Sono stato invitato alla Fabbrica del programma, una ex vera fabbrica nella periferia di Bologna, dove Romano Prodi e la sua squadra elaborano idee e proposte per il prossimo governo. Ho partecipato all’incontro che si è tenuto nel pomeriggio di mercoledì 9 marzo, riguardante trasporti e territorio. Ha efficacemente coordinato i lavori Marco Spinedi. Tempi contingentati, non più di cinque minuti a testa, fatte salve pochissime eccezioni. Prodi ha attentamente seguito gli interventi, circa trenta. Erano presenti almeno sessanta persone, di varia provenienza. Qualche nome del nostro mondo: Anna Donati, Maria Rosa Vittadini, Roberto Camagni, Silvia Zamboni, Giancarlo Storto (ex segretario generale del Cer, esiliato da Lunardi), Walter Tocci (ex vicesindaco di Roma, oggi deputato), Pino Soriero (ex sottosegretario ai Trasporti). Molti amministratori regionali e comunali, fra i quali Roberto Morassut, assessore all’urbanistica del comune di Roma; Ennio Cascetta, assessore ai trasporti della Campania. Moltissimi amministratori dell’Emilia Romagna.
Spinedi, in apertura, ha correttamente chiarito che i problemi della mobilità, soprattutto alla scala locale, dipendono, in larga misura, dalle scelte di assetto del territorio, e perciò ha dato la parola in primo luogo agli urbanisti, Roberto Camagni e chi scrive questa nota. Qui di seguito riporto il testo che avevo trasmesso in anticipo alla Fabbrica, e che ho sintetizzato nell’intervento.
Nel sito lafabbricadelprogramma sono considerate 36 aree tematiche. Mancano però la città, l’urbanistica, la pianificazione, il governo del territorio e simili. Temi che pure sono presenti negli interventi ospitati nel sito. Ne ho contati non meno di venti, sparpagliati sotto altre voci (ambiente, finanza e fisco, famiglia). Il contributo più interessante mi pare che sia quello di Giovanni Caudo, ricercatore di Roma Tre, sul sito governareper, del 9 febbraio. Caudo parte dall’osservazione che, in Italia, le città non sono oggetto di attenzione da parte della politica e illustra le ragioni che dovrebbero indurre a ricollocarle nel programma di governo del centro sinistra. Sono pienamente d’accordo con le sue proposte, e ci torno in seguito. Mi interessa prima chiarire che la politica del territorio non è nell’agenda del centro sinistra, ma è ben presente fra le iniziative della destra.
È in discussione alla Camera dei deputati un disegno di legge per la riforma urbanistica noto come disegno di legge Lupi, dal nome del primo proponente, Maurizio Lupi, deputato di Forza Italia di Milano. Non è la riforma urbanistica, è la controriforma. È l’occasione per smantellare fondamentali conquiste di civiltà, cominciando dal principio stesso del governo pubblico del territorio, sostituito da “atti negoziali” con la proprietà immobiliare. Altri due inauditi contenuti della proposta sono la cancellazione dei cosiddetti standard urbanistici e lo scorporo della tutela dalla pianificazione. Tutti sanno che gli standard urbanistici sono le quantità minime di spazi destinate a verde e a servizi, un vero e proprio diritto alla vivibilità, conquistato dopo memorabili vertenze negli anni del primo centro sinistra. Se è vero che in alcune parti d’Italia la disponibilità di spazi per attrezzature è ormai quasi sempre garantita, non è così in molte altre parti, soprattutto nei comuni del Mezzogiorno, dove adeguate disponibilità di verde pubblico e servizi sono ancora un miraggio.
La separazione della tutela (riservata allo Stato) dall’ordinaria attività di pianificazione è un inverosimile rigurgito di centralismo che contraddice principi mai messi in discussione dall’Unità d’Italia. Se avesse operato in passato una norma del genere, le colline di Bologna e di Firenze sarebbero coperte di cemento, non ci sarebbe il parco delle Mura di Ferrara, non sarebbe stata salvata la costa della Maremma livornese, e così di seguito.
Purtroppo quasi nessuno parla di quest’orribile proposta. Tace la stampa, salvo rare eccezioni. L’opposizione si è contentata di piccoli emendamenti e di un moderato dissenso. Solo Italia nostra ha lanciato un appello che ha raccolto centinaia di firme, e alcuni comuni della Toscana hanno approvato documenti di protesta. Chiedo alla Fabbrica del programma di esercitare un’azione di orientamento e di chiarimento. Chi vuol saperne di più consulti http://eddyburg.it.
Torniamo alla necessità di impostare una politica di governo per le città (accantono per ora il problema della casa, già trattato in un precedente incontro). Mi limito qui ad affrontare solo il più vistoso difetto della condizione urbana: il patologico ritmo di crescita delle aree periferiche, che non ha alcuna giustificazione di natura economica o sociale. Il vantaggio è solo per la rendita fondiaria: e voglio ricordare che più risorse vanno alla rendita meno ne vanno agli impieghi produttivi. In tutte le aree urbane del nostro Paese si assiste al paradosso di una vertiginosa diminuzione di abitanti, soprattutto nelle aree centrali, e di una contemporanea, spropositata espansione del territorio urbanizzato. Alle lottizzazioni residenziali e ai centri commerciali si è aggiunto il decentramento dei luoghi di divertimento e dei servizi. Aumentano l’inquinamento, lo stress, il rumore, il costo della casa, che obbligano a cercare in campagna, o in città minori, condizioni di vita sostenibili. Il problema non è solo italiano. Secondo la Commissione europea – penso che il presidente Prodi sia informato –, la proliferazione urbana è il problema più urgente per le città europee. “La proliferazione urbana aumenta la necessità di spostamento e la dipendenza dal trasporto privato, che a sua volta provoca una maggiore congestione del traffico, un più elevato consumo di energia e l’aumento delle emissioni inquinanti” [COM (2004) 60 definitivo].
In altri paesi europei (in particolare in Germania, in Inghilterra, in Francia), il contenimento delle aree urbanizzate è oggetto di apposite e rigorose politiche governative, con l’adozione di severe misure e il riutilizzo sistematico delle aree dismesse o sottoutilizzate. Il governo italiano ignora invece il problema. È interessato solo ad agevolare la rendita immobiliare.
Tutto ciò impone che sia restituito un ruolo importante nell’azione di governo ad appropriate politiche urbane e alla pianificazione del territorio correttamente intesa.
Non ho potuto fermarmi fino al termine dei lavori. Su la Repubblica di Bologna del 10 marzo (edizione locale) si legge che Prodi, esausto, ha tirato una prima conclusione. “C’è da ricostruire il territorio di questo paese, visto che non possiamo avere trasporti efficienti in un territorio disordinato”. Primo, quindi, mettere mano alle regole urbanistiche, commenta il cronista, Valerio Varesi. Se sono rose fioriranno.
foto di F. Bottini
Io ho sperimentato una particolare forma di perdita e di ritrovamento della mia lingua materna. Si tratta naturalmente di una vicenda intellettualmente minore, non solo perché si tratta di un caso personale. Benchè oggi il problema delle diversità linguistiche, della sopravvivenza dei dialetti e delle lingue «minori» può fornirle qualche interesse. Faccio tale affermazione di convinta modestia perché io non posso presentare e offrire qui l’esperienza di una scrittura costruita sullo sdradicamento dai luoghi originari della mia lingua. La mia vicenda di personale spaesamento non ha dato luogo - come è accaduto, ben più drammaticamente, agli scrittori, a coloro che si sono impegnati in linguaggi creativi - a una reinvenzione di linguaggio, resa necessaria dalla perdita dell’alfabeto materno dell’infanzia. Insomma non posso dire con Emile Cioran che abbandonare la propria lingua costituisca « il più grave infortunio che possa capitare a uno scrittore, il più drammatico». Cioran ha fatto ricorso a una bella immagine a tal proposito. Ha scritto: «Se si potesse insegnare la geografia al piccione viaggiatore, il suo volo incosciente, che va diritto alla mèta, diventerebbe impossibile … lo scrittore che cambia lingua si trova nella situazione di questo piccione sapiente e disorientato». Ma io, per mia fortuna, non ho dovuto abbandonare il rumeno per scrivere in francese.
L’approdo finale della mia esperienza, sotto questo stretto profilo, si potrebbe dire che è, molto più modestamente, il silenzio. Lo spegnimento della lingua della vita per potere accedere alla lingua della comunicazione ufficiale, al cosiddetto linguaggio della scienza. L’esperienza che posso qui rapidamente raccontare è dunque quella di una mutilazione, che solo in negativo può portare un qualche rapsodico contributo alla esplorazione del tema che ci è richiesta dal convegno. .
Io sono nato in Calabria, a Catanzaro, sul finire della seconda guerra mondiale, e vi son vissuto per tutta l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza, profondamente immerso nel dialetto locale. La mia origine sociale e le mie frequentazioni quotidiane, già dagli anni dell’ infanzia, mi hanno tenuto alquanto lontano dall’italiano ufficiale, salvo, naturalmente, l’apprendimento scolastico e le mie letture. Ma tutte le altre lingue scoperte a scuola dall’italiano al francese, dal latino al greco, sono servite a mostrarmi altri e più complessi mondi espressivi, non certo ad alterare e intaccare il «vincolo di sangue» che mi legava al dialetto. Quest’ultimo restava sempre, del resto, la lingua vera della classe, del gruppo, della piccola comunità dei compagni. Linguaggio della complicità, dello scherzo, dell’ironia, della trasgressione, dell’amore, del sesso.
Vivere immersi nella propria lingua, nello stesso luogo in cui si è nati, dà un senso di identità e di pienezza che rafforza oltre ogni misura il vincolo esistenziale con le parole. Il linguaggio diventa una seconda natura, un elemento di vita necessario e al tempo stesso inconscio e involontario, come respirare l’aria: se volete, il senso di orientamento del piccione viaggiatore di Cioran. Allontanarsene ha un prezzo, anche nel caso in cui non si è costretti a una scrittura letteraria in una lingua straniera.. Io, ad esempio - non so se questa testimonianza è troppo personale - ho sempre identificato l’abbondano obbligato del dialetto con la perdita, o il forte affievolimento, di quel tanto di attitudine umoristica che faceva parte del mio temperamento.La battuta di spirito, nella mia mente, sin dalle origini, si è formata con le parole primigenie del mio dialetto. L’ironia, lo scherzo, lo sberleffo, talora lo scherno esplodevano sempre all’interno della piccola cerchia della vita comunitaria, dentro quella che potrei chiamare una « comunità linguistica». Ed essi avevano le proprie parole e i propri codici. E’ probabile che ci sia sempre un sostrato storico, una speciale stoffa semantica sedimentatasi nel tempo, alla base dell’umorismo. Il dialetto possedeva inoltre delle parole uniche, dei termini che racchiudevano tipologie umane intraducibili in altre lingue. Penso - tanto per suggerire un’idea - a un termine come strolacu - probabile corruzione di astrologo - con cui venivano designate le persone bislacche e inconcludenti che allora - ma solo allora - non mancavano nel campionario antropologico corrente. Ma ancora più speciale era il termine culistru: una espressione sottilmente onomatopeica di cui non ho mai riscontrato l’eguale in altre lingue. Lo si usava per schernire la persona narcisista, vanesia, piena di sé. Quella parola la bollava alludendo al movimento e alla torsione delle terga di chi quasi femminilmente si pavoneggia. Ma il dialetto aveva espressioni impareggiabili per fare umorismo anche sulle situazioni più penose. Benché, fortunatamente, non più corrente ai miei tempi, quando in casa non c’era nulla da mangiare, si era soliti dire che a gatta passìa subba ‘a furnacia: la gatta passeggia sulla fornace, la cucina desolatamente spenta.
Debbo tuttavia dire che la perdita in certi casi è anche un ritrovamento. Un legame identitario troppo forte talora impedisce, per mancanza di comparazione con altre lingue, di cogliere le strutture profonde della propria. Solo quando dalla mia città mi sono trasferito a Roma, quando ho dovuto rinunciare in maniera costante e quotidiana all’uso del dialetto, ho scoperto dei piccoli tesori semantici che prima mi erano sfuggiti. Mi sono accorto, ad esempio, dell’assenza, nella lingua italiana di un verbo capace di esprimere la disposizione corporale e psicologica della persona che vuol dormire o sta già dormendo.Il dialetto calabrese la possiede, ed è una tenerissima metafora poetica, tratta dal mondo animale: ‘ngattarsi, cioè raggomitolarsi come fa il gatto che vuol dormire.Ngattati e dorma erano le parole premurose con cui alla sera la mamma metteva a letto il suo bambino o la sua bambina . Nessun termine della pur ricchissima e meravigliosa nostra lingua può rendere il termine papariare, così diffuso un tempo nel «lessico familiare» della mia città, e così carico di figurazioni e risonanze intraducibili. E’ il verbo che esprime l’andare a zonzo, come fa la papera, ma con un tocco speciale di dissipazione del tempo, di dondolamento nell’incedere, e di nessuna cura della méta da seguire. E sempre restando nel mondo animale senza sinonimi mi appare ancora oggi il termine runduniare: il particolare moto senza posa di certe persone irrequiete che come il rondone vanno di qua e di là cercando qualcosa di indefinito, che sfugge agli osservatori esterni. Questi termini mi hanno fatto comprendere, più di qualsiasi ricerca storica, quanto profondo, e per così dire fondativo, sia stato il legame di quel piccolo mondo urbano con i fenomeni della natura, le piante, gli animali, e insomma il dominante contesto rurale da cui esso era ancora circondato
Ora, c ‘è un piccolo paradosso nella mia personale storia intellettuale e professionale Un paradosso che può forse fornire qualche valore alla mia testimonianza. A un certo punto della mia vita io sono diventato uno storico e questo mi ha posto di fronte alla ovvia necessità non solo di accettare, ma di ratificare l’insignificanza della mia lingua originaria anche nella lingua scritta. Comunicare voleva dire usare una lingua irrigidita in codici e regole. Un mezzo “neutro”, privato degli spazi reconditi, delle ombre, dei suoni, dei segreti, delle complicità che ogni dialetto possiede, frutto linguistico di un legame profondo delle comunità con la terra, gli animali, la vita e la morte.Per scrivere di storia io dovevo sopprimere quella personale stoffa storica personale che era il mio dialetto.Le necessità del linguaggio scientifico mi disancoravano ancor più radicalmente dalla patria geografica e culturale che avevo fisicamente abbandonato per intraprendere la vita universitaria e poi l’avventura della ricerca. Ma il paradosso sta nel fatto che l’approdo allo studio della storia ha coinciso, per me, con una più profonda conoscenza della realtà e del passato della mia regione di origine. Tramite la ricerca storica, almeno che ho condotto agli esordi e per una certa fase, io ho scoperto il mondo delle campagne calabresi, il popolo multiforme dei contadini, la loro vita, le loro culture. Grazie alla cancellazione della lingua materna, e accettando i canoni del sapere accademico, io ho incontrato il mio passato, la mia storia, il fondo antropologico su cui quella stessa lingua era sorta. Ma alla geografia dei luoghi, delle economie, dei fatti e dei processi di trasformazione sociale che sono andato esplorando non corrispondeva una geografia dei linguaggi, dei dialetti, delle forme di comunicazione e di rappresentazione di quell’ inesauribile tesoro verbale elaborato in secoli di vita dal mondo popolare. In quella ricostruzione gli uomini e le donne parlavano indubbiamente con i fatti e i processi materiali di cui erano protagonisti o vittime, ma non con le proprie parole. I contadini, incapaci di lasciare tracce scritte della loro esperienza, del loro passaggio sulla terra, restavano muti. Sono rimasti muti anche per me. Solo di tanto in tanto sono riuscito a dar loro voce, utilizzando quei particolari fossili verbali che sono i proverbi e i modi di dire. Reperti inutilizzabili per una storia événementielle, ma imprescindibili per chi voglia ricostruire codici culturali e le strutture profonde della mentalità. «Pari venutu i Cutroni», sembri tornato da Crotone, si diceva nella provincia di Reggio delle persone malandate nel fisico, come se avessero duramente lavorato nelle campagne dove imperversava la malaria. «Faticamu da li stidri da matina a li stidri de la sira»: fatichiamo dalle stelle del mattino alle stelle della sera. Così, con involontaria poesia, si esprimevano le contadine della provincia di Catanzaro nel dopoguerra, mentre lottavano per più dignitose condizioni di vita.
(Testo, lievemente modificato, di un intervento letto al Convegno “I confini della scrittura. Dispatri reali e metaforici nei testi letterari.” Università di Roma La Sapienza, 10-12 marzo 2005.)
L’ultima notizia arriva dall’Algeria. Il nuovo codice di famiglia appena approvato si adegua alla più retriva mentalità islamica, recuperando antiche norme di cupa misoginia, secondo cui la donna può andare a nozze solo con il consenso di un tutore (maschio ovviamente), è soggetta all’autorità del marito e dei suoceri, deve loro obbedienza e rispetto, è costretta da una serie di vincoli a una condizione di oggettiva minorità. Il fatto appare particolarmente grave in un paese che da decenni ha visto affermarsi battagliere femministe, professioniste di grande qualità intellettuale e politica, donne combattivamente impegnate per la libertà propria e della loro società. E tuttavia non stupisce se si pensa alle masse femminili costrette al burka o al chador, alle folle di bambine sottoposte all’escissione della clitoride, alle ragazze costrette a sposare uomini mai incontrati prima, alle adultere punite con la lapidazione, alle centinaia di migliaia di stuprate … O semplicemente ai milioni di donne cui è vietato non si dice votare, ma uscire di casa, studiare, avere un lavoro extradomestico …
Tutto questo accade in Afganistan, in Iran, in Arabia, in India, in Sudan? Cioè in società che il nostro razzismo sbrigativamente definisce “arretrate” “primitive” “incivili”, e cheoggettivamente d’altronde continuano a osservare mostruose forme di dichiarata disparità tra i sessi? Oppure accade in luoghi sconvoltidalla guerra, dove lo scatenarsi dei peggiori istinti è in qualche modo autorizzato anzi richiesto, dove è “normale” la sopraffazione dei più deboli e lo stupro viene praticato come un diritto? Vero. Ma questo non ci autorizza a dimenticare che la disparità tra i sessi non è una prerogativa specifica e esclusiva di questi paesi, né conseguenza di situazioni eccezionali di belligeranza o di esodi di massa, che anche nei nostri moderni democratici paesi la subalternità femminile è ancora una realtà, che la discriminazione delle donne si esprime ancora per mille modi, come qualcosa che tenacemente appartiene al sistema-mondo e lo definisce.
E’ di poche settimane fa l’ultimo rapporto in materia di Amnesty International, che parla di un riacutizzarsi della violenza contro le donne riscontrato un po’ dovunque, e anche in situazioni all’apparenza del tutto pacifiche. Anche all’ interno della famiglia. In famiglia appunto, secondo Amnesty, si compie quasi il 70% degli abusi sessuali denunciati in Italia. Negli Stati Uniti i casi di violenza domestica sono 700mila, e si calcola che ogni 15 secondi una donna venga picchiata. In Gran Bretagna circa duemila collaboratrici domestiche ogni anno deunciano molestie sessuali. E nella nostra civilissima Europa ogni anno mezzo milione di donne vengono costrette alla prostituzione. Ma forse basta pensare a quella iniquità che indistintamente colpisce le donne di tutto il mondo, ancora oggi (e nonostante una vasta produzione legislativa tesa a correggere le discriminazioni più gravi) di fatto scaricando per intero su di loro il lavoro famigliare e domestico, cioè a dire il fondamentale compito della riproduzione sociale, anche quando sono regolarmente impegnate in un’attività di mercato. Con il risultato che, dovunque, tra famiglia e mercato, le donne lavorano molto più degli uomini.
Ma non voglio insistere sugli aspetti palesemente negativi della condizione femminile attuale, sulle innumerevoli, grandi e piccole forme di esclusione e di sfruttamento che ancora inconfondibilmente segnalano la persistenza delle radici patriarcali della cultura umana, e che le grandi vittorie segnate dal femminismo non hanno ancora sconfitto, per certi versi anzi non di rado provocandone l’irrigidimento, quasi in una sorta di vendetta. Preferisco parlare di quanto viene proposto con sembianze decisamente positive, come apertura e spinta all’affermazione delle donne, riconoscimento del loro diritto alla più piena libertà e spregiudicatezza, incitamento a una prorompente e disinibita modernità. E’ ciò che sembrano suggerire i modelli proposti dalla comunicazione di massa, televisione e pubblicità i primis, che inevitabilmente vengono fatti propri dalle masse femminili, specie dalle più giovani e culturalmente meno attrezzate, abbagliate dal successo mediatico di vallette, veline, presentatrici, modelle divenute celebri e ricche promuovendo un detersivo o una birra. Imitarle, tentare di riprodurne i fasti, s’impone quasi come un dovere. Non a caso un recente sondaggio ha rivelato che “fare la velina” è il sogno della maggioranza delle adolescenti italiane.
E quali sono gli strumenti di questo percorso? Bellezza innanzitutto, da inseguire a qualsiasi prezzo, e con tutte le innumerevoli e sempre più sofisticate tecniche promosse dal consumismo, onnipresente e attivo in ogni momento della nostra vita: cosmesi, diete, ginnastiche, body building, interventi di chirurgia estetica. Bellezza da esibire poi senza remore e senza risparmio, e da usare sapientemente (o magari anche inconsapevolmente, sull’onda del “così fan tutte”) per la seduzione e la conquista del maschio detentore del potere e della ricchezza, in grado di assicurare un radioso futuro.
Ma quanto c’è, in queste scelte e in questi comportamenti, di realmente diverso dalla femminilità della tradizione, convenzionalmente definita in conformità all’erotismo maschile, e di fatto imposta da un rapporto disuguale, quale sempre è stato tra i sessi? A parte la libertà di iniziativa e di movimento, ormai per lo più concessa anche alle giovanissime, a parte il permissivismo sessuale da quasi tutte rivendicato e praticato, a parte la dilagante erotizzazione dello spettacolo e della comunicazione in genere, spesso d’altronde ridotta a nulla più che becera volgarità, a parte cioè il radicale mutamento, o forse la sparizione definitiva del “comune senso del pudore”, è possibile in tutto ciò ravvisare la conquista di una nuova, vera, compiuta libertà delle donne? E in che modo d’altronde tale conquista sarebbe possibile, se la società intera, sotto le luccicanti ottimistiche sembianze della sua ipertecnologizzata modernità, di fatto, mediante tutte le principali agenzie formative, esercita su maschi e femmine una pressione culturale nel profondo ancora obbediente ai moduli intersessuali del passato?
E tuttavia, nonostante una società ancora dominata dal maschile e dai suoi valori come quella che ci ritroviamo, sono sempre più numerose le donne capaci di consapevolezza, di voce critica e di rigetto nei confronti dei modelli imperanti. Donne che studiano e lavorano, che si impegnano nel sociale e nella politica, che sono parte attiva dei movimenti e affollano le manifestazioni per la pace, che gridano contro lo sfruttamento del lavoro e la devastazione della natura, che si battono per il superamento di un sistema economico insostenibile socialmente non meno che ecologicamente. E forse proprio questa è la strada per affermare una fisionomia femminile pienamente autonoma e davvero nuova, non confezionata sulla base dei modelli imposti, definita dalla lotta per i diritti di tutti come il modo più pieno di sostenere anche i propri. Recuperando l’azzardo di quel formidabile progetto che l’esordio della rivoluzione femminista osava proporsi: cambiare il mondo.
Questo articolo è stato inviato da Carla Ravaioli a Eddyburg e a la Rinascita della sinistra, che lo ha pubblicato nel numero del 4 marzo 2005
Quanti non sono stati allievi del professor Meneghetti nelle aule affollate del Politecnico di Milano, quanti non hanno visto i suoi progetti (quelli dello studio Gregotti-Menghetti-Stoppino, o presentati e premiati alle Triennali di Milano, o pubblicati nelle riviste di architettura, o raccontati nei suoi libri, o realizzati nella sua amata e trasformata Novara), e quanti (come me) non hanno la fortuna di conoscerlo di persona, conoscono Lodo attraverso i brevi, e spesso fulminanti, commenti che ha pubblicato su questo sito. Commenti che condividano e deprecano, si irritano per le mille porcherie e vigliaccherie d’oggi: dove spesso riappare il fantasma di porcherie e vigliaccherie d’ieri, che anche ieri, con parole che Lodo infaticabilmente ricorda e ripropone, aveva additato e denunciato.
Questo sito, al quale ha accettato di collaborare in questa cartella di opinioni, ha dato a Lodo due dispiaceri: non aver inserito la parola “architettura” nel sottotitolo che fra poco comparirà nella testata, non aver trasformato quest’ultima da “Eddyburg” a “Il Cortile”. Questo avrebbe dovuto alludere a un fitto colloqui di voci concordi o discordi, che Lodo si augurava. Ma potrebbe diventare il sottotitolo, o il titolo, di questa cartella, se alle note degli “opinionisti” dovessero rispondere commenti di altri, e questi fossero numerosi e stimolanti.
Nessun’altra parola può darci un indizio sui sentimenti che il distacco dalla vita e dalla terra, inevitabilmente visti come prossimi dal poeta anziano, ma forse ancora non “sazio di anni”, se non le sue stesse, nella meditazione sulla prima stazione della Via Crucis al Colosseo del 1999: quando scompare chi molto ha detto è scritto, è prima di tutto lui, che deve continuare a parlare:
Padre mio, mi sono affezionato alla terra
quanto non avrei creduto.
È bella e terribile la terra.
Io ci sono nato quasi di nascosto,
ci sono cresciuto e fatto adulto
in un suo angolo quieto
tra gente povera, amabile e esecrabile.
Mi sono affezionato alle sue strade,
mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti,
le vigne, perfino i deserti.
È solo una stazione per il figlio Tuo la terra
ma ora mi addolora lasciarla
e perfino questi uomini e le loro occupazioni,
le loro case e i loro ricoveri
mi dà pena doverli abbandonare.
Il cuore umano è pieno di contraddizioni
ma neppure un istante mi sono allontanato da te.
Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi
o avessi dimenticato di essere stato.
La vita sulla terra è dolorosa,
ma è anche gioiosa: mi sovvengono
i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali.
Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario.
Congedarmi mi dà angoscia più del giusto.
Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?
Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?
La nostalgia di te è stata continua e forte,
tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna.
Padre, non giudicarlo
questo mio parlarti umano quasi delirante,
accoglilo come un desiderio d’amore,
non guardare alla sua insensatezza.
Sono venuto sulla terra per fare la tua volontà
eppure talvolta l’ho discussa.
Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego.
Quando saremo in cielo ricongiunti
sarà stata una prova grande
ed essa non si perde nella memoria dell’eternità.
Ma da questo stato umano d’abiezione
vengo ora a te, comprendimi, nella mia debolezza.
Mi afferrano, mi alzano alla croce piantata sulla collina,
ahi, Padre, mi inchiodano le mani e i piedi.
Qui termina veramente il cammino.
Il debito dell’iniquità è pagato all’iniquità.
Ma tu sai questo mistero. Tu solo.
Ma mi piace esprimere il dolore della perdita di Mario Luzi anche nelle parole intonate di un piccolo gruppo di lettura, che ci aiuta a ricordare il ‘ritratto’ del personaggio; sono quelle che seguono:
Mario Luzi proprio l’anno scorso ci aveva offerto una lettura magistrale di Tetrarca e altre cose.
Ne abbiamo prodotto un dvd in collaborazione con il Dipartimento di Italianistica. In un’intervista parallela con Sergio Cofferati, ospitata sul Domani a cura del nostro Andrea Severi, aveva parlato del ruolo civile della poesia.
Non aveva avuto la minima diffidenza a diventare subito amico di un piccolo gruppo come il nostro. Bastava una telefonata ed era a nostra disposizione, per leggere, per parlare, e bastava un saluto per essersi detti tutto.
Abbiamo imparato che i veri grandi sono naturalmente accessibili, non sono foderati di segreterie, non sono scostanti. Lui era un nostro amico.
Associazione "La Bottega dell'elefante", gruppo di lettura bolognese,
infoelefante@fastwebnet.it
Lo scandalo (perché di scandalo si tratta) che le vicende delle ultime settimane relative alla Scala di Milano – per tacere, ora, di quelle, annose, legate alla ri-costruzione bottiana, 300 miliardi delle vecchie lire – hanno sbattuto in faccia agli allibiti milanesi e al ristretto ambiente nazionale e internazionale della cultura lirico-teatrale non ha trovato la dovuta forte risonanza sui mezzi di informazione. Le pagine locali dei quotidiani hanno raccontato ai lettori con precisione, per quanto possibile data l’oscurità di fondo della scena, la funesta commedia recitata da diversi personaggi, parlanti mormoranti strepitanti o muti (ah…). Le pagine nazionali della Repubblica (un articolo lungo una volta) e del Corriere – l’Unità ha pubblicato un buon articolo il 27 febbraio – benché non avare di informazioni, a mio parere non hanno sollecitato a sufficienza i cittadini italiani a un’attenzione convinta e preoccupata in merito a quanto è realmente in gioco, a quel che la crisi del più importante (o solo più famoso, oggi…) teatro lirico del mondo rappresenta nella cultura musicale e nella cultura tout court, nella politica, nella società. Sappiamo che oggi la Scala è sull’orlo del burrone in cui potrebbe cadere trascinando con sé la memoria e il senso di una lunga storia, certamente impareggiabile anche se non sempre mirabile. Il teatro milanese per la nazione vale (o dovrebbe valere) molto di più dei decantati modisti con le loro quattro settimane di sfilate annuali. Non sta a me, qui, certificare la classifica dei colpevoli; direi tutti i componenti del Consiglio di amministrazione con alla testa il nostro sindaco, l’antipatico Albertini detentore del primato di arroganza e autoritarismo. Rivalità di poteri (Cda, sovrintendente, direzione artistica, direzione musicale…), soprattutto ignoranza, davvero incredibile, e disinteresse circa le pesanti conseguenze che provocherà la perdita dell’altissima funzione e rappresentatività culturale detenuta dalla più nota istituzione milanese. Ma anche il silenzio, assoluto, ininterrotto per settimane del maestro Muti (fare il pesce in barile davanti a tanto sconquasso!) non può essere capito e condiviso. Sta anche a me, però, ai fini di mostrare il valore generale e simbolico della vergogna scaligera, ricordarvi in primo luogo che il teatro milanese è dal 1996 una fondazione come le altre tredici fondazioni lirico-sinfoniche nazionali, a cui lo stato assegna la parte più consistente del Fondo unico per lo spettacolo. L’idea fondazionista, neoliberista si basa sulla fiducia che l’ingresso dei privati nei Consigli porti con sé fior di contributi al finanziamento. Che poi la tradizionale propensione degli industriali, finanzieri, commercianti italiani a spendere poco o niente per la cultura deluda in molti casi le attese non è che una conferma di caratteri storici a stento mutabili: capita così nei teatri meno famosi. Invece la partecipazione maggioritaria nella politica di un grande teatro può essere una straordinaria occasione di affermazione, poco costosa o comunque suscettibile di contropartite di enorme valore, finanziario o no o non solo: è il caso della Scala. Comprenderete al volo la situazione gestionale e del potere leggendo di seguito i nomi dei membri privati del Consiglio di amministrazione: Fedele Gonfalonieri, capo di Mediaset, braccio destro di Berlusconi (come ci fosse questi in consiglio), Vittorio Mincato, presidente dell’Eni, Bruno Ermolli, vicepresidente del Cda, altro braccio di Berlusconi per le strategie, poi, più che primus inter pares, Marco Tronchetti Provera, l’ex industriale passato armi e bagagli alla rendita fondiaria: autore con il sindaco e la giunta della più grande operazione immobiliare che Milano ricordi sui terreni Pirelli ex industriali della Bicocca, guarda caso proprio attorno al concerto pubblico/privato per l’edificazione dell’Arcimboldi, il teatro alternativo durante i lavori di ristrutturazione della madre Scala, oggi e dopo non si sa; in questa crisi nessuno programma, nessuno sa nulla. Schizzo di panna sulla torta spartita infine: rappresentante delle Regione Lombardia è l’avvocato Paolo Sciumé di Comunione e liberazione, implicato nelle indagini per il crollo della Parmalat. In ogni modo da quando il teatro è diventato una fondazione di diritto privato, ha scritto Repubblica, “si trova in una situazione simile alla Mediobanca dell’età aurea di Cuccia: il sindaco presiede, gli enti pubblici coprono la stragrande maggioranza delle spese, i privati comandano” (Anselmi, 3 marzo). Potere dei privati, ecco, e la Scala discende sé medesima. Ma se il teatro va in rovina, cosa guadagnano costoro? La condizione è simile a quella delle squadre di calcio col presidente ambizioso, presuntuoso, mentitore e dilapidatore delle risorse, tanto ciò che conta è il marchio, è la partecipazione al set “teatrale”nazionale e internazionale, è la pubblicità di sé e del proprio logo. Una condizione simile a quella di Berlusconi e del suo governo che stanno trascinando il paese sempre più in basso nella scala (eh…) dei valori civili e umani. La indecente commedia scaligera: dapprima stentiamo a crederla realtà, poi la percepiamo come riflesso e nel contempo emblema delle vicissitudini politiche e sociali dell’Italia intera, specchio della totale mancanza di predisposizione della classe dirigente a impiegare al meglio – onestà intellettuale insegni – le risorse del paese, la cultura alta e popolare, delle persone e delle libere istituzioni sociali sindacali politiche, quelle già espresse e quelle latenti. Governano la Scala e il paese personaggi senza cultura né storica né sociale né artistica, la loro dote principale è l’immodestia, se non l’impudenza.
E non dico nulla della cultura musicale per carità di patria, pur dissertando di Scala,. Del resto, anche per colpa e per scelta dei poteri che si sono susseguiti in un secolo e mezzo alla guida della nazione, il popolo, quanto a conoscenza, sensibilità, frequentazione musicale, è a livello dello zero assoluto. Se penso che l’unica riforma “musicale” è stata promossa dalla ultra democristiana e tanto denigrata ministro signora Falcucci, che ha introdotto minimi esercizi musicali nella scuola media dell’obbligo creata nel 1963 !
La tutela del territorio è sempre meno apprezzata. Anche nella magistratura amministrativa tornano a prevalere quelle che una volta si chiamarono le toghe di cemento. Nel giorno in cui entra in vigore il protocollo di Tokyo, il Tar di Catania dà spazio al cemento nelle isole Eolie e il consiglio di Stato sembra che consenta la realizzazione di quell’autentico scempio che è l’auditorium di Ravello. Le brutte notizie non sono finite, la peggiore riguarda sempre la controriforma urbanistica che sta per essere approvata dalla Camera dei deputati.
Comincio da questa ultima. Ho imparato da Antonio Cederna, di cui per trenta anni sono stato amico e allievo benvoluto, che non bisogna vergognarsi di ripetere le cose di cui si è convinti e che si vogliono far conoscere. Non solo non bisogna vergognarsi, ma si ha l’obbligo morale di continuare a dirle. E allora insisto su almeno due aspetti di inaudita gravità del testo in discussione alla Camera. I cosiddetti standard urbanistici, cioè l’obbligo per i comuni a garantire ad ogni cittadino, e in ogni quartiere, una determinata quantità di verde e di spazio pubblico, quindi un vero e proprio diritto alla città, frutto delle grandi lotte degli anni Sessanta: gli standard urbanistici sono abrogati. Restano come facoltà, non è proibito realizzare attrezzature pubbliche, ma non è più un obbligo. L’altra inverosimile proposta riguarda la tutela dei beni culturali e del paesaggio che viene scorporata dalla materia urbanistica. Tutti sanno che la salvezza di alcuni dei luoghi più pregiati del nostro Paese – l’Appia Antica, le colline di Firenze e di Bologna, le coste e i parchi della Maremma livornese, per citarne solo alcuni – è dovuta all’azione di amministratori lungimiranti che predisposero piani regolatori attenti alla salvaguardia delle risorse ambientali e paesistiche. Se fosse approvata la nuova legge, i piani regolatori non potrebbero più tutelare i beni culturali e il paesaggio. Si dovrebbero occupare solo di aree fabbricabili.
Come si usa dire, un fragoroso silenzio incombe sulla proposta di controriforma urbanistica Tacciono stampa e televisione. Ne hanno scritto soltanto Liberazione e l’Unità e molti sindaci toscani stanno sottoscrivendo un appello proposto dal comune di Piombino. Ma tace l’opposizione, di centro sinistra e di sinistra. Peggio, esponenti moderati del centro sinistra sono pienamente d’accordo. Sembra che si sia persa ogni capacità di analisi e di ragionamento. Evidentemente, l’urbanistica non interessa più a nessuno. Si piange sullo smog e le polveri sottili, si cercano soluzioni estemporanee, non si riflette più sulla crescita deforme delle città, che è la prima ragione dell’inquinamento e dei disagi della vita urbana.
In questa temperie non meravigliano le notizie sulle Eolie e su Ravello. Il Tar di Catania ha accolto il ricorso di un imprenditore al quale la soprintendenza di Messina aveva sospeso la realizzazione di un albergo nell’Isola di Vulcano. Non sono bastati l’allarme e le prese di posizione contrarie al progetto da parte di tutte le associazioni ambientaliste e dei ministri dell’Ambiente e delle Politiche agricole. Se fosse generalizzato l’orientamento del Tar di Catania, una nuova ondata speculativa si abbatterebbe sulle Eolie. Riguardo all’auditorium di Ravello, non si conoscono ancora le ragioni che avrebbero indotto il consiglio di Stato ad autorizzare la realizzazione di un progetto che Italia nostra e tanti altri giudicano illegale. Ha evidentemente ragione chi avverte che norme e leggi di salvaguardia sono sempre più spesso considerate solo ostacoli da rimuovere. Come pretende Berlusconi.
Nel lontano 1967, praticamente alle origini della scienza ambientalista, Kenneth Boulding scriveva: "Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all'infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista." Forse si dovrebbe aggiungere: oppure un politico.
L'attenzione all'ambiente è comune a moltissime persone (e non parlo solo di quele per le quali è una moda o un rito). Una parte consistente di questo universo ispira la sua attività, e la sua vita, alla consapevolezza dei rischi che l'ambiente del nostro pianeta (e quindi il nostro pianeta in se stesso) stanno correndo in modo grave. I loro contributi sono ospitati in libri e riviste, e un pochino riecheggiano in questo sito.
La peculiarità di Carla Ravaioli è questa: è tra i pochissimi che hanno compreso, e tentano di far comprendere, che una delle radici principali della degradazione usque ad mortem dell'ambiente della nostra terra sta nei limiti profondissimi dell'economia: dell'economia pratica (e questo ormai molti l'hanno compreso) e soprattutto del pensiero economico. Argomentare questa convinzione e trovare nel pensiero economico classico (da Adam Smith a Claudio Napoleoni) le nascoste radici di un possibile superamento è l'impegno principale di Carla Ravaioli. Che non si accontenta di ricercare, come vorrebbe il suo mestiere, ma si preoccupa di condividere ciò che scopre, con un linguaggio chiaro, semplice, rigoroso.
Divulgare senza mentire, in nessuno dei due modi consueti: nè travisando la realtà, nè trascurandone parti essenziali: questo potrebbe essere il motto di persone come lei. Anche perciò le ho chiesto di fornire ai lettori di Eddyburg la sue opinioni: come per gli altri, quando lo vorrà, come lo vorrà.
Non ho conosciuto molto a fondo Renzo Imbeni: come spesso accade nei mondi della politica, è stata una conoscenza più ufficiale e superficiale, affidata alle occasioni rituali delle riunioni di direzione e dei congressi. Una piccola polemica, tra il serio e il faceto, ricorreva tra lui e me, come del resto tra lui e tutti i fumatori irriducibili, e immancabilmente, in tempi, si direbbe oggi, tabagisticamente non sospetti, ricordo la sua premura nel porre all’approvazione di qualsiasi consesso la regola, da me tollerata di malumore, che per l’appunto metteva al bando il fumo da tabacco dalla discussione.
Ma sono stata sua cittadina, per tutti i lunghi anni in cui è stato Sindaco; forse anche, indirettamente – ma sicuramente, per quei tempi, con qualche fondamento di verità – sono stata sua cittadina anche prima, quando era Segretario della Federazione del PCI di Bologna, e quando il rapporto Comune-Partito era di natura ben più pregnante di quanto non lo sia divenuto con il passare del tempo – per non parlare dell’oggi.
E allora, durante tutti quegli anni, un attributo incombeva plubleo come il cielo da neve di oggi sulla città e sulla sua amministrazione: il grigiore – attributo giustificato probabilmente da molti fatti e contingenze, e inevitabilmente esteso alla persona del Sindaco, magari anche da molti dei con-dolenti di oggi. Io stessa non posso dire di condividere tutte le politiche comunali della stagione Imbeni, ed anzi ho preso posizione esplicitamente nei confronti di alcune scelte di gestione urbanistica e territoriale.
Ma con quel Sindaco che ci lascia – perché è sempre il Sindaco di Bologna che si continua a mostrare, anche dietro la Vicepresidenza di un parlamento Europeo frequentato, a differenza della massa degli eletti, con grande assiduità e rispetto istituzionale, anche dietro l’uomo amareggiato dalla sua ultima recente mancata candidatura: è sempre il Sindaco che si ricorda –, con lui sembra chiudersi in silenzio una pagina della vita di questa città che avrebbe forse molte altre cose da dire, che forse le dirà, che può darsi sarà interrogata – ma che per ora non sembra destare troppo interesse…
Ultimo Sindaco eletto col ‘vecchio rito’, ultimo della generazione che precede coloro che, a torto o a ragione, a partire dalle amministrative parziali del 1993, saranno detti ‘grandi Sindaci’, di un tratto del carattere e del modo di porsi credo che a Renzo Imbeni debba essere resa memoria grata: la scarsa propensione alla deriva narcisistica che avrebbe contagiato in breve i Sindaci ‘nuovi’, eletti direttamente, convincendo loro per primi, e spesso in modo durevole, di non essere tanto “Sindaci di grandi città”, quanto “Sindaci Grandi” – per poi restarlo, “Grandi”, ad libitum, qualunque altra cosa facessero, quasi fosse un titolo a vita.
Non che Renzo Imbeni dal narcisismo fosse del tutto alieno. Può anche avere infastidito, in tempi pre-prodiani, l’esibizione ciclistica o podistica di un uomo che restava comunque, anche nell’aspetto, un ex-atleta; può aver infastidito come antidoto irrilevante al ‘grigiore’, o, peggio ancora, come sua quasi demagogica conferma.
Ma la discrezione con cui Renzo Imbeni ha saputo convivere con il proprio male questi ultimi mesi e settimane, il riserbo assoluto, che ha dato alla notizia della sua morte un carattere tanto improvviso e dolorosamente inquietante, e proprio perché sono stati mesi e settimane in cui, questo sì, a livello di ruolo politico non aveva nascosto la propria amarezza per quella che pareva un’ingenerosa ‘messa da parte’ – il fatto che nessun argomento di carattere ‘privato’ sia intervenuto a colorire l’espressione pubblica del suo sentimento, credo che solo questo fatto autorizzi a supporre quanto poteva esservi, dietro l’apparente grigiore, quanta consapevolezza del senso della funzione, quanto spessore inconosciuto, dietro il suo sorriso pronto e la sua bonomia, persino nel suo puntiglio di ex-fumatore pentito. Con qualche rimpianto in più, per non averlo capito in tempo: per non aver capito che, forse, il grigiore, che a un certo punto gli fu affibbiato come maligna etichetta, era più colorato di quanto tanti allora hanno pensato.
(29.1.05) sulla bellezza e il paesaggio dopo avere in precedenza contestato “la soluzione prevista dal nuovo, terrificante disegno di legge urbanistica nazionale della maggioranza che esclude dall’urbanistica la tutela, e quindi la bellezza, e quindi il paesaggio”. Anche altri hanno chiamato gli urbanisti a schierarsi. Accettando subito l’invito di De Lucia, Fabrizio Bottini ha scritto un articolo molto bello (Et in Arcadia…Lego, 31.1.05) che intende confortarci mostrando come “la forte integrazione fra urbanistica e tutela paesistica”, la percezione del paesaggio o degli elementi naturali con le loro modificazioni da parte dell’uomo fossero già interiori alla parte migliore dell’urbanistica italiana dagli anni Trenta. A proposito dei casi nazionali di prima o durante la guerra, mi par giusto aggiungere e riconoscergli uno speciale risalto, anche per affiancare “milanesi” a citati “romani”, il Piano regolatore della Valle d’Aosta (1936-37): passo intermedio fra i traguardi raggiunti, nel 1933-34, dal CM8 (il Piano di Como firmato appunto dagli “otto”, Bottoni, Cattaneo, Dodi, Giussani, Lingeri, Pucci, Terragni, Uslenghi) e dopo dal Piano AR per Milano (1944-45) quando gli Architetti Riuniti lavorarono mentre la città respirava appena dopo i pesanti bombardamenti e pensarono, pur partendo dal piano urbano, in termini di territorio vasto, di paesaggio regionale. Quanto alla Valle, sotto la guida di Adriano Olivetti sette architetti (Banfi, Belgiojoso, Bottoni, Figini, Peressutti, Pollini e Rogers), un ingegnere (Italo Lauro) e il direttore pubblicitario dell’Olivetti (Renato Zveteremich) produssero quegli Studi e proposte preliminari per il piano regolatore della Valle d’Aosta a cui in seguito venne riconosciuto un primato nel campo della ricerca e documentazione di analisi e di progettazione (450 le tavole, oltre ai diversi apparati) riferibili a un ambito esteso per il quale la questione della natura e del paesaggio rapportati al problema della pianificazione urbanistica e anche del progetto a scala pre-architettonica (V. i quattro piani particolareggiati) doveva erompere con forza dalla stessa realtà, non ancora massacrata e ridotta a campione di bruttezza dagli inconcepibili interventi urbanistici ed edilizi dal dopoguerra.
Non su questo, in verità, volevo indugiare. Leggendo De Lucia e Bottini pensavo alle fonti sopranazionali della modernità cui si sono abbeverate un’urbanistica e un’architettura sensibili alla presenza immanente del paesaggio, naturale, artificiale, agrario, terra e acque, anche in occasione del piano urbano ritenuta la meno favorevole. Da dove veniamo? Domanda a cui ho risposto da molto tempo e allo stesso modo di molti altri. Sicché ridurrò a una singola dichiarazione il pensiero (luogo) comune stampato e detto. In inciso, rivolgendomi a Bottini e scusando l’autocitazione: Et in Arcadia Ego di Nicolas Poussin (1639) è la prima delle illustrazioni di Architettura e paesaggio. Memoria e pensieri.
Da dove veniamo? Per me, la vecchia fonte buttante allora dai torrenti del materialismo, zigzaganti fra le bandiere del rapporto uomo-natura piantate ad ogni ansa, è William Morris, soprattutto il suo lato mentale e corporeo meno esposto, meno illustre dal quale venne il saggio News from Nowhere. Non interessa la diatriba circa il suo utopismo, semmai ricordare la complessità della figura nella misura in cui radunò l’artista, il poeta, l’operaio-artigiano, l’architetto, l’urbanista, il socialista. Interessano le premonizioni in quel testo: la dilagante congestione della grande città “che inghiotte campi e boschi e brughiere senza pietà e senza speranza… il cielo fumoso e i fiumi torbidi… la campagna invasa da miserabili costruzioni”. Tutto vero per l’oggi. Ed è facile poi ricavare, perfino disegnare, il modello di organizzazione territoriale che denominerei il progetto di città e campagna. Una incredibile anticipazione: ricuperare un equo rapporto fra l’uomo e la natura nella società moderna vuol dire riequilibrare il rapporto molteplice uomo / lavoro / tempo libero / riposo, allo stesso tempo e modo che risolvere il divario fra città e campagna. Ne sorte la chiara rivendicazione tripartita – lavoro onorevole e appropriato, riposo per la mente e il corpo, ambiente confortevole e bello – coerente all’altra triade relativa all’intrinseco abitare, “buoni alloggi, ampio spazio, ordine e bellezza”. Infine, il convincente disegno di uno spazio ‘regionale’ avverso al moloch-città smisurata: potrebbe sembrare il medesimo che avremmo voluto si inverasse nel destino delle nostre metropoli, vale a dire un modello nettamente policentrico: centri urbani spaziati nella campagna, paesaggi urbani e paesaggi degli spazi agrari e naturali come due aspetti della funzionalità e bellezza di un unico paesaggio umano. Ma sembra che la storia non abbia insegnato nulla, se non a pochissimi, in questo disgraziato paese, “malpaese” secondo il bravo giornalista Valentini. Eppure tale fantastico sistema policentrico rappresentava la realtà che possedevamo tramandataci dalle vicende storiche, specialmente in Lombardia e nel Milanese. Lo hanno, l’abbiamo in gran parte distrutto, specialmente riguardo a Milano e largo circondario dove il progetto territoriale si è risolto al contrario della nostra visione lotta speranza. Le città immaginate da Morris, paragonabili alla miriade di centri milanesi e lombardi, una volta tutti piccoli e medi, separati da larghe e perfino vastissime fasce di campagna o di boscosa brughiera, sfruttano una potenzialità basata anche sulla bellezza dell’ambiente costruito storico: una risorsa che si esalta nel rovescio della “grande città divoratrice dei campi”. Alla nitida delimitazione urbana corrisponde un’organizzazione spaziale interna come concerto armonioso fra le parti edificate e i “giardini”, mentre la campagna “integra” addossata ai margini potrebbe collegarsi ai giardini interni attraverso idonei varchi e interstizi.
Invece oggi ci aggiriamo in uno spaventevole dilagamento dello spazio edificato, una disgustosa poltiglia di case e insensate strade, augéani non-spazi dove abbiamo perduto l’identità di noi stessi insieme all’identità di luogo.
… poi vennero gli altri, figli e nipoti e parenti e amici e conoscenti, persone singole o riunite in Movimenti. A loro, tutti o molti di noi amici in Eddyburg, ci siamo ispirati in qualche modo e in qualche tempo.
… e intanto si dipanava l’altro corso dove insegnava l’altro padre degli urbanisti e architetti moderni, Hendrick Petrus Berlage. Ne uscirono bravi architetti olandesi e no. Anche a noi tutti insegnò molto.
Per concludere rischiosamente: dico che i giardini dentro i grandi blocchi cooperativi del piano per Amsterdam Sud li vorrei collegare idealmente ai giardini urbani di William Morris. In fondo l’inglese, per data di nascita, avrebbe potuto essere padre giovane dell’olandese.
risucchia in questi giorni gorghi d’intelligenza con molta probabilità degni di miglior causa - anche se di molti altri simboli, molto più banali e consueti, e tuttavia insinuanti, chissà perchè non discute nessuno. Ma stiamo al tema.
Nell’introduzione a Le querce di Monte Sole, volume dedicato da Luciano Gherardi alle comunità martiri vittime della strage nazista di Marzabotto, Giuseppe Dossetti sviluppa un ragionamento sulle stragi come delitti “castali”, la cui suggestione, ci dice, è nata nel corso dei suoi viaggi in India:
“Certo chi vada in India non può non rimanere impressionato lungo tutto il corso del Gange dalla moltitudine di templi con la svastica. La croce uncinata, che fin dai tempi preistorici si ritrova raffigurata su ceramiche funerarie o rituali e che fu assunta da un certo tempo in poi come simbolo solare, nel 1910 venne scelta come distintivo dei gruppi antisemiti tedeschi, e poi come simbolo del partito nazionalsocialista e infine del III Reich”.
Ora, è noto come non si trattasse affatto di coincidenza: l’urgenza di riconnettersi alle proprie remote radici indoeuropee ebbe la forza di distogliere, a conflitto mondiale dispiegato, uomini e mezzi facenti capo all’Ahnenerbe dagli obiettivi bellici, per spedirli invece ad approfondire le ricerche sulla propria ‘eredità ancestrale’ dalle parti del tetto del mondo. E’ noto anche – questo forse un po’ meno – che la svastica nazista cambia nel corso del tempo. Dapprima perpendicolari, i bracci della croce in seguito sono inclinati a 45°, mentre viene invertito l’orientamento dei ‘raggi’, dal senso antiorario al senso orario. Questa, definitiva, è la svastica che conosciamo (soprattutto dai film di guerra).
Ma naturalmente era impossibile – se non altro, dato l’enorme quantitativo di stoffa impiegata – che questa variazione sul tema desse luogo magicamente alla scomparsa di tutte le vecchie bandiere; così succede che, ancora oggi, scorrendo i vecchi filmati, si assista a parate in cui, per evidenti ragioni di economicità (solo per questo?), le diverse svastiche compaiono assieme – inducendo fatalmente, sia pure in modo subliminale, e sia pure attraverso la bionica lucidità dell’obiettivo di Leni Riefenstahl, un leggero senso di stonatura, la percezione laterale di una dissonanza.
Hitler manomise la svastica per quanto fosse – ed effettivamente era – ‘ancestrale’: ma se anche alle parate ufficiali la commistione dei simboli non faceva la differenza, prevalendo la ‘moltitudine’ su qualsiasi dettaglio, a maggior ragione noi, oggi, non dovremmo sottilizzare troppo, e limitarci ad ammettere che la svastica di Hitler era comunque la svastica indiana.
Ma se così è, e se anzi, come sempre ricorda Dossetti, Pio XI definì la croce uncinata “nemica della croce di Cristo”, dovremmo noi oggi risalire il corso del Gange provvedendo a cancellare una per una tutte le svastiche dagli antichi templi? (i Talebani che hanno fatto saltare il Budda di Bami-an potrebbero in ogni caso fornirci una consulenza).
La risposta è ovvia – ma le implicazioni meno; la svastica è scelta da Hitler non perché è bella, ma proprio perché è un simbolo ancestrale: e di certo anche per questa ragione, implicante neopaganesimo allo stato latente, Pio XI, che non vedrà gli orrori della guerra e l’Olocausto, la definisce “nemica della croce di Cristo”.
Ora, la falce e martello può essere equiparata alla svastica nel suo essere ‘simbolo’ – ma certamente non nella sua connotazione ancestrale: la mano che disegna la falce e martello è quella di una mitopoiesi laica, post-illuminista, post-baconiana: se di simbolo si tratta, trova le proprie corrispondenze in regioni terrene, terricole (la falce!), lontane dall’astrale onnipotenza del sole dai raggi uncinati. Paradossalmente, si tratta di un simbolo ‘debole’, che mostra la propria debolezza nell’obsolescenza degli stessi segni che esibisce (quanti mai hanno visto o toccato dal vivo una ‘falce’?: ma se ne possono trovare ai mercatini dell’antiquariato…). Il fatto che in hoc signo si siano compiute efferatezze non è argomento dotato di spessore, e proprio avendo davanti agli occhi della memoria la croce cristiana, e ciò che nel suo segno l’uomo ha fatto.
Non è il permanere – dove?, sui vessilli?, sui manifesti, sui volantini, sulle T-shirt? – di simboli come questo che ci dovrebbe preoccupare (né occupare del tutto, veramente): di nessun interesse per i cassintegrati FIAT come per i padroncini del nord-est come per le vittime attuali e future della riforma fiscale né a quelle annunciate della campagna per la salute né per i ferrovieri né per i pendolari – questi però costretti, se non altro da misericordiosi ritardi, ad appassionarsi per forza alle opinioni di chi è di turno (!).
C’è un intero universo di microsimboli che sono oggi la falce e martello (quelli concreti: gli atomi, non i bit) quotidiani di chi lavora: un intero linguaggio, un universo semantico dotato di derive magiche e misteriche né più né meno di quanto lo siano le sette religiose; vanno formandosi inavvertitamente cerchie di adoratori dell’icona, del proliferare dell’icona, della sua onnipotenza. Questo è il terreno, oggi, non nel 1930, del neopaganesimo strisciante: quello della presunta ‘intelligenza globalizzata’.
Al di sotto, sotto il pelo dell’acqua del falso egualitarismo che nell’icona si ‘visualizza’, sta il popolo di quanti non l’adorano, ma la subiscono; spesso, anche per meno di 5 Euro all’ora.
Il dibattito sul ddl Lupi si dipana dall’estate 2003 sino ad oggi; in questo lasso di tempo, sul ceppo originario sono connfluiti diversi ddl, di maggioranza e di minoranza; la minoranza non ha ritenuto di presentare una mozione a sostegno di una propria distinta proposta di legge; la VIII Commissione della Camera ha licenziato il 2 febbraio 2005 un “testo unificato” in modo sostanzialmente unanime, salvo ripromettersi – da parte di taluni esponenti di minoranza – di approfondire e meglio discutere in aula alcuni passaggi e/o emendamenti che non avevano a loro giudizio trovato esito soddisfacente in Commissione.
In apertura della discussione sul ddl si fa riferimento da una parte alla riforma costituzionale del 2001 – dall’altra a quella in corso di elaborazione – che come è noto ha portato all’approvazione in seconda lettura da parte della Camera del ddl C 4862 il 15 ottobre 2004.
Anche nel caso del dibattito sulla legge costituzionale, la minoranza parlamentare ha, giustamente, operato per verificare i margini per possibili intese: il Parlamento esiste, e va fatto funzionare; qualsiasi seduzione che spiri dall’Aventino porta con sé una cattiva memoria.
Tuttavia nel corso del dibattito sulla nuova Costituzione, ad un certo punto di quel dibattito, la minoranza ha ritenuto di avere a che fare con un testo ormai inemendabile, di trovarsi di fronte ad un oggetto giuridico non migliorabile attraverso la mediazione del gioco parlamentare.
Ed il dibattito sulla legge costituzionale è solo uno tra i tanti fatti che sono accaduti fra l’estate del 2003 e il primo inverno del 2005 – ivi inclusa anche un’ampia consultazione elettorale; un altro importante appuntamento elettorale è alle porte: si può a giusta ragione ritenere di essere – e sarà così fino al 2006 almeno – nel corso di una campagna elettorale continua.
Benchè abbia poca risonanza mediatica – di gran lunga inferiore a quella di materie quali la bioetica, certo ‘universali’ sul piano dei principi, ma che interessano direttamente un numero ben più limitato di cittadini – il tema del governo del territorio è tema generale, anzi, per usare proprio le parole dell’articolo 42 della Costituzione, tema che può, in determinate condizioni, essere latore diretto dell’ “interesse generale” , né più né meno che l’ordinamento della Repubblica o i diritti e i doveri dei cittadini.
Resta da spiegare perché alla ‘presa di coscienza’ che ha caratterizzato il comportamento delle minoranze parlamentari nel caso della riforma della Costituzione non abbia fatto riscontro nulla di simile nel caso invece della legge per il governo del territorio: e resta da capire (o semplicemente da stare a vedere) quale sarà il comportamento che queste forze politiche assumeranno nella discussione in aula.
Ai cittadini piacerebbe sapere per chi votano, magari non solo guardando i talk show.
Il prossimo 27 gennaio si celebra la giornata della Memoria dell’Olocausto – e ogni anno, di questi tempi, si sprecano commossi e compiti appelli al ‘non dimenticare’ (Retequattro ha scelto lo slogan: “noi siamo ciò che ricordiamo”). Ma al di sotto di questa valanga di commemorazione, noi ‘ricordiamo’ veramente?, e che cosa, precisamente, ricordiamo?
Subito dopo la fine della guerra, Lord Russel di Liverpool, meglio conosciuto come Bertrand Russel, scrisse “Il flagello della svastica”, un testo che, se allora aveva a disposizione una documentazione infinitamente minore di quella oggi disponibile, ha ancora, credo, qualcosa da insegnare. Ci insegna per esempio – in primis a noi cittadini di quest’Europa sempre più allargata – che lo sterminio non fu destino esclusivo del popolo ebraico – per quanto quest’ultimo, in quanto comunità etnico-religiosa, fu effettivamente spazzato via dal territorio d’Europa. Ai sei milioni di ebrei ne corrispondono almeno altrettanti – il numero complessivo è stimato, anche da ricerche recenti, tra i dodici e i quattordici milioni – che non erano ebrei, ma che erano comunque untermenschen. In primo luogo i prigionieri russi – i costruttori materiali del lager di Auschwitz II – Birkenau, nonché le vittime-cavie del primo esperimento con il gas Zyklon B, nella camera a gas di Auschwitz I: si deve ricordare che i prigionieri russi non sono mai stati considerati come gli americani o gli inglesi, per loro nessuna ‘fuga per la vittoria’, ma campi di raccolta all’aperto, senza cibo né acqua, a morire in piedi al freddo. Niente ispezioni della croce rossa, per loro. I russi e gli slavi in genere – compresi gli sciagurati collaborazionisti, ucraini, polacchi, croati – sarebbero stati, a guerra vinta, le vittime successive. Gli stessi Einsatzgruppen che seguivano la prima linea nach Ost, con il compito di effettuare i cosiddetti ‘sterminii caotici’, avevano il mandato di liquidare ebrei e commissari politici (la famosa circolare sui commissari). Poi, come è più noto, gli zingari, gli omosessuali, i sacerdoti cattolici che avevano seguito alcune coraggiose prese di posizione dell’episcopato tedesco, non favorite né sostenute da Roma.
Tutto ciò non per togliere nulla allo squarcio della Shoà come ferita inguaribile del popolo ebraico – cancellazione di intere comunità e di un’intera cultura plurisecolare, quella dello shtetl, il villaggio ebraico dell’Europa orientale, di cui restano memorie non riproducibili come le pagine di Roth e di Singer. Ma, al contrario, per farci sentire la stessa Shoà come problema anche nostro: qualunque gruppo (e non necessariamente minoranza) può trovarsi in determinate condizioni a vivere la situazione di untermenschen: e forse anche a questo alludeva Primo Levi quando ha scritto “se è accaduto una volta, può accadere di nuovo”.
Ancora una volta agli ebrei?, secoli di persecuzioni – e gli stessi sinistri rigurgiti di antisemitismo cui accenna oggi Elie Wiesel dalle pagine di Repubblica sterebbero a dire che qualche probabilità esiste. Ma non è detto affatto che si tratti di loro; o solo di loro. Non mi sento di seguire Elie Wiesel – che pure merita un infinito rispetto – nell’accomunare a questo atteggiamento chi manifesta per le strade contro la politica di Busch e di Sharon dipingendoli come nuovi Hitler: del resto, dovrebbero bastare le immagini di Abu Graib a sollevare qualche dubbio.
Il fatto che il 70 % degli ebrei americani si sia espresso alle presidenziali di novembre a favore non di Busch, ma di Kerry, il fatto che nello stesso Israele esista un problema di obiezione di coscienza a livelli medi e alti delle forze armate, sono altrettanti segnali del fatto che dissentire dalla politica di Sharon non è tutt’uno con l’essere antisemiti.
Ma proprio in occasione della Giornata della Memoria, e proprio ricordando, accanto e assieme agli ebrei d’Europa, le altre vittime, credo si possa cominciare a riflettere anche su un terreno laico di quel loro essere “nostri fratelli maggiori” evocato da Giovanni Paolo II in occasione della sua visita alla Sinagoga di Roma: in questo caso, nel caso dello sterminio, la primogenitura credo vada ricercata in un richiamo forte alla tolleranza, forse il più alto, assieme all’eguaglianza di cui è parente prossimo, fra i valori della cultura laica prodotta da quest’Europa e dalla sua filiazione americana nel secolo delle rivoluzioni.
E si tratta di un valore prezioso anche, se non soprattutto, da un punto di vista religioso: se e in che misura pace è possibile anche nel regno di questo mondo – e teoricamente le tre grandi religioni del Libro dovrebbero concordare su questo – essa è affidata alla conservazione di questo principio. Un principio sempre più spesso minacciato – anche da intromissioni ‘pacifiche’ di istituzioni religiose, come nel caso della Chiesa di Roma e delle ‘radici’ da attribuire all’Europa.
Anche l’Inquisitore di Dostojevskij sapeva commemorare; si può dire anzi che fosse un professionista, circonfuso nella luce dei suoi barocchi paludamenti. Ma al prigioniero-Cristo fece capire senza mezzi termini che era senz’altro preferibile dimenticare, dimenticare persino la sua faccia…
Il 27 e 28 gennaio, si svolge a Roma il convegno di Italia nostra sul paesaggio, di cui Eddyburg ha già dato notizia. Può essere un’occasione utile anche per dipanare, se possibile, la gran confusione che regna a proposito della parola paesaggio, che da qualche anno è tornata in voga (la conferenza nazionale è del 1999), e la cosa è sicuramente positiva, ma al tempo stesso la parola paesaggio continua a essere utilizzata con significati diversi, contraddittori ed equivoci. In particolare da quando si sono affermati i movimenti ambientalisti e il pensiero verde, il paesaggio è stato progressivamente ridotto a sinonimodi ambiente. Oppure, più drasticamente, il paesaggio, tema considerato futile, antiquato, fuori moda, è stato semplicemente cancellato e sostituito, volta a volta, da ambiente, o da ecologia, ecosistema, biosfera, biodiversità, parole evidentemente reputate più scientifiche e moderne.
Un caso clamoroso di confusione sta nei lavori parlamentari relativi alla modifica dell’art. 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”. L’Italia è probabilmente l’unico paese al mondo che ha assunto la tutela del paesaggio e delle belle arti fra gli obiettivi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. (Anche se, proprio a partire dagli anni della repubblica, ha avuto inizio il più disastroso saccheggio del nostro patrimonio d’arte e di natura, quel saccheggio che i padri costituenti intendevano scongiurare. Ma oggi non trattiamo di questo). Che succede allora alla Camera? Ben 181 deputati, alcuni autorevolissimi, di varia ispirazione, hanno proposto (Atti Camera n. 3591 della XIV legislatura) di sostituire la tutela del paesaggio con le seguenti espressioni: “Riconosce l’ecosistema come bene inviolabile della Nazione e del pianeta, appartenente a tutto il genere umano, e ne incentiva la protezione dalle alterazioni e dalle contaminazioni ambientali. Garantisce il rispetto degli animali e delle biodiversità”. Cose tutte da condividere, che non giustificano però l’obliterazione del paesaggio e che non possono sostituirlo. In verità, un po’ diverso, ma sempre pasticciato, è il testo poi approvato in prima lettura con una vasta maggioranza trasversale.
Di fonte a tanta disinvoltura dobbiamo, secondo me, confermare che con la parola paesaggio si deve intendere la fisionomia del territorio, la sua forma, meglio ancora, la sua bellezza. La parola paesaggio dovrebbe sempre rimandare alla qualità estetica: un paesaggio può essere più o meno bello, oppure brutto, ma è sempre espressione di un giudizio estetico – non trascurando il fatto che, soprattutto nel nostro paese, dov’è difficile identificare una condizione di pura natura, ogni paesaggio è sempre prodotto di arte e natura. La conseguenza è quindi che il paesaggio, siccome valore estetico, è un valore culturale, unfattore insostituibile ai fini della percezione, dell’identificazione, della descrizione e della trasformazione di un territorio. E, perciò, al paesaggio deve essere riconosciuta una collocazione autonoma, tanto in senso disciplinare, quanto in senso operativo, cioè in materia di scelte urbanistiche, com’è sempre stato nelle migliori esperienze del governo del territorio in Italia (qui non posso non rinviare alla mia precedente opinione su Eddyburg, dove si contesta la soluzione prevista dal nuovo, terrificante disegno di legge urbanistica nazionale della maggioranza che esclude dall’urbanistica la tutela, e quindi la bellezza, e quindi il paesaggio).
Ma l’autonomia del paesaggio deve essere rivendicata anche e soprattutto nei confronti dell’economia, dell’occupazione, dello sviluppo e via di seguito. Lo sviluppo è diventato il valore supremo della società contemporanea, quello che comanda su ogni altra prospettiva. Fra lo sviluppo e il paesaggio è in corso una guerra mondiale che non finisce mai, e che il paesaggio continua a perdere. Senza considerare strumentalizzazioni e mistificazioni, anche nella più limpida delle circostanze, il paesaggio è quasi sempre costretto alla resa se sono in gioco nuovi posti di lavoro, incremento del reddito, prospettive turistiche.
Vince sempre l’economia. Anche nelle situazioni meno schematiche, quelle all’apparenza più condivisibili, gli stessi valori del paesaggio e della bellezza sono esplicitamente utilizzati ai fini dello sviluppo e dell’incremento del reddito. La domanda che a questo punto dobbiamo porci è la seguente: ma la supremazia dei valori paesistici e della bellezza non dovremmo perseguirla anche senza alcun beneficio pratico, né immediato né futuro? Posso permettermi di chiedere a Eddyburg di sviluppare una discussione in proposito?
Postilla - Non "lo sviluppo", ma quella particolare e "moderna" concezione dello sviluppo che è raccontata, per esempio, dalla brava Carla Ravaioli (es)
Solo il TG3, e solo timidamente, in coda a un servizio sul blocco della circolazione auto nelle grandi città, ha suggerito l’analogia tra il fumo (quello delle sigarette) e la concentrazione omicida di polveri sottili nell’atmosfera (le famigerate PM10), facendo ricorso allo slogan ormai divenuto eufemismo, a fronte per esempio de “il fumo uccide”, con cui i disgraziati fumatori sono costretti a convivere quasi avessero sottoscritto la regola dei carmelitani scalzi.
Ed è il caso di parlarne proprio nel giorno dello sciopero indetto dai macchinisti dei treni dopo il disastro di Crevalcore, per diverse ragioni. Come ha detto con splendida umiltà istituzionale, sfilandosi dalla disgustosa passerella di ‘autorità’ et similia, il Sindaco di quel comune, Valeria Rimondi, in quella parte del territorio non è possibile che i cittadini abbiano paura di andare in treno: la nebbia, la nebbia assurda che in questi giorni nasconde buona parte della nazione a se stessa, in quella parte del territorio è una compagna abituale, non eccezione meteorologica, ma protagonista di buona parte dell’inverno, di tutti gli inverni, e spesso anche delle altre stagioni. Ci sono dunque ottime ragioni per non usare l’auto – per adottare quel comportamento ‘civile’ che molti pianificatori/trasportisti/ambientalisti auspicano divenga fatto diffuso – che gli stessi provvedimenti di blocco della circolazione auto implicitamente prevedono: fare uso delle reti di trasporto pubblico, e specialmente di quelle in sede propria. Ma la rete ferroviaria italiana è quella che mostra di essere: non è storia degli ultimi anni, ma storia di un capitalismo che ha ritenuto – ancor prima della guerra – di favorire nella produzione auto (nella Fiat) uno dei propri punti di eccellenza: la privatizzazione di FS (la pseudoprivatizzazione, come ogni altra simile che abbia avuto luogo nel nostro paese) ha dato solo il colpo di grazia. Ma, mentre l’obsolescenza dilagava come una muffa nociva, nascosta dal luccichio degli appalti per l’alta velocità, ecco che l’auto italiana, ancorchè protetta in modo quasi indecente dalle politiche economiche ed infrastrutturali di intere generazioni di governi, si è allontanata sempre di più dall’eccellenza, e la stessa Fiat è divenuta ostaggio dell’unica cosa che pare funzionare nel paese: la rendita, in questo caso quella finanziaria. Il decorso dei due fenomeni paralleli non è durato un giorno – ma diversi decenni – nel corso dei quali il capitalismo italiano faceva del suo meglio per perdere altre posizioni di eccellenza (l’informatica, la chimica, l’alimentare), di nuovo, se non per dolo conclamato, per il prevalere di logiche finanziarie su quelle produttive.
Anziché interrogarsi oziosamente sull’attualità o meno di comode astrazioni come la ‘socialdemocrazia’ o il ‘comunismo’, le forze di centro sinistra in questo davvero ‘sinistro’ frangente della vicenda economica nazionale dovrebbero forse per prima cosa tornare a riflettere su che cosa sia, oggi, in Italia, ciò che sbrigativamente si chiama ‘mercato’ – ciò che una volta, più seriamente, si chiamava il sistema capitalistico: solo a quel punto potrà essere credibile ragionare di quale debba essere il rapporto fra questo ‘mercato’ e lo Stato – socialdemocrazia e welfare compresi. Perché non cominciare, per esempio, proprio dagli esiti delle decantate ‘privatizzazioni’?, perché non cominciare la riflessione da quelli che sono stati i ‘nostri’ errori?, che cosa abbiamo da rispondere, allo sciopero dei macchinisti?, abbiamo qualche idea nuova, che ci prometta di poter viaggiare in sicurezza?
Per il momento, è assodato che sui treni non si fuma: diminuiscono (di quanto?) le probabilità che l’esposizione al fumo passivo induca sul nostro organismo i suoi effetti nefasti. In compenso si deraglia e ci si scontra: di qualche morte bisogna pur morire…
E l’attento e consapevole e medico e responsabile ministro Sirchia non ha una parola sulle polveri sottili, non una sul fatto che l’80 % delle merci movimentate su gomma - non tanto la mamma che va in macchina a portare i bambini a scuola - sia tra i principali responsabili dell’avvelenamento dell’aria, della nuvola nera che si addensa sul cielo padano e vaga, spinta dal vento, da una città all’altra, dal groviglio delle autostrade alle nostre misere e ottocentesche ferrovie.
In attesa di un nuovo banco di nebbia che si addensi a nascondere altri disastri, senza però riuscire a nascondere del tutto la nazione a se stessa – e questo anche grazie agli scioperi come quello di oggi.
L’eddytoriale del 21 dicembre gronda sacrosanta indignazione perchè i beni culturali e il paesaggio sarebbero scorporati dal governo del territorio, come prevede uno gli ultimi emendamenti apportati al terrificante disegno di legge urbanistica in discussione alla Camera. L’urbanistica sarebbe così ferita a morte e disonorata. E sarebbero oltraggiate alcune delle pagine più belle della recente storia, non solo urbanistica, del nostro paese. Chi ha scritto quella norma sciagurata probabilmente non sa che la tutela dei beni culturali è sempre stata uno dei contenuti essenziali della pianificazione del territorio. E’ ben vero che , in Italia, operano due regimi distinti: quello specifico delle tutele, che fa capo alle leggi del 1939 e a successive norme di protezione del paesaggio, dell’ambiente e dell’integrità fisica del territorio; e il regime delle trasformazioni urbanistiche, che fa capo alla legge del 1942 e ai successivi precetti statali e regionali. Ma le tutele sono ancheun obiettivo proprio della disciplina urbanistica. E’ così da sempre. A cominciare dalla legge del 1942, anzi, dal precedente disegno di legge urbanistica del 1933 che prevedeva, fra i contenuti dei piani regionali, i vincoli per la tutela di bellezze artistiche o panoramiche. Quel disegno di legge non fu approvato per l’opposizione della federazione nazionale fascista della proprietà edilizia. Lo stop sgomberò il campo a favore delle leggi del 1939 e del piano paesistico. Si stabilì allora la distinzione fra il regime delle tutele e quello delle trasformazioni urbanistiche. Distinzione che ha retto al trascorrere degli anni e delle vicende storiche, nonostante alcuni tentativi di superamento del doppio regime (commissioni Franceschini e Papaldo). Solo i “piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali” della legge Galasso hanno unificato pianificazione urbanistica e del paesaggio.
Ma l’affermazione del doppio regime, convalidato dalle numerose sentenze costituzionali che si sono susseguite, con indiscutibile coerenza, dal1968 (sent. n.55)al 2000 (sent. n.378) non ha mai comportato – è bene dirlo con assoluta chiarezza – un affievolimento del potere di tutela riconosciuto ai piani urbanistici ordinari. Non è qui possibile una rassegna di testi legislativi, di pronunciamenti giurisprudenziali e di esemplari esperienze applicative. Mi limito a ricordare la cosiddetta legge ponte del 1967, che incluse fra i contenuti sostanziali del piano regolatore generale “la tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici”. Dieci anni dopo, il decreto presidenziale (616/1977) che regola il trasferimento delle funzioni dallo stato alle regioni, attribuisce alla materia urbanistica “la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente”.
La legge ponte del 1967 va ricordata anche per aver imposto un’appropriata tutela dei centri storici. Come molti sanno, la legge ponte fu voluta da Giacomo Mancini, ministro dei Lavori pubblici negli anni del primo centro sinistra, dopo l’indignazione provocata dalla frana di Agrigento del luglio 1966, causata dall’immane sovraccarico dell’edilizia speculativa. La legge fu definita “ponte” perché doveva rappresentare un rimedio provvisorio, nell’attesa di un organico provvedimento di riforma urbanistica, quello che stiamo ancora aspettando. Riguardo ai centri storici, la legge ponte subordina, di fatto, ogni intervento di sostanziale trasformazione all’approvazione di piani particolareggiati. Una soluzione all’apparenza precaria e semplicistica che però, con il passare degli anni, si è dimostrata di eccezionale efficacia. Tant’è che l’Italia è l’unico paese d’Europa che ha in larga misura salvato i propri centri storici. Certamente, nessuno può sostenere che nel nostro paese la tutela del patrimonio immobiliare d’interesse storico sia perfettamente garantita, ma certamente non sono più all’ordine del giorno gli episodi di gravissima alterazione, se non di vera e propria distruzione, che avvenivano frequentemente nei primi lustri del dopoguerra.
L’obbligo o la facoltà di tutela da parte degli strumenti urbanistici non sono stati soltanto riconosciuti legislativamente, ma anche diffusamente utilizzati nella pratica della pianificazione. Solo qualche esempio. Il decreto ministeriale di approvazione del piano regolatore di Roma del 1965 introdusse, per “preminenti interessi dello Stato” una modifica al piano adottato, sottoponendo a tutela, e quindi destinando a parco pubblico, oltre duemila ettari dell’Appia Antica e della campagna circostante, da porta San Sebastiano al confine comunale. Mi pare importante ricordare, ai fini del nostro discorso, che con lo stesso decreto furono eliminate le possibilità edificatorie consentite dal piano paesistico dell’Appia Antica approvato nel 1960.
Fra gli esempi illustri di urbanistica sposata alla tutela, si può citare il caso di Ferrara, la sua prodigiosa addizione verde, milleduecento ettari fra la cinta muraria e il Po, destinati a formare un gran parco urbano.
E, ancora, mi permetto di menzionare il nuovo piano regolatore di Napoli che ha sottratto all’edificazione, per ragioni di tutela, quanto resta del territorio comunale non coperto di cemento e di asfalto.
Soprattutto, mi pare giusto porre in evidenza che i centri storici sono stati più volte oggetto di studio, di politiche e di interventi di salvaguardia nell’ambito della pianificazione urbanistica, mentre sono molto meno frequenti le azioni di conservazione promosse dai titolari di specifiche competenze in materia di tutela. E’ noto, infatti, che solo alcuni centri storici sono integralmente sottoposti alle leggi del 1939 e che la propostaper generalizzare il vincolo monumentale a tutti i centri storici (cosiddetto disegno di legge Veltroni) non fu approvata per le resistenze dell’Inu e degli energumeni del cemento armato.
Tutto ciò è probabilmente ignoto, come ho detto, ai parlamentari che propongono la separazione della tutela dall’urbanistica e forse non si rendono conto (o è questo che vogliono?) che si avvierebbe in tal modo un rovinoso revisionismo legislativo il cui esito sarà la sistematica devastazione del territorio nazionale. Propongo che Eddyburg promuova una indignata mobilitazione, sollecitando in particolare quanto resta della sensibilità istituzionale e civile dell’opposizione.
Ci sono giorni nei quali il desiderio di comunicare agli altri una tua reazione a certi avvenimenti o una notizia saputa/letta di particolare gravità diventa un dovere irrinunciabile. Oggi sto scrivendo di politica, dell’ennesima manifestazione di intolleranza, autoritarismo, repressione del dissenso, aggressione verbale da parte del potere tanto da rendere sempre più evidente il passaggio, che stiamo vivendo nel nostro paese, a una democrazia finta, costituita dai puri numeri maggioritari. I quali, di fatto, negano il parlamentarismo costituzionale, vogliono sovvertire l’intero nostro ordine istituzionale e approderanno in poco tempo a un regime fuori dell’attuale costituzione se il pesante passo dei mostri non sarà fermato. Il fondo sull’Unità di ieri, Il Potere del Potere, autore Furio Colombo, ci informa del nuovo tremendo attacco che il giornale sta subendo, dopo tanti altri del passato, ma molto più pericoloso nella misura in cui c’è come un’azione di accerchiamento costituita dai mezzi di informazione, televisione, quotidiani, settimanali…, verso l’unico giornale di autentica, incessante opposizione alle malefatte del governo e centri di potere alleati, e di tutte le televisioni con minime eccezioni. Il punto origine è l’incredibile accusa lanciata dal vicecapogruppo forzista Malan all’Unità, un cui articolo di fondo sarebbe stato la causa diretta del colpo di treppiedi sferrato da Del Bosco. Ma a preoccupare profondamente tutte le persone dotate di onestà intellettuale è il seguito: il silenzio dei partiti, di giornalisti seri delle testate nazionali, delle persone televiventi, e, al contrario, il rumoroso consenso dei tanti, tantissimi giornalisti lacché dei nuovi potenti. Scrive Colombo (da quando dirige l’Unità , da quando è riuscito a darle un ruolo chiaro e a farne luogo di effettiva libertà d’espressione è sottoposto a ogni genere di vessazioni morali): “La cosa strana però non è Malan… La cosa strana è che nessuno – sulla stampa o nei talk show di un grande Paese europeo – vi presti attenzione. Ciò che sta accadendo all’Unità è una regressione alla teoria lombrosiana, applicata in questo caso allo scrivere. Si tracciano i parametri di ciò che è accettabile o non è accettabile dire. La tracciatura avviene nei luoghi del potere. Niente di strano, il potere prova sempre a farlo. Il caso è che la tracciatura viene osservata scrupolosamente da tutti.Ovvero la descrizione lombrosiana di Malan (l’articolo e l’attentatore si assomigliano, dunque l’attentatore è l’articolo) non fa scandalo né notizia”.
Vogliamo, noi scandalizzati nel nostro cortile, manifestare a Colombo la nostra solidarietà? Intanto Edoardo pubblichi oggi stesso (se non l’ha già fatto, non ieri) l’intero articolo di fondo.
Lodo Meneghetti, 10 gennaio 2005
Il 26 dicembre 2004 una nostra giovane e graziosa collega, Simona Landi, è stata travolta dall’onda Tsunami mentre si trovava in vacanza in Tahilandia, e si è salvata – è tornata quasi illesa, ed è già rientrata al lavoro – nel modo che di seguito racconta brevemente, grazie al suo sangue freddo e ad una sorprendente forza di volontà. Ha ancora qualche incubo, ma pensa di riprendersi presto.
Simona, che ha ancora degli amici sul posto del disastro, ci chiede di diffondere una mail, da lei ricevuta, che fornisce un’utile “controinformazione” nei confronti del torrenziale sproloquio mediatico cui in queste settimane abbiamo assistito. Il dato più inquietante è la connessione tra “notizia Tsunami” e aumento dell’audience – dato che senza dubbio è stato tempestivamente valutato dai responsabili dei palinsesti – per quasi il 90 per cento dell’emittenza italiana, Confalonieri e Cattaneo.
Questo mi ha suggerito la parafrasi del titolo La Svizzera, l’oro e i morti, il libro-scandalo di Jean Ziegler sui beni delle vittime dell’olocausto custoditi nei caveau delle banche svizzere, e sulla decisa resistenza opposta da queste ultime alle richieste di restituzione.
Di seguito, riposto per intero i due messaggi. Non credo che ci sia molto altro da dire.
Ciao
scusate se vi porto via qualche minuto
Molti di voi sanno chi sono e della mia disavventura il giorno di Santo Stefano a Phi Phi Island in Tailandia
Volevo ringraziare tutti di cuore per l'affetto sincero dimostrato nei miei confronti. Grazie per la vostra presenza al mio rientro in Italia e grazie per gli abbracci e gli sguardi commossi al mio rientro in ufficio.
Vi allego di seguito una lettera che ho ricevuto in questi giorni da un volontario italiano conosciuto all'ospedale di Phuket, credo sia importante sentire testimonianze vere da chi vive sul posto.
Vi dico anche che cercherò di "sfruttare" quello che mi è capitato per fare un po' di bene a chi ogni giorno lotta non solo per una casa, ma per un po' d'acqua potabile e il mio pensiero corre soprattutto agli abitanti dello Sri Lanka che avevo avuto modo di conoscere anni fa in un precedente viaggio. Ho atteso i soccorsi per quattordici lunghe ore e in quel breve lasso di tempo avere poca acqua da bere e il rischio di rimanerne sprovvisti mi preoccupava molto. Queste persone il mio timore lo hanno costantemente, ogni singolo giorno ed è terribile. So che siete già stati molto generosi, ma per chi non lo avesse ancora fatto e volesse contribuire, sto raccogliendo fondi da mandare a chi pur non avendo più nulla con noi superstiti è stato molto molto generoso.
Grazie a tutti, è bello potervi riabbracciare!!!
Simona
Simona Landi
Sett. Pianificazione Territoriale e Trasporti
Uff. Supporto alla Direzione
Via Zamboni 13 - 40126 Bologna
tel +39 051 6598018
fax +39 051 6598524
Cara Simona,
qui - fortunatamente - va tutto assai meglio di come appare dai telegiornali italiani. Come sempre accade in occasioni simili, vi sono due realtà: quella dei fatti e quella giornalistica. Le quali si somigliano solo di lontano. Sono quotidianamente informato su toni e contenuti dei notiziari trasmessi da RAI International, che mi lasciano alquanto perplesso. Un nostro amico è incaricato di accompagnare la troupe della RAI in giro per l' isola, in peregrinazioni che se nei primi giorni erano plausibili, ora sono sempre più.....sospette: nel senso che, per quello che c' è di nuovo, potrebbero essersene tornati a casa da un pezzo.
E invece no, stanno lì (strapagati dai contribuenti italiani), a rivoltare notizie già vecchie e ad inventarne di nuove.....che non ci sono, solo perchè Roma ha riscontrato sull' argomento un aumento dell' "audience". Che schifo.
No, Phuket sta bene, è viva e vitale come prima, anche se ha - anche lei - qualche ferita da ricucire. Da più parti ci si augura che questo disastro possa trasformarsi in una occasione per adottare modelli di sviluppo più rispettosi dell' ambiente. E francamente, a questo punto, credo sia l' unica cosa sensata a cui pensare.
Chi ha capito qualcosa, adesso, sta invitando amici e conoscenti che avevano in programma viaggi in Thailandia a confermarli senza timore, anche in questa zona stessa. La rapidità di ripresa di questa gente è impressionante, abbiamo sotto gli occhi esempi che hanno dell' incredibile. Uno dei ristoranti preferiti da me ed Ann e dai nostri amici italiani, sulle rocce di Nay-Harn, era stato completamente spazzato via, non era rimasto in piedi un solo mattone. Bene, dodici giorni dopo siamo tornati a pranzo lì. In dodici giorni è stato completamente ricostruito - e non stiamo parlando di una capannuccia ma di una struttura in muratura di rispettabili dimensioni - più bello di prima, riammobiliato, rimesso in funzione completamente.
In questo momento si trovano prezzi buoni, poco affollamento, spiagge allo stato di 30 anni fa (non so quanto potranno durare...), il tutto in un' atmosfera vagamente "retrò" che ha, credimi, un suo fascino.
Non è, quindi, il momento di fare del terrorismo su Phuket, nè sulla Thailandia in generale. Questo è un Paese con buone risorse e ottima capacità di reazione. Non necessita, fortunatamente, nè di quarantene né di elemosine. Il vero aiuto che gli si può dare, in primo luogo attraverso un'informazione responsabile, è promuovere la pronta ripresa del turismo.
Essendo (non te lo avevo ancor detto) anche corrispondente di un quotidiano ravennate, ho già ampiamente pubblicato considerazioni di questo tenore sullo stesso e su un altro della mia città. Se ti è possibile, ti chiederei di diffondere questa mia lettera attraverso tutti i mezzi che tu possa ritenere idonei, allo scopo di dare un piccolo contributo alla ripresa di questa gente.
Qualche giorno fa, leggendo le osservazioni e le proposte di Stefano Fatarella sulla riforma di eddyburg, avrei voluto ragionare di nuovo intorno alla questione dei rapporti urbanistica / architettura (ne ho scritto o parlato o mostrato la pratica molte volte nel passato in diverse occasioni, ). La mia proposta di inserire la parola architettura non era così “accorata” come scrive Stefano, né soffro, come lui teme, per il troppo rapido rifiuto. Ora mi limito a pregare Edoardo di difendere il cortile da invasioni estranee alla sua “costituzione” o, come gli ho già scritto, barbine. Non rinuncerò a riparlarne. Ho deciso però di rinviare l’argomentazione perché troppo coinvolto mentalmente – come tutti, penso – nei terribili avvenimenti di questo scorcio d’anno; e di proporvi alcune considerazioni in merito a un tema che ho visto scorrere, esplicito o implicito, nei sevizi giornalistici descrittivi di un’apocalisse in continua enorme crescita su se stessa: il tema del rapporto fra l’uomo e la natura.
Prendo spunto da un articolo di Alain De Bottom (la Repubblica, 29.12.04) che ricorda Seneca e la posizione degli stoici di fronte alle catastrofi naturali come i terremoti.
So che lo stoicismo è considerato – da un senso comune privo delle cognizioni indispensabili per comprendere la realtà e le relative interpretazioni – una forma di accettazione, appunto detta “stoica”, di ogni accadimento imprevedibile e incontrollabile. Lo stoico sarebbe per così dire inerte, succube, sopporterebbe ogni dolore. Le cose non stanno così. Lo stoicismo, a mio parere, è una filosofia vitale che definirei della consapevolezza.
L’uomo consapevole sa, deve sapere, soprattutto oggi che è pieno di orgoglio per aver raggiunto grandi successi nel progresso scientifico e tecnologico, di non essere affatto onnipotente, anzi di essere fragile davanti alle manifestazioni violente della natura, più di tutti gli altri animali compresi i mammiferi grandi e piccoli eccetto quelli resi schiavi dall’addomesticamento. Sa, l’uomo moderno, deve sapere che determinate applicazioni tecniche sono loro stesse così violente verso la natura da provocare la sua rivolta: se non è il caso dei terremoti, sono gl’infiniti casi di frane, crolli, alluvioni, tifoni, siccità e quant’altro potremmo elencare a partire dalla prima rivoluzione industriale (tanto per fissare un cippo della storia moderna, considerando deboli, o più deboli, tutte le tecniche precedenti); o, diversamente, da provocare un netto peggioramento del corso vitale nell’indifferenza apparente della natura: inquinamento dell’aria e dell’acqua, avvelenamento superficiale della terra, disintegrazione della coesione del suolo profondo. E, fuori da questo quadro, cosa dire dell’uomo insipiente deciso a rischiare gravissime conseguenze di errori enormi commessi al puro scopo di raccogliere profitto o accumulare patrimoni immobiliari persino illegali? Mi riferisco agli insediamenti in luoghi inadatti, già valutati in tal senso dalla consuetudine ragionevole o dalla legislazione. Circa alcuni insediamenti costieri nei luoghi colpiti dal maremoto qualche perplessità è legittima quando si notano certe modificazioni, attraverso opere antagoniste e invasive, di terre basse lambite dal mare una volta intatte nel loro assetto naturale: come in molte isole e isolette dotate o meno di barriera corallina. Da sempre all’attività, all’operosità dell’uomo è corrisposta una modifica dei paesaggi, da un minimo a un massimo secondo le epoche e i luoghi, secondo il grado di sviluppo delle forze produttive, potrei affermare: ma non basta: occorre distinguere fra necessità vitale della comunità “consapevole” insediata e, al contrario, decisione oligarchica del gruppo dominante “inconsapevole” interessato solo al proprio vantaggio, talvolta consenzienti altrettanto inconsapevoli subalterni. Quanto alle costruzioni in luoghi totalmente inadatti, abusive o, peggio, concesse dall’autorità, nel nostro paese siamo maestri: dalle aree golenali di fiumi e torrenti alle pendici instabili di colline e montagne, ai versanti alpestri esposti alle valanghe, ai suoli urbani a rischio di sprofondamento: c’è una ricca antologia inserita nella ben più corposa antologia della “distruzione della natura in Italia” (tutti voi conoscete il libro di Antonio Cederna, scritto trent’anni fa!). Eppure, si potrà obiettare, gli uomini sono andati a insediarsi dappertutto, anche in territori di difficile e pericoloso accesso. È vero, nel passato: quando piccoli gruppi o addirittura singole famiglie allargate andavano alla disperata ricerca di un minimo di risorse per sopravvivere; oppure quando corpose popolazioni già a un buon livello di organizzazione sociale sapevano valutare un rischio anche grave in rapporto a un beneficio risolutivo dei loro bisogni. A esempio della prima condizione posso nominare i piccoli, sparsi nuclei di uomini e animali in valli alpine isolate e su scoscendimenti impossibili; della seconda, visti anche certi richiami notati sulla stampa in questi giorni, posso prendere la piana vesuviana (non le pendici del monte!) tanto fertile e generosa di prodotti agricoli da rendere trascurabile il timore delle eruzioni. (L’esclamativo inerente alle pendici del Vesuvio me lo sono concesso allo scopo di poter dichiarare l’assurdità, direi la sorprendente balordaggine dell’idea bassoliniana: evacuare dalle dette pendici 500.000 abitanti a causa della cosiddetta priorità della sicurezza, uno dei tanti modi di essere più realisti del re divenuti una moda nel paese. La proliferazione delle costruzioni lì appartiene a uno degli episodi più funesti della storia nazionale e partenopea dell’espansione edilizia urbana. Ma questa non è una buona ragione per aggiungere violenza a violenza.
Rapporto fra l’uomo e la natura: binomio oggi riscoperto da tutti in un senso dimenticato, quello del “rispetto” dovuto dal primo verso la seconda, che diventerebbe immediatamente “dovere di difendere l’ambiente”, un sentimento e una pratica poco coltivati in Italia (virgolette legittime giacché quasi letterale citazione dal discorso di fine d’anno del presidente Ciampi, davvero consolante per tutti noi difensori per lo più sconfitti). Cerchiamo il significato più profondo. Ritorniamo agli stoici, alla loro saggezza. Non succube accettazione, inerzia di fronte a ogni manifestazione della natura, ma consapevolezza, ho scritto. Cerco però di precisare la definizione: per gli stoici occorrerebbe trovare la miglior forma possibile di adeguamento alla natura, vale a dire rifiutare la pesantezza d’azione e praticare la sostenibilissima leggerezza dell’essere e del fare (del resto, quale personaggio più “leggero” di Seneca nella storia dell’uomo tout court, non solo della filosofia?). Ma l’affascinante uomo stoico non poteva trovare il centro di una questione che potrà essere trovato solo dal pensiero scientifico rivoluzionario. Né avrebbe potuto trovarlo il pensiero cattolico che, nella lunga gestazione dei difficoltosi tentativi di rinnovamento, non ha mai superato il limite originario riguardo alla divisione irriducibile fra uomo e animali, fra uomo e natura.
… e vennero Darwin e Marx-Engels primevi a offrirci le chiavi per chiudere la porta all’ideologia deterministica e meccanicistica, aprire quella della “dialettica senza dogma” (Robert Havemann) e, dunque, darci la possibilità di porci in modo completamente nuovo davanti alla storia del mondo.
Riduco il ragionamento all’osso: ci sono due storie, la storia naturale e la storia sociale. L’uomo appartiene a entrambe ma tende a dimenticare la propria naturalità (animalità, si vorrebbe dire darwinianamente; materialità, marx-engelsianamente) quando e quanto più crede di poter trasformare la natura a proprio piacimento, di poterla dominare. La latente perenne schizofrenia fra lo stato di homo biologicus e quello di homo faber precipita così in un inesorabile sbilanciamento verso uno stato prometeico, prossimo alla deificazione, cioè il peggior grado dell’ideologismo: che niente può condividere con la “naturale” laboriosità del faber, cara al materialismo dialettico antidogmatico.
Ritorno nel cortile dopo molto tempo quasi tutto impiegato nel Ssn.
L'editoriale 61 del 22.12 è totalmente condivisibile, è ovvio dirlo. Quanto abbiamo già scritto contro l'"orrida legge in corso di discussione"? e contro il nuovo Inu? L'esclusione dal testo di qualsiasi riferimento all'ambiente, al paesaggio, alla loro tutela, ecc. ecc. mi sembra logica visto l'andazzo della nuova banda inuista e quello nel governo, nei ministeri interessati, e anche, ne sono convinto da tempo, nella maggioranza della popolazione, una forte maggioranza. Della parola "sviluppo", da te giustamente collocata nell'incultura governativa e urbanistica, sono stato nemico fin dagli anni Cinquanta-Sessanta. Nell'insegnamento, ai miei studenti era vietato usarla nel senso purtroppo ancor oggi gradito anche a urbanisti non collusi con la nuova gestione. Una brutta abitudine, viva anche nei tempi migliori di "Urbanistica".
Intanto non si fermano le violazioni paesaggistiche, benché una piccola consolazione possa venirci dalla nuova sentenza del TAR circa Baia Sistiana, per me una delle prime occasioni, insieme a quella relativa a Venezia, di intervento in eddyburg e di dialogare, oltre che con te, Eddy, con altri frequentatori del cortile, Dusana Valecich per esempio. Ma, come scrive il WWF, il posto è stato intaccato dai lavori iniziali e non abbiamo certezza circa la conclusione davvero... conclusiva della vicenda. E del male già fatto, come si potrà rimediare?
Due cosette, forse mica tanto -ette, rilevo in questi giorni.
La prima: l'Assemblea regionale siciliana (invito qui a rileggere il mio pezzo sui poteri locali, 15 settembre 2004) ha varato una normativa che punisce le sovrintendenze con il silenzio di 120 giorni uguale ad assenso per opere da realizzare in zone soggette a vincolo paesistico o inerenti a immobili di interesse storico-artistico (Ved. una lettera in "Repubblica" del 23.12, p. 19).
La seconda: in Liguria che, dobbiamo dircelo a fronte delle pur giuste prediche nordiste al Sud abusivista e massacratore del territorio, è la regione primatista, per data d'inizio e per quantità proporzionale, della cementificazione costiera eccetto l'estremo lembo sud-orientale prima di La Spezia, "è successo qualcosa" (Joseph Heller, 1974) di molto grave proprio qui: addirittura alle Cinque Terre - patrimonio dell'umanità, in pieno Parco nazionale:
- nei giorni scorsi agenti del Corpo forestale dello stato hanno scoperto tre abusi edilizi nei comuni di Vernazza e di Riomaggiore(bravi i forestali a notare costruzioni inesistenti nelle foto aeree di qualche anno fa) e hanno denunciato tre persone;
- verso la fine di novembre i carabinieri di Monterosso avevano individuato diciannove costruzioni fuorilegge e denunciato tredici persone. Cito da "Il Secolo XIX", p. 23: "...per lo più manufatti abusivi spacciati per pollai o rimesse per attrezzi che potevano però essere comodamente ampliati fino a diventare villette e già predisposti per ospitare persone". In questo caso, oltre alle vecchie foto aeree per il rilievo fotogrammetrico hanno testimoniato le attuali fotografie scattate da un elicottero.