

Il tessuto connettivo degli insediamenti è costituito dai terreni agricoli: l’elevato livello di infrastrutturazione viaria ha reso gran parte delle aree virtualmente disponibili per qualsiasi insediamento e poiché esse sono state utilizzate, com’era ovvio, soltanto a tratti, tra edificio ed edificio permangono vaste zone non edificate e ancora coltivate.

La morfologia delle unità residenziali si presenta, oltreché largamente discontinua, anche assai varia: accanto a case unifamiliari o a due piani, sorgono di frequente edifici che rispondono alla tipologia della cortina stradale, con il curioso effetto dato dai frontespizi nudi sui campi, in attesa di un edificio confinante che non verrà mai costruito. Qua e là, in questa campagna urbanizzata, complessi edilizi di maggior rilievo e tecnicamente meglio studiati, ma sempre di consistenza relativamente modesta, sono il risultato di iniziative immobiliari di più largo respiro e sottoposte al controllo urbanistico delle Amministrazioni, attraverso operazioni di convenzionamento.

Nell’arco meridionale e orientale, dove il costo dei terreni è .rimasto per molto tempo relativamente basso, sono stati realizzati interventi di maggiori dimensioni da parte di grandi società immobiliari, come a Pioltello o al Quartiere Zingone: tuttavia la morfologia urbanistica è, anche in questi casi, caratterizzata dalla ripetizione di un modello urbano ad elevata densità edilizia, delle vere e proprie isole della città deteriore che, perse nel paesaggio della pianura, sembrano il grottesco monumento del disordine organizzato.

Le vicende politiche

La prima proposta per la formazione di un Piano IntercomunaIe, secondo le modalità previste dalla legge urbanistica del 1942, venne avanzata dal Comune di Milano nel febbraio del 1951 mentre ancora non era stato completato l’iter di approvazione del Piano Regolatore Generale, intervenuta il 10 maggio 1953.

Il Ministero dei LL.PP. accolse la segnalazione ed autorizzò, nel settembre 1951, il Comune di Milano a prendere i primi contatti con le Amministrazioni interessate per avanzare concordemente al Ministero stesso uno schema di proposta di decreto che precisasse meglio i limiti del comprensorio e le modalità di partecipazione agli studi dei diversi comuni, contatti che vennero effettivamente avviati nel 1952.

L’iniziativa si insabbiò, sia perché si scontrò con l’insofferenza dei Comuni minori per una forma di pianificazione, che, sin dalle sue origini e nella sua stessa strutturazione operativa così come si stava delineando, confermava il ruolo egemonico del capoluogo, sia perchè lo stesso Comune di Milano, dopo l’approvazione del Piano Regolatore Generale, si trovò impegnato in una difficile fase attuativa che non lasciava molto spazio ad un allargamento delle prospettive, sia infine perché i sopravvenuti studi per il piano territoriale di coordinamento della Lombardia fecero ritenere più opportuno attenderne i risultati.

Fu appunto in seguito a questi primi studi che il Consiglio Comunale di Milano, nel novembre 1955, ripropose con apposita delibera consigliare la formazione del Piano lntercomunale per un comprensorio che comprendeva ora solamente 51 comuni, contro i 79 della primitiva proposta che il Centro Studi per il Piano Territoriale della Regione Lombarda considerava eccessivi, e che suggeriva di suddividere in tre piani distinti, uno per il milanese, uno per le zone di Busto Arsizio ed uno per la zona di Seregno-Lissone.

La delibera non ebbe allora seguito, sia per la prossimità delle consultazioni elettorali amministrative, sia perché le condizioni politiche del comprensorio apparivano allora fortemente disomogenee.

L’Amministrazione di Milano era infatti, in quegli anni, sostenuta dai partiti della coalizione centrista, secondo una formula politica che si andava peraltro logorando, più celermente di quanto avvenisse a livello governativo, mentre gran parte dei comuni del Comprensorio, specialmente nella fascia settentrionale e più generalmente quelli immediatamente confinanti col capoluogo, era retta da Giunte di sinistra.

La proposta, che non incontrava opposizioni tecniche, apparve politicamente di molto difficile attuazione, specialmente se si tiene conto delle nuove forme di politica urbanistica che alcuni comuni minori andavano sviluppando: essa venne tuttavia inviata al Ministero dal Comune di Milano con una sollecitazione ad emettere comunque il decreto, sul finire del 1958, facendo esplicito riferimento al precedente del piano intercomunale di Torino.

Il Ministero dei LL.PP. emise difatti il decreto agli inizi del L959, riducendo il numero dei Comuni a 35: esso prevedeva che gli studi dovessero essere svolti da un Comitato tecnico composto di tredici rappresentanti dei diversi Enti operanti sul territorio, e di otto esperti, quattro nominati da Milano e quattro designati dagli altri Comuni, ed indicava inoltre i criteri di suddivisione delle spese proporzionalmente agli abitanti. n decreto suscitò violente reazioni da parte dei Comuni minori, alcuni dei quali, attraverso la Lega dei Comuni Democratici, promossero un’azione di illegittimità presso il Consiglio di Stato, che alcune incongruenze formali dell’atto sembravano giustificare ampiamente e che, comunque, segnalando la precisa volontà di una diversa prospettiva politica, rendevano praticamente impossibile l’avvio del processo di pianificazione così come era stato imposto.

Erano tuttavia venute maturando nel frattempo delle condizioni obiettivamente più favorevoli alla formazione di un Piano Intercomunale.

Anzitutto il varo di una prospettiva di collaborazione tra il Partito Socialista e la Democrazia Cristiana determinò una situazione di maggior distensione tra il Comune capoluogo, che per primo abbracciò la formula del centro-sinistra, ed i Comuni della fascia che rimasero peraltro retti, secondo le direttive del Congresso Socialista, anche dopo le elezioni amministrative del 1960, dalle tradizionali maggioranze di sinistra.

D’altro lato l’esigenza di un coordinamento della pianificazione comunale ad un livello comprensoriale, che era stata sempre presente, come si è visto, nell’azione degli urbanisti che operavano nei centri minori della provincia, li rendeva sostanzialmente disponibili per un esperimento di pianificazione intercomunale, purché naturalmente fosse modificato il quadro istituzionale proposto dal Ministero dei LL.PP. Non che le tradizionali diffidenze nei confronti del capoluogo, che avevano provocata una così vasta ondata di irritazione, fossero improvvisamente sopite, ma ci si stava rendendo conto che l’apparente volontà di sopraffazione del Comune di Milano, sul filo di una tradizione annessionistica e formalmente colonizzatrice, non solo poteva essere temperata, ma, attraverso una corretta impostazione del Piano Intercomunale, si poteva invece tentar di evitare che le più elevate capacità di investimento di Milano continuassero a svalutare i territori contermini, prospettando una politica riequilibratrice sulla scala territoriale. In questo quadro politico ed entro queste prospettive tecniche maturò l’accordo tra i comuni inclusi nel decreto ministeriale per avviare la pianificazione intercomunale non più nelle forme di dipendenza da Milano, profilate appunto dal decreto ministeriale, ma su un piano di parità.

I Sindaci dei 35 Comuni si costituirono dunque una Assemblea, nella quale ciascuno di essi, compreso Milano, aveva diritto ad un solo voto, esprimendo così una chiara volontà di affrontare i problemi del territorio su un piano di pariteticità, ed enunciarono gli obiettivi che intendevano perseguire dandosi un ordinamento urbanistico comune: la dichiarazione dei Sindaci (5 novembre 1961), successivamente integrata da altri documenti, accolse in sostanza le implicite tesi dei Comuni minori, riaffermando, sia pure con una certa ingenuità, generiche finalità di riequilibrio territoriale e di perequazione finanziaria.

Questa concordanza politica formale, attuata nella convergenza in un unico organismo sia dei partiti del centro sinistra che dei comunisti, non soltanto cioè delle maggioranze ma anche delle minoranze, dato che i liberali e i socialdemocratici erano nei paesi della Provincia praticamente inesistenti, venne sottolineata dall’impegno di assumere tutte le decisioni all’unanimità, impegno che, nonostante la garanzia dei partiti politici che solo impegnandosi direttamente avrebbero potuto consegui re un simile vasto consenso, obbligava comunque gli estensori del Piano a proporre soluzioni che risultassero politicamente negoziabili tra le segreterie dei partiti e gli amministratori.

L’Assemblea designò una Giunta esecutiva presieduta, come del resto l’Assemblea stessa, dal Sindaco di Milano e in concreto dall’ Assessore all’Urbanistica, che già allora era Filippo Hazon, Giunta che avrebbe dovuto assolvere presso i tecnici l’indispensabile ruolo di contestazione politica.

Il criterio di nomina degli urbanisti incaricati della redazione del piano suggerito dal decreto ministeriale, se conservava la sua validità per la parte relativa alla partecipazione delle rappresentanze degli enti, diveniva in questo quadro difficilmente accettabile, e venne sostituito da una designazione unanime di tutta l’Assemblea, sulla base delle indicazioni concordate tra i partiti.

Le trattative per la nomina degli otto urbanisti furono peraltro lunghe e laboriose e, nonostante il peso che vi ebbero alcuni amministratori, furono sostanzialmente condotte dalle segreterie dei partiti; e poiché, come si è già detto, socialdemocratici, repubblicani e liberali, erano in provincia praticamente inesistenti, il Partito Socialista, il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana, designarono praticamente due tecnici ciascuno, e la presidenza fu affidata ad una personalità genericamente progressista, ma non notoriamente legata ad una posizione politica codificata.

Fin dal primo momento si riconobbe la necessità di affiancare al Comitato tecnico un Comitato economico, che non era stato previsto nel decreto ministeriale: l’incertezza sui suoi compiti e sulle sue attribuzioni impedirono peraltro di assegnargli uno stato giuridico ed un apposito finanziamento che gli consentissero di funzionare concretamente, ma permisero d’altra parte che in questa fase le trattative per la sua formazione fossero in sostanza assai più semplici di quelle per il comitato tecnico.

La Lega dei Comuni Democratici propose anche la costituzione di un Comitato d’attuazione, chiaramente derivato dalle esperienze metodologiche della pianificazione di base, ma il suggerimento non venne allora accolto.

Una notevole influenza su queste trattative esercitò anche, sia pure indirettamente, l’Istituto Lombardo di Studi Economici e Sociali (ILSES), allora appena costituito, che sembrava in quel momento destinato a diventare il naturale punto di appoggio dell’attività amministrativa della nuova formula politica: alcune delle persone inserite nel comitato tecnico erano infatti contemporaneamente impegnate nell’attività dell’Istituto, e vi rivestivano anche posizioni di responsabilità, mentre altre, che con esso non avevano ancora rapporti stabili, gli erano notoriamente considerate assai vicine. La fiducia concessa all’ILSES, che doveva nel tempo venire pian piano a mancare, e la funzione attribuitale di Centro Studi non condizionò soltanto la nomina di alcuni dei membri del Comitato tecnico, ma ebbe profonde conseguenze anche nella strutturazione operativa del piano intercomunale; parve infatti ragionevole ed opportuno affidare la maggior parte delle ricerche direttamente all’ILSES, costituendo un Ufficio tecnico in parte sottodimensionato, e diretto, per sottolinearne il modesto ruolo da uno dei membri del Comitato tecnico, l’ing. Secchi. Questa scelta comportò tuttavia due conseguenze: in primo luogo un Ufficio tecnico scarsamente efficiente, non fu in grado di avviare la raccolta della documentazione di base indispensabile per impostare una pianificazione, minimamente fondata, come la cartografia o il mosaico dei piani, carenza che, oltre a condizionare la genericità dei risultati raggiunti dal Comitato tecnico, ne sottolineò anche gli aspetti di incertezza; in secondo luogo, il programma delle ricerche fu apparentemente stilato secondo un criterio che rispondeva più ad esigenze di interna aderenza del programma dell’ILSES piuttosto che alle concrete necessità del Piano Intercomunale.

A questa struttura stabile, vennero affiancate numerosissime Commissioni destinate a dare il loro contributo su una serie di problemi settoriali; la formazione di queste Commissioni rispondeva da un lato ad una generale vocazione della professione, che incominciava ad orientarsi verso le commesse di enti pubblici, e dall’altro corrispondeva ad una lunga tradizione di larga partecipazione professionale alla pianificazione milanese, che era incominciato con il concorso per il Piano di Milano del 1927, aveva trovato una conferma nella articolazione dei lavori per il piano del 1953 e nelle ricerche, già allora avviate, per la sua revisione, e che si era più recentemente confermata nell’iniziativa dei Convegni sugli Sviluppi di Milano, organizzati dal Collegio Regionale degli Architetti, che avevano trovato una larga eco e che avevano suscitato un vasto interesse. Queste Commissioni vennero però convocate assai di rado, e l’insoddisfazione dei tecnici che ne facevano parte e che non avevano avuto occasione di operare non fu l’ultimo dei motivi di insoddisfazione destati dai lavori del Piano Intercomunale.

All’interno del Comitato tecnico, i membri che venivano dall’esperienza della pianificazione di base e che tendevano ad allargare la scala dell’intervento mantenendone intatto il quadro metodologico, realizzando cosi un antico disegno, suggerirono e fecero accogliere quegli orientamenti, che avevano guidato il loro operare negli anni precedenti: il principio di non distinzione tra il piano e la sua attuazione, una volta accolto, consenti la definizione del piano come procedura, e costituisce uno degli elementi di base del progetto presentato all’ Assemblea dei Sindaci il 25 luglio 1963.

Questa concezione peraltro trovava una condizione di obiettiva debolezza nell’incapacità degli amministratori di costituirsi, a questo livello, come interlocutori di un processo dialettico, riproducendo le condizioni della pianificazione a livello comunale: si esaurì quindi in una dichiarazione di principio, cui non segui ne poteva seguire una qualche forma di concreta processualità. Essa si sovrappose del resto con altre suggestioni, formalmente analoghe, che derivavano dalla cultura internazionale, e che vennero introdotte nel Piano Intercomunale, sia pure nel quadro di un accordo sostanziale, sotto la forma un po’ accademica di un modello precostituito.

Il progetto presentato all’ Assemblea dei Sindaci il 25 luglio 1963, dopo un anno e mezzo di lavoro, rappresentò, nel complesso, una delusione.

La delusione fu anzitutto, se cosi si può dire, di ordine sentimentale. Il Piano Intercomunale Milanese, partito nell’entusiasmo di una concorde associazione di amministratori, col concorso formale dei tecnici più qualificati, con l’accordo tra i partiti politici non solamente della maggioranza ma anche della opposizione, con a disposizione un istituto di ricerche come l’ILSES, con una dotazione di mezzi finanziari che noi possiamo giudicare oggi insufficiente ma che certo appariva inusitata in quegli anni di difficoltà, che aveva destato grandi aspettative nei tecnici e nei politici, presentò un progetto di piano che costituì, al suo apparire, motivo, se non subito di delusione, certo di grave perplessità.

I Sindaci dell’Assemblea, che si era nel frattempo allargata invitando altri comuni, originariamente non compresi nel decreto, a farne parte, e che comprendeva così 94 comuni ed operava su un “comprensorio di studio” di 135, accolsero con molta incertezza il piano “a turbina” , senza forse afferrarne pienamente il contenuto tecnico ma impressionati comunque dal dispiegamento di un tale apparato concettuale e dalla apparente concordia dei tecnici e degli amministratori della Giunta che lo presentavano e se ne rendevano così garanti.

Le critiche più violente emersero in verità dalle discussioni sviluppatesi nei mesi seguenti negli ambienti tecnici, sia da parte degli economisti che degli architetti, piuttosto che al livello degli amministratori, i quali rimasero in sostanza estranei al dibattito.

Le ricerche effettuate, e che erano state pubblicate assieme al modello, in cinque grossi volumi ciclostilati, apparvero, anche ad un sommario esame, largamente insoddisfacenti: alcune di esse trattavano problemi ed aspetti così generali da sembrare suggerite, come si è già osservato, dall’interna logica del programma di ricerche dell’ILSES piuttosto che dalle reali esigenze del Piano Intercomunale; quelle di più diretto interesse operativo erano, o perché l’ufficio tecnico del PIM era ancora in fase di organizzazione o perché l’ILSES non era attrezzata a sufficienza per delle indagini sul campo, palesemente incomplete; mancavano infine ricerche che avrebbero dovuto essere considerate fondamentali, come quelle sui trasporti e sulla localizzazione industriale.

Gli economisti dell’ILSES, che d’altra parte, come vedremo, non erano privi di responsabilità, sia pure indirette, nel processo di formazione del piano, lo attaccarono con estrema violenza, definendolo addirittura “un elegante pastiche privo di reale contenuto scientifico”, aprendo una prima fase di contrasto tra urbanisti ed economisti, preludio della successiva incomprensione tra tecnici e politici.

In sostanza gli urbanisti chiedevano agli economisti di definire le diverse soglie, mentre gli economisti si aspettavano dagli urbanisti la presentazione di alcune alternative omogenee che avrebbero dovuto venir confrontate secondo un bilancio di costi e benefici, la cui metodologia non era stata peraltro ancora ben determinata: poiché, oltre alla mancanza di un quadro generale valutabile in sede economica, non esistevano neppure dei piani di settore con le corrispondenti ricerche di base, gli economisti considerarono nel complesso la proposta gratuita. Lo schema aveva destato delle perplessità anche nel mondo degli urbanisti, sia per l’apparente disgregazione della forma che comportava, sia perché in concreto non era chiaro il criterio che era stato seguito nella individuazione dei diversi tessuti proposti.

La crisi tecnica del modello coinvolse anche gli amministratori, le cui perplessità ed incertezze, che al primo momento erano stati forse propensi ad attribuire ad una propria impreparazione, si rivelarono invece corrispondenti averi dubbi di carattere tecnico ed incrinarono ovviamente la primitiva fiducia nei confronti dei tecnici.

Si apri allora una violenta e profonda crisi, che implicò il riesame delle strutture stesse che il Piano Intercomunale si era dato: l’Ufficio tecnico venne potenziato, il comitato tecnico venne ristrutturato accogliendo alcune richieste e chiamando tre economisti a farne parte e, per raccogliere le istanze di quanti ritenevano inadeguata la “forma” del piano, affiancando ad alcuni dei componenti il comitato tecnico precedente, un architetto direttamente imposto dalla segreteria provinciale della Democrazia Cristiana.

A questo rilancio delle strutture interne del Piano Intercomunale corrispose un allentamento dei rapporti con l’ILSES, che fu, a torto o a ragione, considerato corresponsabile del fallimento tecnico del primo modello, nel quale aveva avuto così larga parte: e d’altronde, negli ambienti dell’ILSES e degli urbanisti prevaleva l’idea di un atteggiamento di attesa, giustificata dalla circostanza che il progetto della nuova legge urbanistica sembrava di imminente approvazione ed avrebbe comportato una diversa struttura politica del comprensorio, evitando le forche caudine dell’unanimità che sembrava ovviamente molto difficile da raggiungere.

In questo quadro, per liberare dalle preoccupazioni più contingenti il comitato tecnico, fu creato un gruppo problemi urgenti (G.P.U.), che nel nome e nella sigla illustra ed allude alla funzione di controllo svolta nei confronti delle iniziative degli enti locali e delle amministrazioni decentrate dello Stato, cercando se non altro di coordinarle tra di loro e di omogeneizzarne i presupposti.

Questa nuova fase dei lavori, iniziata nel febbraio del ‘64, fu caratterizzata da alcuni miglioramenti nel settore operativo, dato che l’ufficio tecnico, sia pure nei limiti di un bilancio che si andava rivelando, con circa 200 milioni annui, del tutto sproporzionato ai compiti che il piano avrebbe dovuto assumersi, riuscì comunque ad impostare alcune ricerche di base sull’agricoltura, sulla pianificazione comunale ed altre, mentre contemporaneamente venivano approntate le indispensabili documentazioni cartografiche.

Dal punto di vista metodologico, non parve si fossero create le condizioni di un gran miglioramento: gli amministratori avevano preferito ignorare le richieste dei tecnici, i quali avevano osservato che la originaria definizione degli obiettivi era troppo vaga e che sarebbe stato necessario, per procedere oltre, averne una formulazione più articolata; e d’altra parte i politici rimproveravano ai tecnici di non aver fornito delle leggibili alternative, sulle quali essi avrebbero potuto più facilmente specificare i propri obiettivi.

Il Comitato tecnico sarebbe forse stato in grado, sulla linea dello schema del 25 luglio, di raggiungere in qualche mese quell’approfondimento necessario per avviare un concreto processo di pianificazione, ma l’introduzione di uomini nuovi, che desideravano naturalmente riprendere il discorso nei suoi termini iniziali, comportò una notevole perdita di tempo: in una prima fase nel tentativo di comporre le divergenze che si erano manifestate, ed in una seconda fase nella preparazione di tre alternative distinte che, sia pure abbastanza simili nelle direttrici fondamentali, comportavano due piani diversi e oltretutto concepiti con orizzonti temporali e sulla base di presupposti metodologici molto differenti, e quindi tra di loro non confrontabili.

Così, l’incapacità dei tecnici a trovare un unanime accordo e dei politici a designare con precisione i loro obiettivi, condussero ad una situazione di crisi che poteva venir superata soltanto con l’assunzione di più larghe responsabilità, anche tecniche, da parte degli amministratori.

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L'approvazione del nuovo P. R. ha dato luogo, fra i tanti fenomeni urbanistici nuovi, a quello per cui molta edilizia, o per insofferenza di vincoli di P. R. previsti dal Comune di Milano od anche per limitata estensione delle zone edificatorie (sia residenziali che industriali), ha preferito l’ubicazione extra comunale nei paesi circonvicini, ove, non esistendo alcun vincolo di Piano Regolatore, si possono soddisfare più liberamente le esigenze edilizie di carattere particolaristico.

Questo indirizzo della iniziativa edilizia privata comprometteva però sempre più la zona dell’alto milanese verso cui si esplica la direttrice di espansione, zona purtroppo già gravemente turbata dalle vicissitudini urbanistiche degli ultimi cinquant’anni. Équindi stato necessario riprendere le mosse per conseguire l’autorizzazione all’apprestamento del progetto di piano intercomunale per il quale fin dal 1951 il Comune di Milano aveva chiesto al Ministro dei LL. PP. l’inerente decreto di autorizzazione.

Le ragioni di carattere urbanistico che determinarono la richiesta autorizzazione sono, oltre quelle sopra citate, molteplici e si possono così riassumere:

opportunità o meglio necessità di una migliore organizzazione della vita e delle funzioni della città di Milano, funzioni che non si possono più limitare al comprensorio comunale, ma vanno proiettate in un intorno di località satelliti che devono essere considerate parte integrante della Città per le reciproche notevolissime influenze.

Identiche. furono le condizioni che orientarono i Piani nelle grandi città straniere come Berlino, Londra, Parigi; infatti i Piani della regione londinese, parigina, berlinese vennero studiati ed adottati con lo scopo di regolare urbanisticamente la vita ed i rapporti economico-sociali esistenti tra una grande città e la sua immediata zona di influenza. Tale zona di influenza richiede piani che investono problemi affini e concordanti per condizioni storiche, geografiche, per ragioni di vita comune alle varie località e a Milano, usi e costumi ecc.

Se in Italia si dovessero scegliere le località che per le ragioni sopra espresse hanno la necessità di un piano intercomunale inteso come sistemazione urbanistica omogenea ed organica di un grande centro e dei limitrofi abitati, anche con uno sguardo del tutto superficiale, l’occhio si poserebbe in primo luogo su Milano e il suo intorno che maggiormente presenta i requisiti e le necessità di un provvedimento del genere per i sovvertimenti di carattere urbanistico che da cinquant’anni a questa parte vanno modificando i valori originali in un continuo superamento di nuove installazioni edilizie sia industriali che residenziali.

Quanto sopra espresso è apparso evidente durante la preparazione del Nuovo Piano Regolatore che se, come limiti attuativi del piano, si è dovuto arrestare ai casuali confini territoriali del Comune, come studio dovette estendersi ad un campo e ad una visuale molto più ampia, prendendo in considerazione schemi urbanistici della zona di influenza più immediata della Città.

Questo guardare al di là dei confini comunali non è stato certo suggerito da un concetto egemonico o espansionistico o dal desiderio di voler dominare urbanisticamente sulle minori località attornianti la metropoli, ma dalla semplice constatazione che gli interessi urbanistici di Milano e dei Comuni vicini sono così connessi che non possono essere distinti.

Poiché la legge non consentiva però di predisporre un P.R. che investisse anche altre località, se non attraverso il Piano Intercomunale, si è dovuto limitare il P.R. vero e proprio al solo territorio Comunale, il che ha determinato e determina tuttora una vera frattura urbanistica sopratutto dove la continuità edilizia tra Milano e i Comuni vicini è ormai in atto.

Sin da allora si intuiva che dette circostanze avrebbero provocato, come effettivamente provocano ora che il Nuovo Piano Regolatore è operativo con tutti i suoi vincoli, i seguenti inconvenienti.

Il Nuovo Piano Regolatore ha organizzato una ordinata zonizzazione per tutto il territorio comunale; per eludere detti vincoli l’edificazione si esplica appena fuori del confine del territorio del Comune di Milano ove, poiché tutto è libero da piani regolatori, dilaga ormai (e peggiorerà sempre di più) il “caos” urbanistico.

É da notare che si potrebbe a questo riguardo documentare la tendenza a costruire industrie più o meno nocive ed abitazioni, appena al di là dei confini Comunali, che per la loro modesta distanza dal Centro della Città devono essere considerati ancora Milano, ma che sfuggono per le ragioni sopra indicate alla regolamentazione urbanistica della metropoli.

D’altra parte l’evoluzione cittadina, costretta entro gli angusti limiti del territorio Comunale, tende a sovvertire i vincoli di Piano Regolatore “rosicchiando” continuamente ai margini dei vincoli di edificabilità previsti dal Piano Regolatore ed ingrandendo sempre di più l’aggregato urbano della metropoli di modo che essa tenderebbe a diventare una “Megalopoli”, come ben definisce il Mumford questi complessi.

I motivi della continua erosione dei limiti della zona edificatoria vanno ricercati nel fatto che la metropoli, per l’organizzazione dei suoi nuclei e dei suoi servizi, non può provvedere in un campo più vasto che possa interessare le località viciniori, ma è costretta a ricercare le sue soluzioni sempre ed ineluttabilmente entro i confini del territorio comunale.

Occorre quindi, mediante un Piano Intercomunale, creare più ampi orizzonti alla fabbricazione evitando la tendenza a ridurre continuamente le aree destinate a verde agricolo il che a lungo andare riporterebbe in un futuro non molto lontano all’errore fondamentale del P. R. ‘34 che prevedeva la fabbricazione indifferenziata a macchia d’olio su tutto il territorio Comunale.

Il Piano Intercomunale avrà il compito di indirizzare l’edilizia industriale e residenziale in quei luoghi che urbanisticamente meglio vi si prestano, con una valutazione omogenea e larga di tutti gli interessi che vi concorrono, tenendo presente appunto la necessità di riservare nei vari quartieri vaste zone di verde che ancora oggi è possibile ottenere al di fuori dei confini Comunali. In tal modo si procureranno a tutte le zone buone condizioni di vita, di igiene e di salubrità: ciò che può essere ancora fatto se si interviene tempestivamente.

Tutte le località interessate dal Piano Intercomunale godranno dei benefici che deriveranno dalla nuova organizzazione urbanistica, tenuto conto che molte delle località da comprendere nel Piano Intercomunale avranno la possibilità di migliorare zone che, per effetto di un’edilizia irrazionale, di installazioni industriali indiscriminate, sono ora assai compromesse.

Ne è prova il fatto che nell’alto milanese l’invasione industriale ha addirittura aggredito certe zone sovvertendone tutti i valori originali, anche quelli di una buona urbanistica; basta per convincersene procedere a qualche sopraluogo negli immediati dintorni della Città soprattutto nel settore Nord e controllare, nelle tavole che si allegano, l’evoluzione del numero degli abitanti di alcune località dal 1881 ad oggi.

Strettamente legato al problema della zonizzazione è il ! problema dei trasporti e della circolazione: problemi che .si risolvono soltanto con la realizzazione di un’organica rete stradale. Basta pensare a tutte le strade che immettono in Milano e che collegano le località viciniori a Milano, ed alla necessità di separare il grande traffico dalle vie di traffico locale portante tutto quel cospicuo e promiscuo movimento deter~~ minato dai reciproci interessi di lavoro e di vita delle varie località prossime a Milano.

In base a queste considerazioni veniva segnalato nella richiesta originaria del 23 febbraio 1951 (Atti del Comune N. 187738 P. R. 4060) un comprensorio di settantanove comuni, scelti tra quelli che avevano particolari ragioni economico-sociali di legame con la metropoli.

Il Ministero dei Lavori Pubblici alla proposta originaria sopradetta rispondeva con la lettera che qui di seguito si riporta:



Questo Ministero ha sottoposto all’esame del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici la proposta del Comune di Milano di redigere un Piano Intercomunale nel quale sia compreso, oltre il proprio territorio, quello di altri 79 Comuni limitrofi.

Il predetto Consesso, con voto n. 2681 emesso nell’adunanza del 2 agosto 1951 e di cui si unisce copia conforme, ha espresso l’avviso che possa autorizzarsi il Comune di Milano a redigere detto Piano Intercomunale, subordinatamente alla presentazione di un concreto programma di studio - da sottoporsi all’ esame di quel Consesso - nel quale siano precisati gli elementi necessari per definire i limiti del comprensorio, le modalità di partecipazione agli studi dei Comuni interessati e le previsioni di spesa con l’indicazione della relativa quota a carico di ciascuno dei Comuni medesimi.

Questo Ministero fa proprio il parere del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici ed autorizza pertanto, ai sensi dell’art. 2 della Legge Urbanistica 17 agosto 1942, il Comune di Milano a redigere il Piano Intercomunale di cui trattasi riservandosi - questo Ministero medesimo - di determinare l’estensione del piano e la ripartizione della spesa fra i Comuni interessati nonché gli altri elementi che esso riterrà opportuni allorquando il Comune di Milano avrà presentato un concreto programma di studio, giusta quanto suggerito dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici col voto sopraindicato.

Il Ministro (Aldisio)

Per poter però soddisfare a quanto richiesto nella prima parte dell’ultimo capoverso della lettera del Ministero dei Lavori Pubblici, riportata, occorreva prima che il Comune di Milano formulasse un abbozzo di Piano Intercomunale atto a dimostrare l’opportunità dell’inclusione in base alle esigenze urbanistiche dei rispettivi Comuni interessati, in modo che il Ministero potesse decidere l’inclusione o meno dei vari Comuni in base ai presupposti urbanistici di tale abbozzo.

Per la elaborazione di tale abbozzo il Comune di Milano:

a) organizzò un Ufficio embrionale per l’espletamento delle prime indagini;

b) cercò di agganciare i Comuni immediatamente limitrofi al comprensorio Comunale per indurli a collaborare.

All’uopo promosse una riunione dei vari Sindaci con i quali si discussero i vantaggi di un Piano Intercomunale ; successivamente inviò ad ogni Comune interpellato lo stralcio del Piano Regolatore di Milano comprendente il territorio confinante con il Comune finitimo interessato, perchè ognuno formulasse le proprie osservazioni e proposte nei riguardi del coordinamento delle rispettive attività edilizie in corrispondenza ai rispettivi confini per poter di comune accordo risolvere i problemi più immediati.

Mentre nei riguardi del punto a) il Comune ha potuto predisporre alcune statistiche preliminari, nei riguardi del punto b), e cioè della collaborazione con i Comuni finitimi, non si ebbero risultati apprezzabili e l’abbozzo di Piano Intercomunale da inviare al Ministero non poté essere elaborato.

Frattanto con l’approvazione del Piano Regolatore Generale si accentuò il fenomeno di costruzioni extra Comune di cui si è parlato sopra. D’altro canto si iniziava allora la stesura, da parte del. Centro Studi presso il Provveditorato alle 00. PP. della Lombardia, del Piano Territoriale Regionale cosicché l’iniziativa Comunale di un Ufficio per la raccolta di dati risultava in un certo senso superata perchè dette indagini venivano parallelamente fatte dal Centro Studi predetto.

Il Comune decise allora di rimandare la risoluzione del problema del Piano Intercomunale a quando fosse approntato un primo abbozzo di Piano territoriale sia pure di grande massima.

Le caratteristiche del Piano territoriale sono diverse da quelle del Piano Intercomunale, quest’ultimo è un insieme di Piani Generali comunali coordinati fra di loro. Il Piano territoriale non può quindi soddisfare gli scopi del Piano Intercomunale, né può quindi sostituirlo; può però dare le direttive per l’apprestamento del Piano intercomunale dimodochè, analizzando l’abbozzo di Piano Regionale della Regione Lombarda in quegli elementi che interessano la suddivisione del territorio nei vari Piani Intercomunali, si è rilevato che si può ridurre il numero dei Comuni da includere al Piano Intercomunale di Milano, limitandolo ai soli Comuni contermini al Comune di Milano o che abbiano una edificazione pressoché senza soluzione di continuità con quella del Comune di Milano.

A questo punto di elaborazione del Piano Regionale viene quindi utile ed opportuno anche riprendere il prospettato Piano Intercomunale per il quale si possono fare le seguenti nuove proposte:

Sentito anche il Centro Studi per il Piano territoriale della Regione Lombarda, il quale conferma la necessità di Piani Intercomunali nella zona prospettata con la proposta di P.I. del ‘51, si ritiene opportuno dividere tale comprensorio in due grandi Piani Intercomunali, quello della zona di Busto e quello della zona prettamente Milanese, dimodochè il Piano pertinente a quest’ultima zona sia ridotto, come si dice più sopra, alle località ed ai Comuni che hanno una diretta e reciproca influenza ed interferenza con Milano.

Secondo questa nuova concezione il Piano Intercomunale comprenderà 41 comuni come si può vedere dall’allegata planimetria.

Si è proposto che la spesa per l’apprestamento del Piano Intercomunale sia ripartita tra il Comune di Milano e i Comuni interessati proporzionalmente al numero degli abitanti.

Sia la raccolta dei dati che la progettazione dovranno essere fatte per ogni Comune da un urbanista designato dal Comune interessato d’intesa con il Comune di Milano.

Le soluzioni dovranno essere studiate d’accordo con il Comune di Milano, con il Centro Studi per il Piano territoriale e con l’ Amministrazione Provinciale di Milano.

La raccolta dei dati dovrà essere rappresentata da un censimento urbanistico sul tipo di quello eseguito per il Piano Regolatore del Comune di Milano, tenuto conto anche dei nuovi criteri adottati per la revisione in corso.

La progettazione dovrà prevedere quanto esposto all’articolo 7 della legge 17 agosto 1942 ai punti 1° 2° 3° 4°, e nella scala 1: 25.000.

Inoltre il Comune di Milano dovrà provvedere alla stesura globale e definitiva del Piano Intercomunale al 25.000.

Gli studi preliminari del Piano Intercomunale si sono sviluppati in tre settori, due dei quali prettamente statistici, e riguardanti l’incremento della popolazione nei singoli Comuni del comprensorio del Piano Intercomunale dal censimento originario del 1881 al censimento del 1951.

Tali studi statistici dimostrano chiaramente l’enorme incremento ed il conseguente sovvertimento urbanistico nel settore a Nord del Comune di Milano che va da Nord-Ovest a Nord-Est, mentre nella parte Sud la situazione è rimasta pressoché stazionaria, subendo solo quell’incremento di ordine naturale che hanno subito tutte le località del Basso Milanese.

Di qui la giustificazione dell’interesse avuto nel determinare i limiti del Piano Intercomunale che prevedono uno sviluppo quasi completamente rivolto verso Nord e precisamente in modo da allacciare tutte le località che hanno subito in questi ultimi anni il fenomeno di sviluppo che viene solitamente segnalato come sviluppo industriale e conseguentemente residenziale dell’Alto Milanese, limitando invece ai Comuni contermini al territorio del Comune di Milano la parte Sud per quegli allacciamenti e provvedimenti immediati occorrenti tra il Comune di Milano e tali località.

Il fenomeno della espansione di Milano verso Nord viene individuato anche entro i limiti del territorio della Città stessa dove la edificazione preme enormemente verso i confini Nord comunicando tale pressione anche sulle località dell’ Alto Milanese.

Altra indagine di carattere statistico è quella riflettente lo sviluppo delle attività economico-industriali con riferimenti, come anno di partenza, al 1881, anno in cui furono censite, non per comune ma per distretto, le attività economiche.

Nel 1881 appunto si vede nei distretti a Nord la prevalenza dell’attività agricola, mentre per gli stessi distretti nel 1936 ed ancor più nel 1951 l’attività agricola è continuamente diminuita per lasciare il posto ad una strabocchevole attività industriale che invadendo tutte le zone di espansione Nord ha creato un disordine urbanistico enorme; e non si deve essere considerati profeti se si afferma che tale disordine tra breve tempo sarà enormemente aumentato se non si arriverà presto attraverso un Piano Regionale ed Intercomunale ad arginare questa espansione indiscriminata.

Si espone qui di seguito il numero degli abitanti dediti ad attività industriale nei quattro circondari di Milano, Monza, Gallarate e Abbiategrasso negli anni 1881 e 1936.


Circondario 1881 1936
Milano 124.000 338.000
Monza 38.500 136.000
Gallarate 28.500 124.000
Abbiategrasso 16.000 40.500

Naturalmente tutto questo sovvertimento dei valori originari per l’aumento della popolazione e della situazione industriale è collegato a innumerevoli problemi di traffico.

La terza indagine che questo Comune ha provveduto a fare è stata una analisi sul posto, fatta mediante sopraluoghi, di come lo sviluppo di popolazione e quello industriale si è effettuato nei vari territori Comunali, per individuare quali fossero anche le direttrici di sviluppo naturale che dipartendosi da Milano si proiettavano verso l’esterno.

Alla domanda: come questa edilizia sia venuta ad insediarsi nelle località a Nord di Milano (fenomeno che potrebbe essere documentato fotograficamente in maniera evidentissima, ma che l’occhio dell’esperto può intuire guardando, la planimetria dell’attività delle popolazioni residenti per Comune), si può rispondere che essa è sorta per la gran parte senza alcuna regola, seguendo quasi sempre il solo concetto di installarsi in zona vicino alla metropoli, per innumerevoli altre ragioni.

Da queste indagini però è fortunatamente risultato che alcune zone inframmezzate non sono state ancora compromesse, e con opportuni provvedimenti di Piano Intercomunale potranno rendersi utili a creare quei polmoni di verde che possono ancora conferire alla sistemazione urbanistica della zona, se tempestivamente regolata, possibilità di una sistemazione sul tipo di quella della grande Londra, che intervalla zone edificate a zone di verde.

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Il congresso degli urbanisti italiani impostò quattro anni or sono a Venezia il problema dei piani regionali. Si trattava di un problema che era allora alla vigilia di diventare realtà concreta e quel congresso ne indicò le soluzioni, accelerando i tempi, operando nella coscienza della classe politica e della pubblica opinione. Dopo l’opera iniziale benemerita del ministro Aldisio con non minore energia il ministro Romita proseguì nell’attuare il dispositivo urbanistico regionale destinato ad una funzione preminente nella nostra pianificazione urbana e rurale. A noi piace sottolineare l’importanza dell’intenso sforzo in atto nelle diverse regioni italiane e l’organicità della prassi ormai in via di essere stabilita in guisa da affondare le sue radici negli organismi vivi delle amministrazioni provinciali e degli altri enti decentrati.

Poi, al congresso di Genova e nel successivo convegno di Firenze, il piano regolatore urbano si è, imposto alla nostra esperienza con i suoi urgenti problemi e con la massa immensa degli interessi diretti e indiretti, culturali e pratici che esso coinvolge. Con la discussione dei prossimi giorni, un terzo grande tema della pianificazione urbanistica sarà proposto alla nostra attenzione. Qui a Torino, ci proponiamo di discutere cosa sono e quale contributo possono recare all’assetto della nostra società i piani intercomunali. Il tema potrebbe sembrare a taluni strettamente tecnico. E invece proprio esso è tale da suscitare, come vedremo, in campo teorico e metodologico, una vasta e impegnativa problematica. Abbiamo ormai chiari i limiti e i problemi della pianificazione urbana e di quella territoriale, sappiamo che non ci potrà essere ordine e armonia nelle città le non vi sarà la grande sintesi del piano regionale. Ma che funzione svolgerà, come si inserirà in questa complessa gerarchia, la nuova pianificazione intercomunale?

La marcia lenta e inesorabile verso una maggior disciplina urbanistica attende d’altro canto un altro passo decisivo: il coordinamento tra programmi economici e piani regionali. All’uopo ci piace ricordare che l’attuazione dello schema Vanoni se potrà attuarsi attraverso il dispositivo dei piani regionali rappresenterà una tappa di inestimabile valore nel progresso dell’organamento dell’azione dello stato. Ora il problema che si pone innanzi a noi è esattamente l’esecuzione del piano regionale. Poiché esso è destinato a prolungarsi come ogni altro piano, nei suoi piani particolareggiati, questi saranno costituiti appunto da quei piani intercomunali di cui il congresso in questi giorni dovrà esaminare i limiti, la validità, il carattere. Perché essi diventino un effettivo strumento di civiltà e un valido ausilio nell’attuazione del piano economico occorre che ciascun elemento esecutivo, il quale è bene attuabile nell’ordine del piano intercomunale, trovi un’organica espressione tecnica amministrativa, fondata sul rispetto della libertà. Il valore dell’impostazione del piano intercomunale consiste appunto in questa garanzia, perché esso custodisce le virtù democratiche proprie di un piano affidato ai comuni i quali meglio dello stato si richiamano a una considerazione palpitante, immediata del concetto di democrazia.

Mi piace ricordare all’uopo un noto passaggio del Tocqueville : “ Sans institutions communales une nation peut se donner un gouvernement libre, mais elle n’a pas l’esprit de la liberté. Des passions passagères, des intérêts d’un moment, le hasard des circostances peuvent lui donner les formes extérieures de l’independence; mais le despotisme refoule dans l’intérieur du corp social reparait tôt ou tard à la surface”.

A tali esigenze di ordine politico e amministrativo, che indicano una giusta soluzione dei problemi, finora soddisfecero nel modo migliore le teorie sociali-cristiane. Infatti il pensiero cattolico sostiene con particolare energia il “principio della sussidiarietà”, la fondamentale precedenza delle collettività più deboli di fronte alle più forti. Soprattutto vogliamo ricordare l’enciclica Quadragesimo anno data nel 1931 dal pontefice Pio XI: “Évero certamente e ben dimostrato dalla storia che, per la mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche dalle piccole. Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo della filosofia sociale. ..: è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle”.

Di questa ferma opinione era Luigi Einaudi, quando scriveva, nel 1946: “Perché vi sia governo libero, occorre che gli uomini sentano di essere qualcosa di diverso dagli altri uomini; che essi abbiano l’orgoglio di appartenere ad un comune, ad una comunità o collegio di comuni, comunità e regioni che siano diano qualcosa, abbiano un potere entro limiti determinati sovrano ed indipendente dal centro”.

Ora, nella maggior parte delle nostre regioni, con l’eccezione di quelle minori che comprendono soltanto una o due provincie, né i confini delle regioni stesse, ne le unità amministrative locali, le provincie in cui sono divise, si basano su fatti economici, storici e culturali omogenei e unitari. Risultato: l’assenza di una vera e feconda vitale iniziativa entro l’area locale, onde una dispersione di interessi e una confusione nello sforzo. Queste circostanze portano alla decadenza, al deterioramento, alla impossibilità di una vera vita sociale la cui necessità è ormai da tutti avvertita. L’uomo non può più operare da solo in tutti i campi. La concreta, nuova definizione delle aree subregionali - un tracciamento scientifico di queste aree e l’instaurazione di una nuova volontà amministrativa e culturale - è uno degli essenziali compiti, preliminari alla creazione di una civiltà cooperativa ed assistenziale. Infatti, ci ricorda un sociologo illuminato, il Mumford, che, come l’uomo non può avere rapporti fecondi col mondo circostante finche non possiede un’intima e ferma personalità, così una comunità non può impegnarsi nei necessari scambi e rapporti con altre comunità finche non ha una vita completa su basi indipendenti e solide.

Questo significa che la ricostituzione culturale nell’ambito della regione è una parte essenziale del compito politico ed amministrativo. I nostri piani più razionali devono rispettare l’urgenza emotiva delle finalità, dei desideri, dei bisogni umani; il meccanismo più perfetto resta immoto finche i suoi organi non vengano azionati da questi mezzi. Appunto perché il regionalismo ha veramente le sue basi in spontanee motivazioni umane, possiamo aspettare con fiducia i suoi estremi progressi. E con senso di grande compiacimento rileviamo come gli studi del Comitato di coordinamento per il piano regionale del Veneto sono ormai rivolti all’enucleazione di nuove unità naturali che non coincidono necessariamente con quell’unità artificiale che è la provincia.

Non si dimentichi che nella grande opera di rinnovamento urbanistico promossa dal governo britannico, si sono ristudiate tutte le circoscrizioni di autogoverno per renderle più omogenee rispetto alla popolazione, contenendole in unità comprese fra i 60 e i 200 mila abitanti, dimensionamento che appare anche per il nostro Paese sufficientemente elastico e capace di dare alla organizzazione del lavoro di pianificazione urbanistica quelle unità e quella coerenza attualmente ardua e faticosa.

Nella Repubblica Federale della Germania Occidentale, tanto la legge fondamentale del 23 maggio 1949 quando la costituzione del 7 ottobre assegnano il diritto all’autonomia ai comuni, ma lo considerano integrabile tanto attraverso consorzi di comuni (Gemeindeverbände) quanto attraverso l’elevazione dei distretti (Kreis) ad una effettiva autonomia amministrativa sorretta da una rappresentanza popolare elettiva. L’articolo 29 della citata legge fondamentale prevede poi una nuova ripartizione del territorio federale ispirandosi precisamente a molti di quei criteri che noi riteniamo indispensabili per il funzionamento di una vera comunità, e che sono rappresentati dai “ sentimenti di attaccamento provinciale, dai legami storici e culturali, dalla convenienza economica e dalla struttura sociale”.

L’attivazione della vita comunale e provinciale è, come suoi dirsi, “nell’aria”, annunciatrice di una feconda e libera rivoluzione. E i comuni si sono fatti paladini di un’altra grande speranza di progresso e di pace : l’unità europea. Ed è proprio il sindaco della città che ci ospita, l’amico Peyron - al quale va il nostro caloroso saluto - che annunciava tre giorni or sono con legittimo orgoglio e compiacimento la scelta di Torino a sede della Comunità europea di credito comunale, sorta già a"Francoforte per iniziativa del Consiglio dei comuni d’Europa.

Noi sogniamo e parliamo di giustizia e assistiamo giorno per giorno, senza poteri, alla corsa indiscriminata verso sempre maggiore ricchezza da parte di chi già possiede, dei proprietari di case e di terreni che vedono senza sforzo, senza lavoro, accrescere le loro ricchezze dalla marcia di una economia in accrescimento in virtù dell’operosa tenacia dei lavoratori, dei tecnici, dei dirigenti, la cui ricchezza, il cui reddito cresce assai più lentamente di quello dei detentori e dei mezzi di produzione e del suolo. Così nelle città italiane ove l’economia è visibilmente rigogliosa negli ultimi cinque anni, i proprietari di terreni hanno visto il valore delle loro proprietà crescere del 300, del 500, del 1000 per cento (non sono dati esagerati), mentre i lavoratori delle stesse città hanno avuto degli accrescimenti di reddito più o meno rilevanti, ma che stanno in un ordine infinitamente minore.

Contro questo iniquo stato di cose gli urbanisti italiani hanno sempre lottato disperatamente chiedendo da ogni parte u!la legislazione contro il plus-valore delle aree. Questo principio, è lecito compiacersi, entra ora -sia pure in una sua espressione ancor timida -in una legge ancora in corso di approvazione. Un’altra legge sociale, ancor più importante, quella che potrebbe davvero diventare risolutiva, quella che permetterebbe ai comuni di formarsi un nuovo e più ampio demanio, ha ancora una navigazione difficile, tra Scilla e Cariddi, nelle commissioni parlamentari. Fino a che larghissime masse popolari saranno estranee alla vita dello stato (non sta a me indicare la responsabilità di questa situazione, ma denunciarne le conseguenze urbanistiche), queste leggi non oseranno che scalfire in superficie gli immensi privilegi che dovrebbero affrontare.

Noi urbanisti sogniamo il verde. E la città crescendo e intensificandosi occupa i giardini del centro, e i prati della periferia vengono a poco a poco interamente sommersi. “ Vendesi terreno a lotti” hanno scritto in larghi cartelli i ragionieri del centro. I comuni non comprano lotti per fare i giardini del futuro, i parcheggi, le scuole. Quando le operazioni speculative saranno compiute, la seconda ondata di compratori farà la seconda o la terza speculazione attraverso lo stratagemma meccanico dei grattacieli vendendo poi le proprietà a un prezzo inaccessibile. Dopo di che nessun amministratore assennato comprerà in superficie adeguata il terreno che servirebbe a fare le scuole all’aperto, i centri sociali, le biblioteche, i centri di acquisto centralizzati o cooperativi. Bisognerà adattarsi a sopraelevare le scuole, o far fare i doppi turni ai bambini come nelle fabbriche, lasciare il commercio com’è, costoso, frazionato, inefficiente. Non c’è nulla da fare, ci dice una classe dirigente stanca e imprevidente.

Noi sogniamo il silenzio. Gli urbanisti hanno studiato e hanno riferito sul precinct, una vasta zona urbana bene isolata, senza arterie di scorrimento, diventata tranquilla, armonica. Ma taluni amministratori amano proclamarsi urbanisti, sebbene quando i loro figli si ammalano non li curano da loro stessi, ma si affidano a chirurghi di chiara fama i quali ottengono spesso autentici miracoli: ma per molti gli urbanisti di chiara fama, i veri urbanisti, sono i nemici della città, uomini pericolosi che occorre ostacolare. E non resta all’infelice città che ricorrere quando è ormai troppo tardi a clamorose e decorative lotte contro i rumori, a costosissimi sventramenti, all’uso indiscriminato incontrollato e caotico dell’elemento verticale, i quali rimangono i sintomi più appariscenti di una concezione e di una strategia urbanistica radicalmente errata.

Noi italiani amiamo l’intelligenza e la cultura. Ma cultura e intelligenza avrebbero suggerito almeno l’imitazione. Avremmo potuto imitare Londra e Parigi, il loro grandioso piano di decentramento industriale in pieno corso di attuazione. Noi abbiamo invece, con mezzo secolo di ritardo, importato d’oltreoceano un mostro grandioso e affascinante, il grattacielo, onde consacrare una civiltà in transito: quella delle nostre metropoli del Nord.

La metropoli”, ha scritto Frank Lloyd Wright nel suo aureo volumetto Architettura e Democrazia, la metropoli si è tanto allontanata dalla scala umana che non è più un luogo dove si viva bene, si lavori bene e si possa andare tranquillamente al mercato. E intanto le strade diventano gli opprimenti pozzi della miseria metropolitana. L’annullamento di ogni vitalità grava minaccioso sul villaggio divenuto città, sulla grandiosa metropoli imprevista. Anche la macchina che l’ha costruita e la fa funzionare era ugualmente imprevista. Può darsi perciò che non sia solo per la sua tendenza animale, deplorevole ma ereditaria, ad affollarsi, che il cittadino è sbarcato in questo pigia pigia urbano. Ma ora è soltanto l’istinto animale del gregge che lo tiene pigiato, dimentico dei suoi più grandi ed essenziali interessi di individuo pensante. Cosa riceve l’unità umana, finora ignorata da questo manicomio commerciale, in compenso dei disagi della ristrettezza, della demoralizzante perdita di libertà, dell’avvilente degradazione di un più vasto senso dello spazio? Cosa riceve oltre lo stolto orgoglio di sacrificarsi al suo tempo, di pagare più tasse e di vedere un numero sempre maggiore di gagliardi vigili ai crocicchi ? Anche il proprietario di case dovrà presto rendersi conto che, come sfruttamento vantaggioso, il successo della verticalità è soltanto temporaneo, sia nella natura che nella qualità, perché i cittadini di un prossimo domani preferiranno l’orizzontalità -dono dell’automobile, del telefono e del telegrafo - e si rivolteranno contro la verticalità fuggendola come il cadavere delle nostre città. Lo stesso cittadino le si rivolterà contro in autodifesa. Abbandonerà poco a poco la città : ora gli è molto più facile farlo. Già adesso i migliori possono fare a meno di restare”.

Il piano regionale apre dunque la via al decentramento. Il decentramento - si badi bene - non è per noi un problema di conservazione, ma di civiltà. Si è confuso troppo spesso questo con la lotta contro l’urbanesimo, svolta dal regime fascista in modo iniquo: basti ricordare la pratica proibizione alle popolazioni meridionali di lasciare le loro provincie, affinché il loro abbandono non fosse reso evidente. Al contrario, il decentramento può e deve essere usato come strumento di difesa dell’uomo. Se il giovane contadino abbandona ancor oggi la montagna e i villaggi anche qui nel Nord, nell’alto Piemonte, nelle valli lombarde, nel Veneto, per cercare nelle città affollate una nuova vita con meno miseria e qualche luce spirituale, è mosso da una spinta inevitabile sino a quando soltanto nelle grandi città sorgono le industrie. E queste solo danno ai comuni e potenza e mezzi d’azione.

E come la composizione chimica di un corpo è impotente a suscitare il mistero della vita, così le cifre e i numeri, le statistiche e i calcoli dei nostri ministri, le centinaia di miliardi degli investimenti di Stato non basteranno a far progredire una nazione, se non si. è pronti ad attingere una nuova linfa vitale dalle profonde radici dell’uomo che si trovano nei villaggi, nei borghi, vicino alla natura e al paesaggio e che si esprimono soltanto nella vita dei comuni e delle provincie. Se questo non sarà compreso, i piani e i programmi elaborati a Roma, a grande distanza dai luoghi dove dovranno essere eseguiti, continueranno ad opprimere materialmente e spiritualmente un popolo di agricoltori e di operai.

Il decentramento industriale, reso facile dalle tecniche moderne più progredite, riconduce l’uomo alla terra, ristabilisce un’economia mista, un nuovo equilibrio tra agricoltura e industria, il solo capace di ridare all’uomo la perduta armonia. Gli ingegneri, i tecnici, gli amministratori delle industrie debbono finalmente persuadersi che le loro ricerche e i loro sforzi devono essere al servizio dell’umana civiltà e ‘the vale la pena di affrontare una apparente perdita di rendimento se l’uomo potrà evitare l’alienazione prodotta dalle fabbriche gigantesche, e dal distacco opprimente della natura. Abbiamo lasciata, in poco più di una generazione, una millenaria civiltà di contadini: “ l’uomo, strappato alla terra e alla natura dalla civiltà delle macchine, ha sofferto nel profondo del suo animo, e non sappiamo nemmeno quante e profonde incisioni, quante dolorose ferite, quanti irreparabili danni siano occorsi nel segreto del suo inconscio”.

Nella millenaria civiltà della terra il contadino guardando le stelle poteva vedere Iddio, perché la terra, l’acqua, l’aria esprimono in continuità uno slancio vitale, poiché l’acqua non serve soltanto a lavare il corpo, ma riguarda anche l’anima perché essa, come un battesimo, purifica il cuore. Anche l’aria lievissima della montagna è alimento dell’anima e la terra può allietare lo spirito perché in essa c’è la presenza continua del Dio vivente.

Per questo, il mondo moderno, avendo racchiuso l’uomo negli uffici, nelle fabbriche, costringendolo a vivere nelle città tra l’asfalto delle strade e l’elevarsi delle gru e il rumore dei motocarri e il disordinato intrecciarsi dei veicoli, rassomiglia un poco ad una vasta, dinamica, assordante, ostile prigione dalla quale bisogna, presto o tardi, evadere. Bisogna di conseguenza avere il coraggio di affermare che la nostra società è ammalata, è mentalmente ammalata, poiché ci troviamo dinnanzi a una vera, autentica malattia dell’anima provocata dallo “sradicamento”, dallo sradicamento involontario. Quando un uomo lascia la sua terra sotto la spinta della miseria, il villaggio che lo vide nascere, dove ancora lo attende il sorriso di una madre e spesso ancora l’amore dei bimbi e l’appello delle spose, si produce nella psiche dell’esiliato un dramma di cui le esplosioni tragiche, come il drammatico recente episodio di Terrazzano, sono un sintomo ormai troppo palese. Il cuore degli emigrati, che non dimenticano il loro paese - ci ha spiegato assai bene Simone Weil - è tanto irresistibilmente rivolto alla patria infelice che gli restano poche risorse affettive per l’amicizia verso il paese che lo ospita. Quella amicizia può realmente germogliare e crescere nel loro cuore solo se compiranno una violenza su se medesimi.

Anche il fanatismo totalitario è il prodotto neurotico di un’alienazione, di uno sradicamento. Si badi bene, il fanatismo, non la profonda aspirazione per una società diversa dalla nostra, finalmente e veramente libera, il disprezzo per le forze deteriori di un capitalismo decadente; ma il fanatismo, che non distingue il bene dal male, che esalta la menzogna e con essa l’errore, che si ostina nel credere all’oppressione e alla violenza, rinnegando visibilmente le forze spirituali che pur sono le sole creative. Dobbiamo rispetto a un campo di grano, ricorda ancora Simone Weil, non in se stesso ma perché è nutrimento per gli uomini: Allo stesso modo dobbiamo rispetto a una collettività qualunque essa sia - patria, famiglia, e qualsiasi altra - non in se stessa ma in quanto nutrimento di un certo numero di anime umane. Il grado di rispetto dovuto alle collettività umane deve essere molto elevato per vari motivi.

Anzitutto, ognuna di esse è unica, e non può essere sostituita se viene distrutta. Un sacco di grano può essere sostituito a un altro. Il nutrimento che una collettività fornisce all’anima dei suoi membri non ha equivalente in tutto l’universo. Poi, con la sua durata, la collettività penetra già nell’avvenire. Contiene nutrimento non solo per le anime dei vivi, ma anche per quegli esseri non ancora nati che verranno al mondo nei secoli avvenire. E finalmente, per la sua stessa durata, la collettività ha le sue radici nel passato. Esso costituisce l’unico organo di conservazione per i tesori spirituali accumulati dai morti, l’unico organo di trasmissione mediante il quale i morti possono parlare ai vivi, la sola cosa terrestre che abbia un legame diretto con il destino eterno dell’uomo, è lo splendore di coloro i quali han saputo prendere coscienza completa di quel destino, trasmesso da generazione in generazione.

Che fare? Qual’è la responsabilità dell’urbanista in questo quadro che è chiaro, che appare dalle cronache di ogni giorno sempre più tragico, anche al temperamento più ottimista? Noi dobbiamo risolutamente penetrare nella segreta dinamica della terza rivoluzione industriale e procedere con coraggio verso piani coraggiosi. Stiamo assistendo in Italia ad ampi fenomeni economici e tecnici positivi, i cui effetti nel campo materiale, culturale e spirituale potrebbero essere sterili ovvero portare innanzi un nuovo tipo di civiltà nella misura della nostra capacità di comprendere i fenomeni più profondi e più sensibili che, seguendo un disegno imperscrutabile, condizionano l’umana grandezza e l’umana miseria.

Un periodo mortale ci sovrasta perché il mondo moderno là dove la meccanizzazione ha preso il comando, può travolgere l’uomo vero, nel suo integrale valore. Il numero di coloro che protestano, che mantengono la loro indipendenza morale e intellettuale contro coloro che vorrebbero subordinare e assoggettare il pensiero e ridurre l’anima, perché è dell’anima che si tratta, è fortunatamente in rapida ascesa. L’allarme è più vivo nel campo degli scrittori e degli artisti che precedono il cammino inconsapevolmente più lento dei politici. Ci piace ricordare e salutare qui, per la sua cordiale presenza un grande architetto e urbanista di altissimo valore: Richard Neutra. Richard Neutra combatte anch’egli la nostra battaglia. Nel suo lavoro sociale ci ha dato uno dei più mirabili esempi di compiuta comunità : Channel Heights. Ma sentiamo ora il suo pensiero:

L’umanità - egli scrive - si dirige precariamente verso la eventuale sopravvivenza a bordo di una zattera ancora improvvisata, che spesso fa acqua: la Pianificazione e la Progettistica. Al centro del problema che ora ci attende al varco, una volta presa la nostra vigorosa decisione contro le tentazioni della predestinazione o del caso sembra profilarsi la domanda: Possiamo ben separare la domenica dai sei giorni feriali ? Possiamo avere due tipi di condotta, due specie di progettazione, cioè una, in proporzioni nane, per gli usi del sabato e dedicata .alla bellezza, agli ideali, alla bontà e alla verità; l’altra di vaste proporzioni e di stampo grossolano, per la supposta utilità pratica, impastata di bruttura, squallore e barbarie di nuovo conio, avallata dal consenso generale ? In una comunità religiosa d’altri tempi, solo uno spregevole cinico avrebbe potuto formulare siffatta idea biforcuta della utilità contrapposta alla rettitudine. Subito sarebbe stato bollato di invasamento demoniaco; la sua utilità sarebbe stata riconosciuta come l’utilità dell’inferno. Ad onta del progresso tecnologico, o forse proprio a causa della sua irregolarità, il nostro ambiente di fattura umana ha manifestato una sinistra tendenza a sfuggire sempre più al nostro controllo. Più l’uomo si è allontanato dall’equilibrata integrazione con la natura, più il suo ambiente fisico si è fatto nocivo. Usura e rovina del sistema nervoso si sono moltiplicate nell’ambiente metropolitano: ce lo rammentano statistiche spaventevoli. Dalla carrozzella per bambini alla metropoli, il nostro ambiente di fabbricazione umana, zeppo di ritrovati tecnici, è divenuto lo stampo del nostro destino e una fonte di tensione nervosa inesauribile”.

Il Paese può e deve essere indirizzato rapidamente verso soluzioni nuove, che ancora dieci anni or sono potevano sembrare utopistiche. Esse consistono in un rapido decentramento, mettendo a disposizione della nostra vita sociale vasti territori agricoli, quasi ovunque disponibili, giacché stiamo assistendo ogni giorno all’esodo dei nostri monti e delle nostre pianure. Quali i dispositivi, le linee, i mezzi di una nuova politica? Primo: l’utilizzazione ai fini del decentramento del grandioso programma di quartieri organici unificati. Secondo: coordinamento coerente del piano edilizio con chiaro programma di decentramento industriale. All’uopo occorre che, armonicamente composte con le linee di comunicazione e a breve distanza dai nuovi quartieri organici, siano create le nuove zone industriali, secondo l’esempio ormai collaudato delle nuove città inglesi. Terzo: un massiccio sostanziale ingrandimento degli spazi destinati ai servizi sociali e culturali, sia nella progettazione urbanistica, sia nei bilanci dello stato, delle provincie, dei comuni, della industrie, dei privati.

La civiltà di un popolo si riconosce dal numero, dall’importanza, dall’adeguatezza delle strutture sociali, dalla misura in. cui è esaltato, protetto tutto ciò che serve alla cultura, e in una parola all’elevamento spirituale e materiale dei nostri figli: ma questo apparato sociale è ancora il privilegio di pochi. La marcia inesorabile verso il massimo profitto, salvo poche eccezioni, è ancora la regola più evidente della nostra economia. Ancora troppo danaro è lungi dall’esser indirizzato a necessità umane che gridano urgenza, ma deviato verso investimenti che non arricchiscono la comunità nazionale.

I moderni centri sociali, le scuole specializzate di arte applicata, le biblioteche di ogni grado, gli auditori, le scuole di musica, i luoghi di istruzione artistica e via dicendo sono ancora in tutto il Paese visibilmente inadeguati nel numero e nella qualità. Eppure rispondono a bisogni sempre più vivi nel nostro popolo, bisogni che non sono in rapporto con la vita fisica, bensì con la vita morale. “ Eppure sono terrestri come quegli altri sebbene non posseggono una relazione diretta, che sia accessibile alla nostra intelligenza, con il destino eterno dell’uomo. Sono tuttavia, come i bisogni fisici, necessità della vita terrena. Cioè, se non sono soddisfatti, l’uomo cade a poco a poco in uno stato più o meno analogo alla morte, più o meno simile a una vita puramente vegetativa”. Sono queste ultime, ancora, parole di Simone Weil, della quale, a costo di tediarvi, voglio ricordare ancora un fervente messaggio ch’io rimetto ai timidi e ai pessimisti affinché non ignorino che ogni sforzo anche modesto non sarà vano, purché nella giusta direzione: da al nostro popolo i mezzi culturali affinché si esprimano le migliori intelligenze, i più nobili cuori.

Due sono gli ostacoli che rendono difficile al popolo l’accesso alla cultura. Uno è la mancanza di tempo e di forze. Il popolo ha poco tempo libero da dedicare ad uno sforzo intellettuale; e la stanchezza limita l’intensità dello sforzo. Quest’ultimo ostacolo non ha nessuna importanza. O almeno non ne avrebbe alcuna se non si commettesse l’errore di attribuirgliene. La verità illumina l’anima in proporzione della sua purezza non già in proporzione di una qualsiasi quantità. Non è la quantità del metallo che conta, bensì il grado della lega. In questo campo, un po’ di verità pura vale quanto molta verità pura, poiché la quantità non è in nessun rapporto col bene. Se un operaio, in un anno di avidi e costanti sforzi, impara qualche teorema di geometria, vorrà dire che sarà penetrata nell’anima tanta verità quanta ad uno studente che durante lo stesso tempo, con eguale fervore, abbia assimilata una parte della matematica superiore”.

I nostri urbanisti conoscono assai bene queste preziose sentenze; ma esse in pratica stentano ancora a penetrare nel mondo del denaro al quale ubbidiscono ancor ciecamente i tesorieri, gli amministratori, i saggi difensori dei bilanci e del loro pur necessario equilibrio. Essi nei loro calcoli ormai facilitati da cervelli elettronici non danno eccessivo valore a quei fermenti spirituali e culturali, che potrebbero avviare il paese verso la sua vera rinascita. Non è qui luogo per ostentare le nostre amarezze, ma vorrei chiudere la lunga serie delle citazioni di oggi, ricordando le parole di un poeta scomparso in un volo di guerra e che esprimono tutta la nostra fede nei valori dello spirito.

La questione che mi pongo non è punto di sapere se l’uomo sì o no sarà felice, prospero e comodamente protetto. Mi domando dapprima quale uomo sarà prospero, protetto, felice. Perché ai mercanti arricchiti, gonfiati dalla sicurezza preferisco il nomade che fugge continuamente e insegue il vento e abbellisce di giorno in giorno, perché serve un signore così vasto. Se costretto a scegliere, apprendendo che Dio rifiuta al primo la sua grandezza e la accorda solamente al secondo, immergerei il mio popolo nel deserto. Poiché amo che l’uomo dia la sua luce. E non mi importa la povertà del cero. Dalla sola sua fiamma misuro la qualità”.

Non direi con questo che la nostra disciplina postuli rivoluzioni impossibili e s’inoltri sugli infidi sentieri dell’utopia. Si limita ad agire secondo il precetto che dice di non tralasciare, operando giorno per giorno in minuta fatica, la fede in altre più grandi perfette realizzazioni, ma impone pure di non trascurare, per la fede in queste, l’obbligazione al quotidiano lavoro. Lo scambio continuo fra la pratica e l’ideale sia dunque la regola per la nostra condotta anche in questa fase. Studiando e sperimentando nel vivo corpo sociale, incontreremo sempre nuove difficoltà ma impareremo anche a valerci di nuovi strumenti c a perfezionarne l’uso.

E così non soltanto l’arricchimento culturale, ma la maturazione della sensibilità sociale e della responsabilità politica, in una parola quegli obbiettivi che un istituto di alta cultura a statuto democratico quale è il nostro deve proporsi, costituiranno comunque il portato sicuro e prezioso di un operare concorde, sorretto dal rigore scientifico e dal buon volere.

Seguendo questa traccia, forse anche le mie parole sono andate lontano. Mi affretto dunque a concludere affinché non siano più oltre ritardati i molti urgenti temi di questo congresso che sono appunto i temi dell’oggi. Ma consentitemi ancora, prima di lasciare la parola all’amico onorevole ministro Romita di ringraziarlo ancora per la sua presenza e di ringraziare, con lui, tutti coloro che in questa occasione hanno voluto esprimerci la loro simpatia e porgerci una testimonianza di diretto apprezzamento nella funzione e nell’avvenire dell’urbanistica.

Gli urbanisti italiani, animati da una fede comune nei valori umani e nel metodo scientifico, lavorano da anni per proporre alla società italiana quelle nuove soluzioni che il senso sociale di ogni cittadino ha già nel suo cuore e che il sole, gli alberi, la terra, i laghi, i fiumi custodiscono in un disegno eterno. Affinché la natura e la vita, ricondotti ad unità diano all’uomo rinnovato e rigenerato da un ambiente amico una vera e più splendida armonia.

Perché noi vogliamo che questa armonia fatta di bellezza e di pace e di fraternità risplenda nei villaggi, nei quartieri, nelle fabbriche e la casa dell’uomo non sia più un rifugio ma un elemento vitale di una più ampia composizione, perché l’uomo servendosi finalmente del corpo e dello spirito si riconcili a Dio e nessuno sia più straniero, schiacciato, perduto.

Nota: per capire meglio questo e gli altri articoli della Pagina di Storia sul PIM, possono essere utili i materiali scaricabili in calce all' articolo guida (f.b.)

La problematica riferentesi al contenuto, alla validità, alla estensione e formulazione in termini giuridici dei “piani intercomunali” è materia già ampiamente trattata dai relatori generali che mi hanno preceduto e perciò il tema che sto per affrontare è circoscritta alla presentazione di una situazione reale, nel caso specifico il territorio milanese. Purtuttavia ritengo opportuno ritornare su alcuni concetti di carattere generale, fondamentali in funzione di uno sviluppo critico del discorso.

I punti che ritengo opportuno chiarire sono tre. Il primo si riferisce alla pianificazione intercomunale come fatto di contingente necessità in alternativa al concetto di estensione del piano intercomunale sullo intero territorio come elemento di pianificazione intermedia. Il secondo si riferisce al contrapporre l’esistenza “operante” del piano territoriale di coordinamento regionale ad una inesistenza o carenza operativa della pianificazione territoriale. Il terzo si riferisce al considerare le possibilità operative nell’ambito dell’interpretazione degli attuali strumenti legislativi in contrapposto alla eventualità di una radicale riforma di leggi e di norme.

Analizzando in particolare il contenuto dei punti enunciati si potrà dedurre quale profonda differenziazione vi sia fra il considerare il “piano intercomunale” come necessario strumento solamente in casi particolari ed eccezionali, ritenendolo, ad esempio, risolutivo dei problemi connessi al territorio direttamente influenzato dalla grande città, o indispensabile per la sistemazione di fasce costiere o per l’approntamento di piani paesistici e turistici o per la soluzione dei problemi connessi alle interrelazioni di comuni contermini (rientrando così nei limiti indicati dalla legge urbanistica) e il considerare invece il piano intercomunale valido strumento di una pianificazione organica, intendendolo pertanto esteso a tutto il territorio come elemento interposto fra una pianificazione di coordinamento territoriale, a base regionale od interregionale, ed il piano comunale. In tal caso è ovvio che il piano intercomunale assuma un’importanza ed una caratteristica che non può essere identificata con gli intendimenti espressi dalla legge urbanistica; il piano intercomunale così accettato potrebbe alterare contenuto e prassi di formazione e di attuazione del piano comunale. In ordine alla seconda questione, circa la esistenza o inesistenza operativa del piano territoriale è, direi, spontaneo prospettare due ipotesi: la prima vedrebbe il “piano intercomunale” derivato dal piano territoriale ed inserito come elemento intermedio di affinamento e di approfondimento fra la pianificazione regionale e la pianificazione esecutiva in sede comunale; la seconda ipotesi prospetterebbe l’eventualità del processo inverso e cioè il risalire della pianificazione comunale alla intercomunale ottenendo come risultato il possibile futuro piano territoriale come sommatoria di diversi piani intercomunali. È ovvio che le ipotesi estreme non possono a priori assumersi in assoluto ma saranno invece circostanze, situazioni, particolari ragioni d’urgenza a creare un giusto equilibrio fra metodi, teorie e necessità reali.

Circa la terza questione, inadeguata appare la strumentazione legislativa attuale e forse limitati i risultati che dalla sua interpretazione si possono ottenere: è ovvio che dopo una approfondita valutazione delle situazioni, e soprattutto dopo aver ben chiaramente definito ciò che si vuole ottenere, si potrà prospettare la necessità di porre nuove basi giuridiche onde consentire un efficace intervento operativo,

Lascio per ora indefiniti i quesiti, riproponendomi di considerarne una possibile soluzione dopo aver illustrato la situazione del territorio milanese. Ora, brevemente, traccerò un profilo storico delle interrelazioni fra Milano città ed il suo territorio, Il problema di queste relazioni non è solo da oggi di attualità: già da un secolo i primi sintomi del fenomeno si manifestano e sono materia di animate discussioni allorquando la secolare staticità della Milano circoscritta dalle mura spagnole viene bruscamente interrotta dai primi insediamenti industriali; il rapido evolversi dell’economia industriale ed il radicale rivoluzionamento dei trasporti porta sul tappeto il primo problema di’ annessione.

Siamo nell’anno 1859, la città ha limiti che corrispondono alla cinta murata cinquecentesca, all’esterno si estendono i territori che, denominati Corpi Santi, perché in essi vi si insediano i cimiteri, ne avvolgono l’intero perimetro; attraverso lunghe ed elaborate discussioni si giunge al decreto di annessione nel 1873. In quel tempo l’espansione della città non assunse l’aspetto regolarmente circolare, ma accentuò due direttrici principali: verso Corsico, a sud-ovest, e verso Sesto San Giovanni, a nord-est. Proprio in quest’ultima direzione lo sviluppo assunse ben presto un peso prevalente: la rete ferroviaria con le sue attrezzature, l’ubicazione della stazione, la possibilità di agevoli raccordi ferroviari, favorirono nei successivi decenni insediamenti industriali sempre più massicci tanto da investire l’aggregato di Turro che veniva pertanto incorporato nel 1918.

Negli anni successivi la pressione edilizia ormai incontenibile ripropose il problema e si concretò nel 1923 nella risoluzione di annessione di undici Comuni e di due frazioni. I territori annessi si estendevano in special modo in direzione nord mentre altre direzioni si cercava di dare una conformazione regolare al territorio metropolitano che, dopo l’annessione dei Corpi Santi, aveva assunto un aspetto assai irregolare con una vasta appendice sud. A nord venivano annessi i comuni di Affori, Crescenzago, Gorla-Precotto, Greco, Musocco, Niguarda. A est il comune di Lambrate. A sud i comuni di Chiaravalle e Vigentino. A ovest i comuni di Baggio e Trenno e le frazioni di Ronchetto sul Naviglio e Lorenteggio, già appartenenti ai comuni di Buccinasco e Corsico. Nel 1923 era così definito il confine che ancor oggi determina i limiti amministrativi del comune. Si affrontò in quel tempo il problema di un piano regolatore dell’intero territorio ed il progetto di piano regolatore generale, maturato attraverso il concorso del 1927, vide la sua approvazione nel 1934. Il piano del 1934, fonte di negative conseguenze che pesano tuttora sull’organismo della città, estendeva il suo ininterrotto tessuto viario sulla quasi totalità del territorio amministrativo, lasciando solamente piccole aliquote ove i confini non corrispondevano alla concezione grafico-geometrica del piano.

Al massiccio estendersi dell’attività edificatoria nell’ambito del territorio milanese veniva affiancandosi, soprattutto alla periferia nord, un parallelo incremento dei comuni rurali. Si iniziava così e si accentuava con il tempo il preoccupante fenomeno del costipamento indiscriminato. La parentesi della guerra, le vaste distruzioni da essa provocate, il risveglio di ogni attività e il rapido evolversi del pensiero e delle concezioni urbanistiche riproposero nel 1945 il problema di Milano e del suo territorio.

In quel periodo veniva sanzionato il principio che la pianificazione nell’ambito comunale non potesse prescindere da un analogo intervento nel territorio circostante: con questi presupposti nasceva dopo vaste e approfondite discussioni e successive elaborazioni il nuovo piano regolatore generale di Milano approvato poi nel 1953. La premessa di estendere, parallelamente al piano della città, la pianificazione nel campo intercomunale incontrò immediatamente resistenze ed incomprensioni.

Nel febbraio del 1951 il comune di Milano compiva il primo atto ufficiale inoltrando al competente ministero, in riferimento all’art. 12 della legge urbanistica, la richiesta di autorizzazione alla compilazione di un piano intercomunale che interessava 79 comuni, che furono poi ridotti al numero di 51. L'iniziativa del comune di Milano, forse non preceduta da una adeguata preparazione e da un'opera di sondaggio e di chiarificazione presso le amministrazioni comunali interessate, veniva ostacolata dall’opposizione della gran parte dei comuni inclusi nel comprensorio da pianificare. Il timore di soggiacere alla presunta strapotenza del comune capoluogo, il credere compromessa la propria autonomia deliberativa ed in generale, remora fondamentale, l’ignoranza dei limiti e dei presupposti dell’intervento, creava negli amministratori perplessità e diffidenza. Il particolare stato psicologico si concretava poi in una azione decisa e coordinata di molte amministrazioni comunali le quali, attraverso la lega dei comuni democratici, si opponevano all’iniziativa qualificandola antidemocratica e podestarile ed accusando l’amministrazione comunale di Milano di incapacità nell’assolvere il delicato compito; coerenti a questi princìpi, con delibere consiliari del dicembre 1955, alcuni comuni facevano opposizione formale dichiarando l’iniziativa “azione di grave pericolo all’autonomia locale”.

Una iniziativa che non va ignorata è pure quella assunta dal Partito Liberale il quale, con il presupposto di dare vita ad un ordinamento giuridico speciale per la provincia di Milano, ha indetto un convegno di studi (tenutosi nel marzo di quest’anno in Milano) onde formulare concrete proposte per la creazione della”provincia metropoli lombarda”. Il convegno ha avuto come risultato una mozione in cui si chiede allo stato una legge speciale che attribuisca all’amministrazione provinciale quella possibilità di coordinare il territorio impiegando i suoi cospicui mezzi al fine di permettere il progresso ordinato del territorio posto sotto la sua amministrazione.

I fatti citati non sono che un esempio del continuo sovrapporsi di iniziative, di discussioni che, per la ormai imprescindibile necessità di soluzione del rovente problema, anima studiosi, amministratori e politici. Anche in seno alla sezione lombarda dell’INU si è ampiamente dibattuto il problema ed è apparso quali e quanti siano gli ostacoli, le difficoltà, le incomprensioni unite alla nulla o quasi nulla sensibilità sociale che si’ frappongono ad una efficace ed indispensabile collaborazione.

La soluzione del pressante e indilazionabile problema del territorio milanese è purtroppo ancor oggi allo stato di pura aspirazione. Ora, prima di illustrare con I’ausilio di grafici predisposti l’indagine svolta sul territorio, giova un chiarimento: le ampie indagini che con rigore scientifico sono state condotte negli ultimi anni dal centro studi per la pianificazione territoriale, dall’amministrazione provinciale, dal comune di Milano, dall’Istituto case popolari nel campo specifico dell’abitazione, dalla Cassa di risparmio delle provincie lombarde e da altri enti, hanno sviscerato con molta chiarezza i molteplici aspetti nella vasta zona d’influenza della città; la visualizzazione dello stato di fatto che viene presentato in questa sede non ha la pretesa di anteporsi agli studi, con tanta profondità condotti dagli enti sopracitati, ne di scoprire cose nuove, ma unicamente lo scopo di prospettare con estrema semplificazione l’aspetto di alcuni fra i più caratterizzanti fenomeni.

L’indagine, che si è valsa della collaborazione degli allievi del corso di urbanistica della facoltà di architettura di Milano, il cui titolare è il professor Dodi, ed inoltre dell’apporto personale degli architetti Pellini e Villa e dei laureandi Cavallotti, Cosulich e Rizzi, è stata volutamente contenuta in un territorio limitato al fine di meglio approfondirne la conoscenza e non ha quindi per fine di individuare esattamente i limiti dell’intorno influenzato dalla città e di porre premesse esatte al1o schema orientativo per una pianificazione intercomunale del Milanese, ma ha fondamentalmente lo scopo di prospettare un metodo di analisi dei problemi e di formulare dei presupposti organizzativi ed operativi da estendersi poi su tutto il territorio che sarà successivamente individuato come comprensorio formante unità naturale.

L’indagine considera 28 comuni i quali avvolgendo il perimetro amministrativo della città hanno con essa una contiguità di confine, anche se nel settore nord l’economia del territorio, prevalentemente industriale, ha provocato un rapidissimo incremento demografico ed edilizio estendendo in un raggio di amplissimo sviluppo (e quindi fuori dal campo dell’indagine) la preoccupante congestione rilevata e visualizzata ai margini della città; al sud vi sono invece ben diverse condizioni, poiché, immediatamente a ridosso del limite edificato della città, la struttura economica del territorio è ancora a base agricola e la staticità edilizia è rotta unicamente in alcune limitate zone non sufficienti per altro a giustificarne una prossima radicale trasformazione. Ecco dunque la situazione che viene visualizzata nella sintesi dei suoi fenomeni fondamentali onde rendere possibile una rapida conoscenza dello stato di fatto; gli elementi considerati si riferiscono all’incremento demografico, all’attività della popolazione, alle tendenze di sviluppo degli insediamenti; è stata poi condotta un’indagine tendente ad individuare le condizioni di vita della popolazione e quindi si è rilevata la consistenza e lo stato delle abitazioni e delle attrezzature tecnico-sociali ed infine sono state sondate le interrelazioni multiple che determinano gli spostamenti della popolazione stessa nel territorio cercando poi di fissarne in linea di grande massima linee e zone di influenza.

Tratteggiata, spero in modo sufficientemente chiaro la realtà, una realtà che di giorno in giorno si fa più preoccupante, c’è da chiedersi come ovviare al dilagare della dinamica attività edificatoria che affianca le case alle fabbriche e le fabbriche alle scuole senza alcuna connessione logica e come sostituire al caos un ordine, se pur imperfetto, che risponda agli elementari principi di un vivere sereno. Qualcuno potrebbe rispondere in modo semplicistico proponendo di ampliare i confini comunali di Milano, come si è fatto nel passato, di includere ed assimilare tutti i comuni esterni direttamente investiti dal progredire della città. Estendere i principi organizzativi inseriti nel piano della città, equiparando quindi interessi, oneri e condizioni di vita del grande centro, teoricamente potrebbe apparire un intervento risolutivo; ma, pur ammettendo la sua attuabilità, per altro molto problematica, è veramente accettabile e giusto il principio enunciato? Credo di poterlo escludere per due motivi fondamentali: innanzitutto estendere i confini significa differire nel tempo la vera soluzione del problema, poiché in effetti i fenomeni della periferia e della contiguità non potrebbero che essere spostati nel tempo e nello spazio; in secondo luogo i problemi organizzativi ed amministrativi assumerebbero una tale vastità da condurre con la loro elefantiasi burocratica, nella ridda di interessi e resistenze attive e passive, ad un regime di crisi difficilmente superabile. Scartata l’ipotesi della successiva dilatazione dei confini amministrativi della città e premessa la conservazione delle autonomie comunali il problema si delinea nei suoi termini di intercomunalità.

Quali gli scopi che si vogliono perseguire ed in funzione di questi quali , i presupposti operativi? I fini perseguibili sono ovvii: si tratta da un lato, di evitare la tendenza all’inurbamento ed alla disordinata concentrazione intorno ai poli di attrazione, pericolosi focolai di caotici insediamenti, e d’altro lato, si tratta di arrestare nei limiti ancora oggi possibili il massiccio dilagare delle propaggini della città evitando la successione di saldature che ingigantiscono il tessuto amorfo dell’insediamento urbano. Inoltre, all’esterno del perimetro fisico della città, occorre orientare il problema della pianificazione verso la individuazione e determinazione di circoscrizioni dimensionabili in termini comunitari, caratterizzando in esse strutture economiche e sociali e localizzando centri produttivi tali da ricreare l’autosufficienza e condizioni di vita singola ed associativa che soddisfino pienamente alle esigenze umane e di conseguenza alleggeriscano prima, e tendano ad annullare poi, la pressione che si manifèsta sul capoluogo.

Con tali premesse è possibile raggiungere un risultato positivo operando nei limiti delle attuali amministrazioni comunali ed intendendo il problema intercomunale nei termini accennati dalla legge urbanistica e cioè il presupposto dell’equivalenza tra piano intercomunale e somma di piani comunali? Evidentemente no: le interrelazioni multiple rilevate e rilevabili, la configurazione a volte assurda dei limiti topografici, le dissimili, paradossali situazioni di comuni contermini porterebbero a considerare, per una possibile integrale soluzione, un’ipotesi che, oggi, può essere classificata astratta e visionaria, e cioè la ristrutturazione territoriale delle circoscrizioni amministrative; si potrebbe in tal modo aderire, per maggiore approssimazione, a più naturali unità, permettendo nella ricomposizione la formazione di nuclei comunitari; le comunità così individuate, articolate nella pianificazione totale del territorio ed aventi accentuata personalizzazione, o potranno essere coordinate nei loro multipli rapporti da un’autorità che non può essere identificata né nel comune capoluogo né in un’autorità regionale, oggi per altro inesistente, ma che ha da essere costituita su basi di rappresentanza locale.

Nessun significato avrebbero con questa ipotesi sia una pianificazione intercomunale, estesa a tutto il territorio di influenza, promossa, elaborata sostenuta nei suoi programmi esecutivi dal comune capoluogo, sia il realizzarsi di spontanei, sporadici consorzi volontari di qualche comune per la soluzione del problema nei presupposti e nei termini limitativi dell’arto 12 della legge urbanistica.

In funzione di quanto delineato in linea puramente programmatica, la possibilità di intervento in modo drastico e determinante con la conservazione integrale dell’ordinamento amministrativo attuale si presenta quindi alquanto dubbia. Una via di compromesso è però pur sempre possibile a condizione che da parte di tutti, enti, amministratori e politici, ci fossero unicità di programmi e di azioni, ed una cosciente radicata convinzione delle superiori e imprescindibili esigenze della collettività subordinando ad essi interessi ed egoismi. Aderendo ai concetti esposti si è tentato di impostare un indirizzo operativo per il territorio milanese, territorio che, se pure caratteristico nelle sue articolazioni e nella sua dinamica, non è molto dissimile da altri comprensori che presentano analogie costitutive quali, ad esempio, possono essere quelli di Bergamo o Como o Varese per citare solo situazioni della regione lombarda.

La formulazione dello schema operativo per il territorio milanese, si visualizza nel grafico presentato aderisce ai seguenti criteri:



a) definizione ed arresto del corpo fisico della città con assimilazione di nuclei dei comuni periferici destinati a saturazione, nuclei che ormai strettamente saldati e direttamente inseriti nel tessuto edificato non potrebbero essere pianificati in modo autonomo;

b) esclusione dai limiti del corpo fisico della città di quelle aliquote di territorio comunale che conservano e dovrebbero conservare la loro struttura rurale;

c) eliminando, nel corpo della città, la zona rurale, la città fisica avrà una speciale caratterizzazione di nucleo urbano definito ed omogeneo e il verde in essa contenuto sarà ad esclusivo servizio della città stessa e dei suoi abitanti ed avrà una sua speciale codificazione;

d) individuazione nelle maglie della pianificazione territoriale, orientata questa al coordinamento dei grandi problemi, di intorni comunitari tipizzati ed organizzati in funzione dell’economia del territorio (comunità agricole, miste, industriali) predisponendo per ciascuna di esse una strutturazione aderente alle esigenze specifiche dei vari insediamenti onde raggiungere un equilibrio fra aspirazioni e condizioni;

e) semplificazione, sul piano organizzativo generale nel territorio, delle interrelazioni e dei relativi problemi dei servizi generali (trasporti, impianti, attività produttive).

La diversa natura del territorio ha consigliato la caratterizzazione di tre tipi di comunità per ciascuna delle quali sono stati assunti valori dimensionali indicativi. Le comunità proposte sono: per il territorio vincolato ad economia rurale, comunità agricole di limitata entità numerica e di notevole estensione (condizionata questa a percorrenze sempre accessibili), da integrare con attività industriali al fine di raggiungere un equilibrio economico; per i territori prevalentemente urbanizzati e con economia totalmente industriale comunità accentrate, a insediamento unitario articolabile secondo la natura e le tendenze di sviluppo del nucleo originario; per i territori a struttura prevalentemente industriale, ove non esista un nucleo preminente e caratterizzato, comunità di costituzione con la fusione di più comuni prospettanti unicità di problemi. Le unità cosi schematicamente individuate oltre ad essere dotate di attrezzature comunitarie dovrebbero potenziare i centri di lavoro e produzione in modo adeguato alla loro entità e natura; le comunità agricole ospiteranno anche esse, come si è già detto, insediamenti industriali tali da garantire una autosufficienza.

Le comunità definite e dimensionate in funzione precisa di una organizzazione economica e sociale non esauriranno in se stesse tutti i problemi di pianificazione ma indubbiamente dovranno estendere i loro rapporti con altre comunità contigue onde affrontare situazioni di reciproco interesse in più vasti comprensori.

All’interno del corpo fisico della città i nuclei di altri comuni assimilati, ridimensionati ed integrati, manterranno, fintantoché sia possibile, una loro struttura autonoma benché ordinati e coordinati con il tessuto sociale , ed edilizio della città assimilante.

E individuato l’obbiettivo, vediamo ora quali strumenti e quali mezzi possono essere utilizzati (fra gli esistenti) e quali proponibili onde concretare un programma operativo per il territorio milanese; l’intervento potrebbe avvenire in due tempi con successione coordinata: il primo, che chiameremo intervento di emergenza, verrebbe tradotto in atto dagli enti esistenti, con provvedimenti possibili nell’ambito e nei limiti dei dispositivi di legge e delle specifiche attribuzioni; il secondo intervento, risolutivo, potrà essere reso valido ed operante con nuovi strumenti legislativi da enti ristrutturati o creati. L’operazione di emergenza ha lo scopo di creare le premesse di una più agevole e spontanea adesione alla fase successiva e potrebbe essere propriamente rapportata allo spianamento del terreno in funzione della successiva costruzione. I provvedimenti riguarderebbero innanzitutto l’adeguamento, aggiornamento ed unificazione dei regolamenti edilizi di tutti i comuni nel comprensorio di pianificazione intercomunale; poi l’introduzione, come necessaria integrazione delle norme edilizie, di indici di edificabilità da estendere come premessa orientativa a tutti i comuni: inoltre la perequazione nei comuni delle imposte comunali sui materiali e sulle costruzioni. Con speciali provvedimenti bisognerebbe ottenere il controllo e la regolamentazione in sede extracomunale delle immigrazioni: il fenomeno dell’immigrazione presenta infatti aspetti particolarmente preoccupanti, poiché i flussi migratori provenienti da disparate regioni d’Italia spostano i loro indici percentuali. di affluenze in funzione di condizioni particolari all’origine; il territorio milanese è ora soggetto a massicce migrazioni, vere colonie in formazione, provenienti dal Veneto, la cui corrente si sovrappone a quelle con provenienza dal meridione e dalle zone di spopolamento della regione lombarda. Occorre infine intervenire con assoluto rigore, applicando con larghezza interpretativa le norme che regolano gli insediamenti industriali nocivi ed incompatibili con la presenza di aggregati residenziali.

Come e da chi può essere espletato il compito di coordinare la pianificazione intercomunale nella zona di influenza della città? Ammesso ed affermato che le direttive distributive fondamentali ed i presupposti operativi debbano essere redatti dal piano territoriale di coordinamento (in fase di perfezionamento nella regione lombarda), quale ente può effettivamente agire nel campo specifico economico e sociale oltre che tecnico, affiancandosi o sovrapponendosi alle amministrazioni locali, negli inevitabili e complessi attriti, per raggiungere quell’equilibrio di mezzi e di azioni indispensabili per una giusta soluzione del problema?

Un ente costituito, la provincia, potrebbe essere indicato come il meglio qualificato al compito, ma le sue attribuzioni sono oggi limitate ed i confini storici, ed in particolare quelli della provincia di Milano, non contengono e non delimitano esattamente circoscrizioni omogenee in cui i reciproci rapporti consiglierebbero un vasto intervento di pianificazione intercomunale. D’altronde il prospettare una ristrutturazione di giurisdizione è quanto mai astratto e si aggiunga che una ristrutturazione organica con l’ampliamento delle attribuzioni, se pure risolutiva e affrontabile con legge speciale per il territorio milanese, potrebbe essere considerata da taluni un pericoloso precedente nell’organismo dello stato italiano. Le considerazioni espresse tenderebbero ad escludere l’individuazione della provincia, come unico organismo operativo, ente motore della pianificazione di zona.

Un altro indirizzo potrebbe orientare alla acquisizione, come premessa operativa, di consorzi volontari fra comuni, consorzi che potrebbero essere costituiti nel seno delle singole circoscrizioni comunitarie ove però sia ben radicato un convincimento di reciproca utilità, tale da rendere spontanei i raggruppamenti. Una tale eventualità è però assai problematica in quanto che gli ostacoli di ordine politico, economico, psicologico, inevitabili comunque, porterebbero ad eventuali parziali accordi che nel piano generale facilmente si tradurrebbero in fatti negativi per la collettività. Una forma più completa di consorzio potrebbe costituirsi fra comuni c amministrazione provinciale: in questo caso l’autorità dell’ente provincia avrebbe certamente peso determinante e funzione di equilibrio nei contrastanti interessi di singoli comuni. Come poi siano risolubili i problemi interessanti territori di altre provincie è un altro spinoso interrogativo.

In ultima analisi, però, anche un consorzio su tale base non potrebbe ottenere che risultati parziali, riferibili e circoscritti a problemi particolari. Negare validità agli organi costituiti o costituibili nell’ambito delle possibilità attuali senza contrapporre ad essi qualcosa che vi si sostituisca nell’arduo compito del coordinamento è svolgere un atto critico esclusivamente negativo. È ovvio, quindi, che si debba tentare di individuare l’organismo nuovo che abbia possibilità di efficacemente operare nel caso specifico del territorio milanese.

Ed ecco la proposta.

a) demandare al piano territoriale di coordinamento, reso operante nell’ambito di una costituita autonomia regionale, il compito di inquadrare il problema nei suoi termini, definire i limiti della intercomunalità, dettare i presupposti ordinativi comunitari;

b) promuovere la formazione spontanea (nel caso di difficoltà intervenire eventualmente d’autorità) di consorzi fra i comuni determinanti organismi comunitari;

c) costituire una autorità supercomunale, con rappresentanza paritetica di tutti i consorzi-comunità, a base federativa con formazione elettiva.

La superautorità così costituita, che naturalmente avrebbe la possibilità di includere rappresentanti di comuni anche facenti parte di altre provincie, dovrebbe avere, per la sua specifica struttura democratica di diretta rappresentanza, ampi poteri amministrativi e possibilità deliberante in campo finanziario; la sua sede naturale sarà evidentemente il capoluogo, i suoi compiti il coordinamento tecnico organizzativo ed economico delle intercomunalità svolto in collaborazione con gli organi della regione e dello stato; essa potrà avvalersi nello svolgere i suoi compiti delle attrezzature tecniche delle amministrazioni in essa rappresentate; ai consorzi comunitari sarà riconosciuta ampia autonomia nell’affrontare e risolvere i problemi interni, purché essi rispettino e si inquadrino negli interessi generali della collettività controllata dalla superautorità. Lascio ai giuristi il compito di valutare possibilità e validità della strumentazione embrionalmente prospettata.

Ora considerando le premesse, in rapporto ai presupposti operativi prospettati per il territorio milanese, le alternative espresse cadono e danno luogo ad altrettante precisazioni. Innanzitutto la pianificazione intercomunale, data l’ampia casistica e le disparità di situazioni, è riferibile a casi e situazioni particolari, se pur molteplici e di notevole estensione, e non può essere sistematico intervento organico da estendere a tutto il territorio regionale e quindi nazionale. La pianificazione intercomunale è valida in quanto essa sia inquadrata nel piano di coordinamento territoriale e da questo tragga quindi i presupposti formativi. È infine evidente la necessità di perfezionare gli strumenti legislativi e l’opportunità di predisporre leggi speciali per determinati territori; in tal caso una priorità spetterebbe indubbiamente al comprensorio del milanese.

La mia conclusione, si dirà, è utopistica; visionaria, irrealizzabile: può anche essere anche vero, d’altronde il coordinamento intercomunale non può essere discusso nelle sue ragioni di indispensabilità e di urgenza e forse l’affrontare il problema con strumenti nuovi, promuovendo l’intervento operativo su basi dettate da un ottimismo ad oltranza, può forse meglio scuotere il torpore, la diffidenza, la preconcetta ostilità : l’esempio di Bresso, esempio che è uno fra i molti che si potrebbero citare, indica come ci si avvii, se non si interviene con ben chiari programmi operativi, alla distruzione completa di un tessuto sociale compiendo il fatale processo verso la realizzazione di un magazzeno di uomini inserito in un complesso urbano costipato, amorfo, che non può essere città se per città intendiamo affermazione di civiltà.

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La novità della proposta di dare vita ad una “provincia metropoli” con Milano come centro irradiante e di attrazione, circondata da tutta una vasta area metropolitana che con essa ha interesse ad una visione e ad una azione unitaria, non sta tanto nella situazione che essa vuole risolvere, e che non è certo sorta oggi, quanto nella formula studiata per superare l’anacronistico particolarismo dei comuni e introdurre un nuovo spirito consociativo e di collaborazione. (...)

Milano rappresenta oggi un tipico esempio di metropoli moderna. O meglio un tipico esempio di un’area metropolitana dove il comune maggiore e i comuni che lo circondano formano di fatto un tutto unico inscindibile ed omogeneo.

Le crisi dei bilanci comunali sono all’ordine del giorno nel nostro paese. Le difficoltà di Roma per quanto serie rimangono tutte sul piano comunale, non trascendono, neppure in parte, sul piano provinciale, e sono sufficienti per risolverle gli strumenti legislativi già esistenti.

Il caso di un’area metropolitana si presenta invece totalmente diverso e di assai difficile risoluzione proprio sul piano amministrativo. Su una superficie che rappresenta appena lo 0,9% del totale del territorio nazionale, vivono oggi oltre 2 milioni e mezzo di persone. Il 7% del potenziale industriale e commerciale di tutta Italia è concentrato in questo piccolo territorio. Oltre il 16% del reddito nazionale complessivo viene qui prodotto: in cifra assoluta 1200 miliardi. Ma vi è di più: tra una ventina d’anni, e senza peccare di ottimismo, avremo in questo territorio quasi 5 milioni di abitanti di cui 3 milioni economicamente attivi, ed un reddito complessivo prodotto attorno ai 3000-3500 miliardi. Chi potrà provvedere organicamente e permanentemente alle opere pubbliche, ai trasporti, alle strade ecc. se non si crea sin da oggi un quadro istituzionale adatto?(...)

Vogliamo dire qualche cosa su questa legge urbanistica del 1942 e sugli studi effettuati dal Provveditorato alle Opere Pubbliche e per Milano dagli uffici tecnici della Provincia. La legge del 1942 ha senza dubbio costituito un notevole passo innanzi rispetto alle concezioni anteriori. Essa ha per prima imposto lo studio di piani territoriali per zone con caratteristiche omogenee. Ma il clima politico degli anni in cui essa fu emanata le ha dato un vizio di origine. Tutte le attività per le quali era riconosciuta una necessità di coordinamento ( ...) dovevano svolgersi esclusivamente nell’ambito dell’autorità statale. Ciò era consono allo spirito accentratore dei tempi, ma non lo è più oggi in cui si cerca o almeno si desidera un decentramento di queste funzioni esclusivamente locali.

Anche nell’ipotesi assurda, quindi, della fusione in un unico comune di tutta o buona parte della provincia, molte delle funzioni essenziali di coordinamento non potrebbero essere svolte dall’Ente Locale, perchè ancora di spettanza esclusiva dell’organo statale. Il problema quindi che si pone oggi, squisitamente giuridico, è, oltre tutto, di devolvere all’amministrazione locale determinate attività che ancora sono di pertinenza dello Stato. (...)

Vogliamo ora accennare sia pure brevemente ad alcuni dei compiti che più urgentemente necessitano di una disciplina unitaria.

Innanzitutto la rete fondamentale delle vie di comunicazione e dei mezzi di trasporto. (...) Non va dimenticato che in un futuro non troppo lontano Milano sarà e dovrà essere circondata da numerosi centri satelliti, e ciascuno di questi dovrà poter comunicare con l’altro senza il passaggio obbligato per Milano, che sarà così sollevata di quella parte di traffico non indispensabile. Tutto il sistema dei trasporti collettivi dovrà essere man mano rimodernato e coordinato. Sarà questo un compito specifico dell’amministrazione ambrosiana che darà con ciò sollievo al comune di Milano, oberato oggi di oneri che non sono di sua pertinenza (...).

Ulteriore e non meno importante funzione della provincia metropoli nello studio e nella applicazione dei piani territoriali sarà l’indicazione di grande massima dell’uso del suolo secondo le diverse necessità - zone residenziali, zone industriali, zone agricole ecc. - Anche qui una visione generale e non particolaristica è essenziale. Il modo più efficace per salvaguardare le autonomie - è stato detto - sta nel disciplinare mediante una azione coordinatrice l’erompere delle periferie industriali dei grandi centri e nel ridurre così l’influenza che esse esercitano sulle masse rurali.

(...) Vi è ancora un aspetto di grande importanza che può essere risolto solo da una amministrazione provinciale dotata di poteri speciali. E il problema della formazione dei demani pubblici, mezzi di manovra indispensabili proprio per svolgere dei piani edilizi e di azzonamento rispondenti allo scopo. I singoli comuni non sono più in grado di attuare un programma demaniale. Un ente provinciale lo può ancora, con vantaggio economico per tutta la zona.

(...) Questo progetto si presenta ricco di prospettive per la provincia. E un progetto vivo in quanto non vuole altro che “legalizzare” una situazione che già è, e dare possibilità di progresso ordinato ad una zona in continua espansione. E un progetto che vuole eliminare con un ordinamento moderno il permanere di particolarismi contrastanti là dove gli interessi e le finalità sono comuni.

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(...) Il Comune è l’espressione d’un insediamento urbano e del suo entroterra; il modo col qualevi si vive, vi si abita, vi si circola, vi si fruisce dei fondamentali servizi, e non solo di quelli di ordine materiale, dipende inbuona misura dallepossibilità, e dall’orientamento, dell’amministrazione civica. E’ interessante osservare che (..) assistiamo oggi, in alcuni grandi centri urbani, all’estendersi di questa stessa tematica non solo in tutto l’arco della sinistra (...). A Milano, il tema della autonomia e la polemica contro ilcentralismo statalesono espliciti nel programma democratico-cristiano; e addirittura hanno avuto un momento di elaborazione originale in quello del partito liberale. Quanto alla denuncia dell’insufficienza dell’attuale amministrazione nei confronti dello sviluppo cittadino e dei suoi problemi, non è difficile trovarla anche nei partiti di maggioranza; i quali non si limitano a presentare quel che hanno fatto, ma apertamente riconoscono (...) la svolta di indirizzo necessaria a colmare le lacune più gravi; l’autocritica permette loro di candidarsi come i leaders di una nuova amministrazione “per una Milano moderna e democratica”. (...)

L’uguaglianza fra le situazioni di diritto non toglie che la differen-za fra un piccolo insediamento e una grande città non sia meramente quantitativa. Nelvillaggio, il carattere personale dei rapporti è ancora assai forte, e rende, si può dire, fisicamente distinti i padroni e i loro rappresentanti, riempiendo quindi immediatamente la lottapolitica a livello comunale d’una sua concretezza. (...) La “cosa pubblica” è tale effettivamente; e il Comune come scuola di autogoverno è una esperienza reale della collettività, la grande città invece spezza il carattere personale del rapporto fra i cittadini, che diventa, nel suo complesso, inafferrabile e astratto, non solo nell’intero tessuto urbano, ma perfino nel quartiere e nella casa, soggetti a una continua mobilità sociale; si allenta o si annulla il rapporto fra amministrato e amministratore; e il complesso dei problemi, il moltiplicarsi degli interessi in gioco appare di difficile acquisizione, in tutta la sue estensione e i suoi nessi, a chiunque non sia uno specialista. Questo carattere impersonale, astratto, esteso e sfuggente della grande città rispetto al suo abitante, fa sì che eglivi si senta inserito come in un quadro che non è possibile dominare, e al quale spesso non lo leganoné radici né futuro, cioè nessun rapporto che non sia meramente funzionale (vivere, dormire, nutrirsi, lavorare per procacciarsi i mezzi di sussistenza). Nellagrande città quindi l’esperienza di governo, o almeno di conoscenza della cosa pubblica, si annulla o diventa indiretta, mediata dalle correnti politiche (che rappresentano la sola cerniera con gli amministrati) o dai grandi strumenti di opinione. Questa distanza di partecipazione rischia di allentare ancora di più il rapporto di fiducia, di necessità fra il cittadino e l’istituto comunale; e d’altra parte rende più facile un certo giuoco di bussolotti, da parte delle classi conservatrici,attorno ai temi fondamentali della politica amministrativa. (. ..)

Finita attorno al 1948-49 la fase della ricostruzione dei moltidanni subiti dalla guerra, la città iniziava un processo di espansione a ritmi impreveduti. Tracciato il Piano Regolatore,l’estromissione delle sinistre dalla Giunta impediva al Comune di servirsene per la costituzione d’un demanio comunale - che avrebbe avuto il duplice scopo di arricchirne il patrimonio e costituire un settore di calmieramento nella edilizia, bloccando la corsa alla speculazione - e la proprietà privata si lanciava nell’acquisto e nella edificazione con un incremento del mercato, che rimase altissimo fino a circa il 1954, e poi ancora oggi sostenuto ( ...) . D’altro canto, l’aggravarsi delle condizioni di sviluppo sul terreno nazionale faceva gravitare sulla provincia di Milano una migrazione interna che supera ormai le centomila unità annue. Se l’insediamento si verifica inizialmente, per una parte, fuori dalle porte del Comune, per la difficoltà d’una sistemazione a buon mercato nella cerchia cittadina, si tratta peraltro d’una sorta di assedio e di lenta avanzata verso il centro urbano; dove comunque si svolge la giornata di lavoro.

(...) L’andamento del tessuto urbano fuori dall’ambito amministrativo è l’esempio immediatamente visivo di un fenomeno che ha ben altre dimensioni, e cioè la caratterizzazione del ruolo svolto da Milano come centro di produzione e di scambio sul terreno nazionale e internazionale: Qui è la realtà stessa della struttura che non ha più alcun punto di riferimento con i confini e i poteri del Comune, sul quale tuttavia ricadono gli obblighi di organizzazione dei servizi, che l’incremento demografico e la intensa mobilità sociale inerenti a questo grado di sviluppo della struttura stessa comportano - dalla casa, ai trasporti, all’assistenza. E lo scontro fra l’unità del fenomeno e la molteplicità degli istituti amministrativi (gli altri comuni) che vi sonò interessati a parità, in linea di principio, di poteri, conduce rapidamente Milano a contrapporsi impazientemente a essi, tentando di determinarne le linee di sviluppo: di qui la tecnica “imperialistica” del piano regolatore intercomunale concepito soltanto dalla città più grande, pone questi reciprocamente l'uno contro l'altro per l'accaparramento degli insediamenti industriali man mano che questi escono dalla città, e infine pone Milano in antagonismo con lo Stato, per l'insufficienza dei rapporti istituzionali, per l'intervento o tardo o burocratico e comunque involutivo del potere centrale sullo sviluppo dei problemi locali, per la follesistemazione tributaria.

(...) a un certo grado di sviluppo sociale e produttivo, quale si viene delineando in questi anni, la crisi del grande Comune come potere effettivo di regolamentazione della città non si risolve attraverso un assestamento giurisdizionale, e neppure nei soliti limiti della lotta contro lo Stato di polizia (“via il Prefetto!”) o per un ammodernamento del sistema finanziario, che dia oggettivamente al Comune possibilità di spesa adeguata ai compiti che gli stanno di fronte, (riforma della finanza locale), ma attraverso una concezione dei rapporti fra la città e lo Stato (...) che interpreti e sviluppi il dettato costituzionale fuori dellesecche liberal-radicali. L’autonomia si sostanzia soltanto in una struttura organica della società nazionale, e in un disegno organico del suo sviluppo. (...) La conquista d'un autogoverno effettivo si accompagna, insomma, inscindibilmente con la conquista d’un nuovo Stato, capace di esprimere - per così dire -la razionalità d'uno sviluppo nazionale.

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L’art. 12 della Legge Urbanistica prevede la possibilità di adozione di piani regolatori generali, che contemplino il territorio di più Comuni. Questa disposizione, perchè è piuttosto scarna, fa sorgere il problema di determinare la natura ed il contenuto di questi piani. Due tesi sono possibili: una, secondo la quale il cosiddetto piano intercomunale non è altro che la somma di più piani comunali coordinati tra di loro e quindi con le caratteristiche ed il contenuto dei piani regolatori generali comunali, ed un'altra, secondo la quale, invece, il piano regolatore intercomunale è un provvedimento di pianificazione intermedio tra il piano territoriale di coordinamento ed il piano regolatore generale comunale e quindi con un contenuto più preciso di quello dei piani territoriali di coordinamento (art. 5 della Legge Urbanistica) e meno dettagliato di quello previsto per i piani regolatori generali comunali (art. 7).

Al VI Congresso Nazionale di Urbanistica di Torino il problema è stato dibattuto, anche perchè è stato autorevolmente sostenuto in qualche intervento che non vi è necessità di una nuova disciplina legislativa di sostituzione e a integrazione dell’art. 12, perchè il piano intercomunale non costituisce un tipo di pianificazione diverso da quello del piano regolatore comunale, già sufficientemente regolato e precisato nell'art. 7 della Legge Urbanistica; Se è possibile trarre una conclusione dai numerosi interventi al Congresso, si può dire che, mentre è prevalsa la tesi che il contenuto del piano intercomunale deve sostanzialmente corrispondere a quello dei piani comunali è stato pure affermato che, per il fatto che a formarlo deve concorrere la volontà concorde di più enti amministrativi, nella specie più Comuni, il piano intercomunale costituisce un provvedimento di pianificazione a sé stante non per il contenuto ma per il processo formativo. Ciò risulta chiaramente dallo schema di disegno di legge presentato al Congresso. Dato come risolto questo primo problema, se ne affacciano altri, che, in un certo senso, devono essere preliminarmente risolti se si vuole spostare dal campo teorico al campo pratico la pianificazione intercomunale. I problemi possono essere sintetizzati nei seguenti interrogativi:

1) la pianificazione intercomunale trova solide basi nella pubblico opinione?

2) la pianificazione intercomunale è compatibile e realizzabile col nostro sistema amministrativo?

3) per la pianificazione intercomunale occorre tener presenti i fattori economici di costo con la formazione di un piano finanziario?

Se ben si considera, gli interrogativi, come sono stati formulali, manifestano la priorità di problemi generali di fondo sui problemi di tecnica legislativa che fino ad ora sono stati affrontati. Si badi bene che con ciò non si vuole muovere critica alcuna perché, esistendo già un testo di legge sui piani intercomunali (art. 12), è giusto che si consideri se gli strumenti legislativi siano idonei al raggiungimento dello scopo, che ci si è prefissi. Si vuole solo avvertire che non basta perfezionare gli strumenti legislativi per rendere attuabile la pianificazione intercomunale, che oggi si presenta molto difficile per le ragioni già indicate in altro articolo.

Circa il primo quesito, si può dire che la preoccupazione di una pianificazione intercomunale si è fatta sentire solo per alcune grandi città prima della emanazione della Legge Urbanistica. Se ben si ricorda, la prima preoccupazione di intercomunalità si è avuta in occasione della formazione del Piano regolatore del Comune di Roma, approvato poi con R.D. 6 luglio 1931, n. 981. Problemi particolari di sistemazione intercomunale si sono affacciali anche per Milano prima e dopo l'aggregazione dei Comuni, avvenuta nel periodo successivo alla prima guerra mondiale, e in occasione della formazione dell’Idroscalo nei riguardi del confinante Comune di Segrate. La coscienza però della necessità di pianificazioni intercomunali vere e proprie si è avuta nell’ultimo dopoguerra, in due casi distinti: quello di Comuni contermini con popolazione di entità non molto diversa l’una dall’altra, che per la loro ubicazione e per problemi comuni devono coordinare le rispettive pianificazioni e quello del grande Comune che influenza lo sviluppo edilizio dei Comuni circostanti e dà così lo spunto alla proposta di piani intercomunali.

Il primo caso è metto evidente del secondo, perchè le relazioni di intercomunalità in questo tipo talvolta possono essere anche opinabili e non di carattere permanente e può anche darsi il caso che queste relazioni non riguardino tutti i problemi della pianificazione ma solo alcuni di essi. Una attenta considerazione delle varie situazioni potrà talvolta consigliare di non addivenire alla formazione di un piano intercomunale, ma solo di formare consorzi per determinati servizi (es.: mezzi di trasporto collettivi, rifornimento e distribuzione di acqua potabile, canalizzazioni di fognatura, mezzi di allontanamento e di distruzione dei rifiuti domestici, ecc.). Altra volta invece sarà opportuno ricorrere alla adozione di piano intercomunale soprattutto quando l’edificazione dei Comuni venga ad essere continua ed a presentare quindi così le caratteristiche, che spesso si verificano nel secondo caso di intercomunalità; senza che però sia possibile stabilire la preponderante influenza di uno dei centri abitati sugli altri, che è invece la caratteristica distintiva del secondo gruppo. Per il secondo caso di intercomunalità si può dire che gli inconvenienti manifestatisi attorno ad alcune grandi città sono di tale evidenza, che nella opinione pubblica si sta necessariamente sviluppando e radicando il concetto della necessità della coordinazione dei piani regolatori comunali attraverso un piano intercomunale. E qui si affaccia un altro problema: se sia conveniente prevedere non solo la coordinazione di piani regolatori generali ma anche di piani regolatori e di programmi di fabbricazione, allegati ai regolamenti edilizi comunali. Molte volte il problema accennato si risolve da sé nel senso che l’influenza del grande centro, che determina l’edificazione nei territori dei Comuni vicini, determina anche la necessità per questi Comuni della adozione di Piano regolatore generale, non potendo servire allo scopo della disciplina della prorompente attività edilizia il solo programma di fabbricazione. Dal punto di vista etico-sociale però non sembra che il piano intercomunale sia ancora sentito come dovrebbe e questo è uno dei punti deboli, che influenzano negativamente la formazione dei piani intercomunali in progetto. Evidentemente la pianificazione intercomunale richiede una coincidenza di concezioni fra comunità diverse, e tale coincidenza importa la rinuncia da parte di ciascuno a qualche programma, che sarebbe in contrasto con gli interessi e la programmazione delle altre comunità. Solo una superiore visione degli interessi comuni può determinare il nuovo angolo visuale e quindi le rinunce a cui si è accennato. È facile quindi vedere come il primo quesito si colleghi col secondo.

Già nell’articolo precedente si era accennato a questo problema, indicando delle soluzioni possibili sia con la struttura amministrativa attuale, sia con una modificazione di essa. Il problema è veramente grave per gli interventi di pianificazione, che esigono non semplicemente la concordia al momento della adozione del piano, ma soprattutto la costante volontà di darvi attuazione senza riserve mentali, senza volute inattività e quindi ritardi pregiudizievoli per tutti, ma in modo particolare per alcuni dei Comuni interessati. Solo una forma federativa di Comuni o la creazione di un organo superiore intercomunale o l’intervento dell’autorità statale o regionale possono risolvere il problema. Per superare queste difficoltà le proposte legislative, cui in precedenza si è accennato, adottano un sistema, su cui ci si riserva di intrattenere in altro articolo. Ciò non costituisce solo una modifica della Legge Urbanistica, ma anche della Legge Comunale e Provinciale, dando la possibilità alla formazione di consorzi, che sono leggermente diversi da quelli già contemplati e sono pure diversi dai liberi consorzi previsti per la Sicilia dal nuovo provvedimento legislativo regionale.

Il problema più grave però è quello di cui al terzo quesito. Esso è grave perchè, ove si ritenga necessaria la formazione di un piano finanziario, questo deve risultare dai mezzi messi a disposizione da più Comuni e quindi viene a sorgere un problema di ripartizione degli oneri tra enti non ugualmente interessati. Potrebbe taluno ritenere che l’interesse di ogni Comune sia in funzione del costo degli interventi di ciascuno di essi nell’ambito del proprio territorio; questo forse è vero, quando si tratta di piani intercomunali del primo tipo, e cioè relativi a Comuni con termini con numero di abitanti non molto diverso tra di loro, mentre non è valido nel caso del secondo tipo, quando l’intercomunalità è determinata da un centro maggiore di attrazione, che provoca di riflesso un interesse a trasformazioni fondiarie e quindi ad attività edilizie nel territorio dei Comuni contermini. Alcuni interventi in tali Comuni sono determinati dalla necessità di garantire agli abitanti dei Comuni stessi delle condizioni di edificabilità e di vita non dissimili da quelle del centro maggiore: ciò determina un maggior costo di servizi rispetto a quelli che si avrebbero nel centro minore, ove questo non avesse la particolare ubicazione in prossimità del centro maggiore. La ripartizione quindi degli oneri non può essere fatta sulla base della distinzione territoriale degli interventi, ma in base ad altri criteri che possono essere dati da una proporzionalità al numero degli abitanti, o alla estensione del territorio, o in funzione del gettito delle imposte dirette e indirette di spettanza comunale, o meglio ancora in funzione di indice complessivo dei tre clementi. La risoluzione di questo problema non può avvenire che attraverso la formazione di un consorzio dotato di uno statuto, che determini conseguentemente l’obbligatorietà delle appostazioni finanziarie nei rispettivi bilanci. Occorrerebbe quindi arrivare in questo caso alla costituzione anche coattiva di un consorzio,con riferimento all’art. 157 del T.U. della Legge Comunale e Provinciale 3 marzo 1934, n. 383. Nello statuto di essa, di cui al successivo arto 158, occorrerà che siano tenute presenti le particolari finalità del consorzio medesimo, sia per la predisposizione e adozione del piano intercomunale, sia per quello della sua gestione dopo che sarà intervenuta l’approvazione. Sembra quindi che già nelle norme vigenti vi siano gli spunti per arrivare alla risoluzione del problema, tanto più che l’art. 160 del citato Testo unico, in mancanza di accordo tra gli enti consorziali circa la ripartizione delle spese, indica appunto come elemento concomitante per stabilire l’interesse del consorzio di ciascun ente consorziato quello della popolazione e del contingente principale dell’imposta fondiaria. Data l’importanza assunta ora dalle imposte indirette, sarebbe il caso di pensare di integrare l’elemento fiscale con quello del gettito , delle dette imposte indirette ed in modo particolare di quello delle imposte di consumo.

Se ben però si consideri, anche la soluzione del terzo quesito dipende sostanzialmente dalla risoluzione dei quesiti precedenti, che peraltro, come si è già accennato, sono fra di loro intimamente collegati.

Pur rinviando, per non tediare il lettore, l’esame dei problemi legislativi ad altro articolo, non si ritiene di poter chiudere queste poche pagine senza indicare la via, che si ritiene in pratica idonea a facilitare la soluzione del problema sul terreno psicologico della pubblica opinione.

Se accingendosi alla pianificazione intercomunale, dopo lo studio attento dei problemi e della situazione delle varie comunità interessate, ci si preoccuperà di realizzare attraverso la pianificazione comune non solamente l’ordinato sviluppo edilizio degli abitati (purtroppo le esigenze della intercomunalità è stata vista ora solo con l’intento di porre un freno al caos edilizio attuale), ma anche e soprattutto al raggiungimento e la conservazione di un livello comune di condizioni di vita, con la sola differenziazione in rapporto alle attività prevalenti della popolazione, le avversioni alla pianificazione e le rivalità ed incomprensioni campanilistiche dovranno per forza cadere. Caduti questi primi ostacoli di natura psicologica, rimarrà da risolvere il problema tecnico-finanziario; per il primo, relativo allo studio ed alla stesura del progetto di piano intercomunale, la esalta interpretazione dei caratteri e dei bisogni dei singoli aggregati daranno indirizzi sicuri; per il secondo, relativo ai mezzi finanziari, si potrà procedere nel modo dianzi accennato.

Così operando, sorgerà spontaneo e concomitante l’interesse di tutte le Amministrazioni locali del comprensorio per la pianificazione. Non è questa una visione dettata da pervicace ottimismo: essa è fondata sulla evidenza ed urgenza dei problemi, che si trovano di fronte agli amministratori locali, , e sulla constatazione da essi fatta della impossibilità di soluzione, se non interviene un coordinamento delle soluzioni attraverso un accordo ed uno sforzo comune. Chiarita la finalità immediata e quella mediata della pianificazione intercomunale, non è pensabile che gli amministratori vogliano addossarsi la grave responsabilità di privare i loro amministrati (che sono poi gli elettori) dei benefici innegabili del coordinamento delle attività comunali con un programma comune, realizzabile , con la concorde volontà e con l’apporto di tutti e mirante a migliorare le condizioni di vita di tutti gli abitanti del comprensorio. In altri campi; le più inveterate avversioni ad incomprensioni, quando si è fatta strada la coscienza del bene comune, sono cadute e l’accordo non è mancato. Perchè non dovrebbe avvenire altrettanto nel campo della pianificazione intercomunale?

Giovanni Malagodi, La Provincia Ambrosiana. Studio preliminare per un progetto di riordinamento amministrativo della Provincia di Milano, in Partito Liberale Italiano, Atti del 1° Convegno di studi per la “Provincia Ambrosiana”, Milano, 24-25 marzo 1956 [il testo integrale comprende anche alcune tabelle di dati che ho escluso per motivi di spazio (f.b.)]

1 - Il fenomeno della grande metropoli è peculiare del mondo moderno. L’esistenza di immensi agglomerati urbani, di città giganti la cui importanza economica e politica è spesso preminente nel Paese, che costituiscono il centro e il fulcro di vastissime regioni, che nel loro sviluppo letteralmente traboccano, senza ordine, dove e come possono, assorbendo di fatto e scavalcando le minori comunità viciniori, pone continuamente in essere una serie di problemi immani, di governo locale, di urbanistica, di riorganizzazione di servizi, di finanza, alla cui soluzione i vecchi modelli legislativi elaborati in tempi in cui il fenomeno della metropoli ancora non era nato o almeno esasperato, sono assolutamente incapaci di far fronte.

Questo fenomeno sinora, a quanto ci consta, raramente studiato in dettaglio, presenta un campo affascinante di indagine per l’economista come per l'uomo politico o il giurista, e la necessità di ricercare soluzioni adeguate ai problemi che sorgono dall'esistenza di queste grandi comunità si fa sempre più vivamente sentire.

Non vi è chi non veda come soltanto soluzioni radicali possano portare un aiuto effettivo per l’ordinamento nel caos attualmente esistente. Gli schemi legislativi attuali, particolarmente in Italia, come abbiamo già detto, sono inadeguati a fronteggiare questo problema, ed offrono tutt'al più all'amministratore intelligente la possibilità di rimandare la soluzione con palliativi. Ma il problema di fondo resta, e solo nuovi intendimenti e nuove leggi possono riuscire a ridare un riordinamento a questa materia.

Estremamente diverse naturalmente sono le situazioni particolari che si trova a fronteggiare ogni grande metropoli, ed estremamente complessi quindi sono i rimedi necessari per ciascuna di esse.

Tipico fenomeno italiano di grande metropoli nel senso sopra detto lo abbiamo in Milano.

La peculiarità di Milano non sta soltanto e solamente nell'essere essa il comune economicamente più importante d'Italia, bensì nel fatto di essere il centro irradiante e di attrazione di tutta una vasta zona, che chiameremo qui appresso “zona ambrosiana”, caratterizzata da una omogeneità di interessi e di problemi quale non si riscontra in alcuna altra zona d'Italia, e nella quale, in alcuni settori, già esiste una continuità anche urbanistica tale, da costituire nel complesso un tutt'unico territoriale, demografico ed economico, compatto ed inscindibile.

La speciale situazione di Milano, ed i particolari complessi problemi che da tale situazione sorgono, ha lontane origini storiche non facilmente né brevemente analizzabili.

Tale posizione particolare della metropoli lombarda nei confronti di tutto il suo “hinterland” risulta più chiaramente se la confrontiamo brevemente con la posizione di un'altra pur grande metropoli: Roma.

Nessuno dubita che Roma sia assillata essa pure da gravi ed acuti problemi. Ma grosso modo si può dire che i problemi di Roma, per quanto molto seri, hanno un carattere sopratutto comunale e sono riconducibili in definitiva a semplici problemi di bilancio. Roma ha praticamente illimitate possibilità di espansione; la superficie del comune solamente è di oltre 1.500 Km2, pari ad oltre la metà della superficie di tutta la provincia di Milano; attorno ad essa, geograficamente parlando, vi è il vuoto; quando occorresse, molti dei comuni che la circondano potrebbero facilmente e con loro vantaggio venire assorbiti. Roma, insomma, abbisogna di un piano regolatore organico, abbisogna specialmente dei mezzi per poterlo attuare, ma da un punto di vista giuridico e amministrativo, per essa non vi sono difficoltà per risolvere le sue particolari situazioni.

Totalmente diversa è invece la situazione di Milano. Innanzi tutto, e dobbiamo sempre tenerlo a mente nella disamina dei problemi che seguono, i problemi di Milano non hanno un carattere puramente comunale, ma investono tutto un vasto territorio, per lo meno gran parte , della provincia, e forse anche comuni appartenenti a provincie limitrofe. Malgrado questa sua posizione di centro effettivo di un'area metropolitana vasta e definita, Milano è letteralmente soffocata entro i propri ristretti confini urbani e circondata da una miriade di comuni, molti dei quali sono vere città, ricche, industrializzate, indipendenti, fiere della loro indipendenza e del loro passato storico; comuni fittamente popolati che toccano, combaciano con la metropoli, si confondono con essa, e ne costituiscono di fatto la diretta e naturale continuazione, e che tuttavia costituiscono giuridicamente enti locali autarchici, con gli immancabili conflitti di interessi e di potestà, o almeno con la mancanza di coordinamento, che derivano dall’esistenza di una pluralità di poteri completamente autonomi l'uno rispetto all'altro.

È di grande interesse osservare per un momento una carta della provincia con il tracciato dei confini dei comuni. I comuni della provincia milanese sono 245, per la maggior parte piccoli o piccolissimi come estensione e assai densamente popolati. Tale frazionamento è il risultato di un lunghissimo processo storico, ma oggi esso è oltre che anacronistico, dannoso e controproducente per lo sviluppo di tutta la zona.

Non tutta la provincia si può naturalmente dire che converga direttamente e di fatto su Milano. La parte a sud della città, ad esempio, è ancora una zona eminentemente agricola, e l'industria, salvo eccezioni tipo Melegnano, è ancora in una fase embrionale. Ma tutta l'area situata a nord della statale per Magenta da un lato e della ferrovia Milano Treviglio dall'altro lato, rappresenta un complesso industriale unico nel suo genere e tra i maggiori forse anche in Europa.

2 - Il descrivere una provincia, quale la milanese, dal punto di vista demografico ed economico non è una cosa facile, specie se per ragioni di spazio deve essere contenuta in poche pagine. Conviene per altro. ricordare alcuni dati che valgono a dare l'ordine di grandezza dei fenomeni.

Secondo i dati del censimento dell'anno 1951 la provincia di Milano presentava una popolazione residente di 2.505.153 abitanti, raggruppata in 245 comuni di cui: Milano con 1.274.245 abitanti; Monza con 73.114 abitanti; cinque comuni fra i 20 ed i 50 mila abitanti; venti comuni fra i 10 ed i 20 mila abitanti; 44 comuni fra i 5 ed i 10 mila abitanti ed il resto distribuito fra altri 174 comuni con una popolazione inferiore ai 5 mila abitanti.

Il settore industriale, sempre alla stessa epoca, era costituito da un complesso di 104.412 ditte articolantisi in 113.311 unità locali con 875.514 addetti e con una forza motrice installata per 2.045.579 HP.

Nel 1954 il prodotto netto dei settori dell'industria, commercio, credito, assicurazioni e trasporti è stato di 950.6 miliardi di lire, pari cioè al 16.18 % del prodotto netto nazionale per gli stessi settori; percentuale non raggiunta non solo da nessuna altra provincia, ma nemmeno da nessun altro complesso regionale. Primato questo che la provincia di Milano detiene anche per i settori delle “libere professioni e servizi industriali e domestici” con un ammontare assoluto di 66.5 miliardi cioè il 14.97% del totale nazionale e ciò che più conta lo detiene anche nel totale del reddito privato e della pubblica amministrazione con un valore assoluto di ben 1.078 miliardi pari all'11.77% del totale nazionale.

Una simile preponderanza economica appare ancor più evidente se i 950.6 miliardi prodotti dai settori industria, commercio, credito, assicurazione e trasporti della provincia di Milano si confrontano ai 794 miliardi di tutto il Piemonte, ai 442,2 dell'EmiliaRomagna ed ai 514.8 miliardi del Lazio (di cui 457 spettano al comune di Roma).

Anche nel settore agricolo il posto occupato dalla provincia di Milano è di grande importanza, benché in tono minore di quello industriale. Il suo prodotto netto agricolo ammonta a 50.3 miliardi pari al 2.00% del prodotto netto nazionale, percentuale superata di poco solo da quattro provincie eminentemente agricole e cioè Bari, Cuneo, Pavia e Roma.

Tale apparato produttivo, che è il più progredito d'Italia ed anche uno dei migliori d'Europa, non presenta però uno sviluppo territoriale omogeneo. In linea di massima, ma con limiti territoriali abbastanza definiti, la provincia di Milano può essere divisa in due zone nettamente differenziale. La prima, che definiremo prettamente industriale, parte da Milano e comprende tutto il nord della provincia sviluppandosi in particolar modo sulle direttrici Milano – Magenta - Abbiategrasso; Milano - Legnano e superando i limiti provinciali si estende a Busto Arsizio - Gallarate ed anche al Saronnese; Milano - Meda; Milano - Seregno; Milano – Monza - Vimercate; Milano - Melzo e, unica eccezione verso il sud, sulla direttrice Milano - Melegnano. Direttrice quest'ultima che forma pittoricamente il manico del ventaglio di irradiazione che parte dal Capoluogo.

Lo sviluppo industriale della provincia di Milano ha seguito, come sempre ed ovunque, le grandi vie di comunicazione, le fonti di energia e di materie prime e, pure molto importante, le fonti di mano d'opera.

Per meglio rendersi conto dell'entità del fenomeno crediamo sia necessario ricorrere nuovamente alle cifre.

Se a puro scopo descrittivo, da tutta la provincia milanese scorporiamo la zona industriale seguendo le direttrici più sopra tracciate e facendone un territorio continuo, si può facilmente vedere come la c.d. “Zona Ambrosiana” comprendente circa 135 comuni su 245, raccolga nel complesso 1'88.0% della popolazione, il 91.6% delle industrie manifatturiere, con il 96.3% degli addetti in tali industrie, e il 90.9% delle aziende commerciali con il 93.4% dei relativi addetti.

Nel complesso, su una superficie di 1.428 Km2. che rappresenta grosso modo il 50% di tutto il territorio provinciale, è raggruppato più del 90% dell'attrezzatura industriale e commerciale della provincia stessa.

Nel resto della provincia, che copre il 48.3% della superficie totale, la concentrazione delle industrie manifatturiere e commerciali è solo dell'8.8% delle ditte e del 4.3% degli addetti.

Inoltre le differenze delle percentuali delle ditte in confronto a quelle degli addetti, che nella zona ambrosiana è in crescendo (91.2% contro 95,7%) e nella seconda zona è in diminuendo (1'8.8% contro 4.3%) indica chiaramente come nel primo territorio prevalga la media e grossa industria e nel secondo prevalga la piccola industria a carattere artigianale.

Se alla “zona ambrosiana” uniamo a scopo di indagine anche i comuni Varesini, cioè il Saronnese, il Gallaratese ed il Bustese, che ne costituiscono una specie di prolungamento economico, il potenziale economico-demografico della zona ne risulterebbe ulteriormente ed enormemente aumentato.

Ancor più grandioso appare il problema se questi dati li compariamo a quelli relativi a tutta la Lombardia ed all'intero Paese.

La “zona ambrosiana” (parte settentrionale della provincia di Milano e comuni varesini) comparata alla Lombardia, contro una superficie pari al 6.9% possiede il 42.9% delle ditte manifatturiere con il 55.796 dei relativi addetti, ed il 39.6% delle ditte commerciali con il 49.0% dei relativi addetti. Tale poderosa concentrazione aumenta in proporzione se la comparazione viene fatta con tutto il territorio nazionale; e cioè su una superficie pari allo 0.5% si concentrano il 7.3% delle industrie manifatturiere con il 17.9% degli addetti al settore ed il 6.8% delle ditte commerciali con il 10.1% degli addetti. Non solo, ma per tornare al paragone con Roma la zona ambrosiana si estende su una superficie di circa 1.650 Km2. contro una superficie del solo comune di Roma di oltre 1.500 Km2: quasi nove volte la superficie del comune di Milano (182 Km2).

3 - Nasce a questo punto naturale la domanda: quale sarà lo sviluppo della “zona ambrosiana” nei prossimi 15-20 anni? Si sa quanto sia azzardato fare calcoli e previsioni future nel campo economico, tanto più se si riflette che in questo caso i dati del passato sono legati in parte a fenomeni straordinari quali la guerra e la ricostruzione e quindi ne è ancora più difficile del solito la proiezione nel futuro.

Non è il caso di entrare qui in una disamina di tutte le indagini, sia generali che particolari, che portano alla complessa valutazione dello sviluppo futuro della zona. È opportuno invece tracciare, sia pur sinteticamente, la linea conduttrice della valutazione stessa.

È noto come per il complesso del nostro paese si calcoli generalmente per gli anni futuri un incremento annuo del 5% nel reddito nazionale netto. Accettando la validità di tale assunto, si può calcolare che il prodotto netto dei settori privati passerà per tutta la nazione dagli attuali 8.008 miliardi annui a 16.000-20.000 miliardi (di lire 1954) nel 1970-1975. Se un tale incremento lo applichiamo anche alla “zona ambrosiana” per lo stesso periodo di tempo, il prodotto netto dei settori privati passerà dagli attuali 1.200 miliardi a 2.400-3.000 miliardi nel quinquennio 1970-1975. Evidenti ed ulteriori considerazioni però portano ad aumentare questo incremento della “Zona ambrosiana” la cui importanza ed il cui impeto di sviluppo nel campo economico abbiamo visto essere di gran lunga superiore alla media nazionale. Si è quindi probabilmente prudenti se si assume che il prodotto netto dei settori produttivi privati nella zona in questione possa raggiungere nel 1970-1975 i 3.000-3.500 miliardi, corrispondente ad un saggio annuo di incremento di poco più del 6%. In altre parole, tra 15-20 anni la produzione economica del settore privato nella “Zona ambrosiana” raggiungerebbe 2.5-3 volte quella attuale e anche l’apparato produttivo dovrà essere aumentato dello stesso ordine di grandezza, e così pure la concentrazione industriale e commerciale della zona.

Rimanendo su un piano sintetico e generale va però ancora notato come lo sviluppo industriale e commerciale sopra esposto si accompagnerà necessariamente ad uno sviluppo probabilmente ancora maggiore delle occupazioni “terziarie” (servizi diversi) e quindi ad uno sviluppo degli “addetti” non agricoli e in generale ad un incremento demografico almeno altrettanto importante.

Il totale degli addetti non agricoli della zona complessiva sopra delimitata è valutato per il 1951 nell'ordine di un milione di unità e se a tale cifra aggiungiamo i liberi addetti diretti o indiretti alle aziende industriali e commerciali, i commessi viaggiatori e rappresentanti, i liberi professionisti, i lavoratori a domicilio, gli agricoltori liberi e gli addetti agricoli, il totale della popolazione attiva raggiunge la ragguardevole cifra dell'ordine del milione e mezzo, e cioè più del 55% della popolazione totale. In conseguenza, se si assume un coefficiente di incremento della attività economica generale della zona per i prossimi 15-20 anni di 2.5-3 volte, è da presumere che anche per gli addetti il coefficiente di incremento sarà (tenuto conto dell'aumento nella produttività) dell'ordine di 2-2.5 volte, di modo che nel 1970- 75 gli addetti non agricoli ammonterebbero a circa 2-2.5 milioni di unità, mentre il totale incremento demografico (sia naturale che di carattere migratorio) porterebbe la popolazione a circa 5 milioni di abitanti, di cui circa 3 milioni economicamente attivi.

Anche se su queste cifre si volesse praticare un taglio prudenziale, la loro evidenza, sia pure schematica. e quello che ci dicono sulla importanza attuale della zona ambrosiana e sull'ampiezza dei futuri sviluppi è tale, riteniamo, da rendere indispensabile un pronto esame e pronte decisioni e da giustificare pienamente i provvedimenti amministrativi che di seguito proporremo per la zona.

In particolare ciò che ci dicono questi dati è la necessità di guardare come a un tutto omogeneo questo complesso produttivo e di pro- porre quindi schemi che tengano conto pienamente di questa situazione di fatto che si è creata e che è destinata a progredire.

Parlando più avanti delle funzioni che l'amministrazione responsabile di un territorio economicamente così avanzato è tenuta a svolgere, parleremo diffusamente degli specifici compiti che le dovrebbero essere affidati.

Qui tuttavia, per rendere più facilmente intelleggibili le formule che verranno esposte, e per concludere questa parte illustrativa delle caratteristiche economiche del milanese, vogliamo almeno accennare l ad alcuni dei problemi comuni della “zona ambrosiana”.

Innanzi tutto, i trasporti e le strade che dovranno ricevere una impostazione unitaria, adatta e indispensabile per lo sviluppo economico di tutto il complesso territoriale. Poi l'attività urbanistica e tutto ciò che essa comprende: quindi dislocazione delle industrie, coordinamento e decentramento dei servizi, zonizzazione delle città. In terzo luogo, il problema del più facile accesso alle fonti di energia e la dislocazione di tali fonti là ove si desidera promuovere una maggiore concentrazione di industrie a preferenza di altri luoghi.

Sono problemi questi che debbono essere trattati in dettaglio, ma già da questi accenni appare chiaro come essi siano comuni a tutta la zona e come sia quindi vitale che essi vengano trattati in modo organico.

Li riprenderemo tra breve dopo avere considerato il lato amministrativo e giuridico del problema.

4 - La breve analisi economico-demografica che abbiamo or ora fatto, ha, speriamo, ancor meglio servito ad illustrare la specialissima importanza che la zona ambrosiana riveste per tutto il Paese.

Da molte parti, a quanto ci consta, si sente la necessità che tutta i questa zona venga meglio coordinata al fine di ottenerne un più regolato sviluppo urbanistico in senso lato, ma la legislazione provinciale vigente in Italia non offre il modo di attuare questo coordinamento.

Le premesse basi dalle quali siamo partiti nello svolgere questo studio, si possono così sintetizzare: necessità di coordinamento per tutta la zona ambrosiana dei principali servizi, piani regolatori, strade e comunicazioni, sanità e igiene, assistenza e beneficenza, istruzione generale e professionale con la metropoli lombarda “centro funzionale e irradiante”. E il principio informatore quindi, dal quale ci siamo mossi nel formulare le proposte che seguiranno è che l'ordinamento provinciale attualmente esistente è insufficiente per attuare un coordinamento adeguato di questi servizi per il complesso dei comuni che intèressano.

Non è inutile ricordare qui brevemente i principi della legislazione provinciale italiana. La provincia appare oggi sotto un duplice aspetto: come circoscrizione amministrativa dello Stato e come ente autarchico territoriale. Sotto il primo aspetto essa è più che altro sede di alcuni uffici governativi organi dell'amministrazione statale: il Prefetto, il Vice Prefetto, il Consiglio di Prefettura, la Giunta provinciale Amministrativa.

Sotto il secondo aspetto essa appare come ente dotato di personalità giuridica distinta da quella dello Stato e rivolto alla soddisfazione di particolari interessi pubblici. Gli organi della provincia intesa in quest'ultimo senso sono il Consiglio Provinciale, eletto a suffragio universale con le modalità fissate dalla legge 8 marzo 1951 n. 122, la Giunta Provinciale e il Presidente della Giunta Provinciale.

Le attribuzioni della provincia rientrano quasi tutte nel campo dell'attività sociale. Esse si estendono inoltre anche alle opere pubbliche, in particolare strade e opere idrauliche.

Comunque difficilmente si possono trovare nelle attribuzioni della provincia dei poteri coordinatori generali sul tipo di quelli richiesti per un migliore coordinamento della zona che a noi interessa. E tuttavia la necessità di una facoltà di tale genere è da tutti sentita, dalle amministrazioni provinciali stesse che tendono per quanto possibile ad allargare i loro interventi.

Unica concreta possibilità di coordinamento relativamente a determinate materie, è oggi data dalla facoltà di costituire dei consorzi amministrativi. La disciplina di tali consorzi è contenuta negli articoli 100-172 della legge comunale provinciale; i consorzi possono essere intercomunali e interprovinciali, obbligatori o facoltativi.

In tutti i casi però, come già abbiamo detto, la regolamentazione giuridica attuale appare insufficiente per un coordinamento adèguato e continuo dell'attività di tutti i comuni.

Non v'è chi non veda, d'altro lato, quanto sia essenziale per la zona ambrosiana un coordinamento adeguato dei principali servizi e la stesura di un piano regolatore provinciale capace di dirigerne lo sviluppo negli anni futuri.

5 – L’aspirazione ad un migliore regolamento di tutto il territorio è da tempo sentita.

Esiste da noi una legge generale per tutto il Paese, una legge emanata nell'ormai lontano 1942, la quale impone appunto lo studio di piani regolatori regionali, col fine precisamente, ove se ne presenti la necessità, di studiare il coordinamento di territori con caratteristiche omogenee. Tale legge, per molti anni caduta nel dimenticatoio, ha ripreso attualità oggi e già qualche regione ha iniziato gli studi preliminari per la stesura di piani regolatori regionali. In testa a questi studi vi è la regione lombarda, e in particolar modo la provincia di Milano ha per suo conto già iniziato da tempo indagini approfondite dirette a puntualizzare i problemi più scottanti di tutta la provincia. Ma tali studi, per quanto accurati e indispensabili per una efficace comprensione del problema, sono ancora lontani dal potere trasformarsi in pratiche iniziative.

Che un fermento di attività in questo senso esista è stato anche recentemente confermato al congresso internazionale tenuto alla Mendola il settembre scorso, nel quale sono stati dibattuti i problemi della pianificazione regionale. Pure in occasione del convegno delle città, tenuto a Roma l'autunno scorso, sono stati in parte dibattuti i problemi che insorgono dall'esistenza di vaste aree metropolitane. A Milano, infine, è stato non molto tempo fa approvato un piano intercomunale con 51 comuni della provincia per la regolamentazione urbanistica.

6 - Tutto questo fermento di iniziative, di studi, di scritti in questo senso, dimostra che è ormai giunto il momento per passare da studi astratti a proposte concrete che permettano di tradurre nei fatti le esigenze rivelate dagli studi medesimi.

Di norma, e giustamente, si ha paura di costituire nuovi organi “super” di qualunque tipo essi siano. Ma nel caso di riordinamento di una zona metropolitana, di fatto già costituita, dove tuttavia, come già abbiamo fatto rilevare prima, una pluralità di poteri autonomi si contrastano a vicenda, danneggiandosi reciprocamente e compromettendo il regolare sviluppo di tutto un territorio economicamente essenziale per il Paese, solo la creazione di un qualche organo super-comunale capace di esercitare una autorità coordinatrice per alcune determinate attività di interesse comune, può avere la possibilità di ottenere qualche pratico ed utile risultato.

È in questo senso che si svolge questo studio e in questo senso che si prospettano alcune possibili soluzioni. Quelle che seguono, vogliono essere delle proposte e come tali vogliono costituire un punto di partenza per suscitare discussioni, per essere eventualmente sostituite da altre proposte migliori. Ciò che conta, in tutti i casi, è di iniziare a fare qualche cosa in questo campo nel più breve tempo possibile. Anche qualche errore all’inizio sarà sempre preferibile alla attuale inerzia.

7 - In astratto le possibili soluzioni che si possono dare al problema sono molteplici. Si può da un canto immaginare di procedere alla costituzione di un qualche organo di tipo super-comunale, non toccando gli attuali organi amministrativi della provincia, in particolare l' Amministrazione provinciale propriamente detta. Teoricamente, almeno tre sono i possibili metodi per attuare questo. Si può per esempio pensare di allargare smisuratamente il Comune di Milano sino ad assorbire tutti o quasi i comuni componenti la zona ambrosiana. L’immenso comune che ne risulterebbe potrebbe in teoria funzionare come ogni altro comune, oppure venire a sua volta risuddiviso in distretti o sotto-comuni, sul tipo dei distretti di New York.

Appare subito evidente che una soluzione del genere sarebbe inadeguata e irrealizzabile. È pur vero che il fenomeno di fusione di comuni avviene anche con una certa frequenza, e Milano stessa, ad esempio, nel 1923 ha proceduto alla aggregazione di una decina di comuni limitrofi. È pur vero anche che in determinati casi la fusione di due o più comuni può essere cosa utile e benefica e specialmente nella provincia di Milano, caratterizzata come già abbiamo accennato prima da una miriade di piccoli o piccolissimi comuni, ciò dovrà col tempo avvenire.

Ma la fusione di oltre un centinaio di comuni in uno solo, sia pur questo Milano, sarebbe oggi assolutamente ingiustificata. Il comune è oggi senza alcun dubbio l'ente locale più sentito e più rappresentativo. Nella provincia di Milano poi abbiamo a che fare con comuni sul tipo, tanto per fare qualche nome, di Monza o Legnano, ricchi di tradizioni e non solo di tradizioni, comuni che mai si assoggetterebbero a divenire dei puri e semplici distretti o quartieri.

Infine la continuità urbanistica è per ora limitata ad alcuni specifici settori della zona ambrosiana, per cui l'immenso comune che ne risulterebbe sarebbe anche ed oltre tutto territorialmente discontinuo. Insomma una proposta del genere oltre che del tutto immatura, urterebbe contro il buon senso e tutta la nostra tradizione.

Più facilmente realizzabile potrebbe invece essere un'altra proposta. Creare cioè al di fuori e al di sopra dell'attuale Amministrazione provinciale e dei singoli Consigli comunali naturalmente, un “Consiglio Ambrosiano” “ sui generis”, eletto in modo particolare e dotato di particolari poteri di coordinamento e di supervisione, che dovrebbe convivere pacificamente con gli organi amministrativi attualmente esistenti.

In astratto tale soluzione è possibile, ma il suo pratico funzionamento sarebbe in realtà estremamente difficile.

È vero che l’Amministrazione provinciale attuale non svolge compiti di coordinamento, ma molte delle sue funzioni, quelle che riguardano la viabilità, per esempio, dovrebbero venire assunte dal Consiglio ambrosiano se questo deve potere esercitare un’utile funzione. Si verrebbe quindi, ad avere una situazione ibrida. O l'eligendo Consiglio ambrosiano si limita ad avere una funzione puramente consultiva, e in questo caso esso perde tutta o quasi la sua utilità pratica. Oppure dovrebbero essere drasticamente fissati i compiti spettanti all'organo ambrosiano e all'organo provinciale.

In pratica però riteniamo che i conflitti di competenza che si creerebbero sarebbero infiniti, e tutta la bardatura burocratica che si finirebbe con l'avere diverrebbe insopportabile.

Infine, ed in modo più consono alla realtà, si potrebbero saltare a piè pari le difficoltà insite nelle due precedenti proposte, proponendo di creare invece nell'ambito della zona ambrosiana un grande consorzio amministrativo di tutti i comuni che ne fanno parte, consorzio chiamato a deliberare e decidere su alcune e prefissate materie.

Vale la pena di analizzare in dettaglio questa proposta perchè essa può apparire sotto molti aspetti buona, e migliore e più facilmente realizzabile di quelle che faremo in seguito.

Principale vantaggio di una soluzione del genere sarebbe quello di appoggiarsi alla legge vigente usufruendo della nota figura giuridica del consorzio amministrativo di cui abbiamo già accennato in precedenza.

Attualmente la facoltà di costituire dei consorzi amministrativi intercomunali e anche interprovinciali viene utilizzata per scopi di limitata importanza e di limitato interesse. Per provvedere ad esempio a determinate opere pubbliche di interesse collettivo per pochi comuni o per provvedere ad alcuni servizi in comune. Tipico esempio la costituzione di un consorzio per il servizio di segreteria tra due comuni.

Da un punto di vista strettamente giuridico non crediamo vi sarebbero ostacoli gravi a voler estendere questa facoltà di consorziarsi ad un numero anche rilevante di comuni e per scopi di vasta ed ampia portata.

Il vantaggio di usufruire di una figura giuridica nota è in un certo senso rilevante. Stabiliti i problemi e i bisogni comuni di una determinata zona, i comuni componenti tale territorio potrebbero venire obbligatoriamente inclusi nel consorzio (consorzio obbligatorio), e di tale consorzio verrebbe a far parte per legge la provincia stessa, la quale, sempre per legge, sarebbe tenuta a concorrere per almeno un quarto alle spese.

In tal modo si realizzerebbe lo scopo di provvedere in modo unitario ai problemi generali della zona, senza sminuire di troppo l'autorità dell'amministrazione provinciale.

L'assemblea consortile diverrebbe in un certo senso quell'organo super comunale di cui abbiamo detto prima, con facoltà di imperio sui comuni della zona per le materie fissate come scopi del consorzio nello statuto del consorzio stesso.

A parte l'utilità pratica di un consorzio di tal fatta, esso potrebbe anche finire con l'avere una funzione educativa non trascurabile per la collaborazione dei diversi comuni tra di loro.

Malgrado l'apparente vantaggio di una soluzione del genere, vi sono diversi punti contrari di natura politica oltre che pratica che ne sconsigliano l'adozione.

In primo luogo sarebbe sproporzionato e contrario allo spirito della legge voler estendere questa facoltà di riunire alcuni comuni in consorzio, sino a tal punto. Non era certo negli intendimenti del legislatore dar modo di costituire un consorzio di tale ampiezza e con tali poteri, e finire col dare ad una assemblea consortile una autorità specifica superiore alla stessa autorità della amministrazione provinciale e di tutti i singoli consigli comunali.

Secondariamente un organo consortile mancherebbe di ogni carattere di flessibilità e di adattabilità alle diverse situazioni di fatto che si vengono via via a creare.

Sempre contraria allo spirito della legge è inoltre la formazione di un consorzio creato “per sempre”. Il consorzio quale è comunemente inteso, ha sempre un carattere temporaneo, mentre è essenziale per la zona ambrosiana un organismo permanente e responsabile delle sue azioni.

Infine una soluzione del genere mancherebbe completamente di “cuore politico”. Nell'assemblea consorti le entrerebbero a far parte unicamente i rappresentanti dei singoli comuni (nel consorzio, ogni comune avrebbe diritto ad un numero di rappresentanti in proporzione del suo contributo al consorzio stesso. In tal modo l'assemblea consortile che risulterebbe sarebbe oltre tutto troppo numerosa e inadatta a compiere un lavoro utile) ed i problemi della zona verrebbero visualizzati ed impostati sotto l'angolo ristretto dei singoli problemi comunali, e non nella loro completezza e senza tener conto dei futuri bisogni e sviluppi di tutto il territorio nel suo complesso.

Mentre una funzione anche politica è essenziale in un organismo chiamato a riordinare tutta una parte di territorio che, vale la pena di ripeterlo, è economicamente e anche politicamente il più importante del Paese.

8 - Le tre proposte di cui abbiamo ora detto appaiono irrealizzabili o per lo meno sconsigliabili. Nessuna di esse permette di raggiungere lo scopo di realizzare un organo coordinatore, dotato anche di facoltà di imperio, senza per questo assorbire o annullare la funzione del comune.

E l'ostacolo principale alla realizzazione di questo organo è dato dall'esistenza di una amministrazione provinciale inadatta a svolgere compiti coordinativi, e nello stesso tempo dotata di alcune funzioni che debbono venire assunte ed opportunamente sviluppate dall'organo ambrosiano.

La proposta quindi che segue parte da tutt'altro presupposto delle precedenti, e riteniamo sia la sola che ci permetta di raggiungere il fine desiderato.

Già abbiamo illustrato in precedenza quelle che sono oggi le funzioni della Amministrazione provinciale, e già abbiamo rilevato più volte come queste siano insufficienti.

È a tutti noto che oggi la provincia è poco sentita, poco apprezzata anche quando, come la provincia di Milano, essa cerca di allargare i suoi interventi, conscia della necessità che qualche cosa di più deve essere fatto per la vita del territorio che essa amministra.

La migliore prova di questa aspirazione da parte della provincia di Milano la si ha oggi considerando gli studi che essa ha condotto, appunto per la stesura di un piano regolatore provinciale nell'ambito del piano regolatore regionale. Ma questa sua lodevole aspirazione è destinata a cadere nel nulla per la mancanza di una base giuridica su cui appoggiarsi, e la impossibilità pratica di potere intervenire efficacemente nell'ambito dei singoli comuni.

Riteniamo quindi che un allargamento dei poteri della provincia, una trasformazione radicale della amministrazione provinciale di Milano, costituisca l'unico metodo per realizzare quanto da ogni parte, dalla provincia stessa in primo luogo, si chiede insistentemente.

È in questo senso che è ispirata la proposta che segue, nel senso cioè di trasformare l'amministrazione provinciale milanese attuale, in una amministrazione provinciale ambrosiana, capace realmente di corrispondere ai bisogni che il moderno e grandioso sviluppo economico e demografico della provincia richiede.

È evidente che una trasformazione della attuale provincia in tal senso significa una vera e propria rivoluzione amministrativa.

Ma solo un intervento radicale in questo campo può permettere il riordinamento e il rinnovamento del territorio ambrosiano, mentre il ricorrere a semplici palliativi, quale in definitiva sarebbe ad esempio la formazione di un consorzio, non farebbe che ritardare e rendere più difficile la soluzione del problema.

La provincia ambrosiana ha diritto e ha necessità ad un ordinamento speciale adatto alla sua posizione. Esempi di speciali amministrazioni per speciali situazioni non mancano. Valga per tutti la speciale amministrazione di Parigi e del dipartimento della Senna, Parigi, capitale economica oltre che politica della Francia, e il dipartimento della Senna, immenso suburbio della capitale francese, godono da un secolo e mezzo di speciali prerogative che li differenziano da ogni altro dipartimento della Francia. In Francia “ la capitale appartient au gouvemement” e questo stato di fatto riconosciuto ha permesso e permette tuttora di coordinare adeguatamente lo sviluppo di tutto il dipartimento.

Non è retorica l'affermare che Milano è realmente la capitale economica di Italia. Ed è uno stato di fatto riconosciuto che gran parte della ,zona del milanese fa corpo con Milano ed- ha interesse, come Milano, ad una visione ed azione unitaria nello sviluppo di questo spazio vitale comune.

Crediamo quindi che sia legittima aspirazione della provincia di Milano quella di ottenere dallo Stato una legge speciale, che le consenta di attuare a mezzo di un ordinamento suo particolare, lo sviluppo coordinato di tutto il suo omogeneo complesso.

9 - La possibilità di attuazione di questa “Provincia Ambrosiana” va compresa nell’ambito dell’attuale territorio della provincia di Milano ed è in questo ambito che deve avvenire la trasformazione dell’amministrazione provinciale attuale in una amministrazione ambrosiana capace di coordinare lo sviluppo di tutto il territorio.

Nella fase iniziale di questo studio, e sulla base dei soli dati economici riferiti all’inizio, e sulla constatazione quindi da un lato di una zona sud della provincia ancora caratterizzata da una economia prettamente agricola, e d’altro lato di una zona la quale pur non facendo parte del territorio della provincia, presentava tuttavia caratteristiche analoghe alla zona ambrosiana propriamente detta, era stata avanzata un’idea la quale prevedeva per il sud la costituzione di una provincia a sé con centro Lodi, e a nord l’assorbimento nella nuova provincia di Milano di un certo numero di comuni appartenenti alla provincia di Varese.

Queste due possibilità, seppure apparentemente logiche e giustificabili sul piano teorico, si sono dimostrate a seguito di indagini più approfondite, non consone allo spirito del progetto e non utili. Mentre infatti la zona del lodigiano lasciata a sé incontrerebbe fin dall’inizio difficoltà di ordine finanziario assai notevole che le impedirebbero non solo un regolare funzionamento ma limiterebbero ogni possibilità di progresso della zona, finendo col rendere ancor più marcato negli anni futuri il distacco economico fra il nord ed il sud della provincia di Milano, l’assorbimento di alcuni comuni tra i più ricchi del Varesotto costituirebbe a sua volta un peso finanziario molto gravoso per la vicina provincia.

È invece/nello spirito e nelle intenzioni della nuova provincia ambrosiana di cooperare fruttuosamente con le zone e provincie limitrofe per un progresso economico di tutta la regione lombarda.

Mantenendo il territorio della provincia metropoli ambrosiana nell’ambito dell’attuale provincia, si viene a dare una possibilità quale mai era stata data prima, alla zona del Lodigiano di fruire e partecipare dei benefici del progresso che marcherà il futuro andamento della zona ambrosiana. E non si viene a ledere il funzionamento e l’operosa azione di una provincia vicina fra le più attive, con la quale invece saranno presi per il vantaggio reciproco tutti gli accordi necessari per condurre una azione comune.



10 - La sostanza della proposta sta comunque nel creare la “Provincia Ambrosiana” e nel costituire quindi un consiglio provinciale ambrosiano “ ad hoc” e quale che sia l’ambito territoriale di sua spettanza, le sue funzioni e i suoi compiti non mutano. Quali sono i più. assillanti problemi della provincia ambrosiana r e quali dovrebbero essere le funzioni del Consiglio Provinciale Ambrosiano? , A nostro parere il primo e principale compito del Consiglio Ambrosiano sarà quello di elaborare un concreto piano regolatore generale di tutto il territorio della provincia. Un piano regolatore territoriale di tale fatta è già allo studio da parte della provincia, come abbiamo accennato in precedenza. A quanto risulta, gli studi effettuati dalla provincia in quasi due anni di lavoro hanno portato alla rilevazione degli aspetti più caratteristici di tutto il territorio della provincia di Milano. Il lavoro è stato condensato in oltre 70 tabelle e grafici, riferentisi alla natura fisica del territorio, al suo aspetto urbanistico; con inchieste particolari sui consumi annui pro-capite di energia elettrica, con indici del grado di progresso dei singoli comuni, con comparazione dello sviluppo edilizio dei centri abitati negli ultimi 50 anni; i problemi relativi ai servizi pubblici, gli elettrodotti, i metanodotti, ferrovie, tranvie, autolinee etc. hanno pure ricevuto ampia elaborazione. E ancora, è stata fatta un’indagine sul fenomeno importantissimo delle fluttuazioni della popolazione e sui moti pendolari delle masse lavoratrici, sull’indice di disabitabilità etc. E infine sono state condotte indagini accurate sulla situazione industriale, del commercio, dell’artigianato e dell’agricoltura di tutta la provincia.

Questo lavoro dovrà certamente servire di base per la stesura del piano regolatore generale, piano che dovrà, ci sembra, limitarsi alla soluzione dei problemi di carattere generale che implicano rapporti fra i comuni della zona o la struttura urbanistica complessiva di questa (zone residenziali, zone di affari, zone industriali, parchi etc.), lasciando invece ad ogni singolo comune la responsabilità di elaborare il proprio piano regolatore particolare.

Per quanto riguarda tuttavia il piano regolatore generale il Consiglio Ambrosiano dovrà avere i poteri necessari per promuoverne e assicurarne l’attuazione; dovrà avere la possibilità, quando necessario, di richiedere contributi ai comuni più interessati, dovrà in una parola potere esercitare effettivamente la sua funzione di organo super-comunale.

Il primo e forse principale problema che dovrà essere risolto dal nuovo organo ambrosiano nell’ambito del piano regolatore e che dovrà quindi venire trattato in questo in dettaglio, è quello della viabilità e dei trasporti.

A questo proposito l’organo ambrosiano non dovrà soltanto fare sue le attuali attribuzioni della provincia, ma dovrà estenderle; tutta la rete, per esempio, delle strade comunali, ora lasciate spesso in abbandono, a volte non completate per mancanza di mezzi da parte dei comuni, dovrà cadere sotto la sua giurisdizione.

Non solo, ma la stessa ANAS dovrebbe concordare i suoi progetti viarii nella zona, con l’organo ambrosiano, al fine di armonizzare lo sviluppo di tutto il territorio.

Quanto sia grave il problema della viabilità per Milano lo si può mostrare con pochissimi accenni.

Esso può suddividersi in tre parti: il problema della rete stradale di collegamento periferico milanese; il problema delle comunicazioni tra Milano e la zona ambrosiana ed il problema della penetrazione delle linee di comunicazione nella città.

Per quanto riguarda il primo problema va innanzi tutto detto che il raccordo anulare attorno al comune di Milano è oggi solo parziale ed anche frammentario, mentre le necessità richiedono non solo che esso sia completato ma anche che sia potenziato mediante l’attuazione di uno o due ulteriori anelli concentrici di raccordo che attuino il principio delle grandi strade di circonvallazione e delle strade di arroccamento immediato.

Il problema delle comunicazioni tra Milano e i comuni viciniori I costituisce un punto vitale della organizzazione economico-territoriale ambrosiana; data l’importanza esso va quindi affrontato con larghezza di idee e visione lungimirante. Ed infine collegato al problema delle comunicazioni vicinali vi è quello di una sufficiente penetrazione di queste nella città e del collegamento fra loro.

Collegamento e penetrazione specialmente necessari per il movimento giornaliero dei lavoratori e degli uomini di affari che già attualmente è dell’ordine di 200 mila unità. Oggi in tale settore la perdita di tempo è troppo alta e ciò costituisce un danno che va eliminato al più presto.

Quanto si è ora detto per le strade vale anche per i trasporti ferroviari. Nell’espletamento dei loro servizi nella zona, sia le Ferrovie dello Stato sia le Ferrovie private dovrebbero consultarsi con l’organo ambrosiano al fine di tener conto delle effettive necessità della provincia tutta. Lo stesso vale per le autolinee private.

Funzione dell’organo provinciale sarà naturalmente anche quella di indirizzare e armonizzare lo sviluppo urbanistico nel territorio in senso vero e proprio, specie là dove la continuità urbanistica tra Milano e i Comuni più vicini è quasi ininterrotta.

Il piano regolatore di Milano quindi dovrebbe venire collegato con i piani regolatori dei comuni vicini, e il Consiglio Ambrosiano potrebbe, se necessario, e in deroga al principio dell’autonomia dei comuni nella stesura dei piani regolatori particolari, imporre per quella parte della provincia ambrosiana urbanisticamente continua la stesura di piani regolatori particolareggiati.

L’amministrazione della provincia-ambrosiana dovrà inoltre influenzare nelle sue linee generali anche la dislocazione futura delle industrie.

Nella elaborazione del piano provinciale essa dovrà poter indicare le zone in cui viene esclusa la costituzione di nuovi complessi industriali, e dove in conseguenza i comuni non potranno dare permessi di insediamento a nuove industrie.

D’altro canto, sempre nel piano regolatore, dovranno essere indicate le zone industriali più convenienti, e sarà compito dell’amministrazione di facilitare l’insediamento delle industrie in tali zone apportando in precedenza i servizi indispensabili per le industrie stesse. Quindi facilità di mezzi di comunicazione, trasporto dell’energia, possibilità di scolo delle acque, ecc.

Nella elaborazione di tutto il piano regolatore, l’amministrazione ambrosiana dovrà tener conto degli sviluppi futuri della metropoli lombarda e del territorio che con essa forma un tutto continuo. Ed è specialmente in vista di questo sviluppo che il decentramento di tutti i servizi dovrà essere attuato, e che tutte le singole funzioni, ora di spettanza della provincia, dovranno venire sviluppate.

Dobbiamo immaginarci un imponente complesso di quasi 5 milioni di abitanti, concentrato in una superficie relativamente piccola (poco più della estensione del solo comune di Roma, come già abbiamo visto), per il quale un ordinamento razionale ed organico di tutti i servizi risulterà indispensabile.

Molti problemi che oggi appena si fanno sentire richiederanno allora soluzioni urgenti, e solo una visione lungimirante di quelli che potranno essere in un futuro molto vicino i bisogni di una così vasta metropoli, consentirà di soddisfarli.

Così il problema di una zona ospedaliera e di tutti i servizi igienici e sanitari, degna di questo nome per la metropoli lombarda vera e propria, ed un complesso di istituti ospedalieri dislocati in tutta la zona ambrosiana, specie là dove la concentrazione della popolazione sarà maggiore. E in questo campo dovranno agire in stretto accordo i singoli comuni e l’amministrazione ambrosiana.

Allo stesso modo si dovrebbe cercare di provvedere sin da ora a liberare le aree centrali delle città occupate da caserme e da altre apparecchiature militari, il cui trasferimento in zone più libere è oltretutto più consono alle necessità moderne. All’uopo l’amministrazione ambrosiana dovrebbe prendere i necessari contatti con il Ministero della Difesa ed indicare le zone di più conveniente sistemazione per questi servizi.

Il problema dell’azzonamento che nel piano regolatore di Milano è contemplato solo per il centro urbano vero e proprio, diverrà un problema generale per la zona ambrosiana e certo uno dei più importanti.

Non solo, ma mentre nell’ambito del comune di Milano un effettivo azzonamento è sin d’ora compromesso in molti quartieri per motivi storici o per indiscriminate costruzioni avvenute nel dopoguerra, nella zona esterna una tipica divisione di quartieri costruiti a seconda della loro destinazione, dovrebbe riuscire più facile. Quartieri residenziali in primo luogo dotati di tutti i servizi necessari, collegati ai centri di lavoro in modo razionale, dovranno dare respiro alla congestione delle zone centrali.

Il progetto della metropolitana dovrebbe essere riveduto secondo il criterio di servire non solo e non tanto il comune di Milano e le sue immediate adiacenze, quanto anche le comunicazioni dei comuni fuori Milano con il capoluogo, e dei vari centri tra di loro.

Il cittadino milanese dovrà necessariamente abituarsi a risiedere al di fuori del centro della città, in zone residenziali appositamente costruite, ed a spostarsi ogni giorno con mezzi adeguati e rapidi al i proprio centro di lavoro. Questa premessa comune per lo sviluppo di ogni grande metropoli dovrà essere realizzata per Milano in modo moderno e adeguato.

Altri problemi ora del tutto trascurati dovranno entrare a far parte delle funzioni specifiche della amministrazione ambrosiana.

L’istruzione professionale ad esempio, che ora rientra solo tra i compiti marginali della provincia, la quale è tenuta a provvedere ai locali ed al personale d’ordine di certe categorie di scuole. Un azzonamento anche di questo servizio appare indispensabile in un complesso metropolitano cosi esteso ed un intervento diretto quindi anche di questa natura da parte della amministrazione ambrosiana darà un efficace contributo a tutto il ritmo economico della metropoli.

Per ogni funzione ora di spettanza della provincia o dei comuni, assunta dalla amministrazione ambrosiana, si dovrà provvedere in modo da realizzare il vantaggio comune di tutto il complesso metropolitano.

Il procedere a pezzetti, senza una visione unitaria dei problemi, sanando le situazioni difficili che si presentano con semplici palliativi, non può certo aiutare lo sviluppo omogeneo di Milano e delle città e paesi che la circondano.

È quindi sempre con lo sguardo rivolto al futuro che ogni progetto deve essere studiato e realizzato; ad un futuro non tanto lontano in cui la saldatura di Milano con gran parte dei comuni della zona ambrosiana sarà inevitabilmente un dato di fatto anche da un punto di vista urbanistico.

È ovvio che l’amministrazione provinciale ambrosiana, assumendo tutte le funzioni della attuale amministrazione provinciale, dovrà subentrare ad essa anche in tutte le sue fonti di entrata. Non solo: assorbendo essa anche parte delle funzioni ora di spettanza dei singoli comuni (strade comunali ad esempio) essa potrà nel caso richiedere ai singoli comuni un contributo proporzionato.

Ancora una parola sui rapporti tra organo ambrosiano e organi prefettizi. Per quanto possibile e salvo le necessarie modifiche formali, tali rapporti dovrebbero continuare a rimanere quelli ora esistenti tra amministrazione provinciale e organi della Prefettura. Gli organi gerarchici continueranno ad esercitare il loro potere di controllo nei confronti questa volta del nuovo organo ambrosiano. Nella Giunta Provinciale Amministrativa alcuni membri potranno essere nominati dietro il parere del consiglio ambrosiano in modo tale da far convergere in questo organo le due volontà della autorità statale e della autorità elettiva.

11 - Caratteristica insomma dell’amministrazione della provincia ambrosiana dovrà essere la piena ed assoluta capacità coordinatrice del territorio di sua spettanza, ed un potere di iniziativa e di esecuzione sufficiente per promuovere la risoluzione dei problemi comuni della zona. Per questa sua speciale e responsabile funzione l’organo dovrà venire articolato in un Consiglio il più rappresentativo possibile degli interessi di tutto il territorio ambrosiano, tenendo conto naturalmente del processo di assestamento di molte zone esterne per una progressiva concentrazione di tali interessi.

Teoricamente oggi si potrebbe pensare ad un consiglio che includa, oltre ad un certo numero di Consiglieri eletti su liste ambrosiane di partito - necessari per dare un’autorità politica al nuovo Consiglio e consentire una valutazione dei problemi al di fuori delle ristrette visioni comunali - anche i rappresentanti di tutti i Comuni della provincia.

È evidente però che:



a) Oggi un tale Consiglio -con l' esistenza di 245 Comuni, dei quali 28 con meno di 1.000 abitanti e superfici da ritenere senz’altro, per molti di essi, microscopiche; 54 fra 1.000 e 2.000 abitanti, e 96 fra i 2.000 e i 5.000 abitanti - dovrebbe risultare composto di 300 e più persone, con difficile e lento funzionamento, ma soprattutto con evidente squilibrio rispetto alle esigenze di rappresentanza dei centri maggiori;



b) La prima, e sotto certi aspetti auspicabile, conseguenza della attività propulsiva e coordinatrice della Provincia ambrosiana, sarà quella di rendere inevitabili molte spontanee fusioni di piccoli Comuni che, se mantenessero la loro minuscola importanza attuale, finirebbero con l'essere avulsi dal processo di potenziamento dell'intero territorio, col pericolo anzi non solo di non essere partecipi della formazione dei futuri sviluppi ma di subire l'iniziativa di altri Comuni più pronti e vivaci anche se di attuale modesta importanza.



c) Deve essere tenuto nella necessaria considerazione il compito di “centro funzionale e irradiante” - e, cioè, di “Comune pilota” - che spetta al capoluogo della provincia (senza che tuttavia si pensi ad una dittatura di quest'ultimo), attribuendo allo stesso Capoluogo una adeguata rappresentanza nel Consiglio Provinciale Ambrosiano.

D'altro canto non sembra opportuno adottare per l'elezione di un organo nuovo e così particolare come il Consiglio Provinciale Ambrosiano il sistema ora vigente per l'elezione degli altri Consigli Provinciali, che hanno attribuzioni più limitate di quelle che dovrebbero essere assegnate al Consiglio Provinciale Ambrosiano.

Infine è da ritenere che un progetto di composizione del Consiglio Provinciale Ambrosiano debba partire da una valutazione aderente più al domani che all'oggi, onde evitare che un organo, nato sulla base di condizioni che dovranno inevitabilmente subire molte trasformazioni, si trovi ad essere rapidamente superato nella sua concezione, e, perciò, nelle sue possibilità funzionali.

Pare quindi utile ravvisare fin d'ora la Provincia Ambrosiana quale prevedibilmente potrà essere fra 15 o 20 anni e cioè al raggiungimento, o al vicino raggiungimento, dei 5 milioni di abitanti.

È chiaro che si dovranno considerare elementi in parte diversi da quelli attuali, in quanto, ad esempio: lo sviluppo della zona esterna modificherà l'odierno rapporto di popolazione del Capoluogo rispetto al resto della provincia (si potrà forse pensare ad una Milano che raggiunga ma non superi in 15 o 20 anni i 2 milioni di abitanti -contro gli attuali 1 milione e 275 mila - e ad una zona esterna che raggiunga i 3 milioni contro gli attuali l. 135.000); si andranno formando nella stessa zona esterna centri industrialmente sempre più efficienti, ma nel Capoluogo si concentreranno i centri direzionali e le attività a livello superiore, avvalorando il principio che al Capoluogo debba essere garantita una sufficiente rappresentanza nel Consiglio Provinciale Ambrosiano, ecc.

A scopo indicativo esponiamo perciò uno schema che è stato elaborato tenendo conto della necessità di contemperare la rappresentanza diretta dei Comuni con la rappresentanza indiretta e politica di tutta la zona, nella visione di un Consiglio Provinciale Ambrosiano efficiente ed appropriato alla nuova provincia di 5 milioni di abitanti.

Secondo tale schema il Consiglio Provinciale Ambrosiano potrebbe, ad esempio, essere composto.

- da 45 membri eletti con elezioni di 2° grado, e;

- da 60 membri eletti con elezioni di l° grado.

A) Elezioni di secondo grado

I 45 Consiglieri dovrebbero essere eletti:

- in numero, ad esempio, di 15 dal Consiglio Comunale di Milano, nel proprio seno;

- in numero di 30 dai Consigli Comunali degli altri Comuni, riuniti in 15 gruppi, ciascuno dei quali dovrebbe eleggere 2 Consiglieri del Consiglio Provinciale Ambrosiano.

Questo sistema di elezione di secondo grado avrebbe tre pregi principali:

l) la semplicità;

2) il coordinamento della rappresentanza dei Comuni, tenuto conto della loro popolazione;

3) il formarsi di una progressiva comunione di interessi e di azioni anche sul piano della rappresentanza nel Consiglio Provinciale Ambrosiano, tale da favorire l'articolazione della futura Provincia Ambrosiana su un grandissimo centro propulsore (Milano) e su gangli rappresentanti un non eccessivo numero di Comuni aventi, almeno in parte, una notevole consistenza.

E) Elezioni di primo grado.

Con queste elezioni si dovrebbero eleggere 60 Consiglieri, i quali servirebbero anche a “ponderare” i rappresentanti eletti con le ele-zioni di 2° grado.

L’elezione di questi Consiglieri dovrebbe essere fatta col sistema proporzionale, e la distribuzione dei posti fra Milano e il resto del territorio dovrebbe essere fatta in base alla popolazione residente dell'ultimo censimento.

La distribuzione dei rappresentanti nominati con le elezioni di secondo grado, nonostante la ponderazione attuata attraverso le elezioni di primo grado, porta ad una maggiore rappresentanza percentuale della zona esterna rispetto al peso relativo della propria popolazione.

E però da notare che la maggior rappresentanza della zona esterna compenserebbe: e l'alto grado di concentrazione dei rappresentanti milanesi rispetto al grado di concentrazione delle altre rappresentanze comunali e la evidente preponderanza di Milano sotto l'aspetto economico e sociale. Vi è qui un delicato problema, psicologico oltre che amministrativo, la cui soluzione definitiva, anche se dovesse essere diversamente prospettata non dovrà però trascurare le considerazioni esposte, e le esigenze di rappresentanza nel Consiglio Provinciale Ambrosiano, come in linea di massima qui analizzate per una piena funzionalità della Provincia Ambrosiana.

12 - Per chiudere non ci sembra inutile riprendere brevemente il filo conduttore che ci ha indirizzato nella analisi dei diversi problemi.

Milano è oggi il centro funzionale di una vasta zona che grosso modo si può far coincidere con il territorio di tutta la provincia, e che con maggiore intensità coincide con la parte settentrionale della provincia stessa con sconfinamenti nel territorio limitrofo di Varese (“zona ambrosiana”).

Centro funzionale ha qui un profondo significato economico attuale che appare ancora più evidente se si proietta lo sviluppo di Milano nel futuro.

La “zona ambrosiana” propriamente detta ha oggi una popolazione di due milioni e mezzo di abitanti, che tra 15-20 anni ammonterà con ogni probabilità a quasi 5 milioni.

In essa è oggi concentrato un complesso produttivo pari al 12% nazionale, in un territorio che ne rappresenta appena lo 0.5%.

La concentrazione degli addetti delle industrie manifatturiere è pari al 18% del dato nazionale, e del 56% rispetto alla sola Lombardia. Per i prossimi 15 o 20 anni si prevede un incremento nell'apparato produttivo per lo meno di 2,5-3 volte l'attuale.

Tutto il territorio presenta una fisionomia omogenea, problemi e disegni comuni ed una necessità di coordinamento indispensabile per garantirne lo sviluppo.

L'organizzazione amministrativa attuale, uguale a quella di ogni altra provincia d'Italia, è inadatta a svolgere i compiti grandiosi che sono necessari. Essa impedisce che nelle diverse attività vi sia un in- dirizzo uniforme ed una visione chiara di ciò che deve essere fatto per il futuro.

Unica soluzione a tale situazione di fatto appare oggi una legge speciale per la provincia di Milano. Legge speciale che riconosca questa metropoli-provincia unica nel suo genere in Italia e caratteristica anche in tutta Europa.

Sono inutili palliativi tipo consorzi amministrativi, o tentativi di costituire un organo consultivo convivente con la attuale amministrazione provinciale.

La trasformazione dell'amministrazione provinciale in un Consiglio Ambrosiano creato ad hoc, rappresentativo degli interessi di tutti i comuni costituisce probabilmente l'unica soluzione adatta.

Consiglio che intraprenda l'opera di riordinamento, che assorba le funzioni della provincia, col fine preciso di preparare il terreno allo sviluppo della zona negli anni futuri, che sappia, con piani regolatori generali, comprenderne i bisogni.

Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole ministro dei lavori pubblici, è purtroppo assai significativo che il Parlamento torni ad occuparsi di quello che anche in un documento ufficiale, qual è la relazione Martuscelli, viene definito “il saccheggio di Agrigento”, dopo che, nel mese e mezzo circa che è trascorso fra la conclusione del dibattito al Senato e l'inizio della discussione in questo ramo del Parlamento, l'opinione pubblica, le forze politiche, il Parlamento stesso hanno dovuto concentrare la loro attenzione sugli eventi dolorosi e drammatici che hanno sconvolto e ancora purtroppo sconvolgono intere regioni del paese. Le recenti calamità hanno fatto comprendere a tutti gli italiani, salvo forse al Presidente del Consiglio e al suo Governo, l'entità dei pericoli che minacciano la struttura fisica del nostro paese e la sopravvivenza stessa della fisionomia tradizionale di città come Firenze e Venezia, le quali, come Agrigento, rappresentano anelli insostituibili di un processo storico e culturale di fronte al quale non si dovrebbe essere insensibili se si è, non dirò dotati di coscienza nazionale, ma uomini civili e moderni, e cioè animati da quel senso della storia che all'uomo moderno è o dovrebbe essere proprio.

Ho detto che è assai significativo perché - nonostante i fatti di Agrigento pongano, come vedremo, anche molti altri e complessi problemi - vi è almeno un elemento comune che non può non apparire chiaro a chiunque si volga con l'occhio attento alla tragedia di Firenze e della Toscana, di Venezia e del Veneto e di Agrigento stessa: è il fatto che, per favorire un certo tipo di sviluppo economico nel nostro paese (tipo di sviluppo che non solo ad Agrigento ha assunto le forme di speculazione parassitaria che in questa città sono arrivate a una misura aberrante), si sono calpestati i diritti della natura e della storia, si sono volute ignorare le caratteristiche fisiche del nostro paese e le sue caratteristiche storiche, con la conseguenza da un lato di costruire il falso gigante dell'Italia moderna e industrializzata con i piedi di argilla (e qui mi appello alle parole pronunciate da un autorevole esponente della democrazia cristiana particolarmente competente di queste cose: il senatore Medici) e dall'altro di avere non solo inferto a centri urbani come Agrigento ferite - dice la relazione Martuscelli - difficilmente cicatrizzabili, ma di avere operato in questi centri urbani in modo tanto mostruoso (anche questo è un aggettivo del dottor Martuscelli), da far apparire la frana che, ha travolto un terzo della città dei templi come una reazione inevitabile, anzi coerente (è sempre la relazione Martuscelli che parla) della natura; allo stesso modo, in un certo senso, che una reazione inevitabile e coerente della natura di fronte al modo in cui le sue leggi sono state ignorate e calpestate ci può apparire il comportamento dell'Arno e di tutti gli altri fiumi straripati in Toscana, nel Veneto e in altre regioni d'Italia. Del resto, il Consiglio superiore dei lavori pubblici, in un documento che purtroppo, onorevole ministro dei lavori pubblici, anche il suo giornale non ha voluto presentare all'opinione pubblica in quel modo completo in cui sarebbe desiderabile che esso (credo che ella ne sia convinto) venga a conoscenza delpaese, perché è desiderabile che il paese comprenda questo...

[omissis]

Del resto, il Consiglio superiore dei lavori pubblici, in questo documento non a caso mi sembra, anzi con molta perspicacia, mette in luce il legame che passa fra difesa del suolo e sviluppo urbanistico delle città, non solo là dove sottolinea i limiti che ad un razionale sviluppo urbanistico e ad una razionale sistemazione del suolo sono imposti dalla necessità di rispettare fino all'assurdo i diritti della proprietà privata, ma là dove rivendica una sistemazione globale dei problemi dell'assetto territoriale del paese e la loro assoluta priorità nell'ambito della programmazione economica.

Ho voluto fare questa premessa per sottolineare, signor Presidente, come l'affare di Agrigento sia più che mai attuale, anche dopo e, anzi, soprattutto dopo i tragici eventi del 3, 4 e 5 novembre. Guai a noi se i responsabili dei fatti di Agrigento dovessero essere, onorevole Zaccagnini, “amnistiati per alluvione”, cioè dovessero beneficiare, oltre che del sistema di omertà, politica dal quale sono stati fin qui anche troppo favoriti, anche di una distrazione dell'opinione pubblica! Vorrei prendere a nome del mio partito l'impegno che, per quanto ci riguarda, questa distrazione dell'opinione pubblica non ci sarà. Guai a noi se non traessimo con maggiore energia, proprio dopo l'alluvione, tutta la lezione che dai fatti di Agrigento va tratta! E dico guai a noi, sebbene, purtroppo, nel modo con cui il Governo fino a questo momento ha mostrato di volersi muovere di fronte al fatto di Agrigento e di fronte alle questioni della difesa del suolo messe così tragicamente in luce dall'alluvione, sembra che siamo ancora ben lontani da una sia pur iniziale presa di coscienza della entità e della qualità del problema.

Ciò premesso, sono convinto che questa nostra discussione può non essere e, anzi, non deve essere una ripetizione di quella già del resto così autorevolmente svoltasi al Senato, ma deve prendere le mosse proprio da quelle conclusioni per vedere se gli impegni là assunti sono stati mantenuti, per vedere quali altri impegni è necessario assumere, e infine, e soprattutto, per controllare se si è manifestata nel Governo, nella democrazia cristiana e negli altri partiti di maggioranza la volontà politica di fare veramente giustizia, cioè di colpire, ora che la fase degli accertamenti è esaurita, i veri responsabili di quanto è accaduto ad Agrigento, e di iniziare ad Agrigento e in Sicilia la necessaria opera di risanamento politico e amministrativo dando, almeno là, un colpo esemplare non solo alla speculazione e alla politica di rapina delle nostre città, ma al malgoverno e alle connivenze politiche che tali speculazioni hanno tollerato, e favorito, alla omertà politica che tale malgoverno ha protetto e ha fatto prosperare.

Questo secondo aspetto è di vitale importanza perché, rappresentando certamente Agrigento un punto limite non soltanto del disordine edilizio ed urbanistico ma anche del malgoverno, della mancanza di giustizia nell'amministrazione, sarebbe veramente un fatto pieno di conseguenze drammatiche per le nostre istituzioni, per la Repubblica, per il costume del nostro paese, se proprio ad Agrigento e dopo Agrigento nulla dovesse accadere, come, a quattro mesi e più dalla frana e a due mesi ormai da precise rivelazioni in proposito, pressoché nulla sul piano delle responsabilità amministrative e politiche è accaduto.

Orbene, proprio perché la nostra discussione può e deve rappresentare, un passo avanti rispetto a quella svoltasi al Senato, debbo porre al ministro Mancini una questione pregiudiziale. Nel suo discorso al Senato ella, onorevole Mancini, ammise che nel dibattito erano state sollevate questioni politiche di carattere generale alle quali ella, pur riconoscendone la validità e la legittimità, non poteva dare una risposta, perché questa spettava a d un interlocutore più adatto per competenza istituzionale e politica.

Io penso che ella si riferisse all'uomo che, secondo la Costituzione, è il coordinatore e il responsabile politico del Governo: al Presidente del Consiglio. Ebbene, onorevole Mancini, ha ella avuto il mandato di rispondere di fronte alla Camera su queste questioni più generali? 0, se ella tale mandato non ha avuto (e non gliene faccio colpa), che cosa significa l'assenza del Presidente del Consiglio? Significa forse – vorrei richiamare su questo fatto anche l'attenzione del Presidente della nostra Assemblea – che alla fine di questo dibattito ci si verrà a dire (e, ripeto, non nefaccio un'accusa personale al ministro Mancini) che il ministro Mancini ci risponderà soltanto sugli aspetti edilizi ed urbanistici della questione?

Ho voluto porre la questione all'inizio della discussione (e per questo mi riferisco anche a lei, signor Presidente della nostra Assemblea), perché credo che il Governo debba decidere il suo atteggiamento e far sapere alla Camera qual è l'orientamento che di fronte a questa questione intende assumere prima della fine del dibattito.

Naturalmente, non posso non avvertire che già questo fatto fa pensare al nostro gruppo, come coerente sviluppo della posizione da noi presa – certamente tutti lo ricordano – il 4 agosto in questa Camera, che dovremo cercare altri sbocchi a questa discussione, sbocchi che consentano di toccare quelle questioni politiche che il Governo sembra qui deciso ancora una volta ad eludere.

Fatta questa pregiudiziale, riprenderò lo svolgimento del mio intervento secondo lo schema logico che avevo preannunciato, vale a dire partendo dagli impegni assunti dal Governo al Senato per verificare quali di essi siano stati mantenuti, quali non mantenuti e quali altri ancora noi sollecitiamo.

Il.ministro Mancini si impegnò allora (non riferisco questi impegni in ordine di enunciazione) in primo luogo ad emanare subito alcuni provvedimenti di emergenza volti a modificare e ad integrare le norme vigenti sulla legislazione urbanistica; in secondo luogo a presentare al Parlamento, entro il 30 novembre, Ia legge urbanistica.

Orbene, dopo un mese e mezzo il Consiglio dei ministri ha formulato, se non erro venerdì scorso, alcuni di questi cosiddetti provvedimenti di emergenza, che fin dall'inizio abbiamo riconosciuto positivi e sui quali non abbiamo sostanziali osservazioni da fare, salvo una: perché il Governo, che così spesso è stato solerte nell’adoperare lo strumento del decreto-legge quando poteva farne a meno, non lo ha adoperato per questi provvedimenti che, mirando ad integrare norme già vigenti nella legislazione, con il proposito evidente di frenare gli abusi, presentavano e presentano indubbiamente carattere di urgenza? Ha invece preferito un iter che, particolarmente per le questioni urbanistiche, sappiamo quanto lento, faticoso e difficile a concludersi sia stato e sia nel nostro Parlamento. Nel dire questo naturalmente è implicito un impegno preciso del nostro gruppo ad approvare al più presto, a tamburo battente, questi provvedimenti.

Inoltre: che cosa intendono essere questi provvedimenti? Qui la questione cambia. È molto strano che uno dei vicesegretari del partito socialista unificato abbia cominciato a parlare di “stralcio” di legge urbanistica. Capisco che l'onorevole Brodolini non è obbligato ad essere competente nella materia; è però una questione, onorevole Tanassi, così delicata, che bisognerebbe essere prudenti nel linguaggio. Questi provvedimenti, infatti, non riguardano affatto quello che deve essere l'oggetto di una legge urbanistica. Essi intervengono per cercare di frenare abusi nell'applicazione dei piani regolatori, mentre la legge urbanistica deve fissare i criteri, gli strumenti per determinare quale tipo di indirizzo urbanistico noi vogliamo imprimere allo sviluppo delle nostre città.

Quando sarà pronto il disegno di legge urbanistica, onorevole Mancini? Ella si era formalmente impegnato per la scadenza del 30 novembre scorso. Noi abbiamo seguito tutta la questione di Agrigento, non lesinando i riconoscimenti che alla sua attività devono essere dati: questo era anche uno dei motivi per cui al Senato non demmo un giudizio completamente negativo alla conclusione di quel dibattito.

Chiedevo: quando verrà dunque questa legge urbanistica? Uno dei suoi sottosegretari, l'onorevole de' Cocci, forse anche lui, onorevole Tanassi, imprudente nel linguaggio...

[omissis]

Non si tratta di terminologia, ma del fatto che l'onorevole d'e' Cocci, conversando con i giornalisti, ha detto che ormai bisogna approvare questi provvedimenti perché della legge urbanistica si potrà parlare solo nella prossima legislatura.

Se non mi inganno, siamo di fronte ad una delle questioni di politica generale che sarà inevitabile sollevare in questo dibattito. Si dice che in questi giorni si stia sviluppando tra i partiti della maggioranza una certa verifica, per lo meno per stabilire il calendario di applicazione del programma di Governo. Quale posto ha in questa verifica la legge urbanistica? La maggioranza, i partiti che ne fanno parte, il Governo, devono dire al Parlamento, nel corso di questo dibattito, la verità su questa questione fondamentale.

È venuto di moda, signor Presidente, negli ultimi tempi – ella lo avrà notato – il gusto di cercare di scaricare su tutta indistintamente la burocrazia italiana la colpa delle cose che non vanno nel nostro paese, dicendo che non abbiamo una burocrazia, ma una “lentocrazia”. Ma io penso, in verità, che almeno nel caso di Agrigento non siamo di fronte a una “lentocrazia”: funzionari dello Stato come il Di Paola, l'ufficiale dei carabinieri Barbagallo, il professar Martuscelli (nonostante le contumelie che contro di lui sono state scagliate), come l'ispettore dell'assessorato agli enti locali della regione siciliana, Mignosi (autore di una relazione d'inchiesta di cui parlerò di qui a poco), hanno ben meritato dell'opinione pubblica. Se ella, signor Presidente, presiedesse la Convenzione giacobina, io proporrei di decretare la corona civica per questi funzionari...

[omissis]

....per questi coraggiosi e onesti funzionari e per quel coraggioso e onesto ufficiale dei carabinieri, che hanno dimostrato, nel corso di tutta questa vicenda, sensibilità appassionata per la verità e per la giustizia.

[omissis]

Ad ogni modo, per quanto riguarda la legge urbanistica, può parlarsi di governo-lentocrazia, perché anche qui siamo di fronte a una precisa responsabilità dei governi (e, purtroppo, onorevoli colleghi della maggioranza e onorevoli colleghi socialisti, del centro-sinistra), i quali sono stati incapaci, durante questi quattro o cinque anni, da quando il centro-sinistra esiste, di avviare una discussione in Parlamento sulla legge urbanistica. è bene infatti chiarire che la responsabilità di questa inerzia risiede interamente nella mancanza di una precisa volontà politica del Governo e della maggioranza, mentre nessuna colpa può ascriversi al Parlamento (nonostante questo sia ormai d'uso da parte di alcuni uomini politici, non soltanto della democrazia cristiana).

Questo è tanto più grave in quanto, come ho detto prima (di qui il mio riferimento non occasionale, non retorico, alle alluvioni), i problemi della difesa del suolo, dell'assetto territoriale del nostro paese, sono oggi venuti in primo piano. Qui purtroppo devo dire, onorevole Mancini, che anche il suo due volte collega Pieraccini (in quanto ministro e in quanto membro del suo stesso partito) ha tanto parlato in.questi ultimi giorni di logica di piano, mia non ci ha spiegato bene come mai nella logica di piano, di un piano che deve essere attuato in un paese che ha le caratteristiche fisiche del nostro, il problema della pianificazione territoriale non sia concepito come il punto di partenza di tutto un programma di sviluppo. E quando parlo di pianificazione territoriale mi riferisco anche al problema degli squilibri laceranti esistenti, nella compagine del nostro paese, nella distribuzione delle forze produttive e all'accentuarsi di questi squilibri che, come sappiamo – se vogliamo ragionare con animo aperto davvero alla logica – sono alla base anche del disordine urbanistico, anche del dissesto così grave manifestatosi nel suolo.

Dunque, per quanto riguarda, onorevole Mancini, gli impegni assunti – meglio: per quanto riguarda le conseguenze da trarne sul piano edilizio ed urbanistico - ad un mese e qualche giorno dalla conclusione del dibattito al Senato noi siamo in una situazione tutt'altro che tranquillizzante quando già sono scaduti i termini che per l’ennesima volta il Governo aveva posto per la presentazione della legge urbanistica; siamo in particolare di fronte (mi riferisco qui a tutta la recente discussione sul piano di sviluppo economico) ad una visione dei problemi della pianificazione territoriale, dell'assetto territoriale del paese, che ci trova profondamente contrari e soprattutto ci lascia profondamente preoccupati: cosa diversa e grave, perché la nostra preoccupazione è molto sentita e purtroppo, riteniamo, giustificata dalla realtà dei fatti.

[omissis]

Noi abbiamo atteso già troppo: per questo alla fine di questo dibattito noi chiederemo impegni precisi in questo senso, oltre che sul problema che ho toccato nella prima parte del mio intervento, anche per quanto concerne la legge urbanistica. Qualora voi non ci deste una risposta precisa, sarà inevitabile porre di fronte al Parlamento il problema di un'inchiesta parlamentare. Noi abbiamo riluttato di fronte a questo, perché ci sembrava una inchiesta superflua dinanzi alla chiarezza della inchiesta Di Paola-Barbagallo e di quella Martuscelli. Ma se il Governo, se i partiti di governo non traggono le conseguenze politiche di quanto queste inchieste hanno posto in luce, bisogna che almeno sia posto di fronte al Parlamento (poi vedremo il risultato di questo fatto) il problema che sia il Parlamento stesso ad indicare le conseguenze politiche che dai fatti di Agrigento bisogna trarre.

[omissis]

Parco Ticino, Rapporto n. 1 – gennaio 1980/dicembre 1980, Presentato dal Presidente del Parco Lombardo della Valle del Ticino alla Assemblea del Consorzio in osservanza all’adempimento previsto all’articolo 11/e dello Statuto Consortile, 14 febbraio 1981

[...] 1980, l’anno dell’approvazione del P. T .C.

Il 1980 è stato caratterizzato dall’approvazione del Piano Territoriale di Coordinamento del territorio della Valle del Ticino (P.T.C.) con la Legge della Regione Lombardia n. 33 del 22.2. 1980.

È stata un’operazione di particolare impegno politico, tecnico e am- ministrativo, anche per i caratteri di novità che essa presentava.

L’avvio iniziale fu dato con la legge regionale n. 2/1974 istitutiva del Parco. Venne costituito il Consorzio delle 3 Province e dei 46 Comuni che ricevette incarico dalla Regione di procedere alla preparazione e formazione del piano territoriale.

Fu costituito un ufficio del piano, che si avvalse dell’apporto di consulenze scientifiche specializzate. Il lavoro di indagine conoscitivi e di progettazione fu svolto particolarmente negli anni 1976/1977. Progettisti incaricati del piano furono: arch. Maurice Cerasi, arch. Paolo Favole, arch. Empio Malara, arch. Roberto Rizzini. Fu fatta una indagine conoscitiva sufficientemente approfondita delle varie parti del territorio. La natura consortile dell’ente di pianificazione impose un continuo rapporto con gli enti locali, con le associazioni di categoria e con i cittadini coinvolti dalle previsioni di pianificazione. Furono svolte numerose riunioni di sub-area con la partecipazione dei rappresentanti di tutti i Comuni. Si ebbero incontri e approfondimenti di studio.con le associazioni sindacali, con le associazioni degli industriali, con le associazione degli operatori in agricoltura, con i rappresentanti delle associazioni venatorie.

Per assicurare il maggior apporto alla partecipazione degli enti locali associati, il Consorzio inviò a tutti i Comuni e alle Province consorziate, una “proposta preliminare di piano”. Raccolse, nella primavera del 1978, una serie di osservazioni espresse da vari Consigli comunali. Sulla base di questo materiale venne definita la proposta di piano adottata dall’ Assemblea del Consorzio all’unanimità, il l° luglio 1978.

Accanto all’impegno di tutti i membri del Consiglio Direttivo, la fase di progettazione del piano raggiunse un risultato positivo per l’opera instancabile del Presidente del Consorzio, dott. Alberto Semeraro e dei Vice-Presidenti sen. Ambrogio Colombo e avv. Italo Maggioni.

Il P.T.C. venne quindi adottato dalla Giunta Regionale il 28 novembre 1978 e pubblicato agli albi delle Province e dei Comuni consorziati, il 2 gennaio 1979. Fu data facoltà, a chiunque ne avesse avuto interesse, di presentare formali osservazioni. Ne pervennero n. 156, di cui n. 46 da parte dei Comuni consorziati sulla base di deliberazioni dei rispettivi Consigli comunali, e n. 110 da parte delle Associazioni di categoria e di privati cittadini.

Dopo attenta analisi, le controdeduzioni del Consorzio furono deliberate, ancora un voto unanime, dalle assemblee del 19 marzo e del 15 giugno 1979. Il progetto definitivo del P.T.C., formato da planimetrie e da norme di attuazione, venne quindi riadottato dalla Giunta regionale il 2 luglio 1979 e portato all’approvazione del Consiglio regionale nella seduta del 22 novembre 1979. In contradditorio con i rappresentanti del Consorzio vennero introdotte alcune modifiche alle norme del Piano nel corso dell’esame compiuto dalla VI e dalla VII Commissione del Consiglio regionale.

Essendo sopravvenute osservazioni da parte del Governo in merito alla formulazione di alcune norme, il testo definitivo del P. T .C. venne deliberato definitivamente il 22 marzo 1980 (legge regionale n. 33, pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia i128 marzo 1980). Da quella data hanno preso efficacia le relative disposizioni.

All’impegno politico degli organi del Consorzio (assemblea, consiglio direttivo, ufficio di presidenza), e all’apporto collaborativo degli enti locali, e delle associazioni è da ascriversi principalmente il merito di aver portato all’approvazione del primo Piano Territoriale della Regione Lombardia.

Agli organi regionali va dato atto di aver seguito con interesse e cori impegno i lavori di redazione del P. T .C. e ai tecnici di aver svolto un proficuo lavoro di approfondimento.

L’attività di gestione del Parco è appena avviata. Il primo anno di esercizio sembra dimostrare che il Consorzio, avvalendosi della fattiva collaborazione degli Enti Locali associati è in grado di dare un contributo per migliorare le condizioni ambientali e naturali del territorio della Valle del Ticino.

Vi sono però molte difficoltà ed occorre un lavoro costante e tenace. I problemi sono molteplici e spesso difficili da risolvere anche per la novità dei compiti affidati al Consorzio e la necessità di esperimentare le adatte soluzioni.

La prospettiva di recuperare il degrado ambientale esistente e offrire alla gente che vi abita condizioni di vita migliori e più civili è un obiettivo rilevante ed è quello che giustifica e dà un senso precario all’azione del consorzio. Nessuno ha la bacchetta magica in mano, Sono necessari anni di paziente impegno.

[...] 5. Aeroporto della Malpensa

Si è ritenuto di particolare importanza insistere presso gli organi regionali perche venissero portate a compimento le quattro ricerche da tempo deliberate in merito alle prospettive future per l’ampliamento dell’aero- porto della Malpensa. È risultato chiaro, anzitutto, anche per la precisa dichiarazione acquisita in sede Ministeriale, che l’ipotesi di un “super aeroporto” non ha ragioni di essere di fronte alle previsioni di un modesto incremento del traffico aereo nel sistema aeroportuale milanese nei prossimi anni.

Si è anche insistito perché le scelte relative all’aeroporto della Malpensa fossero stabilite e coordinate con quelle relative ai lavori di ammodernamento dell’aeroporto di Linate.

Negli ultimi mesi dell’anno la British Airport Autority e la Italairport S.p.A. hanno consegnato i risultati delle loro indagini.

Il Consorzio del Parco si é riservato di esprimere il proprio parere allorché saranno conosciuti i dati relativi alle altre ricerche ancora in svolgimento ed in particolare quelle relative al.le zone interessate dall’inquinamento acustico in connessione con i nuovi tracciati stabiliti per le piste.

Il Consorzio ha tenuto un costante collegamento con i Comuni associati.

[...] 7. Servizio Urbanistico

Con l’entrata in vigore della legge regionale n. 33 del 24 marzo 1980, di approvazione del Piano Territoriale di Coordinamento, il Consorzio ha assunto una più chiara funzione di coordinamento e di gestione del territorio del Parco. Tale funzione ha comportato l’impegno ad approfondire e a dare continuità al processo di pianificazione avviato con il Piano Territoriale di Coordinamento, promuovendo, pur nel rispetto dell’autonomia comunale, una visione coordinata della tutela dell’ambiente, dello sviluppo dell’economia e della qualificazione degli aggregati urbani.

L’applicazione in concreto della normativa del Piano Territoriale di Coordinamento ha permesso, da una parte, una prima verifica del criteri generali adottati, e, dall’altra, l’avvio di studi specifici di settore, con i quali sarà possibile in futuro mettere a fuoco nuovi obiettivi particolari.

La gestione del Piano Territoriale di Coordinamento ha comunque permesso di approfondire l’esperienza del coordinamento sovracomunale.

Si può giudicare positiva la funzione che il Consorzio ha svolto nel tentativo di applicare i criteri, elaborati nella redazione del Piano Territoriale di Coordinamento, ai problemi reali che il Parco vive e che in genere, superano il contesto locale per avere appunto un’ampia rilevanza di ordine territoriale. Si pensi ad esempio al problema dell’accrescimento urbano a scapito delle aree agricole, del controllo qualitativo degli effetti deg1i insediamenti produttivi, della salvaguardia delle aree di pregio ambientale.

Commissione urbanistica speciale e servizio urbanistico

L’attività della Commissione Urbanistica, nell’arco del 1980 è consistita nell’esame di 435 pratiche “edilizie” e di 30 pratiche “urbanistiche”.

La Commissione Urbanistica è stata convocata 25 volte, cioè mediamente ogni 15 giorni circa. Il lavoro prepraratorio per l’esame degli strumenti urbanistici e degli interventi edilizi sottoposti al parere del Consorzio è stato svolto dal “Servizio Urbanistico “. L’Ufficio ha redatto l’istruttoria delle pratiche a partire dalla loro ricezione al protocollo sino all’invio del parere sottoscritto dal Presidente del Consorzio, effettuando, dove necessario, ispezioni o verifiche sul territorio e restando disponibile per illustrazioni e chiarimenti richiesti dalle Amministrazioni Comunali o dal pubblico.

Il compito di coordinamento urbanistico si è attuato non solo nei contatti con i Comuni, le Province e la Regione, ma anche nella partecipazione al lavoro svolto dal Consorzio in altri settori ed in particolare nella redazione del regolamento zootecnico, in materia di convenzioni, di cave e per il piano dei sentieri. È stata anche curata la redazione della cartografia a colori in scala 1:100.000 del Piano Territoriale di Coordinamento.

Strumenti urbanistici generali

I Piani Regolatori esaminati (5 Piani Regolatori Generali e 11 varianti a Piani di Fabbricazione), hanno riportato tutti un parere favorevole sebbene la congruità con il Piano Territoriale di Coordinamento non fosse sempre precisamente verificata. Ciò è dovuto al fatto che tali strumenti sono stati studiati in periodo precedente all’entrata in vigore del Piano.

Questi strumenti dovranno comunque essere revisionati entro 3 anni, limite posto dalle norme di attuazione del Piano Territoriale di Coordinamento per 1’adeguamento di tutti i piani comunali. Più evidente è stato il tentativo del Piano Territoriale di Coordinamento di definire gli aggregati urbani con perimetri continui evitando le conurbazioni, cioè lo sviluppo continuo dei centri edilizi.

Per quanto riguarda i centri numerati, la normativa ha aperto un problema che dovrà essere approfondito: esso riguarda la valutazione dei perimetri delle zone dette di “iniziativa comunale” che, in sede di Piano regolatore i singoli comuni possono proporre. Qualche difficoltà si è avuta, poi, riguardo all’individuazione dei perimetri dei centri storici, poiché spesso le Amministrazioni Comunali hanno ritenuto troppo ampio il perimetro individuato dal Piano Territoriale di Coordinamento.

Programmi attuativi

I programmi pluriennali di attuazione esaminati sono stati 7, e non sempre hanno riportato pareri di conformità con le indicazioni del Piano Territoriale, specie nei casi in cui tali programmi risultavano attuativi di previsioni contenute in Piani di Fabbricazione di “vecchia redazione”.

Il criterio, adottato dalla Commissione Urbanistica, di limitare le previsioni insediative di tali strumenti al 20% della popolazione residente, sebbene sia stato opportuno per questo primo periodo, va probabilmente rimesso in discussione per definire più puntualmente criteri qualitativi che si aggiungano alle valutazioni quantitative.

Piani esecutivi: Piani di lottizzazione, Piani di Edilizia Economica Popolare, Piani Particolareggiati

I Piani di questo tipo; pervenuti al Consorzio, sono solo 7 in quanto la legge n° 44/79 prescrive il parere favorevole del Consorzio solo nei casi in cui tali strumenti interessino aree esterne ai perimetri di Iniziativa Comunale orientata. In sostanza essi si riferiscono ai centri numerati. Si tratta in genere di centri abitati interessanti sotto il profilo storico-architettonico e dal fatto che tali centri sono circondati da un territorio di pregio ambientale, caratterizzato spesso da elementi di valore come il ciglio del terrazzamento, i Navigli, ecc.

Interventi di zona B (zona di riserva orientata) Gli interventi in zona B sono stati rilevanti e comunque si sono limitati ai casi previsti dalla normativa. Le uniche richieste non accolte sono state quelle relative al tempo libero, in attesa che vengano avviati i piani di settore.

Rilevanti sono invece stati gli interventi richiesti per l’attracco di pontili e barconi sulle sponde fluviali, ai fini di insediare attività legate al tempo libero. Il Consorzio ha respinto tutte le richieste per nuovi interventi presentate dopo l’entrata in vigore del Piano Territoriale in attesa della scelta dei Piani di Settore.

Interventi in zona C (parco agricolo-forestale) e G (zona agricola)

In queste zone gli interventi più massicci sono risultati quelli legati all’attività del settore primario (agricoltura). Le richieste di ampliamento di fabbricati di servizio all’attività agricola sono state 80 e ciò dimostra la forte tendenza in atto a sostituire le attrezzature edilizie esistenti con strutture più adeguate alle esigenze di livello tecnologico raggiunto.

Si è cercato in proposito di limitare gli interventi di demolizione dei fabbricati esistenti che spesso presentavano caratteristiche storico-architettoniche di rilievo e di controllare la qualità dell’accostamento delle nuove tipologie edilizie con i caratteri degli insediamenti rurali esistenti. Tuttavia, occorre un approfondimento di tale problematica.

Gli insediamenti rurali abbandonati, e spesso fatiscenti, sono stati oggetto anche di richieste di cambiamento di destinazione d’uso che, in base alla normativa attualmente vigente, il Consorzio non ha potuto accogliere.

Numerose sono state le richieste di ampliamento di edifici residenziali occupati nella misura non superiore ai 150 m c (29 domande).

La verifica dei requisiti richiesti dalla normativa ha permesso di controllare il fenomeno della “seconda residenza” che taluno potrebbe tentare di realizzare mediante tali interventi in contrasto con il Piano.

Nelle zone C (parco naturale agricolo-forestale) non si sono verificate richieste di introduzione di nuovi insediamenti produttivi secondari o terziari se non in un caso (Torre d’Isola), dove la risposta del Consorzio è stata negativa. Più numerosi del previsto (70) sono stati specie nella parte centro-settentrionale del Parco, i casi di ampliamento di attività produttive già esistenti. La verifica della compatibilità ambientale di tali insediamenti, affidata alla attestazione di esperti iscritti in competenti albi professionali, ha destato in alcuni casi qualche perplessità.

Infine va segnalata la notevole diffusione di richieste per la realizzazione di recinzioni (37).

Interventi in area di tutela speciale D3 (area di tutela ambientale e paesistica)

Nella zona D3 gli interventi sono stati abbastanza contenuti (7), e motivati in genere da esigenze specifiche di imprenditori agricoli. In alcuni casi sono risultati in contrasto con gli obiettivi che il Piano Territoriale di Coordinamento persegue in tali zone. Tuttavia il peso di tali interventi non appare rilevante.

Interventi nei “centri numerati”

Gli interventi edilizi nei centri numerati, al di fuori di Piani esecutivi citati al punto 3, non sono stati numerosi e non hanno evidenziato problemi di particolare rilievo. in quanto sono parsi effettivamente motivati da esigenze specifiche della popolazione residente, legate allo sviluppo naturale di tali centri. Non si sono cioè verificate rilevanti pressioni generate dal fenomeno della seconda residenza.

Interventi all’interno del perimetro IC (Iniziativa Comunale orientata)

Le richieste in queste zone (23) sono in generale relative ad interventi di ampliamento di attività produttive. I Comuni richiedono il parere del Consorzio sul certificato di compatibilità ambientale.

Interventi nei centri storici

Le richieste pervenute al Consorzio sono solo 9, ma le norme di attuazione del Piano Territoriale prescrivono il parere del Servizio Beni Ambientali della Regione Lombardia, per cui è probabile che i Sindaci abbiano rinviato le richieste di parere direttamente alla Regione.

Interventi dell’Enel

Numerose sono state le richieste dell’Enel (16) riguardanti l’allacciamento di nuove linee elettriche, in genere di bassa tensione. Con particolare riguardo si sono considerati gli attraversamenti delle zone di riserva orientata e del fiume.

Nota: per ovvi motivi di spazio, la serie completa degli estratti dai Rapporti è allegata di seguito in file PDF (f.b.)

Parco_Ticino_Rapporti_Eddyburg

Cronologia ragionata di “Malpensa 2000” dal 1982 al 2002

(a cura di COOMXP2000, Per la tutela dei diritti delle popolazioni locali alla vita, alla casa, alla salute e all’ambiente salubre: http://digilander.libero.it/coomxp2000)

1982

07 Aprile: La Giunta Regionale, con atto deliberativo n. 15872, approva il nuovo PRG aeroportuale elaborato dalla S.E.A.-ItalAirpot. La caratteristica principale del nuovo PRG è costituita dal fatto che ora la terza pista è ruotata di 21 gradi rispetto alle due attuali, con ciò incuneandosi ancor più in pieno Parco del Ticino. L’approvazione regionale è tuttavia subordinata alla necessità di effettuare alcuni approfondimenti sul progetto S.E.A. Le principali verifiche richieste (sempre a posteriori) sono relative agli aspetti ambientali, agli effetti indotti sul territorio ed al programma degli investimenti e dei meccanismi di finanziamento dell’opera nel suo complesso.

26 Aprile : la Gazzetta Ufficiale n. 125 dispone la pubblicazione, per 60 giorni consecutivi, presso gli uffici del comune di Osmate (Varese), delle mappe relative alle limitazioni delle costruzioni e degli impianti nelle zone circostanti l’aeroporto della Malpensa. Le mappe in questione aggiornano quelle già emesse nell’agosto del 1977, sempre presso il comune di Osmate, e definiscono: “... le zone soggette a limitazioni circostanti l’aeroporto di Milano-Malpensa giusto quanto previsto dall’art. 715 ter della legge 4 febbraio 1963 n. 58, che apporta modificazioni agli articoli dal 714 al 717 del Codice della Navigazione”. Entro il termine di 120 giorni, chiunque vi abbia interesse potrà, con atto motivato, produrre opposizione al Ministero dei trasporti e al DM 28 gennaio 1966 (G.U. n. 41) L’emissione di mappe ed informazioni sulla limitazione delle costruzioni nelle aree attorno a Malpensa, risale addirittura al settembre 1977 (G.U. 249).

29 Aprile: il Consorzio dei Comuni convoca una assemblea pubblica per decidere quale atteggiamento prendere nei confronti della decisione regionale di realizzare la “Grande Malpensa”. I Sindaci si trovano davanti a due alternative: la prima è quella di respingere il progetto di ampliamento aeroportuale e nel contempo di opporsi ad ogni aumento indiscriminato di traffico sulle due piste esistenti, la seconda è quella di accettare l’ipotesi di ampliamento solo a precise condizioni che la Regione dovrà garantire con una Legge Quadro. Le principali richieste, sempre le stesse da anni, sono:

-il completamento degli studi ambientali promessi; -la definizione dei limiti dell’ampliamento; -l’accertamento della compatibilità e valutazione dell’impatto ambientale di detto limite; -la definizione di una pianificazione urbanistica e territoriale esaustiva di quanto si intenda realizzare all’esterno dell’aeroporto.

A prevalere, nonostante la disillusione degli amministratori locali circa l’affidabilità regionale, è la seconda ipotesi.

28 Luglio: anche le ACLI (Associazione Cattolica Lavoratori Italiani) della provincia di Varese, prendono posizione su Malpensa con un documento di forte critica nei confronti della Giunta Regionale Lombarda. Nello scritto l’associazione evidenzia il comportamento scorretto della Giunta regionale che prima avvia uno studio di verifica sulla necessità o meno di ampliare l’aeroporto, e poi prende la decisione di dare il via libera al potenziamento di Malpensa, prescindendo dallo studio commissionato.

Luglio-Agosto: chiude per lavori di ampliamento e ammodernamento l’aeroporto di Linate. Di conseguenza tutto il traffico aereo viene trasferito su Malpensa. La regione Lombardia coglie l’occasione per promuovere una serie di studi ed indagini atti ad approfondire e a determinare le qualità e le quantità dei fenomeni indotti dall’ampliamento di Malpensa relativamente ai problemi di salvaguardia ambientale.

1983

20 Aprile : si parla di un imminente disegno di legge che il Governo si appresta a presentare per finanziare l’ampliamento della Malpensa. Immediata la reazione dei Comitati di Lotta che rilasciano alla stampa un comunicato che ribadisce la contrarietà alla realizzazione di una mega struttura senza la benché minima e preventiva verifica ambientale.

Maggio: il Consorzio dei Comuni, ormai apertamente allineato con il volere regionale, si appresta a preparare un Piano Regolatore Generale Intercomunale compatibile con il progetto S.E.A.-ItalAirport.

04 Giugno: secondo Convegno dei Comitati di Lotta contro l’Ampliamento della Malpensa. Dopo dieci anni di lotta i comitati di base fanno il punto della “situazione Malpensa” inserendola nel più generale contesto territoriale già degradato dalla presenza di impianti nocivi per l’ambiente e per la salute (Cave, discariche, inceneritori). Richiamando la precedente indagine sull’inquinamento atmosferico, viene presentata una indagine epidemiologica campione, svolta tra la popolazione residente attorno allo scalo aeroportuale, realizzata grazie alla operativa collaborazione del Gruppo Permanente di lavoro per la tutela della salute e del territorio del Consorzio Sanitario di Zona Busto Arsizio 2/est Castellanza. I dati che emergono sono allarmanti:

- il rumore rappresenta per la stragrande maggioranza della popolazione una fonte certa di rischi per la salute; -la causa di maggior rumore è individuata in modo inequivocabile nel rumore degli aerei; -tutti i disturbi più importanti denunciati sono direttamente riferibili al rumore.

E’ la dimostrazione della necessità di dare avvio ad una più compiuta indagine epidemiologica tra le popolazioni dell’area di Malpensa, come richiesto dalla mozione approvata nel convegno del 1979 ed anche dal voto unanime dell’assemblea del Consorzio Urbanistico dei Comuni nel luglio del 1982.

1984

27 Febbraio: viene consegnato ai Comuni del Consorzio il documento della Regione Lombardia contenente la proposta di un terzo P.R.G. di Malpensa senza l’ipotesi della terza pista. Il forte impatto ambientale con il Parco del Ticino e con l’ecosistema ivi consolidato, nonché l’aggressione di una significativa porzione di territorio vincolato a parco agricolo forestale, congiuntamente ad altre motivazione tecniche-aeronautiche, convincono la Regione a non realizzare più la terza pista. Terza pista sino ad allora definita “ecologica” dalla S.E.A. Il documento contiene inoltre le verifiche e gli approfondimenti che la Regione si era impegnata a compiere con la deliberazione di approvazione di massima del P.R.G. S.E.A.-ItalAirport, nel 1982. La verifica ambientale, incentrata sull’analisi dell’inquinamento atmosferico, acustico e sulla modificazione dell’ecosistema, è basata sui dati raccolti nel corso dei mesi di luglio ed agosto del 1982. Nella circostanza, la chiusura di Linate per l’esecuzione dei lavori di ammodernamento dello scalo, comportò il trasferimento di tutto il traffico aeroportuale su Malpensa che raggiunse i 300 voli giornalieri di media. A detta regionale ciò rappresentava una anticipazione, seppur temporanea, di quella che sarebbe stata l’attività aeroportuale futura di Malpensa, e quindi uno scenario adatto per il monitoraggio dei fenomeni ambientali. In realtà il periodo è troppo breve per poter osservare eventuali modifiche significative dell’ambiente naturale: ne consegue che i rilievi ottenuti non sono del tutto attendibili. Inoltre gli studi non comprendono una indagine epidemiologica soggettiva con la popolazione, per verificare la corrispondenza degli indici tecnici di misurazione del rumore con la situazione di benessere o disagio realmente vissuta dagli abitanti della zona. Manca altresì uno studio di valutazione dell’aumento dell’inquinamento prodotto dall’aeroporto rispetto alla situazione preesistente o tra prima e dopo il periodo in esame. Ciononostante, le considerazioni e le valutazioni emerse dagli studi in questione vengono accettate dalla Regione che così le riassume:

Inquinamento acustico. Sono stati rilevati i livelli di rumore sulle zone di sorvolo dei centri abitati più interessati, verificando condizioni di inquinamento acustico sostanzialmente diverse a seconda delle procedure e delle rotte di decollo e di sorvolo degli aeromobili impiegati. E’ stata accertata l’effettiva possibilità di costituire un sistema di monitoraggio a terra per il prelievo ed il confronto dei livelli di rumore al fine di identificare le modalità più idonee per la riduzione dell’inquinamento acustico e per la costruzione delle curve di isodisturbo relative ai vincoli territoriali di cui alla L.R. n.91/80.

Inquinamento atmosferico. Sono state rilevate le emissioni di gas combustibile durante le operazioni di decollo ed atterraggio degli aerei, la previsione di ricaduta di tali dispersioni, l’inquinamento medio al suolo, i confronti con altre forme di emissioni. I risultati hanno confermato una trascurabile incidenza degli scarichi aerei sul tasso di inquinamento globale della zona che rimane complessivamente modesto. Modificazioni ambientali dell’ecosistema. E’ stata compiuta una indagine sulla fauna che non ha evidenziato eventuali alterazioni o compromissioni a carico della popolazione animale imputabili all’incremento di attività aerea. Inoltre è stata compiuta una indagine su vegetazione e flora che ha permesso di accertare l’assenza di fatti manifesti ed immediatamente percepibili di alterazione, da imputare all’inquinamento atmosferico derivato dall’incremento di attività aerea.

Rumorosità dei vari tipi di aeromobili. Sono stati rilevati i livelli di rumorosità prodotti al suolo in fase di atterraggio, rullaggio e decollo dei vari aeromobili. E’ stato verificato come sia in atto effettivamente la tendenza alla riduzione del livello di emissione acustica (a parità di potenza installata) sugli aerei di nuova generazione. La verifica sugli effetti indotti territoriali e sull’accessibilità a Malpensa viene prevista attraverso tre iniziative regionali:

1. la formazione di un piano esecutivo d’area delle zone interessate dallo sviluppo aeroportuale;

2. l’approvazione del Piano Regionale dei Trasporti con il collegamento su rotaia alla nuova aerostazione;

3. la formazione di un Piano regionale della viabilità, che definisca precisi interventi di accessibilità su gomma da e per Malpensa.

Con i richiami al D.D.L predisposto dal Ministero dei Trasporti per gli aeroporti di Roma e di Milano, la Regione affronta anche il problema degli investimenti necessari alla copertura finanziaria del progetto del nuovo aeroporto. Come abitudine nazionale la copertura finanziaria è incerta. Solo un rimando a future iniziative politiche regionali e di parte S.E.A., potrà (forse) consentire il reperimento dei finanziamenti anche per lo studio ed il rilevamento dei fenomeni indotti sul territorio, comprese le conseguenti misure di tutela e prevenzione.

Maggio: il Ministero dei Trasporti approva in linea tecnica il collegamento ferroviario FNM tra Milano e l’aeroporto di Malpensa.

21 Giugno: il Consorzio dei Comuni risponde al documento regionale evidenziando la novità positiva della definitiva rinuncia alla realizzazione delle terza pista. Inoltre, nell’affermare la stretta connessione esistente tra dimensione aeroportuale e compatibilità ambientale, richiede il completamento degli studi sul territorio e la chiusura notturna dello scalo. Il tutto si conclude con il via libera alla S.E.A. per la stesura di un nuovo P.R.G. che tenga conto delle indicazioni regionali e dei Comuni. E’ il preludio alla terza revisione del P.R.G. aeroportuale: nasce “Malpensa 2000”.

Ottobre: l’Assessorato al Coordinamento per il Territorio della Regione Lombardia, licenzia un rapporto preliminare che contiene le linee di indirizzo per la formazione del Piano Esecutivo d’area di Malpensa. Vale la pena riportare alcuni passaggi della relazione di sintesi dello studio in parola proprio per dimostrare come i tentativi di pianificazione del territorio successivamente intrapresi hanno completamente ignorato le indicazioni contenute nel rapporto preliminare. Una ulteriore riprova dell’ennesima presa in giro ai danni delle popolazioni locali. “Rapporto preliminare Malpensa. Per la formazione del Piano Esecutivo dell’ambito territoriale interessato dall’aeroporto”.

1. Il significato del rapporto preliminare. E’ un rapporto di proposte e di previsioni di impatto da offrire agli enti interessati, alle forze politiche, sociali e culturali della Regione, affinché esprimano le loro valutazioni ed avanzino proposte che possano essere utili alla definizione ed alla riorganizzazione del sistema territoriale interessato prima che esso venga definito in atti formali, affinché i Comuni ed in particolare i cittadini direttamente investiti dagli effetti indotti partecipino alle scelte di piano facendo pervenire “osservazioni e opposizioni” prima e non dopo la adozione dei vari atti formali di intervento sul territorio. Nell’ambito del dibattito in corso esistono però alcune scelte che si presume non saranno più messe in discussione e possono quindi essere considerate alla stregua di “punti fermi”. Essi sono: 1. il ruolo di Malpensa come secondo aeroporto intercontinentale italiano e come aeroporto internazionale affiancato a Linate; 2. il dimensionamento della sua capacità (8 milioni di passeggeri/anno), basato sulle previsioni di traffico elaborate dalla BAI(British Airport International) e sulla capacità limite di Linate (ritenuta di circa 6/6,5 milioni di passeggeri/anno); Omissis ….

2. Gli obiettivi di pianificazione. Gli obiettivi che il Piano Esecutivo dovrà perseguire riguardano essenzialmente: la valutazione degli effetti ambientali degli interventi prendendo in esame proposte alternative;

Omissis ….

3. Individuazione dell’ambito territoriale oggetto del Piano Esecutivo. L’individuazione dell’ambito territoriale che dovrà essere oggetto del Piano Esecutivo Regionale è stata operata secondo due linee conduttrici fondamentali, che tengono conto dei due principali ordini di problemi: quello ambientale ed urbanistico e quello relativo alla struttura della mobilità. L’ambito territoriale così individuato comprende 19 comuni, appartenenti alle provincia di Varese e di Milano: il Piano Esecutivo interesserà quindi una superficie complessiva di 27.987 Ha e coinvolgerà circa 248.263 abitanti (dato censimento 1981). …

4. Soggetti e procedure. Il Piano Esecutivo investe un territorio più ampio del Consorzio Urbanistico Volontario e del Consorzio Parco del Ticino … per cui l’Ente territorialmente competente non può che essere la Regione Lombardia. … Dal punto di vista procedurale il ricorso al Piano Esecutivo regionale è previsto dall’art. 18 della L.R. n. 33/1980 in attuazione dell’art. 30 della L.R. 51/1975.

1985

26 Marzo: la Regione Lombardia formalizza con uno specifico atto deliberativo (n. 2031/85) i criteri ed i suggerimenti da fornire a S.E.A. per la redazione del un nuovo P.R.G. di Malpensa.

19 Aprile: partendo dai risultati delle verifiche effettuate, il Consiglio di Amministrazione della S.E.A. approva un nuovo P.R.G. aeroportuale denominato “Malpensa 2000”. Gli accertamenti ambientali, pomposamente richiamati in premessa al nuovo progetto aeroportuale, altro non sono che i già citati studi del luglio-agosto 1982. Questo consente alla S.E.A. ed alla Regione di affermare: “...di aver raggiunto la convinzione che lo sviluppo previsto per l’aeroporto di Malpensa è compatibile con il territorio limitrofo, anche senza considerare l’ipotesi di costruzione della terza pista”.

27 Giugno: mentre le questioni ambientali di Malpensa vengono trattate in modo così pressapochista, in Europa, dopo un dibattito durato anni, viene emanata la Direttiva CEE/337 sulla Valutazione di Impatto Ambientale.

22 Agosto: si procede ad una ulteriore legge di finanziamento parziale per Malpensa, attraverso l’emanazione della legge 449 “Interventi di ampliamento e di ammodernamento da attuare nei sistemi aeroportuali di Roma e Milano”. Sono 480 i miliardi che lo Stato destina per la realizzazione della Grande Malpensa.

23 Dicembre: con nota n. 212781 la Direzione Generale Aviazione Civile del Ministero dei Trasporti, trasmette alla Regione Lombardia la proposta di P.R.G. di “Malpensa 2000” per l’espressione del parere di competenza così come dettato dalla Legge 449/85.

1986

22 Aprile : La Giunta Regionale, con propria deliberazione n, IV/8121, trasmette gli atti relativi al P.R.G. di “Malpensa 2000” al Consiglio Regionale proponendo la formulazione di parere positivo sul progetto di ampliamento aeroportuale.

03 Giugno: il Consiglio regionale approva il P.R.G. di “Malpensa 2000” (Atto IV/274) stabilendo l’obbligo di realizzare, a cura della S.E.A.:

- uno studio di impatto ambientale comprensivo dei fenomeni indotti per ogni tranche di interventi finanziati o posti in esecuzione;

- il dimensionamento dello sviluppo aeroportuale a 8 milioni di passeggeri; subordinando ogni futura espansione alla piena operatività dello scalo di Linate;

- la redazione di un piano d’area ;

- la chiusura notturna dello scalo.

- L’attuazione di uno studio di impatto ambientale relativamente all’ambito territoriale attorno a Malpensa verrà successivamente affidato alla Provincia di Varese mediante l’attribuzione di specifica delega funzionale per la realizzazione del Piano Esecutivo d’Area.

08 Luglio: viene istituito il Ministero dell’ambiente e si comincia a dare attuazione alla Direttiva europea sulla VIA, la 337/85. L’art. 6 della L.349 impegna infatti il Governo a presentare in Parlamento un disegno di legge di attuazione della direttiva 337/85/CEE. L’impegno non verrà mantenuto e questo consentirà a Sea di sottrarre il progetto di ampliamento della Malpensa alle severe verifiche ambientali del protocollo previsto dalla normativa comunitaria.

Dicembre: in ottemperanza al disposto della delibera regionale 274 del 3 Giugno, Sea incarica la società Produzione Ambiente e Risorse (PAR) di elaborare uno Studio di Impatto Ambientale sulla richiesta di ampliamento dell’aeroporto della Malpensa. Il 16 del corrente mese, il ministero dei Trasporti approva la convenzione che regola i rapporti tra il ministero dei Trasporti e SEA per la realizzazione di Malpensa 2000

1987

13 Febbraio : il Ministero dei Trasporti, con decreto n. 903, approva definitivamente il Piano regolatore di Malpensa 2000 Marzo: Sea presenta i risultati finali dello Studio di Impatto Ambientale elaborato dalla società PAR. Pur non essendo ancora stata adottata a livello nazionale la normativa CEE n. 331/85 concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, Sea e PAR dichiarano di aver comunque fatto riferimento alla direttiva comunitaria per l’elaborazione dello studio ambientale (Rapporto di sintesi - capitolo 1.3). In realtà non è così. La direttiva comunitaria viene disattesa nei suoi aspetti metodologici più significativi, a partire dall’elaborazione di scenari di sviluppo alternativi ivi compreso l’opzione zero.

13 Marzo: viene siglato il protocollo d’intesa tra Regione e Provincia di Varese per la redazione del piano esecutivo di Malpensa così come previsto dalla delibera regionale del giugno 1986. La Regione, attribuendo alla Provincia di Varese la delega alla pianificazione del territorio, per ovvie ragione di competenza territoriale, non può che limitare il campo d’impatto dello strumento urbanistico al solo ambito territoriale dei Comuni limitrofi allo scalo, vanificando in tal modo le sensate indicazioni di metodo contenute nello studio preliminare dell’ottobre 1984.

26 Novembre: Con deliberazione n. 262 la Provincia di Varese assegna alla società Techint Compagnia Tecnica Internazionale Spa di Milano, l’incarico professionale per la redazione del Piano Esecutivo d’Area Malpensa.

Dicembre: la Legge Finanziaria 1988 stanzia nel triennio 1988/1990 altri 480 miliardi per il progetto Malpensa 2000.

1988

La Regione Lombardia affida al Nucleo di valutazione degli Studi V.I.A. Pilota - struttura tecnica costituita nel 1984 - il compito di esaminare e valutare gli studi di Impatto Ambientale Sea/PAR relativi alla realizzazione dell’ampliamento dell’aeroporto di Milano Malpensa.

Maggio: mentre il CIPE delibera un finanziamento di 207,6 miliardi per una prima parte delle opere ferroviarie FNM di Saronno Malpensa, il Nucleo di valutazione degli Studi V.I.A. Pilota, con una propria relazione, evidenzia diverse carenze di metodo e di merito dello studio Sea/PAR e ravvisa la necessità di elaborare ulteriori studi specialistici che diverranno oggetto di uno specifico protocollo d’intesa Sea/Regione che verrà siglato il 3 novembre 1988. Alcuni passaggi della relazione del Nucleo di valutazione degli Studi V.I.A., sono particolarmente significativi nell’evidenziare i limiti e le carenze dello studio Sea/PAR. In particolare laddove si “ammette” che gli studi si sono dovuti adeguare al dato di fatto dell’esistenza di un progetto di ampliamento già deciso, venendo così meno al loro principale obiettivo: l’analisi preventiva degli impatti anche al fine di eventuali alternative progettuali.

26 luglio: con atto IV/35081 la Giunta Regionale approva la relazione del Nucleo VIA e predispone la bozza di protocollo d’intesa fra Regione e Sea, contenete impegni ritenuti “indispensabili” affinché i lavori dell’ampliamento possano prendere avvio.

25 Ottobre: il ministro dei Trasporti, Giorgio Santuz, con decretazione n. 093 e 093, approva i primi due progetti del pacchetto Malpensa 2000: “infrastrutture di volo e piste di raccordo” e “recinzioni e posti di guardia”.

03 Novembre: viene siglato il protocollo d’intesa Sea/Regione che prevede l’elaborazione degli studi indicati nella relazione del Nucleo Via e che hanno natura preventiva rispetto alla realizzazione degli interventi.

1989

07 Febbraio : con atto n. 39387 la Giunta regionale della Lombardia istituisce un gruppo di lavoro tecnico con l’obiettivo, entro fine anno, di formulare proposte di aggiornamento delle rotte di sorvolo, delle procedure di decollo e dell’uso del suolo nelle aree in prossimità dello scalo della Malpensa. La Commissione non giungerà a nessuna determinazione!

15 Febbraio: aderendo ad uno specifico ordine del giorno, presentato dal consigliere Zanatto (componente dei Comitati di Lotta), il Consiglio Comunale di Somma Lombardo prende in esame la relazione del Nucleo regionale V.I.A. sullo studio di impatto ambientale della Sea/Par e delibera: “di chiedere al fine di non vanificare definitivamente il lavoro V.I.A. fin qui prodotto, al Ministero dei Trasporti, al Ministero dell’Ambiente, di concerto con la Regione Lombardia, la sospensione dell’av vio dei lavori (nuovo assetto delle piste, recinzione - riferimento Piani Esecutivi, approvati dal Ministero dei Trasporti) fino all’esaurimento degli Studi suelencati”.

02 Giugno:con delibera del Consiglio Direttivo n. 5, il Consorzio dei Comuni di Malpensa (C.U.V.) approva una propria proposta di nuove rotte di decollo da sottoporre alla valutazione della regione Lombardia . Si stabilisce che le nuove rotte di decollo, in funzione delle piste, abbiano lo scopo di minimizzare il disturbo sui centri abitati e, pertanto, si rende necessario proibire il passaggio su tali zone o, in alternativa, sorvolare gli stessi oltre i duemila piedi. Il C.U.V. individua adeguate aree di decollo/atterraggio dove l’inquinamento acustico, con opportune procedure antirumore, assistite da specifica normativa, può essere accettabile. Inoltre il C.U.V. chiede la specializzazione delle piste: pista a Nord per i decolli, pista Sud per gli atterraggi. Ciò nell’ottica dell’attivazione finale dell’Aeroporto, così come previsto nella delibera regionale.

17 Luglio : la Provincia di Varese presenta il Piano esecutivo d’area di Malpensa. L’elaborato, che prende in considerazione un’area di 180 chilometri quadrati con 200 mila residenti, si basa su una previsione di sviluppo aeroportuale di 12 milioni di passeggeri, ed è articolato in dieci punti:

1. accelerare la realizzazione di Malpensa 2000 per evitare che si sviluppi e si consolidi la concorrenza degli altri scali europei; 2. cogliere l’opportunità aeroportuale per progettare una ristrutturazione urbanistica dell’area; 3. creare la “città di Malpensa”, ovvero un nuovo sistema urbano costituito dagli undici Comuni compresi nell’ambito del Piano; 4. valorizzare il posizionamento di Malpensa nell’area regionale e interregionale; 5. avviare un processo di crescita urbana nella fascia di territorio regionale che da Malpensa giunge sino a Bergamo, in prospettiva della futura realizzazione della Pedemontana; 6. creare il Parco della Malpensa come carattere strutturale del nuovo sistema urbano e in continuazione fisica del Parco del Ticino; 7. caratterizzare il modello insediativo con la prevalente conferma dei nuclei esistenti senza ulteriore impegno di aree libere; 8. creare una maglia viaria a reticoli che possa anche assolvere alle esigenze della mobilità locale; 9. puntare sull’innovazione nello sviluppo dei settori produttivi; 10. puntare sui caratteri della modernità e dell’internazionalità nell’habitat e nei sevizi.

Basta questo decalogo, in alcuni punti davvero mistificatorio, per vanificare i propositi dichiarati in premessa, ovvero la limitazione degli effetti negativi dell’insediamento aeroportuale. Infatti il Piano, costato un miliardo e 200 milioni, si presenta come uno strumento per stimolare gli appetiti speculativi dei Comuni, alcuni dei quali, ormai rassegnati all’ineluttabilità di “Malpensa 2000”, puntano ad utilizzare lo strumento del P.T.E.A., per privilegiare la soluzione-monetizzazione dei propri problemi territoriali. Il Piano, da strumento per la valutazione ambientale e la pianificazione esterna del territorio intorno all’aeroporto, si trasforma in un formidabile strumento di baratto con le Amministrazioni locali, ratificandone in modo acritico le scelte urbanistiche. La Grande Malpensa come “bastone” e il piano d’area come “carota” tanto per essere chiari !

Nota: la Cronologia completa è scaricabile da qui in formato PDF; sul tema di Malpensa e i suoi vari incroci con la politica e la questione ambientale, si veda qui anche l'estratto da un recente libro di Giorgio Bocca (f.b.)

Malpensa_Cronologia_Eddyburg

Il dibattito promosso dall’Associazione “Italia Nostra” e dalla Rivista “Città e Società”, tenutosi al Piccolo Teatro di Milano la sera del 9 aprile, ha dimostrato, per l’importanza degli argomenti addotti dalle interessanti relazioni che sono state presentate, per la vivacità stessa con la quale si è svolto, per l’eco che ha suscitato nell’opinione pubblica, la necessità di un ben più approfondito esame delle conseguenze che il progettato ampliamento dell’aeroporto di Malpensa può provocare. Al dibattito erano stati invitati, ed avevano garantito la loro partecipazione, i rappresentanti dei due Enti dai quali dipendono le decisioni su questo problema; la S.E.A. - Società Esercizi Aeroportuali - (della quale il Comune di Milano possiede 1’80% delle azioni), che ha predisposto il progetto di ampliamento, e la Regione, che ha la responsabilità del controllo e del coordinamento di tutte le iniziative che si svolgono sul suo territorio. L’assenza verificatasi all’ultimo momento di questi due fondamentali interlocutori, motivata con argomentazioni polemiche, pretestuose ed inaccettabili da una parte, evasive dall’altra, ha lasciato senza risposta gli inquietanti interrogativi emersi dal dibattito, concernenti soprattutto il metodo seguito fino ad oggi nell’esame dei problemi e nell’assunzione delle deliberazioni riguardo ad un argomento di tale rilievo.

Considerato che una decisione non sufficientemente meditata può provocare delle gravissime conseguenze, sia nei confronti degli 80.000 cittadini che oggi vivono all’interno dell’area influenzata direttamente dal movimento degli aerei, sia nei confronti della sopravvivenza della Brughiera del Ticino, una delle ultime risorse naturali della parte più congestionata dell’area lombarda, sia, infine, per tutti gli effetti indiretti di natura urbanistica che l’ampliamento dell’aeroporto può provocare, “Italia Nostra” e “Città e Società” ritengono che a quegli interrogativi debba essere data un’ampia e rasserenante risposta. In particolare risulta necessario chiarire i seguenti aspetti del problema:

● dato che la motivazione fondamentale addotta per giustificare l’ampliamento dell’aeroporto (con un incremento di passeggeri-anno dagli 800 mila attuali a 9 milioni e mezzo) è la necessità di attrezzare uno scalo aereo intercontinentale nell’Italia Settentrionale, si chiede se è stato svolto un approfondito studio, sul modello del “Roskill Report” inglese, dal quale risulti che in tutta l’area padana non esistono alternative più valide alla scelta di Malpensa;

● dato che gli effetti economici indotti da un simile ampliamento sono tali da ripagare i costi d’impianto e da incentivare l’insediamento attorno all’aeroporto di attività commerciali, industriali, di magazzinaggio e trasporto per almeno 30-40 mila nuovi posti-lavoro, si chiede se sia stato previsto ed avviato lo studio di un Piano urbanistico comprensoriale inserito in un valido e già accertato quadro di pianificazione regionale, in grado di prevedere quelle attrezzature per il territorio adeguate alle esigenze di un simile abnorme sviluppo; e se ciò sia compatibile con gli obiettivi di riequilibrio territoriale che la Regione si propone di raggiungere;

● dato che l’aeroporto di Malpensa è situato all’interno del comprensorio naturalistico costituito dalle Brughiere del Ticino e del Gallaratese, si chiede se sia stata verificata l’entità delle perdite che le opere progettate provocherebbero nella consistenza naturalistica della zona, con la conseguente inevitabile compromissione del costituendo “Parco della Valle del Ticino”;

● dato che a tutt’oggi non risulta che tali fondamentali verifiche siano state svolte, si richiede un deciso intervento da parte degli organi più direttamente responsabili, e in particolare del Consiglio Regionale Lombardo e del Consiglio Comunale di Milano (nella sua qualità di principale azionista della S.E.A.), affinché non vengano prese deliberazioni ne autorizzate opere di ampliamento fino a quando non saranno chiariti di fronte all’opinione pubblica i problemi sopra delineati. “Italia Nostra” e “Città e Società” ritengono quindi opportuno richiamare sul caso di Malpensa la personale attenzione di tutti i responsabili e di tutti coloro che sono interessati alla realizzazione di un corretto ed equilibrato assetto del territorio lombardo, nella fiducia che essi vorranno farsi promotori e partecipanti di quel sereno e meditato dibattito che si rende indispensabile come approccio :allo studio e come avviamento alla soluzione di un problema di tanta importanza e gravità.

Provincia di Milano

Parco del Ticino

A – PROPOSTE

1) Denominazione dell’iniziativa: Parco del Ticino.

2) Area interessata: superficie approssimativa: ha 8.550. Comuni interessati (n. 14): Nosate, Castano Primo, Cuggiono, Bernate, Boffalora, Magenta, Robecco, Abbiategrasso, Ozzero, Morimondo, Motta Visconti, Robecchetto, Besate; di cui complessivamente: di proprietà agricola: ha 2.550 circa; di proprietà privata (riserve): ha 6.000 circa.

3) Motivi per i quali si propone la tutela: Uno dei paesaggi più tipici per caratteri del fiume, vegetazione, tipi di insediamento storico ed artistico, interesse faunistico-ittico.

4) Caratteristiche degne di rilievo

● geomorfologiche: terreni alluvionali e fontanili;

● naturalistiche: pioppeti, bosco naturale tipico fluviale padano, lanche e stagni;

● paesaggistiche: brughiera a Nord (Nosate e Castano Primo) e da Boffalora a Morimondo ambientazione di complessi storici, di ville e chiese;

● monumentali, architettoniche: Ponte Vecchio di Magenta, tutte le ville 1400-1800 lungo il Naviglio Grande, Abbazia di Morimondo, Ville a Cuggiono;

● archeologiche: ritrovamenti preistorici, palafitticoli, da Turbigo verso Nord lungo il Ticino, tracce di focolari longobardi nella bassa di Morimondo;

● biotopi: garzaie di Morimondo; essenze principali: rovere, farnia, carpine e pioppo bianco.

Organismi: Enti locali ed Associazioni che hanno sostenuto e sostengono l’iniziativa: Ass. Forestale Lombarda, Ispettorato Forestale, Provincia, Associazione Comuni Est Ticino, Italia Nostra, Camera di Commercio, Amici del Po, W.W.F., T.C.I., Ente Provinciale Turismo.

B – VINCOLI IN ATTO

1) Stato di fatto della pianificazione urbanistica relativa all’area meritevole di tutele, per Comune:

a) Comuni di Besate, Turbigo, Ozzero, Motta Visconti, Cuggiono: P.d.F. approvato. Vincoli di piano per l’area tutelabile: verde agricolo; verde privato ed in minima parte vede pubblico, verde di conservazione forestale;

b) Comune di Magenta: P.R.G. adottato. Vincoli di piano per l’area tutelabile: verde agricolo; verde privato ed in minima parte vede pubblico, verde di conservazione forestale;

c) Comune di Robecchetto: P.d.F. adottato. Vincoli di piano per l’area tutelabile: verde agricolo; verde privato ed in minima parte vede pubblico, verde di conservazione forestale;

d) Comune di Abbiategrasso: P.R.G. in progetto. Vincoli di piano per l’area tutelabile: verde agricolo; verde privato ed in minima parte vede pubblico, verde di conservazione forestale;

e) Comuni di Nosate, Castano primo, Bernate, Morimondo, Boffalora, Robecco: P.d.F. adottato. Vincoli di piano per l’area tutelabile: verde agricolo; verde privato ed in minima parte vede pubblico, verde di conservazione forestale.

2) Vincoli esistenti:

f) vincoli idrogeologici: superficie ha 1.035 circa, localizzati nei comuni di: Besate, Morimondo;

g) vincoli monumentali, edifici protetti: in tutti i comuni per chiese, ville lungo il Ticino e Naviglio Grande, Abbazia di Morimondo, Sovraintendenza a i Monumenti;

h) riserve di caccia: superficie ha 6.000 circa, localizzate in tutti i 14 comuni;

i) colture forestali in atto: superficie ha 3.500 circa, localizzate in tutti i 14 comuni.

C – SITUAZIONE DI FATTO ATTUALE E VARIE

1) Stato di fatto delle opere e degli insediamenti, in atto o in progetto, che possono compromettere l’azione di tutela:

a) insediamenti industriali: Turbigo, Magenta, Robecco;

b) insediamenti di tipo civile: Turbigo, Magenta;

c) infrastrutture viarie e ferroviarie, impianti di risalita, strutture trasportistiche: tranne che nei comuni sopracitati ed in più nel comune di Bernate non si ritiene che l’attuale viabilità e la ferrovia possano suscitare insediamenti compromettenti il Parco. Ovviamente sarà da ristrutturare la viabilità interna primaria e secondaria e lo studio di una strada paesistica;

d) miniere, cave e torbiere: cave di ghiaia e sabbia recuperabili a terreno normale lungo il corso del fiume; circa 10 cave, escluse quelle lungo il letto.

2) Note e varie: La fascia a parco va riferita al più vasto comprensorio che fiancheggia il Ticino da Sesto Calende al Po. Si sollecita una ambientazione protettiva e turisticamente valida delle ville e gli abitati lungo il Naviglio Grande, Tangenziale al Parco Ticino e poi in particolare sarebbero da curare la riserva naturale di Motta Visconti, il parco lungo l’autostrada a Boffalora, le attrezzature sportivo-ricreative ad Abbiategrasso.

3) Bibliografia: Il futuro del Ticino, Ente Prov.le del Turismo; La difesa del Ticino, Sezione Pavese di Italia Nostra; Le Brughiere Lombarde, Assoc. Forestale Lombarda, 1966; Lo studio verde, Atti del Collegio Regionale Lombardo Architetti, 1964.

Milano, 14 maggio 1973. [...]

Provincia di Pavia

Comprensorio del Ticino

A – PROPOSTE

1) Denominazione dell’iniziativa: Comprensorio del Ticino.

1 - Area interessata: superficie approssimativa ha 17.000. Comuni interessati: Cassolnovo, Vigevano, Borgo San Siro, Zerbolò, Carbonara, San Martino Siccomario, Pavia, Travacò , Valle Salimbene, Bereguardo, Torre d’Isola, Gambolò.

2 - Motivi per i quali si propone la tutela: Protezione dell’area fluviale e delle zone boscose circostanti, nonché degli scorci panoramici ambientali ancora intatti, L’area costituisce un polmone verde per la città di Milano, Pavia e Vigevano.

3 - Caratteristiche degne di rilievo:

naturalistiche;

paesaggistiche;

monumentali, architettoniche;

● biotopi: Bosco dei Negri in comune di Pavia, Bosco di Zerbolò, Bosco di Bereguardo e della Zelata.

4 - Organismi, Enti ed Associazioni che hanno sostenuto e sostengono l’iniziativa: Comune interessato, Ente Turismo, Camera di Commercio, C.A.I., Italia Nostra.

B – VINCOLI IN ATTO

1 - Stato di fatto della pianificazione urbanistica relativa all’area meritevole di tutela, per Comune:

a) Comune di Cassolnovo : P.d.F. approvato. Il Comune non è soggetto a P.R.G. obbligatorio;

b) Comune di Vigevano : P.R.G. adottato, P.d.F. adottato. Il Comune è soggetto a P.R.G. obbligatorio;

c) Comune di Borgo San Siro : P.d.F. adottato. Il Comune non è soggetto a P.R.G. obbligatorio;

d) Comune di Zerbolò : P.d.F. adottato. Il Comune non è soggetto a P.R.G. obbligatorio;

e) Comune di Carbonara Ticino : P.d.F. in progetto. Il Comune non è soggetto a P.R.G. obbligatorio;

f) Comune di San Martino Siccomario : P.d.F. adottato. Il Comune non è soggetto a P.R.G. obbligatorio;

g) Comune di Pavia : P.R.G. approvato. Il Comune è soggetto a P.R.G. obbligatorio;

h) Comune di Travacò Siccomario : P.d.F. adottato. Il Comune non è soggetto a P.R.G. obbligatorio;

i) Comune di Valle Salimbene : P.d.F. adottato. Il Comune non è soggetto a P.R.G. obbligatorio;

l) Comune di Bereguardo : P.d.F. adottato. Il Comune non è soggetto a P.R.G. obbligatorio;

m) Comune di Torre d’Isola : P.d.F. approvato. Il Comune non è soggetto a P.R.G. obbligatorio;

n)Comune di Gambolò : P.d.F. adottato. Il Comune non è soggetto a P.R.G. obbligatorio.

2 - Vincoli esistenti:

a) vincoli paesaggistici, ai sensi della legge 29 giugno 1939, n. 1497, localizzati nei comuni di: Cassolnovo, Vigevano, Borgo San Siro, Zerbolò, Pavia, Travacò Siccomario, Mezzanino, Bereguardo, Torre d’Isola, Gambolò;

b) vincoli monumentali, edifici protetti: Castello Cassolnovo, Vigevano, Castello Zerbolò, Pavia, Chiesa Parrocchiale di Travacò, Castello di Bereguardo, Castello di Parasacco di Zerbolò, Palazzo Botta di Torre d’Isola, Villa Cavagna Sangiuliani a Zelata e Palazzo Moino in Bereguardo;

c) riserve di caccia: superficie ha 7.000 circa, localizzati nei comuni di: Cassolnovo, Vigevano, Borgo San Siro, Zerbolò, Bereguardo, Carbonara Ticino, Travacò, Torre d’Isola, Pavia;

d) colture forestali in atto, localizzate nei comuni di: Pavia, Zerbolò, Bereguardo, Borgo San Siro, Vigevano.

C – SITUAZIONE DI FATTO ATTUALE E VARIE

1) Stato di fatto delle opere e degli insediamenti in atto o in progetto, che possono compromettere l’azione di tutela:

a) insediamenti industriali: insediamenti e scarichi industriali in prossimità dei maggiori centri;

b) insediamenti di tipo civile: forti spinte insediative, specialmente nei comuni di Pavia e Torre d’Isola;

c) infrastrutture viarie e ferroviarie, impianti di risalita, strutture trasportistiche: nodo ferroviario a Pavia, ponti ferroviari sul Ticino a Pavia e Vigevano. Il perimetro è delimitato dalle strade statali dell’Est Ticino e dei Cairoli ed è solcato da una buona rete di strade provinciali e comunali bitumate;

d) miniere, cave e torbiere: cave di sabbia e ghiaia in Ticino e nel terrazzamento circostante.

Pavia, 1 giugno 1973.



Proposta di individuazione delle aree meritevoli di tutela naturalistica: area del Ticino (a cura dell’Ufficio Tecnico dell’Amministrazione provinciale di Pavia)

Quella del Ticino è la maggiore area fluviale a bosco tuttora esistente in Lombardia; la sua importanza è primaria sia sotto il punto di vista naturalistico sia da quello paesaggistico. La vasta bibliografia ormai esistente sull’argomento esonera dal dilungarsi, in questa sede, per illustrare quali siano i pregi specifici del vasto comprensorio che, adeguatamente tutelato, verrebbe ad assolvere ad una funzione sociale non facilmente surrogabile.

La superficie totale dell’area proposta è di circa ettari 16.920 ed interessa i comuni di Cassolnovo, Vigevano, Borgo San Siro, Zerbolò, Carbonara Ticino, San Martino Siccomario, Pavia, Travacò Siccomario e Mezzanino in sponda destra e di Bereguardo, Torre d’Isola e Pavia in sponda a sinistra.

Quasi tutti i comuni citati hanno la porzione del loro territorio rivierasco del Ticino sottoposta a vincolo paesaggistico da parte della Soprintendenza dei Monumenti per la Lombardia (presenza di castelli, cascinali, fattorie).

La perimetrazione grafica dell’area è stata desunta da elementi forniti direttamente dal prof. Vaccari ed è stata poi visionata ed approvata dai rappresentanti della Camera di Commercio, C.A.I, e Italia Nostra. [...]

Provincia di Varese

Considerazioni urbanistiche generali in merito alla identificazione di parchi naturali in Lombardia richiesta dalla Regione Lombardia

[...] Ci riferiamo per il Ticino alla sola sponda lombarda. La popolazione al 1 gennaio 1970 dei dodici comuni compresi nell’area era di circa 80.000 abitanti. Gli strumenti urbanistici vigenti al giugno 1970 prevedono una estensione edificata capace di contenere 900.000 abitanti. Molti comuni prevedono la edificazione fino sulla sponda del Ticino, moli prevedono l’insediamento di zone industriali a ridosso o lungo il fiume o nell’area del bacino.

Quasi tutti i comuni prevedono la privatizzazione totale dell’area boscata e delle sponde; le zone libere e comunque destinate alle attrezzature collettive sono irrisorie. Questa situazione proviene oltre che dalle pressioni locali sugli amministratori comunali, dalla mancanza di conoscenza del territorio da parte della Regione. I Comuni pertanto si trovano ad operare scelte assolutamente settoriali e miranti pur sempre ad utilizzare e consumare il territorio e il Fiume per scopi particolaristici.

Nel mese di aprile del 1972 il periodico regionale edito a Milano Il Giornale della Lombardia si assumeva il compito di lanciare una proposta di legge di iniziativa popolare per la costituzione di un “Parco della Valle del Ticino”. Lo Statuto della Regione Lombardia prevede infatti la possibilità che una proposta di legge venga avanzata da un’iniziativa popolare che deve concretarsi nella raccolta di almeno 5.000 firme autenticate da un notaio per poter essere ufficialmente presentata agli organi legislativi della Regione stessa, ai fini di una sua discussione ed eventuale approvazione da parte del Consiglio Regionale.

Si riporta qui di seguito il testo della proposta di legge per il suo indubbio interesse, sia da un punto di vista tecnico, per gli importanti contenuti attinenti a problemi di tutela di ambienti naturali, sia dal punto di vista della possibilità di una attiva partecipazione dell’opinione pubblica all’elaborazione di una politica nuova nel campo dell’assetto territoriale.

I - La regione lombarda ritiene che la valle del Ticino sia un bene del patrimonio culturale da tutelare per il suo notevole interesse pubblico a motivo delle caratteristiche morfologiche naturali ed estetiche, con particolare riguardo alla flora ed alla fauna.

Per provvedere alla conservazione della valle ed alla sua utilizzazione per fini sociali, culturali, turistici e di ricreazione dei cittadini lombardi, è istituito il Parco regionale della valle del Ticino. Il parco comprende i terreni interessati dal corso del fiume: da Sesto Calende sino alla confluenza col Po, con la larghezza media di m. 2.000 su ciascuna sponda, semprechè ricadenti nel territorio lombardo, con l’esclusione delle zone comprese nell’aggregato urbano, perimetrato ai sensi della legge 6-8-1967, n. 765. Il comprensorio comprende inoltre le zone di brughiera quale parte integrante sotto il profilo morfologico e naturalistico della valle del Ticino.

Con decreto del presidente della Giunta regionale, da adottarsi entro tre mesi dall’entrata in vigore della presente legge, sentite le Amministrazioni locali interessate, la larghezza della zona del parco può essere ampliata o diminuita in relazione alle caratteristiche naturali dei territori interessati.

II - Il territorio del parco è oggetto di un piano regionale di intervento urbanistico che prevede le seguenti zone:

a) zone di “riserva integrale”, nelle quali il territorio è conservato nella sua integrità, fatti salvi gli interventi per opere di protezione e di miglioria degli elementi naturali;

b) zone di “riserva generale”, nelle quali è vietato costruire nuove opere edilizie, ampliare le costruzioni esistenti, eseguire opere di trasformazione del territorio. In queste zone può essere consentito utilizzare il terreno per boschi, coltivazioni agricole, a pascolo, e possono essere costruite opere di protezione e di miglioria degli elementi naturali;

c) zone di “uso pubblico” costituite da:

- poli di servizio nei quali sono concentrate le attrezzature di interesse turistico funzionali alle esigenze del parco;

- aree di autoparcheggio;

- percorsi pedonali per l’accesso al fiume;

- zone pedonali continue lungo le sponde del fiume.

III - Al piano è annesso il regolamento del parco con cui la regione provvede a disciplinare nel territorio del parco l’esercizio delle attività, l’uso dei boschi, la caccia e la pesca, lo smaltimento dei rifiuti nelle zone di uso pubblico; nonché ad escludere la coltivazione delle cave e miniere, la riduzione del regime delle acque, lo svolgimento di attività pubblicitarie, assicurando nel contempo la tutela della quiete, del silenzio, dell’aspetto dei luoghi.

IV - Il piano di intervento urbanistico è approvato dalla regione lombarda, sentite in conferenze di servizio le amministrazioni locali interessate, entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della presente legge.

Il progetto di piano e le allegate norme regolamentari devono essere depositate nella Segreteria dei Comuni il cui territorio è interessato anche in parte dal parco, per la durata di trenta giorni consecutivi, durante i quali chiunque ha facoltà di prenderne visione. Fino a trenta giorni dopo la scadenza del periodo di deposito chiunque abbia interesse può proporre osservazioni sulle quali le singole amministrazioni comunali controdedurranno entro i successivi sessanta giorni, formulando anche le proprie osservazioni. Le determinazioni regionali in ordine alle osservazioni devono essere motivate.

Il piano regionale di intervento urbanistico ha vigore a tempo indeterminato e può essere variato seguendo le procedure fissate nella presente legge per la prima approvazione del piano.

I Comuni il cui territorio sia compreso in tutto o in parte nell’ambito del piano regionale di intervento urbanistico, sono tenuti a uniformare a questo il rispettivo strumento urbanistico (piano regolatore generale o programma di fabbricazione).

Presso la Regione è costituita la commissione dei parchi regionali lombardi composta da sette membri nominati fra gli esperti in ecologia, quattro dei quali da parte della Regione e gli altri tre da parte del CNR e delle associazioni naturalistiche.

V - Per gli interventi urbanistici di esecuzione delle previsioni del piano regionale, i Comuni si consorziano volontariamente ai sensi dell’art. 27 della legge 22 ottobre 1971 n. 865, procedendo alla formazione di piani particolareggiati di intervento.

I Consorzi dei Comuni saranno retti da statuti proposti dai Comuni stessi e da approvarsi dalla Regione. Gli statuti devono prevedere in ogni caso una rappresentanza per la Regione, per la provincia, e dovranno assicurare nella rappresentanza dei Comuni anche la presenza delle minoranze consiliari.

All’atto dell’approvazione, la Regione verificherà la rispondenza degli statuti ai fini istitutivi del parco, nonché l’ampiezza dei territori consorziati per assicurare una equa distribuzione fra i consorzi dei vantaggi e degli oneri che derivano dalla istituzione del parco.

Il piano particolareggiato di intervento, formato dal consorzio di cui al precedente articolo, disciplina l’uso dei suoli, nonché gli interventi per la gestione delle zone di uso pubblico, e ciò anche su deleghe dei poteri conferiti dalle Regioni e dai Comuni. Le zone riservate all’uso pubblico sono espropriate dai consorzi secondo quanto previsto dall’art. 27 della legge n. 865 del 1971. La autorizzazione della Regione alla formazione del piano particolareggiato di intervento è concessa soltanto ai Comuni consorziati ai sensi di quanto disposto dal presente articolo.

Il consorzio utilizza le aree espropriate per la realizzazione di zone di uso pubblico in misura pari al 50% mediante la cessione in proprietà e per la rimanente parte mediante la concessione del diritto di superficie. Sia nel caso di cessione in proprietà che di concessione del diritto di superficie, la aggiudicazione avverrà sulla base di progetti edilizi e gestionali attuativi delle indicazioni del piano regionale del parco e del piano particolareggiato di esecuzione.

VI - La Regione stanzia nei propri bilanci annuali, a partire dal primo esercizio, la somma di L. 150 milioni per la gestione ordinaria del parco. Nel primo esercizio una quota parte di tale somma sarà destinata alle spese di studio e progettazione del piano regionale e dei piani consortili di esecuzione. Stanzia inoltre la somma di L. 200.000.000 a favore dei consorzi dotati del piano particolareggiato di intervento per l’esproprio delle zone riservate ad uso pubblico. Stanzia ancora la somma di L. 150.000.000 quale contributo sui ratei di ammortamento e interessi dei mutui contratti per la realizzazione di programmi di iniziativa pubblica o privata nelle zone di uso pubblico.

Per le opere di sistemazione idrogeologica, per le necessità della lotta all’inquinamento e per ogni altro intervento attuativo della legge in vigore, la Regione svolgerà il necessario coordinamento con lo Stato o conb gli altri enti pubblici ai quali le leggi vigenti affidano competenze.

VII - Fintanto che non sarà decorso il termine previsto per l’approvazione del piano regionale, nel territorio del parco della valle del Ticino è vietata qualsiasi trasformazione di uso del suolo, per il detto periodo sono fatte salve le iniziative in atto.

Subito dopo la pubblicazione del testo della proposta di legge il Consiglio Regionale Lombardo di Italia Nostra, condividendone i motivi ispiratori e gli obbiettivi di fondo, decideva di appoggiare l’iniziativa e, in collegamento con altre associazioni naturalistiche e protezionistiche, indiceva una conferenza stampa nella quale veniva diramato il comunicato qui sotto riportato in cui, all’espressione della solidarietà nei riguardi dell’iniziativa specifica, veniva richiesto all’Ente Regione l’avviamento di una azione politica globale per la tutela della natura e per la creazione di parchi regionali in Lombardia.

L’Associazione Italia Nostra, l’Associazione Nazionale World Wildlife Fund, il Club Alpino Italiano, la Lega Mondiale contro la distruzione degli uccelli, la Federazione Italiana Pesca Sportiva e i sottoscritti cittadini,

considerato che le risorse naturali del territorio della Regione lombarda sono gravemente compromessa da una espansione urbanistica incontrollata, sotto la spinta di uno sviluppo economico erroneamente considerato unico fine della nostra società;

che la conservazione e la pubblica fruizione programmata dei superstiti beni naturali costituisce una delle fondamentali risorse per garantire ai cittadini un più civile livello di vita;

che con l’entrata in funzione delle Regioni i cittadini hanno acquisito la facoltà di intervenire direttamente nella determinazione del loro futuro anche per quanto riguarda l’utilizzazione del territorio ai fini sociali e di equilibrio ecologico;

che in questo quadro è già stata formulata dal Giornale della Lombardia una concreta proposta di legge di iniziativa popolare per la creazione di un parco sul fiume Ticino

dichiarano di appoggiare la proposta per il “Parco della Valle del Ticino” e

chiedono che la Regione, nell’ambito di una politica essenzialmente volta allo sviluppo dei servizi sociali, imposti e realizzi una rigida tutela del superstite patrimonio naturalistico del territorio regionale, in accordo con altre Regioni finitime. Più specificamente

chiedono



a)che venga sollecitamente approvata dal Consiglio regionale la proposta di legge relativa al “Parco della Valle del Ticino”;

b) che vengano avviati immediatamente contatti con la Regione Piemonte per l’estensione del Parco anche alla parte della valle ricadente nel territorio di quella Regione;

c) che successivamente siano realizzati analoghi Parchi lungo le sponde degli altri fiumi lombardi;

d) che, previo censimento di tutti i beni naturali, si adottino immediatamente le opportune norme di salvaguardia, in vista dei successivi provvedimenti tesi a stabilire un’organica e globale politica del verde;

e) che vengano annualmente stanziati nel bilancio regionale adeguati fondi per la realizzazione di tale politica.

Tale comunicato veniva poi considerato quale testo di una petizione da proporre alla firma dei cittadini lombardi e da presentare anch’essa, come manifestazione di partecipazione popolare, agli organi regionali.

Sia la proposta di legge che la petizione iniziavano subito il loro iter per la raccolta delle firme; agli inizi del mese di settembre, esso risultava già compiuto soprattutto per quanto riguarda la prima che aveva già ottenuto l’adesione, più che sufficiente anche per ottemperare al dispositivo statutario regionale, di oltre 7.000 persone.

Ai primi di ottobre, presentata la proposta alla Regione, avveniva un incredibile e doloroso colpo di scena i cui risvolti negativi non possono essere qui sottaciuti: l’Uffici di Presidenza del Consiglio Regionale Lombardo, competente per Statuto ad esaminare la legittimità delle proposte di legge di iniziativa popolare, decideva di respingere la proposta medesima in quanto talune delle sue disposizioni fondamentali, in contrasto con lo Statuto stesso della regione, “prevedono in modo diretto e immediato vincoli e restrizioni alla proprietà fondiaria nell’ambito di un territorio concretamente delimitato”.

La presa di posizione ha immediatamente suscitato fortissime reazioni contrarie a livello di organismi di ogni genere nonché della pubblica opinione: non sembrava credibile, infatti, che il primo tentativo di convogliare la partecipazione popolare sulla traccia di una proposta tendente a realizzare un migliore assetto territoriale attraverso la creazione di un Parco di salvaguardia naturalistica in una delle zone più paesisticamente interessanti della Regione, potesse essere così brutalmente bloccato per motivi, peraltro discutibili, di irregolarità formale.

Il Consiglio Regionale Lombardo di Italia Nostra, unitamente alle altre associazioni che avevano appoggiato l’iniziativa della proposta di legge, emettevano subito un comunicato stampa che qui si riporta integralmente:

L’Associazione Italia Nostra, l’Associazione Nazionale World Wildlife Fund, il Club Alpino Italiano

preso atto con sorpresa e disappunto che la proposta di legge di iniziativa popolare per la costituzione di un “Parco della Valle del Ticino”, a cui esse avevano dato il loro appoggio, è stata considerata inammissibile dall’Ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale Lombardo per ragioni di carattere giuridico-formale e procedurale,

denunciano il fatto che l’interpretazione data in ordine ai limiti dell’iniziativa popolare ai sensi dell’articolo 60 dello Statuto regionale rischia di compromettere ogni possibilità di iniziativa popolare legislativa in materia urbanistica e di tutela ambientale e paesistica,

chiedono che il consiglio Regionale Lombardo sia investito dell’interpretazione dell’articolo 60 dello Statuto, tenendo presente che la partecipazione dei cittadini alle scelte di governo del territorio rappresenta uno dei punti fondamentali dell’azione regionale,

propongono comunque che, al fine di superare l’ostacolo frapposto alla sollecita costituzione del “Parco della Valle del Ticino”, le forze politiche presenti in Consiglio Regionale ripresentino la proposta sottoscritta da oltre 8.000 cittadini nel testo originario, per sottolineare il rispetto della mobilitazione popolare manifestatasi in tale proposta, impegnandosi a mantenere nella discussione della legge i tempi previsti per le leggi di iniziativa popolare. In sede di Consiglio Regionale, come d’altra parte i promotori dell’iniziativa avevano preannunciato, potranno essere apportate tutte le necessarie modifiche migliorative al testo proposto.

Le predette Associazioni ritengono che soltanto così potrà essere dimostrata nei fatti concreti l’esistenza di una reale volontà di realizzare una politica di tutela e valorizzazione dell’ambiente in Lombardia.

Nonostante lo smacco subito, appare evidente che l’iniziativa deve ritenersi tuttora valida e proponibile; l’organo che ha effettuato la bocciatura meglio avrebbe fatto se avesse inviato comunque la proposta di legge al dibattito del Consiglio Regionale, dove ogni miglioramento tecnico del testo è naturalmente possibile ed auspicabile e la stessa Associazione è pronta a parteciparvi attivamente.

Ora, tuttavia, è opportuno che la proposta di legge venga ripresentata attraverso i canali normali, perchè possa realmente essere portata al vaglio di una discussione democratica dell’organo elettivo regionale al fine di non disattendere una richiesta che ha ottenuto l’avallo di una così folta rappresentanza della cittadinanza e perché non si perda altro tempo nell’avviare a soluzione il problema della tutela di una delle superstiti zone ancora naturalisticamente importanti della Lombardia.

(a cura del Consiglio regionale lombardo di “Italia Nostra”)

Regione Lombardia, Legge Regionale 9 gennaio 1974, n. 2: Norme Urbanistiche per la tutela delle aree comprese nel piano generale delle riserve e dei parchi naturali di interesse regionale. Istituzione del parco lombardo della valle del Ticino (B.U. 10 gennaio 1974)

Titolo II – NORME SPECIALI PER LA SALVAGUARDIA DEL PARCO LOMBARDO DELLA VALLE DEL TICINO

Art. 8 – Piano territoriale del parco lombardo della valle del Ticino – Il parco lombardo della valle del Ticino è area compresa nel piano generale delle riserve e dei parchi naturali di interesse regionale […]

Art. 9 – Il territorio del parco lombardo della valle del Ticino è delimitato dai confini amministrativi del seguenti comuni:

Provincia di Varese: Arsago Seprio, Besnate, Cardano al Campo, Castrate Sempione, Ferno, Gallarate, Golasecca, Lonate Pozzolo, Samarate, Sesto Calende, Somma Lombardo, Vergiate, Vizzola Ticino.

Provincia di Milano: Abbiategrasso, Bernate Ticino, Besate, Boffalora Ticino, Cassinetta di Lugagnano, Castano Primo, Cuggiono, Magenta, Moribondo, Motta Visconti, Nosate, Ozzero, Robecchetto con Induno, Robecchetto sul Naviglio, Turbigo, Vanzaghello.

Provincia di Pavia: Bereguardo, Borgo San Siro, Carbonara Ticino, Cassolnovo, Gambolò, Garlasco, Groppello Cairoli, Linarolo, Mezzanino, Pavia, San Martino Siccomario, Torre d’Isola, Travacò Siccomario, Valle Salimbene, Vigevano, Villanova d’Ardenghi, Zerbolò.

La regione assume l’iniziativa di coordinare il piano territoriale del parco lombardo della valle del Ticino con le iniziative di pianificazione dell’area che verranno eventualmente avviate dalla regione Piemonte.

Art. 10 –Costituzione del consorzio tra gli enti locali interessati – I comuni indicati nel precedente Articolo 9, nonché le amministrazioni provinciali di Varese, Milano e Pavia, riuniti in consorzio provvedono a svolgere le funzioni previste […].

Art. 11 – Misure speciali di salvaguardia … fino all’approvazione da parte della regione del piano territoriale di coordinamento … i comuni dovranno rispettare le seguenti norme:

nelle fasce fluviali, per la profondità delimitata dalla allegata planimetria, che è parte integrante della presente legge, non è consentita alcuna edificazione ad eccezione dei nuclei abitati nelle perimetrazioni ex lege 6 agosto 1967, n. 765, debitamente approvate, del restauro e della ricostruzione degli edifici esistenti, dell’edificazione di attrezzature tecniche e residenziali strettamente necessarie all’esercizio dell’attività agricola e zootecnica, purché non inquinanti. Non saranno altresì consentite: l’apertura di nuove cave; le recinzioni delle proprietà se non con siepi a verde; la chiusura degli accessi al fiume, il mutamento del tipo di coltivazione e piantumazione in atto salvo le normali rotazioni agricole e la pioppicoltura.

2 - il rinnovo delle concessioni di cave in atto ed il loro ampliamento è subordinato al parere favorevole del consorzio […]

3 – La costruzione di strade ed infrastrutture in genere, sia pubbliche che private, anche se previste dagli strumenti urbanistici, dovranno essere autorizzate dalla regione, come pure le nuove richieste di utilizzo delle acque del Ticino:

nelle zone esterne al perimetro dei centri abitati, per i comuni sprovvisti di strumento urbanistico vigente, e nelle zone agricole o equiparate, per i comuni dotati di strumento urbanistico vigente, saranno consentite soltanto strutture edilizie strettamente pertinenti alla conduzione dei fondi agricoli con volumetria non superiore a 0,03 mc/mq;

nelle fasce fluviali, di cui all’allegata planimetria, è vietato l’esercizio della caccia, il rinnovo e il rilascio di nuove concessioni di riserve di caccia;

è altresì vietata la navigazione da diporto con natanti aventi motore di potenza superiore a 20 HP.

4 – i sindaci sono responsabili ai sensi dell’art. 32 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 del rispetto delle speciali misure sopra indicate.

La proposta di legge regionale per la costituzione di un parco lungo la valle del Ticino (apparsa sul numero di aprile del Giornale della Lombardia e successivamente fatta propria da Italia Nostra e dal World Wildlife Fund), dal punto di emissione dal Lago Maggiore, fino alla confluenza col Po, ci rammenta che l’intervento pubblico su di un fiume può anche essere qualcosa di diverso dalla costruzione di centrali idroelettriche, o di ponti ferroviari e carrai. Si delinea così una filosofia della gestione pubblica degli elementi naturali ben diversa da quella, cui siamo abituati, che postula in essi unicamente vincoli e risorse per attività produttive, si tratta, da parte degli istituti che rappresentano la collettività, di istituire controlli, commissionare progetti, appaltare opere, per rispondere a una domanda in fondo non molto precisata e in gran parte da scoprire, e che solo in prima approssimazione possiamo chiamare “di uso del tempo libero”, “di fruizione del verde e della natura”, “turistica” e così via.

Uno dei compiti del Piano regionale di intervento urbanistico (strumento attuativo del Parco del Ticino, secondo la proposta di legge)dovrà essere, secondo noi, proprio quello di inventare e scoprire, attraverso un accurato vaglio di tutti i sintomi palesi o impliciti, i tipi di fruizione del territorio fluviale, le ragioni che spingono e potrebbero spingere verso il fiume gli abitanti delle fasce urbano rivierasche, compresa Milano, per arrivare a individuare così i tipi di intervento sulle infrastrutture e sulla forma fisica del territorio interessato congruenti con la domanda.

Non è, questa nostra rubrica, il luogo più adatto per entrare nel merito giuridico-urbanistico della proposta di legge.

Quello che qui ci interessa, è sottolineare l’occasione, che si presenta, di un intervento creativo su di un materiale geografico insolito per il nostro paese e per la nostra epoca, intervento mosso da soggetti e operatori altrettanto insoliti per questo compito. Infatti, anche se questa legge sembra soprattutto uno strumento protettivo (anti inquinamento, anti disboscamento, anti cave), non vorremmo per questo che sfuggisse ai lettori la principale ragion d’essere di un intervento pubblico di questo genere: la strumentalizzazione della accessibilità pubblica, collettiva, al territorio interessato.

Non ci importa qui contrapporci ai sacerdoti delle cattedrali ecologiche, con il loro “ odi profanum vulgum”, e con le loro puzze al naso. Nel nostro paese siamo bravissimi a creare false contrapposizioni, come quelle appunto fra la distruzione di risorse naturali e la loro intangibilità assoluta, ignorando ciò che è non ceto una via di mezzo, ma semplicemente il vero problema, cioè la fruizione collettiva di quelle risorse. Protezione e fruizione collettiva delle risorse naturali non sono termini in opposizione, mentre lo sono protezione e appropriazione privata. Solo una presa di coscienza collettiva dei valori della Valle del Ticino potrà dare alla collettività e quindi alle pubbliche amministrazioni la forza politica per proteggere tali valori.

Non si dimentichi che gli operatori primi nella costruzione del Parco sono, nella proposta di legge, le amministrazioni locali.

E come si può credere che si sviluppi una coscienza collettiva dei valori di certe risorse naturali, senza una presa di possesso collettiva di queste risorse, e una abitudine alla continua riscoperta collettiva di questi valori?

Ecco allora che gli interventi pubblici attraverso i quali si dovrà concretizzare la forma fisica del Parco del Ticino si devono pensare come i punti di appoggio di questa presa di possesso collettiva, e la forma fisica che scaturirà da essa sarà la traccia dell’uso collettivo (non si spaventino i sacerdoti delle cattedrali ecologiche, zone di intangibilità ci dovranno essere certamente, è solo un problema di regolamento); esattamente come i castelli del Reno sono stati il punto di appoggio e la traccia fisica di un possesso feudale per un uso militare.

Per questi motivi vogliamo qui ricordare la stimolantissima sventagliata di invenzioni tipologiche e formali posta a conclusione del già citato studio di Cerasi e Marabelli, con la quale gli autori intendevano prefigurare, al di là di un semplice elenco di attrezzature sociali e collettive, la presa di possesso civile del territorio fluviale.

Non deve sembrare fuori luogo questa anticipazione dell’immagine, quando ancora si deve avere la legge approvata, redatto il piano generale e i piani particolareggiati, e ancora devono essere compiuti gli altri passi di un iter per forza lungo e difficile: l’immagine è necessaria per aiutare a rendere più concreti gli obiettivi, e per non perderli di vista strada facendo.

Abbiamo detto che ciò che più ci interessa in questa proposta di legge è la prospettiva di una reinvenzione e ristrutturazione fisica di una risorsa maturale, compiuta da una categoria di operatori pubblici che è istituzionalmente la più vicina alla collettività, cioè dalle amministrazioni locali, sulla spinta di una forte domanda per l’utilizzazione collettiva non-produttiva di tale risorsa. Con questo, ci rendiamo conto di andare al di là della stessa proposta di legge, o almeno del suo testo inteso alla lettera. Se esso ha infatti il merito di essere concreto e realistico circa la possibilità di una sua attuazione, è, proprio per questo, condizionato da una serie di fattori al contorno, che vanno dal regime giuridico della proprietà dei suoli (la proposta si collega alla legge 865, cioè alla legge della riforma per la casa, come all’unico strumento possibile) al regime finanziario delle regioni (tenute a stecchetto dallo Stato).

Fra i due obiettivi, a nostro parere, lo ripetiamo, inscindibili, della protezione e della fruizione collettiva diretta, la proposta ripiega sul primo, nell’impossibilità di perseguire pienamente il secondo.

Il valore di questa proposta di legge sarebbe allora quello di configurare uno strumento intermedio: in attesa di tempi migliori, che permettano di aprire al pubblico i fondi chiusi e le sponde privatizzate, impediamo almeno che i proprietari lottizzino.

Tuttavia, per questo verso, anche tenuto conto realisticamente di tutti i condizionamenti di cui si è detto, il testo della proposta di legge secondo noi può essere migliorato: e vediamo come.

Anzitutto, nel primo articolo, là dove la legge dichiara il suo obiettivo specifico e le sue motivazioni essenziali, non devono apparire solo le ragioni conservativo-protezionistiche, come avviene nel testo attuale. Diciamo questo non perchè ci interessa un’etichetta più ricca di svolazzi, ma perchè sappiano che nelle vicende della applicazione di una legge è di aiuto poter richiamare i suoi obiettivi generali, se essi sono espressi con chiarezza.

Successivamente, il testo della proposta legge classifica tre tipi di territorio in scala decrescente di intangibilità. Di questi, solo il terzo tipo (zone di uso pubblico) ammette l’esproprio e conseguente controllo pubblico delle aree; e allo scopo si stanziano dei fondi. Di che controllo pubblico, però, si tratta?

Gli operatori sono i Comuni e consorzi di Comuni; lo strumento di acquisizione è l’esproprio per pubblica utilità, con indennizzo a prezzo agricolo; delle aree espropriate, però, una metà è ceduta in proprietà e l’altra in diritto di superficie.

A chi saranno cedute le aree?

Si dice che devono essere cedute per “uso pubblico”; d’altronde lo strumento giuridico a cui si fa riferimento è l’art. 27 della legge 865, là dove si descrivono i piani delle aree da destinare a insediamenti produttivi, e dove si specifica che gli impianti produttivi possono essere di carattere industriale, artigianale, “commerciale” e “turistico”.

Si può quindi presumere che i concessionari delle aree di uso pubblico saranno operatori commerciali e turistici, e quindi nella generalità dei casi, l’uso pubblico sarà subordinato al pagamento di una consumazione o di un biglietto.

Quello che manca allora nella proposta di legge è una previsione di costituzione di parchi pubblici veri e propri, in proprietà ai comuni e consorzi.

Eppure la legge 865 prevede chiaramente (art. 9) che l’esproprio a prezzo agricolo per pubblica utilità sia applicato anche per la realizzazione di parchi pubblici e di parchi nazionali, e gli stanziamenti previsti dalla proposta di legge possono ben servire anche a questo, oltre che a mettere in moto le operazioni di “valorizzazione turistica” della zona.

La differenza fra destinazione turistica e destinazione sociale è molto forte, non deve sfuggire a nessuno.

Giancarlo De Carlo - La vocazione del Ticino

La fascia di territorio che corre lungo il Ticino da Sesto Calende al Po costituisce uno dei paesaggi italiani più pregiati per i caratteri del fiume, i tipi della vegetazione, i variati modi di insediamento. Rappresenta un ecosistema del tutto particolare nella differenziata gamma del paesaggio nazionale e deve perciò essere considerato un bene culturale unico e quindi inalienabile. La sua alienabilità è confermata dalla funzione che questa fascia di territorio svolge nella intera area metropolitana milanese, soprattutto se si tiene conto di come questa funzione possa essere sensibilmente sviluppata sfruttando le possibilità della area in un coordinato programma urbanistico regionale.

Il primo e il secondo schema del Piano Intercomunale Milanese avevano suggerito infatti che tutta la fascia del Ticino fosse tutelata e destinata ad attività di tempo libero: cioè, ad attrezzature per la cultura e per lo svago al servizio della popolazione che, nell’area di influenza di Milano, lavora ed abita in una condizione di depressione ambientale sempre più deplorevole.

Tutelare la fascia del Ticino significa sottoporla ad un controllo normativo efficiente che dovrebbe vincolarla a “parco fluviale”, in analogia a quanto è stato fatto per i parchi nazionali del Gran Paradiso, dell’Abruzzo, dello Stelvio e del Circeo. Ma anche questo vincolo non potrebbe in alcun modo essere sufficiente se non fosse integrato in un sistema più generale di pianificazione territoriale.

La fascia del Ticino può essere salvata se la si protegge dalla distruzione, ma anche se allo stesso tempo si utilizzano al massimo le sue capacità vocazionali.

Proteggerla dalla distruzione significa impedire gli insediamenti indiscriminati, conservare il verde, tutelare i valori ambientali e soprattutto eliminare la folle distruzione che deriva dall’inquinamento delle acque fluviali. Utilizzare le sue capacità vocazionali significa dotarla di attrezzature per il tempo libero e la cultura, rigorosamente appropriate ai suoi caratteri, e integrarla per questa via in un nuovo sistema territoriale equilibrato, esteso a tutta le regione.

[...]

Proposte elaborate dalla Sezione pavese di Italia Nostra per organizzare e difendere il territorio del Ticino

L’ambiente naturale del Ticino, come ambiente da preservare e da organizzare per attività umane, può essere diviso in due fasce di territorio, la prima comprendente le rive e i terrazzi fluviali, la seconda più larga.La prima fascia, che fa tutt’uno col fiume anche da un punto di vista ecologico, costituisce un vero e proprio bene territoriale prezioso e insostituibile, che può restare al servizio degli uomini solo a patto di mantenere inalterate le sue caratteristiche naturali. Non può dunque servire che per un tempo libero condizionato da un rispetto assoluto per la natura, ivi compreso il silenzio.La seconda fascia, invece, deve essere destinata a funzioni tali: a) da non compromettere l’integrità territoriale della prima; b) da congiungerla armonicamente col resto del territorio. Queste sono, d’altra parte, le funzioni che la identificano.Per quanto riguarda la prima fascia, ne segue che, nel quadro di una politica generale e specifica di difesa della qualità delle acque, dei greti e dei fondali, si tratta di qualificarla giuridicamente in modo analogo ai parchi nazionali, ossia con la sola misura giuridica che attua un rispetto integrale della natura. A fianco di ciò, si tratta inoltre di apprestare degli accessi esclusivamente pedonali mediante sentieri di terra battuta, di creare, sul limite esterno, dei parcheggi automobilistici non visibili dal fiume né dalle strade esterne e di escludere ogni altra opera.I punti nei quali si accede già alle rive del fiume con strade automobilistiche di traffico che lo attraversano, non potrebbero essere facilmente sottoposti a una disciplina così rigida. Questi punti, già incalzati da un tempo libero del tutto indisciplinato, ove fossero accuratamente delimitati, potrebbero servire da utili valvole di sfogo.Per quanto riguarda la seconda fascia, ne segue che si tratta di escludere assolutamente l’insediamento di industrie e di destinarla invece: a) a residenze specializzate, che dovrebbero in linea di massima sfruttare adattandola, l’architettura spontanea del posto; b) ai soli servizi connessi con tale funzione. I mezzi politico-legislativi sono dunque, in questo caso, quelli del piano territoriale regionale dal punto di vista della localizzazione generale delle funzioni, e dei piani intercomunali comprensoriali, a carattere di tutela paesistica dal punto di vista della realizzazione pratica.

Risoluzione sulla difesa del Ticino votata da più di duemila cittadini liberamente convenuti al Teatro Fraschini la sera del 2 marzo 1967

I cittadini di Pavia, di Vigevano e degli altri Comuni rivieraschi del Ticino, riuniti in assemblea al Civico Teatro Fraschini di Pavia il 2 marzo 1967

presa in esame

la grave incombente minaccia di inquinamento delle acque e di distruzione dell’ambiente naturale del Ticino a seguito della costruzione dello scolmatore cosiddetto di nord-ovest;

affermano

che il Ticino per qualità e quantità d’acqua deve essere almeno conservato nelle condizioni attuali;

chiedono

alle Amministrazioni, agli Enti, ai parlamentari della regione:

1- di intervenire presso il Governo per ottenere la definitiva rinuncia al progetto di scaricare in Ticino le acque di magra dell’Olona e degli altri corsi d’acqua del Nord-Milano

2- di procedere alla nomina di una commissione di esperti che studi l’effettivo grado di inquinamento delle acque di piena dell’Olona, allo scopo di stabilire se anche il deflusso di tali acque in Ticino non sia da vietare

3 - di prendere in esame la possibilità di utilizzare il tratto di scolmatore già costruito per scaricare nel Ticino, in caso di acqua di piena, le acque del Naviglio Grande in luogo di quelle dell’Olona, ottenendo gli stessi effetti

4- di ottenere l’immediata sospensione della costruzione del II tronco dello scolmatore e del III tronco recentemente appaltato, e la interruzione della istruttoria relativa al tratto fra Olona e Seveso;

invitano

i parlamentari della regione ad adoperarsi per ottenere l’emanazione:

a) di una legislazione adeguata sulle acque che imponga la depurazione all’origine degli scarichi industriali, la distinzione tra fiumi non inquinabili come il Ticino e corsi d’acqua nei quali possono essere tollerati diversi gradi d’inquinamento;

b) di una legge che proibisca tassativamente l’uso dei detersivi non biodegradabili;

invitano

a) le Amministrazioni e gli Enti interessati a chiedere – come prima e parziale misura a breve termine – alla Sopraintendenza ai Monumenti che ponga il vincolo paesistico sulle zone rivierasche del Ticino;

b) “Italia Nostra” a formulare una proposta di destinazione della zona del Ticino a parco fluviale in quanto bene territoriale comune;

c) le Amministrazioni e gli Enti interessati a nominare un gruppo di lavoro che elabori tale progetto, da inserire, ad opera delle stesse Amministrazioni, nel programma del C.R.P.E. e nel piano territoriale della regione lombarda;

raccomandano

alle Amministrazioni e agli Enti interessati di chiedere la urgente convocazione del Comitato Provinciale di coordinamento delle acque.

[Indice completo dell’opuscolo - Tip. Fusi, Pavia 1968]

Mario Albertini (Presidente della Sezione pavese di Italia Nostra), Introduzione

Giancarlo De Carlo, La vocazione del Ticino

Mario Pavan (Direttore dell’Istituto di Entomologia Agraria dell’Università di Pavia), Difesa ad oltranza contro gli inquinamenti

Eugenio De Fraja Frangipane (Direttore dell’Istituto di Ingegneria sanitaria del Politecnico di Milano), Un programma per la tutela delle acque

Giuseppe Mariani (già Presidente della Sezione Idraulica del Consiglio Superiore dei lavori Pubblici), Le acque di rifiuto e la legislazione

Sergio Baratti (rappresentante del Collegio Ingegneri e Architetti della provincia di Pavia), Una soluzione alternativa al problema delle acque di piena del Nord-Milanese; L’inquinamento dell’onda di piena dell’Olona e del Severo

Proposte elaborate dalla Sezione pavese di Italia Nostra per organizzare e difendere il territorio del Ticino

Risoluzione sulla difesa del Ticino votata da più di duemila cittadini liberamente convenuti al Teatro Fraschini la sera del 2 marzo 1967

Siro Brambilla (Presidente della Sezione provinciale pavese della Federazione Nazionale Pesca Sportiva), Il parere dei pescatori

Oddo Carboni (rappresentante regionale lombardo della Federazione Italiana della Caccia), La voce dei cacciatori

L’Italia si dà una legge “organica” sulla pianificazione del territorio, buona ultima fra le nazioni europee, e con un ritardo di quasi tre lustri sui primi tentativi di riforma, nel pieno della guerra mondiale. Alcune delle (poche) letture storiche sulla genesi della legge urbanistica attribuiscono tra l’altro proprio al clima anomalo generato dal conflitto il merito dell’approvazione, che varie correnti politiche avversavano apertamente, sin dal primo tentativo parlamentare del 1933.

Il testo che si approva è così in gran parte più “legge degli urbanisti” che “legge urbanistica”, nel senso che propone un’idea di città forse razionale ed equilibrata, ma espressione del solo ceto professionale emerso dalle facoltà di Architettura, di Ingegneria e dalle strutture corporative che lo rappresentano: non certo di altre importanti componenti sociali, per quanto elitarie.

La stessa architettura generale, che dalla dimensione territoriale vasta, a quella della città, arriva sino alla definizione spaziale del piano particolareggiato, appare più come il frutto di una discussione emersa da convegni teorici e commissioni di concorso, che derivata dalla dialettica fra le esigenze di governo dell’assetto territoriale e i complessi intrecci degli enti locali, della loro organizzazione interna, delle competenze reali e circoscrizioni amministrative. Curiosamente, proprio nello stesso articolo del 1928 in cui si tratteggia la futura “gerarchia dei piani”, Gustavo Giovannoni ricordava di prestare la massima attenzione alle “provvidenze amministrative e combinazioni finanziarie”, ovvero enti locali e forze economiche. Senza questa centralità, qualunque piano rischiava di rimanere sulla carta, o peggio di far danni pur con le migliori intenzioni.

Ma è proprio con questi presupposti che nasce, nel 1942, la legge. E una delle principali difficoltà degli urbanisti, a guerra conclusa e nel nuovo contesto dell’Italia democratica, della Costituente, delle Regioni, sarà quella di cercare la legittimazione sociale che alla legge in gran parte manca. Significativo il fatto, ad esempio, che un esponente della Democrazia Cristiana inaugurando ancora a metà anni ’50 un convegno ideologico del partito sui piani territoriali, li definisca candidamente una “idea di alcuni architetti”. A riprova del vizio di fondo di una legge ottima, ma che fatica e faticherà ad imporsi come prassi comune, “idea di città” condivisa.

I testi – d’epoca e non - che compongono la cartella dedicata alla Legge Urbanistica del 1942, sono scelti per la loro capacità di ricostruirne alcuni punti salienti riguardo al percorso culturale, tecnico, dei soggetti via via impegnati nella sua definizione, e infine qualche cenno al passaggio dall’Italia fascista al dopoguerra.

Fabrizio Bottini, Urbanisti e Legge Urbanistica (da Storia dell’Architettura Italiana: il Primo Novecento, Electa 2004) riporta brevemente il percorso culturale che dagli anni ’20 all’approvazione della Legge porta gli urbanisti ad imporre un proprio modello, certamente valido ma non pienamente condiviso da parte del ceto politico

Vezio De Lucia, La Legge Urbanistica del 1942 (da Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2001) ripercorre l’evoluzione normativa nazionale e i piani regolatori più significativi, che contribuiscono a costruire la struttura della Legge

Virgilio Testa, Politica e legislazione urbanistica: cause di errori urbanistici e possibili rimedi (Urbanistica n. 1, 1935) descrive lo “stato dell’arte” disciplinare a metà anni ’30, dopo il rinvio del progetto di legge del 1933 e nel pieno del dibattito sul futuro della città e del territorio italiani

Vincenzo Civico, Distribuire il lavoro per distribuire la popolazione (Critica Fascista, 15 maggio 1942) alla vigilia dell’approvazione della legge passa in rassegna i grandi problemi del rapporto fra organizzazione territoriale e governo dello sviluppo economico alla scala vasta

Alberto Calza Bini, Il Nuovo Ordine Urbanistico (Urbanistica n. 5, 1942) espone le prospettive – e i problemi - che si aprono per la disciplina e le decisioni, dopo l’approvazione della legge

Giovanni Ortolani, Legge Urbanistica e deurbamento (Il Rinnovamento amministrativo, n. 9, 1942) si sofferma sul significato e le implicazioni dell’articolo (1) e le sue intenzioni di “frenare la tendenza all’urbanesimo”.

I cenni sul Dibattito parlamentare tra fascismo e Costituente (Camera dei Deputati, Segreteria Generale, Ricerca sull’Urbanistica– Parte I, Servizio Studi e Inchieste Parlamentari, Roma 1965) rendono conto sia del perdurare di alcune opposizioni politiche, sia dell’articolazione degli interessi con cui la legge viene ad interferire

Ancora a dodici anni dall’approvazione, e dopo il tumultuoso periodo dei piani di ricostruzione, in pieno boom economico, la Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici, Istruzioni per la Formazione dei Piani Regolatori Comunali: Generali e Particolareggiati (1954), stimola le amministrazioni locali ad applicare la legge del 1942

Camera dei Deputati, Segreteria Generale, Ricerca sull’Urbanistica– Parte I, Servizio Studi e Inchieste Parlamentari, Roma 1965

LA LEGGE URBANISTICA DEL 17 AGOSTO 1942, N. 1150

Dopo l'approvazione del nuovo Piano Regolatore Generale della città di Roma si sviluppò in Italia un vasto interesse per i problemi urbanistici, che proprio dagli studi e dalle discussioni svoltesi intorno alla Capitale furono posti alla più generale attenzione a causa soprattutto delle dimensioni e della complessità da essi assunti per la città di Roma. Del resto non poche delle soluzioni adottate per Roma furono riprodotte nella successiva legge urbanistica generale del 17 agosto 1942, n. 1150, i cui autori furono in parte gli stessi del piano di Roma del 1931.

La proposta di una legge organica, che superasse le necessità contingenti che fino ad allora avevano determinato interventi legislativi limitati a singole città, fu presentata alla Camera dei fasci e delle corporazioni dal ministro dei lavori pubblici, Gorla il 23 giugno 1942 (Atto n. 2038 della Camera) nel testo predisposto, dalla Direzione generale dell'urbanistica di recente istituita, in base ai lavori di una Commissione appositamente nominata con la rappresentanza dei Ministeri più direttamente interessati.

Le ragioni che avevano determinato la presentazione di tale legge sono indicate nella relazione del ministro proponente.

Esse consistono essenzialmente nella ormai dimostrata inadeguatezza delle disposizioni della legge del 1865, cosi individuata: a) assenza di ogni facoltà per l'Amministrazione comunale di contemplare nel piano regolatore le aree da destinare ad edifici pubblici o ad impianti di interesse collettivo; b) distinzione, sempre più inattuale, tra piano regolatore edilizio e piano di ampliamento; c) assenza di ogni considerazione per gli interessi di ordine estetico, storico ed artistico; d) mancanza di ogni facoltà del Comune di espropriare le aree necessarie per la costruzione di edifici pubblici e per la costituzione di un demanio comunale, che è ritenuto lo strumento adatto per frenare gli eccessi della speculazione privata; e) inesistenza di ogni vincolo di «zonizzazione» per la determinazione del tipo o della destinazione delle costruzioni nei diversi quartieri...

Tra le considerazioni relative alle finalità prefisse si dichiara che la disciplina urbanistica è concepita come fondamento di una sana convivenza sociale nella distribuzione delle forze produttive e dei nuclei demografici sul territorio nazionale e pertanto la legge urbanistica si appalesa come il mezzo più efficace per attuare il deurbanamento. In questa direttiva vengono inquadrati gli istituti del « piano territoriale di coordinamento » e del «piano regolatore generale» esteso alla totalità del territorio comunale.

Si dichiara di considerare i piani regolatori in prevalente funzione dell'interesse generale, senza tuttavia prescindere

« ...da una giusta tutela degli interessi privati sia mediante il corrispettivo di una congrua indennità per tutti gli obblighi e i vincoli di carattere non generale, sia attraverso il riconoscimento di diritti di prelazione e di retrocessione, quando non vi sia necessità di mantenere le preminenti potestà dell'amministrazione comunale ».

(Raccolta di atti e documenti della Camera dei fasci e delle corporazioni -XXX Legislatura- Vol. XXI - Stampato n. 2038, pag. 3).

Affermata l'esigenza di «unità di criteri sostanziali e procedurali» tra norme regolatrici dell'attività edilizia e disciplina urbanistica, si dichiara, viceversa, che, per rendere omogeneo il contenuto della legge urbanistica, era stato omesso di regolare alcuni istituti - come quelli del contributo di miglioria o dell'indennità di espropriazione - che «pur interessando in alto grado l'attuazione dei piani regolatori, hanno tuttavia più largo campo di applicazione»: per la parte da essi regolata si effettuano rinvii alle disposizioni vigenti ( che, per quel che riguarda l'indennità di espropriazione, sono quelle della legge del 1865!) delle quali si promette una «eventuale rielaborazione», da effettuarsi « ...a parte ».

L'esame e l' approvazione del progetto di legge urbanistica ebbe luogo, alla Camera, in seno alla Commissione lavori pubblici e comunicazioni, in sede deliberante, nella seduta del 2 luglio 1942. Durante la discussione il relatore Begnotti sottolineò, tra l'altro, che merito particolare della legge era quello di aver creato un potere accentrato, capace di garantire l'applicazione dei nuovi principi urbanistici contro l'indisciplina delle Amministrazioni periferiche. Dopo che il deputato Massimino ebbe sottolineato l'alto valore morale e urbanistico della possibilità di creare, attraverso l'espropriazione, un demanio comunale di aree, e dopo che il dep. Cavallazzi, raccomandando il massimo rigore per la integrale applicazione delle norme intese a reprimere le speculazioni fondiarie, ebbe richiamata l'attenzione sulla situazione finanziaria dei Comuni incaricati di attuare tali misure, il ministro Gorla replicò difendendo l'impostazione della legge contro ogni proposta di modifica che ne avrebbe alterato i concetti fondamentali. Infatti furono successivamente respinti tutti i numerosi emendamenti (tranne qualcuno riguardante l'aspetto formale degli articoli) presentati dal deputato Spinelli rappresentante della Federazione dei proprietari di fabbricati.

Anche al Senato l'approvazione avvenne in seno alla commissione lavori pubblici e comunicazioni, in data 21 luglio 1942. Nella sua illustrazione il relatore Cozza, sottolineò, in particolare, come l'indirizzo voluto dalla legge, attraverso

« ...la formazione dei piani regolatori regionali, dei piani regolatori generali per il territorio di ogni Comune e... dei piani particolareggiati, assicura che lo sviluppo delle varie attività interessanti i singoli aggregati urbani e i territori connessi sarà studiato con quella visione d'assieme non prima raggiunta e che il graduale svolgersi di tali attività avverrà in modo organico e completo ».

(Resoconto delle discussioni delle Commissioni parlamentari del Senato del Regno -XXX Legislatura -Commissione dei lavori pubblici e delle comunicazioni - pag. 584 ).

Tra gli interventi è da segnalare quello del senatore Theodoli di Sambuci che si compiacque vivamente del ritorno al principio della legge del 1865 per la liquidazione delle indennità (rammaricandosi che i piani già approvati rispondessero ad altro criterio) ed avanzò alcune riserve sulla opportunità e sul rendimento dell'art. 18 relativo alla costituzione del demanio comunale di aree edificabili.

Il disegno di legge fu quindi approvato senza modifiche e fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 244.

REGIONI E URBANISTICA NELLA COSTITUZIONE

L’art. 117 della Costituzione, tra le materie di competenza legislativa regionale, contempla anche l'«urbanistica ».

Il problema dell'autonomia regionale ebbe la sua prima impostazione ed elaborazione - sin dalla fase preliminare dei lavori della Commissione per la Costituzione - presso la II Sottocommissione che doveva occuparsi dell'ordinamento costituzionale della Repubblica. Nella seduta della Sottocommissione del 27 luglio 1946 {Commissione per la Costituzione, Discussioni, II Sottocommissione, 27 luglio 1946, pagg. 6, 7), il deputato Ambrosini nello svolgere una relazione orale sull'impostazione generale da dare al problema delle autonomie locali, riparti le materie che si sarebbero dovute attribuire alla competenza legislativa della regione in tre gruppi distinti: un primo gruppo di materie, attinenti ad interessi prevalentemente locali, da attribuirsi alla competenza esclusiva della Regione; un secondo gruppo di materie per le quali si sarebbe dovuto lasciare agli organi legislativi dello Stato la facoltà di stabilire i principi fondamentali, lasciando alla Regione la facoltà di dettare norme di esecuzione; per un terzo gruppo di materie infine, assegnate in principio alla competenza degli organi legislativi dello Stato, la Regione avrebbe potuto dettare norme fino a quando lo Stato non avesse fatto uso della propria facoltà di legiferare in materia (competenza concorrente).

La relazione del deputato Ambrosini fu seguita da un'ampia discussione; vanno sottolineate le dichiarazioni del deputato Uberti (Atti, cit., 29 luglio 1946, pag. 25), il quale rivendicò alla Regione la competenza legislativa per quanto riguarda i «piani regolatori delle città», trattandosi, a suo avviso, di una materia di spiccato interesse locale.

Il 1° agosto 1946 la Sottocommissione incaricò un comitato di dieci membri della stesura di un progetto articolato. Del Comitato furono chiamati a far parte i deputati Ambrosiani, Bordon, Castiglia, Codacci Pisanelli, Einaudi, Grieco, Lami Starnuti, Lussu, Uberti, Zaccagnini.

Nello schema di progetto elaborato da tale «Comitato di redazione per l'autonomia regionale» la competenza legislativa della Regione è regolata dagli artt. 3 e 4, cosl formulati:



Art. 3. -Compete alla Regione la potestà legislativa nelle seguenti materie, in armonia con la Costituzione e coi principi fondamentali dell'ordinamento giuridico dello Stato e nel rispetto degli interessi nazionali:

● agricoltura e foreste, cave e torbiere;

● strade, ponti, porti, acquedotti e lavori pubblici; pesca e caccia; urbanistica;

● antichità e belle arti; turismo;

● polizia locale urbana e rurale ; beneficenza pubblica; scuole professionali;

● modificazione delle circoscrizioni comunali.



Art. 4. -Compete alla Regione la potestà legislativa di integrazione delle norme direttive e generali emanate con legge dello Stato per le seguenti materie:

● industria e commercio;

● acque pubbliche ed energia elettrica; miniere;

● riforme economiche e sociali ; ordinamento sindacale; rapporti di lavoro;

● disciplina del credito, dell'assicurazione e del risparmio; istruzione elementare;

e per tutte le altre materie indicate da leggi speciali.

Nella relazione scritta del deputato Ambrosiani, che accompagna tale schema, si rileva che le materie attribuite alla competenza del nuovo Ente sono «di carattere strettamente regionale» e di «importanza meramente locale». Tale concetto fu ribadito dallo stesso deputato Ambrosini quando riferì alla II Sottocommissione sull'anzidetto schema di progetto elaborato dal Comitato di redazione (Commissione per la Costituzione, Discussioni, II Sottocommissione, 13 novembre 1946, pag. 482).

Per quanto concerne in particolare l'urbanistica il deputato Fabbri, nel corso della discussione sull'art. 3 dello schema, dichiarò trattarsi a suo avviso di materia concernente quasi esclusivamente la competenza dei Comuni; il deputato Perassi chiarì che, dovendo i piani regolatori essere approvati per legge, era logico affermare la competenza legislativa della Regione. (Atti, cit., seduta del 20 novembre 1946, pag. 542).

Dopo un ampio dibattito, la Sottocommissione conservò il primo tipo di potestà legislativa (potestà legislativa esclusiva: art. 3 dello schema), aggiungendo la limitazione del rispetto degli obblighi internazionali; conservò parimenti il secondo tipo (potestà legislativa di integrazione ed attuazione delle leggi dello Stato: art. 4 dello schema), e aggiunse inoltre un terzo tipo di potestà legislativa, per l'attuazione in loco delle leggi nazionali, senza obbligo per queste ultime, per le materie elencate nella disposizione in parola, di limitarsi alla emanazione di principi e direttive generali (potestà legislativa concorrente). La nuova formulazione proposta dalla Sottocommissione si concretizzava quindi in tre articoli (109, 110, 111 del progetto di Costituzione).

Allorché il progetto di Costituzione, formulato in sede di Sottocommissione, fu portato all'esame della Commissione dei 75, si manifestarono numerose discordanze, e non poche critiche furono mosse alla soluzione accolta in materia di competenza legislativa delle Regioni.

Per evitare che tutto fosse rimesso in discussione, fu deciso di nominare un «Comitato di redazione dei 18» con l'incarico di riesaminare tutte le proposte formulate.

Per quanto concerne la materia trattata dagli artt. 109, 110, 111 del progetto, il Comitato di redazione elaborò un nuovo testo nel quale, rinunciandosi al tipo di legislazione esclusiva, si concentrarono in una sola figura la legislazione concorrente e quella integrativa. La nuova formulazione si concretizzava per- tanto in un solo articolo. L'urbanistica, che anteriormente era inclusa, sia nello schema predisposto dal Comitato di redazione per l'autonomia regionale (art. 3 ), sia nel progetto formulato dalla Sottocommissione (art. 109), tra le materie di competenza esclusiva della Regione, fu pertanto compresa nell'elenco di materie che l'articolo unificato predisposto dal Comitato dei 18 (poi art. 117 della Costituzione) assegnava alla competenza legislativa della Regione «nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempre che le norme stesse non siano in contrasto con l'interesse nazionale e con quello di altre regioni».

In sede di discussione all'Assemblea Costituente furono presentati ad iniziativa dei deputati Nobile, Di Fausto e Bernini emendamenti volti ad escludere l'urbanistica dall'elenco delle materie da attribuirsi alla competenza legislativa delle Regioni. Tale iniziativa fu sostenuta, nella seduta dell'8 luglio 1947, dal deputato Renato Morelli il quale sostenne che l'urbanistica non può essere ritenuta materia di interesse soltanto locale, specialmente in considerazione delle connessioni esistenti fra lo sviluppo urbanistico e la tutela delle antichità e belle arti (Atti della Costituente, Discussioni, pagg. 5520-5521) e, per motivi diversi, dal deputato Bozzi, il quale osservò:

«Sotto l'espressione urbanistica, in realtà, si comprende una somma di poteri e di facoltà che oggi, in gran parte, per ciò che riguarda le attività locali, sono demandati ai Comuni...: affidando questa materia alla Regione, non potrà avvenire domani che la Regione sottragga questa potestà normativa ai Comuni ? ...Questa è in sostanza una preoccupazione di carattere generale, perché mentre vogliamo smantellare l'accentramento statale, corriamo l'alea di creare un accentramento regionale, che sotto parecchi aspetti potrebbe essere peggiore del primo. Non solo, ma in materia di urbanistica vi è un complesso di aspetti per i quali è necessaria una legislazione unitaria; io richiamo, sorvolando, la vostra attenzione sulle espropriazioni per pubblica utilità. Voi sapete che la materia urbanistica comporta espropriazioni; domando: la Regione, disciplinando questa materia, sia pure con norme ristrette nell'ambito dei principi fondamentali delle leggi dello Stato, non potrà creare disparità fra Regione e Regione? Io credo che togliendo questa materia alla Regione non si sminuisca la potestà legislativa del nuovo ente ». (Ibidem, pag. 5521).

Il deputato Cingolani dichiarò infine che il gruppo democristiano avrebbe votato in favore dell'inclusione dell'urbanistica tra le materie di competenza legislativa della Regione, allo scopo, oltretutto, di evitare l'uniformità urbanistica conseguente all' accentramento del relativo potere decisionale; mentre il deputato Cifaldi preannunciò il voto contrario del gruppo di Unione democratica nazionale, affermando che, in particolare, i piani di ricostruzione delle città danneggiate dalla guerra - compresi nella competenza urbanistica - non avrebbero dovuto redigersi secondo visioni particolari ma in coordinamento con aspirazioni di interessi più vasti. (Ibidem) pagg. 5521-5522).

Abbiamo recentemente affermato (Critica Fascista del 1 marzo) che l'unità urbanistica non è più oggi la città, ma la nazione; e che pertanto uno dei compiti essenziali dell'urbanistica è quello di realizzare la organica distribuzione della popolazione su tutto il territorio nazionale. Lo strumento tecnico urbanistico è da tempo forgiato e non richiede che di essere usato: il piano territoriale. Ma perché l'opera dell'urbanista venga resa possibile ed efficace occorre prima l’azione politica. La distribuzione della popolazione è infatti la conseguenza, non la causa; è l'effetto ultimo di una causa fondamentale: il lavoro. La popolazione non si distribuisce a capriccio, ma si raggruppa e si organizza dove trova lavoro, cioè mezzi e possibilità di vita: è la legge umana più semplice e primordiale, elementare ed insopprimibile.

Ecco dunque la vera enunciazione del problema: distribuire il lavoro per poter distribuire la popolazione. E la distribuzione del lavoro è compito dell’uomo politico, del regime politico.

La distribuzione attuale della popolazione italiana è fondamentalmente sana e nell'insieme soddisfacente, ma presenta “punte” patologiche particolarmente gravi, ad eliminare le quali è stata indirizzata costantemente l'azione del Fascismo.

La lotta contro l'urbanesimo è stato uno dei fondamenti dell'azione politica del Fascismo. Il processo di inurbamento dura tuttora, ma è ormai contenuto e disciplinato; i risultati dell'azione del Regime sono già visibili e sarebbero ben maggiori se essa non avesse trovato molteplici ostacoli in troppi interessi precostituiti, in troppe cattive volontà, in troppe resistenze sorde e passive.

L'esagerato, spesso esasperato sviluppo delle città è stato determinato, fondamentalmente, dal nascere e dallo svilupparsi delle industrie le quali, non controllate ne disciplinate, si sono polarizzate verso le città, le hanno invase con i loro impianti ed i loro stabilimenti, con le migliaia e migliaia dei loro operai, si sono moltiplicate a libito, senza che i reggitori, né dello Stato né delle singole città, si preoccupassero per avventura di esaminare se questo vertiginoso addensamento di nuove fonti di lavoro in così ristretto spazio potesse minare l'organismo urbano e lederlo con gravissime malattie o se, peggio ancora, potesse sottrarre braccia al lavoro della terra, spopolare le campagne, minare le basi stesse della salute e della potenza della nazione, dando libero sfogo alla mania suicida dell'inurbamento.

È ben vero - è questa la comoda e semplicistica spiegazione del fenomeno che tanti vogliono dare - che la corsa alla città trova fondamento nel desiderio di vivere una vita più piacevole, più comoda, meno faticosa e nello stesso tempo più redditizia; di godere i cosiddetti “piaceri” delle città; ma è anche e soprattutto vero che ci si inurba sperando di trovare nelle città da lavorare più e meglio che in campagna o in paese; speranza ben giustificata dalla constatazione che tante e così cospicue fonti di lavoro sono state e continuano ad essere addensate quasi esclusivamente nelle città, Ma poiché, anche in una città grandissima e gonfiata all'inverosimile, le fonti di lavoro restano pur sempre limitate, si è giunti invece all'effetto nettamente opposto, che aveva raggiunto, sotto i passati regimi, proporzioni gravissime: la disoccupazione. Altro che piaceri della città, maggior guadagno, vita allegra e via dicendo.

Appare pertanto chiara, univoca, inequivocabile la soluzione vera del problema: togliere gradualmente, ma decisamente, dalle città maggiori una partedelle fonti di lavoro e, principali tra di esse, le industrie. Lo ripetiamo: è necessario compiere a ritroso il processo storico. Se le industrie addensatesi nelle città, verranno tolte e distribuite organicamente in altre zone del territorio, le rispettive maestranze non potranno non seguirle: cosi le città vedranno diminuire la loro popolazione e il fenomeno dell'urbanesimo si esaurirà poco a poco. Tolta la causa, tolto l'effetto.

Si guardi, del resto, a quanto il Regime ha già realizzato nel settore agricolo. Con la bonifica integrale sono state offerte nuove terre, cioè nuove fonti di lavoro, agli agricoltori; le campagne bonificate danno oggi lavoro e vitto sano a migliaia e migliaia di famiglie ed hanno consentito, anzi reso necessaria, la creazione di centri abitati, nettamente funzionali, modesti di proporzioni, sani e ridenti come lo sono tutti i nostri centri minori, permeati di campagna, di aria, di sole.

Con la eliminazione del latifondo si va operando una diversa distribuzione del lavoro e di conseguenza una diversa distribuzione della popolazione, che da esso anche prima traeva i mezzi di vita: si guardi alle grandiose opere in corso in Puglia e in Sicilia. Dotando i nuovi villaggi rurali, ed anche le singole unità poderali, delle comodità e dei ritrovati della moderna vita civile, secondo il preciso comandamento del Duce, si va attirando in essi anche una parte di coloro che si erano distaccati dalla terra o, quanto meno, si elimina la ragione di continuare ad inurbarsi.

Come nel settore agricolo, cosi occorre operare nel settore industriale. Una grande nazione moderna, bene organizzata e potente, non può essere soltanto rurale, pena la sua decadenza: deve essere anche, in giusta misura, una nazione industriale. Tutto sta nel ripartire organicamente e accortamente su tutto il territorio nazionale le varie attività, siano rurali o industriali o di qualunque altro i genere.

Un concetto fondamentale va innanzi tutto affermato: è assurdo ritenere che l'organizzazione industriale debba far perno sulla grande città; è vero anzi esattamente l'inverso. Nella grande città non esistono quasi mai le fonti di produzione delle materie prime che l'industria deve lavorare: tutto deve giungervi, con perdita di tempo e di denaro, con difficoltà di trasporto, dalle materie prime all'energia elettrica al carbone alle maestranze, che difficilmente sarà possibile far abitare nelle vicinanze degli stabilimenti. I prodotti industriali saranno di conseguenza molto più cari: si pensi che, soltanto per quanto riguarda gli operai, i salari dovranno esser più alti, date le spese di trasporto e dato, soprattutto, che la vita nella grande città è enormemente più cara. L'ideale, per una industria economicamente e socialmente sana, è di poter lavorare alla fonti le materie prime, aver a portata di mano, in quartieri di abitazione appositi a breve distanza, le proprie maestranze: e potremmo citare esempi cospicui felicissimi, se non temessimo di esser accusati di far gli agenti di pubblicità.

Ma v'è una ragione vitale che impone il decentramento industriale, l'allontanamento dai centri abitati: la ragione bellica. Ragione, si badi bene, non contingente, ma permanente: l'avvento del mezzo aereo ha abolito di fatto le frontiere tra gli Stati, ha reso possibile l'offesa su tutto il territorio nemico.

Certo il problema è particolarmente grave e complesso, non foss'altro in considerazione degli impianti esistenti nelle città, molti dei quali recentissimi, Ma ecco innanzitutto una norma inderogabile da sancire e far assolutamente rispettare: vietare la creazione di nuove industrie nelle città già inurbate, portandole invece possibilmente nelle zone di produzione delle materie prime o dell’energia motrice necessaria al loro funzionamento, in prossimità di linee di comunicazione, sia stradale che ferroviaria o per via d'acqua, per la organica rapida economica distribuzione dei prodotti in tutte le zone necessarie, ubicate in modo da esser il più possibile sottratte all'offesa aerea. Ed avviare, intanto, la sistematica smobilitazione e la nuova, accorta distribuzione delle industrie ubicate nelle città, a cominciare da quelle più vecchie e più bisognose di radicale rinnovamento.

Il processo di decentramento industriale porterà con sé, di conseguenza, un grandioso, complesso e interessantissimo e sano processo urbanistico. I lavoratori di queste industrie decentrate daranno vita a grandi e piccoli nuclei abitati a fondamento e funzione nettamente industriale, ma che presto si completeranno, per processo naturale, di tutti gli altri elementi di vita di un qualsiasi centro urbano, dal commercio all’artigianato e via dicendo. Si avrà così tutta una fioritura di nuovi centri, nei quali la popolazione sarà organicamente distribuita, perché organicamente distribuito sarà il lavoro. Questi nuovi centri a base industriale, stabilimenti da un lato, quartieri di abitazione dall'altro, opportunamente distaccati e organicamente distribuiti a servizio delle industrie, potranno esser veramente perfetti e sani, pieni di luce e di aria, e tenuti in quei limiti di popolazione che si vorranno; basterà infatti dosare per ognuno il numero e il genere delle industrie autorizzate a crescervi i propri impianti e a svolgervi la propria attività.

Cesserà, allora, per spontaneo esaurimento, l’affannosa, speculativa costruzione dei nuovi, brutti, spesso malsani quartieri di ampliamento, tutti a casoni e grattacieli, nelle città esistenti. Queste anzi, gradatamente, si svuoteranno di quanto di artificioso, di pleonastico, di assurdo vi aveva accumulato un secolo di errori e di “lasciar correre”, e un po' alla volta guariranno del loro male, torneranno a più efficienti e sane funzioni nel grande quadro delle attività della nazione.

Non si dimentichi che se ancor oggi, malgrado tutto, la nazione è sana, ciò è dovuto al fatto che la massima parte della popolazione è distribuita nelle campagne in ben ottomila circa centri abitati, dei quali appena due-trecento superano i ventimila abitanti. Quando questi centri maggiori - e soprattutto quelli che contano a centinaia di migliaia i propri cittadini - si saranno ridotti a poche diecine; e quando saranno sorte altre migliaia di piccoli centri, sia rurali che industriali, il problema potrà dirsi definitivamente risolto, Sarà infatti, un totalitario, autentico ritorno alla terra, non nel senso che tutti divengano contadini, ma che ognuno sia contatto diretto con la natura e con la campagna, divenute spesso un miraggio, un'utopia per i cittadini delle grandi città, Ne deriverà una maggiore sanità fisica e morale, ne scaturirà un sicuro potenziamento della razza.

L'indirizzo politico del Regime è tutto volto a questa grande mèta: ed è superfluo ricordare ancora parole e fatti del Duce. Basti citare, per quanto riguarda appunto il settore industriale, la legge per il decentramento industriale nel Mezzogiorno e nelle isole. Ma, anche qui tutto sta ad assicurare che la volontà limpida e lungimirante del Capo non venga tradita o comunque deformata nelle pratiche realizzazioni, C'è una legge: ma occorre darne la giusta interpretazione, garantirne la piena efficacia. Non per nulla F.M. Pacces ammonisce che quello del decentramento industriale è un tasto che bisogna continuare a battere, anche se fosse necessario un piano decennale … unicamente per la battuta del tasto.

Che cosa sta accadendo, infatti? Mentre si sancisce legislativamente la necessità assoluta del decentramento industriale, non soltanto per contingenti necessità belliche ma per creare il presupposto della potenza e della granitica invulnerabile solidità avvenire della nazione, assistiamo proprio ora al dilagare di un'altra pericolosissima moda, da noi già più volte denunciata: quella delle “zone industriali”, cioè di vaste estensioni di territorio tutte zeppe di stabilimenti ed impianti industriali, che vengono create e sviluppate - realtà romanzesca - proprio e specialmente nelle grandi e grandissime città, e cioè proprio nei centri urbani che abbisognano di una energica, drastica azione di svuotamento, di disurbanamento. Dopo la mania metropolitana, ecco la mania industriale prendere i capoluoghi: Bolzano, Ferrara, Apuania, Palermo, Roma e via dicendo, hanno già le loro grandi zone industriali consentite da appositi provvedimenti legislativi; molti altri brigano e si agitano per ottenere provvedimenti analoghi, come Pescara Pistoia ecc. Non basta. Lo stesso decentramento nel Mezzogiorno e nelle isole come viene attuato, in effetti, in molti, in troppi casi? Creando industrie, o zone industriali, non accortamente decentrate e distribuite fuori dei centri urbani, ma proprio in essi, anzi nei maggiori di essi, a cominciare da Napoli e da Bari.

C'è di che rimaner perplessi - per non dir altro - di fronte a questa singolare interpretazione del concetto di decentramento industriale: non resta che augurarsi che, come per il settore del risparmio e dei prezzi, giunga l’inflessibile volontà e la decisa azione del Duce, con le buone se possibile, con la forza se necessario.

La nuova legge urbanistica è dunque ormai Legge dello Stato con tutti i crisma ufficiali.

Chi ha seguito su questa stessa Rivista il nostro tenace lavoro preparatorio, chi ha letto sui giornali politici o sui resoconti parlamentari il nostro pensiero, o ha seguito attraverso la radio o le comunicazioni in convegni di studiosi l'appassionata alternativa delle speranze o dei timori, immagina quale sia la nostra esultanza per la meta raggiunta, e la nostra legittima soddisfazione per la non inutile opera compiuta.

Al Ministro Gorla che da uomo di fede di volontà e di competenza tecnica ha saputo superare le non lievi difficoltà conducendo intatta in porto la navicella della sua legge, abbiamo espresso già, e ripetutamente, il nostro plauso e la nostra riconoscenza.

Ma da questo nostro organo, al Duce che ha voluto che, anche in momenti duri e difficili come quelli che attraversiamo, non venisse trascurata la preparazione fondamentale della disciplina e dell’ordine urbanistico di domani, e al Ministro Gorla, artefice presentatore e difensore della legge, vogliamo rinnovare il fervido commosso ringraziamento degli urbanisti italiani, che nella legge vedono lo strumento di un feconda disciplina, e di una vera rinascita dell'arte urbanistica. Arte e disciplina che varranno, vogliamo sperarlo, a dare ordine e bellezza al volto della Patria nei giorni avvenire, quando sarà possibile riprendere in pieno quel fervore di attività creatrice che è stato proprio del primo ventennio del Fascismo e che, dopo la Vittoria, dovrà tornare ad essere una delle più significative prerogative del Regime.

Abbiamo espresso la nostra fede nella bontà dello strumento che il Governo Fascista ha predisposto, e altrettanto ripetiamo a proposito del Regolamento che con celerità veramente eccezionali il Ministro dei lavori pubblici sta per emanare. Naturalmente l'efficacia dei più sani e lungimiranti provvedimenti dipende dal buon senso, dalla rettitudine e dalla intelligenza con cui sono applicati; e a coloro che al nostro entusiasmo oppongono lo scetticismo sulla incapacità e malavoglia degli uomini, rispondiamo che abbiamo invece piena fiducia che gli organi di propulsione e di controllo che la legge crea al centro e alla periferia gioveranno ad assicurare la buona realizzazione dei postulati della più sana ed evoluta urbanistica italiana.

La nostra Segreteria ha commentato la legge articolo per articolo, e quel commento fa seguito in questa nostra pubblicazione, al testo della legge e alla riproduzione delle interessanti discussioni alla Camera e al Senato.

Qui vogliamo porre in rilievo solo i lineamenti essenziali profondamente innovatori della legge.

Primo: il concetto di Piano Territoriale

Si ricorderà che la nostra Rivista iniziando il nuovo ordinamento lo scorso anno, impostò proprio sui Piani territoriali il suo primo articolo di fondo, ponendo in rilievo la importanza fondamentale che per una giusta e sana distribuzione delle forze produttive del paese e per una efficace azione di disurbamento ha una buona politica di previsione e di coordinamento di tutte le attività urbanistiche in una determinata estensione di territorio. Il Ministro Gorla ha voluto che i Piani territoriale si chiamassero appunto di coordinamento, e ne ha avocata la compilazione diretta o indiretta allo stesso Ministero dei lavori pubblici attraverso le Sezioni Urbanistiche.

Secondo: la creazione delle Sezioni Urbanistiche

Uffici periferici con funzioni tecniche autonome, anche se amministrativamente collegati col Genio Civile. Sezioni che hanno delicati e difficili compiti di propulsione, di incitamento, di controllo, e di raccolta di elementi e dati da fornire agli organi centrali; e che pertanto dovranno essere affidate a funzionari provetti ed esperti della materia.

Una legge preesistente, non ancora prima applicata, ha posto il Ministero nella condizione di poter assumere per chiamata diretta alcuni egregi camerati che conoscono le discipline urbanistiche per aver a lungo, per quanto giovani, militato nella schiera dei combattenti per la buona causa dell’urbanistica; ad essi, tutti a noi cari e tutti assai favorevolmente noti nel campo degli studi per opere, pubblicazioni e concorsi va la nostra sicura fiducia.

Ma non basta: le Sezioni Urbanistiche sono sedici; e manca ancora un buon gruppo di giovani autorevoli per la riconosciuta competenza e salda preparazione. Facciamo pertanto voto che i nostri giovani urbanisti che ormai dalle Facoltà di Architettura, e da qualche anno anche da quelle di Ingegneria, escono agguerriti e consapevoli, accorrano alla chiamata del Ministro e si accingano a dare alla pubblica Amministrazione, e attraverso essa alla Patria, il meglio delle loro energie.



Terzo: la netta e decisiva definizione di piano generale e di piano particolareggiato

La precisazione dei caratteri dei primo, che possono dirsi di esclusivo valore tecnico e programmatico, e del valore giuridico assunto dai secondi con la imposizione, solo a tempo limitato, di oneri e vincoli.

Insistiamo su questo concetto che è fondamentale; e che non vuol dire affatto che il piano generale possa essere una espressione vaga e indecisa che i piani particolareggiati debbano poi precisare in modo completo; ché anzi nulla dovrebbe vietare che il passaggio dal piano generale alla preparazione dei piani particolareggiati possa essere immediato. Ma resta ben fermo il concetto fondamentale che, anche se predisposti in linea tecnica per una più ampia zona, i piani particolareggiati possono essere approvati anche per piccoli settori, e solo allorché i Comuni stessi hanno la sicurezza di poter presentare un piano finanziario organico e saldo, e quindi realizzare di fatto nel tempo prescritto.

Tralasciamo di dilungarci sul valore tecnico di molti dei principi fondamentali che la legge instaura: come quello della rettifica dei confini della obbligatorietà dei comparti, con i quali sarà possibile vedere finalmente rimossi quegli inconvenienti ce sino ad oggi, per la esistenza di tante piccole proprietà frazionate e intersecatesi, impedivano la realizzazione armonica di un qualsiasi complesso urbanistico; o quelli della prescrizione degli isolati in tutto corrispondenti ad unità fabbricabili secondo la tipologia prescelta; o della obbligatoria presentazione delle sagome e dei profili dei fabbricati lungo le vie o piazze principali; o infine delle precise norme per il regolamento edilizio.

Tutti principii di assoluto valore tecnico oltre che giuridico, che verranno finalmente a permettere l concezione di un piano regolatore nella sue terza dimensione.

Ci preme però di far rilevare ancora una volta come le disposizioni relative alla espropriabilità delle aree, specialmente riferite alle zone di espansione, mettano una buona volta i Comuni nella condizione di poter disciplinare le attività edilizie, consentendolo solo nelle zone e nelle direzioni dove, con un organico piani di realizzazione di opere di Piano Regolatore, l’espansione dell’aggregato urbano e la creazione di nuovi nuclei satelliti corrispondano al preventivo programma urbanistico; non solo, ma anche, le disposizioni medesime, permettano ai Comuni, con la attenta manovra dei prezzi delle aree, di consentire una edilizia veramente sana, moderna, corrispondente alle esigenze estetiche igieniche e politiche della nostra razza.

Questo punto non sarà mai abbastanza illustrato e posto in rilievo ed è senza alcuna incertezza che noi vediamo in esso, se sarà bene compreso e bene applicato, la chiave di una vera rinascita della urbanistica nostra tanto sotto il profilo estetico quanto sotto quello sociale.

Ai più o meno disinteressati tutori dell'assurdo quanto astratto diritto di proprietà, secondo il quale ogni proprietario di aree, sebbene tuttora utilizzate a sola destinazione agricola, dovrebbe avere la libertà di far trasformare in qualunque tempo, e a spese del pubblico erario, i loro campi in zone edilizie per arricchirsi con fantastici sopraprofitti, opponiamo solo la visione di una più sana ed equa giustizia, che nulla tolga alla proprietà di quanto è già in essere, acquisito o anche di prossima acquisizione; ma che permetta anche alla oculata politica amministrativa dei Comuni, di poter regolare l'attività edilizia dei privati nel tempo e nello spazio, evitando inutili spese e dannosi sperperi di pubblico denaro; e permetta anche di garantire a tutta la popolazione presente e futura il godimento di quartieri di abitazione sani e ridenti, di ampie riserve verdi per la gioia e la sanità dell'infanzia, di tutto quel complesso di provvidenze e di istituzioni accessorie, politiche, religiose, sportive, assistenziali che dovranno fare dei nostri centri abitati dei vari modelli di urbanistica italiana e fascista.

A chi teme che tutto ciò resti nel campo degli ideali sognati per difetto di mezzi o incapacità degli uomini possiamo rispondere: che sì, il difetto di mezzi è purtroppo prevedibile, poiché per procedere alla espropriazione delle aree che occorre pagare al giusto valore venale senza riduzioni di capitalizzazione di imponibile o coacervo di fitti, occorrono dei mezzi finanziari che non si sa ancora bene dove e come i Comuni potranno procurarsi.

Può darsi che il Governo voglia provvedere con qualche speciale accorgimento in considerazione che si tratterebbe di una esposizione finanziaria la quale dovrebbe, ad opera compiuta, dare invece un certo margine di utile col quale provvedere a nuove opere.

Chi legge queste nostre note ricorderà che proprio per ovviare all'inconveniente di un notevole disborso di denaro, e all'altro più grave di un possibile arresto di attività produttiva nel campo agrario, noi dell'Istituto avevamo proposto un sistema di valutazione e di catasto economico che avrebbe permesso lo stesso congegno di disciplina e di coordinamento, quasi senza anticipazione di fondi da parte dei Comuni.

La proposta è parsa acerba ed è rimasta allo stato di proposta; ma noi abbiamo fede che l'avvenire ci darà ragione. Comunque è a ritenersi che in un modo o nell'altro i Comuni potranno, e noi diciamo anzi dovranno, giovarsi delle benefiche disposizioni di legge.

Quanto all'argomento della eventuale incapacità degli uomini ... è argomento vecchio quanto la storia del mondo. E nessuna legge potrebbe mai essere presentata se non sorreggesse la fiducia della sua bontà intrinseca e della onestà e capacità di chi deve applicarla.

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