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Il giornalista morì il 27 agosto del 1996. In quel celebre libro delineò il profilo di un paese che distruggeva i suoi paesaggi e i suoi centri storici - Nel volume raccolse gli articoli apparsi sul "Mondo" fra il 1949 e il 1956 - Tutelare l´antico era il presupposto perché la città moderna crescesse correttamente

Anticipiamo alcuni brani dalla prefazione di alla riedizione de I vandali in casa di Antonio Cederna, in libreria ai primi di settembre (Laterza, pagg. 336, euro 16)

Sono molti i temi che accompagnano Antonio Cederna nei diciassette anni di collaborazione a Il Mondo di Mario Pannunzio, una collaborazione iniziata quando il periodico muoveva i primi passi, nel 1949, e chiusa quando questo terminò le pubblicazioni, nel marzo del 1966. Cederna vi svolse l´intenso lavoro di cronista delle vessazioni che il territorio italiano andava subendo in quelli e negli anni successivi. Ai maltrattamenti patiti dalle bellezze artistiche, si aggiunsero quelli inferti ai centri storici, al paesaggio e poi alle città, la cui crescita, agli occhi di Cederna, stava assumendo caratteri informi, guidata da direttrici speculative e strutturalmente diversa da quella che esse avevano conosciuto nei secoli precedenti. (...) Negli articoli che egli scrisse si delinea il profilo di un´Italia che ha fretta di crescere ignorando se stessa, che dissipa l´antico e le qualità non solo estetiche che da esso promanano, consumando suolo e paesaggi. Parte di quegli interventi Cederna li raccolse ne I vandali in casa, uscito nell´autunno del 1956: è un libro che intona il controcanto di questo mezzo secolo di storia italiana, che dà il tono di un paese il quale sarebbe potuto essere diverso da com´è stato e prefigura un´alternativa possibile che, mezzo secolo dopo (e a dieci anni dalla scomparsa di Cederna), come il negativo di una fotografia, spiega l´Italia di oggi. (...)

Cederna sottolinea il profilo sistematico delle trasformazioni italiane. La degradazione della storia e della sua eredità, la distruzione dell´antico e del bello, la manomissione della natura e dei suoi equilibri non vengono lette solo come violazioni inammissibili di quanto il passato ha elaborato ed esteticamente definito, consegnandolo alle generazioni successive e impegnandole a tutelarlo come il luogo in cui è consegnata parte della loro identità. Questo basterebbe a imporre la salvaguardia, che è prodotto di civiltà e di civiltà moderna in specie. Ma non è sufficiente a spiegare l´atteggiamento di Cederna che si sbaglierebbe a ridurre alla sola componente conservativa: le violazioni Cederna le interpreta come uno dei modi di essere dell´Italia di quegli anni, le mette in rapporto con il tipo di sviluppo che l´Italia aveva intrapreso, con la fisionomia che andavano assumendo - o confermando - le sue classi dirigenti, l´amministrazione statale, dai livelli più alti a quelli semplicemente esecutivi, le burocrazie comunali, combattendo con i suoi interventi chi giudicava quelle manipolazioni alla stregua di un danno collaterale, l´accidentale e inevitabile corollario, e non una delle condizioni perché il cammino del paese procedesse esattamente in quel modo.

Il Mondo è la cornice in cui le riflessioni di Cederna si distendono. E non è difficile cogliere quel di più di significato che il settimanale attribuisce ai suoi interventi: è un contesto nel quale si schierano Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi (per indicare soltanto due fra i tanti collaboratori cui spetta di dettare le linee-guida della testata) e che consente agli argomenti di Cederna di agganciarsi al più ampio dibattito sull´economia, la società e la politica italiana, la cultura, la cultura accademica, l´ambiente delle professioni. I "gangster" che scorrazzano sull´Appia, le grandi famiglie proprietarie di immense porzioni del territorio di Roma, gli azionisti e i dirigenti della Società Generale Immobiliare che orientano lo sviluppo della capitale nella direzione da essi auspicata, i pianificatori-burocrati che sventrano il centro di Milano sono i prototipi di un´economia semi-feudale, che al rischio imprenditoriale preferiscono la rendita fondiaria e immobiliare e si affiancano a quelle figure che compaiono nelle denunce di Ernesto Rossi contro il capitalismo monopolista e parassitario, il quale fonda le sue fortune sui privilegi e non sull´espansione industriale. (...)

La posizione favorevole a una salvaguardia totale dei centri storici è il primo punto sul quale si concentra la lunga introduzione a I vandali in casa. (...) Quel che sta accadendo in quegli anni a Roma, a Milano o a Lucca non è solo l´inserimento di manufatti moderni in contesti antichi. Lo sventramento è un intervento ben più invasivo, che scardina la struttura viaria e architettonica, impone alle strade e agli edifici misure non compatibili con la struttura tradizionale, sovraccarica un ambiente delicato di cubature fuori proporzione. Il caso milanese è esemplare. Nel capoluogo lombardo non si distrugge, salvo che in qualche caso, edilizia monumentale, ma edilizia sette-ottocentesca non particolarmente pregiata eppure in grado di definire il linguaggio architettonico dell´intero centro cittadino. «La bella e antica e sotto molti aspetti importante città di Milano è condannata a sparire dalla faccia della terra», scrive con gli accenti dolenti e paradossali che rendono figurata la pratica di allargare strade, rettificare, raddrizzare, costruendo edifici imponenti, che centuplicano la rendita immobiliare. Il fascismo ha sfigurato il centro cittadino, ma le nuove amministrazioni meneghine proseguono nel progetto immaginando demolizioni e ricostruzioni, disegnando "racchette" che attraversino il cuore della città da parte a parte.

Se ormai è impossibile bloccare a Roma il completamento dei lavori di via della Conciliazione o la mutilazione di via Giulia, all´altezza di San Giovanni dei Fiorentini, possono essere risparmiate altre cruente operazioni nella carne viva del centro storico. Il piano regolatore della capitale prevede il micidiale sventramento di via Vittoria e di buona parte degli edifici circostanti per realizzare una strada che da piazza Augusto Imperatore e di qui fino al Lungotevere tagli perpendicolarmente via del Corso, squarci via del Babuino e via Margutta, sfilando parallela a via della Croce e via Condotti e si infili in un tunnel sotto il Pincio, in via San Sebastianello, sbucando in via Sant´Isidoro, praticamente in via Veneto. È uno scasso che ha le dimensioni di una catastrofe per tutto il centro storico romano e non solo per quella sua porzione pregiatissima. Al posto degli edifici esistenti sorgeranno palazzi di molti più piani e con densità abitative sconvolgenti che alimenteranno una ghiotta spirale speculativa. Sparirà la rete di piccole strade sostituita da arterie per sole macchine ed anzi è proprio questo l´obiettivo dichiarato di tutta l´operazione: rendere più fluido il traffico di scorrimento dalla zona dell´Esquilino e della stazione Termini al quartiere Prati, attraversando quel che resta del centro storico. Ma grazie agli articoli di Cederna e alla mobilitazione di molti intellettuali, quel progetto verrà sventato. (...)

Cederna osserva le trasformazioni che Roma sta subendo con animo dolente e articola il suo stile con i toni dell´invettiva. Non gli sfugge il contesto. L´assalto al centro impedisce che una città funzioni correttamente, perché pretende di caricare il nucleo storico di funzioni incompatibili con la sua struttura e che molto più opportunamente possono essere sistemate nelle zone di espansione. Cederna non manifesta alcuna opposizione verso la crescita di un organismo urbano, verso l´atto del costruire, tantomeno verso la categoria del moderno. L´aggressione di un centro storico, insiste, si evita con la sua integrale salvaguardia e costruendo razionalmente la città moderna, orientandone lo sviluppo in una direzione definita, immaginando un altro baricentro, quello in cui collocare le funzioni direzionali (che a Roma significa soprattutto ministeri, ma non solo) e non ammassando lungo tutta la fascia che cinge la città insediamenti residenziali, anonimi, inospitali, dormitori senza alcun pregio. Distruggere un centro storico e far crescere la città "a macchia d´olio" sono operazioni che si reggono a vicenda, sono «un´equivoca e irrazionale contraffazione di modernità». La modernità delle altre città e capitali europee porta in una direzione diversa, dettata da una pianificazione urbanistica che è tutela di interesse collettivo e che andrebbe resa "coercitiva", «contro le insensate pretese dei vandali, che hanno strappato da tempo l´iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l´opinione pubblica».

Vandalo è chi distrugge l´antico. Ma non solo. La coppia oppositiva vandalo/modernità è scandita con nettezza. Vandalo è chi distrugge l´antico perché la città assuma una fisionomia più consona a interessi privati e non pubblici, perché il suo territorio venga spremuto al pari di una risorsa dalla quale ricavare quanto più reddito possibile. Il secondo tempo dello sventramento è infatti lo sfruttamento intensivo dei terreni appartenenti alle grandi proprietà immobiliari, verso le quali si indirizzano le scelte amministrative, adottate senza criteri razionali, urbanisticamente verificabili, che non siano la forza dei titolari di quelle proprietà. I bersagli polemici del Cederna di questi anni (la distruzione delle ville, gli sventramenti nel centro storico, le costruzioni ai piedi dell´Aventino o a San Giovanni) non si comprendono appieno se non allargando la mira sull´intera urbanistica romana, che a sua volta condensa ed esalta le scelte che le classi dirigenti stanno compiendo su scala nazionale.

Dieci anni fa, il 27 agosto del 1996, moriva Antonio Cederna. Aveva 75 anni. Archeologo e giornalista, per alcuni decenni fu l´artefice di battaglie per la tutela del paesaggio e delle città storiche, sostenitore di una corretta urbanistica e avversario della speculazione edilizia. È stato fra i fondatori, nel 1955, di Italia Nostra. Ha scritto su Il Mondo, sul Corriere della Sera e quindi sull´Espresso e su Repubblica. Nel 1956 pubblicò il suo primo libro I vandali in casa, che i primi di settembre esce in una nuova edizione da Laterza per la cura di Francesco Erbani, il quale ha scritto anche una prefazione e una postfazione (pagg. 336, euro 16). Per il decennale della morte, l´editore Corte del Fontego ha ripubblicato un altro libro di Cederna, Mussolini urbanista, con una prefazione di Adriano La Regina e una postfazione di Mauro Baioni (pagg. 281, euro 23). Da Diabasis esce poi Caro Tonino (pagg. 64, euro 10). Lo ha scritto nel 1997 Manlio Cancogni. È una specie di lunga lettera all´amico Cederna, con il quale lo scrittore toscano aveva condiviso negli anni Cinquanta la campagna giornalistica contro la speculazione edilizia a Roma, in occasione dell´alluvione che nel 1996 si abbatté sulla Versilia.

L'occasione migliore per riflettere su un periodo di storia patria che ha portato alla degradazione fisica, culturale e ambientale del nostro paese, ci è stata offerta dal settimo congresso nazionale di "Italia Nostra" che si chiude oggi a Torino, nel trentennale della sua fondazione: l'associazione che è stata per anni l'unico baluardo contro la speculazione e l'insipienza pubblica e privata, e che fu fondata il 29 ottobre del 1955 da Umberto Zanotti Bianco, Elena Croce, Giorgio Bassani, Luigi Magnani, Pietro Paolo Trompeo, Hubert Howard, Desideria Pasolini. Erano gli anni di furente "ricostruzione" poi seguita dal cosiddetto "miracolo economico" che avrebbe travolto sotto un'urbanizzazione selvaggia quel "patrimonio storico, artistico e naturale della nazione", a tutela del quale Italia Nostra era nata, dopo che sul "Mondo" di Mario Pannunzio, erano apparse le prime isolate denunce. In quel tempo le cento città d' Italia venivano sottoposte a uno stillicidio di demolizioni-ricostruzioni, che rischiavano di disintegrare i centri storici. Le idee di Italia Nostra furono subito chiare. Sul primo numero del bollettino (oggi arrivato al numero 234) fu pubblicato un documento firmato da una ventina di (allora giovani) architetti in cui si affermava che "l'architettura moderna deve adeguarsi alle scelte urbanistiche" le quali "impongono la conservazione dei centri storici e la rinuncia a costruire in essi". Si ponevano così le basi per quella politica di recupero e risanamento conservativo del patrimonio edilizio antico che, almeno in linea di principio, si può considerare ormai acquisita, salvo periodici ritorni di fiamma di qualche architetto o amministratore sbandato. Contemporaneamente, la crescita edilizia indiscriminata distruggeva il verde di città e campagne: caso insigne l'assalto cui veniva sottoposta la campagna dell' Appia Antica. Si deve all'assidua, martellante azione di Italia Nostra se nel '65, il ministro dei lavori pubblici Giacomo Mancini, approvando il piano regolatore di Roma, vincolava finalmente quegli storici duemilacinquecento ettari a parco pubblico (che l'Spqr non abbia ancora espropriato un metro quadrato è un altro discorso). Man mano l'impegno dell'associazione si allargava all' intero territorio. Del '64 sono gli studi sulla tutela dei litorali (Gallura, Gargano, Taranto, Roma-Gaeta), del '66 le prime proposte legislative per l'istituzione e gestione di parchi nazionali e aree protette, e poi per la salvaguardia delle zone umide contro le nefaste "bonifiche", per l'istituzione dei parchi marini (previsti, almeno sulla carta, nella recente legge per la difesa del mare); e contro la mania dei porti turistici che cementificano le superstiti insenature della penisola. Quali i successi ottenuti? Semplificando a memoria, possiamo ricordare, a Roma, la conquista del parco di Villa Pamphili e la bocciatura della lottizzazione dei mille ettari di Capocotta (che un recente disegno di legge espropria per annetterla alla dotazione della presidenza della Repubblica); a Milano, la sospensione dello sventramento del centro storico; a Venezia l'abolizione delle micidiali strade translagunari; le drastiche modifiche del piano regolatore di Napoli per il centro storico, le zone verdi, lo spostamento delle industrie inquinanti; il ridimensionamento delle folli previsioni edilizie dell' Aga Khan sulla Costa Smeralda, eccetera. Quanto agli ambienti naturali è probabile che se non ci fosse stata Italia Nostra, centro e periferia (le sezioni locali sono più di centocinquanta), non sarebbero state bloccate le lottizzazioni del parco d'Abruzzo, il parco S. Rossore-Migliarino sarebbe stato lottizzato, quello della Maremma non ci sarebbe ancora: e non si parlerebbe di parco del Delta del Po, oggetto di studi approfonditi (e timidamente avviato in provincia di Ferrara). Incessante è stata l'azione dell'associazione sul fronte del patrimonio storico-artistico. Risalgono agli anni sessanta le proposte per la nuova legge di tutela; sono seguiti i saggi sulla disciplina dei beni ecclesiastici, sul restauro architettonico e urbanistico, le proposte per le agevolazioni fiscali ai privati meritevoli: memorabili le battaglie contro la devastazione dei Campi Flegrei (è stata salvata la Via Campana antica, che avrebbe dovuto diventare un diverticolo autostradale), le azioni per Agrigento e Selinunte, per il centro storico di Palermo. Determinanti sono stati gli interventi, a Roma, per l'acquisizione da parte dello Stato del complesso del San Michele: mentre proseguirà l'azione per il parco dei Fori Imperiali. E si deve all' associazione lo studio e il progetto di massima per il restauro dell'imponente cinta muraria di Ferrara. Convegni, tavole rotonde, seminari, corsi residenziali, quaderni, memoriali, numeri speciali del bollettino: l' enorme massa di documenti di Italia Nostra costituisce l'archivio dell' Italia distrutta, minacciata, da salvare, salvata. Non c'è argomento sul quale i governi non vengano incalzati (spesso in stretta collaborazione con le altre più giovani associazioni, Wwf e Lega Ambiente): dall'abusivismo alla difesa del suolo, dalla piaga delle cave che triturano l' Italia (ma il colossale cementificio di Acquasparta è stato sventato) al regime dei suoli, ai problemi dell'energia (risparmio e uso delle fonti rinnovabili). Decisiva l'azione a sostegno del decreto, poi legge, Galasso. Ma, nonostante una sempre più diffusa coscienza ambientale, si assiste oggi in Italia a una nuova, massiccia violenza contro il territorio. Si vogliono stanziare decine di migliaia di miliardi per nuove autostrade, si invocano nuovi grandi porti turistici, i piani edilizi sono sovradimensionati senza rapporto coi reali fabbisogni: e questo nel Paese dello spreco, che vanta una trentina di milioni di stanze in più degli abitanti e un chilometro e mezzo di strade ogni chilometro quadrato, e consuma 150.000 ettari di terreno agricolo all'anno. Occorre convincersi che il territorio è una risorsa scarsa e irriproducibile, ha detto il presidente di Italia Nostra Giorgio Luciani, e che ogni sforzo va fatto per subordinare ogni ipotesi di "sviluppo" alla rigorosa salvaguardia delle aree verdi, ambientali, naturali, agricole, che devono diventare i capisaldi irrinunciabili della pianificazione. Cemento e asfalto sono palliativi per la stessa occupazione: la quale può trovare impieghi duraturi in interventi di tutt'altro genere, quali il risanamento del suolo, il rimboschimento, la gestione delle aree protette, il restauro dell'edilizia antica. Questa è l'unica prospettiva realistica per l' avvenire.

Lo stato versa un milione e 394mila euro ai privati. E compra un pezzo di storia della Regina viarum: il casale di Santa Maria Nova e gli annessi tre ettari di verde - sotto cui probabilmente dorme il fastoso giardino di una villa romana - che un tempo erano annessi al complesso della magnifica dimora dei Quintili. Ma intanto annuncia che nella villa di Capodibove, vicino a Cecilia Metella, «a giugno sarà inaugurato il Centro di documentazione dell’Appia antica. Sarà intitolato ad Antonio Cederna e il suo archivio verrà ospitato nella dépendance appena restaurata, in attesa che siano completati, entro l’anno, i lavori dell’edificio principale».

Lo ha spiegato ieri Rita Paris, direttrice dell’Appia antica per la Soprintendenza archeologica, presentando l’acquisizione di Santa Maria Nova. Il casale, sorto intorno a una cisterna e una torre d’età adrianea, diventerà spazio mostre, centro studi e struttura d’accoglienza per i visitatori della villa dei Quintili. «Dobbiamo coniugare conservazione e fruizione pubblica» ha detto il soprintendente archeologo Angelo Bottini. Che - dopo aver «reso merito ad Adriano La Regina», suo precedessore, per l’acquisto messo a segno dopo cinque anni di trattative - ha spiegato il senso di un’operazione opposta alla logica di alienazione ai privati: «Solo allargando la proprietà demaniale, si può fare tutela del territorio e aprirlo al pubblico».

Gli ultimi abitanti del casale di Santa Maria Nova erano clandestini romeni, sgomberati dai carabinieri due settimane fa. Il complesso del XII-XIII secolo era del resto abbandonato da una ventina d’anni. Nel dopoguerra era stato trasformato, con diverse aggiunte, in villa da sogno (vi hanno abitato Roger Vadim e la Bardot). E di fantasmi. La proprietaria che l’ha venduta allo Stato, missis Kimble, ha raccontato che in certi giorni era possibile ascoltare strani canti di bambina. Era forse lo spirito della fanciulla romana, la cosiddetta Tulliola, trovata nel 1485 dai monaci olivetani in un sarcofago, e dissoltasi a contatto dell’aria. È l’unica scoperta, per quanto leggendaria, avvenuta nell’area. Ma ora, finiti i lavori di bonifica ambientale (c’è di tutto, frigoriferi, water, amianto), partiranno gli scavi archeologici. Intorno e dentro al casale. Ma anche in tutta l’area, fino all’altra cisterna, riprodotta dal Piranesi in una bellissima tavola.

«Inizieremo il mese prossimo, dal cumulo di terra che potrebbe celare un ninfeo o un’altra architettura del giardino. Poi passeremo all’ambiente ipogeo, pieno d’acqua, che potrebbe essere un criptoportico», spiega Riccardo Frontoni. All’archeologo, già impegnato con altri colleghi ai Quintili, brillano gli occhi davanti ai muri in opus reticulatum sommersi da vegetazione e rifiuti. Ma, lì sotto, potrebbe riposare qualche altra fanciulla romana. Magari di marmo.

Antonio Cederna è stato un archeologo che, per amore della bellezza da salvare, divenne giornalista, urbanista, organizzatore culturale, attivista di associazioni, parlamentare, pubblico amministratore.

Nato a Milano il 17 ottobre del 1921, si è laureato in archeologia classica all’Università di Pavia ed ha conseguito il diploma alla scuola di perfezionamento di Roma. Divenuto nel 1950 collaboratore de Il Mondo, rivista diretta da Mario Pannunzio, si è dedicato, dalle colonne del settimanale, alla denuncia sistematica e puntuale di quanto, nei fatti e nei progetti, metteva a rischio i beni culturali, il paesaggio e la natura del nostro paese. Da allora in poi è stato portavoce e protagonista di una serie di battaglie – alcune delle quali memorabili – contro le manomissioni dei centri storici (a cominciare da quelli di Roma e Milano), l’indiscriminata cementificazione delle coste, la distruzione della natura, l’espansione incontrollata e priva di qualità delle aree urbane. La vicenda alla quale è maggiormente legato il suo nome riguarda la salvaguardia del comprensorio dell’Appia Antica dall'espansione edilizia, alla quale ha dedicato l’impegno di una vita, come testimoniano gli oltre 140 articoli scritti nell’arco di quarant’anni.

Come giornalista, ha collaborato con Il Mondo fino al 1966, con il Corriere della Sera, dal 1967 al 1981 e, successivamente, con Repubblica e l'Espresso. I Vandali in casa, Laterza, 1956; Mirabilia Urbis, Giulio Einaudi, 1965; La distruzione della natura in Italia, Einaudi, 1975; Brandelli d'Italia, Newton Compton, 1991, costituiscono raccolte ordinate e commentate degli articoli pubblicati sui giornali e su alcune riviste di settore. Ha pubblicato inoltre Mussolini urbanista, Laterza, 1979, dedicato alla ricostruzione storica, in chiave fortemente critica, delle più clamorose manomissioni del centro storico di Roma operate durante l’epoca fascista.

E’ stato tra i fondatori, nel 1955, dell’associazione culturale Italia Nostra, di cui è stato consigliere nazionale dal 1960, presidente della Sezione Romana dal 1980, socio onorario, editorialista del Bollettino. E’ stato membro della VI sezione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, consigliere comunale a Roma dal 1990 al 1994, deputato della Sinistra Indipendente dal 1987 al 1992. Come parlamentare ha promosso, in particolare, la proposta di legge per Roma capitale, la legge quadro sulle aree naturali protette e sulla difesa del suolo. Nel 1993 è stato nominato Presidente del Parco dell'Appia Antica e negli ultimi anni della sua vita si è battuto duramente per far decollare il parco.

Più di ogni altra cosa, Cederna deve essere considerato come un grande urbanista moderno. Nei suoi scritti e nei suoi interventi, la difesa del patrimonio storico e ambientale, della storia e della bellezza, costituisce il fondamento della costruzione del presente e del futuro, affidata alla pianificazione urbanistica, strumento indispensabile per “impedire che il vantaggio di pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità”. Ironico, implacabile nella denuncia, nei suoi scritti ha utilizzato volutamente “la polemica acre e violenta, la protesta circostanziata e precisa, lo scandalo sonoro”, finanche l’invettiva. Nelle sue parole traspare soprattutto l’intransigenza, intesa come serietà, come rigore, come “forte posizione moralistica” perchè, come ha sostenuto con amara ironia, “in un paese di molli e conformisti, la rivolta morale può essere almeno un elemento di varietà”.

Sono passati dieci anni da quando Antonio Cederna ha lasciato per l’ultima volta Roma per la Valtellina, nell’estate del 1996.

In questo decennio a Roma, per iniziativa del sindaco Francesco Rutelli, è stata intitolata a Cederna una terrazza di fronte alla basilica di Massenzio e al Colosseo, là dove esisteva la collina della Velia, distrutta all’inizio degli anni trenta del XX secolo per aprire via dell’Impero, da piazza Venezia al Colosseo. Così aveva descritto quel luogo in “Mussolini Urbanista” (Laterza, 1979 pag 189): “Bisogna adesso in qualche modo provvedere a rabberciare la parete risultante dal taglio della collina. Uno degli archeologi più intronati propone che “a decorazione dei moderni sostegni” della Villa Rivaldi sia posta “una colossale protome di elefante primigenio, scolpita nel marmo o fusa nel bronzo” a ricordo dei fossili scoperti: una specie di trofeo nel salotto di un cacciatore. Avrà invece la meglio il Muñoz che provvede da par suo alla sistemazione che ancora oggi si può ammirare: un muraglione in mattoni con nicchie, con doppia scala cieca, decorata da dodici grosse palle di pietra. Una foglia di fico al posto di quello che era stato uno dei giardini rinascimentali più belli di Roma”. (L’archeologo citato era G. Marchetti Longhi).

Non sappiamo se Muñoz si sia rivoltato nella tomba quando è stato posto il nome di Cederna su quella terrazza; certo quella decisione è stata variamente commentata. Da una parte si poteva considerare come uno sbaglio di cattivo gusto: quasi si fosse posta una lapide con il trionfale proclama vittorioso di Diaz non a Vittorio Veneto, ma a Caporetto. Da un’altra parte si poteva invece pensare non tanto a un cippo funerario, quanto a una sfida: proprio là dove era stato compiuto uno dei peggiori misfatti denunciati da Cederna (assieme a Borgo, all’Augusteo-Ara Pacis, al Campidoglio), adesso campeggiava il suo nome ad indicare un futuro diverso ed opposto.

E la scelta di quel luogo da parte dell’allora Sindaco poteva confermare la svolta indicata qualche tempo prima dal sindaco Luigi Petroselli, di cui Cederna citava spesso una frase: “Oggi si dice ancora: dato che abbiamo tante macchine, dato che abbiamo queste strutture viarie, vediamo un po’ che cosa si può fare per campare. E invece va detto: dato che non si campa più, veda un po’ la tecnologia, veda la tecnica del trasporto che cosa si può fare, studi, si adatti, si subordini” (“L’Unità” 05/04/1981).

Dato che la Terrazza Cederna è lì, vediamo cosa è stato fatto (e cosa non è stato fatto).

Guardando a destra si vede che sono stati scavati i fori di Nerva, di Augusto, di Traiano, di Cesare, tra via Alessandrina e i Ss. Luca e Martina. Sono venute fuori le cantine del quartiere costruito nel primo ventennio della Controriforma, riempite con i materiali di demolizione dei piani superiori (per risparmiare negli anni trenta il trasporto alle discariche); poi è venuto fuori qualche insospettato edificio dell’Alto Medioevo; poi sono venute alla luce le tante parti dei fori imperiali rimaste sotto l’asfalto e le aiole (e si è visto che non pochi complessi erano diversi da come gli archeologi e gli storici avevano faticosamente ipotizzato); infine si è visto anche qualcosa anteriore alle opere imperiali, repubblicano o magari risalente alle opere idrauliche etrusche.

Dunque aveva ragione Cederna (e Petroselli): valeva la pena.

Guardando davanti alla terrazza Cederna, si vedono gli scavi in corso del foro di Vespasiano - completamente ignorato - che rivela non solo pezzi di gigantesche colonne, ma interessantissimi pavimenti a mosaico e tarsie. Ci si accorge però che altre cose non sono state fatte. Il grande rettifilo piazza Venezia-Colosseo è ancora lì con il suo traffico e spacca ancora in due la grande zona archeologica centrale, impedendo la vera nascita del grande parco Archeologico dal centro all’Appia antica. E si vede che si è dovuta puntellare con giganteschi tiranti d’acciaio addirittura la basilica di Massenzio, messa in crisi dal traffico pesante: la corsia riservata agli autobus è proprio adiacente alla basilica, su un tratto d pavimentazione tra i più disastrati di Roma. Quanto bene facciano le continue vibrazioni ai resti millenari, non è difficile immaginarlo.

Se dalla terrazza si gira lo sguardo di fianco si vede Palazzo Rivaldi (il “Convento occupato” del ’68): sempre più abbandonato e rovinato, con l’acqua che scende dalle grondaie sfasciate e le finestre chiuse con mattoni per sostituire gli infissi scomparsi.

Da trent’anni, ogni tanto i giornali annunciano trionfalmente (come sempre quando una notizia è campata in aria) che il palazzo finalmente è stato venduto, acquistato, che cominciano i restauri, che sarà un museo... (che sarà inaugurato il 21 aprile).

Quando ciò avverrà chi calcolerà i soldi spesi in più dal Comune o dallo Stato per questi decenni di degrado crescente ed esponenziale?

Immaginiamo che Cederna guardi per finire dalla sua terrazza verso il Colosseo: vedrebbe innanzitutto tanti gladiatori e scriverebbe uno dei suoi pezzi furiosi, ma ironici: era un giornalista che sapeva come l’ironia può essere terribile. Dietro ai gladiatori c’è il Colosseo e qui forse Cederna si sarebbe rallegrato perché una parte è stata dedicata a mostre, ma forse avrebbe protestato per il contenuto (o per la FORMA) di qualcuna un po’ troppo vanesia e dedicata solo alla propaganda di un progetto di mantenimento del rettifilo sopra e contro la zona archeologica.

Ma Cederna sapeva guardare lontano e (lasciando perdere l’Ara Pacis e il continuo sproloquiare su parcheggi sotto ai lungotevere) si compiacerebbe per l’avvio (anche se lentissimo, ma ormai si spera senza rischi) del Parco dell’Appia Antica e soprattutto perché c’è e funziona un’opera che fu lui a “lanciare” quando era consigliere comunale; l’Auditorium al Flaminio (a proposito perché non intitolare anche lì qualcosa a Cederna? Magari proprio l’area archeologica scoperta lì dentro).

Un passo avanti e due indietro, questo l’andamento della politica italiana, già tanto precaria, in materia di tutela paesistica e territoriale. Non avevamo fatto in tempo a rallegrarci per la legge urbanistica approvata ai primi d’aprile dal consiglio regionale sardo, ed ecco che sabato scorso il Consiglio dei ministri la boccia con motivazioni inconsistenti e la restituisce al mittente: a una regione che finalmente e dopo gravi ritardi predispone efficaci misure contro il dilagare del cemento, lo Stato risponde con cavilli cedendo, è ovvio supporre, alle pressioni delle forze che traggono le loro fortune dal saccheggio di quella risorsa scarsa e irriproducibile che è il territorio. La legge sarda bloccava infatti l’assalto edilizio alle coste: in sostanza, e per semplificare, prescriveva la loro inedificabilità temporanea (per due anni), in attesa della predisposizione dei piani paesistici. Una prescrizione del tutto ragionevole e da gran tempo auspicata, se appena consideriamo lo stato di fatto e di progetto. Pensiamo che 20 milioni di metri cubi sono già stati costruiti, e altri 50 circa sono previsti dagli sgangherati strumenti urbanistici dei sessantotto comuni costieri: se questa folle previsione venisse realizzata, i 1.569 chilometri delle coste sarde verrebbero sommersi, devastati, privatizzati, sconciati, distrutti sotto un ininterrotto tavoliere di cemento e asfalto, per ospitare oltre un milione e mezzo di turisti, (in pratica raddoppiando in un sol colpo la popolazione dell’isola). Con la legge che blocca l’edificabilità per due anni la Regione Sardegna ha voluto sventare questa autentica soluzione finale delle più belle coste del Mediterraneo, prendere il tempo necessario a riesaminare piani, lottizzazioni e convenzioni per sottoporli a elementari principi di pianificazione: insomma, opporsi al dilagare dell’urbanizzazione selvaggia dettata solo dal capriccio della speculazione e disastrosa, oltre che per territorio ambiente paesaggio, anche per l’economia in generale, perché fatta per tre quarti di seconde case, perché crea pochissimi posti di lavoro (un addetto ogni quaranta posti letto) e perché scarica sulla collettività i costi di servizi e infrastrutture. Bocciando la legge, il governo torna a rendere possibile quella sinistra prospettiva. E lo fa con proterva insipienza, come ha osservato il presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica Edoardo Salzano: infatti, quello che più colpisce è l’improprietà delle motivazioni addotte. Dice il governo che la legge sarda è in contrasto con l’ordinamento giuridico dello Stato, in particolare con gli articoli 41 e 42 della Costituzione. Sono gli articoli che regolano i modi di acquisto e di godimento e i limiti eccetera della proprietà privata: e quindi non hanno nulla a che fare con la legge in questione, la quale, anziché in contrasto con l'ordinamento giuridico dello Stato, non fa che attuare una legge dello Stato, in vigore da quattro anni, la legge Galasso. Una legge che ha vincolato intere categorie di beni territoriali (parchi, foreste, montagne, coste di mare fiumi laghi) in quanto irrinunciabile patrimonio di bellezze naturali; e ha sottoposto vasti territori a inedificabilità temporanea, in attesa dei piani paesistici regionali (che poi ben poche regioni, in testa l’Emilia-Romagna, abbiano provveduto, è un altro discorso). Non solo: la legge regionale sarda è perfettamente conforme a una famosa sentenza della Corte Costituzionale, la n. 56 del 1968, che ha sancito la piena validità dei vincoli ambientali in quanto tutelano territori che sono di per sé, originariamente, di interesse pubblico; e ha affermato a tutte lettere che la pubblica amministrazione può anche proibire in modo assoluto di edificare, e in tal caso non comprime alcun diritto sull’area, perché quel diritto è nato con il corrispondente limite e con quel limite vive. Un principio che è stato ribadito in un’altra sentenza di tre anni fa, quando la Corte ha affermato che l’attività urbanistica deve essere piegata a realizzare il valore estetico-culturale del paesaggio, la cui tutela è uno dei principi fondamentali della Costituzione (articolo 9): perché il paesaggio costituisce un interesse primario e prioritario al quale vanno subordinati tutti gli altri interessi, compresi quelli economici. Tutto ciò viene negato dal governo, che dopo essere stato per anni incapace di esercitare le sue funzioni di indirizzo e coordinamento in materia di assetto del territorio, mette ora i bastoni tra le ruote di una regione che ha fatto una buona legge. E la Sardegna resta senza legge urbanistica, il tempo dei piani paesistici si allontana (intanto sarebbe bene che la regione rinunciasse a iniziative deleterie, come il porto turistico a San Teodoro e ai campi da golf che spianano la macchia mediterranea). Si vede che a Roma si sono rifatte vive le forze economiche che in consiglio regionale erano state battute (contro la legge avevano votato democristiani, missini e qualche cane sciolto franco tiratore): adesso torneranno alla carica le immobiliari, il Consorzio Costa Smeralda tornerà a pretendere qualche milione di metri cubi in più in comune di Arzachena, e così pure farà la Fininvest per il villaggio Costa Turchese a Olbia (un investimento di mille miliardi) con tanto di premi di cubatura. E di com'erano le coste sarde ci resteranno solo le vecchie cartoline.

C*** non è Troia: se Schliemann poté buttare addosso a sua moglie i gioielli di Elena, qui bisogna accontentarsi, dopo una giornata di scavo, di una mezza dozzina di sottilissimi anelli di bronzo, senza sigillo, e di un paio di braccialetti a spirale, indizio della povertà di quel popolo nel secolo di Pirro e di Annibale.

Il melo accanto al quale, appena scesi dal treno, cominciammo a scavare, aveva superato i cinquant'anni e doveva la sua vita a un fatto inconsueto: proprio nel punto dove ora affondavano le sue radici screpolate, il proprietario del terreno aveva scoperto per caso durante certi lavori agricoli, sul finire del secolo scorso, un buon numero di teste stravaganti, e forse molto antiche, di terracotta che lo avevano lasciato interdetto e sorpreso; infine aveva deciso, con notevole senso di equità, di tenersene alcune, di regalarne altre agli amici e di vendere il resto allo Stato. Queste ultime, come capitava e capita spesso, furono di nuovo seppellite e dimenticate nei sotterranei di qualche museo; le prime invece, diventate presto un ottimo bersaglio per sassate e tiri a segno, sempre meno rispettate col passare degli anni, relegate nelle soffitte, nelle stalle e nei granai, scomparvero definitivamente dalla circolazione con l'ultima guerra, che ha distrutto tutto quanto poteva del paese di C***. Restava soltanto il melo, che il vecchio contadino con molta accortezza aveva voluto piantare a ricordo della sua fortunata scoperta.

Il primo sentimento che si prova, quando si comincia a scavare, è molto vicino alla vergogna. Per un paio d'ore i quattro operai ebbero da fare col prato: il piccone dava un suono sordo, le zolle d'erba rotolavano via molli, districandosi a stento, e non si vedevano che vermi. Faceva male pensare che quella terra dove per tanti secoli si era onestamente arato, zappato e falciato, venisse ora sconvolta per uno scopo tanto diverso e di esito così incerto, come era la nostra pretesa che essa producesse, oltre al grano, alle fave e alle patate, qualche testimonianza della civiltà degli Equi dopo la conquista romana. I movimenti degli operai sembravano goffi, quasi una caricatura del normale lavoro dei campi, la loro fatica eccessiva e assurda come la nostra impresa archeologica: per buona fortuna nessuna curiosità mostravano i carrettieri seduti sui loro carri di letame, mentre sulla strada provinciale salivano verso il paese (ne vedevamo solo le teste, sul pelo del prato), né gli scarsi passeggeri ai finestrini dei treni quando, ogni due ore, al di là della rete metallica, ci passavano accanto. Qua e là nell'erba qualche bossolo di mitragliatrice: a valle, oltre il cimitero con la sua chiesa romanica sconsacrata, scorreva in silenzio un magro torrente nel suo letto troppo ampio.

Ma viene sempre il momento che il terreno fertile finisce e la musica cambia; la punta del piccone diede a un tratto un suono più nitido e il lavoro divenne più risoluto: a sessanta centimetri di profondità era comparsa una fascia di argilla molto chiara, dura e compressa e gli operai cominciarono a sudare, a rizzarsi spesso sulle reni, a bere l'acqua dalla bottiglia e a parlare. Uno di essi si mise a rievocare, come un paradiso perduto, gli anni di prigionia in Inghilterra, quando si rifiutava di lavorare, quando faceva a pugni con i sorveglianti, quando godeva della compiacenza delle donne e approfittava della loro delicatezza, per cui «ci mettevano in tasca tre scellini, prima di entrare al cinema, perché fossimo noi a pagare anche per loro». Intanto, ai lati della fossa ormai ampia e regolare e profonda più di un metro, i mucchi della terra buttata andavano acquistando proporzioni rassicuranti.

La prima giornata di lavoro era vicino alla fine e non restava che rimandare all'indomani la voglia di sapere cosa c'era sotto a quell'argilla così dura e compressa, e noi stavamo guardando accendersi le prime luci nelle case raggrumate in cima ai colli più lontani già abbandonati dal sole, quando l'ex-prigioniero degli inglesi si mise ad urlare: «è maschio, è maschio», e intanto brandiva in alto con la mano sinistra qualcosa di molto piccolo: un giovinetto di bronzo, nudo, alto dieci centimetri, liscio e lucente, con un braccio alzato come per arringare la folla e imporle di tacere. Quel grido ne aveva salutato la rinascita al mondo dopo due dozzine di secoli: insieme, una moneta romana del terzo secolo a.C., con il pingue profilo di Mercurio sul dritto e una prua di nave sul rovescio, era un indizio molto eloquente di storia politica e militare. Ormai sotto l'argilla chiara, alla profondità di un metro e mezzo, era affiorato lo strato antico, fatto di terriccio scuro e friabile misto a detriti di carbone, ossa di animali, frammenti di terracotta e pezzetti di ceramica nera: sotto ad esso si sarebbe trovato, in seguito, il terreno vergine, bello e compatto. I quattro strati (terreno fertile, argilla sterile, strato antico, terreno vergine) si sovrapponevano nell'ordine con regolarità elementare.

Lo strato antico, trovato nel campo di C***, giace a un metro e mezzo o due di profondità e si estende per parecchie decine di metri quadrati come una grossa coltre, regolare nello spessore (trenta-cinquanta centimetri) e nella distribuzione degli elementi che lo compongono: è un deposito del terzo secolo prima di Cristo, formato da oggetti votivi di bronzo, ferro, ceramica e terracotta, mescolati insieme. Questi oggetti votivi erano stati esposti probabilmente in un edificio sacro non lontano che non ha lasciato traccia di sé fino a quando, a un dato momento, forse per ragioni di guerra, la località dovette essere abbandonata da un giorno all'altro: allora, per salvarli dalla dispersione, si pensò di nasconderli e di seppellirli, e bronzo, ferro, ceramica, terracotta, tutto venne ammucchiato alla rinfusa in gran fretta, senza badare all'integrità dei pezzi più fragili, portato via, scaricato e livellato con una certa cura, in modo da formare appunto lo strato in questione, nel luogo dove è stato scoperto: da quel momento a tutto il Mille nessuno più era andato ad abitare a C***.

Questo strato si lascia staccare a grossi blocchi: da ognuno di essi che l'operaio solleva come un neonato e poi rompe, frantuma e fruga con grande attenzione (un vero concentrato di vita antica, e gli operai, chiamandolo tenacemente «estratto», peccano appena contro il vocabolario, non contro la realtà delle cose), saltano fuori le sorprese: un dito, tre occhi, un pezzo di piede, un frammento di testa coi capelli a riccioli, un paio di monete di bronzo di Roma o della Campania, il manico di una minuscola anfora, una punta di ferro, una testina femminile grande come una noce, un chicco di collana di pasta vitrea blu striata di giallo: tutte cose che rivelano sinteticamente, anche a C***, la pietà popolare degli antichi italíci. È l'aspetto più caratteristico di una civiltà singolarmente uniforme, diffusa negli ultimi tre o quattro secoli della repubblica romana nell'Etruria meridionale, nel Lazio, nella Campania, quale ci è stata resa nota dai vecchi scavi, per lo più non sistematici, di Veio, Cerveteri, Civita Castellana, Conca, Nemi, Palestrina, Roma stessa, ecc.: si tratta sempre di grosse quantità di ex voto, che i fedeli offrivano nei luoghi sacri, e che consistevano in oggetti di uso comune (monete, armi di bronzo e di ferro, ornamenti personali, vasi di ceramica ecc.) oppure in riproduzioni intere o parziali o soltanto allusive, generalmente di terracotta, del devoto stesso o delle cose che gli premeva fossero protette dalla divinità.

Soddisfatto di una somiglianza del tutto simbolica, il devoto comprava dal fabbricante di terracotte, che in ogni paese aveva la sua bottega vicino ai luoghi di culto, una statua sommariamente lavorata, che lo potesse rappresentare davanti agli occhi della divinità, oppure, caso più frequente, si accontentava della sola testa grande al naturale o di una quasi-testa con solo la faccia modellata, di una mezza testa di profilo, di una testa minore del vero, di una mezza faccia (come una mascherina), secondo quanto gli suggerivano le sue possibilità e il fervore della sua fede: l'artigiano aveva le forme pronte e ne cavava quante teste voleva e, secondo il prezzo, decideva se valeva la pena di eseguire ritocchi, di variare una ciocca di capelli, di incidere l'iride o la pupilla (nella maggioranza dei casi lo giudicava superfluo). Ma la bottega del fabbricante di terrecotte era un campionario di pezzi anatomici: dita, mani, piedi, gambe, braccia, bustí con i visceri in mostra, mammelle, uteri, genitali maschili e femminili, orecchi, soprattutto occhi: singoli a forma di mandorla o rotondi con tutta l'orbita, oppure a coppie, come quelli d'argento che ancora oggi si vedono in Sicilia nelle cappelle di S. Lucia; e c'erano pure piccole statue di buoi, cavalli e maiali per chi aveva avuto il bestiame salvo da infezioni, e c'erano le imitazioni delle «tanagre» greche, che potevano rappresentare sia la divinità sia la pia donna che le dedicava: molti infine se la cavavano offrendo un semplice peso da telaio. Tutte queste antiche sacre terrecotte, una volta appese ai chiodi o collocate per terra o su mensole nei santuari, e poi seppellite quando erano diventate ingombranti o quando si era dovuto sgombrare per ragioni urgenti, oggi sono nel migliore dei casi esposte negli scaffali più bassi e peggio illuminati delle vetrine dei musei, dove, se il visitatore non è abbastanza giovane per permettersi ripetuti piegamenti, nessuno le guarda più. Va da sé che esse, quando venivano trovate, scomparivano regolarmente a centinaia e a centinaia regolarmente ricomparivano nelle collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, da Madrid a Copenaghen.

Scavare stanca. La punta del piccone (o la penna, a seconda che vuole il lavoro) non va persa di vista per un solo momento: occorre spiegare agli operai il pregio e il significato dei pezzi che trovano, e, poiché lo capiscano subito, frenare la loro impazienza, convincerli che non devono tirare apppena spunta un'unghia, ma indurli a lavorarci intorno adagio perché, dietro l’unghia, può seguire tutta la mano, abituarli a moderare il loro entusiasmo; a non disprezzare le terrecotte per le monete, il ferro per l'argento, la ceramica per qualche bella statuina di bronzo.

Occorre aver sempre sottomano un quaderno per scrivere e descrivere tutto quanto merita, disegnare e misurare quote e livelli, occorre fare fotografie, anche perché si sa che alla sera, dopo otto ore di lavoro, nello stato di leggera demenza in cui ci si trova, tutto si confonde nella memoria. Ogni frammento va ricordato e tenuto d'occhio perché può attaccare, a distanza di ore, con un altro: bisogna, appena è il caso, procedere a difficili e provvisori tentativi di ricomposizione dei pezzi peggio conservati (in questi interventi eccelle il mio amico Lucos, che molto precocemente, a cinque anni, si con; all'archeologia trangugiando un cucchiaio di polvere di mattone delle mura di Aureliano).

Bisogna subito dividere e ordinare gli oggetti secondo quello che sono o la provenienza, riempire buste, cartocci, scatole, casse e cassette (non si ha l'idea dello smisurato numero di recipienti necessari a chi scava e che non si trovano mai). Bisogna spiegare con garbo alla gente che viene a vedere, e rispondere alle sue domande: che non si può dire esattamente cosa si comprava con quelle monete, che «a quei tempi l'oro lo conoscevano», che non si trovano «ossa di cristiani», che prima di Cristo gli anni non crescono ma calano, che non è come a Pompei, che Nerone non c'entra: ascoltare Ie sue meraviglie («però ci sapevano fare» oppure indifferentemente «quelli si che ci sapevano fare») e le storie più strampalate di terremoti che scoprono «mausolei», di statue che parlano, di tesori ingenti nascosti dai galeotti nel cavo degli alberi; persuaderla infine che, anche se non si trovano «anfore piene di marenghi», lo scavo può essere ugualmente interessante.

Le fatiche di chi scava sono però alleggerite da alcune occupazioni tranquille. Dà un gusto speciale prendere in mano una testa di terracotta, dopo averla un poco lasciata seccare al sole, e cominciare a pulirla con uno stecchino dalle incrostazioni: la terra indurita, se la si forza nel senso giusto, schizza via lasciando apparire a poco a poco le palpebre, le labbra, il lobo dell'orecchio coi loro bei contorni netti, alle volte si scopre una piccola fossa nel mento o due rughe sulla fronte o addirittura le impronte digitali dell'artefice antico: la testa ci guarda indifferente a occhi sbarrati, e l'archeologo partecipa un poco del compiacimento dell'artista di fronte alla sua opera. Mai adoperare, per lavori del genere, punte di metallo (temperini o spilli): si finirebbe per sfregiare irrimediabilmente tante piccole fanciulle d'argilla, sfigurando l'ammirevole fluire delle pieghe dei loro mantelli, le ghirlande di foglie d'edera o di vite che portano in testa, i loro minutissimi e patetici lineamenti, i loro graziosi cappelli: è necessario farsi le mani delicate come quelle della regina di Brobdingnag, quando sollevava sorridendo Gulliver e conversava con lui. Gli operai le chiamano immancabilmente pupazze, e anche qui dicono giusto: in Grecia esse erano spesso delle vere bambole che venivano chiuse, quando ormai non servivano più, nelle tombe delle ragazze morte nel fiore degli anni. Se invece sfreghiamo col pollice i fondi sbrecciati delle coppe che una volta avevano versato vino o latte sugli altari, scopriamo impressi i marchi di fabbrica, la palmetta, la stella, la foglia, il fiore a otto petali, il delfino, il granchio, il pentagono, limpidi come segni dello zodiaco. Sfreghiamo tra pollice e indice le monete che ci allunga l'operaio dopo essersele passate sui calzoni e averle osservate in silenzio, e scommettiamo quello che apparirà: se il profilo di Mercurio o quello di Minerva, sulle monete di Roma; se il leone che si strappa la freccia conficcata nelle fauci o il pegaso galoppante, su quelle romano-campane; se il toro con la barba che incede dignitoso mentre una vittoria gli svolazza sopra la testa o il gallo impettito, sulle monete di Napoli, di Teano, di Suessa.

Ma bisogna vigilare, perché son lavori pieni di tentazioni. Potrebbe capitare di lasciarsi andare al gioco o di restarsene li trasognati a ricamare con lo stecchino tra i riccioli di una testa o a rigirarsi oziosamente tra le dita il dignitoso toro barbuto, come vecchi cinesi al tramonto sull'uscio di casa, se non ci rendesse vigili, al momento giusto, una corta bestemmia di meraviglia: segno che l'operaio, interrompendo la descrizione dei suoi traffici al tempo dei tedeschi o l'elogio delle belle del paese, ha incontrato qualcosa di particolarmente degno della sua ammirazione, per esempio una figurina di bronzo. Ora è una antica donna di C***, che ha comprato dal fonditore la propria immagine da offrire alla dea preferita: indossa una lunga tunica con la cintura alta sotto il seno, in testa ha il diadema, con la mano destra regge la patera mentre l'altra è portata fiduciosamente al fianco; ora è un timido devoto contadino con la frangia sugli occhi che si è coperto il capo col mantello; ora è un piccolo Marte nudo con il pennacchio dell'elmo che gli scende in mezzo alle spalle; ora è un Ercole baldanzoso che avanza a grandì passi agitando la clava e proteggendosi col braccio sinistro, da cui pende la pelle del leone nemeo. É bene allora, col fiasco che sta in bilico sull'orlo della fossa, fargli una doccia di vino bianco, e il giovane dio infaticabile risplende sotto il sole d'ottobre, col suo corpo agile e snodato, rifinito con precisione nei capelli, nel volto, nelle mani, verde come una lucertola, lucido e guizzante come un pesce che rimbalza sulla rete; l'attacco di un braccio un poco tirato via, la superficie troppo appiattita di una gamba, mostrano l'opera di artigiani indigeni, che lavorano in margine alla grande tradizione greca, ma con gli occhi ben attenti e un mestiere istintivamente felice. («Cosa resterà di noi fra mille anni?» chiede la gente: non più di una poltiglia di sacri cuori di gesso, pezzi di lapidi informi e sgrammaticate, la carta stagnola dei moccoli, qualche sgorbìo ìnfantile dipinto per scampato pericolo.)

C*** non è Troia: se Schliemann poté, cacciati via gli operai turchi, buttare addosso a sua moglie i gioielli dì Elena, qui bisogna accontentarsi, alla fine dì una giornata di scavo, di trovarsi alle dita una mezza dozzina di sottilissimi anelli di bronzo, senza sigillo, senza castone e ai polsi un paio di smilzi braccialetti a spirale, indizio della povertà di quel popolo nei secoli di Pìrro e di Annibale. Ma da tutta la complessa natura morta allineata davanti a noi, attorno ai margini della fossa, spira un'antica miseria. Sono i mucchi di occhi, dì teste, dì mani, di pìedì, dì animali domestìci frantumati; ì mucchi di coccì di piccolissime anfore, brocche, coppe, di minuscoli boccali, la ceramica di allora nelle sue più economiche varietà: verniciata di nero, stampigliata, per lo più grezza, con pochissimi pezzi dipinti; sono ì più grossi mucchi di ferro, puntali di lance e di frecce, rinforzi di ruote, collari, chiodi, ganci, uncini; sono i cartocci delle monete fuse e coniate (su cento di bronzo una è d'argento), degli oggettini dì bronzo, fibbie, fermagli, pendagli di collana, piccoli manici di vasi e di specchi, piedini di candelabro, frammenti di grattugie; sono i pezzetti di carbone, e le ossa degli animali sacrificati. E quando gli operai hanno smesso il lavoro, si perde la capacità di vedere e tutta questa roba si fa grigia e indistinta e verrebbe voglia di scegliere e scartare, se il primo comandamento dell'archeologo non fosse quello di non scegliere mai: lo aspettano mesi di laboratorio, in cui dovrà passare tutto alla lente, distinguere, classificare, confrontare, ricomporre, disegnare (potrà allora avere la sorpresa, grattando un coccio insignificante, di scoprirvi dipinta una dedica a Minerva, a Vesta, a Esculapio). Solo lo opprime il fatto che il «laboratorio» sarà inevitabilmente lo scuro scantinato di qualche museo, senza tavoli, senza seggiole, senza finestre. L'opprime anche per un istante lo spettro del dotto olandese, che ha scritto nella sua lingua centosettantacinque pagine assolutamente inevitabili intorno a certi vasetti neri in parte simili a quelli trovati a C***. Ma sono momenti di debolezza passeggera: il bello dell'archeologia è che la scoperta di un oggetto antico (qualora non si sia dei rètori crepuscolari in cerca di assurde evasioni) è un incontro semplice e immediato, come il risveglio di chi dormiva ancora perché dimenticato da noi, come ritrovare una cosa che ignoravamo d'aver perduta, ma che, appena ritrovata, sentiamo quanto ci era necessaria.

aprile 1951

Lo scavo fu eseguito a Carsòli lungo la Via Tiburtina (a una trentina di chilometri da Tivoli) insieme all'amico archeologo romano Lucos Cozza (oggi professore di topografia antica all'Università di Perugia). Il materiale scoperto è stato in parte pubblicato su «Notizie degli scavi di antichità», dell'Accademia dei Lincei, ed è conservato al museo

Nello stato fallimentare dell'urbanistica italiana, la crisi della città attuale è il simbolo di molti aspetti della crisi della società. Poniamoci una prima domanda: chi conosce la città, come e quanto la si conosce? Dobbiamo rispondere che, al di fuori di una percezione sommaria e in certo modo esterna, nella quale non si ravvisano neanche le prospettive meramente quantitative prescritte dai piani, tutto quello che intercorre all'interno di questo indeterminato tessuto ed è soggetto a una dinamica di movimenti e di situazioni in continua modificazione umana, sociale, economica, tutto questo non è studiato, non è controllato, non è seguito, quindi è ignoto. Se ci domandiamo chi comanda nella città, ancora non sappiamo rispondere. Quali forze siano responsabili della spoliazione sistematica ed ufficializzata dello spazio della città, è fin troppo evidente, almeno nella distruzione dei valori originari e fondamentali del paesaggio urbano e dell'ambiente. Nessuno potrebbe però descrivere il complesso interferire di forze e di interessi, di connessioni e di complicità che l'infinito numero di strumenti ed enti pubblici e privati sostengono e conducono ognuno per proprio conto. È una diagnosi che nessuno fa anche perché le risultanze che potrebbero scaturirne non convengono alle forze e ai personaggi in giuoco.

Da: Edoardo Detti, Firenze scomparsa, Ed. vallecchi, 1970.

Postilla

Il Bollettino di Italia Nostra n. 255/1995 nel quale viene ripubblicato questo passaggio di Edoardo Detti era dedicato alla vicenda Fiat-Fondiaria, la grande trasformazione della periferia di Firenze promossa dagli operatori immobiliari che, in un certo senso, possiamo definire la "madre" dell'urbanistica contrattata, se non altro per l'entità delle opere previste (diversi milioni di metri cubi) e per l'importanza dei proponenti. Il bollettino monografico fu curato da Antonio Cederna che chiuse l'editoriale con le parole seguenti:

"Da noi si contratta e si concerta mentre si rinuncia a qualsiasi potere contrattale e concertatore, che invece viene delegato e regalato ai privati. ... Sull'urbanistica italiana cala la tela".(m.b.)

Parlare di fotografia aerea e delle vie antiche parrebbe, inizialmente, un assurdo. La via antica è tracciata sul terreno e, con eccezione delle vie romane, raramente si potrebbe seguire un suo tratto conservato fino ai nostri giorni. Eppure, gran parte delle vie dell'Africa romana e del mondo etrusco sono state ricostruite grazie all'impiego dei rilevamenti aerei.

Chi ha seguito i recenti studi della Scuola Britannica di Roma dedicati alla viabilità nell'Ager Veientanus e nell'Ager Faliscus 1 avrà osservato l'uso che gli autori hanno fatto della fotografia aerea e delle ricognizioni sul terreno. La visione d'insieme della rete stradale e, spesse volte, dei piccoli tratti, difficilmente riconoscibili sul terreno ormai sconvolto dai lavori agricoli con mezzi meccanici potenti, sono stati evidenziati soltanto dalla fotografia aerea, di preferenza anteriore alle trasformazioni avvenute negli ultimi quindici-vent'anni [2]. Riportati sulla carta topografica tutti i punti in cui si era scavato in precedenza e tutti quelli che avevano dato luogo a rinvenimenti sporadici, si è cercato di stabilire il tessuto viario che li collegava, usufruendo a tale scopo di ogni copertura aerea di cui si disponeva. Si è arrivati così ad una visione organica di tutta una vasta zona ad occidente del Tevere, la quale, pur studiata minimamente da topografi di prima dell'ultima guerra o nel ventennio del secolo, appariva priva di collegamenti.

La fotografia aerea, grazie a quella vasta visione d'insieme che essa ci mette sotto l'occhio in un solo colpo, permette di scoprire i possibili varchi e guadi mentre lo studio stereoscopico ci immette nei più minuti dettagli del terreno. Una via antica, difficilmente rintracciabile nella ricognizione terrestre, si presenta nella fotografia aerea, sia come una traccia scura, nel caso in cui sull'antico solco si è depositato l'humus recente, sia come una fascia biancastra, nel caso in cui il vecchio tracciato è stato appena ricoperto da uno strato vegetale. Qualche volta, un antico tracciato è riconoscibile, sempre sulla fotografia aerea, come un taglio altrimenti impercettibile a terra, ben riconoscibile invece, per il suo andamento, nella visione dall'alto.

Dovendo chiarire il collegamento di alcuni centri urbani della Sicilia greca, non una sola volta ho constatato che una parte delle vie antiche è stata utilizzata fino a pochi anni addietro come semplici trazzere. Lungo queste trazzere della Sicilia, durante gli ultimi dieci anni, vennero identificate e in parte scavate numerose fattorie di età arcaica e classica. Spesse volte, sul posto di queste fattorie sono stati individuati piccoli villaggi preistorici. Riprendendo la ricostruzione della via antica tra una fattoria greca ed un’altra, è risultato che tra esse si trovano altri piccoli villaggi preistorici, molto più densi quindi di quanto non lo fossero le fattorie. Era chiaro perciò concludere che l'antica via di collegamento tra le fattorie doveva aver servito anche al collegamento tra un villaggio ed un’altro. Per meglio esemplificare, vorrei accennare al gruppo di fattorie greche della zona di Milingiana, ricca anche di villaggi della fase castellucciana e tutti quanti collegati da una serie di piccole arterie che si innestano in una grande che si diparte dalla zona di M. Desusino e si spinge a N fino vicino a Riesi [3].

In conclusione, prima di passare allo studio delle fotografie aeree per rintracciarvi vie antiche, è consigliabile conoscere la distribuzione di tutti i punti in cui sono avvenute scoperte archeologiche e fissarli sui mosaici aerofotografici. È possibile, in questa seconda fase di lavoro, poter scoprire altri centri, sconosciuti finora o appena indiziati da ritrovamenti precedenti. Questo tipo di lavoro si può chiamare di definizione di aree archeologiche per confronto. Se, infatti, si conoscono i caratteri specifici di un tipo di insediamento, ogni qual volta si riscontrano le stesse caratteristiche su un rilevamento aerofotografico si può supporre che si è di fronte ad una nuova scoperta il che arricchisce di più il tessuto degli insediamenti di una zona, mentre tutto può facilitare la ricerca delle vie di collegamento. La fotografia aerea, quindi, è uno dei mezzi di indagine, specialmente nel campo topografico. Ma affinché si possa avere una maggiore certezza di non essere in errore, è augurabile sempre di disporre di quanti più rilevamenti della stessa zona. Se le stesse tracce o anomalie si riscontrano su tutti i rilevamenti aerei, si può avere maggiore certezza di essere sulla buona strada nell'identificazione di un aggregato umano, di una via ecc.

Il materiale aerofotografico a nostra disposizione per la Magna Grecia è formato da una copertura aerea a scala approssimativa 1:35.000, da un rilevamento scala 1:8.000 [4], da altri diversi rilevamenti parziali a scale aggirantesi intorno a 1:25.000 eseguiti dallo S.M.A.M., o da altri enti aerofotogrammetrici. Come ho più volte osservato [5], tra tutti questi rilevamenti, ho preferito quelli più vecchi, eseguiti durante o immediatamente dopo la guerra. La trasformazione della superficie del Tavoliere è ancora oggi in atto ed è facile osservare il grande mutamento già avvenuto in questa zona tra il 1954 e 1958. Le lottizzazioni, i nuovi quartieri delle borgate agricole e, specialmente, l'uso intenso degli aratri meccanici sta trasformando continuamente e profondamente l'aspetto del Tavoliere. È preferibile quindi sfruttare, per la realizzazione di una mappa della distribuzione dei villaggi neolitici, i rilevamenti più vecchi. A questo proposito è da precisare che nessuno dei rilevamenti aerei a disposizione è stato eseguito a scopo archeologico, meno qualcuno destinato a piccoli tratti effettuato con l'elicottero o con l'aereo nel 1961 e 1962 [6]. Mi è mancato, quindi, il miglior rilevamento, quello eseguito appositamente da Bradford e utilizzato per l'illustrazione degli studi da lui già pubblicati [7], rilevamento che avrebbe potuto integrare ottimamente quelli su cui ho lavorato.

Il tipo del villaggio neolitico del Tavoliere è ormai ben noto a tutti. Attentamente studiato dal Bradford [8], esso si presenta con una serie di fossati all'intorno e con una serie di compounds all'interno. In tutti i rilevamenti, questi villaggi sono identificabili grazie ad una serie di tracce scure, resti delle trincee e delle palizzate, ricoperti da humus ricco in azotati utili alla crescita dell'erba (fig. 1). Ove questi villaggi sono stati danneggiati dai lavori agricoli per mezzo di trattori meccanici, essi si rivelano per una vasta macchia nera che si estende senza definizione di linee. Le loro tracce riempiono tutta l'area del Tavoliere, dalla linea di Serracapriola fino all'inizio delle Murge e dalle falde del Gargano e dalla riva dell'Adriatico fino alle prime propagini degli Appennini. Non una sola volta, sullo stesso posto, si sono susseguiti più villaggi, sovrapponendosi, con i loro fossati, l'uno all'altro, creando una serie di tracce scure che si accavallano in maniera del tutto chiara nelle fotografie aeree, di impossibile restituzione cartografica a terra.

A prima vista, questi villaggi lasciano l'impressione di una dispersione irregolare su tutto il Tavoliere. Soltanto dopo aver studiato tutte le coperture, dalle più vecchie alle più recenti, appare evidente invece una loro disposizione in punti ben stabiliti. Il maggior addensamento si verifica sul lato occidentale del Gargano, e precisamente sul lato SO. Tali agglomerati di villaggi continuano poi sempre più a SO, seguendo di preferenza la linea del Cervaro, oppure raggruppandosi in zone in cui si possono notare tracce di fiumi. È indiscutibile che essi non possono essere trovati se non nelle vicinanze di tracce di corsi o vene d'acqua.

È necessario, quindi, prima di affrontare il problema della disposizione dei villaggi preistorici, ricercare i corsi d'acqua ora scomparsi. Ed anche in questo caso, meglio di ogni altra ricognizione sul terreno, è la fotografia aerea che ci permette di rintracciarli. Basta qualche esempio per convincerci che non vi è corso d'acqua, oggi sparito, che non ci venga rivelato dalle aerofotografie. Un primo caso è quello del corso d'acqua che circondava la parte occidentale della città di Herdonia. Come si vede nella fig. 2, la sua traccia è ben evidenziata, mentre nella ricognizione a terra questa traccia è irriconoscibile. Anche altrove nel Foggiano si verifica lo stesso fenomeno: nel rilevamento aereo eseguito dall'IRTA, questi corsi appaiono talmente chiari da non poter minimamente dubitare della ricchezza d'acqua nel periodo preistorico in tutta la zona.

Stabiliti quindi questi corsi d'acqua si potrà passare finalmente allo studio degli aerofotogrammi per la ricerca dei centri preistorici.

Dallo studio comparativo di tutti i rilevamenti a disposizione è apparso evidente che i villaggi si dispongono di solito lungo i grandi corsi d'acqua e specialmente lungo quei fiumi la cui portata d'acqua è maggiore. Il primo grande corso d'acqua che attraversa, da NE a SO, il Tavoliere è il Cervaro. Ebbene, è proprio sul suo corso che noi troviamo un maggiore addensamento di villaggi. Anche quando questi vengono identificati in zone più lontane dal letto attuale del fiume, è chiaro che essi si trovano lungo affluenti minori, oggi completamente scomparsi ma rilevati dalla fotografia aerea.

Vi è anche il caso in cui i villaggi si trovano situati lontano da ogni corso d'acqua ma in questi casi la fotografia aerea ci indica nelle vicinanze le tracce di sorgenti. Qui (fig. 1) è visibile, accanto al villaggio, una lama, come queste sorgenti si chiamano in dialetto locale.

A N del Cervaro è il torrente Gelone il cui corso è disseminato interamente da stazioni preistoriche. Basta citare quelle comprese nel f. 164: Ponte di Lamis, Passo del Corvo, Pezza Grande ecc., per renderci conto della densità di questi centri. In età storica, anche Arpi nasce sul Celone, sul corso medio del fiume e la fisionomia della città, nei rilevamenti aerei, si rassomiglia moltissimo a quelle dei villaggi neolitici (fig. 3).

La stessa densità, e potrei dire maggiore, si verifica lungo il Cervaro. Dalla contrada Giordano, vicino alla Vasca del Tavoliere (f. 164), e fino alla Masseria Ponte Albanito si ha una vera catena di centri sistemati su un tratturo che scende dal Gargano e si prolunga a SO fino alla zona di Castelluccio dei Sauri (f. 175). Ad occidente di questa zona si possono contare due tratturi che accompagnano il Cervaro fino a Savignano di Puglia da dove scende fino alla Stazione di Ariano Irpino (f. 174).

Qualche fotografia aerea evidenzia con straordinaria efficacia i due tracciati. Ben difficile è la ricerca di questi tracciati ad 0 della Stazione di Ariano Irpino: da questo punto in poi il tratturo si disperde nelle numerose vie moderne che si dipartono in tutte le direzioni.

Un altro addensamento di villaggi si può osservare ancora più a 5 e precisamente sul torrente Carapelle. Tra i più importanti villaggi siti sul Carapelle vorrei menzionare quelli della zona di Inacquata (f. 164), quelli della zona La Speranza e Masseria Buonassisa (f. 164). Il tratto in cui meglio si conserva il tratturo lungo il Carapelle è invece quello compreso tra la Contrada Nannarone e Serra Pallino (f. .175), ben riconoscibile su quasi tutti i rilevamenti aerei. Più ad occidente non vi è nessuna possibilità di rintracciarlo ma è probabile che il tratturo si spingesse ancora più in là, a S del complesso di Trevico (f.174).

È evidente però che la prima grande arteria tra le pendici del Gargano e il mare e la zona degli Appennini è quella del Cervaro. Infatti, sia il tratturo del Celone che del Carapelle, non appena arrivati nella zona collinosa degli Appennini, tendono ad unirsi formando un’unica via di spinta da NE a SO. Tentare di creare una mappa dei villaggi e dei tratturi, nella loro totalità, mi pare, in mancanza dei rilevamenti eseguiti dal Bradford, un lavoro di grande impegno ma sempre incompleto. Il giorno in cui, accanto a tutti i rilevamenti di cui disponiamo oggi in Italia, potremo sfruttare anche quelli, si potrà avere un’idea più chiara di ciò che ha rappresentato il neolitico del Foggiano e le grandi vie di movimenti tra una punta e l'altra e cioè tra Gargano e mare da una parte e gli Appennini dall'altra.

Più a sud ancora, là dove iniziano le prime colline delle Murge, scorre l'Ofanto. Studiando l'area a N e a S del fiume, ci risulta che anche questa volta i villaggi si sono insediati nelle vicinanze dei corsi d'acqua, similmente a quanto era avvenuto più a N. È vero, però, che in questa zona non c'imbattiamo più nella densità riscontrata, per esempio, sul Cervaro. I centri appaiono questa volta sempre più diradati ma è altrettanto vero che la loro distribuzione avviene sempre su una linea che va da NE a SO. Seguendo questa linea è visibile la sparizione dei villaggi e quindi dei tratturi nelle vicinanze del Passo di Mirabella Eclano. Ciò che era avvenuto nella zona della Stazione di Ariano Irpino si verifica anche qui: i grandi tratturi, le vie di collegamento tra un villaggio e l'altro, spariscono, disperdendosi nelle attuali vie di comunicazione da est ad ovest. L'imbottigliamento osservato ad Ariano Irpino risulta evidentissimo anche qui e tutti e due quale risultanza della formazione geomorfologica del terreno.

In conclusione, per quanto riguarda il Tavoliere delle Puglie, possiamo dire che oltre ai piccoli tratturi del Gelone e del Carapelle, vi sono due grandi vie di comunicazione preistorica e tutte e due con andamento NE-SO: la prima è quella del Cervaro, la seconda quella dell'Ofanto.

Ben più difficile è il compito di rintracciare le vie preistoriche nelle Murge. Il terreno accidentato, anche se non tormentato come nelle zone montagnose degli Appennini, non permette una identificazione rapida. Anche in questa zona, come nel Foggiano, le riforme agrarie hanno inciso profondamente sulla superficie, sconvolgendo le antiche tracce. Diversamente da quanto è avvenuto nel Tavoliere, dove i fossati, pur distrutti dagli aratri, possono essere facilmente ritracciabili per le loro anomalie sulle aerofotografie, la zona delle Murge si presenta, a prima vista, priva di centri abbastanza densi da richiederci un collegamento. Grazie alle ultime ricerche e agli scavi condotti dal soprintendente Degrassi, anche in questa vasta zona si può avere un filo conduttore nella ricerca. È anzi d'obbligo inoltrarsi, in questo tipo di ricerca, partendo dal conosciuto e tentare una ricostruzione viaria seguendo i ritrovamenti.

Alle nuove scoperte fatte da Degrassi 9 si debbono aggiungere però anche le altre più antiche e così il quadro prende consistenza. 1d è proprio per mettere in collegamento questi centri che il Degrassi propone una via che si diparte dal mare e si spinge verso la Lucania. I centri di Castiglione di Conversano, di M. Sannace, a NE di Gioia del Colle, di Santo Mola, a NO della stessa Gioia del Colle, ed infine della zona di Altamura e Gravina dovevano necessariamente essere collegati tra loro e di questa via antica di collegamento vi è un tratto ben conservato e visibile su ogni copertura aerea tra la Torre Cannoni, ad O di Santeramo (f. 189), e la zona di Trezzella a SO di Altamura. Questa via si può seguire infine ancora più ad occidente fino a Gravina di Puglia e di qui fino al Basentello (f. 188), per toccare infine, a N di M. Verdese (p. 376), la riva del Bradano, per spingersi ancora più ad occidente fino alla Difesa da Piedi (q. 571), a NE di Tolve. Appoggiandosi al torrente Castagna è facile seguirla poi nella sua spinta verso il grande tratturo che prende la direzione NO non appena arrivato tra Pietragalla e la Serra del Vaglio della Basilicata (f. 187). È proprio in questa zona che la via di comunicazione collegante i centri menzionati si incontra con un’altra, proveniente da SE, dalla zona di Metaponto. In questo punto, riunitesi, le due vie proseguono insieme verso Atella e più a N ancora.

Per quanto è stato facile seguirla nel suo tratto occidentale, per tanto difficile è però rintracciarla nel tratto M. Sannace-mare. In questa zona la densità dei centri antichi non è quella riscontrata nel lato occidentale (f. 189-188-187); oltre a M. Sannace, si conosce il centro indigeno di Castiglione di Conversano ed infine, al mare, Egnazia e Polignano, da identificare, probabilmente, con la città di Neapolis. Il Degrassi, partendo da M. Sannace, traccia l'andamento della strada verso NO, in direzione di Castiglione (f. 190), per riportarla poi nella zona di Polignano. Studiando le aerofotografie, questa via dovrebbe proseguire, in direzione E, dalla contrada Canale, a Km 3 a N di M. Sannace, verso Putignano, e dalla contrada Frascina, sovrapponendosi alla comunale Putignano-Alberobello, per un tratto di circa Km. 5, lascerebbe questo andamento in località Papataforo, per raggiungere infine il crocivia di Cuccolicchio, l'unico punto in cui essa potrebbe facilmente incunearsi per spingersi ad oriente, tra i due speroni, e raggiungere infine il mare nella zona a S di Egnazia. È molto probabile però che, nel suo tratto M. Sannace-Putignano, la via presenti un altro diverticolo che parta da Putignano stesso, tocchi la contrada Castiglione di Conversano e di qui si spinga verso Polignano.

A questo punto è necessario fare un’osservazione di carattere cartografico. Per chi desidera ricostruire la viabilità di una zona dell'Italia antica, è consigliabile, come per lo studio aerofotografico della stessa zona, far uso di quelle carte topografiche dell'IGM che risultano le più vecchie. Nelle edizioni più vecchie di queste carte non una sola volta troviamo indicati tratturi che sono completamente sconosciuti alle nuove edizioni. Se si prende in esame, per esempio, il f. 164, comprendente la maggior parte del Tavoliere delle Puglie, o meglio dire, del Foggiano, i tratturi vengono indicati su tutte le carte del 1926, basate sui rilevamenti del 1911, mentre gli stessi non si ritrovano più sulle nuove edizioni apparse dopo il 1950 (fig. 4). Questi tratturi, spesse volte e, specialmente, nelle zone in cui è entrata in atto la riforma agraria, sono stati completamente sconvolti o trasformati in vie moderne di comunicazione. Si potrebbe però obbiettare che tra questi tratturi e le vie «preistoriche» non vi può essere alcun nesso, perchè essi potrebbero corrispondere alle cosidette «trazzere» o a vie di comunicazione moderna.

Se invece si procedesse alla restituzione-posizione dei centri antichi, questi cadono esattamente lungo quei tratturi esistenti sulle carte del 1926 (il cui rilevamento a terra risulta però del 1911!), annullati o completamente spariti sulle ultime edizioni. Ciò significa inoltre, come per tanta parte della topografia moderna, rifarsi a documenti quanto più vecchi. E da queste osservazioni si può arrivare anche ad un’altra conclusione: i tratturi segnati sulle carte della Puglia del 1926, ma rilevati nel 1911, non sono di quell'epoca; essi rimontano nel tempo, rimasto immutato nella Puglia, come in grande parte anche in Sicilia, a quell'epoca in cui si era stabilito quel lungo pendolare di genti tra gli Appennini ed il mare Adriatico o il Gargano. Con i nuovi saggi stratigrafici della Scuola Britannica si vedrà poi se questi villaggi del Foggiano siano soltanto di età neolitica; molto probabilmente, tra loro vi saranno anche villaggi posteriori, come appunto indicano quelli sovrapposti, che potranno ricollegarsi a quelli del Gargano, siti proprio sulle pendici che riguardano il Tavoliere delle Puglie (fig. 5).

Quanto abbiamo detto delle vecchie carte dell'IGM del Foggiano, vale anche per la parte delle Murge; anche qui queste vie sono ben segnate sulle vecchie edizioni mentre mancano completamente su quelle nuove. A questo proposito è interessante studiare l'ultima via che a noi interessa per il periodo preellenico e precisamente quella facilmente identificata tra M. Sannace e la zona di Serra di Vaglio e Pietragalla. In questa zona, tanto la fotografia aerea quanto le vecchie carte evidenziano un tratto di antica via di comunicazione mentre nulla si ritrova negli ultimi rilevamenti e sulle ultime edizioni delle carte dell'IGM.

Riprendendo ora lo studio di queste vie nella zona più meridionale della Magna Grecia, dobbiamo partire da un’osservazione fatta, anni addietro, da G. Schmiedt e R. Chevallier 10 nello studio da essi dedicato alle città di Metaponto e Caulonia. Nell'inquadrare l'area in cui sorse la città di Metaponto, i due studiosi rintracciarono, a NO della città, una via pedimontana che arrivava dalla zona del fiume Sinni e, dopo aver superato il territorio dell'antica città, si spingeva, con un angolo fissato sul N, verso gli attuali centri di Ginosa e Laterza. Per i due studiosi questa via era di origine preistorica, poiché a valle di essa non si trovava alcuna scoperta appartenente a questo periodo.

Questa via, come appare anche nelle figg. 6a, b, invece di seguire la riva marina, così com'essa si presentava nell'VIII secolo a. C., corre nell'interno fino al tempio delle Tavole Palatine dove, oltrepassando il Bradano, dopo aver sorpassato la Masseria Galzi, si dirige a NE, per raggiungere infine la zona di Lama del Pozzo. Questo tratto, così visibile nel rilevamento generale dell'Italia (1954), nel c. d. ‘volo base’, è appena percettibile in altri rilevamenti posteriori, come quello dell'A.M. del 1961. Prendendo in considerazione i due rilevamenti e con l'ausilio di qualcun altro, parziale, è stato possibile prolungare il tratto scoperto da Schmiedt e Chevallier nella direzione menzionata, verso Ginosa e Laterza.

Come è visibile nella fig. 7, questa via si presenta sotto forma di un profondo solco dilavato oppure con un aspetto di frattura nel terreno solido. Da Lama del Pozzo, attraverso la zona della Masseria Maria Pia di Savoia, si spinge nella zona di Follerato dove le ultime ricerche hanno messo in luce un abitato indigeno la cui esistenza è legata alla ricca area circostante (f. 201). A N della Masseria Gaudella è ben visibile un altro taglio del terreno, ormai duro, taglio che si prolunga fino alle vicinanze dell'altro centro indigeno di S. Trinità (q. 412) ad oriente di Laterza (fig. 7). Mentre quest'ultimo tratto è diretto esattamente a NE e SO, un altro tratto, la vera continuazione della via c. d. preistorica di Metaponto, si prolunga sempre in direzione NE per toccare, ad occidente di Massafra, le prime balze delle Murge. Ed è proprio in questa zona che l'antica via si può meglio riconoscere, infossata nella roccia con andamento E-O. Non appena oltrepassata la linea di Massafra, la via si disperde nelle dense arterie moderne che puntano su Metaponto. Un suo probabile sbocco a mare dovrebbe essere fissato nella zona di Brindisi o leggermente più a S. Ma qualsiasi ricerca fatta sui rilevamenti a disposizione non ha portato ad alcuna conclusione certa : il terreno, anche qui, è stato molto tormentato dai recenti lavori di bonifica.

Quest'ultimo tratto di collegamento non può essere attribuito soltanto al periodo preistorico; il suo andamento è visibilmente legato alla vita dei centri menzionati ma fino a questo momento non si hanno quei documenti che ci permettono di farla rimontare nel tempo fino all'età preistorica. Può essere considerata una via di età preistorica ma anche storica, quasi una via di arroccamento alle spalle del golfo di Taranto. Soltanto futuri scavi e ricerche potranno dirci a quale epoca essa può rimontare, ma è proprio questo periodo preistorico che ci manca nella zona a N di Taranto.

Da quanto siamo venuti esponendo è apparsa chiaramente l'importanza che possono avere le scoperte precedenti: fissando sulla carta tutti i centri in cui sono avvenute scoperte archeologiche, si ha immediatamente la possibilità di tentare un collegamento di un punto con l'altro. Nasce così quel primo tessuto che serve alla ricerca della viabilità. Nel caso del Foggiano si ha un’altra situazione; dopo aver riconosciuto come si presentano sulle fotografie aeree i villaggi preistorici si è passati allo studio di tutte le coperture aeree ed in seguito alla loro posizione sulle carte topografiche. Ciò vuol dire che le scoperte sono state fatte, in gran parte, attraverso le fotografie aeree e non soltanto attraverso l'indicazione che poteva venirci dagli scavi. Quanto più ci troviamo di fronte ad una densità di centri antichi ben noti, tanto più è facile procedere al riconoscimento delle strade. Difficilmente si può parlare di vie di collegamento in una zona in cui non si conosce alcun centro. E se questo ragionamento è valido per la preistoria, molto più valido appare nella ricerca della viabilità in età storica, specialmente per il periodo greco. Mentre per il periodo romano si può fare appello ai testi antichi, alle pietre miliarie, per il periodo greco abbiamo soltanto vaghe allusioni letterarie di spostamenti di eserciti, da un punto all'altro, sulle strade. È sicuro infine che nel periodo greco, oltre alle vie marittime, esistevano anche vie terrestri ben note non soltanto agli eserciti, ma anche ai commercianti.

Finora le nostre conoscenze sono molto meglio articolate per la zona costiera dove si è svolta la colonizzazione ellenica. Ben poco e solo recentemente le ricerche hanno preso di mira anche l'interno, vale a dire le zone in cui si è svolta di più la penetrazione ellenica. In confronto a quanto si è fatto in Sicilia, la Magna Grecia ci è meno conosciuta non soltanto nell'ubicazione delle colonie greche ma anche in quella dei centri indigeni dell'interno. Non si conosce con precisione l'area in cui è sorta la colonia di Siris e ancora dubbia è l'ubicazione di Sybaris e di Thourioi. Quanto al lato tirrenico, ci manca finora qualsiasi indicazione sul luogo in cui sorsero molte delle sottocolonie delle città site sullo Ionio. Non sappiamo nulla di Laos e nulla ancora di Skidros, mentre incerto è il perimetro della città di Metataurus. Per quanto riguarda l'interno, oltre al centro di Castiglione delle Paludi, di Serra di Vaglio e Torretta di Pietragalla, si hanno notizie soltanto per-la zona di M. Coppola (f. 213) e Serra Maggiore recentemente studiate dal giovane Quilici. Grazie a vecchi ritrovamenti e alla fotointerpretazione è stato possibile infine aumentare le nostre conoscenze sulla ricca alta valle del fiume Agri, specialmente nelle zone a monte di Grumentum, verso Raja Rotonda (f. 199) e Marsico Nuovo. Ma l'esplorazione di queste zone è soltanto al suo inizio, inizio che già si preannuncia promettente. Un’altra zona, tra le meglio studiate, è il Vallo di Diano con le sue necropoli indigene di Sala Consilina e Padula 11. Anche se molto discussa, la via di collegamento di questo canale tra il meridione ed il settentrione, può trovare, nello studio delle aerofotografie, se non una soluzione, almeno un avviamento per una migliore comprensione. Quanto alla zona campana e specialmente all'area compresa nei fogli 172 e 183-184, questa è stata da me volutamente tralasciata, dato che il collega Johannowski sta lavorando da più anni per chiarire il problema della viabilità. Ho scelto soltanto un piccolo tratto, ad oriente della zona che interessa il collega Johannowski e precisamente la Valle Caudina. Oltre alla viabilità, lo studio delle fotografie aeree della zona, ci immette nel vivo del racconto liviano, offrendoci altri punti di partenza per l'interpretazione del testo.

Ma ciò che più interessava in questa parte dello studio, era il problema dei collegamenti tra le diverse colonie dello Ionio e di queste con i centri dell'interno.

Per una, tra le tante evidenze letterarie sull'esistenza di una via greca costiera, basta citare gli spostamenti di Dionigi di Siracusa nel 390 a. C. con i suoi ippeis, tra Locri e Reggio (Diod. XIV, 101), mentre per l'esistenza di vie interne, da una costa all’altra, si potrebbe citare lo stesso Diodoro (XIV, 101 sg.) nella presentazione della marcia dei Thourioi verso Laos nel 389.

Dato che sarebbe impossibile studiare l'intero andamento della via litoranea, ho scelto qualche caso che più di ogni altra lunga discussione potrebbe indicarci il suo tracciato.

Il primo caso scelto è quello di Caulonia. Oltre alle vecchie indicazioni fornite dall'Orsi, sulla parte topografica della città sono ritornati i due studiosi (Schmiedt-Chevallier), che hanno presentato i risultati delle loro interpretazioni nello studio, più sopra citato, dedicato alla zona di Metaponto. Mentre i due si sono occupati della pianta della città, personalmente ho interrogato le fotografie per vedere se queste possono offrirci una indicazione sulle vie di accesso. Partendo dalla pianta di P. Orsi e dagli assi stradali rilevati dalle aerofotografie (figg. 8-9), possiamo facilmente rintracciare due vie, l'una che penetra sul lato N, visibile su tutti i fotogrammi, ed un’altra sul lato meridionale, la quale, attraversato il Vallone Bernardo, scende lentamente verso la ferrovia Reggio Calabria - Taranto per procedere poi a S, quasi parallela alla detta ferrovia. Nella fig. 9 ho segnato in tratteggio queste due vie mentre è chiaro che il prolungamento verso il cimitero non può essere altro che un’altra via, destinata alla penetrazione nell'interno.

Il secondo caso è quello della via che da N scende nella grande vallata del fiume Crati. Anche se il problema dell'ubicazione di Sybaris non è ancora risolto, penso che anche in questo caso l'aerofotografia può renderci un servizio, indicandoci almeno la zona in cui la città antica deve essere ricercata. Studiando il rilevamento eseguito dalla A.M. e quello della Ditta ETA, appare evidente, sul lato settentrionale della vallata, un sentiero molto infossato che scende dalla zona collinosa in direzione S. Che si tratti di un antico sentiero o antica via, questo si può dedurre dal fatto che non sempre esso separa le proprietà, tagliando appezzamenti di terreno sicuramente formanti la stessa proprietà. Il taglio infossato, conservando le stesse caratteristiche di elemento non divisorio di proprietà, si riscontra anche più a S e precisamente in località Torre di Fregia, località, questa, che presenta l'aspetto di un vero insediamento indigeno. Da questo punto il sentiero, in parte già ricoperto dalle alluvioni, si spinge a SO, per perdersi nella zona ad ovest della stazione di Sibari. È chiaro quindi che la zona in cui debba ritrovarsi la città antica, si dovrà fissare intorno al ponte sul Crati, ad occidente o nelle vicinanze della zona di Stombi.

Quanto all'esistenza di una via litoranea nella zona di Locri, vorrei ricordare che nella città stessa si conosce un dromos antico su cui si innestano due prolungamenti e precisamente da NE a SO. È interessante, a questo proposito, menzionare anche le due arterie che si prolungano dalla costa verso l'interno, sia per indicarci le vie per il Tirreno, sia per le vie del retroterra.

Ed è chiaro anche in questo caso che la via litoranea è molto più spostata nell'interno, come nel caso di Metaponto, e per nulla identificabile con qualche via moderna o medioevale.

Chi studia invece le fotografie aeree relative alla vallata del Bradano e del Basento potrà osservare come lungo questi due fiumi possono essere rintracciati dei tratturi che li accompagnano fino nell'interno della Basilicata, dove, nella zona tra l'Irsina e Tolve, essi si congiungono con quelli già presentati, provenienti dall'E. Lo stesso tratturo continua poi a NO, nella zona a N di Serra di Vaglio e a S di Torretta di Pietragalla. Anche qui l'antichità della via si desume dal suo infossamento nel terreno e dalla sua sparizione nelle divisioni dei campi, come nella fig. 10. Che questo sia un crocevia della massima importanza è già documentato da M. Napoli nella sua relazione al I Convegno della Magna Grecia 12. Nella stessa zona, ricca di insediamenti indigeni, legati certamente con la costa, come dimostra chiaramente la città di Serra del Vaglio, non potevano mancare i collegamenti sia con le colonie dello Ionio sia tra un centro e l'altro.

Una tra le più importanti zone archeologiche meglio conosciute negli ultimi anni si è rivelato il Vallo di Diano, questo enorme passaggio e punto d'incontro. Considerata da tempo e da molti quale normale via di accesso dei prodotti greci dello Ionio verso l'Etruria meridionale, nel senso di zona campana, venne ultimamente scartata, considerandola come un lago senza deflusso, un mondo a sé stante. Se oggi avessimo a disposizione una minuta ricognizione sul terreno, con le indicazioni di tutti i ritrovamenti archeologici, l'affermazione o la negazione di questa strada potrebbe essere più profondamente studiata. Oltre agli scavi di Padula e di Sala Consilina, ben poco conosciamo sui ritrovamenti avvenuti alle due testate della vallata. Se nulla si è trovato più a nord o, per meglio dire, se il poco che è stato messo in luce appare del tutto diverso, tipologicamente, da quanto è stato rinvenuto negli ultimi scavi della vallata stessa, non significa, a mio avviso, che attraverso questo canale non si sia verificato un passaggio di prodotti tra il N e S. Se prendiamo soltanto un esempio dalla Sicilia, quello dei centri di Sabucina e Capodarso e lo riavviciniamo a quanto è stato ravvisato prima per la funzione di passaggio di questa vallata, credo che i termini di paragone possano certamente avere il loro peso nel considerarla sempre una via naturale tra N e S. Che anche in questo caso si abbia una antica via si può desumere, almeno per il tratto Sala Consilina-Padula, da tutta una serie di indicazioni offerte dal rilevamento aereo (fig. 11).

Altrettanto vera è anche la traccia, simile ad un solco, visibile su tutti i rilevamenti aerei, della Valle Caudina. La fotografia aerea però, più che alla scoperta dell'antica via di comunicazione, ci ha riportato davanti agli occhi un testo antico, quello di Livio in cui si parla di una serie di pagi esistenti sulle (colline e le montagne che sovrastano il passaggio dei Romani. La loro esistenza, data la mancanza di ricerche, non fu mai discussa mentre il mosaico (fig. 12) mostra la loro posizione quasi su ogni altura.

Visto sotto questo aspetto, il problema della viabilità nella Magna Grecia si presenta come uno tra i più attraenti terreni. Ma affinché esso possa essere risolto nei dettagli, ha bisogno non solo di continue verifiche ma anche, e soprattutto, di essere inquadrato in un tessuto di centri urbani, tessuto ancora da compiere. Il giorno in cui ogni regione sarà sottoposta ad una accurata ricognizione ed ogni centro abitato verrà fissato sulle carta topografiche, questo problema troverà una più adeguata soluzione. Per ora, anche se i centri abitati scoperti rappresentano piuttosto capisaldi di una vasta rete, la fotografia aerea serve ad indirizzare le ricerche e non ad entrare nei dettagli. I dettagli potranno venire nel momento in cui, accanto alla fotointerpretazione, potrà trovare posto una lunga serie di sondaggi o semplicemente di ricognizioni a terra. La ricognizione a terra, accompagnata, ove sarà necessario, da sondaggi, avrà la parola decisiva.

(Segue il dibattito sulle due relazioni presentate – di Lugli e di Adamesteanu. Il dibattito è lungo e vivace, mi pare interessante riportare la replica finale di Adamesteanu, e segnalare una poesia di Bertold Brecht recitata a sorpresa dall’archeologo polacco prof. Bronislaw Bilinski)

Replica di Dinu Adamesteanu:

Mi pare di aver capito che qualcuno si sia lamentato che io non abbia studiato questa strada, che non abbia presentato quell'altra strada e che mi sia sfuggito non so quale tratturo. Ripeto quanto ho detto nella mia relazione: non ho voluto ricostruire la rete stradale della Magna Grecia poiché considero giustissimo quanto affermato da Mario Napoli l'anno scorso ed oggi: per conoscere a fondo una parte di una carta 1:100.000 ci vogliono due o tre anni e questa è anche la mia esperienza in Sicilia. L'area presa in considerazione da me è quasi mezza Italia e quindi lontano da me il tentativo di ricostruire la rete stradale di mezza Italia. Gli esempi presi in considerazione sono esempi di metodo, vale a dire che cosa si potrebbe fare con la fotografia aerea, con lo studio delle carte topografiche e specialmente con le mappe in cui fossero segnate tutte le località archeologiche. Ho accennato inoltre al fatto che la rete stradale può essere meglio studiata allorquando si ha a disposizione una mappa archeologica quanto più completa di indicazioni di località. C'è ancora un altro punto a cui ho accennato e su cui desidererei insistere ancora una volta: quando un archeologo ha lavorato per molti anni in una zona ed ha visto che tutti i villaggi preistorici si presentano sotto un certo aspetto, allo stesso archeologo sarà molto più facile rintracciare gli stessi tipi di insediamenti sui rilevamenti aerei anche se questi non siano stati mai scavati. A nessun archeologo, anche con la minima preparazione fotointerpretativa, potrà sfuggire un villaggio neolitico compreso nelle fotografie aeree. Lo stesso dicasi per i centri indigeni di età storica. A chi ha scavato uno o due di questi centri non sfuggirà mai un insediamento come quello di S. Trinità o Monte Sannace mentre studia le fotografie aeree: questi centri, più o meno, sono sempre uguali.

La fotointerpretazione archeologica è qualcosa di insito in ogni archeologo e difficilmente egli potrà confondere una moderna lottizzazione con la centuriazione o una Strada antica con un acquedotto. Se a queste conoscenze topografiche si aggiunge anche quella del problema storico, si può convenire che la possibilità di rintracciare la viabilità di una zona sia piuttosto facile.

Il problema più difficile almeno per l'Italia meridionale è quello della edizione di tutto il materiale da tempo scoperto e giacente ancora nei magazzini dei musei. Quando tutto questo lavoro sarà fatto, il compito di redigere una mappa archeologica ed una rete stradale nell'antichità sarà molto più facile di quanto non lo sia oggi. Ed è certo che se tutto questo materiale fosse oggi già pubblicato, noi potremmo utilizzare la fotografia aerea con un vantaggio molto più grande. Per chiarire questo concetto mi permetto di rammentare un fatto avvenuto alle spalle di Gela: segnando sulle Tavolette 1:25.000 tutti i ritrovamenti vecchi e nuovi avvenuti nella zona di Milingiana e prendendo in studio le fotografie aeree dalle più vecchie alle ultime, è stato possibile rintracciare una serie di tratturi che collegava fra loro le diverse fattorie di età storica, i diversi villaggi castellucciani e nello stesso tempo collegava la costa con l'interno. Spostando il sistema di ricerca in altre zone del retroterra di Gela, è stato possibile renderci conto dell'infinita possibilità di collegamento non soltanto di Gela con i centri di Butera, M. Desusino, M. Bubbonia ecc. ma anche di un centro con l'altro. Lo stesso si può dire per il retroterra di Agrigento e specialmente delle vie di spinta da Agrigento verso NE.

Tengo a precisare però che ogni scoperta fatta con la fotografia aerea non sarà mai una vera scoperta se non sarà verificata sul terreno.

1Papers of the BritishSchool at Rome, XXIII, 1955, p. 44 sgg.; XXV, 1957, . p. 67 sgg.; XXVI, 1958, p. 63 sgg.; XXIX, 1961, p. 1 sgg.; XXX, 1962, p. 116 sgg.

2 Un caso simile si è verificato in Sicilia e specialmente nella Puglia. Cfr. GIOVANNA ALVISI, Problemi di viabilità nell'Apulia settentrionale, in Arch. Class., XIV, 1962, pp. 148-161.

[3]D. ADAMESTEANU, Viabilità antica in Sicilia, in Kokalos, VIII, 1963 (in corso di stampa).

[4] Quest’ultimo rilevamento è stato eseguito dalla Ditta I.R.T.A. (Istituto di rilevamenti terrestri ed aerei) di Milano. Il rilevamento a scala 1:35.000 è della Aeronautica Italiana e va considerato quale volo base dell’Italia.

[5]Vedi la relazione al VI Convegno della Società Italiana di Fotogrammetria e Topografia, in corso di stampa.

[6]Cfr. fig. 1.

[7]Ancient Landscapes, Oxford 1948.

[8]Cfr. nota precedente.

9Negli Atti del I Convegno di studi sulla Magna Grecia, Napoli, 1962, pp. 223-237.

10Caulonia e Metaponto, in Universo, XXXIX, 1959, p. 27

11Mostra della Preistoria e della Protostoria nel Salernitano, Salerno, 1962.

12Negli Atti del I Convegno di studi sulla Magna Grecia, pp. 205-210.

Le immagini che illustrano la relazione sono contenute in questa cartella

Il lavoro di Dinu Adamesteanu che ho scelto è una relazione presentata al Secondo Convegno di Studi sulla Magna Grecia, tenutosi a Taranto dal 14 al 18 ottobre 1962, convegno che ebbe come tema: Vie di Magna Grecia. Gli atti furono raccolti in un testo ugualmente intitolato.

Le ricerche per la tesi mi hanno portato a leggere nella Biblioteca della nostra Sopraintendenza, trentacinque anni dopo la sua stesura, il libro Vie di Magna Grecia (ed a fotocopiarlo, così ho potuto ritrovarlo per Eddyburg, essendo ormai esaurito da parecchio tempo). Per queste ricerche ho studiato, tra l’altro, tutto quello che era stato sino ad allora pubblicato su Locri Epizefirii. Ho conosciuto alcuni tra i più bravi e competenti studiosi nel campo, come il Prof. Arch. Dieter Mertens che mi ha accolto all’Istituto di Archeologia Germanica di Roma, dandomi anche dei rilievi non ancora pubblicati; e come la professoressa Marcella Barra Bagnasco, dell’Istituto di Archeologia dell’Università di Torino, che scava a Locri Epizefirii (e pubblica regolarmente) fin dal 1967, che mi ha dato informazioni preziose; ed altri ancora.

Il mio relatore mi prendeva un po’ in giro per la cultura archeologica che nella lunga ricerca stavo acquisendo – pericolosa per un architetto, diceva.

Ma questo libro mi ha veramente affascinato. Se permette le racconto lo svolgersi del convegno così come si legge nel testo.

Nel secondo giorno (il primo era stato dedicato al saluto dei politici locali e di governo, con un intervento del ministro ellenico per l’istruzione) l’introduzione, dal titolo Parole e strade della Magna Grecia, fu tenuta dal prof. Giacomo Devoto: narrava di parole nate in Grecia e del viaggio da esse compiuto per raggiungere Roma, del rapporto tra parole e vie, e di come le strade trasportano anche correnti ideali.

Seguiva la relazione del prof. Giuseppe Lugli, allora ordinario di Topografia dell’Italia Antica all’Università di Roma, su Il sistema stradale della Magna Grecia, che partiva dallo studio della rete stradale in epoca romana per trarne conclusioni relative all’epoca greca.

Seconda relazione è stata quella di Dinu Adamesteanu, allora Direttore dell’Aerofototeca del Ministero della Pubblica Istruzione, su La fotografia aerea e le vie della magna grecia, trascritta da me nel documento allegato.

Il giorno successivo furono presentate le relazioni del prof. Georges Vallet, direttore dell’Istituto francese di Napoli, su Les routes maritimes de la Grande Grèce (l’ho poi conosciuto quattro anni fa ad un convegno a Reggio Calabria: gli ricordai il suo intervento di Taranto del ’62 e la risposta un po’ polemica del prof. René Van Compernolle; si mise a ridere); e del prof. Ernst Kirsten, professore di Geografia antica all’Università di Bonn, su Viaggiatori e vie in epoca greca e romana. Al successivo dibattito prese la parola un pediatra presente al convegno, il dott. Pietro Ebner, che rivolse agli archeologi un singolare appello, che trascrivo per intero ed allego in altro documento.

Relazione conclusiva fu quella del prof. Ettore Lepore, Incontri di economie e di civiltà, cui fece seguito un dibattito. Nei giorni del convegno gli interventi si erano alternati a visite al Museo Archeologico di Taranto, a Martina Franca, alle mura di Manduria. L’ultimo giorno ebbe luogo un viaggio in Calabria, con visite agli scavi di Sibari, a Crotone ed al suo Antiquarium.

Qualche considerazione sulle vie greche, che mi interessavano in modo particolare: come aveva precisato nel convegno Bronislaw Bilinski, è noto che la via greca utilizza piuttosto la confi­gurazione naturale del terreno cioè si adatta alle condizioni fisiche impostele dalla natura, mentre la via romana esegue mutamenti del terreno attraverso lavori d'ingegneria. La via romana spezza le difficoltà, è più ardita e anche più corta avendo spesso come scopo principale uno scopo militare. Le vie greche invece nella Magna Grecia hanno avuto le loro origini nel commercio e se per i Romani, nelle epoche posteriori, le vie istmiche furono di poca importanza, per i Greci invece esse avevano un valore talvolta fondamentale nella loro vita eco­nomica collegando le singole colonie sulle coste del mar Jonio con le colonie sulle sponde del Tirreno.

Considerando poi che tra le vie della Magna Grecia v’erano sicuramente anche le vie d’acqua, era presente al convegno anche un esperto di idrogeologia storica, che ha chiarito come il regime idrico di molte aree (tra cui quella che io studiavo) fosse molto diverso dall’attuale anche a causa del forte impoverimento della vegetazione boschiva, che ha contribuito a trasformare fiumi navigabili (testimoniati da Plinio) in miseri torrenti.

Nell’intervento di Adamesteanu, tra l’altro, si fa riferimento alle fotografie aeree del Foggiano, fatte dalla RAF nel 1943-1944, che servirono di base allo studio che il Bradford intraprese in quelle zone negli anni immediata­mente successivi alla seconda guerra mondiale.

E’ interessante sapere che le prime foto furono scattate dal Bradford nell’ambito delle proprie missioni di guerra, e che egli successivamente, resosi conto dell’importanza dei rilievi aerofotografici nell’ambito delle ricerche archeologiche, tornò in quell’area proprio per compierle: fece infatti tre o quattro campagne di ricognizione in quella zona ed intraprese anche qualche scavo, tutti di modesta entità ma dai risultati chiari e precisi.

Purtroppo poco tempo dopo fu colpito da una malat­tia che, sempre aggravandosi, gli rese impossibile la pubblicazione di tutto quell’importante materiale ma, su istanza della Society of Antiquaries of London e della signora Bradford, fu nominata una commissione incaricata del relativo studio e della pubblicazione.

Nel decennio successivo a quando Bradford era attivo in questo campo molto del materiale sul quale erano basati i suoi studi purtroppo sparì per sempre, ma la pubbli­cazione (postuma, mi pare) dello studio di Bradford ha ugualmente recato un utile contributo alla conoscenza della topografia antica del Foggiano.

Nato a Toporu nel 1913, inizia la carriera archeologica sul Mar Nero, partecipando nel 1935 agli scavi della colonia greca di Histria diretti dal professor Lombrino ed eseguendo ricognizioni e ricerche in tutto il territorio dell’antica Scithia Minor.

Trasferitosi in Italia nel 1939, giunge in Sicilia nel 1949 e viene inviato a collaborare con Bernabò Brea a Siracusa. Qui conduce scavi e ricognizioni fino al 1951 quando Pietro Griffo, allora soprintendente alle Antichità per la Sicilia centro-meridionale lo chiama a Gela dove è in corso lo scavo delle mura greche.

Nel 1955 viene nominato ispettore presso la Soprintendenza di Agrigento.

Negli anni che vanno dal 1951 al 1958 conduce scavi sulla collina di Gela in collaborazione con Pietro Orlandini, dall’acropoli alle mura timoleontee di Caposoprano, a Butera e nei centri indigeni ellenizzati di tutta la Sicilia centro-meridionale.

Nel 1958, lasciata la Sicilia, si trasferisce a Roma dove è stato chiamato a creare e dirigere l’Aerofototeca del Ministero della Pubblica Istruzione.

Nel 1964 fonda e dirige la Soprintendenza Archeologica della Basilicata. Nel 1971 viene chiamato all’Università di Lecce per insegnare prima Etruscologia e Antichità Italiche poi Topografia dell'Italia Antica; nel 1977 viene trasferito a dirigere la Soprintendenza Archeologica della Puglia.

Lasciata la prestigiosa sede di Taranto per raggiunti limiti di età nel 1978, nel 1981 diviene professore ordinario presso l’Università di Lecce, dove dirige per un decennio l’istituto di archeologia e storia antica; dal 1981 il Dipartimento di scienze dell’antichità appena creato.

Vincitore di numerosi premi, tra cui il premio Feltrinelli per l’archeologia nel 1973 e il Premio Basilicata; insignito nel 1982 dal Ministero per i Beni Culturali e Ambientali di medaglia d’oro di benemerito della scuola, della Cultura e dell’Arte.

Muore a Policoro (MT) il 21 gennaio 2004.

Sono passati più di 4 mesi dalla scomparsa di Dinu Adamesteanu, e i ricordi continuano a sfilarmi nella mente.

Capitai in Basilicata la prima volta nel 1972, giovane studentessa universitaria di II anno, per uno scavo a Ruoti, nel Potentino, con l’Istituto di Archeologia Classica dell’Università La Sapienza di Roma.

Per me fu come essere catapultata in un altro mondo. Ricordo Dinu Adamesteanu, grande, imponente, dietro la sua scrivania a Potenza, mi fece un’enorme impressione. Non ero abituata al clima informale che regnava sovrano nella sua Soprintendenza, da poco fondata. Non avevo allora grandi frequentazioni con le Soprintendenze e questo fu il vero impatto che, devo dire, mi lasciò un segno.

Vi era appena stata la mostra “Popoli anellenici”, a Melfi, nel 1971, che aveva rivelato la ricchezza straordinaria di un territorio fino allora sconosciuto.

Nel suo Ufficio regnava un moto perpetuo, un via vai incessante senza orari, scandito dalla venerazione per lui. Era un generoso e tutte le iniziative intraprese venivano suggellate davanti ad una tavola imbandita, in lieta compagnia

Ricordo di quegli anni un grande fervore scientifico, una grande apertura verso il mondo accademico e internazionale, missioni di tutto il mondo chiamate a lavorare in terra incognita, com’era allora la Basilicata. Era anche un modo, raffinato e altamente scientifico, per supplire alla carenza di personale specializzato, di cui non disponeva, e grazie a lui molti giovani di allora furono lanciati verso la conduzione di Soprintendenze, cattedre universitarie o direzioni di prestigiosi Istituti culturali stranieri in Italia. Tante amicizie sono iniziate allora, grazie a lui e continuano ancora oggi.

Ebbi da lui il materiale per la tesi di laurea, grazie alla disponibilità dell’unica ispettrice dell’epoca per la provincia di Potenza, Giuliana Tocco; a Roma, negli ambienti piuttosto severi della Sapienza dell’epoca, ebbi non pochi problemi, che allora mi apparivano incomprensibili; l’argomento affidatomi veniva giudicato troppo complesso per una tesi di laurea, andavano di moda sterili discussioni su singoli oggetti e lo studio di un complesso veniva giudicato un azzardo per un laureando.

La sua visione del territorio era infatti rivoluzionaria per l’epoca; il suo sguardo spaziava su larghi orizzonti, affrontando i problemi topografici impostati sullo studio delle fotografie aeree - a lui si deve la fondazione dell’Aerofototeca nel 1959 - e risolvendoli successivamente attraverso gli scavi. L’esplorazione archeologica era supportata da una serie di scienze ausiliarie e ilcontrollo topografico del territorio era costantemente aggiornato attraverso i supporti cartografici. La documentazione in Basilicata si avvaleva dei mezzi più all’avanguardia dell’epoca, al contrario di quanto avveniva invece nello stesso periodo e anche in epoche successive in altre regioni.

La modernità del suo agire è ancora oggi stupefacente se si considera il grande lavoro compiuto con gli Enti locali, per cui anche il più piccolo paesino della Basilicata era fiero di essersi riappropriato del proprio passato.

E tutto questo senza bisogno né di leggi né di devolution e la più bella testimonianza di ciò sono stati tutti i gonfaloni dei Comuni della Basilicata, oltre che di Gela, di cui il Professore senz’altro sarebbe stato contento, a dargli l’estremo saluto, insieme con la Sua vecchia Soprintendenza e tanti scarafoni.

Dal giorno della Sua scomparsa, molto è stato già detto, ma bisogna ancora sottolineare il suo impegno per la salvaguardia del territorio, non solo a tutela dei siti antichi -a lui si devono grandi provvedimenti di tutela, incentrati sulla conoscenza topografica del territorio - , ma anche a tutela del contesto ambientale.

Memorabili le sue grandi lotte per salvare dalla devastazione industriale per es. interi tratti di costa del Metapontino, opponendosi all’installazione “di una tra le più inquinanti industrie finora conosciute in una zona ben nota per gli i nsediamenti antichi”. Mi sono trovato il progetto davanti e non avevo altro da fare che firmarlo ! Cosa che non ho fatto e credo non sarà fatto nemmeno dai nostri superiori del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali” (D. Adamesteanu, L’attività archeologica in Basilicata, in Locri Epizefiri, Atti del XVI Convegno di Studi sulla Magna Grecia, 1976, p. 822).

Quando l’ho visto l’ultima volta, a Natale 2003, per comunicargli che finalmente stavo per dare alle stampe lo studio di una delle necropoli arcaiche di Siris, che lui aveva scavato e che mi aveva affidato, alla felicità per la notizia si era frapposto in lui il rimpianto per non aver fatto abbastanza.

E come in un flash back mi sono passate davanti agli occhi le lotte di questi anni per evitare lo smantellamento delle Soprintendenze, in contrapposizione alla Sua opera -lui, che ha istituito una Soprintendenza territoriale-, per mantenere dignità al lavoro tecnico-scientifico dei funzionari del Ministero, in contrapposizione al suo lavoro di valorizzazione delle risorse umane, per evitare lo smantellamento graduale della tutela, lui, rumeno ma che amava profondamente il Sud d’Italia e soprattutto la Basilicata, tanto da rimanervi per sempre, che ha tutelato, con pochissimi mezzi e con l’accordo dei Comuni e degli Enti locali, porzioni enormi di territorio, come mai oggi si potrebbe mai fare.

E in tempi così miseri, che dire del bisogno disperato di uomini che facciano le Istituzioni??

Come quando diceva: “Vado a Roma !!!”

E calava il pugno sul tavolo annunciando tempesta.

Direttore: Maria Filomena Boemi

e-mail:
boemi@iccd.beniculturali.it

tel centralino ICCD +39 6 585521

L'attività dell'aerofototeca è indirizzata alla ricerca, al recupero, alla catalogazione e alla conservazione del materiale di archivio che copre un arco temporale dalla fine dell'800 ad oggi.

L'Aerofototeca viene fondata nel 1958 come sezione distaccata del Gabinetto Fotografico Nazionale con lo scopo di raccogliere e produrre materiale fotografico rivelatosi di fondamentale importanza per lo studio e la salvaguardia del territorio e delle incidenze architettoniche e archeologiche ivi diffuse.

Dal 1959 l'Aerofototeca inizia la sua attività, sia pure in forma ridotta e settoriale, sotto la guida dell'archeologo Dinu Adamesteanu il quale, fin dal 1954, si era battuto con energia per superare tutti gli ostacoli che si frapponevano alla realizzazione di un simile obiettivo. Le scoperte che in quegli anni avevano portato alla ribalta l'aerofotografia quale insostituibile ausilio per la ricerca archeologica ed inoltre la più ampia disponibilità da parte degli organi competenti del Ministero Difesa Aeronautica - cui, per legge spetta il controllo sulla esecuzione e diffusione del materiale aerofografico - concorsero inoltre a rendere possibile la creazione dell'Aerofototeca, la cui attività sia in campo operativo sia in quello di raccolta archivistica, è a tutt'oggi particolarmente viva.

Da un uso corretto e mirato della enorme quantità di informazioni contenute in ciascun documento derivano varie possibilità di lettura, disponibili per una utenza diversificata che può acquisire il materiale fotografico in copia o esaminarlo e studiarlo presso il servizio con l'assistenza di personale specializzato.

L'archivio, di oltre 2 milioni di immagini tra positivi e negativi, è costituito da:

negativi catalogati e registrati (oltre 282.000)

diapositivi inventariati (oltre 16.500)

positivi catalogati ed inseriti negli archivi di consultazione (oltre 250.000)

collezioni FOTOCIELO, I.BUGA, EIRA e LISANDRELLI in fase di inventariazione e/o precatalogazione

immagini georeferenziate catalogate su banca dati grafica e alfanumerica (oltre 126.000)

Nell’articolo 54 dello “Statuto dei luoghi” del Piano strutturale del Comune di Sesto Fiorentino, approvato dal Comune nel 2004, assume per la prima volta carattere ufficiale la volontà di intitolare il Parco della Piana a Edoardo Detti, che ne fu il promotore. Lo inserisco qui sotto

ARTICOLO 54

DISPOSIZIONI RELATIVE ALL’UTOE: PIANA

1. Per l’ UTOE (Unità Territoriale Organica Elementare - ndr) della Piana l’obbiettivo principale delle trasformazioni è la formazione di un grande parco, in connessione con la città – a Nord – con l’Osmannoro – a Sud - e con i più rilevanti poli funzionali di interesse sovracomunale posti al contorno (Università, aeroporto, impianto di selezione e compostaggio).

2. La definizione dell’assetto del parco è affidata ad un progetto direttore, da redigere tenendo conto delle indicazioni della pianificazione sovracomunale e, in particolare, dello Schema strutturale dell’area metropolitana Firenze-Prato-Pistoia, approvato con Delibera del Consiglio Regionale della Regione Toscana n. 212 del 21 marzo 1990.

3. Il progetto direttore articola il territorio del parco in tre ambiti: corpo centrale denominato “Parco Edoardo Detti”, area della discarica Case Passerini e area del polo universitario - stagno di Peretola, schematicamente indicati nella tavola 5 “Ambiti paesistici omogenei” e stabilisce specifiche indicazioni per ciascun ambito.

4. L’assetto da conferire al parco deve tendere al raggiungimento dei seguenti obbiettivi:

a. incrementare la continuità ecologico-territoriale fra le zone collinari e l’Arno, favorendo l'innesco di processi di autoriproduzione spontanea della vegetazione, di autoregolamentazione dei cicli idrici per la riproduzione della riserva acqua ad uso plurimo, di zone umide.

b. favorire la fruizione ricreativa, garantendo una facile accessibilità attraverso una rete di collegamenti ciclabili-pedonali connessa alla rete del trasporto pubblico;

c. garantire l’inserimento armonico nel paesaggio degli interventi necessari per la sicurezza idraulica degli insediamenti (sulle aste e nelle aree destinate alla laminazione delle piene) attraverso un uso degli impianti vegetazionali e delle sistemazioni morfologiche orientato a tal fine;

d. mantenere il prevalente carattere agricolo, favorendo le forme agricoltura parco e di produzione vivaistico-forestale più compatibili con le altre funzioni del parco e incrementando il livello di biodiversità.

5. Il regolamento urbanistico recepisce le indicazioni del progetto direttore, con riferimento a ciascuno dei tre ambiti, e stabilisce:

a. le eventuali rettifiche al confine del parco rappresentato nelle tavole del piano strutturale;

b. le direttive e le prescrizioni per i piani attuativi e per i progetti di sistemazione, riguardanti le caratteristiche degli spazi verdi e della viabilità; le attrezzature da realizzare; i parametri edilizi; le utilizzazioni compatibili.

c. le specifiche prescrizioni relative alle attività agricole e produttive esistenti all’interno del parco delle quali si prevede il mantenimento, nonché al campo nomadi, onde assicurare il corretto inserimento delle opere nel contesto paesaggistico nonché le eventuali misure di mitigazione e/o compensazione dell’impatto sull’ambiente.

Nota

UTOE: Unità territoriale organica elementare, ai sensi della legge urbanistica della Toscana n. 5/1995

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