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Egregio Direttore, senza entrare nel merito alle valutazioni ambientalistiche dell’articolo “Grande Nonna Quercia, una favola per salvare l’ambiente”, pubblicato il 18 dicembre 2011 a firma di Nando Dalla Chiesa, desidero evidenziare che il raccordo autostradale tra il nuovo casello di Castelvetro Piacentino e la strada statale 10 “Padana Inferiore” e il completamento della bretella autostradale tra la stessa statale 10 e la strada statale 234, con un nuovo ponte sul fiume Po, sono affidati in concessione alla Società Centropadane dal 1999. Il progetto definitivo ha ottenuto il parere di compatibilità ambientale nel 2009 ed è stato approvato in sede di Conferenza di Servizi nel 2010. Per questo motivo, non si comprende lo “scrupolo” posto dall’autore dell’articolo in merito alla realizzazione di questa infrastruttura. Inoltre, per quanto riguarda la posizione dell’Anas accusata di far pagare un “prezzo” alla società Centropadane, si precisa che la concessione è scaduta il 30 settembre 2010 e non è previsto alcun rinnovo. La Concessionaria sta proseguendo nella gestione della concessionesecondo quanto previsto nell’atto convenzionale in attesa che venga individuato il nuovo concessionario.

Giuseppe Scanni, Direttorerelazioni esterne Anas

In riferimento alla nota inoltrata dall’Anas al Fatto Quotidiano, relativa all’articolo di Nando Dalla Chiesa pubblicato domenica, si precisa che, in relazione all’infrastruttura denominata “Terzo ponte”, pendono ancora tre ricorsi al Tar, un’interrogazione di due europarlamentari e una richiesta di approfondimento alle autorità italiane da parte Ue sull’incidenza negativa su tre aree protette Sic e Zps sul fiume Po. Quanto agli interessi che guidano la realizzazione del Terzo ponte, si cita la dichiarazione del presidente di Centropadane spa, Augusto Galli, a una testata cremonese: “Il terzo ponte è un'opera prevista fra Anas e Autostrade Centro Padane. La nostra concessione scade il 30 settembre del 2011. Quindi, se non si realizzasse quest'opera, perderemmo la concessione dell'Anas. E si pagherebbe una penale". (Il Piccolo Giornale, 12/04/04). Questa ammissione manifesta, ci pare, le reali motivazioni alla base di questa infrastruttura.

Il comitato “Gli amici della grande nonna quercia”

postilla

Giusto ribadire alcuni aspetti tecnico-amministrativi e riguardanti gli investimenti e l’impatto ambientale locale dell’opera. E implicitamente ricordare quanto all’approccio poetico-giornalistico dell’articolo di Nando Dalla Chiesa, si debbano sommare altri punti di vista, perché come al solito i paladini della “banda di strada” suonano le proprie trombe nella stessa tonalità che si ascolta da una cinquantina d’anni e più. Uno spartito scritto sulla tabula rasa di un territorio che pare star lì solo ad aspettare passivo la trasformazione, una specie di materia prima amorfa, che dà segni di vita solo là dove spunta la quercia antica, l’edificio monumentale, il proprietario cocciuto ecc.

Succede invece che nel caso specifico, come in tanti altri, si è sostituito il progetto ingegneristico al piano, secondo lo schema vetusto dell’anello di tangenziale con innestati i poli di espansione urbana, rispondendo con automatismo e proponendo un modello che quasi ovunque ha prodotto nei decenni molti più problemi di quanti ne abbia mai risolti. Ci sono studi - vedi ad esempio l'allegato - che spiegano come, per garantire la medesima accessibilità ai medesimi poli produttivi (è questa la giustificazione principale della bretella-ponte) si possa agire su un’altra fascia urbana, già ampiamente trasformata, lasciando perdere nuovi ponti e compromissione di aree di grandissimo pregio. Ma probabilmente così ci si allontana dai sacri precetti degli anelli concentrici della crescita infinita cari alla religione detta “sviluppo del territorio”. Amen (f.b.)

Ma quale ampolla. È una quercia, una grande quercia oggi il simbolo del Po che si ribella, che chiede rispetto per le tradizioni e la storia delle terre padane. Un immenso albero secolare che sorge a pochi chilometri da Cremona, vicino a Castelvetro piacentino. Destinato a essere cancellato o violentato dall’ennesima bretella autostradale inventata dalla inesausta fantasia dei costruttori. Dodici chilometri per congiungere Porto Canale Cremona con Castelvetro.

E per travolgere d’un colpo tre aree protette dall’Unione europea; tra cui, grazie a un bel ponte, l’Isola del deserto, tempio fluviale di magico silenzio tra boschi e spiagge in cui vanno a nidificare rare specie rare di uccelli, dall’airone rosso al picchio verde. Un progetto nato negli anni novanta per disintasare il traffico pesante del porto di Cremona sulla A21. E giunto alla sua terza versione nel 2010. Costo 216 milioni. Soldi di tutti, visto che “la società che dovrebbe realizzarlo è la Centropadane, e che i suoi azionisti sono praticamente gli enti pubblici di Piacenza, Brescia e Cremona”. Altro che tagli.

foto di f. bottini - estate 2011

Chi parla è un pubblicista bresciano, Simone Mazzata. Proprio quando il progetto macinava autorizzazioni ministeriali, è arrivato lui, il guastafeste. Cercava casa in campagna, con un’idea su tutte: realizzarci una scuola per bambini fondata sul pensiero ecologico. La cascina che gli avevano fatto vedere vicino Castelvetro ne aveva i numeri. Spazi e pertinenze, tra cui una ex stalla, per farci delle belle aule. Ma a convincerlo era stata proprio la vicinanza di quella quercia. Grandiosa, possente, quasi divina. Simone è giunto tre anni fa con la moglie Daniela, una ex insegnante esperta di handicap, e con la figlia. E ha subito raccolto intorno al loro nucleo un folto gruppo di ambientalisti.

La storia della pianta che deve sparire o finire sotto i gas dei tir è diventata presto una favola. “Io so chi l’ha scritta quella favola”, ammicca, “ma non lo dirò mai. Noi raccontiamo che è stata la quercia stessa, la Grande Nonna Quercia. Per chiederci aiuto”. Una favola dolce, datata 23 gennaio 2010. Che circola in versione patinata, impreziosita da foto e da splendidi disegni infantili. Ma gira anche in versione internet. La Nonna vi parla dell’uomo buono che l’ha fatta nascere, delle stelle, del silenzio, della solitudine e della morte. Viaggia, la favola. È giunta anche a Walter, “un ragazzo siciliano che nessuno di noi conosceva”, che ha aperto un gruppo su facebook che ora conta undicimila contatti. “Ma lo sa che vengono scolaresche anche da Milano o da Brescia a vederla? Sta diventando un simbolo per chi vuole fermare questa follia devastatrice , per chi sa farsi incantare dalla bellezza superiore della natura”.

Ma non è che di questa bretella c’è bisogno sul serio? viene da chiedersi per scrupolo. Altrimenti perché degli enti pubblici sosterrebbero con tanta determinazione un progetto che violenta le bellezze delle loro terre? “Dicono che è l’Anas a volerlo, come prezzo per rinnovare la concessione della Brescia-Piacenza alla Centropadane. Intanto però gli industriali di Cremona non l’hanno inserita tra le cose necessarie in vista dell’Expo. E fior di studiosi dicono che si potrebbero comunque trovare soluzioni molto più leggere. I flussi di traffico attuali non giustificano l’impellenza. E infatti non ce ne vengono date stime aggiornate.

Pare siano un terzo di quelle indicate. E poi è possibile che le tre versioni del progetto che si sono succedute costino sempre la stessa cifra? Che si calpestino così gli indirizzi dell’Unione europea in materia di ambiente? Che non si facciano incontri con le comunità interessate? Per questo con un nostro gruppo di esperti abbiamo steso un dossier e fatto ricorso al Tar e poi all’Unione. C’è qualcosa di poco convincente. Diversi amministratori ce l’hanno confessato: è una porcata ma bisogna farla perché abbiamo le mani legate. Poi parliamoci chiaro. Questi sono lavori che chiederanno estrazione di materiale, ci sono di mezzo le cave, e le cave sono appena state il cuore di uno scandalo regionale sulla gestione dei rifiuti. E gli interessi che premono sul movimento terra e sui rifiuti lei li conosce meglio di me”.

Simone e il gruppo di ambientalisti raccolti attorno alla sua idea di una scuola del pensiero ecologico non si daranno vinti. “Mica siamo di quelli che che ormai non c’è più niente da fare, sapesse quanti ne ho incontrati quando sono arrivato”. Intorno alla Grande Quercia si riunisce il popolo delle favole. Sembrano pellerossa che difendono le loro riserve dalle ferrovie dei visi pallidi. Solo che stavolta il progresso sta dalla loro parte. All’ombra della Nonna tengono riunioni e assemblee. Anche concerti. Musica classica e gospel. I Modena City Ramblers e Omar Pedrini. Perfino gli Intillimani, ma sì, “ed eravamo millecinquecento, e pensi: stavamo tutti sotto la chioma della Quercia”.

Chissà come finirà questa partita. Certo sta facendo fiorire una nuova favolistica. Ha scritto Federica, 11 anni: “Allora Giulietta tornò dal suo amico albero prese un bel po’ di polvere magica e la buttò negli occhi del ‘signore dei supermercati’ che non vedendo più niente non poté tagliare l’albero e se ne andò via adirato. Giulietta fece i salti di gioia e decise di sposare quel mago che tanto amava. Così si sposarono sotto l’albero. E vissero per sempre felici e contenti”. Ammettiamolo: ma chi avrebbe mai detto che si potessero combattere i costruttori e i signori dei subappalti a colpi di favole?

In principio era la Punta dell’Isola. Poi arrivò l’industria, e su quella prua geografica alla confluenza del Brembo nell’Adda l’imprenditore Cristoforo Benigno Crespi ci costruì nei primi anni dopo l’unità d’Italia quello che voleva essere un villaggio operaio modello. Non era il paradiso, ma almeno le casette con giardino schierate militarmente davanti alla fabbrica erano un posto decoroso per abitare, in attesa di andare a riposare in eterno al cimitero affacciato sulla valle padana, sotto gli occhi sempre vigili del mausoleo di famiglia. Stavano molto peggio i contadini tutto intorno. Nel XX secolo l’Unesco dichiarava il villaggio operaio Crespi d’Adda patrimonio dell’umanità, per inciso nella medesima seduta in cui lo diventava l’Isola di Pasqua coi suoi spettacolari faccioni di pietra. Qui però dobbiamo occuparci di facce di materiale diverso, diciamo facce di bronzo per non dir di peggio.

Uno dei motivi per cui Crespi interessava tanto l’Unesco era la sospensione del tempo tutto attorno, il fatto che a differenza di tanti altri casi magari anche più architettonicamente virtuosi di company town industriale tradizionale, geografia e sviluppo socioeconomico avevano racchiuso il villaggio in una specie di bolla artificiale, fatta di spazi aperti, valle del fiume, terrazzamenti. Verso la seconda metà del XX secolo iniziavano a crescere gli insediamenti urbani attorno al tracciato dell’autostrada Milano-Venezia solo qualche centinaio di metri più a nord, e nel migliore stile dell’epoca all’autostrada si attaccava una tipica espressione di attività economica postindustriale: il parco a tema Minitalia, dove turisti e curiosi potevano divertirsi a girare il Belpaese in miniatura, magari chiamando a gran voce da dietro la Torre di Pisa la zia che si era fermata troppo a Piazza San Marco …

Ma si sa, tutto cambia, e arriviamo ai nostri giorni di trionfo del cosiddetto sviluppo del territorio, della joint-venture pubblico-privata, dei luminosi futuri di crescita economica locale grazie alla visione di qualche lungimirante imprenditore. E soprattutto delle balle in malafede per venderci questa paccottiglia. L’autostrada A4 c’è e ovviamente ce la teniamo. Il parco a tema col piccolo Colosseo, le attività commerciali di complemento eccetera sta insediato appena sotto il tracciato, occupa parecchie decine di migliaia di metri quadrati dell’antica Punta, ma a sud si conserva ancora una apprezzabile fascia di greenbelt agricola fino al limite del terrazzamento che scende al villaggio operaio di Crespi, di cui si vedono le ciminiere della fabbrica. Parallelamente all’asse est-ovest segnato dall’autostrada invece, e lungo quello nord-sud dell’Isola bergamasca, il vero e proprio disastro dello sprawl suburbano fatto di capannoni a casaccio, lottizzazioni di villette e palazzine che chiudono su tutti i lati i residui nuclei storici, rotatorie per smistare il traffico verso la rotatoria accanto.

A dichiarare il rien-ne-va-plus finale ci si mette ora all’alba del terzo millennio la seconda autostrada, quella Pedemontana Lombarda che per motivi imperscrutabili qualcuno chiama “parco lineare” giusto perché ogni tanto nel progetti si vedono delle siepi a nascondere le sei-otto corsie asfaltate. Ma lasciando perdere i problemi di vista addomesticata di alcuni, torniamo a Crespi, un po’ malridotta, patrimonio sì ma con tanto bisogno di manutenzione. E qui suonano le trombe e arrivano al galoppo gli eroi dello sviluppo del territorio pubblico-privato: il pubblico paga, il privato porta a casa. Come si rilancia Crespi? Con un Accordo di Programma, manco a dirlo per lo sviluppo, che parte dalla sua poco corretta dizione inglese di development, la quale di solito si traduce con edilizia. Al centro dell’accordo la trasformazione edilizia di Minitalia, che rilancia il parco a tema e lo contestualizza nel territorio, comprendendo anche Crespi d’Adda.

C’è il nodo delle due autostrade e bisogna approfittarne. Come? Ma nel modo che ben sappiamo, ovvero col classico progetto “multifunzionale” fatto di alberghi, centri congressi, attività turistiche, commercio outlet. La formula architettonica è quella pure classica del pensoso progettista che sviluppa su un tavolo da disegno iper-uranico un concetto astratto, da scaraventare poi sul territorio locale, lasciando agli uffici stampa il compito di spiegare il perché e il percome. Nel caso specifico la ciliegina sulla torta (si fa per dire) è una torre albergo che si vedrà per chilometri e chilometri attorno, villaggio operaio incluso, e che pure nella migliore tradizione si propone “leonardesca”. Se non altro, a differenza di Mario Botta a Sarzana (che aveva confuso con Suzzara) qui non si sono sbagliati a scrivere, che so “leopardesca”.

In definitiva quello che emerge dal progetto proposto (e approvato da qualche settimana) dall’Accordo di Programma, garantito da Regione, Provincia, Comuni interessati, è l’ennesimo discutibilissimo nodo di attività a forte indirizzo automobilistico, con aumento di cubature, occupazione di notevoli spazi per i parcheggi, con una offerta che difficilmente si può considerare concorrenziale, salvo appunto la localizzazione. Se ne possono dire di cotte e di crude, degli impatti probabili anzi sicuri del traffico, e dei vantaggi abbastanza dubbi in termini occupazionali (di solito si guadagnano posti di lavoro da un lato, se ne perdono da un altro, magari di più qualificati). Ma gira e rigira apparentemente il ragionamento potrebbe anche essere: se non lì, dove altro? Ovvero come insegna anche il cosiddetto new urbanism, a suo modo attento alle sciocchezze più macroscopiche, se dobbiamo crescere meglio farlo là dove gli impatti sono minori, e nel caso specifico nell’area a maggior accessibilità e attrezzata.

Per giunta, a suo modo si tratta di un riuso di area parzialmente dismessa, pur allargandola parecchio: si rilancia Minitalia, come si potrebbe fare di un supermercato un po’ in ribasso negli affari. Crespi continua a starsene come stava prima, con buona pace dell’Unesco, circondata da quei campi come l’Isola di Pasqua dall’oceano. E qui casca l’asino con tutte e quattro le zampe: l’Accordo di Programma è falso e tendenzioso. Tutto legale, intendiamoci, formalmente corretto, ma non tutto ciò che è legale è lecito: le mappe e i calcoli del progetto approvato non corrispondono alla realtà, per il semplice motivo che non sono completi. Il resto della documentazione sta su un altro tavolo, leggibile in modo contestuale solo a chi ha organizzato il trucco. E a chi se ne è accorto, naturalmente.

Il progetto del parco a tema ampliato e rinforzato con la sua incongrua torre simil-leonardesca, per capirlo appieno, lo si deve accostare a quanto è sinora pubblico come Ambito di Trasformazione via Cristoforo Benigno Crespi. Che non sta dentro quell’Accordo di Programma, però. Sta nel Piano di Governo del Territorio del Comune di Brembate, ma come si legge chiarissimamente nella apposita scheda è una “Area agricola a seminativo semplice, a prato stabile e ad incolto. Il lato nord è adiacente al Parco Minitalia”. 76.000 metri quadrati di superficie che, come si legge benissimo dalla cartina allegata alla stessa scheda, arrivano a pochi metri dal bordo del terrazzamento affacciato su Crespi, e vengono destinati a funzione “ricettiva, museale, commerciale, svago e sociale”. Quindi ad appiccicarsi senza soluzione di continuità al progetto di outlet albergo leopardato eccetera. Cosa succede, in realtà e in sintesi?

Succede che si iniziano a cogliere i frutti maturi e già abbondantemente marci dell’idea balzana di “sviluppo del territorio” che sta dietro a ogni autostrada moderna, ovvero che a ogni crocicchio vero o immaginato si rimescolano interessi di trasformazione urbanistica, senza badare a nulla. Basta dare un’occhiata veloce alla Scheda dell’Ambito di Trasformazione (allegata, per l’Accordo di Programma faccio riferimento al sito regionale con tutta la documentazione: almeno ci salva l’Europa con la VAS obbligatoria!) per vedere cosa succederà. Sinora il villaggio Crespi è stato risparmiato nella sua integrità sia dalla collocazione nella Punta, tutelata in quanto valle dei due fiumi, che dalla destinazione agricola del terrazzamento superiore, che lo isola visivamente dall’ambiente autostradale.

Per capire meglio l’idea, pensiamo a un tipo di spazio ben noto a chiunque, ovvero la fascia laterale a uso commerciale di una grande arteria guardata dall’esterno, o la gran parte del perimetro di un grosso supermercato. Si tratta di zone ridotte a una specie di vasto “vicolo di servizio”, retrobottega necessariamente degradato, o al massimo barriera invalicabile ben schermata a verde. Oggi questa situazione riguarda l’affaccio sull’area agricola della zona recintata di Minitalia e dei parcheggi esterni al perimetro. Domani, se si attuasse il “doppio progetto” non solo su tutta l’area incomberebbe la incongrua mole della torre albergo, non solo traffico e parcheggi imporrebbero un carico assai pesante, ma con l’aggiunta dell’Ambito di Trasformazione Sud il fronte del “retrobottega” arriverebbe a lambire il sito Unesco. Unica soluzione possibile, a quel punto, e per essere coerenti, sarebbe accorpare anche Crespi d’Adda al parco tematico, magari obbligando gli abitanti a vestirsi con costumi d’epoca, e mimare il lavoro minorile su telai ottocenteschi …

Insomma, una volta per le emergenze si chiamavano i Caschi Blu, oggi ci tocca invocare l’intervento dell’Unesco, per salvarci dallo sviluppo del territorio: è un'emergenza umanitaria, a modo suo.

(in allegato la Scheda AT, le Osservazioni di Legambiente che chiariscono i motivi di opposizione al progetto nel suo complesso, un paio di articoli dai giornali degli ultimi giorni)

Sono ormai mesi che impietriti, giorno dopo giorno, osserviamo il cielo della crisi finanziaria che fa dell'euro e purtroppo anche dell'Europa, uno straccio che vola. In attesa dei provvedimenti del Governo Monti, se ce la faremo è all'Italia delle città che dovremo guardare. Qui si trova il 61,3 % dei residenti, il 63 % delle imprese industriali e il 71 % del terziario avanzato.

Numeri e dinamiche che si concentrano soprattutto sull'asse Torino-Milano-Trieste e in basso a Genova e Bologna. Numeri che mutano quella che negli anni del capitalismo molecolare è stata la questione settentrionale. Questione che tornano a osservare e praticare la Cisl dei contratti territoriali e la Lega delle identità territoriali. Il sindacato convocando a Milano un seminario delle Cisl del Piemonte, della Lombardia, del Veneto e dell'Emilia Romagna, discutendo con i presidenti delle regioni di coesione sociale e di impatto della crisi sul tessuto manifatturiero. La Lega con i suoi bellicosi propositi di giocarsi l'opportunità di essere l'unica opposizione.

Un crinale delicato fatto di "nordismo dolce" e "secessione dolce" ai tempi dell'euro a velocità variabile. In Italia la metropolizzazione incardinata sul policentrismo delle "cento città" ha prodotto un modello urbano a nuvola cresciuto lungo i grandi assi infrastrutturali. Attorno a grandi città che, prese nella morsa della rendita immobiliare, sono "de-cresciute" al centro per disperdersi sul territorio. Dando forma a "città infinite" o alla "megalopoli padana" dove l'Alta Velocità fa da metropolitana leggera collegando Torino a Milano e Bologna. Reti di città che durante il ciclo ventennale del capitalismo molecolare hanno avuto il merito di mixare funzioni terziarie urbane e capitalismo manifatturiero dei territori. Un modello fatto di policies e classi dirigenti locali che tra anni '90 e nuovo millennio hanno accompagnato lo sviluppo dei territori, hanno costruito immagini e nuove rappresentazioni collettive dentro la transizione al postfordismo (basti pensare al caso torinese), ma che sono entrate in crisi sulla governance dei flussi: mobilità, immigrazione, finanza, logistica.

Con una divisione crescente tra città medie campioni di benessere e qualità della vita e grandi aree urbane sempre più in crisi di bilancio e in affanno sui temi della sicurezza, del costo della vita e della qualità ambientale. Difficoltà che pesano dentro la crisi nella misura in cui la capacità della metropoli di produrre servizi e saperi pregiati nonché reti di mobilità e comunicazione è il principale canale attraverso cui i sistemi produttivi territoriali possono riconquistare competitività sui mercati internazionali. Oggi la costruzione di un nuovo patto tra città e contado, tra capitalismo delle reti e manifatturiero, tra élite urbane e territoriali costituisce il nuovo nucleo di quella che ancora chiamiamo questione settentrionale.

Scomparsa la grande impresa fordista concentrata a Nord Ovest, con i distretti del Nord Est in via di verticalizzazione attorno a una media impresa diffusa da Torino a Treviso e lungo l'asse della via Emilia, oggi il tratto caratterizzante del Nord è il processo di metropolizzazione diseguale e confuso che a partire dalle città collega centri medio-piccoli e grandi. Una urbanizzazione che non solo drena risorse e abitanti dalle aree più periferiche dello stesso nord, ma diffonde stili di vita, bisogni, consumi e tematiche post-materialiste tipicamente urbane. Ribaltando la direzione di marcia dal contado alla città. Da rappresentazione del sogno egemonico di un contado manifatturiero che tra anni '80 e 2000 ha fatto da locomotiva economica del Paese, oggi la questione settentrionale vista dalle città mette al centro la capacità delle classi dirigenti.

Vi si confrontano il centro sinistra che governa le capitali regionali e il centro destra che esclusa l'Emilia Romagna e la Liguria egemonizza le città medie e le tre regioni, Piemonte, Lombardia e Veneto. Fotografia politica che rompe il tentativo del mondo del capitalismo molecolare di farsi classe dirigente nazionale. Berlusconismo e leghismo si sono imposti coalizzando il milieau terziario milanese con le periferie territoriali contro un mondo fatto di élite urbane e ceti medi riflessivi incardinati al welfare.La crisi ha incrinato l'unità di questo blocco politico-sociale fino ad arrivare allo "strappo" di questi giorni tra Confindustria Veneto e la Lega tornata all'opposizione. Un cambio di equilibri che a mio parere riporta la questione settentrionale alla sua originaria natura di questione sociale.

Sono proprio le nebulose urbane del centro-nord i contesti in cui il mix tra impatto della crisi, impianto manifatturiero, alti consumi, forte mobilità, flussi di immigrazione, crisi del welfare e crescente polarizzazione delle condizioni di vita, ne fanno un aggregato di quel 99 % direbbero gli indignati di Wall Street che subisce la crisi: dagli operai agli impiegati al pubblico impiego fino ai ceti medi e ai capitalisti molecolari. Molto dipenderà dalla volontà della città terziaria, della sua composizione sociale di ritrovare una capacità di fare società, di produrre una cultura civica nuova che metta al centro la difesa della qualità della vita, fuori dalle contrapposizioni tra questione ambientale e sviluppo economico, sicurezza e welfare, ecc.

Mentre la città terziaria degli anni '90 trasformava le classi sociali producendo frammenti senza coesione, oggi emergono almeno tre reti sociali che tentano di produrre tracce di nuova coesione: il magma del terziario professionale che con la sua trasversalità, pur nella crisi, tenta di connettere imprese, creatività, dimensione della cura; il crescere di nuovi filamenti di rappresentanza urbana come il comitatismo civico che uniscono il tema della qualità della vita con la volontà di riprendere controllo sulle grandi trasformazioni della città; e che fa il paio con l'affermarsi del modello della smart city, della città riflessiva che intende riprendere il controllo sulle condizioni della vita urbana. Infine, come a Milano, esempi di welfare community non più statale con cui la società civile inizia a fare i conti con la crisi dello stato sociale.

Questione settentrionale, dunque, come tema della coesione interna alla polis. Una tendenza positiva, che dall'idea di de-regolazione rifà i conti su come cercare di tenere assieme crescita economica e coesione sociale. Una tendenza che può rappresentare una possibilità di uscita dal tunnel di una crisi che è epocale e quindi culturale e politica. Dovendo scegliere, a fronte del ritorno sul territorio della lega, sono più d'accordo con gli industriali del Veneto e con le Cisl del Nord che pongono attuale la questione sociale ed economica del grande Nord dentro la crisi. Da come ne uscirà mutato dipenderà molto il destino del Paese, di tutto il Paese..

Legambiente preme e chiede un intervento. La Regione apre, seppur con cautela. Al congresso regionale di Bergamo l'associazione ribadisce l'allarme per il consumo di suolo, considerata una vera e propria emergenza alla luce dei dati che evidenziano come il suolo urbanizzato in cinquant'anni si è quintuplicato (nella sola Bergamasca è passato dal 3 al 14%), e rilancia la proposta di legge di iniziativa popolare che mira a imporre uno stop al cemento.

Daniele Belotti, assessore regionale al Territorio, non si tira indietro: «Siamo sensibili al tema del risparmio del territorio. In linea di principio siamo aperti al confronto, anche se bisogna essere chiari: non si possono cambiare le regole a partita in corso». Il 31 dicembre 2012 scadono i Piani di Governo del Territorio. «Poi la normativa cambierà sicuramente — aggiunge Belotti —. Ma fino ad allora non possiamo rischiare di essere sommersi dai ricorsi dei Comuni». Legambiente incassa ma non abbandona lo scetticismo. «Quattro anni fa abbiamo posto alla Regione una questione fino ad allora affrontata solo in modo superficiale e propagandistico — spiega il presidente Damiano Di Simine —. Oggi possiamo dire che la questione è entrata nell'agenda politica, ma le soluzioni sono ancora lontane».

L'associazione invita i partiti a gettare la maschera. «I politici di ogni parte si dicono d'accordo con noi, ma la legge, ferma in Consiglio regionale da due anni, non arriva in aula. Chiediamo un voto, a scrutinio palese, che ci dica chi davvero vuole fermare il cemento». Sul medesimo tasto batte anche, intervenendo al congresso, il consigliere regionale dell'Idv Gabriele Sola: «La proposta di legge di Legambiente è un'occasione da non lasciarsi sfuggire per colmare un vuoto normativo". Nel dibattito dell'assise regionale i temi affrontati sono anche altri: dal nucleare alle energie rinnovabili, dai parchi all'inquinamento atmosferico. L'assessore regionale alle Reti e all'Ambiente Marcello Raimondi è intervenuto per ricordare l'impegno del Pirellone sul fronte dello smog. «In dieci anni abbiamo speso 2 miliardi per l'ambiente e contro l'inquinamento atmosferico sono state messe in campo oltre cento misure. Grazie anche al pungolo di Legambiente la sensibilità è molto cresciuta».

Nota: su questo sito già dalla prima pubblicizzazione del progetto di legge lombardo sul consumo di suolo si sono sviluppate discussioni, a partire da una domanda fondamentale, ovvero se sia possibile ridurre la questione a faccenda settoriale. La risposta pare darla il comportamento dell'amministrazione regionale, che evidentemente si è posta (in forma rigorosamente non pubblica) la medesima domanda, trovando per ora la risposta del rinvio continuo, per domani chissà (f.b.)

Il cemento avanza. In tutta la regione. E non di poco, non con lentezza: cresce del dieci per cento. Il confronto va fatto con la Lombardia del '54 (sei milioni e mezzo di persone, tre in meno rispetto a oggi): l'anno del primo «elaboratore elettronico» al Politecnico. Allora i terreni agricoli erano il 56% del totale e siamo scesi al 44%. È soprattutto tra il 1980 e il '99 che la Lombardia ha visto le aree antropizzate salire da 194 mila a 301 mila ettari, mentre le aree agricole sono scese da un milione 260 mila ettari a un milione e 43 mila.

Come eravamo e come siamo. Con la domanda conseguente: come saremo? Da una parte la Lombardia del 1954: sei milioni e mezzo di persone, tre in meno rispetto ad oggi. E' l'anno del primo «elaboratore elettronico» installato al Politecnico; a Milano gli abitanti sono 1,3 milioni (dopo il picco del 1971, siamo ritornati a quella quota) e c'è il sindaco Virgilio Ferrari, socialdemocratico, mentre Brescia (150 mila abitanti contro i 195 mila di oggi) è guidata (e lo sarà fino al 1975) da uno dei padri della Dc, Bruno Boni.

A gennaio dalla sede Rai lombarda la neonata televisione ha trasmesso il suo primo telegiornale; in agosto muore il cardinale Schuster e, alla guida della diocesi milanese, gli succede il bresciano Giovani Battista Montini. E' una Lombardia che già corre verso il boom, con le grandi industrie (è proprio questo l'anno in cui Sesto San Giovanni viene insignita del titolo di città) e i nuovi quartieri popolari, ma che ancora ha tanta parte di sé in migliaia di cascine della grande pianura come nei campi, nelle vigne e negli alpeggi della sua parte nord, quella montuosa. Dall'altra parte la Lombardia di questi anni: l'unico numero che non cambia è la superficie complessiva, 2 milioni e 400 mila ettari.

Allora i terreni agricoli erano il 56% del totale; siamo scesi al 44% nel 2007, data degli ultimi rilievi disponibili dell'Ersaf, l'ente regionale per lo sviluppo dell'agricoltura e delle foreste che da una decina d'anni «fotografa» il territorio e i suoi cambiamenti anche attraverso rilievi satellitari. Per contro, il territorio antropizzato è passato dal 4 al 14% del totale: un dato, quest'ultimo, che mette la Lombardia (eppure rimane la prima regione agricola del paese) bel al di sopra della media nazionale, che ferma al 7,1 la percentuale di territorio occupato da case, strade, ferrovie, altre infrastrutture. Avanzano i boschi, e anche questa — con l'agricoltura di montagna ridotta al lumicino e i pascoli in quota abbandonati — non è una novità: erano il 37% del territorio, sono arrivati al 39.

«L'uso del suolo in Lombardia negli ultimi 50 anni» è il volume che Regione Lombardia ed Ersaf presenteranno con un convegno in programma per il prossimo giovedì 29 settembre nell'auditorium Giorgio Gaber di Milano. Una giornata — con l'Expo 2015 sullo sfondo — dedicata all'analisi e al commento di dati (e delle immagini che da questi numeri è possibile elaborare) che raccontano la storia del territorio ma anche della gente che lo abita. «Dodici ettari al giorno è attualmente il consumo di territorio: dobbiamo pensare a conservare e tutelare, ad uno sviluppo che sia produttivo ma consumi meno» dice Alessandro Colucci, assessore ai Sistemi Verdi, in prima linea su questo tema come i colleghi Daniele Belotti (Territorio e Urbanistica) e Giulio De Capitani (Agricoltura).

Difende, Colucci, la «sua» legge sui parchi (700 mila ettari) passata fine luglio dopo tante polemiche: «Abbiamo coinvolto anche l'ente parco nell'eventuale modifica dei confini rinviando ad un nuovo progetto di legge una definizione migliore della materia». E' soprattutto nei due decenni tra il 1980 e il 1999 che la Lombardia ha visto crescere il cemento, con le aree antropizzate salite da 194 mila a 301 mila ettari, mentre le aree agricole scendevano da 1 milione 260 mila ettari a 1 milione e 86 mila. In media, nei 25 anni dal '55 all'80 sono stati «antropizzati» 3.759 ettari ogni 12 mesi: ma nei due decenni successivi si è passati a 5.663.

PostillaI dati sono allarmanti. Ma nell'articolo si fa la consueta confusione tra due fenomeni molto diversi sebbene ugualmente preoccupanti. Altro è la riduzione della superficie agricola censita come tale sulla base delle statistiche delle aziende agricole, altro è il consumo di suolo dovuto alla sua laterizzazione (grattacieli ville villette e casermoni, cemento, ghiaia, piazzali, strade ecc. ecc.). Della riduzione del suolo agricolo fanno parte la rinaturalizzazione (nuovi boschi, liberazione di aree fuviali, terreni incolti ecc.). Su eddyburg abbiamo ripetuto più volte questa precisazione, che ci sembra diverosa, ma non tutti ci ascoltano.

Morale e politica, questioni non separate

di Luciano Muhlbauer

«Nessuno aveva nulla da obiettare sui privilegi dei nobili di Francia, fin quando essi assicuravano un governo alla nazione». Forse quelle parole di Voltaire non dicono tutto,ma indubbiamente illuminano il nocciolo della questione. Cioè, ieri come oggi, questione morale e questione politica sono inscindibili. Anzi, il dilagare dell’immoralità pubblica è direttamente proporzionale all’intensità della crisi politica. Ecco perché non ha senso discutere della questione morale come se fosse una cosa separata. Sarebbe soltanto un esercizio di ipocrisia e di autoassoluzione.

Vale in generale e vale anche per il caso Penati, comunque vada a finire la sua vicenda giudiziaria. Già, perché quei «dimettiti» e «rinuncia a» sparati ormai a raffica all’indirizzo di Penati, dopo la reticenza iniziale, non convincono. In fondo Filippo Penati non è proprio una meteora. È stato sindaco, segretario provinciale, presidente della Provincia, coordinatore della segreteria nazionale, candidato alla presidenza regionale e vicepresidente del consiglio regionale.

Ma soprattutto è stato l’ispiratore, il simbolo e il capofila di quel Pd del Nord che postulava la risalita della china in terra nemica mediante un’operazione culturale che portasse i democratici ad assomigliare sempre di più all’avversario e ad integrarsi sempre maggiormente nel sistema di potere esistente.

Ed ecco, dunque, il Penati che parlava come la Lega e De Corato, coltivava rapporti ravvicinati con Cl e annessi, emetteva scomuniche contro la cultura del ’68 e, ovviamente, definì una politica delle alleanze incentrata sulla rincorsa del centro e sulla rottura a sinistra. Molto difficile, dunque, sostenere che il caso Penati riguardi soltanto Penati. Beninteso, il punto non è processare il Pd, come vorrebbe la destra. Infatti, anche nel periodo di massima forza del penatismo vi fu chi dentro il Pd dissentì e si oppose, così come fuori dal Pd vi fu chi non si oppose e, anzi, condivise. No, il punto è un altro ed è tutto politico. Cioè, occorre finirla con quella tragica rimozione della politica, perché a disintegrare ogni presunta «diversità» e a costruire il brodo di coltura dell’affarismo fu proprio la concezione penatiana della politica.

E, peraltro, senza nemmeno realizzare l’obiettivo che doveva giustificarla, cioè la risalita della china. Anzi, il penatismo è stato foriero di sconfitte e arretramenti.

L’esempio forse più lampante sono le elezioni regionali del 2010. Penati non ha solo ha rotto il fronte dell’opposizione a Formigoni, estromettendo Rifondazione senza peraltro arruolare l’Udc, ma soprattutto ha realizzato un risultato assolutamente negativo, collocandosi ben 10 punti sotto quello del compianto Riccardo Sarfatti del 2005. Soltanto un anno più tardi Giuliano Pisapia avrebbe vinto le elezioni a Milano, con una politica che era l’esatto opposto di quella di Penati. Anche per questo risultano più che stucchevoli i tentativi di coinvolgere Pisapia, specie se provengono da esponenti dello stesso centrosinistra.

Sarebbe un errore straordinario se il Pd insistesse nella rimozione della questione politica, illudendosi di salvare il salvabile. È vero il contrario, basta guardarsi attorno. La primavera dei sindaci e dei referendum sembra già lontana, le due manovre finanziarie hanno un segno classista esplicito e il governo sembra redivivo e capace di sopravvivere a questo autunno, mentre l’opposizione parlamentare si azzuffa addirittura sullo sciopero generale. Insomma, o il Pd trova la lungimiranza di cogliere l’occasione per un rinnovamento politico serio oppure il prezzo lo pagheremo tutti, con altri Penati e nuove sconfitte.

«Bersani rompa il sistema delle spartizioni al Nord»

Intervista a Marco Cappato, di Daniela Preziosi

Le espulsioni sono «roba buona per i partiti stalinisti, fascisti, dipietristi e leghisti», anziché pensare «a nuove purghe» il Pd dovrebbe «rompere con la politica di complicità con il potere formigoniano e di Comunione e lottizzazione». Marco Cappato, consigliere comunale radicale, a Milano è inmaggioranza con il Pd ma ricorda che alle regionali in cui Penati era candidato del centrosinistra, i radicali non lo votarono: «Perché, lo abbiamo detto, non era alternativo al sistema di potere trasversale che c’è in Lombardia e nel Nord».

Faccia qualche esempio.

Da anni i grandi appalti delle infrastrutture, della sanità e dei trasporti sono esclusiva di reti trasversali di affari della galassia di Cl e della Compagnia delle opere insieme alle cooperative rosse. Il presidente della Regione Formigoni è l’elemento forte. E il Pd, con Penati, si limita a occuparne la quota di minoranza. Non parlo di reati, parlo di una spartizione politica. Penati doveva essere il capo dell’opposizione alla Regione, e invece ha accettato di diventare vicepresidente del consiglio della Lombardia.

Altro esempio: ci sono mille persone che hanno dichiarato alla Procura che le firme sulla candidatura di Formigoni sono false? È un potenziale attentato alla democrazia, ma il Pd non fa niente, se non per una cosa meno grave sotto il profilo democratico chiedere le dimissioni della Minetti. Sulla vicenda del limite dei due mandati di Formigoni, Penati ha aderito in anticipo alla tesi di Formigoni.

Il democratico Errani è nella stessa condizione.

Appunto. In Lombardia il Pd ha chiuso un occhio sulla ineleggibilità del consigliere Pdl Pozzi, che ha sottoscritto dimissioni tardive da aziende controllate dalla Regione, perché ne ha uno proprio, Costanzo, nelle stesse condizioni.

L’allontanamento di Penati dal Pd non basta?

No, né basta rottamare un pezzo di classe dirigente, o fare le scarpe allo stesso Bersani, se non cambia la politica. Ora nel Nord c’è un sistema di spartizione in cui le cooperative rosse sono forti in Emilia, quelle bianche e quelle verdi nel Veneto, quelle bianche di Cl in Lombardia. Se il Pd non cambia questo, e non si batte per regole di trasparenza, non cambia niente.

L’assessore comunale Maran, indicato come uomo di Penati, si deve dimettere?

No. Gli arrivano accuse indirette e fumose. Dimostri di essere fuori da questo sistema. Pensi subito per esempio a realizzare la volontà popolare espressa nei cinque referendum ambientali.

postilla

per chi segue questo sito, forse è abbastanza “consolante” leggere le condivisibili interpretazioni politiche (se vogliamo usare questa parola a dire il vero un po’ impropria) di un caso di cui la cronaca si occupa esclusivamente coi soliti toni un po’ giustizialisti e sbrigativi. Consolante perché emerge chiara, addirittura lampante, la spiegazione di anni, anni e anni di scelte territoriali. Strascico pesante di una cultura industrialista dura a morire? Certo, sicuro, ma poi? Il meccanismo da manuale, quasi caricaturale a dire il vero, con cui da un lato si delineavano scenari di sviluppo anni ’60 a colpi di strade capannoni e centri commerciali, dall’altro si cooptavano direttamente o indirettamente pezzi e diramazioni del mondo che in teoria avrebbe dovuto far muro contro queste ipotesi, adesso un po’ si illumina. E lascia esterrefatti soprattutto scoprire (per i non addetti ai lavori, se si consente, è una scoperta) quanto ramificato e solido fosse, il patto d’acciaio. C’è da sperare proprio che la magistratura possa procedere, ma soprattutto che emerga chiaro quanto e come lo sfascio ambientale e lo spreco di risorse e ricchezza, questioni legali a parte, derivi dal pneumatico vuoto culturale di una classe dirigente e dei suoi tirapiedi e tuttologi a gettone. Che naturalmente ritroveremo presto a pontificare sotto altre insegne. Per alcuni aspetti di questa patologia bi-partisan da Sesto all'eternità, si veda anche il recente commento di Sergio Brenna (f.b.)

MILANO — Prima la legge sui parchi, adesso le moto. Non c'è pace per le aree protette della Lombardia. La Regione sta lavorando a un accordo quadro con la Federazione motociclistica italiana (Fmi) per permettere ai bolidi su due ruote di entrare nelle zone sottoposte a tutela ed «entro l'anno — spiega l'assessore Alessandro Colucci, che si occupa di parchi e foreste — ci auguriamo di poter definire la nuova normativa».

I motociclisti sono, ovviamente, d'accordo. «Ci stiamo lavorando da diversi mesi — spiega Alessandro Lovati, presidente regionale della Fmi — abbiamo 30 mila soci, quasi 25 mila famiglie che votano, e chiediamo di poter andare anche noi in queste aree, usando però percorsi prestabiliti e un tesserino di identificazione». In Lombardia ci sono 24 parchi regionali che, insieme a quelli sovracomunali e alle riserve, si estendono su 450 mila ettari dalle Alpi al Po.

«Ma a noi di queste trattative per far entrare le moto nelle aree protette non ha detto nulla nessuno — replica Milena Bertani, presidente del Parco del Ticino e di Federparchi Lombardia — anche perché è molto tempo che non abbiamo più un tavolo di confronto con Colucci. Per i parchi le priorità siano altre. E poi se i motociclisti hanno 30 mila soci, solo sui nostri sentieri ciclopedonali lungo il Ticino passano oltre mille persone al giorno». Intanto lo stesso assessore ammette che «la materia non è facile e ha risvolti delicati: vanno posti limiti, regole e, dove il caso lo richieda, anche divieti assoluti. Visto che qualche problema c'è».

Al Parco Adda Sud (fra Lodi e Cremona), dopo il boom dei danni causati dai motociclisti negli ultimi mesi, hanno appena deciso di schierare 60 guardie ecologiche per controlli a sorpresa, riprese video e foto.

«Oltre alle multe chiederemo i risarcimenti — spiega Silverio Gori, presidente dell'Adda Sud. — Nel parco si può venire a piedi, in bicicletta e a cavallo proprio per garantire il rispetto della natura, mentre le moto rovinano i sentieri, emettono fumi di scarico e lanciano raffiche di polvere e pietrisco». Una situazione che in passato ha riguardato anche le ex aree di cava del Parco Adda Nord (fra Lecco, Monza, Milano e Bergamo) e il Parco del Mincio, sulle Colline Moreniche e fra Monzambano e Cavriana. Dopo l'aumento dei controlli, i crossisti hanno traslocato.

«Quelli che fanno danni sono "cani sciolti" non iscritti ad alcuna associazione e che non seguono i nostri corsi di educazione stradale», dice il leader lombardo della Fmi. «Ma in ogni caso — commenta Alessandro Benatti, presidente del Parco del Mincio — anche valutando le singole situazioni, nelle aree di rilevanza ambientale non vedo molte zone per il motocross. E se la natura va tutelata, il peso non è solo di quelli che votano».

A chi capitasse di entrare a Pessina Cremonese, nella grande pianura una decina di chilometri a est del capoluogo, non può certo sfuggire il vistoso cartello che recita Comune libero da pregiudizi razziali, premio per la Pace 2010. E per fortuna, si potrebbe anche dire, visto che cose del genere anche nell’Italia del terzo millennio dovrebbero essere banali come l’acqua fresca, garantite dalla Costituzione e compagnia bella. Ma in epoca di verdastri figuri che ne sparano di tutti i colori in nome di improbabili identità territoriali, diritto di sangue ecc., ben venga anche un territorio che ha messo nero su bianco sul cartello da qui in là siamo ufficialmente liberi da pregiudizi razziali. La cosa poi fa il paio con la notizia che a cavallo tra fine luglio e primi di agosto è rimbalzata su vari giornali nazionali e locali: a Pessina Cremonese fra un paio di settimane si inaugura il più grande Tempio Sikh d’Europa. Bello, no?

foto f. bottini

Una volta nella pianura grassa dei fossi da irrigazione e delle vacche da latte li chiamavano bergamini, gli addetti alle stalle. Perché venivano dalla più povera alta pianura bergamasca a cercare lavoro dove scorre la crema, anzi addirittura la cremona da tanta che ce n’è. Poi nei territori asciutti bergamaschi hanno trovato una coltura che pare rendere meglio, quella dei capannoni, e i bergamini nella grande pianura irrigua hanno cominciato a importarli da più lontano, addirittura dal subcontinente indiano. Magari pensando, a torto o a ragione, che chi viene da un posto dove alcuni considerano sacra la vacca, chissà come le coccola, quelle preziose bestie, che produrranno sempre più crema. E basta imboccare una qualunque delle traverse che incrociano la Padana Inferiore 10, per iniziare lunghi percorsi a serpentina fra lontani orizzonti di silos, edifici bassi, e l’onnipresente più o meno sottile odore di stalla, per vedere che da queste parti la popolazione dotata di turbante, lunga barba, eleganti abiti etnici per le signore, e incarnato diciamo poco padano, sta perfettamente inserita nel territorio.

Oppure, per una immagine meno bucolica, si può fare una spedizione comparata fra i centri commerciali che spuntano dai campi di granturco più o meno tra la fascia della Padana Inferiore 10 e quella (svariati chilometri più a nord) della 235 bresciana-cremasca, o della Padana Superiore 11 già sull’orizzonte alpino. Qui soprattutto il sabato la popolazione dei neo-bergamini in prevalenza sikh salta davvero all’occhio, con le numerose e corpose famiglie in spedizione automobilistica shopping-relax ai confini del consumismo, versione postmoderna del vecchio detto tutti casa e bottega ma anche no. Eravamo però partiti da Pessina Cremonese col suo Tempio, e adesso ci torniamo subito, ma dopo aver ripassato un paio di cose. Dove si vedono (dove presumibilmente stanno soprattutto) gli amici sikh? Fra stalle e agresti decentratissimi dintorni, poi al sabato nelle decentratissime cattedrali della religione consumista. Ma finalmente adesso li vedremo e incontreremo in pompa magna a Pessina, nel loro Tempio più Grande d’Europa, di fianco a quel cartello che proclama giustamente e orgogliosamente Comune libero da pregiudizi razziali. Sbagliato!

Sbagliato, sbagliatissimo, perché dietro a quel cartello c’è il villaggio o nucleo comunale che dir si voglia di Pessina Cremonese, con qualche grosso impianto di stalle ai margini, il campanile, il campo sportivo dell’oratorio eccetera. E invece il Tempio Sikh più grande d’Europa, per trovarlo, bisogna andare proprio da tutt’altra parte, e a piedi non è certo una passeggiata, neanche in bici a ben vedere. Tocca uscire dal paese, passare di fianco al cartello anti-discriminazione, scendere fino alla linea della Padana Inferiore, seguire il tracciato della statale verso est, e poi giù per il curvone verso Piadena oltre la casa cantoniera in disuso e la vecchia cascina dove molti anni fa qualcuno aveva aperto decisamente on the road l’innovativo Bar dell’Autista. Ancora oltre, passato un più prosaico distributore, si imbocca a destra la strada per Torre de’ Picenardi (per i letterati è l’ex feudo del manzoniano Fra’ Cristoforo, personaggio realmente esistito) e finalmente appare la modesta capannonata. Perché di questo si tratta: il Tempio Sikh più grande d’Europa, è un capannone fra capannoni, indistinguibile salvo un rivestimento vagamente più curato da quelli che ci stanno accanto, magari (senza nessuna offesa naturalmente) anche da quello che un paio di chilometri più avanti sulla statale inalbera l’insegna Biberon Lapdance.

Se si scorrono gli articoli di giornale che in questi giorni stanno raccontando brevemente la storia della singolare struttura, naturalmente c’è anche la perfetta spiegazione tecnica, contestuale, amministrativa, finanche culturale. Per quanto riguarda la comunità Sikh quello pare sia l’unico terreno trovato con dimensioni adeguate da comprare e edificare: circa 25.000 metri quadrati di spazi sociali, di culto, incontro divisi in vari ambienti su due livelli. Per quanto riguarda il consorzio di comuni più amministrazione provinciale che si sono fatti carico di coordinare l’iniziativa è una posizione più o meno baricentrica, adatta, con destinazione d’uso sostanzialmente compatibile. L’architetto progettista da par suo inizia a ragionare a fil di parete, racconta di funzioni interne, di scelta dei materiali, di adeguamento di cose locali a esigenze diverse (si era anche parlato di importare da chissà dove cupole dorate). Ma resta qualcosa che non va, proprio non va: capannone, centro commerciale, deposito, lottizzazione industriale, strada a cul-de-sac. Tutto converge a evocare la parolina magica che da mezzo secolo perseguita i sonni di urbanisti, sociologi, ambientalisti: sprawl, ovvero segregazione urbanistica che si traduce in segregazione sociale, piaccia o meno a chi la subisce o magari se la cerca.

Quel baccello cementizio a fondo chiuso sulla diramazione della Padana 10, a un paio di chilometri abbondanti da Pessina vera e propria, e almeno altrettanti dal resto del mondo civile in tutte le direzioni, forse non a caso alla fine ha messo d’accordo tutti, emarginando anche le solite opposizioni del legaioli duri puri e coglioni. Quelli che non capiscono, come sottolineano ovviamente gli altri, che l’economia locale - su cui campano pure terra sangue e diritto - senza la comunità sikh andrebbe in malora in una settimana. Bisognerebbe fargli il monumento, oltre al Tempio! Ma anche quelli che capiscono, che parlano di integrazione, magari non di multiculturalismo perché gli echi europei meglio lasciarli dentro la televisione, pare non vedano l’evidenza: perché la chiesa di Pessina sta al centro del paese e il tempio sikh a tre chilometri di distanza da tutto? E tanto per dirla chiara, perché un centro che si rivolge a un territorio immenso non sta nel posto più ovvio, ovvero direttamente a Cremona, il capoluogo? Di aree industriali dismesse a cui dare una nuova e nobile funzione ce ne sono a bizzeffe, a ridosso del centro: una cupola dorata ad affiancare il Torrazzo non ci starebbe magnificamente?

foto f. bottini

E invece no: è la sottile pervasività della religione ecumenica dello sprawl a mettere d’accordo tutti. La comunità sikh che trova un terreno edificabile economico. Gli amministratori locali che si fanno belli con le dichiarazioni di principio e i cartelloni con stampato su un bello slogan assessorile. E sotto sotto i biliosi legaioli irriducibili che accettano questa forma di perfetta integrazione segregata, che a suo modo declina localmente il globale “aiutiamoli a casa loro”. Lontano dagli occhi lontano dal cuore. Oppure, letto da sinistra, oggi la fabbrica-territorio può svolgere il medesimo ruolo di integrazione del grande impianto centralizzato di una volta. Peccato che manchi una cosuccia: la città attorno all’impianto, e che un processo di integrazione schizofrenico come quello del costante pendolarismo da sprawl non sia da augurare neanche ai peggiori nemici. Insomma tanti auguri alla comunità sikh che il 21 agosto inaugura il più grande Tempio d’Europa, ma anche a noi perché la prossima volta proviamo a fare meno cazzate. Non basta, ma di sicuro aiuta.

foto f. bottini

MANTOVA — La bandiera dei pirati sventola in riva al Po: da Cremona fino al confine tra Lombardia e Veneto e ancora più a valle, questa è terra senza legge e bottino di guerra per troppe persone. L'ultima guerra che le comunità rivierasche hanno dovuto ingaggiare con scarsi mezzi e scarsi risultati è quella contro un fenomeno sorprendente: i predatori del pesce siluro.

Rifiutato dalle tavole italiane, dove anzi è stato a lungo considerato una specie infestante, il siluro è considerato una prelibatezza nell'Est Europa. Il risultato è che bande, prevalentemente ungheresi, calano in riva al Po, riempiono camion frigo di pesce catturato con metodi illegali e se ne tornano da dove sono venuti. Tutto approfittando dell'oscurità.

«Qualche sera fa stavo rientrando con la mia barca a riva, per poco non sperono un natante che procedeva a fari spenti; quelli dell'altra barca mi hanno pure inveito contro, in una lingua incomprensibile e uno mi ha fatto il segno di tagliarmi la gola...»: Vitaliano Daolio è uno che sul Po ci vive e ci lavora, accompagnando appassionati e turisti in battute di pesca (autorizzate). E' tra i tanti che hanno già denunciato la presenza di queste bande di predatori. «In Ungheria la pesca è molto regolamentata, qui trovano campo libero anche per l'assoluta mancanza di controlli — racconta Daolio — agiscono di notte usando anche reti ed elettrostorditori, strumenti assolutamente proibiti da noi: in poche uscite raccolgono anche 20, 30 quintali di pesce che in Ungheria vendono a 5 euro al chilo».

I segni dei bivacchi sono visibili in molti punti delle vegetazione tra Cremona e Viadana, ma anche sulla sponda emiliana a Luzzara e a Boretto. «Troviamo le carcasse dei siluri in riva al fiume — denuncia Maurizio Castelli, assessore alla caccia e alla pesca della Provincia di Mantova —, segno che il pesce viene ripulito e sfilettato sul posto per poi essere caricato sui camion frigo già in attesa».

Del business del siluro non approfittano solo gli ungheresi: numerosi siti tedeschi pubblicizzano i «wallercamp», pacchetti turistici tutto compreso: 1.600 euro la settimana con campeggio selvaggio sulla sponda lombarda (in Emilia è vietato), dove l'attrazione è proprio la pesca al siluro; una vacanza molto spartana, che in Italia nessuno apprezzerebbe. Non così in Germania, almeno a giudicare dalle foto pubblicate su questi siti e che ritraggono i partecipanti alle battute con le loro prede. «Mi piacerebbe che venissero controllate le imbarcazioni usate da questi signori, per vedere se è tutto in regola...» butta lì sibillino Vitaliano Daolio.

La frase introduce in qualche modo l'altra attività piratesca di cui il Po è diventato teatro negli ultimi mesi: i furti di motori nautici. A Boretto, qualche settimana fa, le telecamere sulla sponda hanno ripreso l'arrivo di un'imbarcazione dalla quale scendono uomini incappucciati; questi cominciano a prendere a martellate le barche ormeggiate e se ne vanno con i motori, senza tanti complimenti. Ma i furti si sono susseguiti nel porto di Cremona (sette natanti spogliati), a Revere (addirittura undici), a Motta Baluffi.

Il problema, come detto, sono i controlli: le polizie provinciali lungo la sponda pattugliano di giorno (non di notte, quando i predatori entrano in azione), ma sono composte da agenti disarmati. Anche i carabinieri disponevano fino a tre anni fa di una pilotina, ma il servizio è stato inspiegabilmente revocato. Insomma, col calare della notte il tratto lombardo del grande fiume diventa Far West. E i pescatori di frodo, i ladri di motori si aggiungono ai cavatori abusivi di sabbia, fenomeno meno recente ma sempre duro a morire. «L'ideale sarebbe un sistema di videosorveglianza — propone l'assessore Castelli — che terrebbe sotto controllo l'intero fiume».

Possibile? In ogni caso occorre fare presto perché persino il siluro comincia a scarseggiare. «Sono stato fuori sette ore — raccontava ieri Daolio — e ho percorso 30 chilometri di fiume senza catturare nulla».

Lui non ha catturato nulla, altri hanno riempito i camion.

A guardarla sulle mappe, la Tem (la nuova Tangenziale esterna di Milano) sembra solo una linea curva che collega Melegnano ad Agrate. Ma quando verrà costruita sarà molto di più: un ampio nastro d’asfalto, pieno di auto e camion che per 32 chilometri di lunghezza passerà in mezzo ai campi coltivati, vicino ai paesi, accanto a rogge e canali, ramificandosi poi con altri 38 chilometri di altre strade che nel linguaggio dei tecnici vengono chiamate "viabilità accessoria" ma che in pratica vogliono dire ancora asfalto e cemento.

Non so se la Tem risolverà, come molti dicono, i problemi del traffico di Milano. Qualche dubbio ammetto di averlo. Ma se il progetto resterà quello che ci hanno prospettato prima dell’approvazione dell’altro giorno al Cipe, credo che l’impatto sul territorio sarà molto pesante per tutto e per tutti: per gli abitanti che verranno stretti nella morsa dello smog dove adesso c’è il verde, per le piste ciclabili che inevitabilmente confineranno con una vera autostrada piena di auto e camion, per le rogge che dovranno essere coperte o superate o inglobate in sarcofaghi di cemento, per i campi coltivati che saranno tagliati in due da questa specie di "muro di Berlino orizzontale".

L’impatto sarà molto pesante anche per le duecento famiglie di agricoltori che verranno danneggiate dall’opera e si troveranno i cantieri al fianco di stalle e mais. Le strade sono importanti, ma bisogna mettere ordine, con regole che tutelino il territorio. Perché la terra non è un bene che puoi riprodurre a piacimento. Una volta che l’hai consumata, è finita per sempre. E senza la terra non finisce solo l’agricoltura, ma anche l’ambiente, lo sviluppo economico, la produzione di cibo, i servizi.

Tanto per fare un altro esempio, con la futura Toem (la gemella della Tem che dovrebbe svilupparsi in futuro sulla fascia ovest di Milano) saranno cancellate produzioni pari a 4 milioni all’anno di piatti di riso. E dopo che cosa ci resta? Solo l’asfalto.

Per questo prima di pensare a muove grandi opere sarebbe meglio potenziare e riqualificare la viabilità già esistente. Perché le valutazioni sull’impatto delle infrastrutture non basta farle sulle carte, a tavolino, nel chiuso di qualche ufficio, ma bisogna andare sul posto, nei paesi, nelle aziende agricole, guardare in faccia le persone, parlare con loro, trovare soluzioni alternative se possibili e soprattutto capire che dietro i numeri di un progetto, per quanto grande e importante che sia, ci sono sempre le vite delle persone, delle loro famiglie e il loro futuro.

(presidente Coldiretti Milano e Lodi)

Corriere della Sera

Da ottobre i cantieri della Tem

di Luigi Corvi

Partiranno in ottobre i cantieri per la costruzione della Tangenziale esterna milanese (Tem), un’opera attesa da molti anni e che entro il 2015, assieme a Pedemontana e Brebemi, dovrebbe garantire il decongestionamento dell’area milanese giusto in tempo per l’apertura dell’Expo. Ieri il Cipe (il Comitato interministeriale per la programmazione economica) ha dato il via libera alla realizzazione della nuova autostrada, il cui progetto definitivo era stato ultimato più di un anno fa e approvato da Cal, l’ente concedente, nel novembre scorso. La Tem costerà 1,7 miliardi di euro e sarà realizzata in project financing da una spa i cui azionisti principali sono Autostrade per l’Italia e Milano-Serravalle. Permetterà di aggirare a Est l’area metropolitana milanese, oggi vicina al collasso soprattutto nelle ore di punta, collegando l’autostrada del Sole con la A4 Torino Milano-Venezia, dalle porte di Melegnano (Cerro al Lambro), ad Agrate Brianza.

Un tracciato di 32 chilometri a tre corsie per ogni senso di marcia (più la corsia di emergenza) che farà risparmiare 9 milioni di ore annuali di viaggio, assorbendo 75mila veicoli al giorno di cui 35mila di traffico locale. Attraverserà tre province (Lodi, Milano, Monza Brianza) e avrà interconnessioni con le principali arterie dell’est Milanese, come Paullese, Cassanese e Rivoltana, attraverso sei svincoli (a Pessano con Bornago, Gessate, Pozzuolo Martesana Liscate, Paullo, Vizzolo Predabissi) e tre collegamenti con autostrade (A1, A4 e Brebemi).

La costruzione della nuova arteria, che con un accordo di programma ha visto la partecipazione degli enti locali interessati (tra cui venti comuni della provincia di Milano e 7 della provincia di Lodi), renderà necessario adeguare la viabilità ordinaria per rendere scorrevoli le interconnessioni, per ridurre il traffico di attraversamento di alcuni centri abitati e per risolvere situazioni che già oggi sono critiche. Il tutto si tradurrà in 38 chilometri di nuove strade e nella riqualificazione di tratti per un totale di 15.

Lungo il tracciato troveranno spazio 2,2 milioni di mq di verde che dovrebbero consentire di abbattere il 20%di inquinamento. «E’ la più grande operazione europea in project financing in questo momento» , ha sottolineato ieri il viceministro delle infrastrutture Roberto Castelli. Sull’autofinanziamento dell’opera, che sarà pagata con i pedaggi degli automobilisti, si è soffermato anche il presidente della Regione Roberto Formigoni. «Il sistema regionale — ha detto — ha dimostrato ancora una volta di essere capace di fare da sé» .

Soddisfatto anche l’assessore Raffaele Cattaneo: «Dopo Brebemi e Pedemontana abbiamo raggiunto un altro risultato importante. Ora ci batteremo per ottenere dal Cipe i finanziamenti necessari al prolungamento della M2 e della M3» . Critiche invece dal presidente della Commissione urbanistica del Comune di Milano, Roberto Biscardini: «La Tem non è una priorità, con la crisi che stiamo attraversando il progetto dovrebbe essere rivisto e ridimensionato» . La realizzazione della Tem vedrà entro il 2015 il completamento del sistema autostradale formato dalla Pedemontana, a Nord, e della Brebemi sull’asse est-ovest.

Non solo, alle tre nuove autostrade si aggiungerà, entro la stessa fatidica data, l’interconnessione tra Pedemontana e Brebemi, secondo un tracciato che da Treviglio raggiungerà Bergamo, con una bretella di collegamento alla Pedemontana, tra Brembate e Osio Sotto. Un tracciato di 18 chilometri il cui progetto, su incarico di Infrastrutture Lombarde, sarà realizzato da Autostrade Bergamasche, una spa di cui la Provincia di Bergamo ha il 24,71%e di cui fanno parte banche e costruttori della zona attraverso il consorzio Gol, di cui è capofila la Vitali di Cisano Bergamasco. Saranno nove i Comuni attraversati da questa interconnessione: Casirate, Pontirolo Nuovo, Fara Gerda d’Adda, Ciserano, Boltiere, Osio Sotto, Levate, dalmine e Stezzano. Oltre a Treviglio, che verrà a trovarsi in una posizione strategica avendo finalmente collegamenti rapidi con Bergamo e con Milano.

la Repubblica

Via libera finale alla Tem ma sindaci e agricoltori daranno ancora battaglia

di Andrea Montanari



Il sospirato sì del Comitato interministeriale per la programmazione economica al progetto definitivo e al piano finanziario della Tem è arrivato, ma il mondo politico si divide di nuovo sulla nuova tangenziale esterna. Trentadue chilometri che collegheranno l´autostrada del Sole con la Milano-Torino e soprattutto con la Brebemi, la nuova direttissima Milano Brescia. Costo complessivo dell´opera, poco meno di 1,6 miliardi di euro. Interamente in project financing. I sindaci della periferia est, gli agricoltori, gli ambientalisti e la sinistra radicale annunciano battaglia.

«Il Cipe ha approvato l´infrastruttura sbagliata - attacca Damiano Di Simine di Legambiente - . Cancellerà almeno mille ettari si superfici oggi agricole. Qualcuno ha informato il sindaco di Milano che deve attrezzarsi per accogliere in città 70mila auto al giorno in più?». Immediata anche la reazione del socialista Roberto Biscardini, presidente della commissione urbanistica di Palazzo Marino: «La Tem non è una priorità per Milano - spiega - con la crisi che stiamo attraversando questo progetto dovrebbe essere rivisto e ridimensionato». Massimo Gatti della Federazione della Sinistra aggiunge: «Vergogna, milioni di euro buttati, mentre il trasporto pubblico va a pezzi».

Di diverso avviso il Pd Matteo Mauri che però aggiunge: «Finalmente il Cipe ha autorizzato il progetto definitivo. Ora la priorità è la riqualificazione della viabilità ordinaria». Sulle barricate il sindaco di Paullo Claudio Mazzola: «Abbiamo chiesto precise garanzie, non ci faremo prendere in giro». E il direttore della Coldiretti di Milano, Carlo Greco: «Il tracciato divide in due duecento proprietà provocando danni enormi». Il dipietrista Roberto Biolchini parla di «ottimo risultato», ma chiede anche di «tutelare i pioltellesi».

Visibilmente soddisfatto il presidente di Brebemi Spa Francesco Bettoni («è un via libera fondamentale»). L´amministratore delegato di Tem Fabio Terragni annuncia: «Apriremo i cantieri entro fine anno».

Il governatore Roberto Formigoni canta vittoria: «Il sistema regionale ha dimostrato una volta di più di essere capace di fare da sé. Un metodo di cui possiamo essere tutti orgogliosi». Il vice ministro alle Infrastrutture Roberto Castelli precisa che con il via libera alla nuova tangenziale esterna «si completa l´iter burocratico di tutte le opere connesse all´Expo 2015». Il presidente della Provincia Guido Podestà segnala che la Tem ha «un problema di risorse. Adesso bisogna trovare la disponibilità di nuovi soci». Ma l´assessore regionale ai Trasporti Raffaele Cattaneo non ha dubbi: «Senza questo passaggio ci sarebbero stati grossi ostacoli all´avvio dei lavori, che in questo modo si concluderanno all´inizio del 2015, in tempo per l´Expo».

La nuova tangenziale permetterà di assorbire oltre 75mila veicoli giornalieri, di cui 35mila del traffico locale e risparmiare nove milioni di ore annuali di viaggio. Il progetto prevede la collocazione lungo tutto il percorso di 2,2 milioni di metri quadrati di verde. Cosa che secondo i progettisti assicurerà l´abbattimento del venti per cento dell´inquinamento.

É stato presentato il 28 luglio a Bologna il Rapporto di Legambiente Emilia Romagna sulle infrastrutture. Il documento ha voluto mettere in fila le principali infrastrutture stradali previste in regione, mostrandone i limiti e gli impatti che porteranno.Nella Regione Emilia Romagna, i livelli di inquinamento sono quelli comuni a tutto il bacino padano (tra le regioni più inquinate del mondo)e il numero di auto per abitante è superiore alla media nazionale; l’Osservatorio Nazionale per il Consumo di Suolo (ONCS) ha stimato che in Emilia Romagna dal 1975 ad oggi si è costruito con un ritmo di 8 ettari al giorno. Pur in questa situazione, le principali opere in programma a scala regionale e provinciale sono nuove autostrade, tangenziali, strade provinciali.

Il comune denominatore di buona parte delle infrastrutture analizzate è quello di incentivare ulteriormente il traffico su gomma, secondo una logica vecchia, e di non prendere in considerazione alternative valide.

TERZO PONTE SUL PO: LE VALUTAZIONI DI LEGAMBIENTE

L'intervento consiste in un nuovo collegamento autostradale tra il casello di Castelvetro Piacentino e la SS 10 Padana inferiore, con attraversamento del fiume Po e collegamento con il porto interno di Cremona, ed opere connesse. In territorio emiliano le opere prevedono la realizzazione di un nuovo casello a Castelvetro, un raccordo autostradale con la SS 10 e la SS 234, con un nuovo ponte sul Po.

Così si legge nel rapporto sulle infrastrutture in Emilia Romagna: «Da uno studio interdisciplinare realizzato da autorevoli docenti ed esperti (in ecologia, botanica, pianificazione del territorio, urbanistica, architettura, estetica, conservazione della natura, tecnica e pianificazione urbanistica, scienze della terra e tossicologia degli inquinanti ambientali), si evince che il progetto del Terzo Ponte è in contraddizione con le scelte di sostenibilità ambientale, sociale ed economica che devono caratterizzare un futuro sostenibile».

«Il progetto ha ottenuto il via alla Valutazione di Impatto Ambientale ed è stato ripubblicato il 31/03/2010. Ma lo stesso (così come il Decreto VIA) ha recepito ben poco del parere della Regione Emilia Romagna, ovvero un documento di 53 pagine fitto di osservazioni. Tra i suoi punti deboli il progetto definitivo non ha preso in considerazione diverse alternative progettuali molto meno costose ed impattanti e non prende in considerazione il calo di flussi di traffico pesante del 7,5% nel biennio 2008-2009 e conseguentemente l’effettiva necessità dell’opera.

Per quanto riguarda il contesto ambientale e gli impatti si riscontra: sottrazione di suolo (quasi 300 ettari di aree golenali, zone agricole di pregio ed aziende agricole), con frazionamento ed inutilizzabilità delle aree agricole; forte impatto su tre aree Natura 2000 (SIC e ZPS), frammentazione di 1000 ettari di habitat di riproduzione, possibile impatto su numerosi animali tutelati; attraversamento di una zona di industrie a rischio di incidente rilevante; aumento dell’inquinamento dell'aria di Castelvetro poiché cinturato completamente dall'autostrada.

Esistono diverse possibili ipotesi alternative al terzo ponte, meno costose ed impattanti, fondate su premesse fondamentali quali l'intangibilità del comprensorio golenale a cavallo del Po, l'uso urbano del ponte in ferro esclusivamente per il traffico automobilistico leggero e il trasferimento di tutto il traffico pesante sulle circonvallazioni e sull’autostrada:

1. Chiusura del casello autostradale di Castelvetro piacentino, che ha dimostrato nei suoi oltre trent'anni una bassa utilità per il territorio emiliano (nessun insediamento produttivo sul territorio in funzione della sua presenza) a fronte di un esclusivo interesse per l'area lombarda. Mentre aree come quelle di Piacenza e dei Comuni di Caorso e Monticelli d'Ongina, hanno evidenziato lo sviluppo esponenziale, per quanto discutibile, di insediamenti a vocazione logistica a fronte di nessun simile insediamento in Castelvetro.

2. Liberalizzazione completa del tratto tra i caselli autostradali di Castelvetro e Cremona in entrambi i sensi in modo che diventi una superstrada senza pedaggio e praticabile come viabilità ordinaria, da rendere comunque in ogni modo obbligatoria per i mezzi pesanti che attraversano il Po. Il difetto di tale proposta è quello di presentare un percorso più lungo per i mezzi che devono raggiungere da sud la zona industriale, ma di certo è la soluzione più rapida, meno costosa e meno impattante per le aree ecologicamente pregiate presenti lungo il grande fiume.

3. Realizzazione della “Gronda nord”. L'accettazione del ruolo di questa direttrice dipende, oltre che da motivazioni derivabili dalla lettura dell'assetto infrastrutturale del comprensorio di Cremona, da giustificazioni sull'opportunità di raccogliere in questa posizione tutti i principali flussi est-ovest che attraversano l'area cremonese. Il tracciato dovrà svilupparsi in modo da assolvere a funzioni di scorrimento del traffico a livello comprensoriale e regionale, collegando le principali funzioni integrative della città

4. Sfruttamento della viabilità esistente e ponti sul Po già in uso. Si tratta di un itinerario raggiungibile dalla A21 attraverso il posizionamento di un nuovo casello o utilizzando quello di Caorso. Per la funzionalità piena di questo nuovo percorso sono necessari interventi meno impegnativi e meno costosi della realizzazione del terzo ponte e comunque molto meno impattanti sul territorio.

postilla

Questo sito ha già ricevuto a proposito del "terzo ponte" di Cremona memorie tecniche dettagliate in cui si spiega, sia in una prospettiva di mobilità a scala sovraregionale, che di area urbana, e ovviamente di tutela ambientale, quanto sia schematica, autoreferenziale, sostanzialmente arbitraria, la soluzione.

L'articolo che proponiamo ora riassume in breve più o meno le stesse motivazioni, ovvero che è possibile ottenere i medesimi risultati in termini di risposta alle esigenze di mobilità, accessibilità, e anche sviluppo, con una soluzione "sistematica" anziché puntando alla solita grande opera.

Possiamo sicuramente aggiungere almeno due considerazioni, la prima oggettiva e la seconda assai soggettiva, ma di una "soggettività" che crediamo coinvolga parecchie persone, abitanti e utenti della città e del fiume.

La prima è che il classico modello ad anello di tangenziali, caro ad un certo approccio meccanicistico allo sviluppo urbano, ha storicamente e puntualmente generato, più prima che poi, la crescita informe di insediamenti nota come sprawl, che in un territorio agricolo e naturale come quello cremonese e di Castelvetro a cavallo del fiume pare davvero del tutto incongruo. Questo anche se non fosse conclamato l'elevato valore naturalistico delle sponde interessate.

La seconda vorrei proporla semplicemente con due foto, e invitando i lettori a immaginarsi il resto. Quella "prima della cura" è uno scatto della sponda meridionale, in comune di Castelvetro, più o meno dove si propone l'attraversamento del terzo ponte. Quella "dopo la cura" è l'attuale scavalcamento della A21, un chilometro circa più a valle, vista dal parco urbano cremonese di sponda. Premetto che non ho alcun rapporto diretto e quotidiano con quei posti, abito a Milano e nessuno mi ha mai incaricato di studiare alcunché da quelle parti. Gli scatti sono del tutto casuali, uno del 2011, uno del 2008. Grazie per l'attenzione (f.b.)


foto di f. bottini - estate 2011

foto di f. bottini - estate 2008

per ulteriori informazioni e altre immagini vedi QUESTOsito - il citato Rapporto Legambiente con le critiche alle altre opere inutili in Emilia Romagna è scaricabile direttamente qui di seguito

La Repubblica

Malpensa non decolla, battaglia sulla terza pista

di Ettore Livini



MILANO - Decolla nella bufera il sogno della terza pista a Malpensa. I 2.400 metri d´asfalto più "caldi" di Lombardia sono per ora solo un disegno su una mappa topografica, parcheggiato al Ministero dell´Ambiente per l’ok alla valutazione di impatto ambientale. Ma il fronte del no al progetto («partirà solo se e quando ci saranno le condizioni per giustificarlo» mettono le mani avanti alla Sea) si sta rivelando ben più ampio e agguerrito del previsto. Ci sono gli ambientalisti, in trincea per proteggere 400 ettari di bosco nel Parco del Ticino, Succiacapre e Averla minore; molti sindaci - uno schieramento che va da Pdl e Lega fino al Pd - in difesa di un territorio che all’espansione (e poi alla crisi) dello scalo ha già pagato un pedaggio salatissimo. E ora persino le compagnie aeree convinte che l’opera da 300 milioni sia - per dirla con il direttore generale di Assaereo Aldo Francesco Bevilacqua - «di dubbia utilità».

IL NODO DELLA DOMANDA

È il quesito di tutti, come confermano le migliaia di pagine di obiezioni piovute sul tavolo di Stefania Prestigiacomo. Perché fare una nuova pista a Malpensa quando le due attuali sono sotto utilizzate e l’aeroporto, orfano di Alitalia, è una cattedrale nel deserto? La risposta della Sea, la società di gestione, è semplice: «Nel 2025 nell’aeroporto transiteranno 42,4 milioni di passeggeri contro i 18,9 di oggi». Lo confermano i dati della Bocconi - dicono - assieme alle stime di Iata, Airbus e Boeing. È vero? La storia, sostiene il fronte del no, dice il contrario: Malpensa aveva 23,8 milioni di passeggeri nel 2007, il 23% in più del 2010 e dopo l’uscita di scena di Alitalia e Lufthansa Italia il sogno di un hub a Milano è svanito. Qualche dubbio, come testimonia il verbale di una riunione all’Enac, ce l’ha persino Easyjet, la compagnia leader a Malpensa: «La Iata ha rivisto al ribasso le sue stime - ha detto Enzo Zangrilli, numero uno in Italia del vettore - e per questo va ripensata l’opportunità della terza pista».

IL REBUS DELL’OFFERTA

Quanti aerei possono atterrare nell’aeroporto bustocco? Perché Heathrow con due piste muove 60 milioni di passeggeri l’anno (il triplo di Milano), Monaco 34 e Londra Gatwick con una e mezza ne gestisce 31,3? Malpensa è nata male, spiega Sea. Le due piste sono troppo vicine (808 metri) e non si possono gestire atterraggi paralleli come a Londra e in Baviera. Allontanarle è impossibile. Ergo, quando il traffico crescerà sarà necessaria la terza pista. «Storie - dice Bevilacqua a nome delle compagnie iscritte a Confindustria - . Le strutture attuali bastano per gestire i volumi in aumento previsti. Servono solo pochi miglioramenti tecnologici e procedure più efficienti».

«I numeri sono chiari», dicono i sette sindaci dell’area che si sono messi di traverso alla "Grande Malpensa": l’aeroporto ha un limite normativo di 70 movimenti (decolli e atterraggi) l’ora, pari a 840 al giorno e 300mila l’anno. Ma in realtà non riesce a farne più di 55-60 («per problemi d’inquinamento acustico», dicono in Sea). Nel 2007, l’anno dei record, è arrivata a gestirne oltre 800 al dì mentre nel 2011 la media è poco sopra i 512. Come dire che c’è spazio per aumentare del 56% la capacità senza gettare nuovo asfalto.

Non solo: su ogni volo che atterra nello scalo bustocco ci sono in media 120 passeggeri contro i 170 di Parigi e i 180 di Londra. Certo, non si può costringere le compagnie a far volare mega-jet su uno scalo "regionale". Ma la matematica, calcola il Consorzio del Parco del Ticino, non è un’opinione: 300mila movimenti possibili l’anno per 120 passeggeri l’uno significano una capienza di 36 milioni, quasi il doppio di oggi. E se si riuscisse a salire a 150 «Milano potrebbe gestirne 45 milioni» senza interventi strutturali.

L’INCOGNITA AMBIENTALE

La terza pista andrà a cancellare un pezzo di brughiera e un insediamento abitativo in zona Tornavento. Ma la valutazione di impatto ambientale - dice la Sea - serve proprio per stabilire le compensazioni. Ai 500 cittadini che dovranno traslocare e al bosco da ripiantare. Ma l’operazione, per gli ambientalisti, non è indolore. «La perdita dell’esempio più esteso di brughiera italiana non è risarcibile», dicono, perché non si può riprodurlo in nessun’altra zona della Regione.

Qualcuno timidamente suggerisce di ripensare la gestione di tutti gli aeroporti del Nord. In fondo il governo Cameron ha appena bloccato la costruzione di nuove piste a Londra (dove gli scali sono saturi) per redistribuire i voli sulle altre infrastrutture inglesi, potenziando i collegamenti ad alta velocità. Milano è a due passi da Linate, Bergamo, Brescia, Parma, Verona e Torino. Ma la pianificazione è un’arte sconosciuta in Italia dove ogni aeroporto è un campanile.

La partita comunque è aperta. La valutazione d’impatto ambientale è solo il primo passo. Alla prova dei fatti i difensori del brugo, l’erica lombarda che dovrà lasciar spazio alle ruote degli aerei, si sono rivelati una pattuglia meno brancaleonesca delle attese. E la strada della terza pista dell’aeroporto milanese, oltre che lunga 2.400 metri, pare più in salita del previsto.

La Repubblica ed. Milano

Le associazioni: vogliamo un ruolo nella gestione dei parchi lombardi

di Franco Vanni

Coinvolgere le associazioni ambientaliste nella gestione dei parchi lombardi. È la richiesta che Wwf, Fai e Legambiente avanzano alla Regione, che si appresta a varare la legge di revisione della governance delle aree protette. «Serve una vera riforma - dice Paola Brambilla, presidente di Wwf Lombardia - si faccia per ogni area quel "consorzio di gestione nazionale" previsto dalla legge sui parchi del 1991, con il coinvolgimento delle associazioni e di un rappresentante del ministero dell’Ambiente al fianco di Comuni, Province e Regione». Oggi i parchi sono gestiti da Comuni e Province del territorio, che eleggono un cda. Il testo licenziato della commissione Ambiente del Pirellone, che giovedì andrà al voto del consiglio, prevede nel cda (massimo 5 membri, presidente compreso) anche un uomo nominato dalla Regione. Le associazioni sarebbero invitate solo a un "tavolo sull’ambiente" senza poteri.

La partita sulla governance dei parchi, che interessa 21 aree verdi in Lombardia, è terreno di scontro fra maggioranza e opposizione, ma anche nello stesso centrodestra, con la Lega che un mese fa bocciò in aula la proposta di legge del Pdl. A due giorni dal nuovo voto, le associazioni tentano di bloccare l’approvazione. Giulia Maria Mozzoni Crespi, presidente onorario del Fai, in una lettera al governatore Formigoni e al consiglio, scrive: «Lo scopo della legge è accentrare nel governo regionale il sistema delle aree protette». Dopo avere definito la bozza «punitiva per gli enti locali», a cui resterebbe l’ordinaria amministrazione, ma non le scelte strategiche, la Crespi fa un appello: «Queste norme sono destinate a creare un progressivo degrado delle aree protette, si chiede pertanto di non approvarle». A spaventare è in particolare la norma che prevede la possibilità per i Comuni di rivedere i confini dei parchi, con il rischio che le aree vicine all’abitato possano essere edificate.

Un’altra questione sollevata dagli ambientalisti è quella dei finanziamenti: «Se la Regione conterà di più nelle decisioni - si legge nel documento unitario di Fai, Wwf e Legambiente - garantisca le risorse per il funzionamento dei parchi, che oggi gravano sui bilanci di Comuni e Province, o avremo enti privi di mezzi. La Regione spende ogni anno per i parchi l’equivalente del costo di costruzione di 200 metri dell’autostrada Brebemi». Un ultimo fronte aperto è quello della necessità stessa del varo della legge. La Regione sostiene che la norma sia un adeguamento al decreto Milleproroghe, che prevede il riordino degli "enti inutili". Una visione a cui si oppone il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, che definisce il decreto «un ingenuo espediente per sostenere la necessità delle innovazioni, trascurando invece quanto previsto dai principi della legge quadro sulle aree protette». Cioè quella stessa legge del 1991 che prevederebbe un ruolo nella gestione dei parchi per le associazioni ambientaliste.

La Repubblica ed. Milano

"La Brebemi diventa inutile se il governo non sblocca la Tem"

di Andrea Montanari



A due anni dall’apertura del cantiere della Brebemi è di nuovo allarme sulla nuova autostrada direttissima Milano-Brescia. A mettere a rischio la prima infrastruttura stradale interamente finanziata dai privati, questa volta, non sarebbero i costi quasi raddoppiati pari a oltre 1,6 miliardi di euro, le associazioni ambientaliste o i comitati di cittadini contro l’asfalto, ma addirittura il governo. Lo hanno detto a chiare lettere ieri il governatore Roberto Formigoni e il presidente di Brebemi spa Francesco Bettoni durante un sopralluogo organizzato a Calcio, in provincia di Bergamo, per fare il punto sullo stato dell’arte. quasi metà del tracciato è già stato realizzato. Assenti, anche se annunciati, sia il premier Silvio Berlusconi che il ministro alle Infrastrutture Altero Matteoli, quest’ultimo colpito da un grave lutto familiare.

Se il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) non darà il via libera entro pochi giorni al progetto definitivo della Tem, la nuova tangenziale esterna che collegherà la Milano-Brescia alla metropoli, slitterà l’apertura della Brebemi. «Non apriremo se non avremo la Tem - ha annunciato Bettoni - . Il rischio è reale. La nuova tangenziale esterna è essenziale. Non possiamo pensare di portare un flusso di traffico di 60/70mila veicoli in uscita dalla nuova autostrada nei campi di Melzo. Fosse per noi potremmo addirittura anticipare l’inaugurazione al dicembre 2012. Non capiamo perché il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, mentre noi siamo qui a soffrire, non dà il via libera a un’opera che non costa nulla allo stato. Francamente questo ritardo non si giustifica. È incredibile quello che sta succedendo».

Proprio ieri è stato raggiunto l’accordo tra il pool di banche, oltre al gruppo Banca Intesa, che coprirà l’intero costo dell’opera.

Anche Formigoni ha attaccato sia il governo che l’Unione europea. «Se finalmente il ministero competente convocherà il Cipe - ha sentenziato dal palco il governatore - potremmo accelerare i tempi. L’Unione europea, che delle volte è un mostro di burocrazia, ci ha già fatto perdere due anni». Il presidente della Regione non cita il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, ma è a lei che si riferiva quando ha aggiunto: «C’è stato un ministero che ci ha fatto perdere un altro anno perché ha voluto effettuare dei controlli ambientali che, come sempre, avrebbero potuto essere realizzati più rapidamente dalla Regione».

Al viceministro alle Infrastrutture Roberto Castelli, che non ha chiarito se il Cipe si riunirà questa settimana, non è rimasto che ammettere che «la Lombardia e la Brebemi viste da Roma sono molto lontane. Vedremo cosa fare. Il Cipe risponde a logiche vaste. Spesso si assiste a episodi incomprensibili. Non si capisce perché ci sia indifferenza verso quest’opera che crea posti di lavoro e sviluppo».

Lunga 61,1 chilometri, la nuova autostrada avrà sei caselli, quattro viadotti, due gallerie artificiali, quattro aree di servizio e sei chilometri in trincea.

Corriere della Sera ed. Lombardia

Brebemi al bivio burocrazia Il rischio? Finire in un prato

Di Claudio Del Frate



La Brebemi è un’autostrada, ma a suo modo è anche una strettoia: il nuovo nastro d’asfalto che unità Brescia a Milano è atteso a un passaggio sul quale incombono i tempi lunghi della burocrazia e i tempi stretti imposti dalla finanza. E il combinato tra i due fattori rischia di far lievitare i costi della prima infrastruttura d’Italia costruita interamente con capitali privati. Ieri mattina a Calcio, dove è ben visibile uno dei viadotti della nuova Brebemi, il presidente della società Francesco Bettoni ha fatto il punto della situazione che può essere sintetizzata in pochi numeri: il costo finale dell’opera comprensivo di Iva e oneri finanziari sarà di 2 miliardi e 400 milioni di euro; l’entrata in esercizio è prevista per il 2013 dopo di che i finanziatori avranno 19 anni e 6 mesi di tempo per ripagare l’investimento. A conti fatti, percorrere i 62 chilometri della Brebemi costerà per l’automobilista un pedaggio di circa 6 euro e 25.

«La cifra può essere perfezionata — ha puntualizzato Bettoni — ma più o meno è quella» . Qualcosa in più dei 5 euro e 60 che oggi si pagano per fare lo stesso percorso lungo la A4 «ma lì il viaggio è più lungo e più trafficato» dicono quelli di Brebemi. Comunque sia, il tempo gioca contro gli investitori della nuova infrastruttura: «Ci sono ritardi inaccettabili — ha denunciato ieri Bettoni — da parte della burocrazia; primo fra tutti il nuovo via libera alla tangenziale esterna di Milano: se quei 7 chilometri di strada non verranno realizzati per tempo, la Brebemi sbucherà in mezzo ai prati di Melzo» .

Il numero uno della società avrebbe voluto dire di persona queste cose al premier Berlusconi, invitato ieri mattina a Calcio, ma il capo del governo ha dovuto declinare l’invito. In rappresentanza del governo c’era il viceministro delle infrastrutture Roberto Castelli: «Di fronte alle banche che si sono esposte per questo investimento gli enti romani restano indifferenti — si è rammaricano l’esponente leghista — ma la Lombardia è diversa dal resto del paese e sono certo che quest’opera verrà conclusa nei tempi previsti» .

Sulla «diversità» lombarda ha insistito anche il presidente della giunta regionale Roberto Formigoni: «Qui i soldi investiti in infrastrutture aumentano mentre nel resto d’Italia calano. Peccato che l’Unione Europea ci abbia fatto perdere due anni per rilievi rivelatisi infondati e un anno un ministero (indovinate quale) che da Roma pretendeva di valutare l’impatto ambientale della Brebemi» . Ostacoli che non fanno perdere l’ottimismo a Bettoni che ieri si è addirittura sbilanciato: «Se la burocrazia non metterà ostacoli noi siamo pronti ad aprire l’autostrada il 31 dicembre del 2012. L’opera è ormai completamente finanziata» .

La società ha infatti raggiunto un accordo con le banche per la copertura di 1 miliardo e 900 milioni mentre gli altri 500 milioni del capitale sociale permettono di raggiungere i 2 miliardi e 400 milioni di costo. «Certo, se i tempi di allungassero il piano finanziario dovrebbe essere rivisto» ha avvertito Bettoni. Ed è questo in definitiva ciò che assilla di più. La Brebemi era partita con un costo ipotizzato di 800 milioni euro; ma poi i cosiddetti costi di compensazione (le opere aggiuntive richieste per acquisire il consenso dei 45 comuni attraversati dalla strada) hanno fatto raddoppiare il saldo, ulteriormente dilatatosi per effetto degli interessi bancari. Ed è chiaro che ogni ritardo farebbe lievitare nuovamente la cifra finale costringendo poi la società di gestione ad aumentare il pedaggio da far pagare agli utenti.

Torna lo scontro in Regione sulla legge ammazza-parchi

di Andrea Montanari

Torna in consiglio regionale la battaglia sulla nuova legge sui parchi dell’assessore regionale pidiellino Alessandro Colucci. A nemmeno un mese dall’ultimo scivolone del centrodestra quando, a sorpresa, undici franchi tiratori (tra leghisti e pidiellini) avevano rinviato il testo in commissione, la maggioranza che governa il Pirellone ci riprova. Anzi, giovedì ripresenterà in aula la stessa legge nonostante le proteste degli ambientalisti che temono l’arrivo di una nuova colata di cemento sui parchi lombardi. «Non nego che anche al nostro interno ci siano stati dei mal di pancia - ammette il capogruppo del Pdl in Regione Paolo Valentini - ma ora sono superati. Non è assolutamente vero che questa legge non tutela i parchi.

Le opere di interesse pubblico come le autostrade si potevano costruire nel verde anche prima. Se non passa questa volta, tutti i parchi saranno commissariati dalla Regione. Se qualcuno ha intenzione di farla saltare si dovrà assumere anche questa responsabilità». Un provvedimento inserito dal ministro per la Semplificazione leghista Roberto Calderoli nel decreto Milleproroghe, infatti, prevede l’abolizione degli attuali consorzi che governano i parchi. Senza un nuovo testo, saranno tutti commissariati dal Pirellone.

L’opposizione di centrosinistra non ci sta. Annuncia che scenderà in piazza e presenterà centinaia di emendamenti. «È un pasticcio - attacca il consigliere regionale del Pd Agostino Alloni - abbiamo bisogno di una riforma che rilanci i parchi, non di una legge che crea ancora più confusione. C’è tutto il tempo nei prossimi mesi per approvare una riforma vera per mettere ordine. Invece, si vuole fare in fretta solo perché la Regione vuole avere il controllo per poter costruire nei parchi. È vero che le opere di interesse pubblico come le autostrade sono già consentite, ma attraverso un percorso di confronto. Se passa la legge, deciderà solo la giunta del Pirellone».

Il progetto prevede non solo la trasformazione dei consorzi dei parchi lombardi in enti di diritto pubblico ma anche la semplificazione delle procedure per la pianificazione delle aree protette; la ridefinizione dei confini dei parchi, escludendo le zone limitrofe ai centri abitati che sono già state parzialmente edificate; la designazione di un componente della Regione nei nuovi comitati di gestione dei parchi che prima erano eletti solo dai comuni; la possibilità di realizzare infrastrutture come strade e autostrade nei parchi «se previsti negli strumenti di programmazione regionale».

Si tratta delle cosiddette deroghe, che erano ancora più esplicite nel testo della legge che fu bloccato al termine della scorsa legislatura. All’epoca in cui l’assessore regionale al Territorio era il leghista Davide Boni, oggi presidente del consiglio regionale.

Proprio dai banchi del Carroccio questa volta erano arrivate le perplessità sul nuovo testo. «La legge ci vuole, ma non vogliamo nuove cadreghe» aveva tuonato Renzo Bossi, figlio del Senatùr. «Non vogliamo una legge per lottizzare nuove poltrone. Siamo grati a chi ha bloccato una legge antifederalista» ha scritto sul suo blog il consigliere regionale leghista Giacomo Longoni.

Il capogruppo del Carroccio in Regione, Stefano Galli, ammette che si tratta solo «di una legge tampone», ma in vista del nuovo passaggio in aula non ha dubbi: «Il gruppo voterà compatto. Spero che lo abbiano capito anche loro. Abbiamo avuto il via libera anche del segretario nazionale Giancarlo Giorgetti. Il testo è stato profondamente modificato. Domani incontrerò l’assessore Colucci per un ultimo chiarimento, ma c’è tutto il tempo per fare la riforma».

L’alleanza tra sindaci e costruttori per il cemento con vista sul verde

di Franco Vanni

Mentre decine di Comuni seguono con apprensione l’evoluzione della legge sui parchi, c’è chi stappa champagne. Letteralmente. «Il parco è una prigione, qui per fare una veranda in cortile aspetti vent’anni, adesso basta», dice un imprenditore di Gambolò, provincia di Pavia. E a Gambolò, come nelle vicine Bereguardo e Gropello, l’amministrazione spinge per il cemento. «Con la nuova norma – dice un sindaco della zona – diventeremo un posto normale». E ha ragione: il parco del Ticino fino a oggi non è stato mai un posto normale.

Il parco del Ticino non è un posto normale per volere di 30mila abitanti che nel 1974 firmarono perché lungo il fiume fosse creata la prima zona a tutela regionale d’Italia. L’eccezionalità del parco, che ospita 4.932 specie viventi in 91.410 ettari di terreno, è riconosciuta dall’Unesco: è l’unica area protetta regionale che ingloba l’intero territorio dei 58 Comuni che la compongono, comprese abitazioni, chiese, parcheggi e capannoni. E per questo rischia più di tutti. «La previsione della legge per cui i confini del parco potranno essere rivisti - dice Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano - è cucita sul nostro caso. Se ogni sindaco decide dove si può costruire, è la fine».

E la nuova norma, nonostante le smussature chieste da Pd e Lega, dice proprio questo. Rimarrebbe inviolabile la porzione di 22.249 ettari (meno di un quarto del totale) di Parco naturale: le sponde e poco altro. Ed è proprio la labilità dei confini fra parco e "aree di iniziativa comunale", disciplinate dai piani regolatori dei Comuni, a spaventare gli ambientalisti.

Oltre al parco del Ticino, un altro contesto che sarebbe stravolto dalla «ridefinizione dei confini di area» è il parco delle Groane, ente fragile, già al centro di inchieste giudiziarie. Bollate e Garbagnate spingono per costruire abitazioni "vista verde" sul terreno tutelato, ma l’opposizione dell’ente parco - formato dai Comuni e dalle Province del territorio - frena.

«Alle Groane è successo un miracolo - dice Paola Brambilla, presidente del Wwf lombardo - nonostante la fame di terreni edificabili, la zona tutelata si è estesa verso Senago. Ora il rischio è che si scateni la gara a fare marcia indietro». E a minacciare il verde non sono solo le abitazioni.

Il secondo allarme per chi sostiene l’integrità dei parchi è l’introduzione delle deroghe ai vincoli ambientali e paesaggistici per costruire opere di «interesse pubblico», non per forza di interesse nazionale. E cambia tutto. L’esempio è l’impatto che la strada Pedemontana potrebbe avere sulla Pineta di Appiano Gentile, nel Comasco. Se la strada è ritenuta di interesse nazionale - e si sarebbe fatta comunque - lo stesso non vale per gli svincoli che dovrebbero affiancarsi alle strade locali esistenti. «Gli svincoli sarebbero potuti essere fermati dai Comuni - spiega Brambilla - ma essendo nel Piano territoriale regionale guadagneranno quell’interesse pubblico che permetterà di asfaltare le aree protette».

Stessa storia al parco Adda Nord, 34 Comuni in quattro province, interessato dalla Bre-Be-Mi: «All’opera si potrebbero aggiungere bretelle di collegamento, previste dalla Regione, e non ci potremmo fare nulla», dice il presidente del parco, Agostino Agostinelli. La Provincia di Milano, grazie al "bollino" regionale, potrebbe tirare fuori dal cassetto il progetto della tangenziale Ovest nel parco agricolo Sud, bocciato dai Comuni. Ma anche sulle deroghe la partita vera si gioca nel parco del Ticino. E riguarda la terza pista all’aeroporto di Malpensa.

Milena Bertani, presidente del parco, si oppone all’ipotesi cara al Pirellone di dotare lo scalo varesino di un’altra pista: il Cda, nominato dagli enti locali, ha espresso all’unanimità parere negativo. Ora i 16 Comuni interessati dall’opera sperano in uno stop. In particolare, sperano gli abitanti di Lonate Pozzolo, che all’aeroporto dovrebbe cedere 400 ettari. Ma cosa succederebbe se nel Cda del Ticino sedesse uno uomo della Regione, come prevede la nuova legge? «È probabile che il consiglio si sarebbe diviso sul parere, perdendo forza», dice Bertani. Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia, attacca: «Se la Regione entra nel Cda dovrebbe assicurare fondi, ma non sembra così». Per Carlo Borghetti, consigliere regionale del Pd, «Comuni e comunità montane passeranno in secondo piano».

Come nel parco delle Orobie bergamasche, dove i Comuni sono arrivati a fare combaciare esigenze di caccia, sci, tutela e urbanizzazione. Sono pronti a scrivere («in tempi lunghi, tribali», scherza un sindaco) il documento di pianificazione del parco, che manca. «Con il dirigente regionale e l’obbligo di votare uno statuto litigheremo - racconta il sindaco - saremo commissariati, perderemo la nostra identità e qui comanderà la gente di pianura».

L’allarme del Fai: così si rischia di massacrare il paesaggio lombardo

intervista aIlaria Borletti Buitoni, di Franco Vanni

Ilaria Borletti Buitoni, presidente del Fondo ambientale italiano, che cosa cambierà nella gestione dei parchi con la legge che la Regione si prepara a votare?

«Se sarà approvato il testo licenziato in commissione saranno ridotte le tutele per il patrimonio naturale e paesaggistico, nel malcontento degli enti locali. Non si capisce per quale necessità sia fatta una simile legge».

La Regione sostiene che sia il decreto Milleproroghe a prevedere il riordino degli enti che governano i parchi

«Lo sostiene, ma non è vero. I nostri legali hanno analizzato la materia e i parchi lombardi non rientrano fra gli enti di cui andava rivista la governance».

Avete intenzione di opporvi?

«Vedremo se sarà possibile rendere l’applicazione della legge difficile o impossibile, se necessario anche con azioni legali».

Significa che comincerete a fare ricorsi al Tar il giorno dopo l’approvazione?

«Il tribunale è l’ultima delle possibilità che prendiamo in considerazione. La speranza è che la politica riesca quantomeno a evitare il peggio».

E cos’è il peggio, in questo testo di riordino dei parchi?

«Un cambio radicale delle regole sarebbe dovuto essere sostenuto da investimenti. Così non è una riforma, ma un contenitore vuoto. E la possibilità di revisione dei confini dei parchi è quantomeno inopportuna».

Quale rischio immagina nella facoltà di restringere le aree di parco da parte dei Comuni?

«Il rischio è che i parchi vadano riducendo la propria estensione, e che a forza di deroghe nelle zone protette il paesaggio sia massacrato. Bisogna evitare che succeda altrove quello che già è accaduto in Brianza».

Che cosa è successo in Brianza?

«A forza di permessi ed eccezioni si è costruito senza freni. Stendhal definiva la Brianza come il giardino d’Europa, la meraviglia dell’intero continente. Oggi non penso userebbe le stesse parole».

Guardando al futuro, qual è l’area a maggior rischio di cementificazione in Lombardia?

«Un fronte aperto è quello del Parco agricolo Sud Milano, a cui teniamo molto. La sua dignità culturale dovrebbe essere tutelata, invece le costruzioni mangiano territorio. E nessuno si premura di dichiararlo parco regionale. Ma il problema è generale, in Lombardia è avvenuto il più ampio scempio paesaggistico in Italia».

Ha mai rappresentato le sue preoccupazioni a Formigoni, proponendo una collaborazione con il Fai?

«È stata una delle prime cose che ho fatto un anno fa, quando ho assunto la presidenza. Ma da allora non mi sembra che la Regione si sia occupata molto di paesaggio, anzi».

Non crede che entrando negli organi di gestione dei parchi la Regione voglia farsi carico del problema ambientale?

«Di per sé la presenza della Regione nel governo dei parchi non è negativa, ma il timore è che sia un’accelerazione verso una minor tutela, e allora l’ingerenza sarebbe insopportabile. Sono troppi i casi in cui il Pirellone spinge per grandi trasformazioni infrastrutturali. Sulla terza pista di Malpensa, cara alla Regione, abbiamo presentato ricorsi insieme con il Wwf».

La prima battaglia di Tornavento venne combattuta dagli Spagnoli contro i Francesi, per il controllo di Milano, il 22 giugno del 1636; la seconda è cominciata ieri negli uffici del ministero dell’Ambiente: qui sono state depositate le motivazioni con le quali nove piccoli Comuni lombardi si oppongono al nuovo super ampliamento dell’aeroporto di Malpensa; progetto che comporterebbe la costruzione della terza pista, una maxi area cargo, il sacrificio di 600 ettari di bosco e anche quello, appunto, del paesino di Tornavento: 500 abitanti che vivono in riva al Ticino ma che dovrebbero sloggiare qualora il progetto andasse in porto. I sindaci dei nove Comuni hanno illustrato ieri mattina le loro ragioni, supportati nella loro battaglia dall’ente Parco del Ticino (in cui Malpensa è compresa) e da un pool di associazioni ambientaliste tra cui Italia Nostra, Wwf e Fai.

L’avversario ha le spalle grosse, perché a volere la terza pista è la Sea, la società di gestione degli aeroporti di Malpensa e Linate di cui il principale azionista è il Comune di Milano. Sea, tanto per dare un’idea degli interessi in gioco, ha annunciato di voler investire nell’aeroporto fino a un miliardo di euro e di portare il traffico dello scalo, entro il 2030, a 50 milioni di passeggeri l’anno. «Ma ditemi voi come si può voler ampliare un aeroporto che già oggi ha una capacità di 30 milioni di passeggeri ma che nell’ultimo anno ne ha movimentati appena 18; noi non siamo certo per la chiusura di Malpensa ma il fatto che Alitalia prima e Lufthansa poi abbiano deciso di non scommettere su questo scalo qualcosa dovrebbe insegnare...» : Piergiulio Gelosa, sindaco di Lonate Pozzolo, sintetizza con efficacia il senso della battaglia intrapresa. Ieri, come detto, ha depositato al ministero dell’Ambiente 40 osservazioni contro il masterplan depositato da Sea per la «super Malpensa» ma dietro Gelosa c’è una nutrita e composita compagine: lui è del Pdl, così come i suoi colleghi di Ferno e Somma Lombardo, mentre leghista è il primo cittadino di Samarate, del Pd quello di Cardano al Campo e espressione di liste civiche quelli di Vizzola Ticino, Casorate Sempione, Arsago Seprio e Golasecca, tutti i centri interessati al progetto.

Milena Bertani presidente del Parco del Ticino, viene invece dall’Udc ma è sulla stessa linea dei sindaci: «Ci sono atti amministrativi e di indirizzo che dicono che la terza pista non può essere fatta senza una valutazione di impatto strategico sull’intera zona. Il progetto così come è stato presentato distruggerebbe una delle poche aree protette della Lombardia, ad altissimo valore faunistico e naturale» . Ma se gli svassi e le farfalle dei boschi attorno a Malpensa dovessero apparire un argomento troppo debole, ci pensa di nuovo Piergiulio Gelosa a scoprire le carte e a chiarire il vero nodo della questione: «I 50 milioni di passeggeri e i 2 milioni di tonnellate di merci ipotizzati, per noi sono un’utopia; in compenso il piano prevede insediamenti per 200 mila metri quadrati dentro la nuova area dell’aeroporto. Immobili che farebbero molto bene ai bilanci del Comune di Milano e della Sea che sta per quotarsi in Borsa» .

La Provincia dia retta ai sindaci della zona sulla questione Toem, la futura tangenziale ovest esterna in progetto. Lo dice il Fai, Fondo ambiente italiano: «Sono loro, i sindaci, la reale testimonianza del patrimonio del Parco agricolo sud che il Fai con loro vorrebbe strenuamente tutelare: a nome degli agricoltori e degli appassionati del Parco chiedo di dare a questi soggetti il massimo ascolto, accettando le loro istanze in quanto depositari di esigenze reali e della cultura del territorio, per avviare un reale processo partecipativo».

Parole di Giulia Maria Mozzoni Crespi, che del Fai è presidente onorario. L’appello è rivolto al presidente della Provincia, Guido Podestà, che giovedì assieme agli assessori competenti incontrerà una ventina di sindaci dell’est Ticino e del sud milanese: amministratori bipartisan ma tutti ostinatamente contrari al progetto Toem. Una cinquantina di chilometri di asfalto da Melegnano a Magenta, a chiusura del raddoppio dell’anello delle tangenziali nei piani futuri di Palazzo Isimbardi, ma non voluti dal territorio. Il Fai si schiera dunque con i Comuni mobilitati da mesi tra assemblee e mozioni per dire no all’opera:

«I terreni agricoli - aggiunge Mozzoni Crespi - quando vengono frammentati da infrastrutture vedono crollare drammaticamente il loro valore e la loro qualità produttiva, fino a morire. Polmone verde, fonte di prodotti agricoli fondamentali, luogo di svago e di ristoro dalla vita cittadina, ricco di luoghi di alto valore ambientale e culturale: troppo spesso i vincoli che tutelano il Parco sono stati calpestati in nome di un dubbio progresso che non ha favorito il bene comune. Piuttosto, il grave problema della viabilità potrebbe venire risolto con l’impegno a fornire nuovi mezzi pubblici, come a Londra e a Parigi».

Rincarano la dose i sindaci del no, guidati da quello di Albairate, Luigi Tarantola: «Alla Provincia chiederemo di stralciare l’opera proprio perché non è condivisa con il territorio: chiederemo su quali basi sia stata ipotizzata e, in alternativa, se non sarebbe meglio riqualificare le strade già esistenti. Se sarà picche, partiremo con la raccolta firme e continueremo nella battaglia». La Provincia si mostra disponibile al confronto sul progetto di sei corsie pensate per togliere traffico anche dalla Statale dei Giovi, in project financing e con caselli per il pedaggio: «Ascolteremo le richieste dei sindaci - anticipa l’assessore ai Trasporti, Giovanni De Nicola - oggi c’è solo un disegno e vanno ancora trovati i fondi»

Nota: altro che "c'è solo un disegno" quello è un micidiale " piano" (f.b.)

MILANO. Il risultato delle amministrative di Milano sorprende il centrodestra. Soprattutto alla luce dei progetti infrastrutturali avviati durante l'ultimo mandato: con la conquista di Expo, Milano potrà realizzare quelle opere rimaste nel cassetto per decenni. I ritardi, indubbiamente, ci sono. Eppure con due nuove linee di metropolitana, il nuovo sito espositivo ideato per la manifestazione internazionale, più la Brebemi e la Pedemontana (le due grandi connessioni stradali che aiuteranno ad alleggerire il traffico cittadino, inserite anch'esse nel dossier di candidatura per l'Expo) a Milano e nel territorio confinante verranno spesi entro il 2015 quasi 9 miliardi, mettendo insieme l'intervento finanziario governativo, quello comunale e quello privato.

Tre opere tra quelle appena elencate sono già partite: la linea 5 della metro, i cui lavori sono iniziati nel giugno 2007 e per cui Palazzo Marino sta investendo 50 milioni (su circa 750 totali) e che dovrebbe venire completata il prossimo anno; la Brebemi (Brescia-Bergamo-Milano), che verrà realizzata interamente in project financing per un investimento di 1,6 miliardi, e che sarà pronta nel 2012; la Pedemontana (da Dalmine a Malpensa), che dovrebbe essere completata nel 2014 grazie ad un investimento complessivo di 4,1 miliardi, in parte con finanziamenti pubblici e in parte con il project financing. A questo si dovrebbe aggiungere il passante ferroviario, cioè il treno cittadino che collega Rogoredo a Bovisa (da Nord a Sud della città), un'opera senza fine iniziata negli anni Ottanta e finita dopo 30 anni, nel 2008.

Oltre alle opere inserite nel dossier di candidatura di Expo, il mandato della Moratti si chiude con un altro traguardo nel settore della mobilità, condiviso in modo bipartisan con il centrosinistra: la quotazione in Borsa della Sea, la società aeroportuale di Malpensa e Linate controllata dal Comune di Milano. Deliberato dal consiglio comunale un mese fa, lo sbarco a Piazza Affari dovrebbe avvenire il prossimo autunno con un aumento di capitale del 35%, in modo che Palazzo Marino diluisca la propria quota dall'attuale 84,6% al 51% circa. Questa operazione servirà non solo a permettere a Palazzo Marino di prelevare dalla società aeroportuale un extradividendo da 160 milioni per far tornare il bilancio comunale, ma anche di garantire a Sea un potenziale finanziamento tra i 400 e i 500 milioni da parte del mercato, utili per portare avanti un piano industriale da 1,4 miliardi.

Alla luce di questi traguardi il centrodestra di Letizia Moratti pensava forse di avere gioco facile, di essere riconoscibile come una coalizione pragmatica e operativa. Probabilmente però sono entrati in gioco altri elementi, come la scarsa capacità di comunicare i progetti in corso. Oppure, si dice nello staff della Moratti in queste ore, l'"invasione" della politica romana dentro la campagna elettorale. Evidentemente però, rimanendo sul fronte delle grandi opere, sono state percepite più le criticità che i successi.

E in effetti qualche difficoltà c'è. Nel pacchetto Expo la metro 4, che collegherà Linate a Lorenteggio (da Sud Ovest a Sud Est), ha subito diversi ritardi, e indicativamente i cantieri apriranno un anno dopo il previsto. Ad oggi la gara non è stata ancora aggiudicata ufficialmente, e non è scontato che tutta l'opera, del valore di 1,2 miliardi (di cui 400 milioni comunali), venga realizzata interamente entro il 2015.

Anche il Piano di governo del territorio (Pgt), che ridisegna l'urbanistica della città per i prossimi 30 anni, ha creato non poche discussioni e qualche tensione nel mondo delle associazioni e dei comitati cittadini. I dubbi riguardano il rischio di una cementificazione fuori controllo e la scarsa integrazione con un piano di mobilità in grado di sostenere la crescita della popolazione. Sulla testa del prossimo sindaco peserà tra l'altro un ricorso al Tar contro il Pgt, fatto a febbraio da una ventina di consiglieri di opposizione. Le motivazioni sono di tipo formale, ovvero il mancato dibattito in consiglio comunale di alcuni punti. Tuttavia tra qualche mese il Tar potrebbe bloccare ancora il Piano, per la cui realizzazione c'è voluto più di un anno.

Pgt a parte, il mandato Moratti si chiude con il proseguimento di alcune iniziative urbanistiche iniziate dal predecessore Gabriele Albertini, che pensò di spostare in periferia la struttura della Fiera liberando l'area di City life, un quartiere a Nord di Milano dove oggi si stanno costruendo grattacieli per abitazioni di lusso e centri direzionali. I grandi investimenti immobiliari si sono estesi anche all'area di Porta nuova, nella parte Nord di Milano. Ma tutto questo non è bastato per vincere.

Settemila abitanti in meno dal ’ 91 a oggi e una popolazione over 65 ormai prossima alla soglia del 25%del totale. Fosse un film sarebbe «2011, fuga da Varese» e anche se la flessione non è certo cominciata ieri chi governerà la città nei prossimi cinque anni dovrà fare i conti con questa tendenza: una comunità che fatica a ridarsi una identità dopo la perdita delle vocazione industriale e che sente — in fatto di dinamismo — il fiato sul collo degli altri centri della provincia, Gallarate e Busto (quest’ultima, proprio all’inizio di quest’anno ha scavalcato Varese per numero di abitanti).

Sconfiggere il senso di marginalità e di «città -dormitorio» , sottrarsi a quel piano inclinato che porta sempre più giovani, sempre più talenti a migrare verso Milano: per quanto non apertamente dichiarato, questo è stato uno dei temi della campagna elettorale. Basti pensare che uno dei temi più dibattuti tra i candidati, nei forum dei sostenitori, negli incontri pubblici è stato l’eterna incompiuta dell’attività culturale a Varese. Costruire o no un teatro pubblico (il progetto di trasformare in questo senso l’ex caserma Garibaldi «balla» da un quindicennio)? Investire o no in mostre, appuntamenti, musica, università proprio per ridare smalto e capacità attrattiva a un capoluogo sempre più con i capelli bianchi?

«Con la cultura non si mangia» è stato detto di recente e il rischio di giocarsi il consenso annunciando in campagna elettorale roboanti investimenti in un periodo in cui mancano i soldi anche per rattoppare i marciapiedi ha indotto quasi tutti i candidati a non sbilanciarsi. D’altra parte nessuno dei «competitors» ha ceduto ai richiami della piazza promettendo mari e monti su un altro fronte su cui sarebbe stato facile fare «cassetta elettorale» : il Varese calcio dopo decenni di quaresima sportiva si sta giocando l’ascesa in serie A e la tifoseria reclama uno stadio nuovo. Ma anche in questo caso la classe politica ha scelto il profilo basso.

Detto dei temi chiave che saranno sul tavolo di Palazzo Estense nel prossimo quinquennio, resta da stabilire chi saranno i nuovi inquilini del municipio varesino. Sulla carta non sembra esserci partita: nella città -vetrina del Carroccio il sindaco uscente Attilio Fontana (Lega), che nel 2006 fece suo il 57,8%dei voti si ricandida e si è garantito il sostegno del Pdl. Rispetto a cinque anni fa, tuttavia, Fontana ha perso per strada l’Udc e i finiani che si affidano a Mauro Morello. In più nel campo dell’elettorato moderato e di centrodestra il fronte è quanto mai frammentato: in questo bacino elettorale «pescheranno» altri pretendenti alla carica di sindaco come Mauro della Porta Raffo, Raffaella Greco, Alessio Nicoletti o Flavio Ibba.

Alla pattuglia va aggiunto anche l’indipendentista padano Egidio Castelli. Ognuno di loro potrebbe diventare decisivo in caso di ballottaggio. Di converso il centrosinistra ha litigato molto meno che in passato e si è concentrato con sufficiente anticipo sulla candidatura di Luisa Oprandi, insegnante di estrazione cattolica, appoggiata da Pd, Idv e Sel e da una lista civica. Unica «concorrenza» a sinistra sarà quella rappresentata di Carlo Scardeoni (Rifondazione e Pdci) e Francesco Cammarata (Movimento 5 stelle). In definitiva decideranno gli indecisi: nel 2006 appena 67%dei varesini espresse il suo voto alle amministrative ma per scuotere la città dal torpore quasi nessun leader politico nazionale ha fatto tappa a Varese. Hanno compiuto una «capatina» solo Casini e Di Pietro, nei prossimi giorni si farà vedere Umberto Bossi. Ma è davvero il minimo sindacale, per una città capoluogo.

Alcuni sono contrarissimi, altri dubitano che sia utile. Tutti a loro modo vogliono vederci chiaro: «È un’opera che serpeggia in modo devastante nel Parco agricolo sud, vicino a centri abitati, cascine di pregio e terreni agricoli». Oltre venti Comuni dell’est Ticino e del sud Milano si alleano per difendersi dal progetto della Tangenziale ovest esterna milanese (Toem), i 50 chilometri che la Provincia vuole realizzare per chiudere il raddoppio dell’anello delle tangenziali milanesi. A est, la Tem, la Tangenziale est esterna, i cui lavori partiranno entro l’anno, e a Ovest chiuderebbe il cerchio la Toem. Ma manca il favore di molti Comuni, molti dei quali, peraltro, già divisi su un’altra opera controversa, la superstrada Boffalora-Milano.

La nuova Ovest è prevista nel Piano territoriale di coordinamento provinciale: il tracciato ipotizzato parte da Melegnano e arriva a Magenta, dove è prevista la connessione con la Milano-Torino. Ma i sindaci di questi Comuni, che oggi si incontreranno a Rosate per stabilire una strategia comune, non ci stanno: «È una mera operazione propagandistica», dichiara Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano. Contro l’anello autostradale, per ora allo studio di fattibilità - Fabio Altitonante, assessore alla Pianificazione del territorio, promette che «verrà concordato con il territorio» - , si schiera anche il mondo agricolo: «Non possiamo sopportare ancora consumo di prezioso suolo», denuncia Paola Santeramo, presidente della Confederazione italiana agricoltori.

Intanto la provincia ha deciso di accorciare la prevista bretella a più corsie tra Malpensa e la Tangenziale ovest, che correrebbe internamente rispetto alla nuova autostrada: per non rischiare che i 250 milioni già stanziati dallo Stato vengano dirottati altrove, si punta a spenderli per realizzarne solo un tratto. «Faremo una nuova arteria da Magenta a Ozzero - spiega Giovanni De Nicola, assessore provinciale ai Trasporti - mentre da Ozzero ad Abbiategrasso ci sarà solo una riqualificazione». Ma anche in questo caso, alcuni sindaci si metteranno di traverso.

Nota: Incredibile: pur di sfasciare qualcosa anche la "direttissima Magenta-Ozzero" (guardate una cartina e si capisce al volo l'idea generale). E tanto per usare la formula del guardate che io l’avevo già detto, volendo si può rivedere il mio I Capannoni della Zia Tom, di qualche anno fa (f.b.)

Ogni giorno sette Piazze del Duomo in più

di Simone Bianchi

Il cemento dilaga in Lombardia e aumenta a un ritmo impressionante, l’equivalente di sette piazze Duomo al giorno. Legambiente e l’Istituto nazionale di urbanistica lanciano l’allarme: a Milano e in provincia il tributo quotidiano al cemento è di 20mila metri quadrati, secondo posto sotto Brescia, mentre nel rapporto tra aree urbane e verdi il record negativo spetta a Monza e Brianza dove le prime hanno superato il 50 per cento. Legambiente propone una legge che introduca oneri a carico di chi costruisce in zone aperte invece che in aree cittadine dismesse. L’assessore regionale Belotti: «Siamo favorevoli, ma subito non si può».

Come la lava di un vulcano il cemento avanza e "consuma suolo". Corre veloce, cancellando ambienti naturali e vegetazione spontanea, ma anche aree agricole. Ogni giorno in Lombardia vengono urbanizzati 117mila metri quadrati, una superficie pari a circa sette volte piazza del Duomo a Milano. La superficie che si perde invece ogni giorno in provincia è di circa 20mila metri quadrati.

Sono i dati contenuti nel rapporto 2011 sul consumo di suolo presentato da Legambiente, Istituto nazionale di urbanistica e il Centro di ricerca sui consumi di suolo di Milano. Il cemento inonda anche la città, sempre di più: il 78,1 per cento del territorio milanese è ormai costruito. E si procede al ritmo di due ettari al giorno, secondi solo a Brescia.

«Ci stiamo giocando un patrimonio di ambiente» dice il presidente di Legambiente Lombardia, Damiano Di Simine. Ma c’è anche un rischio economico: «Perdiamo la risorsa naturale più preziosa su cui si costruisce gran parte della ricchezza della nostra regione». A suo avviso in futuro andrà peggio, perché «nel Pgt che l’assessore Masseroli ha condito con richiami alla parola d’ordine "non consumeremo suolo", ci sono previsioni reali di consumo dell’1,5 per cento. Non è tanto in assoluto, ma per Milano lo è, visto che di superficie libera ne è rimasta poca». Per il direttore della Coldiretti Lombardia, Eugenio Torchio, non si può andare avanti così: «È come se sparissero ogni giorno i terreni di due aziende agricole».

In tutta la Lombardia, spiega il rapporto, un quarto delle superfici agricole produttive è andato perduto. Il cemento aumenta: la superficie urbanizzata a Milano è passata dai 56.660 ettari del 1999 ai 62.619 del 2007. Un incremento di 5.959 ettari, un +10,5 per cento in otto anni. E nonostante la crisi economica sembra che la costruzione di nuove autostrade, centri commerciali e capannoni non si fermi mai. Mattoni, cemento e asfalto: con tutte le infrastrutture in programma da costruire a Milano e provincia, ancora ne arriveranno.

Oggi è coperto dal cemento il 39,7 per cento del territorio della provincia milanese: il dato è - solo apparentemente - contenuto poiché comprende tutti i comuni del Parco Sud, ancora relativamente ricchi di aree verdi. Ma ci sono anche i picchi in negativo. Come quello di Sesto San Giovanni, ricoperta dal cemento per il 95,2 per cento del suo territorio. Grandi colate anche a Bresso (asfaltata per il 93 per cento), a Corsico (86,7). Seguono Cologno Monzese con l’82,1 e Pero con l’80,3. Il più in pericolo, nel panorama delle provincie lombarde, è il (restante) verde brianzolo: la provincia di Monza e Brianza si ritrova infatti una superficie urbanizzata che, con il 53,2%, supera la metà del totale.

Legambiente propone una ricetta per evitare di continuare a riempire di cemento il territorio: una legge di iniziativa popolare che ponga paletti introducendo, ad esempio, oneri a carico di chi, potendo riutilizzare aree dismesse della città, decide invece di costruire in aree aperte. «Siamo molto interessati» dice l’assessore regionale all’Urbanistica, Daniele Belotti. Il quale, però, spiega che siccome finora soltanto il 30 per cento dei 1.549 Comuni della Lombardia ha approvato il piano di governo del territorio, «una norma così non si può fare subito». E non si potrà fino al 31 dicembre 2012, termine della proroga ai Comuni per l’approvazione dei Pgt. Prima di allora non si può intervenire con alcuna legge "ad hoc" che aiuti a salvare il suolo dal cemento.

Così finiscono i terreni agricoli

di Teresa Monestiroli

«Il suolo è una risorsa limitata per questo molto preziosa. Obiettivo del Pgt è ridisegnare una città che cresce, e si sviluppa, senza consumare nuovo territorio». Era il 4 febbraio quando un vittorioso Carlo Masseroli, assessore all’Urbanistica, presentava il principio base del suo Piano di governo del territorio dopo il voto del consiglio comunale.

Uno slogan diventato, nei mesi del dibattito in aula, un tormentone che le associazioni ambientaliste hanno sempre criticato. Non solo loro, però. Per Paolo Pileri, professore di Pianificazione territoriale e ambientale del Politecnico, uno dei curatori del Rapporto 2011 sul consumo di suolo, «più che uno slogan è un artificio perché si ridefinisce il concetto di consumo di suolo a proprio favore. Il Pgt sostiene che nei prossimi vent’anni il suolo urbanizzato scenderà dal 73 per cento di oggi al 65 del 2030. Una cosa mai vista, peccato che non sia vera. Per raggiungere quella quota infatti il Comune ha inserito nel "non urbanizzato" anche viali alberati e giardini cittadini. In nessuna parte del mondo il verde urbano è considerato "area non urbanizzata"».

Il principio masseroliano, a ben vedere, è realistico solo in parte. Si legge nel documento di piano che la città non potrà estendersi oltre i suoi confini attuali, ma potrà solo ricostruirsi in quelle zone dove oggi c’è degrado e abbandono, come gli scali ferroviari dismessi, per fare un esempio. «Ci sono grandi aree cittadine che sono oggi degrado puro - risponde alle critiche l’assessore - ambiti come gli scali ferroviari e tutta l’area della Bovisa, dove sorgeranno anche grandi parchi. Il consiglio comunale ha votato un aumento di verde pari a 3 milioni di metri quadrati che sorgeranno dove oggi c’è abbandono. Questa è riduzione del suolo urbanizzato». Ma, nota Legambiente, il Pgt rinuncia alla vocazione agricola di questa città perché, attacca Damiano Di Simine, «ci sono aree agricole che verranno riqualificate con la nascita di nuovi quartieri, invece che riportandole alle origini di terreni coltivabili».

Se dunque alcune aree come Bovisa o Stephenson, dove rispettivamente arriveranno 740 mila metri quadrati e un milione e 235 mila metri quadrati di costruito, sono zone ex industriali da bonificare o comunque già edificabili, nei piani di trasformazione urbana del Pgt rientrano anche terreni oggi agricoli che un domani diventeranno quartieri abitabili. Un esempio su tutti è l’area Expo, per due terzi coltivabile, che un domani sarà certamente costruita, ma anche Cascina Merlata e la Città della Salute che riunirà l’ospedale Sacco, l’Istituto neurologico Besta e l’Istituto dei Tumori. Tre nuovi insediamenti che, dopo il 2015, sorgeranno in una delle zone più attrezzate di Milano. «L’urbanizzazione segue le infrastrutture - continua il professor Pileri - In provincia di Milano le aree più costruite sono quelle lungo l’asse nord - ovest che passa per la fiera di Rho-Pero e va verso Novara, e quello sud - est lungo i binari dell’alta velocità fino a Lodi. Negli ultimi anni è qui che sono cresciuti i maggiori insediamenti».

È proprio lungo la direttrice sud - est che si trova Porto di Mare, altro punto di riqualificazione che, stando ai numeri del Piano, attirerà 530mila metri quadrati di cemento, una volta destinati alla Cittadella della Giustizia e domani chissà. L’area, a cavallo del Parco Sud, è per metà occupata da nomadi. Le volumetrie, garantiscono a Palazzo Marino, atterreranno solo nei metri quadrati di terreno fuori dal parco. Ma perché non estendere il verde, visto che la proprietà è del Comune? Risponde a modo suo Paola Santeramo, presidente della Confederazione italiana agricoltori: «Abbandonare le aree a se stesse e consegnarle al degrado è una politica ben precisa: prima si lasciano deperire i terreni, poi si dice che bisogna riqualificarli.

Le aree agricole sono molto appetibili perché costano poco e non hanno bisogno di bonifiche: basta cambiare la destinazione d’uso e il gioco è fatto. Forse però bisognerebbe ricordare che la Pianura Padana è la zona in Italia con il record di terreni fertili. Se perdiamo questa produttività ne risentirà tutto il paese». Il rischio delle continua cementificazione, che a Milano è arrivata al 78 per cento del totale, ma che a Sesto San Giovanni ha raggiunto addirittura il 95% così come in molti comuni nel Nord, è che si inizi a erodere anche il Parco Sud Milano, zona che fa gola ai costruttori. «Il Parco è rimasta la nostra unica chance di respirare - continua la Santeramo - Una volta che il terreno agricolo viene urbanizzato, per riportarlo alla sua origine ci vogliono mille anni. Credo che Milano, attanagliata dalla smog, non possa permettersi di perdere questo polmone».

Lungo i trentadue km di percorso e attraverso i sei svincoli automatizzati viaggeranno settantamila veicoli al giorno. Non arriveranno invece, almeno per ora, le due fermate della metropolitana promesse, la «verde» a Vimercate e la «gialla» a Paullo. Al via il progetto definitivo della Tangenziale Esterna Milano (Tem), una delle «tre sorelle» (insieme con la Brebemi e la Pedemontana) incaricata di riportare il territorio lombardo a livelli quantomeno europei in fatto di autostrade e viabilità. Entro la fine di quest’anno l’avvio dei lavori, entro l’estate il via libera del Cipe.

Fine cantieri in calendario invece per il fatidico 2015. «Un’opera fondamentale» , secondo l’assessore ai Trasporti della Lombardia Raffaele Cattaneo. «Che permetterà di drenare le arterie ostruite della tangenziali milanesi che ormai, nelle tratte più cariche, sopportano un traffico pari a circa 160.000 veicoli al giorno» . Millesettecento milioni di euro d’investimento (tutti in project financing, a carico cioè dei privati), per attraversare (pagando un pedaggio ancora da definire) 34 comuni e tre province. E nel 2013 — assicura l’assessore— aprirà il primo spezzone, quello a ridosso dell’intersezione con la Brebemi.

Soddisfatto anche il governatore Roberto Formigoni: «Entro il termine di questa legislatura contiamo di completare il grande piano infrastrutturale della Lombardia, colmando il gap con gli altri territori europei» . Niente metropolitane, invece. I milleduecento milioni (60%dal governo, 40%dal territorio) necessari per prolungare le due linee fino all’arco della futura tangenziale non sono mai arrivati. Dice Matteo Mauri, capogruppo del Pd in Provincia: «La soluzione della questione traffico e smog deve passare per forza dal potenziamento del trasporto pubblico dell’intera area metropolitana. Per questa ragione i prolungamenti delle attuali linee metropolitane sono essenziali. Il governo però deve fare la sua parte perché ai comuni, già dissanguati dai tagli imposti da Tremonti, non si possono chiedere sforzi impossibili» .

Il presidente della Provincia Guido Podestà guarda invece già oltre. A ovest. «L’obiettivo è di raddoppiare anche il tracciato dell’altra tangenziale e di chiudere a sud l’anello» . E le metropolitane? Per Palazzo Isimbardi la soluzione c’è e si chiama tassa di scopo: «Un pedaggio minimo — spiega Podestà — sulle tangenziali già esistenti da riservare unicamente ai prolungamenti delle linee all’esterno del capoluogo» . «Ci volete asfaltare il futuro!» . Cartelli, slogan e tanti fischi nel presidio ambientalista di ieri mattina davanti al Pirellone. Per Legambiente, Tem farà rima con smog. Dice Damiano Di Simine, presidente lombardo dell’associazione: «Le istituzioni, a parole, invocano misure strutturali contro l’inquinamento e le polveri sottili, mentre con i fatti vogliono costruire una nuova autostrada che sacrificherà almeno 600 ettari di agricoltura nel Parco Sud di Milano» .

postilla

Fosse solo lo smog il problema, almeno saremmo in una logica, diciamo, di “perequazione” al ribasso fra il soffocato egoista capoluogo e la regione metropolitana già mica tanto felix. E invece il previsto evaporare delle linee di trasporto pubblico così fortemente richieste dal territorio indica la solita, troglodita e squallida strategia di sviluppo urbanistico a sprawl che imperversa. Pare già di vederli quelli di cricche e cricchette ben immanicate, che tracciano le linee di qualche capannonata sull’orizzonte degli svincoli o delle ineluttabili bretelle e bretelline.

Per chi si prende la briga anche solo di dare un’occhiata alle tavole sul sito TEEM salta ad esempio all’occhio una miriade di occasioni apparentemente perse, via via buttate nelle trattative puntuali di un’opera nata fuori dal territorio e da qualunque logica di piano, per quelli che storicamente “sanno pianificarsi benissimo da soli”. Le linee di trasporto pubblico, come ha capito ad esempio anche l’amministrazione Obama, devono crescere di pari passo con strategie coordinate di insediamenti, dette Transit-Oriented-Development (TOD) ovvero tanto per iniziare nodi di densificazione locale in grado di sfruttare le sinergie fra investimento immobliare e massima accessibilità intermodale. E qui? Nulla, neppure dove la metropolitana già esiste salvo qualche piccolo modesto e scoordinato “ambito di trasformazione” dei PgT comunali. Macroscopico il vuoto di idee attorno allo svincolo di Gessate/Gorgonzola, dove parrebbero esserci tutti i presupposti per una cosa del genere, e pure importante. Niente da fare, quel posto assomiglierà semmai a uno dei futuri desolati svincoli dell’Autostrada della Lomellina: qualche gatto morto, le auto che vanno troppo forte ma si sa .. è il progresso! Che vergogna (f.b.)

Mercoledì 2 febbraio 2011 il consiglio comunale di Moncrivello ha respinto la richiesta circa l’apertura di una cava di ghiaia e sabbia in località Cascina Bruciata. Il progetto aveva già ottenuto l’approvazione della Provincia di Vercelli e della Regione Piemonte. Ma l’ultima parola spetta al Comune: e il consiglio comunale ha detto no approvando un'apposita delibera. Nella quale si afferma la vocazione agricola e turistica di Moncrivello: una vocazione da recuperare, incentivare e rafforzare. Una vocazione che l’apertura di una cava indebolirebbe. Moncrivello si aggiunge così ad altri Comuni della zona, i cui cittadini e i cui amministratori sono diventati sempre più consapevoli dei tanti danni prodotti dalla coltivazione delle cave e dall’apertura di discariche.

In alcuni casi i consigli comunali hanno già ufficialmente espresso la loro contrarietà. Ad esempio, recentemente il consiglio comunale di Saluggia ha respinto il progetto di apertura di una cava in località Molino. Santhià non ha più rinnovato l’autorizzazione a cavare alla società Green Cave. Tronzano ha rifiutato il riempimento di una discarica. La conferenza dei servizi della Provincia di Vercelli ha rifiutato l’estensione dei codici di conferimento per i rifiuti provenienti dalla ex Sisas di Pioltello- Rodano.

Sono molte, e ben note, le buone ragioni per impedire l’apertura di nuove cave o per non autorizzare il proseguimento della coltivazione di cave già esistenti.

1) Quasi sempre l’attività di cava, nonostante le rassicurazioni, finisce per intaccare le falde acquifere. In condizioni normali l’acqua di varia provenienza che arriva sui nostri campi è, in misura più o meno grande, inquinata: ad esempio, l’acqua di irrigazione trascina con sé gli antiparassitarie e i concimi chimici; quella piovana porta a terra i veleni presenti nell’aria, e così via. Ma lo strato superficiale del terreno fortunatamente esercita una funzione di filtro: trattiene le impurità o le distrugge attraverso l’azione dei microrganismi, e lascia discendere verso le falde un’acqua relativamente sana. Quando però un’impresa comincia l’attività di cava, per prima cosa asporta proprio quei primi metri di terreno filtrante: per conseguenza, quando il buco è stato scavato, l’acqua si raccoglie non purificata sul fondo della cava e, raggiunta la falda, la inquina.

2) il transito degli autocarri, che si protrae spesso per decenni, produce inquinamento, aumento del traffico, pericolo nelle nostre strade;

3) una cava non ripristinata degrada il paesaggio che prima conservava la sua dignità o la sua bellezza

4) anche solo per queste ragioni i terreni e gli edifici della zona perdono valore: tutto il paese ci perde;

5) quando un Comune consente l’apertura di una cava si sa dove si comincia ma non si sa come va a finire. Generalmente il Comune, attraverso una convenzione con l’impresa cavatrice, permette l’apertura di una cava solo di modeste dimensioni e solo per pochi anni. Ritiene così di mettersi al sicuro e di limitare i danni. Ma quando si insedia in un posto, una società cavatrice raramente “molla l’osso”. L’esperienza insegna che spesso, alla scadenza della convenzione, l’impresa riesce ad ottenere il rinnovo. Spesso ottiene anche l’autorizzazione ad allargare e ad approfondire la cava. Gradualmente, paesi un tempo di fiorente agricoltura diventano “terre di cave”: tutti ci perdiamo;

6) in genere la convenzione tra il Comune e la società cavatrice impone che la società medesima, una volta scaduta l’autorizzazione, ripristini le precedenti condizioni del territorio. Anche in questo caso l’esperienza insegna che spesso le società riescono a sottrarsi all’impegno. Il “buco” rimane lì, magari per anni, finché un’altra società, oppure la stessa, chiede il permesso di trasformarla in una discarica. Che porta nuovo inquinamento del terreno, delle acque e dell’aria, e per conseguenza ancora danni alla salute. Così intere zone agricole e sane diventano depositi di veleni. Tutti ci perdiamo in salute.

7) ma anche se il Comune riesce miracolosamente ad ottenere dall’impresa il ripristino dei terreni, anche se riesce fortunatamente ad imporle di ricoprire la cava con terra agricola buona e adatta, va ricordato che un terreno ripristinato con terra da riporto impiega anni prima di riacquistare la sua fertilità.

8) C’è inoltre un altro danno prodotto dalle cave che talvolta viene sottovalutato. La perdita di fertili terreni agricoli, trasformati in aree inquinate di cave e discariche, costituisce un grave pericolo economico per il nostro futuro. Le previsioni di autorevoli istituzioni internazionali sempre più spesso lanciano l’allarme: corriamo il rischio di sprofondare in una crisi agricola mondiale, che significa una crisi alimentare. Aumentano i consumi in grandi paesi emergenti come la Cina, e la produzione agricola mondiale non riesce a soddisfare la domanda. I prezzi sono destinati ad aumentare. Salirà anche il prezzo della pasta, della frutta e della verdura che acquistiamo quotidianamente facendo la spesa. Per questo occorre preservare accuratamente i terreni agricoli che ci restano e favorire l’agricoltura. Continuare a distruggere terreni agricoli pregiudica il futuro dei nostri figli. L’allarme più recente è stato lanciato dalla FAO. Ma ormai da anni, anche nel nostro paese, associazioni come Slow Food di Carlo Petrini, e le stesse associazioni dei coltivatori, lanciano il medesimo appello: salviamo i terreni agricoli che ci sono rimasti.

Si tratta di un discorso importante per le nostre zone, del Vercellese e del Biellese, che sono tradizionalmente aree agricole. Comuni come Moncrivello sono stati per secoli produttori del grano e della vite: questo paese ha addirittura un vino con etichetta importante, il passito erbaluce. A partire dal XIX secolo, dopo la costruzione del Canale Cavour e dei successivi, a queste antiche coltivazioni si sono aggiunti in molti Comuni la meliga, la frutta, gli ortaggi, e nella Bassa, il riso. Poi, negli ultimi decenni, lentamente l’agricoltura è stata via via espropriata. Ma ora, di fronte ad un incerto futuro economico, è un delitto continuare a distruggere i nostri campi. Questi campi sono la nostra ricchezza. Una ricchezza che abbiamo qui a portata di mano. Domani i nostri figli potranno coltivarli senza lasciare i loro paesi, senza andare a cercare altrove un incerto lavoro.

Anche per quest’ultima ragione bisogna dire basta alle cave indiscriminate. Certo il discorso non finisce qui, e dovrà venire ripreso e ampliato. Qualcuno potrebbe infatti obiettare che le cave da qualche parte bisogna pur farle. Noi rispondiamo che vi sono paesi in Europa, come la Germania, che cercano di rallentare l’apertura di nuove cave: incentivano il riuso dei materiali da demolizione, alzando contemporaneamente le tariffe ai cavatori, che in Italia sono basse.

Ma forse la domanda decisiva, che tutti dobbiamo farci, è ancora un’altra: è veramente necessario aprire continuamente nuove cave? L’Italia è un paese piccolo e montagnoso, e le terre pianeggianti sono poche. Ma in pochi decenni questi terre sono state riempite di case, capannoni, strade, autostrade, viadotti, svincoli, rotonde, e così via. Fino ad un certo punto tutto ciò ha voluto dire ricchezza e benessere per tutti. Ma ora forse si è andati oltre. In soli quindici anni, tra il 1990 e il 2005. una superficie grande come il Lazio e l’Abruzzo messi insieme è stata – circa 3 milioni di ettari – è stata coperta da una costruzioni e infrastrutture. Dobbiamo proseguire così? O non sarebbe saggio fermarci? Le fila di capannoni vuoti al posto di una sana agricoltura ci danno una prima risposta.

Il sindaco Michele Orlando del Pd, lo aveva promesso firmando l’ordinanza che «vietava ai suoi concittadini di morire» : per ovviare alle ganasce del patto di stabilità, l’ampliamento del cimitero del paese alle porte di Brescia doveva essere dato «in concessione» ai privati. E così è stato. Questa mattina, infatti, Orlando firmerà la cessione dell’area edificabile «a loculi» alla Cogeme, multiutility di Linea Group che si occupa prevalentemente di servizi energetici ed ambientali.

Spiega il sindaco: «I vincoli di bilancio imposti dal Patto di stabilità ci hanno impedito di ampliare il camposanto. La soluzione, quindi, era una sola: affidare la struttura a un privato individuato grazie a un appalto pubblico. Il fatto che la gara sia stata vinta da una società che vede tra i soci 70 comuni del bresciano è una garanzia» . L'appello di Orlando al presidente della Repubblica e al ministro Tremonti era partito con raccomandata all’inizio dello scorso anno.

Il sindaco chiedeva di poter «disobbedire » al patto di stabilità e utilizzare i soldi accantonati (circa 200mila euro) per rendere agibili 100 nuovi loculi. Senza aver ottenuto risposta dal governo né dal Colle, all’inizio dell’agosto scorso Orlando era corso ai ripari con un'ordinanza che «vietava» di morire.

Chiosa il Presidente di Cogeme, Gianluca Delbarba: «Credo che la nostra partecipazione alla gara di Roncadelle (comune che non è socio Cogeme) e la relativa disponibilità a sostenere investimenti nei cimiteri siano una ulteriore dimostrazione di quanto sia attiva la società, che non dimentica mai i bisogni del territorio e cerca di soddisfarli» . Cogeme costruirà i nuovi loculi a sue spese, mettendoli poi sul mercato e gestendoli per almeno 30 anni. Ma guai a parlare di «business del caro estinto» : i prezzi saranno calmierati e non potranno superare le tariffe imposte dal comune.

postilla

Tutto come da copione si potrebbe dire, se non fosse per un particolare, magari ininfluente: il comune di Roncadelle il popolo italiano lo scambia facilmente con quello di Brescia. Non guardando in faccia il sindaco, s’intende, ma più concretamente attraversando la conurbazione bresciana sulla Tangenziale SS11 o sulla parallela Autostrada: a destra se state andando a Kiev, a sinistra se siete diretti al sole di Lisbona. Di Roncadelle, proprio da quell’osservatorio privilegiato Lisbona-Kiev, si può godere lo spettacolo imponente delle decine e decine di ettari di territorio comunale trasformato in una piattaforma a corsie varie, parcheggi, svincoli di collegamento, schiere implacabili di scatoloni sormontati da altrettanto implacabili insegne, che luccicano nella notte padana manco fosse sempre Natale. Sarebbe interessante, risalendo via via nei decenni, andare a leggere l’evoluzione progressiva di questa piattaforma spaziale, e soprattutto elencarne le varie motivazioni di “sviluppo socioeconomico locale” addotte dagli amministratori che di volta in volta hanno concesso a operatori privati l’unica risorsa di cui un Comune può disporre, il territorio. Per finire, come ineffabile ci racconta oggi il fatalista articolo del Corriere, allo smaltimento cadaveri e dolori in multi utility, che fa sempre internazionale, efficiente, luminoso futuro. Ci toccherà magari leggere, fra qualche anno, della privatizzazione di qualcos’altro? Che so, dei matrimoni (con tariffa a discrezione dell’operatore), o dei giardinetti, con accesso riservato ai possessori di “green card”? Mah! (f.b.)

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